OFFICINA* 51 Tracce

Page 1


Tracce e schemi di Vittoria Delfanti

Qualcosa che è accaduto, qualcosa in divenire, qualcosa che appartiene all’attimo impudente o qualcosa che lascia correre lo sguardo e la mente verso un futuro prossimo.

Sono tutte tracce, piccoli frammenti di storia. Il tavolo come testimone silenzioso, custodisce parole e azioni. Gli schemi, invece, sono mappe in grado di tracciare legami e tessere tele.

Diversi ma simili, riflessi di un passato recente o di un avvenire imminente.

Tracce dal genere umano

Nel 1977 la NASA porta a compimento il programma spaziale denominato Voyager, una missione che aveva l’obiettivo di lanciare due sonde, chiamate Voyager 1 e Voyager 2, progettate per l’esplorazione del sistema solare esterno. Sui velivoli furono montati due dischi per grammofono, in rame placcato in oro, denominati Voyager Golden Records e progettati con l’obiettivo di inviare nello spazio profondo una serie di “tracce umane” atte a descrivere la terra e i suoi abitanti. Il Voyager non era il primo programma spaziale a tentare un’operazione simile, già infatti nel 1972-73 il programma Pioneer, con le sonde Pioneer 10 e 11, aveva inviato in orbita, e poi nello spazio interstellare, due placche contenenti alcuni diagrammi e disegni, tra cui due figure umane nude, atti a far comprendere la provenienza delle sonde stesse a eventuali forme di vita extraterrestri. I Voyager Golden Records sono però speciali per diversi aspetti: in primo luogo contengono una varietà di informazioni molto più ampia rispetto a quelle già contenute nelle placche delle Pioneer, includendo - sotto forma di codice - 115 immagini provenienti dal nostro pianeta, vari suoni naturali, dei saluti in 55 diverse lingue del globo e il messaggio dell’allora presidente del degli Stati Uniti d’America Jimmy Carter, a cui segue una selezione di circa 90 minuti di musica proveniente da differenti culture e da varie parti del mondo; da qui il titolo del disco The Sounds of Earth. La previsione di avvicinamento delle sonde Voyager a un’altra stella è di circa 40mila anni, un tempo che equivale a circa un quinto dei 200mila anni che segnano la comparsa dell’Homo Sapiens Sapiens, sulla Terra; è un tempo decisamente lungo e, anche per questo, la probabilità che questi oggetti entrino effettivamente in contatto con un’altra entità vivente dell’universo capace di comprendere il loro significato è piuttosto bassa (per non dire nulla). Tuttavia le due missioni spaziali mettono in luce un carattere peculiare del genere umano: la volontà di lasciare una traccia e una testimonianza di sé e del proprio passato ai posteri. Così, diventa quasi naturale pensare che prima o poi, lassù, nel gelo dello spazio profondo, qualcuno farà suonare quel disco d’oro, e dopo Bach, Mozart, Stravinskij e Beethoven, Chuck Berry inizierà a strimpellare la sua Johnny B. Goode portando il piccolo Johnny fin lassù, sulle stelle. Emilio Antoniol

Direttore editoriale Emilio Antoniol

Vicedirettrice Rosaria Revellini

Direttrice artistica Margherita Ferrari

Comitato editoriale Viola Bertini, Doriana Dal Palù, Letizia Goretti, Stefania Mangini, Cristiana Mattioli, Elisa Zatta

Comitato scientifico Federica Angelucci, Stefanos Antoniadis, Sebastiano Baggio, Maria Antonia Barucco, Matteo Basso, Eduardo Bassolino, Martina Belmonte, Giacomo Biagi, Paolo Borin, Alessandra Bosco, Laura Calcagnini, Federico Camerin, Alberto Cervesato, Giulia Ciliberto, Sara Codarin, Francesca Coppolino, Silvio Cristiano, Federico Dallo, Lavinia Maria Dondi, Paolo Franzo, Jacopo Galli, Silvia Gasparotto, Gian Andrea Giacobone, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Beatrice Lerma, Elena Longhin, Antonio Magarò, Filippo Magni, Michele Manigrasso, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Fabiano Micocci, Mickeal Milocco Borlini, Magda Minguzzi, Beatrice Moretti, Massimo Mucci, Maicol Negrello, Corinna Nicosia, Maurizia Onori, Valerio Palma, Elisa Pegorin, Ilaria Pittana, Federica Pompejano, Laura Pujia, Silvia Santato, Chiara Scanagatta, Chiara Scarpitti, Roberto Sega, Gerardo Semprebon, Giulia Setti, Francesca Talevi, Alessandro Tessari, Oana Tiganea, Massimo Triches, Ianira Vassallo, Luca Velo, Alberto Verde, Barbara Villa, Paola Zanotto

Redazione Luca Amici, Daniele Archetti, Luca Ballarin, Martina Belmonte, Giulia Conti, Eleonora Fanini, Alice Gasparini, Silvia Micali, Sofia Portinari, Marta Possiedi, Tommaso Maria Vezzosi

Web Emilio Antoniol

Progetto grafico Margherita Ferrari

Proprietario Associazione Culturale OFFICINA* e-mail officina.rivista@gmail.com

Editore Anteferma Edizioni Srl

Sede legale via Asolo 12, Conegliano, Treviso e-mail edizioni@anteferma.it

Stampa AZEROprint, Marostica (VI) Tiratura 150 copie

Chiuso in redazione il 7 novembre 2025, finché in Italia si valuta una bozza che riscrive il rapporto tra accademia e governo

Copyright opera distribuita con Licenza Creative Commons

Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale

L’editore si solleva da ogni responsabilità in merito a violazioni da parte degli autori dei diritti di proprietà intelletuale relativi a testi e immagini pubblicati.

Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017

Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029

Accessibilità dei contenuti online www.officinajournal.it

Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2025 32,00 € | 4 numeri

Per informazioni e curiosità www.anteferma.it edizioni@anteferma.it

OFFICINA*

“Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953

Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente n. 51 ottobre-novembre-dicembre 2025 Tracce

Il dossier di OFFICINA*51 – Tracce è a cura di Gian Andrea Giacobone e Sara Codarin.

Hanno collaborato a OFFICINA* 51: Sara Radi Ahmed, Rocio Irene Cancellotti, Elias Dalla Rosa, Michele De Chirico, Vittoria Delfanti, Noemi Emidi, Maria Grazia Giardinelli, Tiziana Iorio, Ibtissam Jayed, Beatrice Lerma, Antonio Ligurgo, Marco Manfra, Elisa Plank, Alessandro Pollini, Manuel Scortichini, Caterina Ursella, Michele Zannoni, Luca Zecchin.

OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Tutti gli articoli di OFFICINA* sono sottoposti a valutazione mediante procedura di double blind review da parte del comitato scientifico della rivista. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. OFFICINA* è inserita nell’elenco ANVUR delle riviste scientifiche per l’Area 08.

6

INTRODUZIONE

Essere testimonianze del divenire Being Witnesses of Becoming

Gian Andrea Giacobone, Sara Codarin

12

Design indipendente e comunità Indipendent Design and Community

Marco Manfra, Rocio Irene Cancellotti

22

The Narrative of Invisible Geographies La narrazione delle geografie invisibili Ibtissam Jayed

32

42

Traces

n•51•ott•nov•dic•2025

Tracce e schemi Traces and Patterns

Vittoria Delfanti

SCIENTIFIC DOSSIER

Cantiere e rovina Construction Site and Ruin

Luca Zecchin

Profane Spolia in the Age of Standardization Spolia profane nell’era della standardizzazione

Sara Radi Ahmed

52

I rifiuti come eredità Waste as Legacy

Michele De Chirico

62

Asimmetrie informative in economia circolare Information Asymmetries in the Circular Economy

Noemi Emidi, Beatrice Lerma

72

Il progetto delle transizioni nell’eXtended Reality Designing for XR Transitions

Alessandro Pollini, Michele Zannoni

INFONDO

82

Non sono solo parole They are not just words

Stefania Mangini

COLUMNS

4

ESPLORARE

Spunti da visitare a cura di Eleonora Fanini

IL PORTFOLIO

84

Lessinia. Il valore dell’abbandono e il senso del paesaggio futuro

Lessinia. The Value of Abandonment and the Sense of the Future Landscape

Elias Dalla Rosa

92

I CORTI

Ridefinire i confini dei dati nei musei Redefining the boundaries of data in museums

Manuel Scortichini

94

Fibre urbane Urban Fibers

Margherita Ferrari

L’IMMERSIONE

96

Visualizzare l’invisibile Visualizing the Invisible

Tiziana Iorio

SOUVENIR

100

Resistere al silenzio Resist the Silence

Letizia Goretti

102

108

112

113

Una lacuna inespressa An Unspoken Void Elisa Plank

TESI AL MICROFONO

Uno spazio fluido tra storia e materia A Fluid Space Between History and Matter a cura di Maria Grazia Giardinelli

Espansione botanica

Botanical Expansion a cura di Margherita Ferrari

CELLULOSA (S)COMPOSIZIONE

Tracce di viaggio

Emilio Antoniol

Alps. Architecture. South Tyrol 10/05/2025-23/11/2025

Palazzo Cavanis, Venezia kunstmeranoarte.org

Dopo il successo della tappa a Merano, Kunst Meran Merano Arte approda a Venezia con una nuova declinazione del suo progetto dedicato alla scena architettonica altoatesina. Gli spazi di Palazzo Cavanis ospitano e raccontano l’evoluzione del paesaggio architettonico dell’Alto Adige tra il 2018 e il 2024, restituendo un quadro articolato e dinamico di una regione che negli ultimi anni ha saputo reinterpretare la propria tradizione costruttiva con uno sguardo contemporaneo.

L’allestimento, tra affreschi, stucchi e lampadari in vetro, vuole restituire le trasformazioni del territorio, le sue tensioni e le sue nuove sensibilità progettuali. L’interrogativo è tanto semplice quanto complesso: esiste davvero un’architettura altoatesina? La risposta emerge per frammenti, attraverso progetti che esplorano temi comuni tra cui la sostenibilità, il recupero urbano e il rapporto con il paesaggio. Si delinea così una cifra condivisa, fatta di attenzione al luogo e capacità di dialogare con la storia senza rinunciare alla sperimentazione.

Dalla sezione sul “riuso riflessivo”, che esplora il tema della riqualificazione e del restauro come gesto di cura verso la memoria, fino alle “evocazioni urbane”, dove il progetto si misura con la dimensione collettiva, come dimostra il lavoro di MoDusArchitects a Bressanone. In “architettura naturans” emerge il dialogo con la montagna e con la materia del paesaggio, evidente nella cantina Pacherhof di bergmeisterwolf, dove il costruito si fonde con la natura circostante. La sezione “topografia partecipata” indaga invece il rapporto tra architettura e suolo, mostrando edifici che sembrano emergere dalla terra stessa, in continuità con la morfologia alpina. Il legame con la tradizione è protagonista in “vernacoli plausibili”, dove alcune forme tipiche dell’edilizia locale vengono proposte con un linguaggio contemporaneo. Per quanto concerne la sezione sullo “scavo generativo”, l’architettura si fa gesto minimo e archeologico per cui costruire significa riportare alla luce ed evocare. Infine, chiudono il percorso “in-

terni poetici” e “arte e architettura”, dedicate a spazi più intimi e sperimentali, dove l’abitare si intreccia con la ricerca artistica. Si percepisce l’intenzione da parte del curatore Filippo Bricolo di far comprendere come, di fronte a un’architettura totale che rischia di appiattirsi in modelli globali, la proposta si configura come contraltare autentico, rappresentando un paesaggio strutturato che parla la lingua della terra, delle radici, della misura e del pensiero. E.F.

Carlo Scarpa e le arti alla Biennale. Opere e vetri dalla collezione Gemin

22/06/2025-11/01/2026 Possagno, TV museocanova.it

Nel Museo Gypsotheca Antonio Canova di Possagno prende forma una mostra che vuole rappresentare un viaggio nella mente e nella mano di uno dei più raffinati interpreti del Novecento, filtrato attraverso lo sguardo di Mario Gemin e Orietta Lanzarini.

L’esposizione ricostruisce il lungo dialogo che Carlo Scarpa intrattenne con la Biennale di Venezia, un rapporto durato quasi quarant’anni, dal 1934 al 1972, e capace di trasformare la nozione stessa di allestimento. L’esposizione diviene un dispositivo narrativo che intreccia architettura, arte e memoria, dove il gesto progettuale si converte in forma poetica.

Nella prima parte, il visitatore si trova immerso in un mosaico di presenze illustri tra cui Klimt, Klee, Morandi, Licini, Martini, Viani, De Luigi. Si tratta di un tessuto

di influenze e corrispondenze visive che svelano quanto la formazione e la sensibilità di Carlo Scarpa siano state nutrite dal dialogo costante con la pittura e la scultura contemporanea. Disegni, acquerelli, bronzi e oli emergono come riflessi della sua idea di spazio, come parti di un organismo vivente.

La seconda parte, dedicata ai vetri di Murano, è forse la più emozionante da un punto di vista sensoriale. Le opere realizzate con la vetreria M.V.M. Cappellin tra gli anni Venti e Quaranta rivelano la maestria di un progettista capace di fondere artigianato e invenzione formale. Ogni pezzo è un piccolo esperimento, per cui trasparenze e variazioni cromatiche descrivono la ricerca di un equilibrio tra rigore e fragilità, facendo percepire la figura dell’autore come un alchimista moderno, intenzionato durante le diverse edizioni della Biennale a far vibrare la sostanza stessa del vetro fino a renderla linguaggio.

Il percorso si chiude con una sezione che tratta di una particolarità del rapporto dell’autore con la Biennale e che restituisce il lato più personale e sperimentale dell’architetto. I disegni autografi e i materiali inediti legati al Padiglione Italia del 1968 documentano una stagione di intensa creatività, culminata nelle tre sculture (Crescita, Contafili ed Erme) che segnano il momento in cui Carlo Scarpa sceglie di esporsi come artista, e non solo come architetto.

In tempi in cui la parola “mostra” rischia spesso di ridursi a spettacolo, qui al contrario tramanda il senso profondo dell’osservare, invitando il visitatore alla riscoperta della bellezza come costruzione di pensiero, dunque un’occasione imperdibile per rileggere Carlo Scarpa non solo come architetto del dettaglio, ma come creatore di mondi. E.F.

Sveva Caetani: forma e frammento 03/10/2025-04/01/2026

MAXXI, Roma maxxi.art

Mario Rigoni Stern. Ecologia, impegno civile e cure dei luoghi 24/10/2025-21/12/2025

Palazzo Bomben, Treviso fbsr.it

A cura di Gian Andrea Giacobone e Sara Codarin. Contributi di Sara Radi Ahmed, Rocio Irene Cancellotti, Michele De Chirico, Noemi Emidi, Beatrice Lerma, Marco Manfra, Ibtissam Jayed, Alessandro Pollini, Michele Zannoni, Luca Zecchin.

Gian Andrea Giacobone

Professor Auxiliar Convidado, Universidade da Madeira, Departamento de Arte e Design. gian.giacobone@staff.uma.pt

Sara Codarin

Assistant Professor of Architecture, Lawrence Technological University, College of Architecture and Design. scodarin@ltu.edu

Essere testimonianze del divenire

Ogni fenomeno fisico, naturale o digitale – generato da processi ecologici, antropici o artificiali – lascia dietro di sé tracce: segni materiali o immateriali che diventano evidenze complesse, in grado di trasformare continuamente la memoria individuale e collettiva del nostro presente. Una traccia può essere intesa come documento, testimonianza o eco che persiste nello spazio reale oppure virtuale. Essa è sintesi del rapporto causa-effetto, segno di conoscenza e frammento di storia che consente di risalire al passato e, al tempo stesso, di proiettare traiettorie future (De Brigard, 2014).

Le tracce veicolano ricordi e memorie, appartengono al passato ma rimangono presenti. La loro esistenza ci induce a compiere uno sforzo immaginativo, attivando meccanismi di ricostruzione di mondi sconosciuti. Alla traccia, anche qualora indecifrabile, attribuiamo sempre un significato, una derivazione, una storia. Più che segni concreti, esse diventano narrazioni di culture, modi di vivere e identità collettive. Lasciare una traccia significa offrire agli altri la possibilità di partecipare a un vissuto, ma anche aprire strumenti di confronto e connessione, in grado di generare relazioni e di rendere comprensibili modalità plurali di esistenza comune (Sabie et al., 2020).

Nella cultura del progetto le tracce costituiscono un elemento decisivo, non come semplici residui ma come risorse interpretative, archivi dinamici che consentono di intrecciare la dimensione storica, quella materiale e quella digitale con i bisogni emergenti della società (Tang, 2020). In questa prospettiva il numero 51 della rivista OFFICINA*, Tracce, raccoglie riflessioni che declinano il concetto di traccia in alcune delle sue molteplici dimensioni – sociali, materiali e digitali – componendo un mosaico coerente che indaga il progetto come pratica di interpretazione e riscrittura dei segni, un esercizio critico che abita la tensione fra memoria e futuro.

Impronte della collettività

Le tracce non appartengono soltanto alla materia ma si manifestano anche nelle relazioni, nei gesti quotidiani e nei modi in cui le comunità costruiscono il proprio stare insieme. Sono segni meno tangibili ma non per questo meno

Being Witnesses of Becoming

Every physical, natural, or digital phenomenon – generated by ecological, anthropic, or artificial processes – leaves behind traces: material or immaterial signs that become complex evidence, capable of continuously transforming the individual and collective memory of our present. A trace can be understood as a document, testimony, or echo that persists in real or virtual space. It is the synthesis of a causeand-effect relationship, a sign of knowledge and a fragment of history that allows us to trace the past while at the same time projecting future trajectories (De Brigard, 2014).

Traces carry memories and recollections; they belong to the past but remain present. Their existence prompts us to make an imaginative effort, activating mechanisms for reconstructing unknown worlds. To the trace – even when indecipherable – we always assign meaning, origin, and story. More than concrete signs, they become narratives of cultures, ways of living, and collective identities. To leave a trace means to offer others the possibility of participating in an experience, while also opening tools for dialogue and connection, capable of generating relationships and making plural modes of shared existence comprehensible (Sabie et al., 2020).

In design culture, traces constitute a decisive element, not as mere residues but as interpretive resources, dynamic archives that weave together the historical, material, and digital dimensions with the emerging needs of society (Tang, 2020). From this perspective, issue 51 of OFFICINA*, Traces, gathers reflections that articulate the concept of trace in some of its multiple dimensions – social, material, and digital – composing a coherent mosaic that investigates design as a practice of interpretation and rewriting of signs, a critical exercise that inhabits the tension between memory and future.

Imprints of Collectivity

Traces do not belong only to matter; they also manifest in relationships, in everyday gestures, and in the ways communities build their shared existence. These are less tangible but no less incisive signs, revealing cultural pro -

Cartoline dello spazio informale. C. Ursella

incisivi, che rivelano processi culturali, dinamiche sociali e trasformazioni sociali destinate a incidere in profondità sui territori (Smith et al., 2020).

Marco Manfra e Rocio Irene Cancellotti analizzano l’esperienza di Maratea, dove la memoria dei saperi artigianali legati ai libbani viene reinterpretata come occasione di progetto. Design, antropologia e innovazione sociale si intrecciano, mostrando come pratiche tradizionali possano trasformarsi in catalizzatori di rigenerazione culturale ed economica, rafforzando al contempo il senso di identità locale.

Ibtissam Jayed si focalizza sulla città di Napoli, dove la mappatura critica delle municipalità, attraverso il participatory design, rivela geografie invisibili e pratiche inter-

cesses, social dynamics, and transformations destined to profoundly affect territories (Smith et al. , 2020).

Marco Manfra and Rocio Irene Cancellotti analyse the experience of Maratea, where the memory of artisanal knowledge linked to libbani is reinterpreted as an opportunity for design. Design, anthropology, and social innovation intertwine, showing how traditional practices can become catalysts for cultural and economic regeneration while simultaneously strengthening the sense of local identity.

Nella cultura del progetto le tracce costituiscono un

elemento decisivo, non come semplici residui ma come risorse interpretative

culturali. Qui il progetto assume la forma di un dispositivo che restituisce visibilità a comunità spesso marginalizzate e traduce in narrazione spaziale i segni diffusi di una città plurale, suggerendo prospettive di inclusione urbana.

Nella dimensione sociale la traccia diventa segno condiviso, memoria viva che consolida appartenenze e allo stesso tempo dà origine a nuove esperienze di comunità.

Memorie della materia

Il tempo lascia segni che si depositano e si stratificano, diventando indizi delle trasformazioni in corso. Resti, frammenti e scarti materici raccontano passaggi storici e processi di cambiamento, offrendo al progetto un terreno di confronto e di possibilità. In questo quadro le tracce materiali affiorano come testimonianze della persistenza del-

Ibtissam Jayed, on the other hand, focuses on the city of Naples, where the critical mapping of municipalities, through participatory design, reveals invisible geographies and intercultural practices. Here, the project takes the form of a device that restores visibility to often marginalised communities and translates the dispersed signs of a plural city into a spatial narrative, suggesting perspectives of urban inclusion.

In the social dimension, the trace becomes a shared sign, a living memory that consolidates belonging while also giving rise to new experiences of community.

Memories of Matter

Time leaves marks that settle and stratify, becoming clues of ongoing transformations. Remnants, fragments, and waste narrate historical passages and processes of change, offering design a terrain for confrontation and possibility. In this framework, material traces emerge as testimonies of the persistence of matter and, at the same time, as openings toward unprecedented forms of reinvention (Robbins et al., 2015).

Luca Zecchin reflects on incompleteness as a generative condition. Through the case of an interrupted construction site by Marcello D’Olivo, he shows how reinforced concrete becomes an archive of transitory and residual traces, from which poetics of ruin and diverse design interpretations emerge on the identity of the place.

la materia e, al tempo stesso, come aperture verso inedite forme di reinvenzione (Robbins et al., 2015).

Luca Zecchin riflette sull’incompiutezza come condizione generativa. Attraverso il caso di un cantiere interrotto di Marcello D’Olivo, mostra come il calcestruzzo armato diventi archivio di tracce transitorie e residuali, da cui emergono poetiche della rovina e diverse interpretazioni progettuali sull’identità del luogo.

In dialogo con questo contributo, Sara Radi Ahmed propone una rilettura del concetto di spoliazione, estendendolo dai frammenti storici ai residui dei processi costruttivi contemporanei. I materiali ricontestualizzati si trasformano in strumenti critici che oppongono resistenza alla standardizzazione e al consumo estrattivo, suggerendo pratiche progettuali che intrecciano passato e futuro in assemblaggi complessi e non replicabili.

Completa la sezione Michele De Chirico, che affronta il tema dei rifiuti interpretandoli non come scarti inerti ma come materia viva e sostanza progettuale. La sua prospettiva propone un cambio di paradigma, in cui il riuso creativo diventa il mezzo per trasformare ciò che è marginale in risorsa e inscriverlo in un orizzonte di sostenibilità e innovazione. Rovina, frammento e scarto emergono non come semplici categorie estetiche, ma come condizioni operative che aprono a un ripensamento del progetto in chiave sostenibile e sensibile al tempo.

Evidenze immateriali

In dialogue with this contribution, Sara Radi Ahmed proposes a reinterpretation of the concept of spoliation, extending it from historical fragments to the residues of contemporary construction processes. Recontextualised materials are transformed into critical tools that resist standardisation and extractive consumption, suggesting design practices that intertwine past and future in complex, non-replicable assemblages.

The section concludes with Michele De Chirico, who addresses the theme of waste, interpreting it not as inert scrap but as living matter and design substance. His perspective proposes a paradigm shift, in which creative reuse becomes the means to transform what is marginal into a

In design culture, traces constitute a decisive element, not as mere residues but as interpretive resources

resource and inscribe it within a horizon of sustainability and innovation.

Ruin, fragment, and waste emerge not as mere aesthetic categories, but as operative conditions that open the way to rethinking design in a sustainable and time-sensitive key.

Immaterial Evidence

Il paesaggio contemporaneo è attraversato da flussi invisibili di dati, immagini e connessioni che si sovrappongono costantemente al mondo tangibile. Questa dimensione immateriale, fatta di interazioni e scambi digitali, produce modalità alternative di rappresentazione e influenza in profondità la percezione della realtà quotidiana (Bennato, 2021). Le tracce che emergono da tali processi non hanno consistenza materiale,

The contemporary landscape is crossed by invisible flows of data, images, and connections that constantly overlap with the tangible world. This immaterial dimension, comprising digital interactions and exchanges, generates alternative modes of representation and profoundly influences the perception of everyday reality (Bennato, 2021). The traces that emerge from these processes have no material consistency, yet they leave equally incisive marks, capable

ma lasciano segni altrettanto incisivi, capaci di orientare pratiche sociali e immaginari progettuali (Armstrong et al., 2023).

Noemi Emidi e Beatrice Lerma analizzano come i processi digitali possano rendere leggibili le dinamiche della circolarità nelle reti sociali. Attraverso strumenti di digital design e di analisi dei flussi, mostrano come la dimensione immateriale dell’informazione diventi terreno di sperimentazione critica, in cui si generano processi di memoria collettiva e si elaborano modelli di responsabilità progettuale.

Alessandro Pollini e Michele Zannoni approfondiscono invece il ruolo delle tecnologie immersive, osservando come l’extended reality generi ambienti ibridi nei quali tracce materiali e digitali si intrecciano. Le esperienze XR diventano dispositivi di esplorazione e di rappresentazione, ampliando le possibilità progettuali e ridefinendo le modalità di interazione con lo spazio e con gli artefatti.

La dimensione digitale, radicata in supporti fisici ma manifestata come flusso immateriale, introduce segni che incidono sul modo in cui leggiamo, abitiamo e costruiamo il mondo, generando modalità nuove di percezione e di azione.

Oltre la traccia

Le riflessioni raccolte in questo numero di OFFICINA* hanno indagato il tema delle tracce come segni di memoria e al tempo stesso come possibilità di progetto. I testi sono stati curati e messi in dialogo per comporre una trama che attraversa dimensioni sociali, materiali e digitali, mostrando come le tracce diventino strumenti di lettura critica e di elaborazione progettuale.

In questa prospettiva, il progetto contemporaneo, dalle scale del design di oggetti fino all’architettura, dallo spazio urbano al paesaggio, fino alle interfacce digitali, non si limita a sovrapporsi ai segni del tempo ma li accoglie come materia viva, li interpreta e li trasforma. Le tracce si configurano come aperture che chiedono di essere comprese e raccontate, orientando nuove forme di convivenza e immaginazione collettiva per plasmare e dare senso al nostro divenire.*

REFERENCES

–Armstrong, A., Briggs, P., Moncur, W., Carey, T., Nicol, E., Schafer, B. (2023). Everyday digital traces: exploring how ordinary people experience their digital footprints. Big Data & Society, 10(2), pp. 1-13.

–Bennato, D. (2021). The digital traces’ diamond: a proposal to put together a quantitative approach, interpretive methods, and computational tools. Italian Sociological Review, 11(3), pp. 421-440.

– De Brigard, F. (2014). The nature of memory traces. Philosophy Compass, 9(6), pp. 402-414.

–Robbins, H., Giaccardi, E., Karana, E., D’Olivo, P. (2015). Understanding and designing with (and for) material traces. In Proceedings of the 2015 ACM SIGCHI Conference on Creativity and Cognition, pp. 295-304.

–Sabie, D., Sabie, S., Neustaedter, C. (2020). Memory through design: Supporting cultural identity for newly arrived immigrants. In Proceedings of the 16th Participatory Design Conference 2020, 1, pp. 67-76.

– Smith, R.C., Bossen, C., Kanstrup, A.M. (2020). Decolonizing participatory design: Memory making in Namibia. Proceedings of the 16th Participatory Design Conference 2020, 1, pp. 11-20.

–Tang, Z. (2020). Design research in the practice of memory place-making. Open House International, 45(1-2), pp. 55-69.

of orienting social practices and design imaginaries (Armstrong et al., 2023).

Noemi Emidi and Beatrice Lerma analyse how digital processes can make the dynamics of circularity within social networks legible. Through digital design tools and flow analysis, they demonstrate how the immaterial dimension of information becomes a field of critical experimentation, where processes of collective memory are generated and models of design responsibility are elaborated.

Alessandro Pollini and Michele Zannoni, on the other hand, explore the role of immersive technologies, observing how extended reality generates hybrid environments in which material and digital traces intertwine. XR experiences become devices for exploration and representation, expanding design possibilities and redefining modes of interaction with space and artefacts.

The digital dimension, rooted in physical supports but manifested as immaterial flow, introduces signs that affect the way we read, inhabit, and construct the world, generating new modes of perception and action.

Beyond the Trace

The reflections collected in this issue of OFFICINA* have explored the theme of traces as signs of memory and, simultaneously, as opportunities for design. The texts were curated and placed in dialogue to compose a narrative that spans social, material, and digital dimensions, showing how traces become instruments of critical reading and project elaboration.

From this perspective, contemporary design – from the scale of objects to architecture, from urban space to landscape, to digital interfaces – does not merely overlap with the signs of time but embraces them as living matter, interprets them, and transforms them. Traces appear as openings that ask to be understood and narrated, guiding new forms of coexistence and collective imagination to shape and give meaning to our becoming.*

Solchi. C. Ursella

Marco Manfra

PhD in Architecture, Design, Planning, Università di Camerino. marco.manfra@unicam.it

Rocio Irene Cancellotti Ricercatrice indipendente. rocio88@hotmail.it

Design indipendente e comunità

01. Fare corda e cucitura | Making rope and sewing. M. Deodati

Indipendent Design and Community In Maratea, Basilicata, the Nuova Libbaneria Mediterranea rediscovers and updates the traces of the ancient craft of “libbani”, connecting craftsmanship, design, and anthropology. The project is based on a dynamic narration of memory, where traces emerge as active signs of transformation. “Thinking through making” is thus translated into a social and ecological practice that links the past and the future, with independent design becoming a tool for inclusion and cultural resistance, revealing new productions and trajectories for community innovation.*

A Maratea, in Basilicata, la Nuova Libbaneria Mediterranea riscopre e riattualizza le tracce dell’antica lavorazione dei “libbani”, collegando artigianato, design e antropologia. Il progetto si fonda su una narrazione dinamica della memoria, dove le tracce emergono come segni attivi di trasformazione. Il “pensare attraverso il fare” si traduce così in una pratica sociale ed ecologica che lega passato e futuro, con il design indipendente che diventa strumento di inclusione e resistenza culturale, rivelando nuove produzioni e traiettorie per l’innovazione comunitaria.*

La Nuova Libbaneria Mediterranea come pratica sociale

Rielaborando il concetto di palinsesto – termine che rimanda agli antichi manoscritti, nei quali i testi originari venivano “raschiati” per fare spazio a nuove iscrizioni sulla stessa superficie –, Tim Ingold (2024) propone una visione in cui le tracce più antiche – materiali, immateriali e sociali – non sono sepolte, ma riemergono in superficie. Sono, all’opposto, le manifestazioni più recenti che, nel loro processo di erosione del passato, finiscono per affondare in profondità. È in tale prospettiva, tanto sulla pergamena quanto nelle azioni antropiche, nonché nell’insieme di competenze, sensibilità e artefatti culturali, che i frammenti del passato non giacciono sotto il presente in una rigida stratificazione, bensì affiorano come una presenza prossima e tangibile, in una sorta di evocazione emergente e in costante divenire. Così, anziché accumularsi in un sovrapporsi di strati, passato e presente si dispongono in un movimento di rotazione, in un ciclo perenne di riemersione e sprofondamento, idoneo a mutare verso scenari futuri (img. 01). Nella circuitazione che si viene in questo modo a creare, alcuni oggetti e materiali, atavici e tradizionali, apparentemente obsoleti o ritenuti estinti nelle loro funzioni originarie, possono riscoprirsi portatori di inedite traiettorie d’uso e, al contempo, ridefinire la propria semantica. La materia, intesa non solo nella sua concretezza fisica ma anche nel suo valore espressivo, simbolico e sociale (Drazin e Küchler, 2015; Bak-Andersen, 2021), si fa allora testimone di una contronarrazione, in cui ogni riuso e reinterpretazione non costituiscono una mera riproposizione, piuttosto un atto progettuale capace di proiettarsi verso il futuro senza per questo recidere il legame con le eredità del passato (Bennett, 2010; Appadurai, 2014).

KEYWORDS: INNOVAZIONE SOCIALE, SAPERI CONTESTUALI, PATRIMONIO CULTURALE | SOCIAL INNOVATION, CONTEXTUAL KNOWLEDGE, CULTURAL HERITAGE

In questo scenario, nel corso degli ultimi decenni si è assistito, in diverse geografie, alla reiterazione di un paradigma culturale in cui sviluppo locale e valorizzazione identitaria – sovente associati a materiali naturali autoctoni – sono stati essenzialmente pensati in termini

di patrimonializzazione dei beni e delle risorse storiche dei territori (Manfra e Turrini, 2020). Questa visione, fortemente tradizionalista (Tironi et al. , 2024), ha di molto influenzato l’immaginario di amministrazioni locali, comunità e designer portando a concentrare energie elaborative ed economiche su alcuni temi ricorrenti quali ecomusei, eventi legati al folklore e prodotti tipici, percorsi tematici di varia natura. La progettualità ha spesso preso la forma di sequenze di beni da valorizzare, o di processi di esclusiva musealizzazione, dove l’iniziale

I frammenti del passato non giacciono sotto il presente in una rigida stratificazione, bensì affiorano come una presenza prossima e tangibile

ricerca di identità diversificate e plurime si è capovolta nella ripetizione schematica di immagini e immaginari distanti da un racconto imperniato sulle diversità e le peculiarità di ciascuno. Quello che, in molti casi, i progettisti da un lato e le amministrazioni dall’altro hanno rincorso potrebbe essere definita una sorta di “retrotopia” contemporanea (Bauman, 2017), come se una data socialità o un’identità fossero il prodotto di un’istanza estetica immediata e non di un’opera trasformativa complessa e graduale, lasciandosi così sfuggire le reali e profonde valenze, come pure le opportunità “endogene”, di una rivitalizzazione comunitaria autentica e a tutto tondo che si innesta proprio su tracce passate. Eppure, si assiste – di converso – alla messa in atto di progettualità originali che si collocano all’esterno dell’alveo concettuale descritto, dove è anche possibile scor-

gere la nascita di una nuova corrente del design indipendente 1, fortemente agglutinata alla design anthropology (Bargna e Santanera, 2020). Se l’etnografia si pone in effetti come una disciplina di osservazione e documentazione, tesa a registrare e sistematizzare prassi, oggetti e manifestazioni culturali, è l’antropologia a addentrarsi in un campo più profondo e complesso, dove il sapere non si limita a un atto di raccolta di dati e tracce, ma diviene un’esperienza osservata e partecipata (Barad, 2007), in cui il ricercatore-progettista, mediante un processo di “deuteroapprendimento” (Bateson, 1972), studia con le persone e impara da esse, mutando la sua prospettiva e contribuendo a mandare avanti percorsi evolutivi nel contesto stesso della ricerca (Gosden e Marshall, 1999).

Nelle aree interne italiane, ad esempio, si moltiplicano gli interventi orientati alla valorizzazione dei saperi locali, spesso strutturati mediante il coinvolgimento di designer contemporanei e l’adozione di approcci transdisciplinari, capaci di attivare il dialogo tra generazioni. Eppure, a ben vedere, in molti casi l’apporto antropologico si rivela marginale, circoscritto cioè a una funzione ancora prevalentemente etnografica e documentaria, priva di un’effettiva capacità trasformativa nei processi di progettazione partecipata e comunitaria. In questa fase, si rende dunque urgente individuare e comprendere da vicino quei casi in cui il dialogo tra antropologia e design assume una valenza realmente generativa, incidendo in modo profondo sui processi sociali e, allo stesso tempo, ampliando le forme del progetto. Poiché la presente ricerca, di natura ricognitiva, è ancora in corso d’opera, si propone in questa sede l’analisi approfondita di un solo caso, risultato particolarmente significativo e capace di restituire con chiarezza molte delle istanze critiche fin qui espresse: la Nuova Libbaneria Mediterranea.

Il sapere delle “libbanare”

Nata come intervento locale di rivitalizzazione comunitaria nell’ambito del programma di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, la Nuova Libbaneria Mediterranea si attualizza, a partire dal 2021, in una progettualità diffusa – ideata da Marialuisa Firpo, Angelo Licasale e Ilaria d’Auria – volutamente distante dalla patrimonializzazione, articolata attorno alla memoria dell’antica lavorazione artigianale dei “libbani” (img. 02). Questa maestranza, ormai disgregata e dissolta a causa degli sviluppi della modernità, si sostanziava nella lavorazione di corde, reti e altri oggetti vegetali ottenuti dall’Ampelodesmos mauritanicus (img. 03), una pianta erbacea spontanea della macchia mediterranea ancora ampiamente diffusa a Maratea, dove prende il suggestivo appellativo di “erba tagliamani”. Il sapere artigianale delle “libbanare” ha di fatto segnato la vita economica e sociale della cittadina lucana fino agli anni Settanta del Novecento, con un lungo processo produttivo che veniva tradizionalmente affidato alle donne del paese: median-

te le diverse fasi di raccolta selettiva, bagnatura, battitura (mazzoccolatura), filatura e intreccio, ciascuna eseguita con pazienza e maestria, tale processo manuale permetteva la produzione di corde e reti destinate perlopiù ai marinai e ai pescatori locali, alimentando un’economia di prossimità già di per sé circolare. Questa attività rappresentava altresì una risorsa fondamentale per le donne, consentendo loro di contribuire al sostentamento familiare, soprattutto in periodi di crisi, quando gli uomini emigravano e l’equilibrio socioeconomico della comunità risultava compromesso. Grazie alla visione e all’ambizione del gruppo promotore, il sapere situato delle “libbanare” riaffiora oggi nella vita sociale, economica e culturale della comunità marateota mediante una progettualità articolata in esperienze plurime: sono le tracce presenti di un passato che si proietta con consapevolezza nel futuro, producendo percorsi autodeterminanti. Tali percorsi si concretizzano in primo luogo nella formazione professionale di un gruppo di 17 donne, con l’obiettivo di renderle indipendenti e, al tempo stesso, depositarie di una

02. Ignoagno e Uauà che “menano” i libbani | Ignoagno and Uauà “beating” the “libbani”.

conoscenza dal valore socioculturale inestimabile per l’identità del luogo. La Nuova Libbaneria Mediterranea trova il suo fulcro principale proprio in questa iniziativa – unica nel suo genere – di imprenditorialità sociale di comunità, impegnata a generare opportunità lavorative per persone a rischio di

cardini del mestiere di “libbanaia” – o “libbanara” in dialetto locale (img. 04).

Tracce tacite, dunque, da tramandare, valorizzare e innovare, adatte a produrre nuove forme di circolarità

marginalità o in situazioni di fragilità economica e sociale. La trasmissione dei saperi è affidata ad Angelina Tortorella, l’ultima marateota ancora in grado di ricordare i precisi gesti che, dal taglio, alla battitura2, all’intreccio, costituiscono i

Tracce tacite, dunque, da tramandare, valorizzare e innovare, adatte a produrre nuove forme di circolarità, tanto a livello locale quanto oltre i confini euro-mediterranei più prossimi (Cassano, 1996). Partendo dalla riscoperta e dalla conservazione della prassi artigianale, il progetto di imprenditoria comunitaria della Nuova Libbaneria Mediterranea si propone di operare tramite azioni culturali più ampie, che intrecciano l’antropologia al design, l’economia al sociale e l’innovazione all’ambiente. Ecco che, l’aspetto di empowerment femminile diventa la radice fondante su cui si struttura un programma plurale di aree tematiche, tutte complementari e necessarie per generare una virtuosità idonea ad autoalimentare pratiche socialmente e ambientalmente preferibili a beneficio della comunità.

03. Raccolta “erba tagliamani” | Collecting “erba tagliamani”. M. Deodati

Nuovi intrecci

L’iniziativa ha di recente inaugurato un nuovo capitolo, grazie alla collaborazione con la Fabbrica Tessile Bossio, situata in Calabria, storicamente legata alla produzione artigianale e manuale di alcune fibre vegetali – in primis la ginestra – che hanno segnato la storia della manifattura, della cultura e dell’economia locale. Oltre ad aver dato vita a “nuovi intrecci” tra realtà affini e contigue, tale percorso si è tradotto in un’ulteriore possibilità di crescita formativa per quattro delle “nuove libbanare” che hanno avuto l’opportunità di immergersi in una realtà produttiva specifica, esplorandone i diversi reparti e sperimentandone le dinamiche operative, con particolare attenzione all’uso dei telai manuali. L’apprendimento della tessitura a mano ha rappresentato non soltanto un’acquisizione tecnica su materiali e filati tradizionali, ma anche una pratica di benessere psicosociale. Inoltre, l’esperienza si è rivelata un momento di sperimentazione e innovazione, con l’applica-

zione dell’“erba tagliamani” a uso trama nei telai a pettine liccio, abbinata ad altre fibre tessili, aprendo la strada a nuove applicazioni interessanti, capaci di coniugare memoria ancestrale e proiezioni future.

In tale scenario, rileggendo la nozione di “prossimità estrema” elaborata da Emmanuel Lévinas, emerge come la vicinanza non solo fisica, ma emotiva e morale, porta il sé a un sentimento di responsabilità per l’altro e per l’ambiente (Manderson, 2006). Traslando questo concetto ai materiali naturali, Rosie Hornbuckle evidenzia come la consapevolezza del loro intero ciclo di vita possa rafforzare nei designer una responsabilità etica autentica (Hornbuckle, 2023); mentre, nella stessa direzione teorica, sono Miranda Smitheram e Frances Joseph a suggerire come sia urgente, per l’ideazione di nuovi prodotti ecologici, mantenere un approccio immersivo che integri nella progettazione non solo la conoscenza del materiale in sé, bensì quella del suo contesto e del suo sistema radicato

04. Battitura | Beating. M. Deodati

di credenze e tracce passate (Smitheram e Joseph, 2020), in altre parole, della “biografia culturale”3 (Kopytoff, 1986). Non è un caso, allora, che il sentiero tracciato dalla Nuova Libbaneria Mediterranea si sviluppi anche mediante un turismo esperienziale, eppure integrato a open call e residenze d’artista, in cui i designer sono invitati a confrontarsi con le tecniche artigianali e il territorio lucano, instaurando con il luogo e con la comunità un fruttuoso dialogo, esplorando primigenie declinazioni e usi contemporanei della fibra. Emblematico a tal proposito è stato l’approdo momentaneo a Maratea di designer come Sara Bologna o Davide Tagliabue, e del fotografo Marco Deodati, i quali, durante le loro rispettive permanenze, hanno cosviluppato insieme alle neoartigiane produzioni calibrate sul pezzo unico e sulla conoscenza del territorio (img. 05), dando vita persino a nuove narrazioni visive basate sulle tracce (img. 06). Il loro approccio, indubbiamente ispirato ai principi della design anthropology, ha di fatto permesso di ampliare il campo d’azione della Nuova Libbaneria

zione, divenendo un dialogo quasi “sacrale” tra gestualità e materiale, persone e paesaggio. In questa vera e propria arte dell’indagare, il pensare attraverso il fare – thinking through making, per dirla alla Tim Ingold (2013) – si adatta in tempo reale al mutevole fluire dei materiali, configurando ciascun manufatto come un esperimento non nel senso scientifico o ingegneristico del termine, piuttosto come un’apertura a percorsi inesplorati. Possono essere parte di questa indagine tutte le questioni inerenti alla generazione della forma, alle peculiarità della fibra, all’energia delle forze e dei flussi, all’intreccio e alla consistenza delle superfici, ai volumi e agli spazi, come pure alle relazioni sociali, ai ritmi e al tempo.

Conclusioni

Il design indipendente, inteso come pratica dialogica e collaborativa, diventa strumento di inclusione, nonché di rielaborazione antropologica delle tracce del passato

Mediterranea, aprendo a un ventaglio di innovazioni, in questo caso tipologiche, che non materializzano solo la tecnica produttiva, bensì anche la stessa percezione della materia. È in questo senso che il “fare corda” può delinearsi oggi come una pratica che trascende la mera produ-

In un processo produttivo così concepito, dinamico e armonioso, designer e artigiane pensano con gli occhi e sperimentano con le mani, in un’esperienza tattile ineffabile, completamente incentrata sulla grana e sulla consistenza, sulla sensazione al contatto tra materiale naturale e pelle sensibile. Nel processo di autopoiesi progettuale descritto, la Nuova Libbaneria Mediterranea amplia ulteriormente le proprie attività nel turismo lento, generando spillover e intessendo nuove collaborazioni con operatori locali, nazionali e internazionali. Tra le sinergie sviluppate in armonia con il genius loci, spiccano anche la partecipazione all’itinerario del treno Orient Express La Dolce Vita, che collega Roma a Palermo lungo la costa tirrenica con una sosta a Maratea, dove i viaggiatori sono accolti in un’esperienza immersiva nell’arte dei “libbani”, e, infine, l’inserimento dell’impresa comunitaria nella nuova edizione di Fucina Madre, il progetto dell’APT Basilicata dedicato alla valorizzazione dell’artigianato d’eccellenza, che rico-

05. Tenacissimae di Sara Bologna | Tenacissimae by Sara Bologna. M. Deodati

nosce nella tradizione manifatturiera locale un patrimonio vivo, da proteggere e valorizzare. Non a caso il progetto è stato inserito per due volte nell’ADI Index – nel 2020 e nel 2024, nella categoria Design per il Sociale –, importante riconoscimento nel panorama del design contemporaneo. La progettualità della Nuova Libbaneria Mediterranea si configura così come un modello capace di intercettare e tradurre in forme tangibili una partecipazione sociale attiva, in cui il design indipendente, inteso come pratica dialogica e collaborativa, diventa strumento di inclusione, nonché di rielaborazione antropologica delle tracce del passato. In tale direzione, esso dà voce a soggetti spesso esclusi dai processi decisionali e produttivi, offrendo loro la possibilità di prendersi cura delle necessità e dell’identità della propria comunità con determinazione ed entusiasmo. Partendo dal dialogo tra antico e moderno, le conoscenze si intrecciano in forme progettuali situate, in costante evoluzione, rispondendo alle sfide urgenti della contemporaneità, come la circolarità e l’inclusione sociale. In questa prospettiva, il design indipendente emerge allora come una forza in sintonia con il territorio, rispettandone le specificità e valorizzandone le tracce, talvolta nascoste eppure sempre presenti, elevandosi anche a forma di resistenza culturale contro la standardizzazione imposta dai processi di patrimonializzazione. Appare dunque fondamentale ribadire come, all’interno di queste progettualità complesse e porose, la figura del designer emerga con sempre maggiore chiarezza quale mediatore culturale e sociale (Morelli e Sbordone, 2018; Manfra e Turrini, 2024). Una figura che dà forma a una pratica riflessiva e problematizzante, capace di abitare con ascolto le pluralità e le tensioni del contemporaneo (Rawsthorn, 2025).

Dall’incontro tra design, artigianato e antropologia, scaturisce così un percorso di mutazione continua in cui la progettazione fondata sulle tracce diventa strumento di narrazione, di identità e di relazione con il mondo, rinnovando il senso stesso del fare.*

NOTE

1 – Per design indipendente si intende un approccio progettuale svincolato dalle logiche industriali dominanti, sovente orientato alla sperimentazione, all’autoproduzione e all’innovazione sociale.

2 – I fasci di fibra venivano battuti, nel gergo “ammazzuccati”, su una pietra levigata o sui muretti alzati lungo le stradine del centro abitato, poco lontano dall’ingresso delle case, con un matterello a un solo manico detto “mazzocca” o “mazzoccola”.

3 – In questa visione, le proprietà dei materiali non sono solo “attributi”, ma “storie”.

REFERENCES

–Appadurai, A. (2014). Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione del globale Milano: Raffaello Cortina Editore.

–Bak-Andersen, M. (2021). Reintroducing Materials for Sustainable Design: Design Process and Educational Practice London: Routledge.

–Barad, K. (2007). Meeting the Universe Halfway. Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning. Durham: Duke University Press.

– Bateson, G. (1972). Steps to an Ecology of Mind. San Francisco: Chandler Publishing Company. –Bargna, I., Santanera, G. (2020). Anthropology and Design: Exchanges, Entanglements, and Frictions. Antropologia, n. 7 (2), pp. 25-44.

–Bauman, Z. (2017). Retrotopia. Bari-Roma: Editori Laterza.

– Bennett, J. (2010). Vibrant Matter: A Political Ecology of Things. Durham: Duke University Press. –Cassano, F. (1996). Il pensiero meridiano. Bari-Roma: Editori Laterza.

–Drazin, A., Küchler, S. (a cura di) (2015). The Social Life of Materials: Studies in Materials and Society. London: Routledge.

–Gosden, C., Marshall, Y. (1999). The cultural biography of objects. World Archaeology, n. 31 (2), pp. 169-178. – Hornbuckle, R. (2023). Hands-On Hands-Off: On Proximities to Materials and Systems in Design Research. In Earley, R., Hornbuckle, R. (a cura di), Design Materials and Making for Social Change: from Materials We Explore to Materials We Wear. London: Routledge, pp. 46-69. – Ingold, T. (2013). Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura. Milano: Raffaello Cortina Editore.

– Ingold, T. (2024). Il futuro alle spalle. Ripensare le generazioni. Sesto San Giovanni: Meltemi. –Kopytoff, I. (1986). The Cultural Biography of Things: Commoditization as Process. In Appadurai, A. (a cura di), The Social Life of Things: Commodities in Cultural Perspective Cambridge: Cambridge University Press, pp. 64-91.

–Manderson, D. (2006). Proximity, Levinas, and the Soul of Law. Montreal: McGill-Queen’s University Press.

–Manfra, M., Turrini, D. (2020). Towards a New Resilience Culture. Relational Design and Workshops of Social Innovation for Fragile Areas in Central Southern Italy. In F. Tucci, Sposito, C. (a cura di), Resilience between Mitigation and Adaptation. Palermo: Palermo University Press, pp. 334-349.

–Manfra, M., Turrini, D. (2024). Collective Design and Production for Caring. Spaces on the Edge as Common Goods between City and Territory. In H.E. Åberg, I. Cazzaro, C. Costantino, F. Diodato, J. Pérez Puchalt, L. Rivaroli, L. Rosato, G. Turci, Y. Ouyang (a cura di), Ground(s). Mapping, Designing and Caring: Towards a Convivial Society. Delft: TU Delft Open, pp. 34-55.

–Morelli, N., Sbordone, M.A. (2018). Il territorio delle relazioni. Il design infrastructuring per i contesti locali. MD Journal, n. 5 (1), pp. 176-185.

–Rawsthorn, A. (2025). Il design come attitudine. Milano: Johan & Levi.

–Smitheram, M., Joseph, F. (2020). Material-aesthetic Collaborations: Making-with the Ecosystem. CoDesign, n. 16 (4), pp. 293-310.

Tironi, M., Chilet, M., Marín, C.U., Hermansen, P. (a cura di) (2024). Design for More-thanhuman Futures: Towards Post-Anthropocentric Worlding. London: Routledge.

06. Costellazione di Davide Tagliabue | Costellazione by Davide Tagliabue. M. Deodati

Revisiting the concept of the palimpsest – a term that evokes ancient manuscripts in which original texts were “scraped away” to make room for new inscriptions on the same surface – Tim Ingold (2024) proposes a vision in which the oldest traces – material, immaterial, and social – are not buried but rather resurfaced. On the contrary, it is the most recent manifestations that, through their erosion of the past, ultimately sink into deeper layers. In this perspective – whether on parchment, in human actions, or within the set of skills, sensibilities, and cultural artifacts – the fragments of the past do not lie beneath the present in rigid stratification, but instead emerge as a proximate and tangible presence, in a sort of emerging evocation constantly in flux. Thus, rather than accumulating in a stack of layers, past and present rotate in a cyclical movement of resurfacing and submergence, evolving toward future scenarios (img. 01).

In the circuit thus created, certain archaic and traditional objects and materials – seemingly obsolete or considered extinct in their original functions – may rediscover new paths of use while simultaneously redefining their semantic value. Material, understood not only in its physical concreteness but also in its expressive, symbolic, and social significance (Drazin, Küchler, 2015; Bak-Andersen, 2021), becomes a witness to a counter-narrative in which every reuse and reinterpretation is not merely a revival, but a design act capable of projecting into the future without severing ties with past legacies (Bennett, 2010; Appadurai, 2014).

Over the past few decades, in various regions, a cultural paradigm has repeatedly emerged in which local development and identity enhancement – often linked to local natural materials – have been predominantly framed in terms of heritage preservation of historical assets and resources (Manfra, Turrini, 2020). This vision, deeply traditionalist (Tironi et al., 2024), has greatly influenced the imagination of local administrations, communities, and designers, directing their creative and financial energies toward recurring themes such as eco-museums, folklore-related events, typical local products, and thematic trails. Design initiatives have often taken the shape of sequences of assets to be valorised or processes of exclusive musealisation, where the initial search for di-

Indipendent Design and Community

The New Mediterranean Libbaneria as a Social Practice

verse and plural identities has been reduced to the schematic repetition of images and imaginaries disconnected from narratives centered on diversity and particularity. In many cases, what designers on the one hand and administrations on the other have pursued could be described as a form of contemporary retrotopia (Bauman, 2017) – as if sociality or identity were merely the outcome of an immediate aesthetic instance, rather than a complex and gradual transformative work. In so doing, they have often overlooked the deeper meaning and endogenous opportunities of authentic, holistic community revitalisation rooted in past traces. Yet, in contrast, original design practices have emerged that fall outside this conceptual framework – offering the possibility to observe the birth of a new current of independent design1, strongly connected to design anthropology (Bargna, Santanera, 2020). While ethnography is a discipline of observation and documentation aimed at recording and systematising practices, objects, and cultural expressions, anthropology enters a deeper and more complex field where knowledge is not limited to data collection but becomes an observed and participatory experience (Barad, 2007). Here, the researcher-designer engages in a process of deutero-learning (Bateson, 1972), studying with people and learning from them, transforming their perspective and contributing to evolutionary processes within the research context itself (Gosden, Marshall, 1999). In Italy’s inland areas, for instance, there is a growing number of projects aimed at valorising local knowledge, often structured through the involvement of contemporary designers and the adoption of transdisciplinary approaches that activate intergenerational dialogue. Still, upon closer examination, the anthropological component often remains marginal – confined to a primarily ethnographic and documentary role without a truly transformative impact on participatory and community design processes. Thus, it becomes urgent to identify and understand the cases in which the dialogue between anthropology and design becomes genuinely generative, deeply affecting social processes and, at the same time, broadening the forms of design. Since the current research is exploratory and ongoing, this paper aims to focus on a single case study that

stands out for its significance and clarity in illustrating many of the critical issues discussed so far: the Nuova Libbaneria Mediterranea

The knowledge of the “libbanare”

Founded as a local community revitalisation initiative during the Matera 2019 European Capital of Culture program, the Nuova Libbaneria Mediterranea became a broader design project in 2021 – conceived by Marialuisa Firpo, Angelo Licasale, and Ilaria d’Auria – deliberately distant from heritage preservation, and centered on the memory of the ancient craft of making libbani (img. 02). This skill, now disbanded and lost due to modern development, involved the creation of ropes, nets, and other vegetal objects from Ampelodesmos mauritanicus (img. 03), a spontaneous herbaceous plant of the Mediterranean scrub still widespread in Maratea – in Lucania region – where it is evocatively known as “cut-hand grass”. The craft of the libbanare shaped the economic and social life of the Lucanian town until the 1970s. The process – entrusted mainly to the women of the village – involved careful harvesting, soaking, beating (mazzoccolatura), spinning, and braiding. Each step, carried out with skill and patience, led to the production of ropes and nets mostly for local sailors and fishermen, sustaining a proximity-based and inherently circular economy. This activity was also a fundamental resource for women, allowing them to contribute to family income, especially during crises when men migrated, and the community’s socio-economic balance was at risk.

Thanks to the vision of its founding group, the situated knowledge of the libbanare now resurfaces in the social, economic, and cultural life of Maratea through a multifaceted design process. These are “present traces” of a past projected into the future through self-determined pathways. At its core is the vocational training of 17 women, with the goal of making them independent while turning them into custodians of a socioculturally invaluable body of knowledge. The Nuova Libbaneria Mediterranea revolves around this one-of-a-kind initiative in community social entrepreneurship, which creates job opportunities for those at risk of marginalisation or in conditions of economic and social fragility. The transmission of knowledge is

entrusted to Angelina Tortorella, the last local woman able to recall the exact gestures – from cutting to beating2 to braiding – that define the work of a libbanaia (or libbanara in local dialect) (img. 04). These tacit traces are to be passed down, valorised, and innovated, forming new circular systems both locally and beyond the Euro-Mediterranean context (Cassano, 1996). Starting from the rediscovery and preservation of this artisanal practice, the project operates through broader cultural actions that intertwine anthropology with design, economy with society, and innovation with the environment. The focus on women’s empowerment becomes the foundational root of a multifaceted thematic program, with all elements being complementary and essential to generating a virtuous cycle of socially and environmentally sustainable practices for the community’s benefit.

New Plots

Recently, the initiative began a new chapter through collaboration with the Fabbrica Tessile Bossio in Calabria – a historic factory linked to the manual processing of vegetable fibers like broom (ginestra), central to the region’s manufacturing, culture, and economy. This partnership led to new “entanglements” between similar and adjacent realities and offered a further learning opportunity to four new libbanare, who immersed themselves in the production process, with particular attention to the use of hand looms. Learning hand weaving was not only a technical skill but also a practice of psychosocial well-being. Moreover, the experimentation included the use of cut-hand grass as weft material in plain-weave looms, opening up innovative possibilities that merge ancestral memory with future projections. In this scenario, reinterpreting Emmanuel Levinas’s notion of “extreme proximity”, we see how emotional and moral closeness can lead the self toward responsibility for the other and the environment (Manderson, 2006). Translating this idea to natural materials, Rosie Hornbuckle suggests that awareness of their full life cycle can foster genuine ethical responsibility in designers (Hornbuckle, 2023). In the same vein, Miranda Smitheram and Frances Joseph argue for the need to maintain an immersive approach when designing new ecological products – one that

integrates not just material knowledge but also its context and rooted system of beliefs and historical traces, i.e., its “cultural biography”3 (Kopytoff, 1986; Smitheram, Joseph, 2020). It is no coincidence, then, that the Nuova Libbaneria Mediterranea also unfolds through experiential tourism, integrated with open calls and artist residencies where designers engage with local craftsmanship and the Lucanian territory, establishing fruitful dialogue with place and community. Exemplary in this regard was the temporary presence in Maratea of designers like Sara Bologna, Davide Tagliabue, and photographer Marco Deodati. During their residencies, they co-developed unique artifacts with the new artisans, rooted in the local knowledge and landscape (img. 05), even creating new visual narratives based on traces (img. 06). Their approach – clearly inspired by design anthropology – expanded the scope of the project, opening the door to typological innovations that not only embody technique but reshape the very perception of materiality. In this sense, the act of rope-making becomes a practice that transcends production, evolving into a near-sacred dialogue between gesture and material, people and landscape. In this art of inquiry, “thinking through making”, as Tim Ingold (2013) puts it, adapts in real time to the material’s changing flow, configuring each object not as a finished result but as an open-ended exploration. This investigation includes all questions related to form generation, fiber characteristics, the energy of forces and flows, weaving and texture, volume and space – as well as social relations, rhythms, and time.

Conclusions

In such a dynamic and harmonious production process, designers and artisans think with their eyes and experiment with their hands in a tactile, ineffable experience focused on texture and the contact between natural material and sensitive skin. Within this framework of design autopoiesis, the Nuova Libbaneria Mediterranea continues to expand into slow tourism, generating spillovers and forging new collaborations with local, national, and international partners. Among the synergistic developments aligned with the genius loci are the inclusion in the Orient Express La Dolce Vita itinerary, which con-

nects Rome to Palermo with a stop in Maratea featuring an immersive libbani experience, and the selection of the project in the new edition of Fucina Madre, the APT Basilicata initiative promoting local artisanal excellence. Notably, the project has been featured twice in the ADI Index – in 2020 and 2024 – in the Design for Social Impact category, a prestigious recognition in the contemporary design landscape. Ultimately, the Nuova Libbaneria Mediterranea stands as a model capable of translating social participation into tangible forms, where independent design – as a dialogic and collaborative practice – becomes a tool for inclusion and for the anthropological reinterpretation of past traces. In this direction, it gives voice to those often excluded from decision-making and production processes, empowering them to care for their community’s needs and identity. By weaving ancient and contemporary knowledge, situated and evolving design responses emerge to address contemporary challenges like circularity and social inclusion. Independent design thus arises as a force attuned to place, respecting and valuing hidden yet persistent traces, and becoming a form of cultural resistance against the standardisation imposed by heritage logics. It is essential to reaffirm how, within these complex and porous design practices, the role of the designer increasingly emerges as that of a cultural and social mediator (Morelli, Sbordone, 2018; Manfra, Turrini, 2024) – a figure who engages in a reflective and critical practice, capable of dwelling within the pluralities and tensions of the present (Rawsthorn, 2025). From the intersection of design, craftsmanship, and anthropology, a path of ongoing transformation is born, where trace-based design becomes a means of storytelling, identity, and world-making – renewing the very meaning of making. *

NOTES

1 – Independent design refers to a design approach freed from dominant industrial logics, often oriented toward experimentation, self-production, and social innovation.

2 – The fiber bundles were beaten – “ammazzuccati” in local terms – on a smooth stone or walls near village homes using a single-handled mallet called “mazzocca” or “mazzoccola”. 3 – In this view, material properties are not merely “attributes”, but “stories”.

Ibtissam Jayed

Dottoranda in Dottorato di Ricerca di Interesse Nazionale in Design per il Made in Italy (DeMIT), DADI, Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. ibtissam.jayed@unicampania.it

The Narrative of Invisible Geographies

01. Migrants Mapping Europe [Map installation]. Sisto IV Square, Savona. N. Pezzoni

La narrazione delle geografie invisibili Il contributo indaga il ruolo degli spazi informali nei processi di costruzione dell’identità urbana, con particolare attenzione alle comunità plurietniche. Attraverso un’indagine svolta nelle municipalità II e IV di Napoli, il contribuito presenta una sperimentazione di mappatura che mette in luce aspetti invisibili, relazioni sociali e pratiche interculturali, negli spazi urbani. Il contributo propone la mappatura come strumento di indagine, in grado di connettere analisi spaziali e narrazioni situate raccolte durante le fasi di osservazione e conoscenza del territorio. Tali spazi, spesso esclusi dalla pianificazione ufficiale, rivelano un patrimonio immateriale urbano generato dal basso. La mappatura diventa così pratica di riconoscimento e inclusione, utile per ripensare politiche pubbliche più eque e plurali.*

The contribution examines the role of informal spaces in shaping urban identity, with a particular focus on multi-ethnic communities. Through fieldwork conducted in Naples municipalities II and IV, this contribution presents a mapping experiment that highlights invisible aspects, social relations, and intercultural practices in urban spaces. These spaces, often excluded from official planning, reveal an intangible urban heritage generated from the bottom up. Mapping thus becomes a practice of recognition and inclusion, facilitating the rethinking of more equitable and pluralistic public policies.*

Critical Mapping Practices in the Plural Spaces of Naples

Introduction

Contemporary cities are shaped by a plurality of social, cultural, and economic practices that often escape the logics and tools of official urban planning. Within this framework, informal spaces acquire relevance. These spaces emerge from the spontaneous dynamics of communities and their capacity for self-organization. Far from merely filling infrastructural gaps, they offer arenas of freedom and experimentation that are difficult to reproduce within regulated and institutionalized contexts (Lefebvre, 1991). Frequently invisible on official maps, they function as genuine social laboratories where everyday practices give rise to a “living city” made of unmarked paths, temporary markets, and unexpected meeting places. Urban dwelling, therefore, does not simply mean occupying a space materially, but continuously living and reshaping it through daily practices. From this perspective, Doreen Massey describes urban space as an ongoing process, always open, shaped by the interactions and narratives of those who traverse it (Massey, 2005).

KEYWORDS: SPAZI INFORMALI URBANI, COUNTER-MAPPING, PROGETTAZIONE INTERCULTURALE | URBAN INFORMAL SPACES, COUNTER-MAPPING, INTERCULTURAL DESIGN

Migration flows have decisively contributed to transforming contemporary cities into genuine cultural crossroads (Sassen, 1999). Multiethnic communities, often marginalized in planning processes, appropriate residual spaces and reinterpret them, attributing new meanings and social functions. Thus, a mosque may become an educational center, a library may host an ethnic market, and an abandoned site may turn into a venue for collective rituals and celebrations. These bottom-up practices demonstrate the capacity of communities to constantly redefine the “urban fabric”. This phenomenon recalls Lefebvre’s concept of the right to the city, often denied to these communities, who nonetheless reclaim it through a form of “social creativity”1 capable of transcending rigid distinctions between “legal” and “illegal” spaces. Such processes compel local administrations to reconsider their urban policies and initiate paths of recognition and intercultural mediation.

Mapping these informal spaces thus becomes an essential step to bring to light identities, support networks, and social practices otherwise rendered invisible (Parker, 2006). Making places such as worship centers, spaces of socialization, or intercultural events visible on official maps legitimizes these experiences, breaking the institutional silence that often surrounds them. Participatory design, involving residents directly in the mapping process, not only enriches urban narratives but also fosters the construction of an open and plural collective identity.

Recognizing the role of informal spaces, particularly for ethnic communities, requires reinterpreting the city as a complex social product in constant transformation (Lefebvre, 1991), where diversity is no longer a source of discrimination but an opportunity for collective growth. Within this perspective, the research focuses on Naples, specifically on its II and IV Municipalities. These areas, marked by a significant migrant presence, host informal spaces that, although absent from codified representations, reveal living forms of relations, care, and social production within the city.

Objective

This article offers a critical reflection on the role of mapping, reframing it not merely as a technical tool of representation but as a participatory and narrative practice capable of generating new forms of knowledge and social inclusion in urban space. In complex intercultural contexts, maps can reveal relationships, practices, and resources otherwise excluded from official representations. Building on the approach of deep mapping (Butts and Jones, 2021), cartography is understood here as a layered, situated device that integrates geographical data, subjective experiences, and collective memories into a shared narrative of place.

The paper aims to explore both the epistemic and operational potential of mapping as a critical method by experimenting with approaches that offer a plural and relational reading of urban space. The first section provides a theo-

retical overview of counter-mapping, outlining its origins, methodologies, and implications through the analysis of significant case studies. The second section presents an experimental phase conducted within a doctoral research project at the University of Campania “Luigi Vanvitelli”, in collaboration with the social association Dedalus, dedicated on developing and testing community mapping methods in areas with a strong migrant presence.

The main aim is to demonstrate how participatory cartographic practices can not only deepen understanding of urban territories but also produce reverse-narratives that activate inclusive design strategies and facilitate processes of social recognition and integration.

Theoretical and design framework. Cultural plurality and the social production of urban space

Social design plays a strategic role in intercultural urban areas where informal spaces, sites of gathering, relations, and worship continually redefine the urban landscape (Sassen, 1990). Often framed as areas of conflict or identity tension, these environments emerge instead as spaces of care, proximity, and mutual support for ethnic communities. Within them, spontaneous practices of listening, information exchange, and mutualism respond to collective needs and generate a sense of belonging.

These hybrid geographies give shape to what Massey (1994) defines as a sense of place: an affective and identity-based bond with inhabited space, which in pluri-ethnic communities blends memories and practices from countries of origin with those of the host context (Schiller, Basch and Blanc, 1992). Such spaces are not neutral; they reveal unresolved tensions between visibility and recognition, between lived presence and institutional representation. Here, counter-mapping proves crucial in uncovering forms of self-organization, creative use of territory, and urban re-signification (Parker, 2006; Ramírez-Lovering et al., 2020). Unlike official maps, which often omit lived

02. Cartography: CENTRINNO Project. Manifattura Milano is part of CENTRINNO, a Horizon 2020-funded initiative focused on urban and circular manufacturing, social inclusion, and the adaptive reuse of former industrial sites | Cartografia: Progetto CENTRINNO. Manifattura Milano fa parte di CENTRINNO, un’iniziativa finanziata da Horizon 2020 incentrata sulla produzione urbana e circolare, l’inclusione sociale e il riuso adattivo di ex siti industriali. CENTRINNO

and relational dimensions, participatory mapping restores agency to excluded subjects, turning communities into producers of situated knowledge (Crampton and Krygier, 2010; Peluso, 1995).

The case of Map Kibera (2013), although over a decade old, remains central to the genealogy of digital counter-mapping practices, as it pioneered a participatory, accessible model of bottom-up cartographic production. Its methodological relevance lies not in its historicity but in its ability to anticipate current practices of alternative territorial representation: the use of opensource digital tools, direct involvement of marginalized communities, and geo-localized storytelling of lived experiences. Developed outside traditional Western academic and institutional circuits, the project rendered Nairobi’s informal settlements visible through collective mapping, SMS, blogs, and video, democratizing information and fostering civic journalism. Beyond a case study, Map Kibera stands as a paradigmatic precedent, illustrating the transformative potential of civic technologies in redefining both the right to the city and the role of communities in producing spatial knowledge.

Similarly, the Cartography CENTRINNO project (2024) provides a modular technical model for participatory mapping, employing open-access tools such as KUMU, MIRO, and Google Sheets. Oriented toward activating and regenerating post-industrial spaces, the toolkit unfolds across five phases: data collection, participatory coding, information structuring, multilayer visualization, and narrative communication (img. 02). Although not explicitly designed as a counter-mapping tool, CENTRINNO’s methodological framework can be adapted to projects aimed at valorising intangible heritage, informal knowledge, and critical practices of spatial representation.

Informal spaces,

often invisible on maps, preserve vital practices and relationships

In a distinct European context, Migrants Mapping Europe (Pezzoni, 2016) collects over two hundred maps produced by migrants across various cities, offering alternative geographies grounded in everyday trajectories (img. 01). These maps disrupt institutional spatial codes, revealing meaningful places and informal networks often overlooked. In the same vein, Butts and Jones (2021) introduce the concept of deep mapping: layered cartographies co-created with diverse communities, intertwining spatial data, narratives, and ecological dimensions. Using digital platforms such as ArcGIS StoryMaps, deep mapping emerges as a situated knowledge device, integrating multiple languages and perspectives.

Taken together, these cases demonstrate how mapping can move beyond a static depiction to become a living trace of social relations, collective memories, and struggles for visibility. In urban contexts marked by stratification and inequality, bottom-up cartographic narratives provide communities tools for self-determination: no longer passive subjects of top-down urban policies, but active agents capable of reshaping the city according to their perspectives and needs.

Methodological approach: field observation and the construction of urban layers

The research unfolds through several stages of investigation and urban context analysis, aiming to explore the social and cultural dynamics within Naples’ II and IV Municipalities, areas characterized by a significant migrant presence. This paper focuses on a specific phase of the process, dedicated to the development and testing of a mapping technique conceived as a tool to read and represent the rela-

tionships between space, cultural plurality, and everyday practices within the observed urban areas.

The methodology consists of two mapping phases, preceded by direct participatory observation in the selected study sites. Observation was guided by analytical categories including shared spaces, activities carried out, social relationships, place care, and existing services. It was conducted by a heterogeneous team composed of third-sector operators, cultural mediators, and other professionals, organized in rotating shifts of approximately three hours dedicated to field observation and annotation.

Participatory

ban reality and the connections between communities and third-sector organizations operating within it.

The first filter focused on defining boundaries and conducting geographical analysis. It identified geographic, social, and economic restrictions, as well as potential barriers and criticalities, alongside development opportunities. Barriers included linguistic obstacles and accessibility issues, often intertwined with acceptance of diversity, which can also manifest as sites of prejudice and racism. Observational data revealed that individuals tend to frequent “safe” routes and spaces, limiting their exploration of the city, reducing interactions with other communities, and reinforcing social divisions.

mapping reveals hidden support networks and social practices

This preliminary activity allowed for a clear delineation of the study area, an understanding of its complexity, and the definition of subsequent mapping stages. The first phase (img. 03) involved the localization of services targeted at plural communities such as social cooperatives, welfare, and proximity services together with ethnic commercial activities, places of worship, and gathering spaces. This georeferenced mapping relied on three analytical filters, each producing a distinct interpretative layer. When combined, these layers provide an integrated view of the ur-

The second filter concentrated on urban social nodes, key point of aggregation and interaction that play an active role in cultural exchange and the building of community networks. These spaces were mapped to highlight areas that promote cohesion, as well as those reveal hidden tensions.

The third filter inspected social proximity services, with particular consideration given to activities promoted by cooperatives and interventions aimed to supporting migrant integration. This analysis revealed both critical gaps and potential opportunities, providing a foundation for targeted integration policies.

The second phase of mapping expanded the investigation beyond the physical identification of sites to include their

03. Functional diagram related to the mapping methodology of Phase 1 | Diagramma funzionale relativo alla metodologia di mappatura della Fase 1. I. Jayed, 2024

questo

urbano,

perceptual and symbolic dimensions. Through participatory workshops and interviews, the study explored daily use practices, modes of spatial appropriation, and the meanings attributed to places by plural communities. This perspective complements the structural reading of the city with an immaterial and relational dimension, capturing informal transformations and hybrid uses of urban space. The comparison between the “functional” map and the “perceived” map offers a more nuanced understanding of the territory, highlighting dissonances between codified representations and local experiences, and laying the groundwork for a more critical cartographic narrative.

Findings of the experimentation: layered readings of the intercultural urban space

Based on the experimentation conducted in Naples’ II and IV Municipalities, the mapping system proved to be a participatory tool for interpreting the city through its relational, social, and symbolic dimensions. It revealed elements often overlooked by institutional processes, such as linguistic and cultural barriers, everyday caregiving practices, informal support networks, and unrecognized spaces of cohesion.

Among the spaces identified, piazza Garibaldi emerged as a strategic intercultural node where heterogeneous communities converge. Connecting urban axes such as Via Bologna, known for its ethnic market and local activities, the square functions as a dynamic space. However, perceptions of it vary for many plural communities, it represents a space of socializa-

tion free from prejudice, whereas for segments of the “local” population, it can evoke feelings of insecurity. This ambivalence underscores the need for a plural and situated reading of urban space, one that values lived experiences. During the ethnographic observation, piazza Garibaldi assumed multiple roles: an open-air place of worship during the Eid festival, a venue for cultural debate during the “Africa Day” event, as well as site for community assemblies and informal gatherings. These transformations were documented to analyse how the same space is redefined through diverse practices of use. Part of this layering is captured in the multilayer cartographic system (img. 04), which visualizes not only the physical location of places but also the flows, relationships, and meanings that traverse them.

Another significant example is Casa Cidis, located on Via Stefano Brun. While institutional maps register it as a holiday house, field observation revealed a far more complex reality. Casa Cidis operates as a multifunctional, self-organized space activated by local communities, intertwining practices of sociability, support, and cultural production. Activities include intercultural encounters, community listening sessions, and the iftar meal during Ramadan (img. 05). This gap between systematic representation and real use highlights the importance of situated mapping in recognizing the dynamic presence of communities within urban space.

The outcomes of the experimentation are prepared for potential integration into collaborative, open-source digital platforms such as FirstLife2. This phase aims to construct a counter-narrative: an integrated

04. Functional diagram. Multilayer visualization of piazza Garibaldi. The overlapping of layers – geographical base, social networks, and uses/events – reveals how this urban space, seemingly neutral in codified maps, actually emerges as a stage for plural practices | Diagramma funzionale. Visualizzazione multistrato di piazza Garibaldi. La sovrapposizione di livelli – base geografica, reti sociali e usi/eventi – rivela come
spazio
apparentemente neutro nelle mappe codificate, emerga in realtà come un palcoscenico per pratiche plurali. I. Jayed, 2025

05. Functional diagram of Casa Cidis: representation of the different levels of use and meaning of the space, from religious practices to intercultural events, up to the associative networks that expand its impact on the urban context | Schema funzionale di Casa Cidis: rappresentazione dei diversi livelli di utilizzo e significato dello spazio, dalle pratiche religiose agli eventi interculturali, fino alle reti associative che ne ampliano l’impatto sul contesto urbano. Jayed, 2025

visual system designed to serve as both an analytical and decision-making tool for local authorities, territorial actors, and community networks. Ultimately, this approach pursues to restore agency to diverse communities, which are often marginalized in official spatial production, acknowledging them as active agents in shaping the city. The proposed mapping blends vertical readings (institutional, normative) with horizontal ones (social, perceptive), providing a concrete framework to reconsider urban policies through the lens of inclusivity, diversity, and localized knowledge.

Conclusions: urban counter-narratives and transformative practices

Uncovering the less visible layers of the city means questioning not only codified spatial representations but also the very notion of what is recognized as legitimate urban space. Participatory mapping has revealed how certain places operate as vital sites of care and self-organization, responding to the concrete needs of ethnic communities.

In this sense, representing these spaces is tantamount to legitimizing them. Rendering them visible through an open, multilayered cartography does not merely document their existence but opens the possibility for their recognition within institutional practices. The experience conducted in Naples demonstrates how mapping can become an instrument of political and community activation, capable of transforming public perceptions and supporting emerging forms of citizenship.

The adopted methodology is grounded in an intercultural approach that recognizes diversity as a generative principle. In increasingly diverse European cities, participatory mapping has the potential to “promote cultural pluralism by acknowledging the complexity of identities” and to “enhance the impact of spaces of encounter and cultural hybridization” (Council of Europe, 2020). In this process, mapping is not solely an act of documentation but a transformative practice: a means of restoring centrality to informal spaces that function as the social infrastructures of urban life.*

NOTE

1 – The concept of “social creativity” refers to the ability of a group of people to generate positive and meaningful changes within a specific territory or social context through innovative, inclusive, and participatory practices. It is not an individual idea, but a collective transformative force that values diversity and strengthens community relationships (Montebelli, 2021).

2 – FirstLife is an urban data platform that supports city and neighbourhood collaboration, utilizing users as active citizens with personal, professional, and territorial networks. Through an interactive map, it allows to add and share places, events, news, and stories, discussing and coordinating local initiatives, and forming groups to foster reciprocity and care for common goods. Developed through a participatory process in Turin and continuously evolving, it promotes social cohesion and urban innovation without commercial intent.

REFERENCES

–Butts, S., Jones, M. (2021). Deep Mapping for Environmental Communication Design. Technical Communication Quarterly. doi.org/10.1145/3437000.3437001

–Council of Europe (2020). Intercultural Cities: General Information (rev. 23/10/2020). Intercultural Cities Programme (ICC).

–Crampton, J.W., Krygier, J. (2006). An introduction to critical cartography. ACME: An International E-Journal for Critical Geographies. On researchgate.net/publication/241435510 (last access March 2025).

–De Filippo, E., Strozza, S. (2023). Report: Settlement Models and Integration Levels of Immigrant Citizens in the City of Naples. Edited by Cooperativa Sociale Dedalus.

–EUROCITIES (2013). Cities and Migrants: Implementing the Integrating Cities Charter. Publication commissioned under the European Union Programme for Employment and Social Solidarity.

Glick Schiller, N., Basch, L., Blanc-Szanton, C. (1992). Transnationalism: A new analytic framework for understanding migration. Annals of the New York Academy of Sciences doi.org/10.1111/j.1749-6632.1992.tb33484.x

–Harvey, D. (2009). Social Justice and the City. Athens (GA): University of Georgia Press. –Lefebvre, H. (1991). The Production of Space. Hoboken (New Jersey): Blackwell. –Lefebvre, H. (2014). Il diritto alla città. Bologna: Ombre Corte.

–Massey, D. (1994). A global sense of place. In Space, Place and Gender. Minneapolis: University of Minnesota Press. On projectenportfolio.nl/images/6/69/Massey_-Global_ Sense_of_Place_-_1994-.pdf (last access March 2025).

–Massey, D. (2005). For Space. London: SAGE Publications Ltd.

– Montebelli, S. (2021). The territory as a space of social creativity. An example of a laboratory for a “welcoming city”. Education Sciences & Society, n. 12(1). doi.org/10.3280/ess1-2021oa10030 – Parker, B. (2006). Constructing community through maps? Power and praxis in community mapping. The Professional Geographer. doi.org/10.1111/j.1467-9272.2006.00583.x

–Peluso, N.L. (1995). Whose woods are these? Counter-mapping forest territories in Kalimantan, Indonesia. Antipode.

–Pezzoni, N. (2016). Migrants map Europe. Planum The Journal of Urbanism. On academia.edu/41293239/I_migranti_mappano_lEuropa_Migrants_Mapping_Europe - https://www.researchgate.net/publication/303230411_4_I_migranti_mappano_l’Europa_ Migrants_Mapping_Europe_Esplorare_Bologna_terra_di_tutti (last access March 2025).

– Ramírez-Lovering, D., Spasojević, D., Prescott, M.F. (2020). Mapping informal settlements: A process for action. In M. P. Zari, P. Connolly, M. Southcombe, Ecologies Design: Transforming Architecture, Landscape, and Urbanism. London: Routledge. – Sassen, S. (1999). Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa. Milano: Feltrinelli. –Tuan, Yi-Fu. (1977). Space and Place. The Perspective of Experience. Minneapolis: University of Minnesota Press.

Introduzione

Le città contemporanee sono caratterizzate da una pluralità di pratiche sociali, culturali ed economiche che spesso sfuggono alle logiche e agli strumenti della pianificazione ufficiale. In tale scenario assumono particolare rilevanza gli spazi informali, luoghi che nascono dalle dinamiche spontanee delle comunità e dalla loro capacità di autoorganizzarsi. Questi territori informali non colmano solo lacune infrastrutturali, ma offrono anche spazi di libertà e sperimentazione difficilmente replicabili nei contesti regolamentati e istituzionalizzati (Lefebvre, 1991). Spesso invisibili nelle mappe ufficiali, essi funzionano come veri e propri laboratori sociali nei quali le pratiche quotidiane generano una “città vivente” fatta di passaggi non segnati, mercati temporanei e luoghi inattesi di incontro e aggregazione. Abitare la città non significa dunque semplicemente occuparla in senso materiale, ma viverla e plasmarla continuamente attraverso le proprie pratiche quotidiane. In questa prospettiva, Doreen Massey ha definito lo spazio urbano come un processo continuo, sempre aperto, che prende forma grazie alle interazioni e alle narrazioni di chi lo attraversa (Massey, 2005).

I flussi migratori hanno contribuito in maniera decisiva a trasformare le città contemporanee in autentici crocevia culturali (Sassen, 1999), in cui comunità plurietniche, spesso marginalizzate nei processi di pianificazione, si appropriano di spazi residuali e li reinterpretano, attribuendo loro nuovi significati e funzioni sociali. Così, una moschea può trasformarsi in centro formativo, una biblioteca può ospitare un mercato etnico, e uno spazio dismesso diventare il teatro di rituali e celebrazioni collettive. Queste pratiche dal basso manifestano con chiarezza la capacità delle comunità di ridefinire costantemente il tessuto urbano. Tale fenomeno richiama il concetto lefebvriano di diritto alla città, spesso negato a queste stesse comunità, che tuttavia lo reclamano attraverso una “creatività sociale” 1 capace di oltrepassare la rigida distinzione tra spazi “legali” e “illegali”. Questo processo obbliga le amministrazioni locali a riconsiderare le proprie politiche urbane e ad avviare percorsi di riconoscimento e mediazione interculturale. La mappatura di questi spazi informali rappresenta dunque una fase imprescindibile per mettere in luce identità, reti di sostegno e pratiche sociali altrimenti invisibili (Parker, 2006). Rendere visibile sulla cartografia ufficiale luoghi specifici come centri di culto, aree di socializzazione o eventi interculturali significa legittimare queste esperienze, rompendo così il silenzio istituzionale che frequentemente le avvolge. La progettazione partecipativa, che include gli abitanti stessi nel processo di mappatura, non solo arricchisce i racconti urbani, ma favorisce la costruzione di un’identità collettiva aperta e plurale.

La narrazione delle geografie invisibili

Pratiche di mappatura critica negli spazi plurali di Napoli

Riconoscere il ruolo degli spazi informali, soprattutto per le comunità plurietniche, implica dunque reinterpretare la città come prodotto sociale complesso e in continua trasformazione (Lefebvre, 1991). Una città in cui la diversità non è più fonte di discriminazione, ma occasione preziosa di crescita plurale. La ricerca si concentra sulle Municipalità II e IV di Napoli, aree caratterizzate da una forte presenza di migranti e da luoghi informali che, pur invisibili nelle rappresentazioni codificate, rivelano forme vive di relazione, cura e produzione sociale della città.

Obiettivi

Il contributo propone una riflessione critica sul ruolo della mappatura, intesa non più soltanto come strumento tecnico di rappresentazione, ma come pratica partecipativa e narrativa capace di generare nuove forme di conoscenza e di inclusione sociale nello spazio urbano. In contesti interculturali complessi, infatti, le mappe possono rendere visibili relazioni, pratiche e risorse altrimenti escluse dalle rappresentazioni ufficiali. A partire dall’approccio del deep mapping (Butts, Jones, 2021), la cartografia diventa un dispositivo stratificato e situato, che integra dati geografici, esperienze soggettive e memorie collettive in una narrazione condivisa del territorio.

L’articolo intende esplorare il potenziale epistemico e operativo della mappatura come metodo critico, sperimentando approcci capaci di restituire una lettura plurale e relazionale dello spazio urbano. Nella prima parte, il contributo offre una ricognizione teorica sul concetto di contro-mappa, evidenziandone origini, metodi e implicazioni attraverso l’analisi di alcuni casi studio significativi. La seconda parte presenta invece una sperimentazione condotta nell’ambito di un dottorato presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, in collaborazione con l’associazione sociale Dedalus, mirata a sviluppare e testare metodi di mappatura comunitaria in aree caratterizzate da una forte presenza di migranti.

L’obiettivo finale è dimostrare concretamente come le pratiche cartografiche partecipative possano non solo contribuire alla conoscenza approfondita dei territori, ma anche produrre contronarrazioni capaci di attivare progettualità inclusive e facilitare processi di riconoscimento e integrazione sociale.

Contesto teorico e progettuale. Pluralità culturali e produzione sociale dello spazio urbano Il social design svolge un ruolo strategico nelle aree urbane interculturali, dove spazi informali, come spazi di aggregazione, relazioni o di culto, ridefiniscono quotidianamente il paesaggio urbano (Sassen, 1990). Questi ambienti, spesso rappresen-

tati come aree di conflitto o tensione identitaria, si rivelano invece come spazi di cura, di prossimità e di supporto reciproco per le comunità plurietniche. In essi si attivano forme spontanee di ascolto, scambio di informazioni e mutualismo, che rispondono a bisogni collettivi e generano senso di appartenenza. In queste geografie ibride prende forma ciò che Massey definisce sense of place (1994): un legame affettivo e identitario con lo spazio abitato, che nelle comunità plurietniche si compone di riferimenti mobili, intrecciando memorie e pratiche dei Paesi d’origine con quelle del contesto di arrivo (Schiller, Basch, Blanc, 1992). Questi spazi non sono neutri: rivelano tensioni irrisolte tra visibilità e riconoscimento, tra presenza effettiva e rappresentazione istituzionale. È qui che la contromappatura si rivela utile per far emergere forme di autoorganizzazione, di uso creativo e spontaneo del territorio e di ri-significazione urbana (Parker, 2006; RamírezLovering et al., 2020). Al contrario delle mappe ufficiali, che tendono a omettere lo spazio vissuto e relazionale, la mappatura partecipata restituisce agency ai soggetti esclusi, trasformando le comunità in autrici di conoscenza situata (Crampton, Krygier, 2010; Peluso, 1995).

L’esperienza di Map Kibera (2013), pur risalente a oltre dieci anni fa, resta centrale nella genealogia delle pratiche di contromappatura digitale, per aver inaugurato un modello partecipativo e accessibile di produzione cartografica dal basso. Il suo valore metodologico non risiede nella dimensione storica, ma nella capacità di anticipare modalità oggi consolidate di rappresentazione territoriale alternativa: uso di strumenti digitali open source, coinvolgimento diretto delle comunità marginalizzate e narrazione geolocalizzata dei vissuti. Il progetto, sviluppato al di fuori dei tradizionali circuiti accademici e istituzionali occidentali, ha reso visibili le baraccopoli di Nairobi mediante mappature collettive, SMS, blog e video, rendendo l’informazione accessibile e attivando forme di giornalismo civico. Più che un semplice caso studio, Map Kibera rappresenta un precedente paradigmatico, utile a comprendere la portata trasformativa delle tecnologie civiche nel ridefinire il diritto alla città e il ruolo delle comunità nella produzione di conoscenza territoriale. In un contesto europeo differente, Migrants Mapping Europe (Pezzoni, 2016) raccoglie oltre duecento mappe realizzate da persone migranti in diverse città, restituendo geografie alternative costruite a partire dai percorsi quotidiani (img. 01). Le mappe così prodotte infrangono i codici spaziali istituzionali, portando alla luce luoghi significativi e reti informali spesso ignorate. Su questa stessa linea, Butts e Jones propongono il concetto di deep mapping: cartografie stratificate, costruite insieme a comunità plurali, che intrecciano dati spaziali, narrazioni

e dimensioni ecologiche (Butts, Jones, 2021). Utilizzando piattaforme digitali come ArcGIS StoryMaps, il deep mapping si configura come un dispositivo di conoscenza situata, capace di integrare linguaggi e visioni differenti. Anche il progetto Cartography CENTRINNO (2024) offre un modello tecnicomodulare di mappatura partecipativa, basato su strumenti open access come KUMU, MIRO e Google Sheets ed è orientato all’attivazione e rigenerazione di spazi postindustriali. Il toolkit si articola in cinque fasi: raccolta dei dati, codifica partecipata, organizzazione delle informazioni, visualizzazione multilivello e comunicazioni narrative (img. 02). Pur non nato specificamente come strumento di contromappatura, il toolkit CENTRINNO presenta un sistema metodologico riutilizzabile in progetti orientati alla valorizzazione di patrimoni immateriali, saperi informali e pratiche critiche di rappresentazione spaziale. Questi casi, nel loro insieme, dimostrano come la mappa possa smettere di essere una fotografia statica per trasformarsi in traccia viva delle relazioni sociali, delle memorie collettive e delle lotte per la visibilità. Nei contesti urbani segnati da stratificazione e diseguaglianze, le narrazioni cartografiche bottom-up offrono alle comunità uno strumento di autodeterminazione: non più oggetti di politiche urbane calate dall’alto, ma soggetti capaci di ridisegnare la città secondo le proprie prospettive e necessità.

Approccio metodologico: osservazione sul campo e costruzione dei layer urbani

La ricerca si articola in diverse fasi di indagine e analisi del contesto urbano, con l’obiettivo di esplorare le dinamiche sociali e culturali nell’area delle Municipalità II e IV di Napoli, caratterizzate da una significativa presenza di migranti. Questo contributo si concentra su una fase specifica del processo, dedicata allo sviluppo e alla sperimentazione di una tecnica di mappatura, intesa come strumento per leggere e rappresentare i rapporti tra spazio, pluralità culturale e vissuti quotidiani nelle aree urbane osservate.

La metodologia si articola in due fasi di mappatura, precedute da un’osservazione partecipante diretta nelle aree di studio selezionate. L’osservazione è stata guidata da alcune categorie analitiche: spazi condivisi, attività svolte, relazioni sociali, cura del luogo e servizi esistenti. È stata condotta da un team eterogeneo composto da operatori del terzo settore, mediatori culturali e altri professionisti, organizzati in turni di circa tre ore dedicati all’osservazione e all’annotazione sul campo. Questa attività preliminare ha permesso di delimitare l’area di studio, comprendere la complessità del contesto e definire le fasi successive di mappatura. La metodologia si articola in due fasi principali. La prima fase (img. 03) ha previsto la localizzazione dei servizi destinati alle comunità migranti, come cooperative sociali, servizi di prossimità e di welfare, insieme alle attività commerciali etniche, ai luoghi di culto e agli spazi di aggregazione. Questa mappatura georeferenziata si è basata su tre filtri analitici, ciascuno dei quali ha prodotto un layer interpretativo distinto: sovrapposti, questi livelli restituiscono una visione integrata della realtà urbana e delle connessioni tra comunità e organizzazioni del terzo settore coinvolte. Il primo filtro ha riguardato la definizione dei confini e l’analisi geografica. Sono stati individuati confini geografici, sociali ed economici, nonché potenziali barriere e criticità, oltre a opportunità di sviluppo. Le barriere comprendono ostacoli linguistici e di accessibilità, intesi come accettazione della diversità, ma possono diventare anche luoghi di pregiudizio e razzismo. Dalle esperienze monitora-

te emerge che gli individui tendono a frequentare percorsi e spazi ritenuti “sicuri”, limitando l’esplorazione della città, l’interazione con altre comunità e generando divisioni sociali. Il secondo filtro si è concentrato sui nodi sociali urbani, ovvero quei punti di aggregazione e interazione sociale che svolgono una funzione attiva nello scambio culturale e nella costruzione di reti comunitarie. Sono stati quindi mappati luoghi significativi che alimentano dinamiche di coesione o, al contrario, evidenziano tensioni latenti. Il terzo filtro ha riguardato i servizi di prossimità sociale, con particolare attenzione alle attività promosse dalle cooperative e agli interventi rivolti all’integrazione dei migranti. L’analisi ha messo in luce tanto le criticità quanto le potenzialità, offrendo una base utile per le politiche di integrazione bilaterale.

La seconda fase di mappatura ha esteso l’indagine concentrandosi non solo sull’identificazione fisica dei luoghi, ma anche sulle loro dimensioni percettive e simboliche. Attraverso laboratori partecipativi e interviste, vengono indagate le pratiche d’uso quotidiano, le modalità di fruizione e i significati attribuiti ai luoghi dalle comunità plurali. Questa prospettiva consente di affiancare alla lettura strutturale della città una dimensione immateriale e relazionale, capace di cogliere le forme di trasformazione informale e gli usi ibridi dello spazio urbano. Il confronto tra mappa “funzionale” e mappa “percepita” restituisce una comprensione più articolata del territorio, evidenziando le dissonanze tra rappresentazioni codificate e vissuti locali, e ponendo le basi per una narrazione cartografica più critica.

Risultato. Letture stratificate dello spazio interculturale

A partire dalla sperimentazione condotta nelle Municipalità II e IV di Napoli, il sistema di mappatura si è rivelato uno strumento partecipativo per leggere la città nella sua dimensione relazionale, sociale e simbolica. Ha permesso di far emergere elementi normalmente trascurati dai processi istituzionali: barriere linguistiche e culturali, pratiche di cura quotidiana, reti di supporto informale e spazi di coesione non codificati. Tra i luoghi emersi dalla mappatura, piazza Garibaldi rappresenta un nodo strategico di incontro interculturale e condivisione tra comunità eterogenee. Connettendo assi urbani come via Bologna, caratterizzata dal mercato etnico e attività locali, la piazza si configura come uno spazio dinamico. Tuttavia, le percezioni che la attraversano sono differenti: per alcuni, come le comunità plurietniche, è uno spazio di socializzazione libero da pregiudizi; per altri, come comunità “locali”, invece, assume connotazioni di insicurezza. Questa ambivalenza sottolinea la necessità di una lettura plurale e situata dello spazio urbano, capace di valorizzare l’esperienza vissuta. Nel corso dell’osservazione etnografica, piazza Garibaldi ha assunto ruoli molteplici: luogo di culto all’aperto durante la festività dell’Eid, spazio di dibattito culturale con l’evento “Maggio Africa”, ma anche sede di assemblee associative e momenti informali di aggregazione. Tali trasformazioni sono state documentate per analizzare come lo stesso spazio venga ridefinito attraverso pratiche d’uso diverse. Una parte di questa stratificazione è stata restituita nel sistema cartografico multilayer (img. 04) che visualizza non solo l’ubicazione fisica dei luoghi, ma anche le relazioni, i flussi e i significati che li attraversano. Altro esempio che emerso è Casa Cidis, in via Stefano Brun. Nelle mappe istituzionali risulta come casa di vacanze, ma l’osservazione ha evidenziato una realtà ben più articolata. Casa Cidis è uno spazio plurifunzionale, autorganizzato e attivato

dalle comunità, in cui si intrecciano pratiche di socialità, supporto e produzione culturale. Tra le attività svolte, vi sono l’iftar durante il ramadan, incontri interculturali e momenti di ascolto comunitario (img. 05). Questo contrasto tra rappresentazione codificata e uso effettivo mette in luce l’importanza della mappatura situata per riconoscere l’impronta viva dei soggetti nello spazio urbano. I risultati emersi dalla sperimentazione sono stati predisposti per un’eventuale integrazione all’interno di piattaforme digitali collaborative e opensource, come FirstLife2. L’obiettivo di questa fase è la costruzione di una contronarrazione: un sistema visivo integrato che possa fungere da strumento analitico e decisionale per amministratori locali, attori territoriali e reti comunitarie. Questo approccio mira a restituire agency alle comunità plurietniche, spesso escluse dai processi ufficiali di produzione dello spazio, riconoscendole come soggetti attivi nella definizione della città. La mappatura proposta mette in relazione letture verticali (istituzionali, normative) e orizzontali (sociali, percettive), offrendo un dispositivo concreto per ripensare le politiche urbane in chiave più inclusiva, plurale e basata sulla conoscenza situata.

Conclusioni: contronarrazioni urbane e pratiche trasformative

Portare alla luce le stratificazioni meno visibili della città significa interrogare non solo le rappresentazioni spaziali codificate, ma anche l’idea stessa di ciò che viene riconosciuto come spazio urbano legittimo. La mappatura partecipativa ha evidenziato come alcuni luoghi siano spazi vitali di cura e autorganizzazione, rispondendo a bisogni concreti delle comunità plurietniche. In questo senso, rappresentare tali spazi equivale a legittimarli. Restituirli in una cartografia aperta e multilivello, che non si limita a documentarne l’esistenza, ma apre possibilità di riconoscimento all’interno delle pratiche istituzionali. L’esperienza condotta a Napoli dimostra come la mappa possa divenire uno strumento di attivazione politica e comunitaria, in grado di trasformare la percezione pubblica e sostenere forme emergenti di cittadinanza.

Il metodo adottato si radica in un approccio interculturale che riconosce nella diversità un principio generativo. Nelle città europee sempre più diversificate, la mappatura partecipativa può “promuovere il pluralismo culturale riconoscendo la complessità delle identità” e “potenziare l’incisività degli spazi di incontro e di ibridazione culturale” (Consiglio d’Europa, 2020). In questo processo, mappare significa non solo documentare, ma indurre un atto trasformativo: un modo per restituire centralità a quegli spazi informali che funzionano come infrastrutture sociali della vita urbana.

NOTES

1 – Il concetto di “creatività sociale” si riferisce alla capacità di un gruppo di persone di generare cambiamenti positivi e significativi in un determinato territorio o contesto sociale, attraverso pratiche innovative, inclusive e partecipative. Non si tratta di un’idea individuale, ma di una forza collettiva di trasformazione che valorizza la diversità e rafforza le relazioni comunitarie (Montebelli, 2021).

2 – FirstLife è una piattaforma di dati urbani che supporta la collaborazione tra città e quartieri, coinvolgendo gli utenti come cittadini attivi con reti personali, professionali e territoriali. Attraverso una mappa interattiva, consente di aggiungere e condividere luoghi, eventi, notizie e storie, discutere e coordinare iniziative locali e formare gruppi per promuovere reciprocità e cura dei beni comuni. Sviluppata attraverso un processo partecipativo a Torino e in continua evoluzione, promuove coesione sociale e innovazione urbana senza finalità commerciali.

Professore associato, Composizione architettonica e urbana (CEAR-09/A), DPIA, Università degli Studi di Udine. luca.zecchin@uniud.it

Cantiere e rovina

01. Le tracce fantasmatiche di Pineland interrotta | The phantasmatic traces of Pineland interrupted. L. Zecchin

Construction Site and Ruin The construction site reveals structural forms and partial configurations that persist in its arrest. In particular, reinforced concrete is configured as a material capable of recording transient and residual traces destined to mark the ruin. So-called unfinished authorial ruins raise useful questions for project reflection and exercise. Through the case study of an interrupted construction site by Marcello D’Olivo, this article investigates the value of unfinishedness as a generative condition for composing and recomposing forms. The alchemical forms of the construction site, those made permanent in the phantasmal forms of the ruin and the impossibility of the present, feed the poetic and generate a pure experience of time making space.*

Il cantiere rivela forme strutturali e configurazioni parziali che permangono nel suo arresto. In particolare, il calcestruzzo armato si configura come materiale capace di registrare tracce transitorie e residuali, destinate a marcare la rovina. Le cosiddette rovine d’autore incompiute sollevano questioni utili alla riflessione e all’esercizio progettuale. Attraverso il caso studio di un cantiere interrotto di Marcello D’Olivo, l’articolo indaga il valore dell’incompiutezza come condizione generativa per comporre e ricomporre forme. Le forme alchemiche del cantiere, quelle rese permanenti nelle forme fantasmatiche della rovina e nell’impossibilità del presente, alimentano il poetico e generano un’esperienza pura del tempo che fa spazio.*

Le tracce di Pineland interrotta

ineland interrotta

Il villaggio montano Pineland a Forni di Sopra viene progettato da Marcello D’Olivo nel 1964 per conto della società londinese Trans-European Developments Ltd. L’intento è quello di comporre una fusione organica tra architettura e paesaggio (Zucconi, 1997), “capace di immergersi nella natura circostante senza disturbarla” (D’Olivo, 1978). Il principio insediativo si fonda su un’infrastruttura ad anello che segue l’andamento naturale del terreno, evitando dislivelli rilevanti. In una valletta, l’anello funge da diga per contenere un piccolo lago artificiale (Barillari, Bianco, 2022). Le centoventiquattro case unifamiliari, a pianta semicircolare con copertura a guscio, sono disposte su due livelli, con una grande vetrata a sud e un basamento circolare che cinge il rapporto con il suolo. Le quattro unità ricettive maggiori, tre edifici da duecentoventi appartamenti e un motel con servizi e negozi, riprendono la forma ad arco con copertura a guscio, articolandosi su due o tre livelli sfalsati, con il piano terra destinato ad autorimesse.

Durante le fasi iniziali del cantiere, i lavori si interrompono bruscamente a causa del fallimento della società committente. Restano sull’area una porzione dell’anello infrastrutturale, una casa prototipo realizzata a scopo dimostrativo e lo scheletro in calcestruzzo armato di un edificio ad appartamenti lungo circa cento metri. Nel 2011 il sito viene segnalato da Mountain Wilderness nel censimento degli impianti dismessi del Friuli-Venezia Giulia (Ferrario, 2019); l’incompiuto è riconosciuto come rudere d’autore, documento dell’opera di Marcello D’Olivo in Italia. Dal 2020, Pineland è censita tra le strutture obsolete all’interno del territorio UNESCO delle Dolomiti (AA.VV., 2020; 2023).

KEYWORDS: CANTIERE ROVINA, TRASMUTAZIONE, PERMANENZA | CONSTRUCTIONSITE RUIN, TRANSMUTATION, PERMANENCE

La ricerca Pineland interrotta. Rigenerare architetture e paesaggi1 indaga le tracce del non finito, interrogando le forme effimere del cantiere e quelle permanenti della rovina, espressione dell’incompiuto. La conoscenza del progetto originario è approfondita nell’Archivio Marcello D’Olivo2 attraverso lo studio e il ridisegno di documenti storici in gran parte inediti:

disegni e relazioni di progetto e materiali promozionali destinati alla vendita degli alloggi chiariscono le intenzioni ideative e le prime fasi costruttive del villaggio. L’indagine sul campo restituisce l’azione del tempo sull’incompiuto, raccogliendo le tracce eterogenee e stratificate che ne compongono la cornice d’ambiente attuale. L’intera area, perimetrata come zona faunistica di interesse regionale, è stata recentemente acquisita dal Comune di Forni di Sopra.

Pineland appartiene alle rovine d’autore che provano la tensione al cambiamento del secondo Novecento (Broggini, 2009). Di fronte a questi lasciti, spesso problematici, la demolizione appare la soluzione più conveniente. Tuttavia, la loro cancellazione equivarrebbe a obliterare intere identità. L’ipotesi di tutela appare improbabile: troppo recenti per essere vincolate, troppo degradate per essere considerate recuperabili. Sovente, la notorietà dell’autore o dell’opera ne paralizza la reinterpretazione progettuale. La questione si fa ancora più complessa con le opere incompiute (Alterazioni, 2018). I non finiti registrano fallimenti progettuali, crisi economiche o instabilità politiche, collisioni tra visioni ambiziose e realtà. Eppure, le tracce dei progetti impone di riflettere su forme alternative che sfidano il cantiere e la rovina. Queste “rovine in senso inverso” (Smithson, 1967)

Trasmutazioni alchemiche

L’arresto del cantiere, unito a operazioni di astrazione delle sue forme, consente di fissare intere figure altrimenti ignorate

sono strutture del decadimento e riserve di senso, permanenze interrotte e identità sospese, architetture che sollevano domande sul progetto, sui suoi esiti e sui suoi destini. Come custodirne il fondamento poetico? Come conservarle in forme che restino comprensibili e aperte al futuro?

Il cantiere sospeso di Pineland mostra le tracce tipiche di un processo di costruzione, una fase in cui “i materiali grezzi e i loro processi di trasformazione sono ancora visibili” e “la loro distribuzione casuale è ancora tollerata” (Morris, 1969). Si tratta di tracce che restano invisibili o immaginabili nell’opera finita, forme strutturali della materia, spesso bizzarre, che evocano una “dimensione spettrale dell’accadere” (Musil, 1926). L’arresto del cantiere, unito a operazioni di astrazione delle sue forme, consente di fissare intere figure altrimenti ignorate. È “l’esplorazione al contrario di un potenziale poetico”, un vero e proprio “progetto al contrario” (Zecchin, 2017), in cui “il transitorio, il fuggitivo, il contingente” (Baudelaire, 1863) slegano immaginari, concetti e logiche capaci di innescare processi creativi e produzioni di senso. Le figure implicate nella trasmutazione alchemica del calcestruzzo sono architetture, alcune “di carattere provvisorio, e delle quali ad opera finita, non resta traccia” (Nervi, 1965), che nel cantiere compaiono intellegibili e dunque feconde per un discorso sulla composizione. Come nelle radiografie di László Moholy-Nagy o nei fotogrammi di Étienne-Jules Marey, anche nel cantiere si manifestano configurazioni effimere e forme paradossali variamente dislocate nel tempo e nello spazio. Gli scavi e i movimenti di terra contengo architetture costruite in negativo. Le forme della sottrazione rimandano all’atto del togliere per fare spazio. L’architettura di scavi disvela “un’unità caratteristica” (Simmel, 1913) situata tra l’unità iniziale della materia e la stratificazione della natura nel tempo.

La trasmutazione è anticipata dalla trama delle armature metalliche. La morfologia si costruisce in filigrana, nel ritmo degli intervalli. I fili ripetuti disegnano un intreccio di ordito e trama, attorno al quale si organizza poi la massa. Questa architettura si scrive come una partitura musicale,

02. Le strutture orfane di Pineland interrotta | The orphaned structures of Pineland interrupted. J. Sebastianutti

un pentagramma di elementi discreti che definisce spessori inaspettati. L’architettura dematerializzata approda alla terza dimensione attraverso linee che cuciono lo spazio come un tessuto, “fluenti come una scrittura, leggeri come uno sguardo” (Lai, 2007). Le forme, solo suggerite, rendono reale ciò che non ha massa.

La “pietra liquida” (Kahn, 1998) ha la “necessità di essere, sia pure per un solo momento, un’architettura di tavole”. “La cassaforma in legname costituisce un passaggio obbligato attraverso forme proprie del legno, che limitano la libertà della struttura cementizia” (Nervi, 1965). Sono architetture effimere che funzionano come calco dello spazio, partecipando attivamente alla sua definizione sensibile. Attraverso operazioni di ingrandimento o riduzione, è possibile riconoscere in queste architetture un doppio volto: uno spazio fitto di elementi dritti, curvi, inclinati, intrecciati in uno scheletro fibroso; uno spazio liscio, abitabile in un’altra dimensione. La sequenza di montaggi e smontaggi suggerisce una mutevolezza configurativa costante.

La produzione del calcestruzzo è legata a rituali e stratagemmi impiegati per trattarne la superficie a facciavista. “Il mio calcestruzzo – dichiarava Perret nel 1944 – è più bello della pietra, lo lavoro, lo cesello. [...] È una pietra che nasce, mentre la pietra naturale è una pietra che muore” (Perret, 1952). La pietra artificiale trattiene le tracce delle cose e le ombre del tempo. Dai cofferdams di Vitruvio ai più recenti flexible formwork o fabric mould, questi segni disegnano tessiture, accumuli e stiramenti simili a pieghe della pelle. Talvolta, la distorsione arriva a dissolvere l’unità percettiva in un coagulo informe. La molteplicità di imperfezioni e impronte, sia materiali che procedurali, palesa un intento narrativo. Le tracce sul calcestruzzo sono presenze residuali, spettri di forme svanite al confine tra gli stati della materia.

Permanenze fantasmatiche

Le architetture del cantiere durano come forme resistenti nella rovina di Pineland. Collocate tra il visibile e l’invisibi-

le, evocano l’assenza dell’opera compiuta e del tempo che a essa rimanda, ma anche una presenza che esiste e persiste nella realtà contingente. La loro esperienza rinvia da forma a forma. Il non finito allude a unità altre: le sue forme, mutevoli e aperte, partecipano a un processo compositivo potenzialmente riproduttivo (Rossi, 1987). Del resto, la rovina affascina per la sua inconsapevolezza di durare o perire; continua a trasformarsi, attraversata da forme differenti. In essa, i confini tra aperto e chiuso, interno ed esterno, natura e artificio, architettura e paesaggio si sfaldano. Alla continuità oppone l’intervallo, all’unità l’interruzione, alla regola la trasgressione. Per questo, da Piranesi al Moderno, l’immaginario rovinoso alimenta l’invenzione del nuovo (Altarelli, 2022). E prendendo distanza dal presente (Celati, 2001), l’architettura può ancora attingere a questi principi, nel collage, nell’objet trouvé, nel riuso con significati diversi, nell’introduzione di materiali nuovi che toccano la memoria. Lo sguardo del progetto può riconoscere nella rovina una forma già lavorata, parziale, una materia generosa, impura, feconda per l’architettura (Calvino, 1995).

La rovina d’autore aggiunge a tutto ciò una condizione futuribile (Purini, 2008); testimoni del passato eroico che agiscono come presenze attive, oggetti poetici dotati di un’estetica profetica (Tortora, 2006). Queste architetture sentivano la responsabilità di interpretare una società in trasformazione. Negli anni del boom economico, con l’irruzione della cultura e della società di massa, emergeva l’impazienza del futuro e l’ambizione di un’evoluzione radicale dei modelli architettonici, sociali e politici. Le rovine trattengono questa tensione, rivelano l’attenzione alla composizione della forma, la ricerca artistica sulla materia, l’ideale dell’architettura come strumento di trasformazione della realtà. Indagare il significato e il sentimento di queste rovine significa interpretare l’apparato teorico e compositivo di una cultura architettonica prolifica, alla ricerca di una forma attuale che si confronti con le sue stesse rovine. L’incompiutezza invita a pensare forme ibride, transitorie, capaci di sfidare il paesag-

03. La Pineland di M. D’Olivo, 1964, nella cornice d’ambiente attuale | The Pineland by M. D’Olivo, 1964, in the current environment frame. L.Zecchin
04. Le architetture di Pineland di M. D’Olivo, 1964 | The architectures of Pineland by M. D’Olivo, 1964. L. Zecchin

gio costruito. L’interrotto cela forme strumentali cui possiamo guardare con interesse, per sperimentare e verificare le ragioni del progetto di architettura.

A Pineland, la vegetazione incolta, i percorsi discontinui e i recinti che spezzano i sentieri generano uno stato di smarrimento continuo, in cui il sentire si fa confuso, insieme affascinato e inquieto. La rovina, attraversata da una percezione tettonica in trasparenza, sottolinea presenze tattili, non ancora rese gerarchicamente unitarie. Tra elementi costruttivi e parti della composizione si aprono interstizi, vuoti inattesi, predisposizioni e passaggi in sospeso. Setti e pilastri orfani, murature isolate, strutture scollegate, grovigli di putrelle e ferri in attesa, la materia incompiuta suggerisce valenze e attiva interrogativi. La rovina del cantiere mostra forme deformi dell’architettura, permanenze fantasmatiche tra l’estetica del frammento e la sospensione dell’intero. Seguendo il monito di Auguste Perret, il bello incompiuto pare così coincidere con le “belle rovine”. Entrambi descrivono una soglia in cui il costruito, privato di compiutezza, si apre a sentimenti nuovi.

Anatomie fondative

“Rovina e cantiere confrontano il già compiuto con il non ancora compiuto, il non ancora giudicato con ciò che non è più giudicabile: momenti – sovente anche banali – del sublime […], metafora di un modo di essere, dell’esistere, quindi del possibile, del non definitivo” (Gabetti, Isola, 1983). Il cantiere e la rovina sono anatomie che ci consentono di intravedere, attraversare, evocare, rivelare, frammentare, traguardare, scalare: atti che generano immaginazione e restituiscono profondità all’architettura. E “l’atto insediativo dell’inquadrare, del percorrere, del cintare o dello scavalcare, del costruire una connessione tra spazi-cose opposti, diviene fondazione di altri atti insediativi” (Venezia, 2007).

Si tratta di operazioni dal valore costitutivo, capaci di intrecciare percezioni, narrazioni, ricordanze, continuando a costruire il senso dell’architettura.

“Il rudere e il non finito, due poli nel cui intervallo si gioca il destino dell’architettura” (Venezia, 2007), diventano così temi e strumenti utili alla riflessione e all’esercizio progettuale: un invito, critico e radicale, a ripartire da un’origine, da una condizione fondativa capace di restituire la “natura poetica dell’architettura” (Venezia, 2010). Questa fondazione tra il cantiere e la rovina ispira il Laboratorio Tematico di Progettazione3 su Pineland interrotta. I progetti di architettura attraverso il paesaggio puntano alla scoperta del cantiere sospeso e della sua qualità rovinosa tentando una diversa accessibilità e disegnando le misure di sicurezza dove funzioni nuove non possono essere introdotte. Micro percorsi, soste e servizi cauti, sottolineano le permeabilità e

Il cantiere e la rovina sono anatomie che ci consentono di intravedere, attraversare, evocare, rivelare, frammentare, traguardare, scalare: atti che generano immaginazione

stabiliscono i gradi di fruibilità. Il riutilizzo, anche parziale o temporaneo dello scheletro, il suo consolidamento o la sola messa in sicurezza saldano la rovina a testimone. Dispositivi paesaggistici di macchine ibride per le acque e le vegetazioni, di sistemi di drenaggio e infiltrazione delle acque, di cura della vegetazione o di nuova coltivazione, accettano la mutevolezza del luogo e il ruolo dell’uomo essenzialmente come osservatore.

La rigenerazione a base ambientale e culturale, con residenze artistiche e fruibilità lente, è orientata alla co -

struzione di percezioni di tipo esperienziale, per contribuire a rafforzare rapporti credibili tra natura e artificio. Alla base delle sperimentazioni, l’idea di Pineland come parco. Un parco dove la natura intricata del bosco, la natura protetta dei recinti faunistici e la natura di tran -

L’invenzione dell’incompiuto è trovarlo come protagonista in sé, capace di ostacolare deliberatamente altre azioni

sizione tra i capisaldi esistenti, possano ospitare piccoli usi culturali e ricreativi e funzioni idrauliche e vegetali. Il parco corrisponde a una grande architettura selvatica, in parte coltivata e attrezzata. Alcuni progetti esplorano

la trasformazione della rovina lavorando con piccole aggiunte intese come facilitazioni della lettura, protezioni o indicazioni dei modi d’uso. Altri progetti lavorano per garantire un livello minimo di percorribilità che consentano la comprensione e la possibilità di racconto. Le preesistenze costituiscono i riferimenti cui ancorare i nuovi punti concisi, piccole abitazioni con laboratori, cannocchiali e osservatori, dispositivi a torre e occhi per scrutare il cielo tra gli alberi, micro architetture riconoscibili all’interno del parco. L’obiettivo di superare la mera considerazione dell’incompiuto come presenza estranea e fastidiosa, che altera l’immagine presumibilmente autentica del paesaggio dolomitico, afferma l’opportunità di poter vivere questa rovina d’autore non per forza di cose fisicamente, di affrontarla e di attribuirle una dignità che la renda meritevole di considerazione anche senza un uso.

05. I segni tessuti di Pineland interrotta | The woven signs of Pineland interrupted. L. Zeccchin
06. I grovigli in attesa di Pineland interrotta | The tangles in waiting of Pineland interrupted. L.Zecchin

Frammenti discreti

Le forme alchemiche del cantiere, quelle rese permanenti nelle forme fantasmatiche della rovina e nell’impossibilità del presente, alimentano il poetico e generano un’esperienza pura del tempo che fa spazio. È lo spazio del comporre e ricomporre forme. Non riuscendo a saldarsi in un presente unico, esse si proiettano costantemente in avanti. Il sentimento suscitato evidenzia il tempo costruito come possibilità. Il senso di quanto si presenta simultaneamente come il prodotto di un’azione trasformativa e come lo sfondo di un’azione assente può essere rigenerato nella condizione di materia essenzialmente inabitabile, assumendo ciò che è perduto o che non è mai stato come scena. L’invenzione dell’incompiuto è trovarlo come protagonista in sé, capace di ostacolare deliberatamente altre azioni. E limitandosi a generare relazioni, capisaldi minimi conserveranno aperte le prospettive del progetto (Zecchin, 2024).

Pineland è una unità di frammenti che può essere potenziata nel suo carattere discreto. Le dimensioni, il rapporto irrisolto con il luogo di valore ambientale, le risorse economiche e le possibilità di riutilizzo limitate, chiedono un progetto prevalente del vuoto sul progetto del pieno. La natura artificiata e le tracce del cantiere in rovina potranno essere riattivate attraverso l’inserimento di punti modesti, pezzi minimi, diffusi e disarticolati, che triangolano, fisicamente o visivamente, con gli elementi esistenti e i capisaldi prospettici: architetture correlate tra tempi e spazi, armature relazionali tra cantiere e rovina.*

NOTE

1 – Pineland interrotta. Rigenerare architetture e paesaggi è un accordo quadro di ricerca in corso tra il Comune di Forni di Sopra e il Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura dell’Università degli Studi di Udine, responsabile scientifico L. Zecchin. L’accordo è finalizzato allo sviluppo di studi e progetti per la salvaguardia e valorizzazione di architetture e paesaggi d’autore del Novecento a Forni di Sopra, nelle loro diverse forme costruite o progettate, a supporto dello sviluppo territoriale. Un obiettivo specifico dell’accordo è quello di promuovere attività scientifiche connesse ai temi del progetto di architettura per la conoscenza e rigenerazione dell’area di Pineland, al fine di proporre prospettive di preservazione e potenziamento del suo patrimonio ambientale e culturale.

2 – Archivio Marcello D’Olivo, conservato dai Civici Musei del Comune di Udine presso le Gallerie del Progetto.

3 – Laboratorio Tematico di Progettazione del terzo anno del Corso di Studi in Scienze dell’Architettura dell’Università degli Studi di Udine, tenuto dai docenti L. Zecchin dei moduli di Composizione Architettonica e Architettura del Paesaggio e referente del Laboratorio, e A. Sdegno del modulo di Disegno, 2024.

REFERENCES

–AA.VV. (2020, 2023). Schede di catalogazione delle strutture obsolete. Strutture obsolete e paesaggi eccezionali. Valori e disvalori nel paesaggio delle Dolomiti e nella gestione del sito UNESCO. Venezia: Iuav. – Altarelli, L. (2022). L’immaginario delle rovine. Da Piranesi al Moderno. Siracusa: LetteraVentidue. –Alterazioni Video (2018). Fosbury Architecture. Incompiuto. La nascita di uno stile. Milano: Humboldt Books.

–Barillari, D., Bianco, S. (2022). Marcello D’Olivo: architetto del mondo in Friuli-Venezia Giulia. Milano: Electa. –Baudelaire, C. (1863). Il pittore della vita moderna. In: Guglielmi, G., Raimondi, E. (a cura di), Charles Baudelaire. Scritti sull’arte. Torino: Einaudi, 1981, pp. 165-208.

Broggini, O. (2009). Le rovine del Novecento: rifiuti, rottami, ruderi e altre eredità. Parma: Diabasis.

Calvino, I. (1995). Lo sguardo dell’archeologo. In: Una pietra sopra. Torino: Einaudi, pp. 37-52. –Celati, G. (2001). Il Bazar archeologico. In: Finzioni occidentali. Torino: Einaudi, pp. 45-68. –D’Olivo, M. (1978). Discorso per un’altra architettura. Venezia: Marsilio.

Ferrario, V. (2019). Paesaggi dell’abbandono: le rovine moderne delle Dolomiti. Torino: Einaudi. – Gabetti, R., Isola, A. (1983). Il gioco delle parti: architettura, città, arti, mestieri. Torino: Einaudi. –Kahn, L. (1998). Conversations with Students. In: Architecture at Rice, n. 26. New York: Princeton Architectural Press, pp. 5–23.

–Lai, M. (2007). Arte e creatività. In: Picciau, M.D. (a cura di), La ricerca della forma Cagliari: CUEC, 2014, pp. 13-19.

– Morris, R. (1969). Notes on Sculpture: Part 4, in Artforum, vol. 7, no. 8, aprile 1969, pp. 50-54. –Musil, R. (1926). A che cosa sta lavorando? Colloquio con Robert Musil. In: Frisé, A. (a cura di). Diari 1899-1941, vol. II. Torino: Einaudi, 1980, pp. 1000-1002.

–Nervi, P.L. (1965). Costruire correttamente. Caratteristiche e possibilità delle strutture cementizie armate. Milano: Hoepli.

–Perret, A. (1952). Contribution à une théorie de l’architecture. Parigi: Éditions Vincent, Fréal & Cie.

–Purini, F. (2008). Attualità di Giovanni Battista Piranesi. Melfi: Libria.

– Rossi, A. (1987). Frammenti. In: Ferlenga, A. (a cura di), Aldo Rossi. Architetture 1959-1987 Milano: Electa, pp. 7-8.

–Simmel, G. (1913). Saggi sul paesaggio. In: Sassatelli, M. (a cura di), Georg Simmel. Saggi sul paesaggio. Roma: Armando Editore, 2006.

– Smithson, R. (1967). A Tour of the Monuments of Passaic, New Jersey. In: Flam, J. (a cura di), Robert Smithson: the Collected Writings. Berkeley: University of California Press, 1996, pp. 68-74. –Tortora, G. (2006). Semantica delle rovine. Roma: Manifesto libri.

–Venezia, F. (2007). Rovine e non finito. In: Basso, O., De Mattio, M., Fierro, S., Frisone C. (a cura di), Non finito in architettura. Venezia: Iuav, pp. 9-16.

–Venezia, F. (2010). La natura poetica dell’architettura. Pordenone: Giavedoni Editore.

– Zecchin, L. (2017). Implicit Architectures. In Kozlowski, T. (a cura di), Defining the Architectural Space. Transmutations of Concrete, vol. 4. Cracovia: Politechnika Krakowska, pp. 45-59.

– Zecchin, L. (2024). Architettura interrotta. Paesaggio interspeciale. In: Cardaci, A., Picchio, F., Versaci, A. (a cura di), ReUSO 2024. Documentazione, restauro e rigenerazione sostenibile del patrimonio costruito. Alghero: Publica, pp. 1366-1377.

– Zucconi, G. (1997). Marcello D’Olivo. Architettura e progetto 1947-1991. Milano: Electa.

07. Le anatomie fondative e i frammenti discreti di Pineland interrotta | The foundational anatomies and discrete fragments of Pineland interrupted Composition by L. Zecchin of photos by the author and project drawings by V. Campagnaro, E. Ermacora, M.J. Favaretto, A. Marcon, L. Menegaldo, M. Polo Pardise, A. Petrosino, G. Stel, M. Todisco

Pineland Interrupted

The Pineland mountain village in Forni di Sopra was designed by Marcello D’Olivo in 1964 for the London-based Trans-European Developments Ltd. The intent was to compose an organic fusion of architecture and landscape (Zucconi, 1997), “capable of immersing itself in the surrounding nature without disturbing it” (D’Olivo, 1978). The settlement principle is based on a ring-shaped infrastructure that follows the natural course of the land, avoiding major differences in elevation. In a small valley, the ring acts as a dam to contain a small artificial lake (Barillari, Bianco, 2022). The one hundred and twenty-four single-family houses, semicircular in plan with a shell roof, are arranged on two levels, with a large window to the south and a circular basement encircling the relationship with the ground. The four larger accommodation units, three two-hundred-and-twentyapartment buildings and a motel with services and stores, take up the arched form with shell roofing, articulating on two or three staggered levels, with the ground floor used for garages. During the initial stages of construction, work came to an abrupt halt due to the bankruptcy of the commissioning company. A portion of the infrastructure ring, a prototype house built for demonstration purposes, and the reinforced concrete skeleton of an apartment building about one hundred meters long remain on the area. In 2011, the site is reported by Mountain Wilderness in the census of disused facilities in Friuli-Venezia Giulia (Ferrario, 2019); the unfinished site is recognised as an author ruin, a document of Marcello D’Olivo’s work in Italy. As of 2020, Pineland is counted among the obsolete facilities within the UNESCO territory of the Dolomites (AAVV, 2020; 2023).

The research Pineland interrotta. Rigenerare architetture e paesaggi1 investigates the traces of the unfinished, questioning the ephemeral forms of the construction site and the permanent forms of the ruin, an expression of the unfinished. The knowledge of the original project is deepened in the Archivio Marcello D’Olivo2 through the study and redrawing of largely unpublished historical documents: drawings and project reports and promotional materials intended for the sale of housing clarify the ideational intentions and early construction phases of the village. The field survey restores the action of time on the unfinished, gathering the heterogeneous and layered traces that make up its present-day environmental framework.

Construction Site and Ruin

The traces of Pineland Interrupted

The entire area, demarcated as a wildlife area of regional interest, was recently acquired by the Comune di Forni di Sopra.

Pineland belongs to the author ruins that prove the tension for change in the second twentieth century (Broggini, 2009). In the face of these often problematic legacies, demolition seems the most convenient solution. However, their erasure would be tantamount to obliterating entire identities. The hypothesis of protection seems unlikely: too recent to be bound, too degraded to be considered salvageable. Often, the notoriety of the author or work paralyses its project reinterpretation. The issue becomes even more complex with unfinished works (Alterazioni, 2018). The unfinished record project failures, economic crises or political instabilities, collisions between ambitious visions and reality. Yet, the traces of projects compel reflection on other forms, challenging the construction site and the ruin. These “ruins in reverse” (Smithson, 1967) are structures of decay and reservoirs of meaning, interrupted permanences and suspended identities, architectures that raise questions about the project, its outcomes, and its fates. How to guard their poetic foundation? How to preserve them in forms that remain comprehensible and open to the future?

Alchemical Transmutations

Pineland’s suspended construction site shows the typical traces of a construction process, a stage in which “raw materials and their processes of transformation are still visible” and “their random distribution is still tolerated” (Morris, 1969). These are traces that remain invisible or imaginable in the finished work, structural forms of matter, often bizarre, that evoke a “spectral dimension of happening” (Musil, 1926). The halting of the construction site, coupled with operations to abstract its forms, allows whole figures otherwise ignored to be fixed. It is “the reverse exploration of a poetic potential,” a true “reverse project” (Zecchin, 2017), in which “the transitory, the fugitive, the contingent” (Baudelaire, 1863) unleash imaginaries, concepts and logics capable of triggering creative processes and productions of meaning.

The figures involved in the alchemical transmutation of concrete are architectures, some “of a provisional character, and of which, when the work is finished, no trace remains” (Nervi, 1965), which in the construction site appear intelligible and therefore fruitful for a discourse on composition. As in László Moholy-Nagy’s x-rays

or Étienne-Jules Marey’s photograms, ephemeral configurations and paradoxical forms variously displaced in time and space manifest themselves in the construction site.

Excavations and earthworks contain architectures constructed in negative. The forms of subtraction refer to the act of removing to make space. The architecture of excavations unveils “a characteristic unity” (Simmel, 1913) situated between the initial unity of matter and the layering of nature over time.

Transmutation is anticipated by the texture of the metal armatures. Morphology is built in filigree, in the rhythm of intervals. Repeated threads draw a weave of warp and weft, around which the mass is then organised. This architecture is written like a musical score, a pentagram of discrete elements that defines unexpected thicknesses. Dematerialised architecture lands in the third dimension through lines that sew the space like a fabric, “flowing like a script, light as a glance” (Lai, 2007). The forms, only suggested, make real what has no mass.

The “liquid stone” (Kahn, 1998) has the “need to be, if only for a moment, an architecture of planks.” “The lumber formwork constitutes an obligatory passage through forms proper to wood, which limit the freedom of the concrete structure” (Nervi, 1965). These are ephemeral architectures that function as a cast of space, actively participating in its sensitive definition. Through operations of enlargement or reduction, it is possible to recognise in these architectures a double face: a dense space of straight, curved, inclined elements woven into a fibrous skeleton; a smooth space, habitable in another dimension. The sequence of assembly and disassembly suggests a constant configurational mutability.

The production of concrete is linked to rituals and stratagems employed to treat its face surface. “My concrete,” Perret declared in 1944, “is more beautiful than stone, I work it, I chisel it. [...] It is a stone that is born, while natural stone is a stone that dies” (Perret, 1952). Artificial stone retains the traces of things and the shadows of time. From Vitruvius’ cofferdams to the more recent flexible formwork or fabric mould, these marks draw textures, accumulations and stretches similar to folds of skin. Sometimes, the distortion goes so far as to dissolve the perceptual unity into a formless clot. The multiplicity of imperfections and imprints, both material and procedural, reveals a narrative intent. The traces on concrete are residual

presences, spectres of vanished forms at the border between states of matter.

Phantasmatic Permanences

The construction site’s architectures endure as enduring forms in the ruin of Pineland. Placed between the visible and the invisible, they evoke the absence of the completed work and the time that refers to it, but also a presence that exists and persists in contingent reality. Their experience defers from form to form. The non-finite alludes to other units: its forms, mutable and open, participate in a potentially reproductive compositional process (Rossi, 1987). After all, ruin fascinates by its unawareness of enduring or perishing; it keeps transforming, traversed by different forms. In it, the boundaries between open and closed, interior and exterior, nature and artifice, architecture and landscape break down. To continuity it opposes the interval, to unity the interruption, to rule the transgression. Therefore, from Piranesi to the Modern, the ruinous imagery fuels the invention of the new (Altarelli, 2022). And by taking distance from the present (Celati, 2001), architecture can still draw on these principles, in the collage, in the objet trouvé, in the reuse with different meanings, in the introduction of new materials that touch memory. The gaze of the project can recognise in the ruin an already worked, partial form, a generous, impure matter, fruitful for architecture (Calvino, 1995).

Author’s ruin adds to this a futuristic condition (Purini, 2008); witnesses of the heroic past acting as active presences, poetic objects endowed with a prophetic aesthetic (Tortora, 2006). These architectures felt a responsibility to interpret a changing society. In the years of the economic boom, with the irruption of mass culture and society, the impatience of the future and the ambition for a radical evolution of architectural, social and political models emerged. The ruins retain this tension, reveal attention to the composition of form, artistic research into material, and the ideal of architecture as a tool for the transformation of reality. To investigate the meaning and feeling of these ruins is to interpret the theoretical and compositional apparatus of a prolific architectural culture in search of a present form that confronts its own ruins. Unfinishedness invites thinking about hybrid, transitory forms capable of challenging the built landscape. The interrupted conceals instrumental forms to which we can look with interest, to experiment and test the reasons for architectural project.

In Pineland, the uncultivated vegetation, discontinuous paths and breaking fences generate a state of continuous bewilderment, in which feeling becomes confused, at once fascinated and uneasy. The ruin, traversed by a tectonic perception in transparency, emphasises tactile presences, not yet rendered hierarchically unified. Interstices, unexpected voids, predispositions and pending passages open up between building elements and parts of the composition. Orphaned septa and pillars, isolated masonry, disconnected structures, tangles of girders and waiting irons, the unfinished matter suggests valences and activates questions. The ruin of the construction site shows deformed forms of ar-

chitecture, phantasmal permanences between the aesthetics of the fragment and the suspension of the whole. Following Auguste Perret’s warning, the unfinished beautiful thus seems to coincide with the “beautiful ruins.” Both describe a threshold where the built, deprived of completeness, opens to new feelings.

Foundational Anatomies

“Ruin and construction site confront the already accomplished with the not yet accomplished, the not yet judged with what is no longer judged: moments – often even trivial – of the sublime […], metaphors of a way of being, of existing, therefore of the possible, of the not final” (Gabetti, Isola, 1983). The building site and the ruin are anatomies that allow us to glimpse, traverse, evoke, reveal, fragment, gaze, scale: acts that generate imagination and restore depth to architecture. And “the settlement act of framing, traversing, girdling or stepping over, of building a connection between opposing spaces-things, becomes the foundation of other settlement acts” (Venice, 2007). These are operations with constitutive value, capable of interweaving perceptions, narratives, memories, continuing to construct the meaning of architecture.

“The ruin and the unfinished, two poles in whose interval the fate of architecture is played out” (Venice, 2007), thus become themes and tools useful for reflection and design exercise: an invitation, critical and radical, to start again from an origin, from a foundational condition capable of restoring the “poetic nature of architecture” (Venice, 2010). This foundation between the building site and the ruin inspires the Laboratorio Tematico di Progettazione3 on interrupted Pineland. Architectural projects across the landscape point to the discovery of the suspended construction site and its ruinous quality by attempting a different accessibility and designing safety measures where new functions cannot be introduced. Micro paths, cautious stops and services emphasise permeabilities and establish degrees of usability. Reuse, even partial or temporary reuse of the skeleton, its consolidation or securing alone weld ruin to witness. Landscape devices of hybrid water and vegetation machinery, water drainage and infiltration systems, vegetation care or new cultivation, accept the mutability of place and the role of humans essentially as observers.

Environmentally and culturally based regeneration, with art residencies and slow usability, is geared toward building experiential perceptions to help strengthen credible relationships between nature and artifice. Underlying the experiments is the idea of Pineland as a park.

A park where the intricate nature of the forest, the protected nature of wildlife enclosures, and the transitional nature between existing strongholds can accommodate small cultural and recreational uses as well as hydraulic and plant functions. The park corresponds to a large wild architecture, partly cultivated and equipped. Some projects explore the transformation of the ruin by working with small additions intended as reading facilities, protections, or indications of modes of use. Other projects work to ensure a minimum level of walkability that allow for understanding and the possibil-

ity of narrative. Pre-existences constitute the references to which to anchor new concise points, small dwellings with laboratories, telescopes and observatories, tower devices and eyes to scan the sky among the trees, recognisable microarchitectures within the park. The aim of overcoming the mere consideration of the unfinished as a foreign and annoying presence that alters the supposedly authentic image of the Dolomite landscape, affirms the opportunity to be able to experience this authorial ruin not necessarily physically, to face it and to give it a dignity that makes it worthy of consideration even without a use.

Discrete Fragments

The alchemical forms of the construction site, those made permanent in the phantasmal forms of ruin and the impossibility of the present, feed the poetic and generate a pure experience of time that makes space. It is the space of composing and recomposing forms. Failing to weld themselves into a single present, they constantly project forward. The aroused feeling highlights constructed time as possibility. The sense of what is simultaneously presented as the product of a transformative action and as the background of an absent action can be regenerated in the condition of essentially uninhabitable matter, taking on what is lost or never was as a scene. The invention of the unfinished is to find it as a protagonist in itself, capable of deliberately obstructing other actions. And limiting itself to generating relations, minimal cornerstones will keep the project’s prospects open (Zecchin, 2024).

Pineland is a unit of fragments that can be enhanced in its discrete character. The size, the unresolved relationship with the environmentally valuable site, the economic resources, and the limited possibilities for reuse, call for a prevailing design of emptiness over the design of fullness. The artificial nature and traces of the ruined site may be reactivated through the insertion of modest points, minimal, diffuse and disjointed pieces that triangulate, physically or visually, with existing elements and perspective cornerstones: correlated architectures between time and space, relational armatures between construction site and ruin.*

NOTES

1 – Pineland interrotta. Rigenerare architetture e paesaggi, ongoing framework agreement of research between the Comune di Forni di Sopra and the Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura of the Università degli Studi di Udine, scientific head Luca Zecchin. The agreement is aimed at the development of studies and projects for the preservation and enhancement of 20th-century architectures and auteur landscapes in Forni di Sopra, in their different built or designed forms, to support territorial development. A specific objective of the agreement is to promote scientific activities related to the themes of architectural project for the knowledge and regeneration of the Pineland area, in order to propose prospects for the preservation and enhancement of its environmental and cultural heritage.

2 – Archivio Marcello D’Olivo, preserved by the Civici Musei of the Comune di Udine at the Gallerie del Progetto.

3 – Laboratorio Tematico di Progettazione of the third year of the Corso di Studi in Scienze dell’Architettura at the Universitità degli Studi di Udine, taught by professors L. Zecchin of the Composizione Architettonica and Architettura del Paesaggio modules and Laboratory referent, and A. Sdegno of the Disegno module, 2024.

Profane Spolia in the Age of Standardization

01. Pikionis’ pathway to Athens’ Acropolis, where spolia was a structural element with peculiar arrangements | Il percorso di Pikionis verso l’Acropoli di Atene, dove le spolia assumono un ruolo strutturale attraverso disposizioni peculiari. S. R. Ahmed

Spolia profane nell’era della standardizzazione Spolia non è solo il riuso di frammenti classici, ma implica la loro dislocazione, appropriazione e riassemblaggio per creare nuove identità architettoniche. Questo articolo ridefinisce il concetto di spolia per affrontare le sfide del progetto contemporaneo, come la sostenibilità e la necessità di soluzioni locali e contestuali. Mette a confronto il potenziale unico e stratificato dello spolia come strumento progettuale, con l’uniformità imposta dalla standardizzazione. Attraverso i progetti di Pikionis, EMBT, Sassi, Associates Architecture e Panayiotou, lo studio esplora come lo spolia possa sostenere un’architettura non estrattiva, espressiva e radicata nel sito. Si sostiene infine che lo spolia offra una via per reintrodurre significato, identità locale e agency materica nella pratica contemporanea.*

Spolia is more than the reuse of classical fragments, their dislocation, appropriation, and reassembly to create new architectural identities. This paper redefines spolia addressing contemporary design challenges, such as sustainability and the need for local, contextspecific solutions. It contrasts the unique, layered potential of spolia as an integral design tool, with the uniformity imposed by standardization. By examining projects by Pikionis, EMBT, Sassi, Associates Architecture, and Panayiotou, the study explores how spolia can support non-extractive, expressive, and site-specific architecture. The study argues that spolia offers a way to reintroduce meaning, local identity, and material agency into contemporary practice.*

Redefining Spoliation in the Contemporary Project

ntroduction

Spolia, defined by Arnold Esch, is not material that is merely reused, but rather dislocated, appropriated, disassembled and reassembled to construct a different form and function (Esch, 1969). The term is used to describe Greek or Roman pieces repurposed in Late Antique or Medieval buildings, in both Christian and Islamic territories1 (Gönül, 2023, p. 157). Spolia is therefore political: it is associated with the notion of “appropriation”, which has connotations of violence, change of ownership, and erasure of prior civilizations. Art historians and archaeologists view spolia as a peculiar fragment removed from antiquity. Their interest lies not only on where the fragment came from, or where it should have been, but where it is now: its evident abnormality, distance, dislocation and unfittingness (Esch, 2011). Indeed, scholars have argued that the main reason ancient materials survived the medieval eras was due to reuse or spoliation. However, art historian Dale Kinney associated spolia with more meaning beyond material salvage: the borrowed fragment creates mysterious, historical, and symbolic tension (Kinney, 2006). Kinney deduced the reasons behind spoliation in main principles like convenience, availability, political legitimization, and aesthetic mystery. These reused objects were not only stripped of its function and reduced to their material and visual qualities, but they were also material signifier of the layers of history, and passage of time, and have the potential to create meaning and value for new users.

KEYWORDS: RIEMPIEGO STORICO, ARCHITETTURA NON ESTRATTIVA, SPOGLIE RIUTILIZZATE | HISTORICAL RELICS, NON-EXTRACTIVE ARCHITECTURE, REUSED SPOILS

The 21st century is an age of abundance of building materials and digital tools, however there are pressing challenges about the inevitable impact of extractive materials, the afterlife of structures, and their recyclability. Digital tools such as Building Information Modeling (BIM) rely on the standard industrial production, reproducibility of building elements and, more generally, to the goals of standardization. The scientific community has raised critical issues regarding the standardization of building elements: as it aims

02. Diagram categorizing five case studies: EMBT’s Utrecht Town Hall, Pikionis’ Pathway to the Acropolis, Enrico Sassi’s Arzo Quarry, Associates Architecture’s Stones Venue, and Christodoulos Panayiotou’s Sectiles, according to project type, context, nature of reused spolia, role of spolia in the design process, and broader cultural, political, and environmental impacts. The diagram visually maps how each project engages with spolia through diverse lenses such as restoration, material flows, social commitment, and non-extractive strategies | Diagramma di categorizzazione di cinque casi studio: il Municipio di Utrecht dello studio EMBT, il percorso di accesso all’Acropoli di Pikionis, la cava di Arzo di Enrico Sassi, lo Stones Venue di Associates Architecture e Sectiles di Christodoulos Panayiotou, secondo tipologia di progetto, contesto, natura delle spolia riutilizzate, ruolo delle spolia nel processo progettuale e impatti culturali, politici e ambientali più ampi. Il diagramma rappresenta visivamente come ciascun progetto si confronti con le spolia attraverso diverse prospettive, come il restauro, i flussi materiali, l’impegno sociale e le strategie non estrattive. S. R. Ahmed

for efficiency, predictability and disregards material irregularity, manual interpretation and site-specific improvisation. In contrast, building with spolia historically has lied in its capacity for creating unique, ambiguous, rich narratives and unrepeatable assemblies, that resist standardization (Cutarelli, 2024).

Spolia reuses historical materials, adding new meaning through dislocation and reinterpretation

Today’s constraints involved in working with historical spolia require the recontextualization of the term spolia to fit today’s challenges and needs. For which spoliation may be extended including construction “spoils” materials-offcuts, remnants, or discarded materials2. These ma-

terials can be embedded with their historical origins and trajectories, along with stories of material production and labour, imbuing the material itself with agency and complexity. The expansion of definition thereby shifts the focus from the historical ornament to material processes, opening new functional and symbolic possibilities of material itself in contemporary design. This proposed redefinition of spolia can be extended to include complex discourses regarding non-extractive architecture. The architectural and construction practice highly depends on material extraction and production and is marked by unsustainable consumerism with serious environmental consequences.

In an era where globalization and technology push toward uniformity and consumerism, spolia stands as a bold act of defiance, forging deep connections with history and

seamlessly blending the ancient with the modern. The reuse of spolia today takes on new relevance, as the main critic against contemporary architecture is its lack of ornamentation and locality. As architects seek alternatives to extractive materials, can contemporary use of spolia inspire the architects to introduce localisation and identity into their works? Can spolia help connect better with contemporary architecture, which has long been criticized for lacking a sense of time, place and identity? The paper analyses the potential of using the spolia as an integral part of the design processes. The reappropriated spolia are not necessarily used for ornamental means, they instead foreground invisible historical layers of material processes, transport and craftmanship.

Methods and objectives

The use of spolia in contemporary architecture mainly outlined in Spolia Revisited and Extended (Kalakoski and Huuhka, 2018), Contemporary Spolia (Gönül, 2023), Spolia in the Contemporary Project (Todaro, 2008) and Spolia and the Open Work (Rabaça, 2023). Their analysis of recognised projects emphasised that spolia isn’t just a method of heritage conservation, it is a dialogue between past and present, weaving old structures into new creations. Summarising the criteria from available literature on how spolia must be reused in contemporary design, the act of spoliation: – should be based on genuinely historical material; – must be a part of architectural compositions that have been permanently destroyed; – must be a structural element as an essential element of what makes them spolia; – should not be used only for ornamental purposes; – should be visible elements and their history perceptible. However, the objective of this paper is to critically apply the available theoretical texts, and to expand the criterion to include the remnants from material production processes. The select projects expand the definition of

spolia to fit today’s architectural design challenges. These approaches embraces and celebrates reuse as a design strategy, employing it to restore meaning in architecture and connect with the stratified urban environment (Gönül, 2023, p. 172). Case studies range from EMBT’s Utrecht City Hall wing to Associates Architecture’s landscape pavilion in Brescia, Enrico Sassi’s Arzo Quarry project (2017), and Panayiotou’s Sectiles (2016), all using spolia as both material choice and political statement. The diagram in image 02 illustrates the complex ecologies between design processes and materials.

The art of spoiling a project

The grotesque façade of Utrecht Townhall is the epitome of what contemporary spoliation is intended for. EMBT3 was tasked with expanding the Town Hall of Utrecht to better accommodate its growing operational needs and to incorporate necessary technical advancements for an official governmental entity. In this striking example, carried out by Enric Miralles and Benedetta Tagliabue between 1997 and 2001 (img. 03), they demolished additions made in 1932 to the historic city hall, integrating some of the architectural demolished elements into the new façade. This approach played with deconstruction and mannerist references, resulting in a highly playful form. The design clearly aimed to challenge traditional historical interpretations, evident in the intentional revelation of historical layers within the old building by exposing chunks of plaster, breaking away from the uniformity of historicism to showcase the complex’s heterogeneous historical depth (Meier, 2011, p. 229). Furthermore, the goal was to reimagine the municipal office as a cohesive entity that integrated various architectural styles and materials, reflecting the diverse building traditions found throughout the Dutch town. This vision involved preserving and reassembling materials like bricks, stone jambs, and lintels saved from demolished parts of the structure.

Dimitris Pikionis’ pathway leading to the Acropolis of Athens, is one of the most recognizable projects that use spolia as structural and decorative elements. The spoils from archaeological excavations present themselves as abundant and seemingly useless materials. However, in his 1960s project, Pikionis masterfully transformed these remnants into a mosaic of variegated sizes, creating one of the most celebrated contemporary landscape designs for an archaeological site. Pikionis worked with spoils of broken, disjointed paving stones and salvaged archaeological material. He worked with hand drawings that were interrupted, flickering, and suggestive rather than definitive, creating seemingly random but all-designed juxtaposition, as if he had shuffled the materials like deck of tarot cards: he set the cards in bulk, then tried to decipher and laboriously pair the marble slabs (img.01).

its authentic character. The shed walls are elevated on a concrete platform textured with crushed marble; the structure features two imposing stone walls constructed from discarded quarry blocks with each unique block telling its own tale. While internally aligned for precision, externally the arrangement of these marble blocks, varying in shape, texture, and colour, forms a spatial exploration of the essence of spolia itself. The project seamlessly integrates heritage conservation with contemporary uses, reuses quarry spoils in paths and new structures, that celebrate material, in extraordinary detail, and the site from which they were extracted (Ferrando, 2021).

Contemporary architecture explores spolia to enhance identity, sustainability, and historical dialogue

Enrico Sassi’s landscape project in the Quarry of Arzo emphasized the reuse of spolia in a stone quarry. Sassi was commissioned to rehabilitate the centuries long running marble quarry that contains unique naturalistic and geological features. The Arzo quarry redevelopment preserves its geological and historical heritage while repurposing structures for education, culture, and ecology. Key elements include an Educational Trail showcasing quarrying techniques, a Natural Amphitheatre with marble seating (img.04), and a Quarry Workshop converting historic sheds into exhibition spaces (img.05). Inside the shed, the original structure remains largely untouched, preserving

While in Brescia, in a former quarry site, Associates Architecture played with spolia as a structural element rather than a merely decorative one. The project created the Park of the Quarry, Parco delle Cave, realised in 2025 within a former sand mine, featuring a pavilion, titled Stones Venue, a roof structure carried by nine pillars. The journey towards completing the project spanned nearly five years and engaged eleven companies, each contributing with a regional stone block from their production. The pavilion stands on a total of nine distinct types of spoliated stone: three sourced from Bergamo (Arabescato Orobico, Ceppo di Gré, and Nuvolato) and six from Brescia (Breccia Aurora, Breccia Damascata, Breccia Oniciata, Fiorito Chiaro, Marmo Classico di Botticino, and Porfido). This Stones Venue, conceived as a public space commemorating the landscapes’ material memory, and the people who worked the material and contributed to its making (img. 06).

On a different scale, the artist Christodoulos Panayiotou, in his work Sectiles featured in Parisian gallery Kamel Mennour in 2016, intertwined material and cultural histories through traditional methods. Sectiles, part of a series of floor installations, combines black granite from Zimbabwe

and Zeus quartzite from Brazil. Each stone meticulously labelled with details like weight, quality, destination, and monetary value, tracing their journey through a globalized market. The marble floor reveals what is typically hidden: inscriptions intended for quarry workers with technical indications of assembly and transport. These markings symbolize the transformation of raw material into the final finishing. They enable sculpture, construction, and decoration, yet inevitably vanish. Despite the stone being shaped by numerous actions, the spoliated materials appear pristine, its final form idealized and revered. Panayiotou dismantles its powerful aura by foregrounding the human labour stages that enable its utilization (Gugnon, 2016). The artist harmoniously arranges these materials into compositions reminiscent of ancient pavements (img.08). The term “sectile,” historically used by marble workers and mosaicists to denote a “cut” or “section,” underscores Panayiotou’s practice of extracting and recon-

textualizing materials from contemporary society, thereby cutting through layers of history.

Discussion

EMBT mastered the strangeness of spolia, highlighting its incongruity while paradoxically creating a cohesive narrative for the new building. Pikionis’ Acropolis path weaves broken archaeological-excavation leftovers into a topographical monumental path, adding a tactile palimpsest to the site already coded with different memories: an approach that would be followed by Sassi in Arzo Quarry, who placed the fragments as a core spatial agent. Sassi wove together discarded marble blocks, in great similarities with the technique mastered by Pikionis, as retaining walls, floors, amphitheatre pieces, keeping some fragments as stand-alone sculptural pieces. Associates Architecture architects build a roof on top of massive, spoliated columns, each embodying the cultural geography of

03. Portion fo EMBT Utrecht Townhall Façade | Porzione della facciata del Municipio di Utrecht dello studio EMBT. T. Patt

regional quarries, used as structural elements. And finally, Panayiotou engages the quarrying and labour marks on stones that would otherwise be discarded as industrial waste, as the centre piece of his provocative installation, fore fronting hidden processes of production, evaluation, transportation of the materials to the market.

nificant role in design. Across these examples, craftsmanship and improvisation, activate the expressive autonomy of the material. The material itself visibly and irreducibly carries unique marks of discard, weathering, chiseling, and aging.

Spolia transforms discarded materials into design elements, merging past narratives with modern spaces

These projects highlight processes of quarrying, labour, and material transformation, emphasizing how discarded stone, abundant and versatile, can play a sig -

Conclusions

The study of spolia , traditionally examined through the lenses of archaeology and art history, has evolved into a crucial discourse within contemporary architectural theory. From its historical role as a means of political appropriation and material reconstitution to its modern-day interpretations as a strategy for sustainable design, spolia remains a power-

for

layers of meaning and history into

environment. The exploration of non-extractive

ful tool
embedding
the built
04. The natural amphitheatre of Arzo quarries, seating through scarted marble spolia selected from the site | L’anfiteatro naturale delle cave di Arzo, sedute realizzate con spolia marmoree scartate selezionate in loco. V. Marcelo
05. The façade of the bathrooms of Arzo quarries, by Enrico Sassi, regeneration of the area and reuse of the existing buildings | La facciata dei bagni delle cave di Arzo, progetto di Enrico Sassi, rigenerazione dell’area e riuso degli edifici esistenti. F. Simonetti

approaches, such as the incorporation of construction waste and abandoned spoils, aligns with broader discourses on circular economy and responsible design. In this context, the reuse of materials is not merely an act of conservation or recycling, but a deliberate design strategy, that fosters deeper connections with local histories and material production narratives. The spolia displays stories that are often invisible: economic, social, and political dimensions embedded in material production. As architecture grapples with the implications of globalization, homogenization, and environmental sustainability, spolia offers a framework that embraces historical continuity, contextual specificity, and material’s agency. By integrating spolia into the design process, whether through historical artifacts, scarted materials, or conceptual reinterpretations, architects can create spaces that resonate with a sense of time, place, employing the materials’ significance. *

NOTES

1 – The first general book on spolia was published in 1744 by G. Marangoni, who attempted to explain the presence of “pagan and profane” improbable fragments in Christian sacred places. Books about spolia are abundant and are usually produced in history of art and archaeological practices, studies about spolia from design perspective are still rare.

2 – The terms spoil and spolia share an etymological proximity, despite emerging from different disciplinary vocabularies, spoil from mining and excavation (spoil heaps for instance), and spolia from art history and archaeology. Their relationship opens a critical space for rethinking the value of discarded materials in architecture and landscape.

3 – EMBT studio directed by Benedetta Tagliabue, is an internationally acknowledged architecture studio founded in 1994 by the association of Enric Miralles (1955-2000) and Benedetta Tagliabue in Barcelona.

REFERENCES

– Cutarelli, S. (2024). Historical Architecture and BIM Modelling: Between Representation of Reality and Conceptual Abstraction. Periodica Polytechnica Architecture. doi.org/10.3311/ ppar.37895

– Esch, A. (1969). Spolien: Zur Wiederverwendung antiker Baustücke und Skulpturen im mittelalterlichen Italien. Archiv für Kulturgeschichte, 51(1), pp. 1-64. doi.org/10.7788/akg.1969.51.1.1

– Esch, A. (2011). On the Reuse of Antiquity: The Perspectives of the Archaeologist and of the Historian. In Brilliant, R., Kinney, D. (eds.), Reuse Value: Spolia and Appropriation in Art and Architecture from Constantine to Sherrie Levine. London – New York: Ashgate Publishing Ltd. – Ferrando, D.T. (2021). Marble City. The Architectural Review, n. 4, pp. 40-49.

Gönül, H. (2023). Contemporary Spolia: Afterlives of Ruins in Fragments (online). In sita.uauim. ro/article/11_09_Gonul (last access March 2025).

Gugnon, A. (2016). Christodoulos Panayiotou - Theories of Harm, Slash Paris (online). In slashparis.com/en/evenements/christodoulos-panayiotou-theories-of-harm (Last access March 2025).

Hamman-MacLean, R.H.L. (1949). Antikenstudium in der Kunst des Mittelalters. Marburger Jahrbuch für Kunstwissenschaft, n. 15, p. 157. doi.org/10.2307/1348583

– Kalakoski, I., Huuhka, S. (2018). Spolia revisited and extended: The potential for contemporary architecture. Journal of Material Culture, 23(2), pp. 187-213. doi.org/10.1177/1359183517742946

– Kinney, D. (2006). The Concept of Spolia. In Rudolph, C. (ed.), A Companion to Medieval Art: Romanesque and Gothic in Northern Europe. Oxford: Blackwell Publishing, pp. 233-252.

– Meier, H.R. (2011). Spolia in Contemporary Architecture: Searching for Ornament and Place. In Brilliant, R., Kinney, D. (eds.), Reuse Value: Spolia and Appropriation in Art and Architecture from Constantine to Sherrie Levine. London & New York: Routledge, pp. 223-236.

– Rabaça, A. (2023). Spolia and the Open Work. FOOTPRINT , vol. 16, n.2, pp. 41-66. doi.org/10.59490/FOOTPRINT.16.2.6076

– Todaro, B. (2008). Spolia nel progetto contemporaneo. Publications de l’École Française de Rome, vol. 418, pp. 235-248.

06. Detail showing spolia marble carrying the steel roof, in Stones Venue | Dettaglio che mostra il marmo di spolia che sorregge la copertura in acciaio, nello Stones Venue. N. Galeazzi

Introduzione

Spolia, o reimpiego, come nella definizione di Arnold Esch, non è materiale semplicemente riutilizzato, ma dislocato, appropriato, smontato e rimontato per costruire una forma e una funzione differenti (Esch, 1969). Il termine è utilizzato per descrivere elementi greci o romani riadattati in edifici della tarda antichità o medievali, tanto in territori cristiani quanto islamici1 (Gönül, 2023, p. 157). Spolia è quindi un concetto politico: è associato alla nozione di “appropriazione”, che porta con sé connotazioni di violenza, cambiamento di proprietà e cancellazione di civiltà precedenti. Storici dell’arte e archeologi considerano la spolia come un frammento peculiare rimosso dall’antichità. Il loro interesse non si concentra solo sulla sua provenienza o su dove avrebbe dovuto trovarsi, ma su dove si trovi ora: sulla sua evidente anomalia, distanza, dislocazione e inadeguatezza (Esch, 2011). In effetti, è stato sostenuto da numerosi studiosi che il motivo principale per cui i materiali antichi sono sopravvissuti al Medioevo è stato proprio il loro riuso o spoliazione. Tuttavia, la storica dell’arte

Dale Kinney ha associato al concetto di spolia un significato più profondo del semplice recupero materiale: i frammenti presi in prestito generano tensioni misteriose, storiche e simboliche (Kinney, 2006). Kinney ha individuato le motivazioni alla base della spoliazione in alcuni principi fondamentali come la convenienza, la disponibilità, la legittimazione politica e il mistero estetico. Questi oggetti riutilizzati non venivano solo privati della loro funzione e ridotti alle loro qualità materiali e visive, ma diventavano anche segni materiali degli strati della storia e del passaggio del tempo, con il potenziale di generare nuovo significato e valore per gli utenti contemporanei. Il XXI secolo è un’epoca caratterizzata da un’abbondanza di materiali da costruzione e strumenti digitali; tuttavia, emergono sfide urgenti legate all’impatto inevitabile dei materiali estrattivi, al destino post-uso delle strutture e alla loro riciclabilità. Strumenti digitali come il Building Information Modeling (BIM) si fondano sulla produzione industriale standardizzata, sulla riproducibilità degli elementi costruttivi e, più in generale, sugli obiettivi della standardizzazione. La comunità scientifica ha sollevato questioni critiche in merito alla standardizzazione degli elementi edilizi: essa privilegia l’efficienza e la prevedibilità, trascurando l’irregolarità dei materiali, l’interpretazione manuale e l’improvvisazione legata al contesto (Cutarelli, 2024). Al contrario, costruire con spo-

Spolia profane nell’era della

standardizzazione

Ridefinire la spoliazione nel progetto contemporaneo

lia ha storicamente risieduto nella sua capacità di generare narrazioni uniche, ambigue, ricche e assemblaggi irripetibili, che si oppongono alla standardizzazione.

I vincoli odierni legati all’impiego delle spolia storiche richiedono una ricontestualizzazione del termine stesso per rispondere alle sfide e alle necessità contemporanee. In quest’ottica, il concetto di spoliazione può essere esteso a comprendere le “spoglie” dei processi costruttivi, quali sfridi, scarti, materiali dismessi2. Questi materiali possono contenere in sé le tracce delle loro origini storiche e delle loro traiettorie, così come le storie della loro produzione e della manodopera coinvolta, conferendo alla materia stessa un’agenzia e una complessità proprie. Tale ampliamento della definizione sposta quindi l’attenzione dall’ornamento storico ai processi materiali, aprendo nuove possibilità funzionali e simboliche per il progetto contemporaneo. La ridefinizione proposta del concetto di spolia può così estendersi a comprendere discorsi complessi sull’architettura non estrattiva. La pratica architettonica e costruttiva dipende infatti fortemente dall’estrazione e dalla produzione di materiali, ed è contrassegnata da un consumo insostenibile che comporta gravi conseguenze ambientali.

In un’epoca in cui globalizzazione e tecnologia spingono verso l’uniformità e il consumismo, le spolia si configurano come un atto di resistenza, capace di instaurare legami profondi con la storia e di fondere armoniosamente antico e contemporaneo. Il riuso delle spolia acquista oggi nuova rilevanza, poiché una delle critiche principali mosse all’architettura contemporanea è la mancanza di ornamentazione e di senso del luogo. Di fronte all’urgenza di trovare alternative ai materiali estrattivi, può l’impiego contemporaneo delle spolia ispirare gli architetti a reintrodurre nei loro progetti elementi di localizzazione e identità? Possono le spolia contribuire a colmare il distacco dell’architettura contemporanea da un senso del tempo, del luogo e dell’identità? Il saggio analizza il potenziale delle spolia come parte integrante dei processi progettuali. Le spolia riappropriate non sono necessariamente impiegate a fini ornamentali, bensì rendono visibili strati storici spesso invisibili, legati a processi materiali, trasporto e artigianato.

Metodi e obiettivi

L’uso delle spolia nell’architettura contemporanea è stato trattato principalmente in Spolia Revisited and Extended (Kalakoski e Huuhka,

2018), Contemporary Spolia (Gönül, 2023), Spolia nel progetto contemporaneo (Todaro, 2008) e Spolia and the Open Work (Rabaça, 2023). Questi testi, analizzando progetti riconosciuti, evidenziano come le spolia non rappresentino soltanto un metodo di conservazione del patrimonio, ma costituiscano un dialogo tra passato e presente, intrecciando strutture antiche in nuove creazioni. Dalla letteratura analizzata, emergono i seguenti criteri che identificano e caratterizzano il processo di spolia nel contesto contemporaneo: - basarsi su materiale autenticamente storico; - provenire da composizioni architettoniche permanentemente distrutte; - costituire elemento strutturale e non solo decorativo; - essere visibile e leggibile nella propria storia. Questo saggio propone un nuovo paramentroche estende i criteri del riempiego, includendo nella categoria di spolia anche i residui derivanti dai processi di produzione dei materiali. I progetti selezionati ampliano infatti la definizione di spolia per rispondere alle attuali sfide del progetto architettonico. Questi approcci abbracciano e celebrano il riuso come strategia progettuale, impiegandolo per restituire senso all’architettura e riconnetterla con il contesto urbano stratificato (Gönül, 2023, p. 172). I casi studio spaziano dall’ampliamento del Municipio di Utrecht dello studio EMBT al padiglione paesaggistico di Associates Architecture a Brescia, dal progetto della Cava di Arzo di Enrico Sassi (2017) a Sectiles (2016) di Christodoulos Panayiotou: tutti esempi in cui le spolia sono usate sia come scelta materica che come dichiarazione politica. Il diagramma nell’immagine 02 illustra le ecologie complesse tra i processi progettuali e i materiali.

Come spogliare un progetto

La grottesca facciata del Municipio di Utrecht rappresenta l’emblema di ciò che la spoliazione contemporanea intende essere. EMBT3 ricevette l’incarico di ampliare il Municipio per rispondere alle crescenti esigenze operative e integrare gli aggiornamenti tecnici necessari a un edificio istituzionale. In questo esempio, realizzato da Enric Miralles e Benedetta Tagliabue tra il 1997 e il 2001 (img. 03), furono demolite le aggiunte del 1932 all’edificio storico; alcuni elementi recuperati dalle demolizioni sono stati reintegrati nella nuova facciata. Questo approccio gioca con la decostruzione e i riferimenti manieristi, dando luogo a una forma espressiva e fortemente ludica. L’intento progettuale era chiaramente quello di sfidare le interpretazioni

storiche convenzionali, come dimostra la volontà di svelare strati storici del vecchio edificio attraverso l’esposizione di porzioni di intonaco, rompendo con l’uniformità dello storicismo per valorizzare la complessità eterogenea della stratificazione storica dell’edificio (Meier, 2011, p. 229). L’obiettivo era inoltre quello di ripensare l’edificio comunale come un organismo coeso, capace di integrare diversi stili e materiali architettonici, riflettendo la varietà delle tradizioni costruttive presenti nel contesto urbano olandese. Questa visione si è concretizzata nel recupero e nella ricomposizione di materiali come mattoni, stipiti e architravi in pietra provenienti dalle porzioni demolite della struttura originaria. Il percorso pedonale che conduce all’Acropoli di Atene, realizzato da Dimitris Pikionis, è uno dei progetti più emblematici nell’uso delle spolia come elementi strutturali e decorativi. Gli scarti derivanti dagli scavi archeologici si presentavano come materiali abbondanti e apparentemente inutilizzabili. Tuttavia, nel progetto degli anni Sessanta, Pikionis trasformò magistralmente questi frammenti in un mosaico di dimensioni variegate, dando forma a uno dei più celebrati interventi paesaggistici contemporanei in un sito archeologico. L’architetto lavorò con materiali spezzati, pietre sconnesse, elementi recuperati dal sottosuolo. Il progetto prese forma attraverso disegni a mano libera, interrotti, tremolanti, più evocativi che definitivi, generando accostamenti apparentemente casuali ma in realtà attentamente composti. Come se avesse mescolato i materiali come un mazzo di carte dei tarocchi: li disponeva in blocco per poi cercare di decifrare e accostare, con pazienza e precisione, le lastre di marmo (img. 01).

Il progetto paesaggistico di Enrico Sassi nella cava di Arzo enfatizza il riuso delle spolia all’interno di una cava di pietra. Sassi fu incaricato di riqualificare la cava di marmo, attiva da secoli, caratterizzata da peculiarità naturalistiche e geologiche uniche. La riconversione della cava preserva il patrimonio geologico e storico, riutilizzando strutture esistenti per scopi educativi, culturali ed ecologici. Elementi chiave del progetto sono il Sentiero Didattico che illustra le tecniche estrattive, un Teatro Naturale con sedute in marmo (img. 04) e un Laboratorio della Cava che trasforma gli antichi capannoni in spazi espositivi (img. 05). All’interno, la struttura originale è in gran parte preservata, mantenendo il carattere autentico del luogo. Le pareti del capannone sono sollevate su una piattaforma in cemento texturizzato con marmo frantumato; due maestosi muri in pietra, costruiti con blocchi di cava scartati, ciascuno unico, che raccontano storie proprie. Allineati con precisione all’interno, i blocchi, disposti esternamente in forme, texture e colori vari, offrono un’esplorazione spaziale dell’essenza stessa delle spolia. Il progetto integra armoniosamente la conservazione del patrimonio con usi contemporanei, riutilizzando i residui di cava nei percorsi e nelle nuove strutture, celebrando il materiale, in dettagli straordinari, e il sito d’origine (Ferrando, 2021).

A Brescia, su un’ex area estrattiva, Associates Architecture hanno lavorato con le spolia come elementi strutturali piuttosto che puramente

decorativi. Il progetto ha realizzato il Parco delle Cave, completato nel 2025 all’interno di un’ex cava di sabbia, con un padiglione intitolato Stones Venue, costituito da una copertura sorretta da nove pilastri. Il percorso di realizzazione del progetto ha richiesto quasi cinque anni e ha coinvolto undici aziende, ognuna delle quali ha contribuito con un blocco lapideo proveniente dalla propria produzione regionale. Il padiglione si fonda su un totale di nove differenti tipologie di pietra spoliata: tre provenienti da Bergamo (Arabescato Orobico, Ceppo di Gré e Nuvolato) e sei da Brescia (Breccia Aurora, Breccia Damascata, Breccia Oniciata, Fiorito Chiaro, Marmo Classico di Botticino e Porfido). Questa Stones Venue (img. 06) è concepita come uno spazio pubblico che commemora la memoria materica del paesaggio e le persone che hanno lavorato la pietra e contribuito alla sua realizzazione. Su una scala diversa, l’artista Christodoulos Panayiotou, nella sua opera esposta alla galleria Kamel Mennour di Parigi nel 2016 intitolata Sectiles, intreccia storie materiali e culturali attraverso metodi tradizionali. Sectiles, parte di una serie di installazioni pavimentali, combina granito nero dello Zimbabwe e quarzite Zeus del Brasile. Ciascuna pietra è meticolosamente etichettata con dettagli come peso, qualità, destinazione, valore monetario e con il tracciamento del percorso che rivela le dinamiche del mercato globalizzato. Il pavimento in marmo svela anche ciò che solitamente è nascosto: iscrizioni destinate agli operai di cava, con indicazioni tecniche di montaggio e trasporto. Questi segni simboleggiano la trasformazione della materia prima in un oggetto finito. Essi permettono la scultura, la costruzione e la decorazione, ma inevitabilmente svaniscono. Pur essendo plasmati da molteplici azioni, i materiali spoliati appaiono immacolati, con una forma finale idealizzata e venerata. Panayiotou smantella questa potente aura mettendo in primo piano le fasi del lavoro umano che ne consentono l’utilizzo (Gugnon, 2016). L’artista dispone armoniosamente questi materiali in composizioni che ricordano antichi pavimenti. Il termine sectile, storicamente usato da marmisti e mosaicisti per indicare un “taglio” o “sezione”, sottolinea la pratica di Panayiotou di estrarre e recontestualizzare materiali dalla società contemporanea, tagliando così gli strati della storia.

Discussione

EMBT ha saputo padroneggiare la stranezza della spolia, mettendone in risalto l’incongruità, pur creando paradossalmente una narrazione coerente per il nuovo edificio. Il percorso di Pikionis sull’Acropoli intreccia i residui degli scavi archeologici in un sentiero monumentale topografico, aggiungendo un palinsesto tattile a un sito già carico di molteplici memorie. Questo approccio è stato seguito da Sassi nella cava di Arzo, che ha posto i frammenti come agenti spaziali fondamentali. Sassi ha intessuto blocchi di marmo scartati, in grande affinità con la tecnica di Pikionis, utilizzandoli come muri di contenimento, pavimenti, elementi dell’anfiteatro, mantenendo alcuni frammenti come sculture autonome. Gli architetti di Associates Architecture, invece, hanno costruito un tetto poggiato su massicce colonne spogliate, ognuna

che incarna la geografia culturale delle cave regionali. Infine, Panayiotou valorizza le tracce di cava e lavoro sulle pietre che altrimenti sarebbero scartate come rifiuti industriali, ponendole al centro della sua installazione provocatoria, mettendo in primo piano i processi nascosti di produzione, valutazione e trasporto dei materiali sul mercato.

Questi progetti evidenziano i processi di estrazione, lavoro e trasformazione dei materiali, sottolineando come la pietra scartata, abbondante e versatile, possa svolgere un ruolo significativo nel progetto. In tutti questi esempi, artigianalità e improvvisazione attivano l’autonomia espressiva del materiale. Il materiale stesso porta visibilmente e in modo irreversibile tracce uniche di scarto, usura, scalpello e invecchiamento.

Conclusioni

Lo studio della spolia, tradizionalmente analizzato attraverso le lenti dell’archeologia e della storia dell’arte, si è evoluto in un discorso cruciale all’interno della teoria architettonica contemporanea. Dal suo ruolo storico di mezzo di appropriazione politica e ricostituzione materiale alle interpretazioni odierne come strategia per un design sostenibile, le spolia restano uno strumento potente per inserire strati di significato e storia nell’ambiente costruito. L’esplorazione di approcci non estrattivi, come l’incorporazione di scarti di costruzione e materiali abbandonati, si allinea con i più ampi discorsi sull’economia circolare e sul design responsabile. In questo contesto, il riuso dei materiali non è semplicemente un atto di conservazione o riciclo, ma una strategia progettuale deliberata che favorisce connessioni più profonde con le storie locali e le narrazioni della produzione materiale. Le spoglie mostrano storie spesso invisibili: dimensioni economiche, sociali e politiche incorporate nella produzione materiale. Mentre l’architettura si confronta con le implicazioni della globalizzazione, dell’omogeneizzazione e della sostenibilità ambientale, le spoglie offrono un quadro che abbraccia la continuità storica, la specificità contestuale e l’agenzia del materiale. Integrando le spoglie nel processo progettuale, sia attraverso manufatti storici, materiali scartati o reinterpretazioni concettuali, gli architetti possono creare spazi che risuonano di senso del tempo e del luogo, lasciando trasparire il significato intrinseco dei materiali.*

NOTES

1 – Il primo libro generale dedicato alle spolia fu pubblicato nel 1744 da G. Marangoni, il quale tentò di spiegare la presenza di frammenti “pagani e profani”, improbabili, all’interno di luoghi sacri cristiani. I testi sulle spolia sono numerosi e provengono principalmente dall’ambito della storia dell’arte e delle pratiche archeologiche; tuttavia, gli studi sulle spolia da una prospettiva progettuale restano ancora rari.

2 – I termini spoil e spolia, in inglese, condividono una prossimità etimologica, pur provenendo da vocabolari disciplinari differenti: spoil appartiene al lessico dell’estrazione e dello scavo (come nel caso degli spoil heaps), mentre spolia proviene dalla storia dell’arte e dall’archeologia. La loro relazione apre uno spazio critico per ripensare il valore dei materiali scartati nell’architettura e nel paesaggio.

3 – Lo studio EMBT, diretto da Benedetta Tagliabue, è uno studio di architettura di fama internazionale, fondato nel 1994 a Barcellona dall’associazione tra Enric Miralles (1955-2000) e Benedetta Tagliabue.

I rifiuti come eredità

01. Bantar Gebang, Indonesia: una grande discarica circondata da cumuli di rifiuti | Bantar Gebang, Indonesia: a vast landfill surrounded by piles of waste. A. Sambu, 2023

Waste as Legacy The paper explores the design potential of waste, reinterpreted as “traces” of matter’s metamorphoses. Moving beyond the notion of waste as an endpoint, it introduces Waste Driven Design (WDD): a comprehensive and collaborative design process that revalues waste through the development of neomaterials, supporting their application, scalability, and integration into production systems. As the outcome of a study grounded in the analysis of case studies and theoretical models, WDD highlights the role of the material designer as a systemic mediator, capable of turning problematic legacies into design opportunities. In this framework, waste is no longer inert or obsolete matter, but a trace that guides new ecological trajectories towards a circular model based on conservation – rather than dissipation – of resources.*

Il contributo esplora il potenziale progettuale dei rifiuti, riletti come “tracce” delle metamorfosi della materia. Superando l’idea del rifiuto come fine, viene proposto il Waste Driven Design (WDD): un processo progettuale, integrale e condiviso che valorizza gli scarti attraverso la progettazione di neomateriali, favorendone applicazione, scalabilità e integrazione nelle filiere produttive. Esito di uno studio fondato sull’analisi di casi studio e modelli teorici, il WDD evidenzia il ruolo del material designer come mediatore sistemico, capace di trasformare un’eredità problematica in opportunità progettuale. In questo scenario, il rifiuto non è più materia inerte e obsoleta, ma una traccia che orienta nuove traiettorie ecologiche per un modello circolare di conservazione – e non dissipazione – delle risorse.*

Da resti antropocenici a sostanza progettuale nel Waste Driven Design

Conservazione vs. dissipazione

Il rifiuto “è decadimento, rovina, dissipazione [...] È la riduzione di qualcosa senza risultato utile, è perdita e abbandono, declino, separazione e morte. È il materiale esaurito e privato di valore, residuo di un atto di produzione o consumo, e alla fine qualsiasi cosa semplicemente usata può pericolosamente essere considerata un rifiuto” (Lynch, 1990, p. 202). Questa definizione evidenzia l’inevitabile passaggio dallo stato di utilità a quello di degrado, mostrando la fluidità del valore della materia. La stessa sostanza che compone un artefatto utile, infatti, diventa rifiuto nel momento in cui viene decretato il fine vita dell’oggetto, pur rimanendo invariata nella sua configurazione.

D’altra parte, il raggiungimento dei limiti delle risorse non consente più di considerarle commodity infinite e la produzione di rifiuti è diventata una delle crisi ambientali più urgenti, imponendo un ripensamento del loro ruolo e della loro gestione (imgg. 01, 05).

KEYWORDS: NEOMATERIALI, WASTE DRIVEN DESIGN, MATERIAL DESIGNER | NEOMATERIALS, WASTE DRIVEN DESIGN, MATERIAL DESIGNER

In questa prospettiva, il concetto di “traccia” offre un’interessante chiave di lettura, che interpreta i rifiuti non solo come eredità materiali dei processi produttivi e metamorfici della materia, ma anche come segni tangibili della trasformazione di pratiche culturali, abitudini e stili di vita. La formazione di plastiglomerati, aggregati che combinano rifiuti plastici con sedimenti e detriti organici, esemplifica la capacità della materia di mutare in forme inaspettate e inquietanti. Il plastiglomerato non è né un prodotto industriale né un elemento geologico naturale, ma un marcatore dell’interazione tra attività umana e natura che si inscrive direttamente nella roccia (Robertson, 2016), dimostrando come la materia continui a evolversi anche dopo la sua apparente dismissione. Nel loro ruolo di “resti” materiali (Paoletti, 2021), i rifiuti documentano le dinamiche dell’Antropocene e rivelano i limiti del modello produttivo lineare. Tuttavia, possono anche essere reinterpretati come segnali per nuove direzioni culturali e progettuali ecologicamente orientate (Franz, 2022).

02. Mappa multi-livello, dinamica e interrogabile, per collocare geograficamente i cento progetti di neomateriali del campione di indagine e applicare filtri di visualizzazione relativi al ruolo del designer | Multi-level, dynamic, and interactive map for geographically locating one hundred neomaterial projects in the research sample and applying visualization filters based on the designer’s role. M. De Chirico, 2024

Se la traccia è il segno di ciò che è stato, essa rappresenta anche una traiettoria per il futuro. Ripensare il rifiuto come traccia materiale permette di individuare una “relazione circolare, da ex a next” (Fagnoni, 2018, p. 25), in cui i resti materiali non sono solo memoria del passato e testimonianza di un processo esaurito, ma elementi attivi capaci di suggerire nuove opportunità di progetto “per costruire nuove traiettorie di senso” (Paoletti, 2021, p. 109).

come tracce materiali di consumo e perdita, ma anche come tracce nel senso di direzioni possibili per il progetto? E in che modo il design può attivarle all’interno di pratiche orientate alla circolarità?

Se la traccia è il segno di ciò che è stato, essa rappresenta anche una traiettoria per il futuro

Da questa prospettiva, i rifiuti non sono materia inerte da scartare, ma risorse per pratiche progettuali sperimentali basate su riuso e riciclo. Lungi dal rappresentare una fine, essi si inseriscono in un più ampio flusso metamorfico della materia, segnando il passaggio da un sistema lineare a uno circolare di conservazione e non dissipazione delle risorse.

La ricerca si è dunque articolata a partire da due domande principali: come possono i rifiuti essere letti non solo

L’obiettivo di questo contributo è esplorare tale prospettiva, che non solo apre nuove possibilità per il design dei e con i materiali, ma contribuisce a ridefinire il rapporto tra produzione, utilizzo e (non)consumo, attraverso la descrizione del Waste Driven Design: un processo emerso da una ricerca condotta sia attraverso analisi desk dei modelli progettuali esistenti, sia attraverso un’indagine sul campo basata sulla mappatura di cento casi di neomateriali.

Neomateriali: progettare nelle metamorfosi della materia Se gli scarti sono risorse materiche in continua trasformazione, senza un inizio o una fine definiti, ma stabilizzazioni temporanee che si riconfigurano attraverso cicli che ne plasmano estetiche, forme e utilizzi nel tempo, allora è necessario adottare le “arti della transitorietà” (Hawkins, 2006) come pratiche progettuali in grado di esplorare le potenzialità latenti delle metamorfosi della materia. In

questo contesto, Pellizzari e Genovesi (2021) propongono una tassonomia che evidenzia il ruolo del design nell’innovazione materica, introducendo il concetto di neomateriali. Questi ultimi derivano da filiere sperimentali non ancora consolidate e si basano sul recupero di rifiuti e residui esclusi dalle tradizionali catene di riciclo o sull’impiego di biomasse di scarto e organismi viventi. Il prefisso “neo” ne sottolinea il carattere innovativo, sfidando lo status quo dei materiali tradizionali ed enfatizzando il progetto come atto di risignificazione culturale che consente di reinterpretare gli scarti come risorse.

A seguito di un’analisi quantitativa su cento esempi di neomateriali – selezionati per il contributo transdisciplinare del design, la rilevanza scientifica e divulgativa, e lo sviluppo negli ultimi quindici anni – è stata delineata una panoramica sullo stato dell’arte del fenomeno nel contesto europeo (img. 02). Da questa analisi è emersa una categorizzazione che identifica cinque ruoli distinti del designer nei processi di ricerca e sviluppo: designer in studio (cluster A), designer fondatore di azienda (cluster B), designer assunto in azienda nelle fasi sperimentali di avvio (cluster C), nelle fasi successive industriali (cluster D) e artigianali (cluster E).

Tale classificazione ha guidato la selezione di cinque casi studio italiani (img. 03), rappresentativi di diverse filiere e specificità territoriali, con l’obiettivo di osservare modalità progettuali capaci di rendere un’eredità problematica in un’opportunità.

Tipstudio (Pietrasanta, FI, fondato nel 2021; cluster A) lavora con scarti di fonderia per la realizzazione di oggetti scultorei; Risacca (Mazara del Vallo, TP, 2021; cluster B) attiva un sistema di riuso delle reti da pesca; Gianluca Fabris (Lessinia, VR, 2022; cluster C) interviene sugli scarti lapidei per l’arredo urbano; Ricehouse (Biella, 2016; cluster D) trasforma i residui della filiera del riso in neomateriali per l’edilizia; Pecore Attive (Altamura, BA, 2010; cluster E) valorizza la lana ovina attraverso una microfiliera artigianale.

L’analisi dei casi studio, svolta attraverso interviste semistrutturate e osservazione sul campo, evidenzia come la progettazione di neomateriali implichi un equilibrio tra fattori ambientali, sociali ed economici, richiedendo un approccio integrato che unisca ricerca, sperimentazione e sviluppo industriale o artigianale. Sebbene ogni progetto sia nato per risolvere un problema specifico di filiera, tutti condividono l’obiettivo di risignificare il rifiuto in risorsa,

03. Composizione grafica che documenta materiali, processi e applicazioni dei cinque casi studio analizzati | Graphic composition documenting materials, processes, and applications of the five case studies analyzed. M. De Chirico, 2024

applicando modelli produttivi replicabili e scalabili. Il dialogo tra discipline emerge come un elemento chiave per il consolidamento di questi processi, così come l’integrazione nei sistemi produttivi esistenti, delineando uno scenario in cui il material designer non si limita a progettare materiali e artefatti, ma costruisce reti e strategie.

In questi esempi, inoltre, si riconosce “una bellezza che si porta dentro le tracce di ciò che è stato […] che contiene una

cibili al Waste Driven Design, ne anticipano i principi fondamentali. Dall’osservazione di tali pratiche è emerso, tuttavia, che senza un dialogo strutturato tra designer, imprese e interlocutori, l’innovazione rischia di restare confinata a esperienze isolate, senza produrre un impatto sistemico sui settori produttivi, tecnologici e socioeconomici. Tali evidenze hanno quindi permesso di inferire il modello del WDD, che le sistematizza e rilancia in un framework operativo.

Un approccio progettuale che considera il rifiuto una traccia delle metamorfosi della materia

speranza di resurrezione” (Morozzi, 1998, pp. 20-21), un’estetica del “divenire” (Magli, 2023) intesa come scelta progettuale consapevole. Accoglierla significa superare l’idea del rifiuto come scarto da occultare, riconoscendolo invece come materia in transizione, capace di generare nuovi processi progettuali all’interno di un sistema ecologico integrato.

L’analisi comparativa dei casi ha evidenziato una serie di pratiche convergenti che, pur non esplicitamente ricondu-

Dal Material al Waste Driven Design: processo progettuale, integrale e condiviso

L’esigenza di superare lo status puramente sperimentale dei neomateriali richiede la necessità di un approccio progettuale strutturato che traduca le strategie individuate nei casi analizzati in un modello strutturato e scalabile, capace di stimolare nuovi scenari di sistema-design condiviso tra produzione, comunicazione, distribuzione e utilizzo. In questa prospettiva, le tracce materiali dei rifiuti diventano una guida per esplorare rotte progettuali basate su approcci innovativi.

Negli ultimi dieci anni, la letteratura scientifica sul design dei materiali ha riconosciuto il  Material Driven

Design  (MDD) (Karana et al. , 2015) come un approccio consolidato, in cui il materiale è il punto di partenza e il fulcro dell’intero processo progettuale. La sua definizione ha segnato un’innovazione nello studio del rapporto tra design e materiali, codificando un percorso che va dalla loro caratterizzazione fino all’applicazione in artefatti. Tuttavia, il modello presenta alcune criticità, tra cui la difficoltà di superare la fase sperimentale e il rischio di una visione eccessivamente speculativa, con un’interazione limitata con le filiere produttive già esistenti. Inoltre, il MDD non garantisce automaticamente risultati sostenibili, rendendo necessaria un’indagine più approfondita sulle condizioni che ne consentano l’allineamento ai principi dell’economia circolare.

Perciò, in una seconda fase della ricerca, l’analisi qualitativa condotta tramite revisione sistematica della letteratura – basata su 408 articoli individuati tramite Google Scholar e affinata attraverso la tecnica dello snowballing – ha permesso di individuare tre tipologie di approcci, definiti e adottati nel campo di riferimento, che rappresentano varianti o reinterpretazioni del MDD. I termini di ricerca hanno incluso process, method e methodology (tr. it. processo, metodo, metodologia) in relazione ai materiali,

e hanno portato alla selezione di undici contributi chiave per rilevanza metodologica e orientamento progettuale. Il primo gruppo comprende due processi  material-based, che hanno fornito basi teoriche al MDD senza ancora strutturare in modo definito l’attenzione al materiale1. Il secondo gruppo raccoglie tre processi che ne propongono una rivisitazione diretta, adattandone le fasi a contesti specifici come l’open innovation o il pensiero sistemico2 Infine, il terzo gruppo comprende cinque processi che adottano il MDD come base teorica, ampliandolo con nuovi  driver – tra cui il  new materialism, il  design thinking e l’innovazione sociale – e offrendo strumenti per la sua applicazione concreta3.

L’analisi delle criticità e delle necessità metodologiche emergenti ha portato alla formulazione del  Waste Driven Design (WDD), un processo che affronta direttamente la grande quantità di scarti esistenti nel sistema produttivo e post-consumo, valorizzandoli attraverso il progetto di neomateriali e il loro concreto utilizzo in artefatti. A differenza dei modelli precedenti, il WDD non si limita all’uso di materiali biodegradabili o il cui riciclo è standardizzato, ma affronta anche la complessità dei rifiuti compositi, proponendo strategie per la loro reintegrazione nei processi

04. Infografica che sintetizza il Waste Driven Design, illustrandone i pilastri, le fasi e la distinzione tra pratica didattica e operativa | Infographic summarizing Waste Driven Design, illustrating its pillars, phases, and the distinction between educational and operational practice. M. De Chirico, 2024

produttivi esistenti; promuove un dialogo tra scienze dure e discipline umanistiche per ampliare la comprensione del valore tecnico, espressivo e contestuale della materia; e non si esaurisce nella sperimentazione, ma fornisce strumenti per inserire i neomateriali nelle filiere industriali e artigianali, facilitandone scalabilità e diffusione.

Il WDD, inoltre, dialoga con le strategie di ecodesign esistenti, senza sostituirle, ma integrandosi a esse. Il processo si articola in sette fasi, strutturate su quattro pilastri fondamentali (img. 04):

–Abbondanza di rifiuti: analisi dell’origine, composizione e potenzialità dei materiali di scarto;

–Sperimentazione: collaborazione tra designer ed esperti per trasformare i rifiuti in neomateriali attraverso test pratici e prototipazione;

– What if: design degli scenari, che esplora le opportunità di applicazione concreta dei materiali sviluppati e ne valuta la fattibilità industriale;

–Neomateriali come risorse: scalabilità e integrazione nelle catene produttive esistenti, ridefinizione del rapporto tra innovazione e sistema economico-produttivo.

La mediazione necessaria

In questo contesto, il designer non è più solo un esploratore di materiali, ma un attore rilevante nella trasformazione sistemica verso un modello circolare, operando come

materica ed esplorazione empirica con la sperimentazione diretta sui (neo)materiali, sviluppando conoscenza e saperfare che ne consentono l’integrazione in processi produttivi sia pionieristici che consolidati.

Alla base del  Waste Driven Design vi è dunque un ripensamento metodologico interdisciplinare che sposta il design dei materiali da una logica sperimentale a un modello sistemico. Il designer assume il ruolo di facilitatore di processo (Manzini, 2003), orchestrando il dialogo tra discipline, aziende e istituzioni per garantire la scalabilità delle soluzioni proposte: non un iper-specialista, ma un “umanista” capace di navigare tra saperi diversi e integrarli in un processo progettuale aperto e interdisciplinare (Bassi, 2017).

Il WDD non configura una nuova figura professionale in senso stretto, ma un orientamento progettuale e una competenza trasversale che può essere adottata da designer già attivi nei contesti della ricerca e della progettazione sostenibile. La sua forza risiede nella capacità di integrare approcci esistenti, riconfigurando la relazione tra scarto, innovazione e sistema produttivo.

Il material designer non si limita a progettare materiali e artefatti, ma

costruisce reti e strategie

mediatore tra la cultura del progetto e quella d’impresa (Carmagnola, 2009; Bassi, 2017). La figura emergente è quella del material designer, capace di coniugare sensibilità

Lo studio introduce anche una distinzione tra pratica educativa e operativa nel design dei materiali. Se il  learning by doing  (Dewey, 2007) caratterizza gli ambienti didattici, permettendo ai designer di acquisire una conoscenza diretta della materia, la progettazione in contesti operativi richiede un  systemic thinking  (von Bertalanffy, 1968), capace di integrare le sperimentazioni nel sistema produttivo e trasformarle in soluzioni scalabili. Tale distinzione posiziona il WDD non solo come nuovo strumento formativo, ma anche come metodo applicabile al mondo reale, traducendo la ricerca sui neomateriali in strategie concrete di innovazione e produzione.

05. Escavatori a ruota a secchiello nella miniera a cielo aperto di Garzweiler, Germania | Bucket-wheel excavators in the Garzweiler open-pit mine, Germany. R. Spekking, 2013

Ripensare il rifiuto come traccia implica riconoscerlo anche come vettore di identità. I materiali scartati si sono sedimentati nel tempo, lasciando un’impronta concreta nel paesaggio materiale: sono segni pervasivi della nostra civiltà, documenti tangibili delle relazioni tra produzione, consumo e abbandono. Portano impressi i segni dei contesti da cui provengono, restituendo la memoria delle pratiche che li hanno generati e delle società che li hanno espulsi. Nel WDD, questi residui non sono più materia inerte, ma elementi attivi che contribuiscono a ridefinire l’estetica, il senso e la funzione degli artefatti progettati. In conclusione, il processo sviluppato attraverso un lavoro di analisi e sistematizzazione teorica si configura come una base metodologica per un approccio progettuale che considera il rifiuto una traccia delle metamorfosi della materia. Proponendo un framework flessibile e adattabile a diverse filiere, offre ai designer una guida per la transizione verso un modello circolare di produzione e (non)consumo. A tale scopo, la sua validazione richiede una successiva fase di ricerca sperimentale in contesti reali, attraverso progetti pilota che ne testino l’efficacia in diverse filiere, contribuendo a definirne strategie di consolidamento e a delineare scenari in cui il design supporti il riequilibrio tra risorse naturali al limite e abbondanza di rifiuti. *

NOTE

1 – Ne fanno parte: Methodology for Materiality (Wiberg, 2014), che integra l’interaction design nel material turn;  Product Design Driven Research for New Materials (Thong e Jackson, 2011), focalizzato sull’innovazione applicata a materiali per prodotti esistenti.

2 – Ne fanno parte: Material Driven Design DIY (Rognoli et al., 2015; Duarte Poblete et al., 2022), che enfatizza l’autoproduzione di materiali;  Material Driven Design for Sustainability (Bak-Andersen, 2018), incentrato su materiali biodegradabili;  Material Driven Textile Design Methodology (Ribul et al., 2021), che esplora il riciclo chimico dei rifiuti tessili.

3 – Ne fanno parte: Design Driven Material Innovation (Ferrara e Lecce, 2016), che integra scenaristica e interazione con la filiera;  Design Driven Development of Materials (Härkäsalmi et al., 2017), basato su prototipazione iterativa;  Material Sense-making Process (Ninimäki et al., 2018), che adotta un approccio speculativo ispirato al new materialism; Design Driven Material Innovation (Tubito et al., 2019), orientato al design thinking per materiali esistenti;  The Unique Design Method (Ferraro, 2023), che propone un framework per materiali emergenti.

REFERENCES

−  Bassi, A. (2017). Design contemporaneo. Bologna: Il Mulino.

−  Carmagnola, F. (2009). Design. La fabbrica del desiderio. Milano: Lupetti.

−  Dewey, J. (2007). Experience and Education [ed. or. 1938]. New York: Simon & Schuster.

−  Fagnoni, R. (2018). Da ex a next. MD Journal, 3(5), pp. 16-27.

−  Franz, G. (2022). L’umanità a un bivio. Milano: Mimesis.

−  Hawkins, G. (2006). The ethics of waste. How we relate to rubbish. Lanham: Rowman & Littlefield.

−  Karana, E., Barati, B., Rognoli, V., van der Laan, A.Z. (2015). Material Driven Design (MDD): A Method to Design for Material Experiences. International Journal of Design, 9(2), pp. 35-54.

−  Lynch, K. (1990). Wasting away. San Francisco: Sierra Club Books.

−  Magli, P. (2023). Senso e materia. Venezia: Marsilio.

−  Manzini, E. (2003). Scenarios of sustainable wellbeing. Milano: Edizioni POLI.design.

−  Morozzi, C. (1998). Oggetti risorti. Milano: Electa.

−  Paoletti, I. (2021). Siate materialisti!. Torino: Einaudi.

−  Pellizzari, A., Genovesi, E. (2021). Neomateriali 2.0 nell’economia circolare. Milano: Edizioni Ambiente.

−  Robertson, K. (2016). Plastiglomerate (online). E-flux Journal, 78. In e-flux.com/ journal/78/82878/plastiglomerate/ (ultimo accesso settembre 2025).

−  von Bertalanffy, L. (1968). General System Theory: foundations, development, applications. New York: George Braziller.

NN. Descrizione. N. Cognome

Conservation vs. Dissipation

Waste is “decay, ruin, dissipation […] It is the reduction of something without any useful outcome, it is loss and abandonment, decline, separation and death. It is matter that has been exhausted and stripped of value, the residue of an act of production or consumption; ultimately, anything simply used may dangerously be considered waste” (Lynch, 1990, p. 202). This definition highlights the inevitable shift from usefulness to degradation, revealing the fluidity of matter value.

Indeed, the very substance that constitutes a useful artefact becomes waste the moment its end-of-life is declared, despite remaining unchanged in its configuration.

At the same time, the exhaustion of natural resources no longer allows them to be treated as infinite commodities, and waste production has become one of the most pressing environmental crises, demanding a rethinking of its role and management (imgs. 01, 05).

In this context, the concept of trace offers a compelling interpretive lens: waste can be understood not only as the material legacy of production processes and matter’s metamorphic cycles, but also as a tangible sign of the transformation of cultural practices, habits, and ways of living.

The formation of plastiglomerates, aggregates that combine plastic waste with sediment and organic debris, exemplifies matter’s capacity to shift into unexpected and unsettling forms. Plastiglomerate is neither an industrial product nor a natural geological element, but a marker of the interaction between human activity and nature, inscribed directly into rock (Robertson, 2016), showing how matter continues to evolve even after its apparent disposal. In their role as material “remains” (Paoletti, 2021), waste items document the dynamics of the Anthropocene and expose the limitations of the linear production model. Yet they can also be reinterpreted as indicators of new, ecologically oriented cultural and design trajectories (Franz, 2022).

If a trace is the sign of what has been, it can also become a trajectory for what may come. Rethinking waste as a material trace enables the identification of a “circular relationship, from ex to next” (Fagnoni, 2018, p. 25), where

Waste as Legacy

From anthropocenic remnants to design substance in Waste Driven Design

material remains are not just memories of the past or evidence of exhausted processes, but active elements capable of suggesting new design opportunities “to construct new trajectories of meaning” (Paoletti, 2021, p. 109). From this perspective, waste is not inert matter to be discarded, but a resource for experimental design practices grounded in reuse and recycling. Far from representing an end, it becomes part of a broader metamorphic flow of matter, marking a shift from a linear system to a circular one based on conservation rather than dissipation. The research therefore developed around two main questions: how can waste be read not only as a material trace of consumption and loss, but also as a trace in the sense of a possible direction for design? And how can design activate such traces within practices oriented towards circularity? The aim of this contribution is to explore this perspective, which not only opens up new possibilities for designing with and through materials, but also contributes to redefining the relationship between production, use and (non)consumption. This is pursued through the articulation of Waste Driven Design: a process that emerged from a study combining desk research of existing design models with field research based on the mapping of one hundred neomaterial case studies.

Neomaterials: Designing within the metamorphoses of matter

If waste is understood as a material resource in constant transformation, without a clearly defined beginning or end, but as a series of temporary stabilisations reconfigured through cycles that shape its aesthetics, forms, and uses over time, then it becomes necessary to adopt the “arts of transience” (Hawkins, 2006) as design practices capable of exploring the latent potentialities of matter’s metamorphoses. Within this framework, Pellizzari and Genovesi (2021) propose a taxonomy that highlights the role of design in material innovation, introducing the concept of neomaterials. These derive from experimental production chains not yet consolidated and are based on the recovery of waste and residues excluded from traditional recycling systems, or on the use of waste biomass and

living organisms. The prefix “neo” underscores their innovative nature, challenging the status quo of traditional materials and positioning design as an act of cultural re-signification that allows waste to be reinterpreted as resource. Following a quantitative analysis of one hundred examples of neomaterials – selected for their transdisciplinary contribution to design, scientific and public relevance, and development over the past fifteen years – a comprehensive overview of the state of the art in the European context was developed (img. 02). From this analysis emerged a categorisation identifying five distinct roles of the designer within research and development processes: designer in independent studio (cluster A), designer as company founder (cluster B), designer employed in the early experimental phases of a company (cluster C), in subsequent industrial phases (cluster D), and in artisanal phases (cluster E). This classification informed the selection of five Italian case studies (img. 03), each representing different supply chains and territorial specificities, with the aim of observing how problematic material legacies can be transformed into opportunities.

Tipstudio (Pietrasanta, Tuscany, since 2021, cluster A) works with foundry waste to produce sculptural objects; Risacca (Mazara del Vallo, Sicily, since 2021, cluster B) activates a reuse system for discarded fishing nets; Gianluca Fabris (Lessinia, Veneto, since 2022, cluster C) transforms stone waste into materials for urban furniture; Ricehouse (Biella, since 2016, cluster D) converts rice supply chain residues into neomaterials for architecture; Pecore Attive (Altamura, Apulia, since 2010, cluster E) revalorises local sheep’s wool through an artisanal micro-chain.

The analysis of these case studies, conducted through semi-structured interviews and field observation, shows that neomaterial design entails a balance of environmental, social and economic factors, requiring an integrated approach that combines research, experimentation, and industrial or artisanal development. While each project originated from a specific supply chain problem, they all share the goal of resignifying waste as resource, applying replicable and scalable production models. Cross-disciplinary

collaboration emerges as a key condition for consolidating these processes, as does integration into existing production systems, outlining a scenario in which the material designer is not merely a creator of materials and artefacts, but a facilitator of networks and strategies. These examples also reveal “a beauty that carries within it the traces of what has been […] containing a hope of resurrection” (Morozzi, 1998, pp. 20-21), and an aesthetic of “becoming” (Magli, 2023) understood as a deliberate design choice. Embracing this means moving beyond the idea of waste as something to be hidden, and instead recognising it as matter in transition, capable of generating new design processes within an integrated ecological system. The comparative analysis of the cases revealed a series of converging practices which, while not explicitly identifying with Waste Driven Design, anticipate many of its core principles. However, the observation also highlighted that, without structured dialogue between designers, businesses and other stakeholders, innovation risks remaining confined to isolated experiences, with limited systemic impact on productive, technological and socio-economic contexts. These findings therefore enabled the inference of the WDD model, which systematises and advances these insights into an operational framework.

From Material to Waste Driven Design: an integral and shared design process

Overcoming the purely experimental status of neomaterials requires a structured design approach capable of translating the strategies identified in the analysed cases into a scalable model. Such a model should be able to stimulate new design-system scenarios shared across production, communication, distribution and use. In this perspective, the material traces of waste become a guide for exploring design trajectories grounded in innovative approaches. Over the past decade, scholarly literature on material design has recognised Material Driven Design (MDD) (Karana et al., 2015) as a consolidated approach, in which the material constitutes both the starting point and the core of the entire design process. Its definition marked a turning point in the study of the relationship between design and materials, codifying a path that moves from material characterisation to its application in artefacts. However, the model also shows some limitations, including the difficulty in moving beyond the experimental stage and the risk of an overly speculative vision, with limited interaction with existing production chains. Moreover, MDD does not inherently guarantee sustainable outcomes, making it necessary to explore the conditions under which it can be aligned with circular economy principles.

In the second phase of the research, a qualitative analysis was conducted through a systematic literature review – based on 408 articles identified via Google Scholar and refined using the snowballing technique – to identify three types of approaches that have been defined and adopted in the field and which represent variants or reinterpretations of MDD. The search terms included “process”, “method” and “methodology” in relation to materials, leading to the selection of eleven key contributions based on methodological relevance and design orientation. The first group includes two material-based processes that laid the theoretical foundations for MDD, although without yet

defining a clear material-centred structure1

The second group includes three processes that directly revisit MDD, adapting its phases to specific contexts such as open innovation or systems thinking2. Finally, the third group comprises five processes that use MDD as a theoretical basis, expanding it with new drivers – including new materialism, design thinking and social innovation – and offering tools for its concrete application3

The analysis of emerging methodological needs and limitations led to the formulation of Waste Driven Design (WDD): a process that directly addresses the large quantity of waste present in both production and postconsumption systems, transforming it into value through the design of neomaterials and their concrete use in artefacts. Unlike previous models, WDD is not limited to biodegradable materials or those with standardised recycling processes. Instead, it also tackles the complexity of composite waste, proposing strategies for its reintegration into existing production systems; it fosters a dialogue between hard sciences and the humanities to broaden the understanding of the technical, expressive and contextual value of matter; and it does not end with experimentation, but rather provides tools to integrate neomaterials into industrial and artisanal production chains, supporting their scalability and dissemination. Furthermore, WDD does not replace existing ecodesign strategies, but integrates with them.

The process is articulated into seven phases, structured around four core pillars (img. 04): – Waste abundance, which analyses the origin, composition and potential of discarded materials, overcoming the notion of waste as inherently valueless;

– Experimentation, where designers collaborate with experts to transform waste into neomaterials through practical testing and prototyping;

– What if: scenario design, which explores potential applications of the developed materials and assesses their industrial feasibility;

– Neomaterials as resources, which supports their scalability and integration into existing production chains, redefining the relationship between innovation and the economicproduction system.

The necessary mediation

In this context, the designer is not just a material explorer, but a key actor in the systemic transformation towards a circular model, operating as a mediator between design culture and business culture (Carmagnola, 2009; Bassi, 2017). The emerging figure is that of the material designer: someone able to combine material sensitivity and empirical exploration with direct experimentation on (neo)materials, developing knowledge and practical skills that enable their integration into both pioneering and established production processes.

At the core of Waste Driven Design lies an interdisciplinary methodological rethinking that shifts material design from a purely experimental logic to a systemic model. The designer takes on the role of process facilitator (Manzini, 2003), orchestrating dialogue between disciplines, businesses, and institutions to ensure the scalability of proposed solutions: not a hyper-specialist, but a “humanist” capable of navigating across fields of knowledge and integrating them into an open, interdisciplinary

design process (Bassi, 2017). WDD does not define a new professional figure in a strict sense, but rather a design orientation and a transversal competence that can be adopted by designers already active in the fields of research and sustainable design. Its strength lies in the capacity to integrate existing approaches, reconfiguring the relationship between waste, innovation, and the production system. This study also introduces a distinction between educational and operational practice in material design. While “learning by doing” (Dewey, 2007/1938) characterises educational settings, enabling designers to acquire direct knowledge of materials, design in operational contexts requires “systemic thinking” (von Bertalanffy, 1968): the ability to integrate experimentation into the production system and translate it into scalable solutions. This distinction positions WDD not only as a new educational tool, but also as a method applicable to real-world contexts, translating neomaterial research into concrete innovation and production strategies. Rethinking waste as a trace also means recognising it as a bearer of identity. Discarded materials accumulate over time, leaving a tangible imprint on the material landscape: they are pervasive signs of our civilisation, tangible documents of the relationships between production, consumption, and abandonment. They bear the marks of the contexts from which they originated, preserving the memory of the practices that generated them and of the societies that expelled them. Within the WDD framework, these remnants are no longer inert matter but active elements contributing to the redefinition of the aesthetic, meaning, and function of designed artefacts.

In conclusion, the process developed through analytical and theoretical systematisation represents a methodological foundation for a design approach that considers waste as a trace of material metamorphosis. By proposing a flexible framework adaptable to different supply chains, it offers designers a guide for the transition towards a circular model of production and (non)consumption. To this end, its validation requires a subsequent phase of experimental research in real contexts, through pilot projects that test its effectiveness across various supply chains, helping to define consolidation strategies and outlining scenarios in which design can support the rebalancing between finite natural resources and waste abundance.*

NOTES

1 – This group includes: Methodology for Materiality (Wiberg, 2014), which integrates interaction design into the material turn, and Product Design Driven Research for New Materials (Thong, Jackson, 2011), focused on innovation applied to materials for existing products.

2 – This group includes: Material Driven Design DIY (Rognoli et al., 2015; Duarte Poblete et al., 2022), which emphasises the self-production of materials; Material Driven Design for Sustainability (Bak-Andersen, 2018), centred on biodegradable materials; and Material Driven Textile Design Methodology (Ribul et al., 2021), which explores the chemical recycling of textile waste.

3 – This group includes: Design Driven Material Innovation (Ferrara and Lecce, 2016), which integrates scenario-making and supply chain interaction; Design Driven Development of Materials (Härkäsalmi et al., 2017), based on iterative prototyping; Material Sense-making Process (Ninimäki et al., 2018), which adopts a speculative approach inspired by new materialism; Design Driven Material Innovation (Tubito et al., 2019), focused on design thinking for existing materials; and The Unique Design Method (Ferraro, 2023), which proposes a framework for emerging materials.

Noemi Emidi

Dottoranda in Gestione, Produzione e Design, Dipartimento di Architettura e Design (DAD), Politecnico di Torino. noemi.emidi@polito.it

Beatrice Lerma

Professoressa Associata, Dipartimento di Architettura e Design (DAD), Politecnico di Torino. beatrice.lerma@polito.it

Asimmetrie informative in economia circolare

01. Olga Kovalski, 2024

Information Asymmetries in the Circular Economy In digital spaces, communication about circularity is influenced by dynamics of cultural dominance and polarisation. This study analyses textual and visual traces on two case studies of digital platforms to understand the dynamics of collective circular memory. Through methods of Digital Design such as Data Visualization and Vanity Metrics, critical issues such as interpretative homogeneity on Wikipedia and the dominance of a few entries on Instagram emerge. The absence of diversified cultural representations limits the dissemination of structured and inclusive knowledge. The study emphasises the need for interdisciplinary and participatory communication models, highlighting spaces for project intervention to counter circular disinformation phenomena.*

Negli spazi digitali, la comunicazione sulla circolarità è influenzata da dinamiche di dominanza culturale e polarizzazioni. Questo studio analizza tracce testuali e visive su due piattaforme digitali quali casi studio per comprendere le dinamiche della memoria circolare collettiva. Attraverso l’uso di metodi di Digital Design tra cui Data Visualization e Metriche di Vanità, emergono criticità quali l’omogeneità interpretativa su Wikipedia e il dominio di poche voci su Instagram. L’assenza di rappresentazioni culturali diversificate limita la diffusione di una conoscenza strutturata e inclusiva. Lo studio sottolinea la necessità di modelli di comunicazione interdisciplinari e partecipativi, evidenziando spazi d’intervento progettuale per contrastare fenomeni di disinformazione circolare.*

Un’investigazione di design nelle reti sociali digitali

Introduzione: Disinformazioni comunicative sulla circolarità

Il Circularity Gap Report (Circle Economy Foundation, 2024) registra un abbassamento del 21% della quota di rigenerazione materica globale avvenuta negli ultimi cinque anni, mentre l’uso di risorse continua a crescere, con un incremento previsto del 60% per il 2060 (OECD, 2019) (img. 02). Per invertire il sistema dissipativo attuale, l’Europa ha intrapreso un percorso di transizione verso l’applicazione dei principi rigenerativi dell’Economia Circolare (da qui EC) (Commissione Europea, 2020). Nonostante l’urgenza del cambiamento, emergono prospettive divergenti nelle analisi sulle posizioni teoriche e strategiche dell’EC con quadri concettuali confusi e incoerenti (Friant et al., 2020), cosicché ne risultano interpretazioni e comunicazioni ambigue e squilibrate, come dimostrato da fenomeni come il Circular Washing (Circle Economy Foundation, 2024). Sebbene siano state introdotte iniziative normative e tecniche per gestire l’informazione relativa alla circolarità e contrastare la disinformazione – ad esempio, il Codice di Condotta sulla disinformazione (Commissione Europea, 2018) e proposte future come la direttiva Green Claims (Commissione Europea, 2023) – l’Europa è ancora distante dal raggiungere una comunicazione trasparente e coerente al riguardo. Nell’ambiente digitale, dove la memoria collettiva è costruita, stratificata, preservata e amplificata (Marzo e Quarta, 2023), le conoscenze sull’EC appaiono oggi frammentate attraverso tracce informative e narrative eterogenee.

KEYWORDS: ECONOMIA CIRCOLARE; ANALISI SOCIAL NETWORK; ANALISI E VISUALIZZAZIONE DATI | CIRCULAR ECONOMY; SOCIAL NETWORK ANALYSIS; DATA VISUALIZATION AND ANALYSIS

Questo articolo, parte di una ricerca di dottorato in design focalizzata sullo studio della circolarità dei materiali, esplora il modo in cui le comunicazioni negli ambienti digitali contribuiscano a evolvere le conoscenze sull’EC e sulla circolarità delle risorse. Attraverso l’analisi comparata di piattaforme digitali eterogenee, la ricerca mette in luce criticità comunicative quali la frammentazione, la convergenza prospettica narrativa, le asimmetrie informative e la polarizzazione delle voci. L’indagine si concentra su trac-

ce visivo-verbali e verbali-narrative, caratterizzanti le reti informative dinamiche dei due ambienti digitali. Il lavoro adotta un approccio qualitativo basato sul Digital Design, una metodologia per la ricerca sociale e l’analisi critica di media digitali intesi come spazi di osservazione dei dibattiti pubblici e delle tendenze emergenti (Rogers, 2018). L’analisi delle tracce digitali attraverso il doppio confronto tra piattaforme strutturalmente diverse mira a decostruire le narrazioni dominanti sulla circolarità, individuare possibili leve progettuali per il miglioramento della comunicazione narrativa digitale attuale e proporre strategie per contrastare la disinformazione, come nel caso del Circular Washing

Metodologia

L’approccio metodologico adottato è strutturato come segue (img. 03):

1. È creata una collezione di dati basati su parole chiave generali e/o specifiche, quali filtri di ricerca;

03. Quadro metodologico per l’analisi delle piattaforme di Wikipedia e Instagram | Methodological framework for the analysis of Wikipedia and Instagram platforms. N. Emidi

2. È interrogata la piattaforma, circoscrivendo un breve periodo temporale;

3. Viene eseguita una pre-analisi dei dati per affinare la ricerca, isolando i risultati più rilevanti;

4. Sono usate metriche e metodi Digital Design per analizzare l’argomento d’indagine nello spazio digitale; 5. I dati emersi sono interpretati e contestualizzati. I concetti di EC e di circolarità delle risorse costituiscono un argomento molto discusso attorno a cui nascono discorsi plurali con teorie e comunicazioni controverse (Kirchherr et al., 2017; Friant et al., 2020). Per evidenziare tali dinamiche, si è scelto di esplorare ambienti digitali eterogenei, non confrontando spazi comunicativi omologhi ma complementari, al fine di cogliere differenti modalità di costruzione e diffusione della conoscenza. A tal fine, sono state selezionate due piattaforme digitali, quali campioni studio, accomunate sia da un’ampia accessibilità e da una partecipazione collaborativa o distribuita nei processi di generazione dei contenuti sia da criticità con-

02. Analisi dei flussi materici attuali (grezzi e riciclati), in ambito europeo | Current raw and recycled material flows analysis within European counties. N. Emidi

nesse alla disinformazione e alla distorsione narrativa (Rogers, 2021, p. 3; Gottschalk et al., 2017). In particolare: – Wikipedia (da qui P1): enciclopedia online a contributo collaborativo, soggetta a processi di revisione da parte di esperti, con funzione archivistica e documentale della memoria collettiva. P1 rappresenta una fonte credibile, basata sulla neutralità e libertà dei contenuti frutto d’interazione civile e regolati da standard di nomenclatura, attribuzione e imparzialità dell’informazione. La costruzione del contenuto su P1 è fortemente legata alla lingua e alla cultura d’origine delle versioni locali, e studi come quello di Gottschalk et al. (2017) evidenziano come diverse culture linguistiche abbiano influenzato in passato il taglio narrativo e contestuale attraverso cui vi è riportata l’informazione. Il tema scelto per P1 è l’EC, poiché la piattaforma consente di esplorare in modo comparato e multilingue la sua interpretazione culturale e visiva; inoltre, l’argomento è circoscritto e già definito da numerosi studiosi (Kirchher et al., 2017). L’analisi si è concentrata sulle ricorrenze visivo-verbali, suddividendo i risultati in cluster tematici, comparando le strategie rappresentative delle versioni linguistiche aggiornate ad aprile 2023. Il programma Wikipedia Cross-Lingual Image Analysis ne ha supportato il confronto trasversale tra edizioni; – Instagram (P2): piattaforma visuale e partecipativa con produzione asincrona e paritaria di contenuti validati intrinsecamente sul livello di engagement, svolge una funzione performativo-narrativa tipica della cultura visiva contemporanea. Già oggetto di studi estetici e della cultura visiva (Rogers, 2021), nell’ultimo decennio P2 si è configurata come piattaforma social di rilevanza crescente per la diffusione di conoscenze tra stakeholder paritetici. Il tema indagato su P2 è la circolarità delle risorse, declinato quale fenomeno pragmatico dell’EC. L’argomento è stato circoscritto tramite un set di

keywords derivate dalla triangolazione bibliografica1 (tra cui circular e material) (img. 02) per una query di ricerca mirata. A differenza di P1, la fruizione dei contenuti su P2 è translinguistica, fortemente basata su immediatezza iconografica e hashtag internazionali, spesso in lingua inglese. Al posto della lingua come parametro di analisi, i dati raccolti tramite CrowdTangle (uno strumento per il monitoraggio delle attività social) sono stati circoscritti quantitativamente attraverso le Metriche di Vanità2 (MdV) così da identificare le principali polarizzazioni tematiche e semantiche.

Infine, attraverso la visualizzazione dei dati emersi si è supportato il confronto qualitativo e quantitativo delle due piattaforme, così da individuare spazi di intervento progettuale (Thackara, 2005, p. 132).

Risultati

Su P1 sono state identificate in totale 45 edizioni linguistiche, tra le 326 attive al 2023, che trattano il tema dell’EC. Tuttavia, il 60% di esse è stato escluso dall’analisi in quanto privo di contenuti iconografici a corredo del testo. L’indagine si è quindi concentrata sulle rimanenti 19 versioni, in cui si sono rilevati 61 elementi visivi complessivi. L’apparato visivo ha evidenziato interconnessioni tra lingue e ricorrenze rappresentative. Tra questi, 17 immagini compaiono una

La memoria digitale sull’economia circolare come spazio di negoziazione e costruzione collettiva

volta sola, mentre cinque risultano ricorrenti in più pagine di lingue diverse. Attraverso la clusterizzazione di tali immagini (imgg. 04-05) è stato possibile evidenziare ricorrenze visive trasversali, da cui emergono tre principali generalizzazioni rappresentative del concetto di EC (img. 06). La ricorrenza

04. Analisi delle tracce visivo-verbali cross-linguistiche divise per cluster | Analysis of cross-linguistic visualverbal traces divided by clusters. N. Emidi

05. Analisi delle tracce visivo-verbali cross-linguistiche delle immagini più ricorrenti nelle pagine Wikipedia consultate | Analysis of the cross-linguistic visual-verbal traces of the most recurrent images in the Wikipedia pages consulted. N. Emidi, B. Lerma

è mostrata nella classificazione in cluster visivi (img. 05), che hanno consentito l’analisi delle tipologie rappresentative usate con maggior frequenza – da cui emerge che il concetto di EC è visivamente narrato secondo tre principali generalizzazioni (img. 06).

La comunicazione circolare è

frammentata, convergente e soggetta a polarizzazioni

L’analisi condotta su P2 evidenzia un’evoluzione disomogenea dell’engagement (img. 07), con un’evidente concentrazione attorno a pochi profili dominanti. L’ampio dataset iniziale, costituito da 19.463 profili-autori, è stato rielaborato in accordo alle due MdV considerate, adottate come parametri di codifica di popolarità: il numero totale di likes e di commenti.

Nella matrice in immagine 08, è evidente una distribuzione asimmetrica dei profili leader nello scenario considerato, con alcuni profili dominanti che catalizzano la visibilità e l’influenza di diffusione, cresciuta visibilmente nel 2022 (img. 07). In media, i valori record nel 2021 sono superiori rispetto agli indicatori MdV considerati. I picchi massimi raggiunti sono stati rispettivamente di 1.059mila likes del singolo autore (sommatoria dei likes ottenuti annualmente) e oltre novemila commenti (img. 08), mentre un solo profilo è emerso con un buon equilibrio tra le due MdV nel 2020.

Convergenze prospettiche e culturali

Le tracce semantiche visive raccolte su P1 presentano omologazioni cross-culturali rispetto al sistema di segni visivi usati nella rappresentazione della conoscenza sull’EC estraniato della sua complessità intrinseca. Le immagini più diffuse (de-

06. Descrizione delle rappresentazioni visive maggiormente ricorrenti nelle pagine di Wikipedia analizzate | Description of the most recurrent visual representations in the Wikipedia pages analysed. N. Emidi

07. Somma dei feedback di apprezzamento e coinvolgimento dei contenuti digitali postati su Instagram per anno | Summary of feedback analysis regarding posts’ appreciation and involvement on Instagram per year. N. Emidi

scritte in immagine 06) includono schemi semplificati, spesso in lingua inglese, anche all’interno di edizioni non anglofone –ad esempio il diagramma make, use, dispose, reuse compare in 14 pagine su 19. Inoltre, la presenza di intere famiglie di lingue aggregate - tra cui quella africana, dove l’intero continente viene rappresentato senza distinzioni dei diversi sottogruppi etnici a esclusione dello swahili – ne amplifica la convergenza comunicativa. La scarsa presenza di immagini nel 60% delle pagine identificate suggerisce una debole inclusività delle prospettive culturali locali. P1 non presenta una ripartizione uniforme dei contenuti tra lingue (dato il diverso grado di sviluppo delle versioni), risulta quindi influenzata da assetti culturali e geografici non bilanciati (Gottschalk et al., 2017, p. 2). Questo fenomeno si traduce in una memoria digitale frammentata e dominata da narrazioni eurocentriche (Gottschalk et al., 2017). L’analisi dell’influenza trasversale della lingua inglese richiede una più profonda sistematizzazione dei dati anche ampliando quantitativamente il numero dei campioni indagati.

Circolarità polarizzata

Su P2 una profilazione selettiva dei profili più popolari (img. 09) tramite la raccolta di ulteriori informazioni per ciascun post – includenti copy, hashtag, identificativo, informazioni sul copyright, dati dell’immagine, url, usertag – ha evidenziato una provenienza eterogenea degli attori (istituzioni, aziende, influencer) così come varie strategie comunicative impiegate. In base ai diversi obiettivi di engagement, i profili più popolari, estremamente ridotti rispetto agli oltre 19mila identificati dalla query, hanno adottato strategie quali uso di dati affidabili, call-to-action, storytelling, esempi concreti e coinvolgimento di partner. L’engagement generale è elevato ma frammentario, guidato più dalla viralità del contenuto (con argomenti borderline o non pertinenti al tema) che dalla qualità informativa e dall’effettiva pertinenza alla circolarità delle risorse materiche. Post pertinenti come quello di @Natgeo (2021) e @Lamborghini (2020), ottengono meno visibilità rispetto al

benchmark (img. 09). La polarizzazione del discorso attorno a pochi utenti dominanti e l’uso di MdV come indicatori primari evidenzia una superficialità narrativa (come nel caso di contest e viaggi spaziali) e una lacuna nella pluralità prospettica sul tema indagato.

Tracce visive e interpretative quali opportunità per interventi progettuali contro il Circular Washing e la disinformazione

Conclusioni

Attraverso un approccio misto basato sui metodi del Digital Design, la ricerca rappresenta uno scorcio originale della cornice contemporanea delle tracce digitali sulla circolari-

08. Matrice di coinvolgimento dei profili-autori raccolti basata su Metriche di Vanità | Engagement matrix of collected author-profiles based on Vanity Metrics. N. Emidi

09. Analisi dei profili dominanti e della rilevanza del contenuto dei loro post pubblicati | Analysis of dominant profiles and the relevance of the content of their published post. N. Emidi

tà, quale spazio di negoziazione e costruzione della memoria storica e conoscenza collettiva sull’EC. L’analisi evidenzia pattern informativi, ricorrenze iconografiche e variazioni interpretative quali segnali critici in due ambienti digitali distinti, ovvero P1 (contenuto sottoposto a revisione collaborativa gerarchizzata) e P2 (contenuto paritario a bassa moderazione). Le complesse interazioni e gli scambi tra comunità nelle reti digitali consentono il dialogo, l’incontro e la collaborazione tra stakeholder abilitandoli a risolvere problemi complessi (Thackara, 2005). Tuttavia, per funzionare queste reti hanno bisogno di infrastrutture di supporto adeguate. In accordo con Thackara (2005, p. 132), un’attenta analisi delle comunicazioni delle reti e la progettazione di infrastrutture di collegamento tra esse può supportarne l’efficienza nel trasferimento di informazioni. I dati emersi suggeriscono la necessità

di ampliare gli strumenti di indagine nel campo del design verso tre principali direzioni progettuali che favoriscano una diffusione affidabile e dinamica informazioni sulla circolarità:

– Maggiore inclusività visivo-culturale, attraverso: una presenza etnicamente rappresentativa e diversificata, anche negli elementi iconografici; una maggiore apertura critica di pensiero e voci per la riduzione dell’omogeneità interpretativa e la preservazione di saperi e pratiche locali circolari; lo sviluppo di modelli di interazione digitale che favoriscano una pluralità di voci e un bilanciamento tra gli stakeholder partecipanti;

– Uso di strumenti analitici tra cui: progettazione di modelli interattivi sperimentali per analizzare le tracce semiotiche ed espressive; metriche che garantiscano alta qualità informativa; creazione di linee guida comunicative e framework visivo-testuali coinvolgenti, affidabili e interdisciplinari che permettano di rappresentare equamente la circolarità e le sue peculiarità autoctone; – Monitoraggio qualitativo delle tracce digitali e dei flussi di informazione mediante metriche critiche, basate anche sulla pertinenza, per contrastare strategie di disinformazione come quella del Circular Washing

Per lo sviluppo della ricerca, rispetto a P1 si propone di espandere il campione linguistico nel biennio 2024-2025, mappando e valutandone la progressione delle edizioni e verificando la presenza di contenuti non influenzati dalla provenienza geografica di origine delle autrici della ricerca. Per P2, si suggerisce di includere metriche atte a misurare qualitativamente dei flussi informativi (Rogers, 2018, p. 6) unitamente alla profilazione approfondita di gruppi target e in aggiunta all’uso di modelli di monitoraggio basati su tecnologie intelligenti.

La progettazione di un modello narrativo e informativo di qualità, che risulti responsabile e resistente alla disinformazione (anti-washing), deve considerare la caratterizzazione dello scenario attuale, permeato dalla centralizzazione in ambienti apparentemente collaborativi. Nonostante l’articolo fornisca un’analisi preliminare, i dati raccolti evidenziano

delle fragilità non risolte nell’attuale produzione e diffusione della conoscenza sulla circolarità. Tali fragilità aprono a nuovi spazi progettuali per: indagare ambiti di ricerca ibridi (ad esempio IA e inclusività comunicativa negli studi dei media), creare strumenti progettuali per valorizzare la comunicazione scientifica e istituzionale, facilitandone il trasferimento tecnologico ed esperienziale, e infine rendere il dibattito sulla circolarità più coerente e plurale.*

NOTE

1 – Le keywords elencate in immagine 02 sono state selezionate attraverso un processo di triangolazione bibliografica mirata all’identificazione delle principali aree di ricerca in Design coerenti con lo sviluppo di pratiche circolari nel contesto dello sviluppo materico. La sintesi delle parole scelte riflette la loro ricorrenza e rilevanza nella letteratura.

2 – Le Metriche di Vanità sono definite da Rogers (2018) quali indicatori di una popolarità effimera che non rappresentano il successo individuale ma offrono spunti d’interesse su comportamento e apprezzamento degli utenti e da cui partire per interpretare tracce e pattern del dibattito digitale con maggiore qualità.

REFERENCES

– Circle Economy Foundation (2024). The Circularity Gap Report 2024 (online). In circularity-gap.world/2024 (ultima consultazione marzo 2025).  –Commissione Europea (2018). Codice di buone pratiche sulla disinformazione (online). In digital-strategy.ec.europa.eu/it/policies/code-practice-disinformation (ultima consultazione marzo 2025).

– Commissione Europea (2020). Circular economy action plan (online). In environment. ec.europa.eu/strategy/circular-economy-action-plan_en (ultima consultazione marzo 2025).  –Commissione Europea (2023). EUR-LEX - 52023PC016 (online). In environment. ec.europa.eu/document/download/0514afe4-6b0e-43f0-9154-86972db19495_en (ultima consultazione giugno 2025).

– Friant, M., Vermeulen, W., Salomone, R. (2020). A typology of circular economy discourses: Navigating the diverse visions of a contested paradigm. Resources Conservation and Recycling, n. 161, 104917. doi.org/10.1016/j.resconrec.2020.104917 – Gottschalk, S., Demidova, E., Bernacchi, V. Rogers, R. (2017). Ongoing events in Wikipedia: A cross-lingual case study. In Tenernberg, J., et al. (a cura di), Proceedings of the 2017 ACM Conference. New York: Association for Computing Machinery, pp. 387-388.

– Kirchherr, J., Reike, D., Hekkert, M. (2017). Conceptualizing the circular economy: An analysis of 114 definitions. Resources, Conservation and Recycling, n. 127, pp. 221-232. doi. org/10.1016/j.resconrec.2017.09.005

– Marzo, U., Quarta, E. (2023). Lo spazio digitale: una prospettiva eterotopica della memoria nell’era di Byung-Chul Han. Echo, n. 5, pp. 139-145.

– OECD (2019). Global Material Resources Outlook to 2060 Paris: OECD Publishing, pp. 18-26.

– Rogers, R. (2018). Digital traces in context|Otherwise engaged: Social media from vanity metrics to critical analytics. International Journal of Communication, n. 12, pp. 1-23.

– Rogers, R. (2021). Visual media analysis for Instagram and other online platforms. Big Data & Society, n. 8, pp. 1-24.

– Thackara, J. (2005). In the Bubble. Designing in a Complex World. Cambridge: The MIT Press.

10. Ina Hoekstra, 2017

Introduction: Communicative

Misinformation on Circularity

According to the Circularity Gap Report (Circle Economy Foundation, 2024) there was a 21% decline in the global share of material regeneration over the past five years, while resource consumption is still rising, with a projected 60% increase by 2060 (OECD, 2019) (img. 02). In response to this unsustainable trajectory, Europe has embarked on a transition towards the implementation of regenerative principles of the Circular Economy (hereafter CE) (European Commission, 2020). Despite the urgency for change, diverging theoretical and strategic interpretations of CE persist, often resulting in fragmented and inconsistent frameworks (Friant et al., 2020). These inconsistencies produce ambiguous and unbalanced discourses, exemplified by phenomena such as Circular Washing (Circle Economy Foundation, 2024). Although regulatory and technical initiatives have been introduced to manage circularity-related information and contrast misinformation – such as the Code of Practice on Disinformation (European Commission, 2018) and forthcoming proposals like the Green Claims Directive (European Commission, 2023) – transparent and coherent communication remains a distant objective in the European context. Within the digital environment, where collective memory is constructed, layered, preserved, and amplified (Marzo and Quarta, 2023), knowledge about CE is currently fragmented across diverse narrative and informational traces. This article, part of doctoral research in Design focused on material circularity studies, explores how communication practices in digital environments contribute to the development and evolution of knowledge on CE and resource circularity. Through the comparative analysis of two heterogeneous digital platforms, the study highlights communicative challenges such as fragmentation, narrative convergence, informational asymmetries, and discursive polarisation. The investigation focuses on visual-verbal and narrative-verbal traces that characterise the informational dynamics of digital networks. The study adopts a qualitative approach grounded in Digital

Information Asymmetries in the Circular Economy

A Design Investigation in Digital Network Spaces

Design, a methodology for social research and critical media analysis that conceives digital environments as spaces for observing public debates and emergent trends (Rogers, 2018). By examining digital traces across two structurally distinct platforms, the analysis aims to deconstruct dominant narratives surrounding circularity, identify potential design drivers to enhance current digital storytelling practices, and propose strategies to counter disinformation strategies, such as Circular Washing.

Methodology

The methodological approach adopted in this study is structured as follows (img. 03):

1) Design the data collection process based on general and/or specific keywords used as search filters;

2) Query the digital platform, narrowing the time frame to a short, defined period;

3) Conduct a preliminary data analysis to refine the search and isolate the most relevant results;

4) Apply metrics and methods derived from Digital Design to analyse the research topic within the digital environment;

5) The resulting data were interpreted and contextualised.

The concepts of CE and resource circularity are widely debated topics, giving rise to plural and often contested discourses, both theoretical and communicative (Kirchherr et al., 2017; Friant et al., 2020). To highlight such dynamics, the research explores heterogeneous digital environments, not by comparing homologous communication spaces, but rather by examining complementary ones, in order to grasp different modalities of knowledge construction and dissemination. Two digital platforms were selected as case studies. They were chosen for their broad accessibility and their participatory or distributed modes of content generation, as well as for the communicative challenges they pose in terms of disinformation and narrative distortion (Rogers, 2021, p. 3; Gottschalk et al., 2017). Specifically:

Wikipedia (hereafter P1): A collaboratively edited online encyclopedia that operates through expert-reviewed contributions and serves as an archival and documentary repository of collective memory. P1 is recognised as a credible source based on the neutrality and openness of its content, which is shaped by civic interaction and regulated by specific standards for nomenclature, crediting, and information impartiality. Content construction on P1 is closely linked to the language and cultural background of each local edition. As Gottschalk et al. (2017) argued, linguistic and cultural differences can significantly influence the narrative framing and contextual representation of information. The topic selected for analysis in P1 is CE, as the platform enables a comparative, multilingual investigation of its cultural and visual interpretations; moreover, CE is a well-defined concept that has been extensively addressed in academic literature (Kirchherr et al., 2017). The analysis focused on recurring visual elements, organising the results into thematic clusters and comparing representational strategies across linguistic editions as updated in April 2023. The tool Wikipedia CrossLingual Image Analysis supported crossedition visual comparisons.

– Instagram (P2): A visual and participatory platform characterised by asynchronous, peer-level content production, where validation is intrinsically linked to levels of engagement. The platform serves a performative-narrative function typical of contemporary visual culture. Already used as subject of aesthetic and visual culture studies (Rogers, 2021), over the last decade, P2 has gained increasing relevance as a social media space for knowledge dissemination among peer stakeholders. The focus of the analysis on P2 is the notion of resource circularity, framed as a pragmatic manifestation of CE. The

topic was narrowed through a set of keywords derived from bibliographic triangulation1 (including “circular” and “material”) (img. 02), to support a targeted search query. Unlike P1, content consumption on P2 is translingual and primarily driven by visual immediacy and internationally shared hashtags, often in English. Instead of using language as an analytical parameter, data collected through CrowdTangle (a tool for social media monitoring) were quantitatively refined through the application of Vanity Metrics2 (VMs), in order to identify key thematic and semantic polarisations.

Finally, data visualisation was employed to support the qualitative and quantitative comparison of the two platforms, to identify potential areas for design-oriented intervention (Thackara, 2005, p. 132).

Results

On P1, a total of 45 language editions (out of 326 active in 2023) were identified as addressing the topic of CE. However, 60% of these pages were excluded from the analysis because they lacked accompanying visual content. The investigation thus focused on the remaining 19 editions, in which 61 visual elements were identified. The visual corpus revealed significant cross-linguistic and representational overlaps. Among these, 17 images appeared only once, while five were repeated across multiple language editions. Through the clustering of these images (imgg. 04-05), recurring visual patterns were identified, leading to the emergence of three predominant visual generalisations of CE (img. 06). This recurrence is illustrated through the classification of images into visual clusters (img. 05). These clusters enable the analysis of the most frequently used representational types, revealing that CE is visually narrated according to three principal generalisations (img. 06).

The analysis conducted on P2 highlights an uneven evolution of engagement (img. 07), with a clear concentration of visibility among a few dominant profiles. The initial dataset, comprising 19,463 user profiles, was refined based on the two selected VMs, which served as indicators of popularity: the total number of likes and comments. In the matrix shown in image 08, an asymmetrical distribution of leading profiles is evident, with a handful of actors concentrating visibility and influence — particularly marked by an upward trend in 2022 (img. 07). On average, peak values were recorded in 2021, exceeding all considered VM indicators. The highest figures reached were 1,059 thousand likes for a single author (annual sum) and over 9 thousand comments (img. 08), while only one profile stood out for maintaining a relatively balanced presence across both VMs in 2020.

Perspective and Cultural Convergences

The visual-semantic traces collected on P1 reveal cross-cultural standardisations in the visual sign systems used to represent knowledge about the Circular Economy (CE), often stripped of its intrinsic complexity. The most frequently occurring images (described in imgage 06) include simplified diagrams, of-

ten in English, even within non-Anglophone editions – for instance, the “make, use, dispose, reuse” diagram appears in 14 out of 19 analysed pages. Additionally, the presence of entire aggregated language families – such as the African group, where the entire continent is represented without distinguishing among its many ethnic subgroups, except for Swahili – amplifies communicative convergence. The lack of visual content in 60% of the identified pages suggests a limited inclusivity of local cultural perspectives. P1 does not exhibit uniform content distribution across languages (due to varying development levels of each version) and is therefore influenced by unbalanced cultural and geographic dynamics (Gottschalk et al., 2017, p. 2). This leads to a fragmented digital memory dominated by Eurocentric narratives (Gottschalk et al., 2017). Analysing the cross-linguistic influence of English demands more systematic data expansion, including a broader sample.

Polarised Circularity

On P2, a selective profiling of the most popular accounts (img. 09)—conducted through the collection of additional metadata such as captions, hashtags, user handles, copyright info, image data, URLs, and user tags—revealed the heterogeneous nature of the actors involved (institutions, companies, influencers), as well as the variety of communicative strategies they employed. Depending on their respective engagement goals, these highly visible but numerically limited profiles adopted techniques such as the use of credible data, calls to action, storytelling, concrete examples, and partnership involvement. Overall engagement was high but fragmented, driven more by content virality (including borderline or off-topic themes) than by informational quality or actual relevance to material resource circularity. Relevant posts, such as those by @Natgeo (2021) and @Lamborghini (2020), received less visibility than benchmark posts (img. 09). The concentration of discourse around a few dominant users and the use of Vanity Metrics (VMs) as primary indicators reveal a narrative superficiality (as in the case of contests or space travel) and a lack of perspectival diversity on the topic under investigation.

Conclusions

This study offers an original snapshot of the contemporary framework of digital traces on circularity as a space for the negotiation and construction of historical memory and collective knowledge about CE, using a mixed-method approach based on Digital Design methodologies. The analysis highlights informational patterns, iconographic recurrences, and interpretive variations as critical indicators within two distinct digital environments: P1 (hierarchically moderated collaborative content) and P2 (peer-generated content with low moderation). The complex interactions and exchanges within digital networks enable dialogue, encounters, and collaboration among stakeholders, empowering them to address complex challenges (Thackara, 2005, p. 131). However, to function effectively, such networks require appropriate infrastructural support. According to Thackara (2005, p. 132), an analysis of network communications and the design of

connective infrastructures can enhance the efficiency of information transfer.

The findings from this investigation indicate the need to expand exploratory tools in design research along three key directions that support the reliable and dynamic dissemination of circularity-related information:

– Greater visual-cultural inclusivity, through: ethnically representative and diverse iconography; broader critical openness to alternative voices and perspectives to reduce interpretive homogeneity and safeguard local circular knowledge and practices; the development of digital interaction models that promote a plurality of voices and balanced stakeholder participation;

Use of analytical tools, including: the design of experimental interactive models to analyse semiotic and expressive traces; metrics ensuring high informational quality; the creation of communicative guidelines and interdisciplinary visual-textual frameworks that are engaging, reliable, and capable of representing circularity and its indigenous nuances;

Qualitative monitoring of digital traces and information flows through critical, relevance-based metrics, to counteract disinformation strategies such as Circular Washing.

For further research development, it is proposed that the linguistic sample for P1 be expanded in 2024-2025, mapping the evolution of editions and verifying the presence of content less influenced by the geographic background of the study’s authors. For P2, it is recommended to incorporate metrics that qualitatively measure information flows (Rogers, 2018, p. 6), alongside deeper profiling of target groups and the use of intelligent monitoring technologies.

Designing a high-quality narrative and informational model that is both responsible for and resilient to disinformation (anti-washing) requires a clear understanding of the current scenario, marked by centralisation within seemingly collaborative environments. Although this article provides a preliminary analysis, the data collected underscore unresolved fragilities in how knowledge of circularity is currently produced and disseminated. These gaps open up new design spaces to: explore hybrid research areas (e.g., AI and communicative inclusivity in media studies); develop tools that enhance scientific and institutional communication, facilitating experiential and technological transfer; develop a more coherent and plural discourse on circularity.*

NOTES

1 – The list of keywords in image 02 were selected throughout a bibliographical triangulation with the aim of identify principal areas of Design research congruent with the circular practice’s development within the material development context. The selected keywords reflect their occurrence and relevance in the literature.

2 – According to Rogers (2018) the Vanity metrics are ephemeral popularity indicators whose don’t represent the individual success. However, they offer interesting insights into users’ behavioural and appreciation pattern from which interpreting with higher quality both traces and trend within the digital debate.

Partner BSD design e Professore associato, Design, Università Uninettuno. alessandro.pollini@bsdesign.eu

Il progetto delle transizioni nell’eXtended Reality

01. Il formatore prova l’applicazione VR durante la progettazione della formazione | Trainer tests VR application during training design. A. Pollini, M. Zannoni

Designing for XR Transitions Investments in advanced technological, ecological, and entrepreneurial skills of the European workforce are essential for the green and digital twin transitions. Advanced Manufacturing Technologies (AMT) and the Deep Tech approach, which integrates science, engineering, and technological disciplines, are key to market innovation. In this context, training through eXtended Reality (XR) represents an innovative resource, combining AR and VR to create holistic learning experiences. The research explores the use of XR for training in industrial environments, focusing on robot programming and CNC machines, and proposes a transmedia learning process between the physical and digital worlds. Preliminary results, obtained through field experimentation, highlight significant benefits in terms of training effectiveness, learning speed, and resilience, suggesting the adoption of XR technologies to improve safety and efficiency.*

Gli investimenti nelle competenze tecnologiche avanzate, ecologiche e imprenditoriali della forza lavoro europea sono essenziali per le transizioni gemelle verdi e digitali. Le tecnologie di Advanced Manufacturing (AMT) e l’approccio Deep Tech, che integra scienza, ingegneria e discipline tecnologiche, sono fondamentali per l’innovazione del mercato. In tale contesto, la formazione mediante Realtà Estesa (XR) rappresenta una risorsa innovativa, combinando AR e VR per creare esperienze di apprendimento olistiche. La ricerca esplora l’uso di XR per la formazione in ambienti industriali, con un focus sulla programmazione di robot e macchine CNC, e propone un processo di apprendimento transmediale tra il fisico e il digitale. I risultati preliminari, ottenuti tramite esperimentazione sul campo, evidenziano benefici significativi in termini di efficacia formativa, velocità di apprendimento e resilienza, suggerendo l’adozione di tecnologie XR per migliorare la sicurezza e l’efficienza.*

La formazione per l’industria manifatturiera

Introduzione

Gli investimenti dell’industria europea nelle competenze tecnologiche avanzate, nelle capacità di resilienza, nelle competenze imprenditoriali della forza lavoro, degli operatori e dei formatori rappresentano un elemento fondamentale per le transizioni gemelle inclusive, sia verdi che digitali. In questo contesto, le Advanced Manufacturing Technologies (AMT) giocano un ruolo cruciale, poiché influenzano significativamente le prestazioni umane attraverso sistemi automatizzati complessi, focalizzandosi sulla molteplicità di fattori, competenze e situazioni che caratterizzano gli scenari moderni di interazione uomo-macchina nell’era della Deep Tech, che si fonda sulla convergenza tra scienza avanzata, ingegneria, design, e tecnologia (Fast-Berglund et al., 2018).

Le tecnologie di Advanced Manufacturing e l’approccio Deep Tech, che integra scienza, ingegneria e discipline tecnologiche, sono fondamentali per l’innovazione del mercato. In tale contesto, la formazione mediante Realtà Estesa (XR) rappresenta una risorsa innovativa, combinando AR e VR per creare esperienze di apprendimento olistiche. La ricerca esplora l’uso di XR per la formazione in ambienti industriali, con un focus sulla programmazione di robot e macchine CNC, e propone un processo di apprendimento transmediale tra il fisico e il digitale.

KEYWORDS: REALTÀ ESTESA, INTERAZIONE, INDUSTRIA | EXTENDED REALITY, INTERACTION, INDUSTRY

I progettisti della formazione, a loro volta, devono adottare una prospettiva olistica e multidisciplinare alla progettazione dell’esperienza che integri fattori psicologici, sociali, organizzativi, ecologici e tecnologici (Hassenzhal, 2010). L’innovazione della Realtà Estesa e del Metaverso Industriale (XR/IM), quale spazio virtuale persistente e interconnesso che replica ambienti e processi fisici industriali per simulazioni, collaborazione remota, ottimizzazione della produzione e manutenzione predittiva, si concentra quindi su due aspetti cruciali: cosa produciamo e come lo produciamo, e sulle opportunità, ostacoli e limiti che esse implicano (Doolani et al., 2020; Dall’Osso et al., 2022).

Questa capacità di favorire l’emergere di nuovi prodotti, processi industriali, modelli di business e, sopratutto, una forza lavoro qualificata, resiliente e creativa (Romero, Stahre, 2021) è essenziale per garantire transizioni industriali di successo e sostenere la competitività dell’industria. Il focus della ricerca riguarda la natura distribuita e dislocata della conoscenza nel contesto dell’automazione industriale (Bagnara, 1990) e come l’eXtended Reality (XR) impatta nell’ottimizzare il grado di coerenza tra le tecnologie dell’informazione, i sistemi della formazione e la gestione dell’organizzazione. In particolare, questa design research presenta e discute il panorama della Realtà Estesa come ponte tra il mondo fisico e mondo digitale. In particolare, si presenta una strategia di creazione di tracce materiali e immateriali, quali marcatori fisici e sovrapposizioni di contenuto in Realtà Aumentata (AR), e come queste arricchiscono la percezione dell’utente, i percorsi di formazione e la pratica quotidiana di lavoro (Peruzzini et al. 2023).

Stato dell’arte della XR nella formazione in ambito industriale

Il reclutamento e la formazione dei lavoratori, come pure il disimpegno crescente degli stessi in percorsi di crescita, rappresentano alcune tra le principali sfide che l’industria manifatturiera deve affrontare. Infatti gli operatori macchina più esperti faticano ad adattarsi ai cambiamenti dovuti all’automazione crescente, e gli operatori novizi necessitano di una formazione coinvolgente e interattiva, che possa sviluppare competenze efficaci (Hurkmans, Rajagopal, 2020; Pavlou et al., 2021).

Le tracce materiali e immateriali progettate in questa ricerca supportano l’acquisizione e verifica delle conoscenze attraverso l’apprendimento immersivo (AR/VR), offrendo esperienze realistiche, sicure ed economiche, già sperimentate nella formazione industriale e aeronautica, anche legata al contesto della sicurezza in industria (Dalladaku et al., 2020; Ommerli et al., 2019; Dodoo et al. 2025).

02. Cella Modulare Robotica, RPC Piegatrici | Modular Robotic Cell, RPC Piegatrici. RPC

La formazione XR fornisce prestazioni equivalenti o superiori ai metodi tradizionali, con notevoli benefici in sicurezza e costi (Milgram, Kishino, 1994; Sheets, Elmore, 2018; Lawrynczyk, 2018), e flessibilità delle modifiche (FastBerglund et al., 2018). Studi relativi alle tecnologie XR per migliorare l’interazione uomo-macchina (HMI) e la collaborazione uomo-robot in ambito industriale mostrano la facilitazione della comunicazione e la programmazione intuitiva tra i principali benefici (Karpichev et al. 2024).

L’XR inoltre, immergendo l’utente in ambienti reali, facilita un migliore apprendimento e lo sviluppo della memoria muscolare, consentendo di simulare scenari pericolosi o inesistenti (Fast-Berglund et al., 2018).

Nonostante i vantaggi, sfide quali la necessità di ulteriori sviluppi tecnologici per sfruttare appieno le capacità dei dispositivi XR rimangono oggetto di ricerca (Ommerli et al. , 2019).

Obiettivi e metodi

La ricerca si concentra sulla continuità dell’esperienza tra il fisico, il virtuale e il digitale nell’ambito della formazione in realtà estesa (XR). Si sviluppa un processo iterativo che parte dal contesto lavorativo e si estende nella realtà aumentata, dove vengono definiti punti di interesse fisici per veicolare contenuti multimediali e facilitare la guida di prossimità. Successivamente, si transita alla realtà virtuale, offrendo esperienze immersive e riflessive in VR, con un ritorno alla realtà per l’approccio per tentativi ed errori sull’apparato fisico. Questo processo mira a costruire un ecosistema di formazione che integri ambienti fisici e virtuali, con un forte supporto sul campo, situazionale e contestualizzato. Lo scopo ultimo è migliorare la resilienza, la sicurezza e l’efficienza, riducendo i costi e aumentando la visibilità dei processi nelle linee di produzione.

La ricerca ha un carattere esplorativo e vede nella sperimentazione e validazione dei programmi di formazione in XR in contesti industriali un elemento essenziale per consentire l’evoluzione dei sistemi, la loro revisione critica e garantire l’efficacia e la sicurezza degli stessi. La metodologia proposta si articola nelle seguenti fasi:

– Verifica che il contenuto di formazione XR rispecchi accuratamente compiti e scenari del mondo reale; – Allineamento degli obiettivi formativi con gli obiettivi organizzativi e gli standard di performance; – Revisione delle caratteristiche di efficacia delle tecnologie e dell’accuratezza del contenuto formativo.

La valutazione di carattere qualitativo proposta nella ricerca ha consentito anche di esaminare l’esperienza complessiva dell’utente, comprese le dinamiche di navigazione del sistema, le modalità di interazione tramite le interfacce XR e il livello di immersione.

Contesto della ricerca

Nel contesto della formazione industriale, la ricerca si concentra nella formazione per la programmazione di una cella robotica per la piegatura dei metalli. In questo scena-

Contenuti di formazione permanenti nelle transizioni lungo il continuum reale-virtuale

rio, l’analisi e la user research sono state condotte presso un’azienda produttrice di macchine e sistemi per la piegatura (img. 02).

La formazione in questo scenario si articola in due fasi principali: la programmazione di una macchina a controllo numerico (CNC) e la programmazione di un robot collaborativo. Nella fase di programmazione CNC, il trainer mostra come interagire con l’interfaccia della macchina

e introduce i principali compiti, come la programmazione manuale, la programmazione 2D basata su progetti e la programmazione 3D per creare programmi di lavoro direttamente da disegni importati (img. 03).

La sessione coinvolge un trainer e due operatori macchina in esercizi pratici e sessioni di problem-solving. I compiti di programmazione vengono prima mostrati dal formatore e poi affrontati autonomamente dai partecipanti. Per quanto riguarda la programmazione del robot, il formatore introduce una guida passo-passo per l’utilizzo del robot e dei suoi accessori, seguita da esercizi pratici.

Tecnologia appagante, utile e usabile, in grado di supportare l’emergere di esperienze di valore

Questa formazione basata su esperienze pratiche, piuttosto che su approcci teorici, favorisce un apprendimento più rapido e una comprensione più profonda dei processi industriali, preparando i lavoratori a rispondere efficacemente alle sfide del contesto produttivo avanzato.

Scenari di training e uso della realtà estesa

La visione di design research sviluppata nel progetto si concentra sulla continuità dell’esperienza tra il mondo fisico, virtuale e digitale, implementando uno scambio iterativo e incrementale che permette una transizione fluida e dinamica dell’esperienza di acquisizione della conoscenza tra questi mondi. Le tracce immateriali, multimediali e transmediali prodotte sono rese accessibili in Realtà Aumentata (AR) e Realtà Virtuale (VR), creando un flusso di apprendimento continuo e interconnesso (Pollini et al. , 2024).

Il primo passaggio di questo flusso avviene nel contesto lavorativo, dove i punti fisici di interesse sono stati definiti per veicolare contenuti formativi multimediali. L’AR ha giocato un ruolo cruciale, permettendo di sovrapporre informazioni digitali agli elementi fisici del mondo reale, e facilitando la comprensione e l’interazione con il contenuto attraverso una guida contestualizzata e di prossimità. L’operatore ha realizzato contenuti multimediali e visuali sulla cella robotica in preparazione alla formazione sul posto.

Il passo successivo è il passaggio dall’AR alla VR, che offre un’opportunità di formazione immersiva e riflessiva. I discenti sono entrati nello scenario virtuale della cella robotizzata, sperimentando situazioni che simulano l’ambiente di lavoro, ma in un contesto più sicuro e controllato. In VR gli operatori macchina hanno potuto affrontare scenari complessi e fare esperienza pratica della macchina senza rischi, recuperando i contenuti della formazione per un approfondimento basato sulle tracce di conoscenza sedimentate nel modello 3D. Questo processo è fondamentale per sviluppare competenze tramite trial and error, che poi potrà essere trasferito e testato nel mondo fisico (img. 04).

Tornati in prossimità della macchina, gli operatori hanno potuto accedere a tracce di contenuti transmediali integrati nel contesto lavorativo fisico tramite i markers , applicando quanto appreso negli scenari simulati. Il ritorno all’ambiente reale ha consentito di risolvere problemi pratici, migliorando il processo di apprendimento attraverso la sperimentazione diretta sul macchinario o nel proprio posto di lavoro.

Infine, il flusso di esperienza di apprendimento si è spostato nuovamente dall’ambiente fisico a quello digitale, dove il workspace virtuale supporta il recupero di tracce transmediali di conoscenza condivisa in un conte -

03. Sessione di training: ricerca utente e osservazione sul campo | Training session: user research and field observation. A. Pollini, M. Zannoni

sto di comunità di pratiche, quale quello degli operatori macchina. In quest’ambito digitale, gli operatori macchina, facendo riferimento alle tracce di conoscenza, possono accedere a risorse condivise, contenuti interattivi e strumenti di supporto personalizzati che possono essere utilizzati per un apprendimento continuo e collaborativo, anche al di fuori dell’ambiente fisico di lavoro.

Sperimentazione sul campo e valutazione qualitativa

La tecnologia di XR è stata esplorata in una sperimentazione pilota presso RPC Piegatrici, durante una sessione di formazione in azienda, alla quale sono stati coinvoli partecipanti senza conoscenze dirette sul funzionamento delle macchine. L’attività ha avuto inizio con la familiarizzazione con le tecnologie e la progettazione della formazione in XR (img. 01). Durante la prima fase, è stato configurato il toolkit di XR, che includeva dispositivi come smartphone, tablet e occhiali da registrazione. Dopo un’introduzione al progetto e alla app autoriale per la progettazione del training, i tirocinanti hanno ricevuto gli smartphone e hanno iniziato ad utilizzare l’app mobile di AR per registrare video e foto mentre la formazione aveva luogo e ciascuno sperimentava i compiti di programmazione della cella roborica, sostituendo rapidamente i vecchi metodi di annotazione (img. 05). Un prototipo di occhiali da registrazione, connessi via Bluetooth agli smartphone, ha permesso ai tirocinanti di documentare le operazioni in modo handsfree, con l’upload automatico dei video. Successivamente, è stata testata l’applicazione in realtà virtuale (VR) per la gestione delle note, raccogliendo feedback sul design e la navigabilità (img. 06). Nella fase successiva, gli operatori hanno continuato la formazione, usando la mobile app di AR per visualizzare note e registrare richieste in contenuti asincrono per richiedere assistenza remota al trainer. La mobile app di AR è stata infine presentata ai principali stakeholder per esplorare possibili integrazioni nel loro servizio e modello di business.

Proxima: Ecosistema degli applicativi
Proxima: Applications
A. Pollini, M. Zannoni

La valutazione qualitativa successiva alla sperimentazione sul campo ha denotato che i partecipanti hanno espresso una preferenza per la manipolazione delle note in un ambiente AR piuttosto che VR. Il trainer ha suggerito un’app AR unica che gestisca tutti gli aspetti, escludendo la VR. Durante la presentazione, i partecipanti hanno suggerito di

La ricerca di design deve promuovere azioni finalizzate alla promozione di un invecchiamento attivo

aggiungere descrizioni sotto i QR code per semplificare il riconoscimento e di permettere la riduzione della risoluzione per video lunghi, a causa di problemi di connessione. In particolare i partecipanti alla formazione erano due giovani con esperienza limitata nella piegatura della lamiera: il primo aveva un anno di esperienza su una macchina manuale e non aveva mai utilizzato un sistema di piegatura assistita da robot; il secondo era tester in un’azienda di altro settore, non aveva esperienza né con la piegatura manuale né con

quella robotica. Durante il corso, il partecipante più esperto non ha incontrato difficoltà significative, mentre l’altro ha mostrato lacune sia nella comprensione della macchina che nel funzionamento del robot. Tuttavia, entrambi hanno appreso rapidamente, riuscendo, già dai primi giorni, a realizzare parti in autonomia, seppur con qualche difficoltà iniziale. Per monitorare il loro progresso, sono stati assegnati compiti di difficoltà crescente, partendo da operazioni semplici per poi passare a quelle più complesse. Solo quando i partecipanti completavano correttamente i compiti più facili, venivano loro affidati quelli più complessi. Durante la fase pratica, i partecipanti si sono supportati reciprocamente, intervenendo insieme per risolvere eventuali difficoltà. Inoltre, l’utilizzo della realtà aumentata, che consente di associare note specifiche ai punti della macchina, ha migliorato significativamente l’esperienza di apprendimento, rendendo più facile la comprensione dei concetti. La possibilità di caricare e condividere video e note ha permesso di mantenere traccia delle informazioni in modo organizzato e accessibile nel tempo, favorendo la creazione di un corpo di conoscenze utile per l’azienda.

of multimedia notes. A. Pollini, M. Zannoni

Conclusioni

Questa ricerca si è concentrata sulla possibilità di potenziare i lavoratori della produzione con il supporto della tecnologia XR, estendendo le loro capacità operative ad attività che attualmente richiedono competenze e specializzazioni più elevate. L’impostazione e la diagnostica di macchinari complessi sono un esempio valido di una capacità di intervento autonomo molto limitata o nulla, con un aumento dei costi e dei tempi di intervento. Lo sviluppo della formazione XR richiede di affrontare problemi complessi ed eterogenei che emergono nelle PMI. In questo modo, la progettazione di un quadro di competenze adeguate per l’operatore e di tecnologie di supporto aiuterebbe le giovani generazioni di operatori ad acquisire competenze adeguate per adottare comportamenti efficaci, sicuri e resilienti.*

REFERENCES

– Bagnara, S. (1990). The Design of Training and Education in Automation. Design Issues, n. 7(1), pp. 53-70.

– Dall’Osso, G., Zannoni, M., Licaj, A., (2022). Design Elements for the Implementation of Threshold Crossing in and out of Mixed Reality. In Ugliotti, F.M., Osello, A. (a cura di), Handbook of Research on Implementing Digital Reality and Interactive Technologies to Achieve Society 5.0 Hershey, Pennsylvania: IGI Global, pp. 15-41.

– Dodoo, J.E., Al-Samarraie, H., Alzahrani, A.I., Tang, T. (2025). XR and Workers’ safety in High-Risk Industries: A comprehensive review. Safety Science, n. 185. doi.org/10.1016/j. ssci.2025.106804

– Doolani, S. et al. (2020). A review of extended reality (XR) technologies for manufacturing training. Technologies, 8(4), p. 77.

– Fast-Berglund, Å., Gong, L., Li, D. (2018). Testing and validating Extended Reality (XR) technologies in manufacturing. Procedia Manufacturing, n. 25, pp. 31-38.

– Hassenzahl, M. (2010). Experience design: Technology for all the right reasons. Cham: Springer.

– Hurkmans, B., Rajagopal, K. (2020). The use of extended reality technologies for learning in industry. EdMedia+ Innovate Learning, n. 1, pp. 900-903.

– Karpichev, Y., et al. (2024). Extended reality for enhanced human-robot collaboration: a human-in-the-loop approach. In 2024 33rd IEEE International Conference on Robot and Human Interactive Communication (ROMAN). New York: IEEE, pp. 1991-1998.

– Ommerli, C., Mirzaagha, J., Ma, C., Bentham, K., Herdman, C. (2019). Virtual reality flight environments may tax working memory and disrupt prospective memory. In Proceedings of the 20th International Symposium on Aviation Psychology

– Pavlou, M. et al. (2021). XRSISE: An XR training system for interactive simulation and ergonomics assessment. Frontiers in Virtual Reality, vol. 2. doi.org/10.3389/frvir.2021.646415

– Peruzzini, M., Prati, E., Pellicciari, M. (2023). A framework to design smart manufacturing systems for Industry 5.0 based on the human-automation symbiosis. International Journal of Computer Integrated Manufacturing, 37(10-11), pp. 1426–1443.

– Pollini, A., Zannoni, M., Peruzzini, M., Pucci, D. (2024). Proximity Machinery through Distributed Augmented Reality: Design for Training the Resilient Operator 5.0. In Conferenza annuale della Società Italiana di Design. Milano: Società Italiana di Design.

– Romero, D., Stahre, J. (2021). Towards the resilient operator 5.0: The future of work in Smart Resilient Manufacturing Systems. Procedia CIRP, n.104. Amsterdam: Elsevier, pp. 1089-1094.

06. Operatore durante il test dell’applicativo VR | Trainee testing the VR application. A. Pollini, M. Zannoni

Introduction

European industry’s investment in advanced technological skills, resilience skills, and entrepreneurial skills of the workforce, operators and trainers is a key element for inclusive green and digital twin transitions. In this context, Advanced Manufacturing Technologies (AMTs) play a crucial role as they significantly influence human performance through complex automated systems, focusing on the multiplicity of factors, skills, and situations that characterise modern human-machine interaction scenarios in the era of DeepTech, which is based on the convergence of advanced science, engineering, design, and technology (Fast-Berglund et al., 2018). Advanced Manufacturing Technologies and the Deep Tech approach, which integrates science, engineering, and technology disciplines, are key to market innovation. In this context, training through eXtended Reality (XR) represents an innovative resource, combining AR and VR to create holistic learning experiences. The research explores the use of XR for training in industrial environments, with a focus on robot and CNC machine programming, and proposes a transmedia learning process between the physical and the digital.

Training designers, in turn, must adopt a holistic and multidisciplinary perspective to experience design that integrates psychological, social, organisational, ecological and technological factors (Hassenzhal, 2010). The innovation of the eXtended Reality and Industrial Metaverse (XR/IM), as a persistent and interconnected virtual space that replicates physical industrial environments and processes for simulations, remote collaboration, production optimisation and predictive maintenance, therefore focuses on two crucial aspects: what we produce and how we produce it, and the opportunities, obstacles and limitations they imply (Doolani et al., 2020; Dall’Osso et al., 2022). This ability to foster the emergence of new prod-

Designing for XR Transitions

Training in the Manufacturing Industry

ucts, industrial processes, business models and, above all, a skilled, resilient and creative workforce (Romero, Stahre, 2021) is essential to ensure successful industrial transitions and sustain industry competitiveness. The focus of the research concerns the distributed and dislocated nature of knowledge in the context of industrial automation (Bagnara, 1990) and how eXtended Reality (XR) impacts on optimising the degree of coherence between information technology, training systems and organisational management. In particular, design research presents and discusses the landscape of eXtended Reality (XR) as an essential bridge between the physical world and digital environments, and the tangible and intangible traces that create this link range from QR codes and physical markers, as examples of the former, to AR overlays, as examples of the latter, which enrich real perception, training and everyday practice in a dynamic and immersive manner (Peruzzini et al., 2023).

State of the art of XR in industrial training

The training and recruitment of low-skilled workers, who constitute a group that struggles to adapt to changes due to increasing automation, represent, together with the disengagement of workers from training processes, caused by outdated teaching practices, irrelevance of material to daily practice and lack of professional development, one of the main challenges of the manufacturing industry (Hurkmans, Rajagopal, 2020; Pavlou et al., 2021).

Tangible and intangible traces support knowledge acquisition and verification through immersive learning (AR/VR), offering realistic, safe and cost-effective experiences, already proven in industrial and aviation training, also related to the safety context in industry (Dalladaku et al., 2020; Ommerli et al., 2019; Dodoo, et al. 2025). XR training provides equivalent or superior performance to traditional methods, with significant benefits in safety

and cost (Milgram, Kishino, 1994; Sheets, Elmore, 2018; Lawrynczyk, 2018), and flexibility of modifications (Fast-Berglund et al., 2018). Studies related to XR technologies to improve human-machine interaction (HMI) and human-robot collaboration in industrial settings show facilitation of communication and intuitive programming among the main benefits (Karpichev et al. 2024).

Moreover, by immersing the user in realworld environments, XR facilitates better learning and the development of muscle memory, allowing dangerous or non-existent scenarios to be simulated (Fast-Berglund et al., 2018).

Despite the advantages, challenges such as the need for further technological development to fully exploit the capabilities of XR devices remain the subject of research (Ommerli et al., 2019).

Objectives and methods

The research focuses on the continuity of experience between the physical, the virtual and the digital in the context of eXtended Reality training (XR). An iterative process is developed that starts in the work context and extends into augmented reality, where physical points of interest are defined to convey multimedia content and facilitate proximity guidance. It then transitions to virtual reality, offering immersive and reflective experiences in VR, with a return to reality for the trial-and-error approach on the physical apparatus. This process aims to build a training ecosystem that integrates physical and virtual environments, with strong field-based, situational and contextualised support. The ultimate goal is to improve resilience, safety and efficiency, while reducing costs and increasing process visibility in production lines. The research is exploratory in nature and sees the experimentation and validation of XR training programmes in industrial contexts as an essential element in enabling the evolution of the systems, their critical review

and ensuring their effectiveness and safety. The proposed methodology consists of the following steps:

– Verification that XR training content accurately reflects real-world tasks and scenarios;

– Alignment of training objectives with organisational goals and performance standards;

– Review of the effectiveness characteristics of the technologies and the accuracy of the training content.

The qualitative evaluation proposed in the research also involves examining the overall user experience, including the system’s navigation dynamics, how the XR interfaces interact and the level of immersion.

Research context

In the context of industrial training, the research focuses on training for the programming of a robotic cell for metal bending. In this scenario, the subject of the analysis and user research was conducted at a company that manufactures bending machines and systems (img 02). The training consists of two main phases: the programming of a computer numerical control (CNC) machine and the programming of a collaborative robot. In the CNC programming phase, the trainer shows how to interact with the machine interface and introduces the main tasks, such as manual programming, 2D project-based programming and 3D programming to create programmes directly from imported drawings (img 03).

The session involves a trainer and two machine operators in practical exercises and problem-solving sessions. The programming tasks are first shown by the trainer and then tackled independently by the participants. With regard to programming the robot, the trainer introduces a step-by-step guide for using the robot and its accessories, followed by practical exercises.

This training based on practical experiences, rather than theoretical approaches, promotes faster learning and a deeper understanding of industrial processes, preparing workers to respond effectively to the challenges of the advanced manufacturing environment.

Training scenarios and use of eXtended Reality

The design research vision developed in the project focuses on the continuity of experience between the physical, virtual and digital realms, implementing an iterative and incremental exchange that enables a smooth and dynamic transition of the knowledge acquisition experience between these worlds, via intangible traces, multimedia notes and transmedia notes, which can be accessed in augmented reality (AR) and virtual reality (VR), creating a continuous and interconnected learning flow (Pollini et al., 2024) (img 04).

The first step in this flow occurs in the work context, where physical points of interest have been defined to convey multimedia learning content. AR played a crucial role,

allowing digital information to be superimposed on real-world physical elements, and facilitating understanding and interaction with the content through contextualised and proximity guidance. The operator created multimedia and visual content on the robotic cell in preparation for on-site training.

The next step is the transition from AR to VR, which offers an immersive and reflective training opportunity. Learners entered the virtual scenario of the robot cell, experiencing situations that simulate the working environment, but in a safer and more controlled environment. In VR, machine operators were able to deal with complex scenarios and gain hands-on experience of the machine without risk, retrieving training content for in-depth study based on the knowledge traces sedimented in the 3D model. This process is crucial for developing skills through trial and error, which can then be transferred and tested in the physical world (img 05).

Back in the vicinity of the machine, the operators were able to access transmedia content tracks integrated into the physical work context through markers, applying what they had learned in the simulated scenarios. Returning to the real environment allowed them to solve practical problems, enhancing the learning process through direct experimentation on the machine or in their own workplace.

Finally, the flow of learning experience moved from the physical to the digital environment, where the virtual workspace supports the retrieval of transmedia traces of shared knowledge in a community of practice context, such as that of machine operators. In this digital environment, machine operators, by referring to knowledge traces, can access shared resources, interactive content and customised support tools that can be used for continuous and collaborative learning, even outside the physical workspace.

Field experiment and qualitative evaluation

The technology of XR was explored in a pilot experiment at RPC Piegatrici, during an in-house training session, in which participants without direct knowledge of machine operation were involved. The activity began with familiarisation with the technologies and the design of the training in XR (img 01).

During the first phase, the XR toolkit was set up, which included devices such as smartphones, tablets and recording glasses. After an introduction to the project and the authoring app for training design, the trainees received smartphones and started to use the AR mobile app to record videos and photos while the training took place and each experimented with the roboric cell programming tasks, quickly replacing the old annotation methods (img 06). A prototype of recording glasses, connected via Bluetooth to smartphones, allowed trainees to document operations in a hands-free manner, with automatic video uploads. Next, the virtual reality (VR) application for note-taking was tested, gathering feedback on design

and navigability (img 07). In the next phase, the operators continued the training, using the AR mobile app to view notes and record asynchronous content requests for remote assistance to the trainer. The AR mobile app was finally presented to key stakeholders to explore possible integrations into their service and business model.

The qualitative evaluation following the field trial indicated that participants expressed a preference for manipulating notes in an AR environment rather than VR. The trainer suggested a single AR app that handles all aspects, excluding VR. During the presentation, participants suggested adding descriptions under the QR codes to simplify recognition and allowing the reduction of resolution for long videos due to connection problems. Specifically or training participants were two young people with limited experience in sheet metal bending, respectively with one year’s experience on a manual machine and had never used a robot-assisted bending system, and a tester in a company in another industry, had no experience with either manual or robotic bending. During the course, the more experienced participant did not encounter any significant difficulties, while the other showed gaps in both machine understanding and robot operation. However, both learnt quickly, being able to make parts independently from the first days, albeit with some initial difficulties. To monitor their progress, they were assigned tasks of increasing difficulty, starting with simple operations and then moving on to more complex ones. Only when the participants correctly completed the easier tasks were they given the more complex ones. During the practical phase, the participants supported each other, intervening together to solve any difficulties. In addition, the use of augmented reality, which allows specific notes to be associated with machine points, significantly enhanced the learning experience, making it easier to understand concepts. The ability to upload and share videos and notes made it possible to keep track of information in an organised and accessible way over time, helping to create a useful body of knowledge for the company.

Conclusions

This research focused on the possibility of empowering production workers with the support of XR technology, extending their operational capabilities to activities that currently require higher skills and specialisation. Setting up and diagnosing complex machinery is a good example of a very limited or no capacity for autonomous intervention in diagnosis, which increases costs and time. The development of XR training requires addressing complex and heterogeneous problems that arise in SMEs. Thus, the design of an appropriate operator skills framework and supporting technologies would help the younger generation of operators acquire appropriate skills to adopt effective, safe and resilient behaviours.*

Non sono solo parole

Scrivere è un atto motorio che permette di lasciare traccia, quindi di comunicare, ma è anche un simbolo di identità culturale.

Dal 3000 a.C. – data convenzionalmente fissata per l’invenzione della scrittura – incisioni, pitture, la stampa e infine la tipografia digitale sono stati fondamentali per la formazione e la mutazione dei caratteri e la formazione degli alfabeti.

Oggi la maggioranza delle informazioni scritte usa cinque sistemi di scrittura: l’alfabeto latino, adoperato da circa il 70% della popolazione mondiale; i caratteri cinesi, impiegati da più di un miliardo di persone; la scrittura araba, usata da quasi 700 milioni di persone; il devanagari dell’India (600 milioni); e l’alfabeto bengalese (300 milioni), a cui seguono il greco, il cirillico, l’ebraico, i vari sistemi di scrittura giapponese, i geroglifici e la scrittura cuneiforme. In realtà i sistemi di scrittura, secondo le stime dell’Atelier National de Recherche in Francia (aggiornate a gennaio 2022), sarebbero 294. Con ognuna di esse si formulano poi le diverse lingue: con l’alfabeto latino si scrivono ben 59 lingue, con

ALFABETO

ALFABETO

LINGUAGGIO DEI SEGNI

Cherokee 1821-oggi
Aborigeno Canadese 1830-oggi
Teotihuacan 250-500d.C.
Pittogrammi Aztechi 1321-1519
Epi-Olmeco

quello cirillico 13 lingue, con quello ebraico 3. A ogni scrittura poi corrisponde un modo diverso di rappresentare i numeri.

L’alfabeto più lungo è quello della Cambogia e conta 74 lettere, mentre quello più breve è delle Isole Salomone che ne conta solo 11, è molto breve anche quello del Rotokas, una lingua parlata da circa 4mila persone nella provincia di Bougainville, un’isola a Est della Nuova Guinea. Il Sedang, lingua vietnamita, è quella con il maggior numero di vocali del mondo, 55.

Cirillico 890-oggi

Georgiano 400d.C.-oggi

Latino

700a.C.-oggi

Greco

800a.C.-oggi

Copto

300d.C.-oggi

Tifinagh

200d.C.-oggi

Adlam 1980-oggi

Bamum antico 1896-1900

Armeno 406-oggi

Siriano 500-oggi

Ebraico

300a.C.-oggi Mandaico 100-oggi

Arabo

500a.C.-oggi

Gurmukhi 1500-oggi

Gujarati 1592-oggi

Kannada 1500-oggi

Malayalam 1200-oggi

Etiope 400a.C.-oggi

Ol 1920-oggi

Devanagari 1000-oggi Oriya 1051-oggi

Telugu 1200-oggi

Tamil 600-oggi

Sinhala 300a.C.-oggi

Thaana 1700-oggi

A variare può essere anche l’intero sistema: se più spesso si scrive da sinistra a destra, ci sono lingue, come l’arabo, in cui la scrittura è invertita da destra a sinistra, e altre in cui l’ortografia è dall’alto verso il basso.

Tale diversità riflette la ricchezza culturale del nostro pianeta, racconta innovazioni e sostituzioni, ma anche perdite e rimozioni: infatti molte delle scritture usate per secoli o millenni nel mondo antico sono già state completamente dimenticate.* Stefania Mangini

Mongolo 1200-oggi

Han 0-oggi

Hangul 1444-oggi

Tibetano 1920-oggi

Bengalese 1051-oggi

Birmano 1000-oggi

Thai 1283-oggi

Batak 1300-oggi

Yi 600-oggi

Lao 1400-oggi

Khmer 500-oggi

Sundanese 1300-oggi

1800-oggi

Bopomofo 1911-oggi

Katakana 700-oggi Hirahana 700-oggi

Hanunoo 1700-oggi

Lontara Bilang Bilang 1700-1900

Balinese 1000-oggi

Javanese 1600-oggi

Naasioi 1988-oggi

Avioiuli 1980-oggi

Camminando in Lessinia, non è difficile scorgere le tracce che i montanari del passato hanno lasciato nel paesaggio. Si incontrano numerose “forme” che appartengono al quotidiano, al mondo contadino, alla vita della montagna e delle sue genti, espressione principalmente di necessità funzionali. In esse non vi è superficialità o trasandatezza, ma invece un grande senso armonico e artistico. Negli ultimi decenni invece, nell’epoca “del cemento”, la Lessinia ha assistito spesso a interventi (an)estetici, caratterizzati da una povertà culturale che ha gettato le basi di un collasso. Non necessariamente invasivi e distruttivi, spesso sono puntuali, disomogenei, ma che conducono a una paralisi del pensiero progettuale. I sentieri si allargano, si regolarizzano, e ciò che prima era una linea armonica tra prati e boschi diventa una strada, elemento unicamente a servizio delle contrade restaurate. Ma vi sono anche trasformazioni culturali, altrettanto dirompenti, quali l’imposizione del concetto di proprietà privata in contesti dove la vita di comunità era il motore pulsante.

Le corti delle contrade ora si frammentano, recinti di nuovi inquilini dividono questi luog hi nati con una precisa vocazione comunitaria.

La ricerca fotografica indaga l’aspetto poetico delle tracce che vengono dall’interazione tra uomo e paesaggio nel corso dei secoli. Un’indagine condotta attraverso un camminare lento ed errante, che ha nella dimensione del “perdersi” la chiave di volta per farsi

sorprendere dalle cose inaspettate, piccole, intense. Le fotografie si muovono in un terreno incerto: suscitano degli interrogativi, più che dare delle risposte precise. Fissano la complessità e la stratificazione di una montagna che ha visto il suo popolo emigrare, trasformarsi, cambiare mestiere ma anche restare, raccontare e resistere. Le tracce diventano così occasione di meditazione. Questi segni, espressione del passato, non sono reperti, fossili inanimati di un tempo che non c’è più. Sono invece potenziali narratori rivolti al futuro. Ascoltarli, capirli, interpretarne il significato anche quello più recondito è la base per un sentimento di rispetto. La ricerca viene dall’esigenza di riflettere su un’accezione contemporanea di progetto che non sia limitata a forme di omaggio alla tradizione, o all’eccessivo formalismo, ma che raccolga un discorso interrotto, che guardi con curiosità alle inquietudini del paesaggio e alle potenziali contraddizioni che vengono dall’abitare la montagna. Termini come “selvatico”, “rovina”, “contraddizione”, diventano materia compositiva e non semplice riflessione teorica. L’abbandono, per molti un fenomeno di degrado, è ora visto come principio di un fattore progettuale che muove dalla riflessione e che non si limita a questioni di restauro, di congelamento, di idealizzazione della vita in montagna, ma che si evolve in forme di vita contemporanee e si fa promotore di una nuova prospettiva per abitare la montagna. Non più un vuoto, ma un pieno.*

Lessinia. The Value of Abandonment and the Sense of the Future Landscape

Lessinia is an extraordinary reserve of human traces and signs. The shapes found in its landscape belong to the daily life of the mountain and its people. They do not aspire to meaningless aesthetical meanings, yet they possess a fine harmonic and aesthetic sense. The inhabitants of the mountain were poets as in “creators” but also as in “people with aesthetical sense”. Such signs become narrators to those who can stops and listen. A design principle for today: starting form abandonment to understand and decode its hidden meaning is the base to a respectful approach.*

01. Particolare uso del lastame locale come segno di confine | Peculiar use of the local stone as a border marker element. E. Dalla Rosa

Lessinia. Il valore dell’abbandono e il senso del paesaggio futuro

02. Relazione tra un grande albero e un cippo in pietra, entrambi protesi verso l’alto | Relation between a big tree and a rock. E. Dalla Rosa

03. Muri a secco in pietra locale | Dry local stone walls. E. Dalla Rosa

04. Porzione di antico muro a secco inglobato nel bosco che cresce | Part of an ancient dry-stone wall, taken over by a growing forest. E. Dalla Rosa

Questi segni, espressione del passato, non sono reperti, fossili inanimati di un tempo che non c’è più

05. La luce del sole filtra tra i resti di una copertura crollata | The sun light filters between the ruins of an ancient roof. E.

06. Equilibrio instabile di una lastra di copertura | Instable equilibrium of a local stone slab. E. Dalla Rosa

07. Sistema di areazione di un fienile in un edificio oggetto di varie trasformazioni | Ventilation system of a barn in a building transformed several times. E. Dalla Rosa

Dalla Rosa
L’abbandono, per molti un fenomeno di degrado, è ora visto come principio di un fattore progettuale
08. Coppia di sedie in attesa di qualcuno che forse non tornerà più | Two chairs waiting for someone who may never return. E. Dalla Rosa
08. Ruspa in attesa. Sullo sfondo, una nuova strada porta a una contrada da poco restaurata | Bulldozer waiting. In the background, a new road leads to a recently restored district. E. Dalla Rosa
10. Gesti di cura che ancora (r)esistono | Actions of care that still (r)esist. E. Dalla Rosa

NOTE 1 –Con il termine Audience Measurement ci si riferisce al processo di raccolta, analisi e interpretazione dei dati relativi ai visitatori e alle loro interazioni con gli oggetti, i programmi e le strutture di un museo. Per un approfondimento si suggerisce il report di

NEMONetwork of European Museum Organisations dal titolo

Audience Measurement in the digital era , disponibile su: ne-mo.org/ fileadmin/Dateien/public/Publications/NEMO_Working-Group_ Digital-Transformation_Connected_journeys-Holistic_audience_ measurement_in_the_age_of_digital_2024.pdf (ultimo accesso settembre 2025).

REFERENCES –Di Benedetto, G. (2021). Nuove Frontiere Museografiche Immaterialità e multimedialità del museo narrativo | New museographic frontiers –Immateriality and multimediality of the narrative museum. Agathón | International Journal of Architecture, Art and Design , n. 10, pp. 68-75. –Haraway, D. (1985). A Manifesto for for Cyborgs Science Technology and Socialist Feminism in the 1980s. Socialist Review –Hooper-Greenhill, E. (1994). The Educational Role of the Museum

London: Routledge. –Van Dijck, J. (2014). Datafication, dataism and dataveillance: Big Data between scientific paradigm and ideology. Surveillance & Society , n. 12(2), pp. 197-208. –Zannoni, M., Sicklinger, A., Pezzi, M. (2021). Human Body Interaction from the Imaginary to Contemporaneity –Anticipation Design Processes. Diid | Disegno Industriale Industrial Design , n. 74, pp. 10-19.

Nel 1985, nel suo celebre saggio A Cyborg Manifesto , Donna Haraway prefigurava un futuro in cui “la relazione tra persone e tecnologia sarà così intima da rendere impossibile distinguere dove finiamo noi e iniziano le macchine”. Oggi, l’uso dei dati riveste un ruolo cruciale nella società contemporanea, dando vita a un sistema relazionale uomo-dati talmente pervasivo e ubiquo da essere descritto come una datificazione degli esseri umani. Questo concetto riconfigura la natura umana attraverso la lente dei dati generati dalle attività online degli individui, dall’uso delle applicazioni, dai sensori incorporati nei dispositivi mobili e indossabili, e dalle interazioni nei luoghi fisici (Van Dijck, 2014). In questo scenario, molti settori industriali hanno adottato con successo approcci data-driven , mentre il contesto museale insegue con ritardo l’adozione di tali strumenti per funzioni come quella di Audience Measurement 1 a supporto del processo decisionale e curatoriale. Un esempio emblematico di come i dati possano trasformare interi settori è quello dello sport. L’introduzione di tecnologie di monitoraggio dei giocatori e l’analisi avanzata dei dati ha rivoluzionato non solo il lavoro degli allenatori, ma anche quello dei procuratori e degli scout, offrendo informazioni dettagliate sulle prestazioni degli atleti e ottimizzando le strategie di gioco. Analogamente, le tecnologie di tracciamento dei dati consentono ai musei di monitorare il flusso dei visitatori e analizzarne i tempi di permanenza. Questi dati, se processati, forniscono un insieme di metriche utili al fine di ottimizzare i layout delle mostre, gestire i flussi dei visitatori e comprendere la risposta del pubblico ai contenuti esposti. In questo contesto, la progettazione di allestimenti interattivi può evolversi verso una dinamica sempre più multidirezionale, con macchine in grado di anticipare le esigenze e rispondere autonomamente ai comportamenti degli utenti (Zannoni et al. , 2021). L’interattività rappresenta l’elemento di grande differenziazione rispetto alla museologia del passato: il museo oggi tende verso un’esperienza che coinvolge tutti i sensi, orientandosi verso nuovi stili di espressione focalizzati sull’esperienze dell’utente, in contrasto con i classici modelli museali incentrati sulle collezioni (Hooper-Greenhill, 1994). L’evoluzione tecnologica nel settore museale sta conducendo alla creazione di nuove forme di fruizione dei contenuti, in cui il visitatore diventa un soggetto attivo della propria esperienza formativa (Di Benedetto, 2021). Nel prossimo futuro, la progettazione di mostre interattive potrebbe sfruttare la profilazione e il comportamento dei visitatori per modellare l’organizzazione tematica dei contenuti esposti, l’apparato didascalico e i medium adottati nella disseminazione dei contenuti. Questo approccio aprirebbe le porte all’uso dei dati come strumento per una maggiore inclusione sociale, avvicinando i contenuti esposti al modello ideale per il singolo fruitore. Il percorso di visita potrebbe plasmarsi con contenuti personalizzati, in un ambiente responsivo e dinamico, grazie ad un sistema di raccolta feedback in tempo reale. Sebbene esistano numerose problematiche da risolvere per la creazione di un ambiente immersivo di tale complessità, le potenziali dinamiche di esperienza utente appaiono promettenti. Un’infrastruttura tecnologica in grado di rispondere in modo sempre più accurato alle esigenze del pubblico museale potrebbe facilitare una fruizione culturale inclusiva e partecipativa. *

Ridefinire i confini dei dati nei musei

Redefining the boundaries of data in museums

Manuel Scortichini

Assegnista di ricerca, Disegno industriale, SAAD, UNICAM. manuel.scortichini@unicam.it

Mappa di calore di una porzione espositiva con tre campionamenti puntuali (P1–P3) e relative metriche di interazione. Heat map of an exhibition section with three point samples (P1–P3) and related interaction metrics. M. Scortichini

NOTE 1 –I luoghi del legno mostra le realtà di Venezia, diversificate per attività ancora operative e quelle cessate. È una mappa in continuo aggiornamento, poiché vuole offrire non solo una fotografia contemporanea, ma anche l’evoluzione di questo comparto nell’ultimo secolo. È possibile consultare la mappa attraverso il canale social Facebook, alla pagina pubblica I luoghi del legno

Remi, forcole, gondole, sanpierote : probabilmente sono le prime immagini che ci vengono in mente pensando alla città di Venezia e alla lavorazione del legno. Del resto il settore nautico è stato per la città il principale motore di sviluppo e che ha consentito di importare ricchezze non solo materiali, ma soprattutto culturali. Nella storia le attività imprenditoriali e artigiane veneziane hanno caratterizzato intere aree della città, e in alcuni casi sono diventate punti di riferimento per interi comparti produttivi anche sul piano internazionale, come ad esempio quello tipografico durante il periodo rinascimentale (Marzo Magno, 2012). Quegli spazi di lavoro oggi non sono più riconoscibili, ma la loro presenza è testimoniata dalla toponomastica della città (Mancuso, 2009, p. 30), come calle dei tintori o dei bottèri , che mantiene traccia dello storico tessuto produttivo. Non tutte le attività sono però scomparse, alcune sono restate, molte sono evolute. Sebbene non sempre rispondano a una domanda interna del centro storico in cui sono insediate, contribuiscono a mantenere vive le tecniche di lavorazione e la conoscenza materiale, che per secoli i precedenti artigiani hanno affinato e adattato. La cultura materiale propria dell’artigianato rischia tuttavia di essere dimenticata: nel caso di Venezia ad esempio, è fortemente concorrenziale il mercato in terraferma che offre una varietà più ampia di prodotti talvolta anche a prezzi concorrenziali. Così coloro che non possono concorrere o non possono spostare l’attività altrove, sono costretti a chiudere, con il rischio di non riuscire a tramandare la propria esperienza e il proprio sapere. La trasformazione del tessuto produttivo, come testimoniano anche le associazioni di categoria e organizzazioni locali (Vettore, 2019), interessa anche il comparto del legno. Questo cambiamento non riguarda solamente la riduzione del numero di attività, bensì il target a cui esse si rivolgono, sempre più turistico. Alcuni settori invece sono ancora rivolti a soddisfare una domanda interna, e questo soprattutto nel caso della manutenzione del patrimonio immobiliare, che riguarda interventi di tipo strutturale, ma anche manutenzione e realizzazione di serramenti, balconi, portoni, pavimenti, fino agli elementi di arredo su misura. Altrettanto valore hanno anche i luoghi a Venezia in cui il legno viene stoccato, condiviso o mostrato, perché contribuiscono anch’essi a mantenere viva la cultura propria di questo materiale. I luoghi del legno sono eterogenei, ed è proprio la loro diversità ad arricchire il tessuto culturale della città 1 : dai violini alle gondole, Venezia offre un ricco campionario di attività, distribuito in maniera capillare, talvolta perfino nascosto. I “luoghi del legno” possono contribuire allo sviluppo di nuove forme di dialogo tra le storiche conoscenze materiali che conservano, e le tecnologie contemporanee che si stanno affacciando sul mercato. Inoltre la crescente accessibilità degli strumenti (in termini di software, ma anche di strumentazione) potrà supportare in maniera sempre più concreta questo dialogo, contribuendo così a valorizzare e riproporre proprio quelle lavorazioni talvolta considerate obsolete oppure onerose (Ferrari, 2025). Il progetto torna ad essere protagonista e a definire la lavorazione della materia, trovando anche nuovi campi di impiego e ridefinendo le stesse figure professionali. Significa riportare nel centro storico di Venezia un comparto produttivo, contribuendo a ridurre il peso di quello turistico nell’economia della città e diversificandolo. La città lagunare costituirebbe solo l’esempio di quello che potrebbe accadere in altrettanti centri storici d’Italia. *

Fibre urbane

Urban

Fibers

Margherita Ferrari PhD Architetto. margheritaferrari27@gmail.com

REFERENCES –Ferrari, M. (2025). Gesti d’automazione . Conegliano: Anteferma. –Mancuso, F. (2009). Venezia è una città. Venezia: Corte del Fontego. –Marzo Magno, A. (2012). L’alba dei libri . Milano: Garzanti. –Vettore, E. (2019). Ariffaraffa. Venezia, quel che resta del Centro storico e del suo Artigianato Venezia: La Toletta edizioni.

Interno di una falegnameria nel centro storico di Venezia. Interior of a joinery in the historic center of Venice. M. Ferrari, 2021

Dottoranda di ricerca, Design, DAD, Università di Genova. tiziana.iorio@edu.unige.it

Visualizing the Invisible Digital traces shape identities and collective narratives, yet their algorithmic management often flattens their complexity, hindering empathetic relationships and systemic awareness. In a context marked by global crises and perceptual disorientation, visualization and speculation emerge as tools to engage with complexity and decode latent dynamics. The visual analysis of immaterial traces not only enriches theoretical reflection on the nature of digital experience but also offers a broader understanding of contemporary socio-cultural dynamics.*

ntroduzione

Nel presente iperconnesso, l’interazione avviene sempre più attraverso piattaforme che archiviano e rielaborano dati. Queste “tracce immateriali” – conversazioni, clic, immagini, micro-espressioni algoritmiche – costituiscono una forma di presenza invisibile che modella identità, influenza il modo in cui gli individui comprendono sé stessi e gli altri e contribuiscono alla costruzione di narrazioni collettive (Pinotti e Somaini, 2016).

In questo contesto, il design visuale può agire come pratica critica capace di restituire senso a ciò che è escluso dalla visibilità. Visualizzare diventa così un atto politico ed etico: significa chiedersi cosa viene mostrato, come e per chi. Significa rendere visibile

l’invisibile – affetti, ambiguità, complessità, empatia.

Questo contributo si inserisce in una ricerca più ampia sul ruolo del design visuale nella comprensione dei problemi complessi, con focus sulla crisi empatica nei media digitali. L’obiettivo è esplorare come la visualità possa contribuire alla costruzione di senso e attivare posture interpretative, valorizzando la funzione immaginativa e relazionale delle immagini.

L’impatto dell’immateriale

La riflessione sul visibile e sull’invisibile non è nuova nel pensiero filosofico e semiotico. Jacques Derrida (1967) ha posto la “traccia” come elemento centrale del significato: una presenzaassenza che condiziona ogni atto in-

terpretativo. Negli ambienti digitali, questa idea si amplifica: la traccia non è solo un residuo, ma una matrice attiva, che orienta sguardi, comportamenti e relazioni. Le interazioni online – apparentemente leggere e reversibili – generano dati che si intrecciano e si moltiplicano. Sebbene immateriali, tali tracce incidono profondamente: influenzano algoritmi, plasmano la percezione pubblica, ridefiniscono visibilità e marginalità. Non solo agiscono sull’identità digitale individuale, ma anche sulla memoria collettiva e sulla narrazione sociale. Se ignorate, rischiano di operare come automatismi selettivi e di rinforzo, limitando la pluralità dei punti di vista e la ricchezza delle esperienze. Un esempio è l’intelligenza artificiale che, generando output visivi o testuali

Visualizzare l’invisibile

Flussi

di dati emotivi e narrazioni

profonde per il design etico del futuro

01. Visualizzare dinamiche invisibili | Visualizing invisible dynamics. T. Iorio
Il design può agire come forza controcorrente: non per produrre più immagini, ma immagini altre

da set di dati polarizzati, rafforza stereotipi, visioni parziali e discriminazioni implicite. I bias algoritmici non sono solo errori tecnici, ma segnali di una cultura che affida a macchine opache la costruzione di senso e visibilità.

L’invisibilità delle tracce è dunque anche culturale: ciò che non si vede non si discute, e ciò che non si discute non può essere messo in discussione. Da qui l’urgenza di una mediazione critica, capace di rivelare le logiche dietro produzione e diffusione dei dati, restituendo dignità a ciò che resta ai margini. Il design visuale, in questo contesto, ha la responsabilità di interrogare questi meccanismi, proponendo contronarrazioni che restituiscano spessore, ambiguità e complessità all’umano.

Inoltre, la digitalizzazione, se da un lato ha ampliato le possibilità comunicative, dall’altro ha introdotto nuove frammentazioni dell’esperienza, con effetti sulla percezione dell’altro e sull’empatia. La riduzione della corporeità e del contesto sensoriale – soprattutto nei social media – compromette il riconoscimento di stati affettivi complessi, favorendo desensibilizzazione o reazioni polarizzate (Osler e Zahavi, 2023; Svenaeus, 2021).

A ciò si aggiunge l’economia dell’attenzione, che privilegia contenuti rapidi, emotivi e condivisibili, spesso però semplificati, manipolatori o stereotipati. La saturazione informativa e la ricerca di reazioni istantanee appiatti-

scono la comunicazione, indebolendo l’interazione e la possibilità di legami empatici autentici (Mossner e Walter, 2024). In questo scenario, il design può agire come forza controcorrente: non per produrre più immagini, ma immagini altre, che interrompano il flusso, rallentino lo sguardo e aprano spazi di ascolto e comprensione.

Complessità, empatia e disconnessioni

Le tracce digitali non sono solo espressione di individualità frammentate, ma indizi di un mondo attraversato da fenomeni interconnessi e difficili da decifrare. Crisi ambientali, disuguaglianze, conflitti, migrazioni, precarietà: questi processi si intrecciano generando quella che Timothy Morton (2018) definisce una “condizione iperoggettuale”, in cui i problemi non sono delimitabili né pienamente osservabili. La loro scala eccede l’esperienza immediata, producendo disorientamento.

In questo contesto, l’empatia assume una valenza maggiore: è una facoltà cognitiva e immaginativa che consente di cogliere la densità delle relazioni tra eventi, soggetti, ambienti. Non è solo “sentire con” l’altro, ma convivere con forme di alterità non familiari, anche non umane. È così che l’empatia diventa uno strumento per abitare la complessità. Tuttavia, le condizioni delle interazioni digitali ne minano la possibilità. La perdita di corporeità, la semplificazione co-

02. Visualizzare dinamiche invisibili | Visualizing invisible dynamics. T. Iorio

municativa e la velocità delle piattaforme social compromettono l’incontro autentico. A ciò si aggiunge quella che Morton chiama “metafisica presentista”: una tensione costante verso “l’ora”, che ostacola la percezione di durate più ampie, storie stratificate, responsabilità future. In un ecosistema dominato dall’istantaneità, anche la comprensione si frammenta in percezioni brevi e manipolabili.

Paradossalmente, gli stessi strumenti digitali che contribuiscono a tale frammentazione offrono anche le possibilità per contrastarla. Le immagini e i dispositivi annessi, se impiegati con consapevolezza critica, possono aiutare a rappresentare l’interconnessione, la profondità, la pluralità. La visualità non serve solo a semplificare il complesso, ma può agire come dispositivo che lo restituisce nella sua densità affettiva, relazionale, sistemica. Il design visuale, in questo senso, non è chiamato a risolvere i wicked problems (Morton, 2018), ma a renderli percepibili: non si propone come strumento di semplificazione o di riduzione della

complessità, ma come dispositivo di emersione e di mediazione: capace di attivare una lettura affettiva, narrativa e relazionale dei problemi stessi. Attraverso la costruzione di visualità evocative, critiche o speculative, è possibile abbandonare la logica binaria problema/soluzione e aprire uno spazio in cui la complessità possa essere rappresentata senza essere appiattita, discussa senza essere ridotta. Il focus è quindi sulle potenzialità del linguaggio visivo come forma di consapevolezza e non come output risolutivo.

Immaginare per comprendere: visualità e responsabilità Crisi sistemiche e interazioni sempre più mediate spingono a ripensare il ruolo delle immagini, oggi ben oltre la semplice rappresentazione del reale. La visualità è uno strumento cognitivo, affettivo e culturale con cui comprendiamo il mondo: influisce su ciò che vediamo, come lo vediamo e cosa scegliamo di vedere.

Le immagini non sono neutrali: operano all’interno di ciò che Cometa (2012)

La visualità smette di essere solo estetica e diventa un esercizio di cura e di attenzione

definisce un “regime scopico”, un sistema di immagini, dispositivi e sguardi che condiziona produzione e circolazione del senso. In questo regime, l’immagine è sia oggetto che azione: occupa spazio, ma agisce su chi guarda. Pinotti e Somaini (2016) parlano di entità bifronti, sospese tra una dimensione inerte e una viva. Nell’era digitale questa ambivalenza cresce: le immagini si moltiplicano, diventano interattive, predittive, ubiquitarie. Non illustrano più il mondo: lo costruiscono, spesso semplificandolo.

Proprio per questo, il design visuale ha oggi la responsabilità di riaprire la complessità laddove viene appiattita. Per affrontare tale compito, la progettazione visuale può avvalersi di un approccio immaginativo e speculativo. Come sottolineano Dunne e Raby (2013), il design speculativo non mira a offrire soluzioni, ma a formulare scenari alternativi, plausibili o disturbanti, capaci di spostare l’attenzione dal “ciò che è” al “ciò che potrebbe essere”. L’immaginazione proiettata verso

03-04. Visualizzare dinamiche invisibili | Visualizing invisible dynamics. T. Iorio

futuri prossimi o remoti, consente di esplorare realtà ipotetiche che, pur non ancora esistenti, pongono domande urgenti, svelano presupposti invisibili, aprono spazi di responsabilità.

Immaginare è un atto progettuale che si carica di senso proprio in presenza dell’incertezza. Laddove i dati si frammentano e la complessità sfugge alle mappe lineari, l’immaginazione consente di costruire forme intermedie, visualizzazioni che non spiegano ma evocano, non dimostrano ma sollecitano1. Queste forme, più prossime alla metafora che alla misura, non sostituiscono la realtà, ma ci aiutano a stare dentro la sua opacità e riattivare la nostra capacità di sostare nella domanda. Prototipi narrativi, immagini evocative, artefatti paradossali: tutti questi strumenti diventano catalizzatori di senso, occasioni di rallentamento e confronto. Non perché forniscono soluzioni, ma perché rendono visibile la necessità di porsele. In questo modo, la visualità smette di essere solo una questione estetica e diventa un eser-

cizio di cura: una forma di attenzione per ciò che è fragile, ambivalente, non immediatamente rappresentabile.

Conclusioni

Nel tempo della complessità, visualizzare non è più solo un atto tecnico, ma un gesto progettuale che incide su come percepiamo e abitiamo la realtà. Le tracce digitali, invisibili ma pervasive, parlano di una presenza che sfugge allo sguardo e che solo pratiche visuali consapevoli possono restituire a senso e narrazione. In questo scenario, il design visuale ha la responsabilità di mediare tra visibile e invisibile, tra dati e immaginazione, tra informazione ed emozione.

La visualizzazione diventa così un terreno di cura: attenzione per ciò che non è immediatamente traducibile, per le contraddizioni dell’esperienza. Immaginare non è evasione, ma responsabilità: immaginare per comprendere, per costruire scenari in cui l’empatia sia postura progettuale. Un esercizio necessario per restituire complessità al visibile e dignità all’invisibile.*

NOTE

1 – Si veda, a tal proposito, la serie di immagini, qui incluse, come esperimento visivo parallelo. Si tratta di una sperimentazione speculativa realizzata con Adobe Express per evocare, attraverso un’estetica astratta e algoritmica, le dinamiche empatiche che si attivano negli ambienti digitali. Le immagini non rappresentano contenuti definiti, ma visualizzano tensioni relazionali e flussi percettivi invisibili che emergono nell’interazione tra soggetti e sistemi. L’esperimento nasce dalla volontà di interrogare la possibilità del visuale di restituire ciò che nei processi digitali resta latente, incorporeo e difficile da articolare verbalmente.

REFERENCES

–Casnati, F., Ianniello, A., Romani, A. (2024). Provocation Through Narratives: New Speculative Design Tools for Human-Non-Human Collaborations. In F. Zanella et al. (a cura di), Multidisciplinary Aspects of Design. Cham: Springer Nature Switzerland, pp. 747–755. doi.org/10.1007/978-3031-49811-4_71

– Cometa, M. (2012). La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale. Milano: Raffaello Cortina Editore.

– Dunne, A., Raby, F. (2013). Speculative Everything: Design, Fiction, and Social Dreaming. Cambridge and London: The MIT Press.

– Morton, T. (2018). Iperoggetti: filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo. Roma: Nero.

–Mossner, C., Walter, S. (2024). Shaping Social Media Minds: Scaffolding Empathy in Digitally Mediated Interactions?. Topoi [Preprint]. doi.org/10.1007/s11245024-10034-x

–Osler, L., Zahavi, D. (2023). Sociality and Embodiment: Online Communication During and After Covid-19. Foundations of Science, n. 28(4), pp. 1125–1142. doi.org/10.1007/s10699-022-09861-1

–Pinotti, A., Somaini, A. (2016). Cultura visuale: Immagini, sguardi, media, dispositivi. Torino: Einaudi.

05-06. Visualizzare dinamiche invisibili | Visualizing invisible dynamics. T. Iorio

Resistere al silenzio.

Mucem, Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée, Marsiglia

Una rete di ferro e di luce che custodisce le tracce delle civiltà dell’Europa e del Mediterraneo. Ma che cosa è una traccia?

La traccia è un segno visibile che ci indica un passaggio e ci può raccontare un incontro, uno scambio, una memoria condivisa; è un ponte tra epoche e popoli, un segno che resiste al silenzio.

In esse si riconosce l’eredità di un’umanità che non divide, ma unisce e crea. Abbiamo forse perso la nostra strada?*

Resist the Silence.

Mucem, Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée, Marseille

A network of iron and light that preserves the traces of European and Mediterranean civilisations. But what is a trace? A trace is a visible sign that indicates a passage and can tell us about an encounter, an exchange, a shared memory; it is a bridge between eras and peoples, a sign that resists silence. In them we recognise the legacy of a humanity that does not divide, but unites and creates. Have we perhaps lost our way?*

Letizia Goretti Prof.ssa Storia dell’arte, Istituto Statale Italiano Leonardo Da Vinci, Parigi. letizia.goretti@yahoo.it

Elisa Plank

Dottoressa in architettura, Università Iuav di Venezia. elisaplank.ep@gmail.com

An Unspoken Void The thesis project reinterprets the ancient Odeion of Pericles by assigning new meaning to its archaeological traces. The building, the first covered music hall of ancient Greece, is a presence-absence now indecipherable within the archaeological park of Athens. The project reshapes the site’s topography, restoring the podium on which the structure once stood and integrating an exhibition and storage space within it. The fragments, compelled to convey meaning beyond their incompleteness, enhance the architecture, which, by evoking the ancient structure, brings order to the site. *

occasione progettuale

Alle pendici sud del colle sacro, nei pressi del Teatro di Dioniso, giacciono, frammentate e incoerenti, le rovine dell’Odeion di Pericle. Dell’antica sala da musica costruita in epoca periclea nell’ambito di rinnovamento delle istituzioni ateniesi a seguito delle devastazioni persiane, restano oggi solamente undici blocchi di fondazione di colonna a fronte di un’architettura ipostila di 88 unità per un ingombro di oltre 3.000 mq. Il sedime dell’antico edificio1, all’interno del parco dell’Acropoli di Atene, è oggi inscrutabile per l’esiguità dei frammenti che ne rimangono nonché per

Una lacuna inespressa

Progetto di rievocazione dell’antico

Odeion di Pericle nel parco archeologico dell’Acropoli di Atene

01. Le rovine dell’Odeion di Pericle sotto l’Acropoli di Atene | The ruins of the Odeion of Pericles under the Acropolis of Athens. Da Travlos, 1971
Il

visitatore

conclude la promenade attorno alla “città alta” senza accorgersi della presenza, ovvero l’assenza, dell’Odeion

le manipolazioni topografiche inflitte all’area che non permettono di riconoscere il podio eretto per consentire la presenza di un edificio di ingente mole in appoggio su un declivio. L’ostacolo dei cantieri archeologici e la mancanza di supporti alla comprensione porta il visitatore a concludere la promenade attorno alla “città alta” senza accorgersi della presenza, ovvero l’assenza, dell’Odeion, una grande sala coperta dell’antica Grecia, edificio summa del carattere greco e persiano dell’Atene del V sec. a.C. registrato da molte fonti antiche, tra cui Plutarco e Vitruvio. La tesi dal titolo Tra il non più e il non ancora: l’Odeion di Pericle. La ricerca storica come fattore del progetto di evocazione architettonica2 si è posta l’obiettivo di comprendere i caratteri formali e storico-culturali dell’architettura dell’Odeion attraverso la lettura delle fonti antiche con il supporto della bibliografia critica. A valle dello studio condotto sul senso dell’Odeion all’interno del suo contesto e del suo tempo, è stato possibile mettere a punto un corredo di temi, dati e pretesti da cui attingere per comporre un progetto di architettura che, attraverso un linguaggio contemporaneo, evocasse l’antica sala da musica e risolvesse la precarietà che oggi interessa l’area del suo sedime. Il lavoro, inoltre, in senso più ampio, ha voluto indagare le possibilità e i limiti che il progetto di architettura può raggiungere e sviluppare

all’interno di contesti estremamente delicati, come sono le aree archeologiche di tale pregio, nel sottile equilibrio che deve sussistere tra la protezione della rovina, la fruizione dello spazio, la comprensione delle stratigrafie e il disegno del contemporaneo.

Il progetto di rievocazione

Dinanzi a una rovina possiamo interpretare il frammento come “processo oppure come opera” (Altarelli, 2022). Nel primo caso il frammento è “l’esito definitivo, immobile ed irreversibile” (Altarelli, 2022) di un lungo percorso storico che trova nel presente la sublimazione della sua condizione. In questa prospettiva, la rovina trova compiutezza nella sua stessa incompletezza, decadente ma intrisa di una precarietà fortemente evocativa. Se invece la rovina viene letta come “opera”, la sua caducità diventa un elemento attivo nel pensiero progettuale e il valore estetico delle tracce archeologiche innesca nuove possibilità di rilettura e reinterpretazione.

Nell’approccio al progetto di evocazione dell’antica struttura dell’Odeion di Pericle, si è adottata questa seconda postura, considerando le rovine dell’edificio come “opera” e quindi come frammenti capaci di generare sovrascritture. L’incompletezza, soprattutto quando così evidente, sollecita infatti l’esplorazione di modalità di evocazione di condizioni e relazioni ormai invisibili.

02. L’area dell’Odeion di Pericle allo stato attuale | The area of the Odeion of Pericles as it stands today. E. Plank

Compresa l’entità e la posizione delle vestigia, esigue, dell’Odeion, è emersa la prima volontà progettuale di voler far comprendere la presenza dell’antico edificio operando sulla topografia del pendio, rigenerando la grande sostruzione su cui poggiava. Il grande podio che si genera raccorda in un suolo continuo tutti i frammenti che, nello stratificarsi di tempo e memoria, hanno depositato tracce nell’area di pertinenza dell’Odeion. La cornice opaca che ricalca l’ingombro dell’antica sala da musica definisce il limite di una stratigrafia orizzontale che, dalla Grecia classica all’oggi, fotografa il tempo che lì è passato. Le antiche fondazioni dell’Odeion dialogano quindi con i ruvidi e netti frammenti di una fortificazione medievale, e con una piccolissima e curiosa cappella bizantina sopravvissuta alle demolizioni degli scavi archeologici.

Laddove il suolo non restituisce tracce evidenti, il progetto rievoca il passo delle colonne della sala ipostila attraverso la giustapposizione di dischi di marmo pentelico a filo del getto, disegnando una maglia ordinata in contrasto all’eterogeneità del lascito archeologico. Le rovine dell’antico edificio, che afferiscono all’ambito e alla quota delle fondazioni, sono inglobate all’interno del podio e visibili dall’alto attraverso una grande fenditura che interrompe il solaio liscio e continuo. Il podio è un pieno fittizio poiché all’interno, in uno spazio semiipogeo, le rovine dell’edificio danno forma a un’area espositiva e a uno spazio di deposito per raccogliere e dar ordine alle centinaia di frammenti che, erratici, popolano l’area delle pendici. La sala espositiva è scandita da setti di calcestruzzo armato posti perpendicolarmente tra loro; la scelta di una

| Project plan at level 0 of

Laddove il suolo non restituisce tracce evidenti, il progetto rievoca il passo delle colonne

03. Planimetria di progetto alla quota 0 del plateau che ingloba tutte le tracce in un suolo continuo
the plateau which includes all the archaeological traces. E. Plank

struttura a setti e non a pilastri per l’interno evita di negare filologicamente la composizione originaria dell’edificio che vedeva le colonne poste al di sopra del podio. Tuttavia, la griglia generata dall’ipostilo si manifesta anche alla quota inferiore attraverso un sistema di travi incrociate, trattate con la tecnica giapponese Yakisugi. Questa scelta intende evocare il passo vitruviano che descrive l’Odeion come coperto dalle “antenne e gli alberi presi dal bottino delle navi persiane” (Vitruvio, De Architectura). I legni della disfatta di Salamina, trasformati in materiale da costruzione, rivivono ora nelle travi dall’aspetto carbonizzato, veicolando così, anche attraverso le scelte tecniche, il richiamo alla memoria storica dell’edificio. Per tutti i setti e le pavimentazioni in calcestruzzo del progetto si è scelta una cromia analoga ai toni gialli delle rovine delle pendici dato dall’impiego principale di poros e marmo pentelico. Il calcestruzzo è quindi colorato in massa con coloranti terrosi, ottenendo così una cromia calda, affine al contesto in cui si inserisce. Il grande prospetto sud del podio, di più di 40 m di lunghezza, è trattato come una modanatura, con fenditure e leggeri sottosquadri, per ottenere delle piccole disomogeneità cromatiche e dare matericità al pieno.

Ciò che si compone, dunque, è un grande podio opaco, emerso dal perimetro dell’antico Odeion di Pericle, le cui esigue tracce sono visibili all’interno del pieno stesso, poiché sono le fondamenta dell’edificio e stanno per-

04. Le fondazioni dell’Odeion, incluse all’interno del podio progettato, definiscono lo spazio espositivo | The foundations of the Odeion, included within the designed podium, define the exhibition space. E. Plank
05. Lo spazio espositivo semi-ipogeo | The semi-hypogeal exhibition space. E. Plank
06. Vista del podio dal percorso di visita delle pendici sud dell’Acropoli | View of the podium from the visitor route of the southern slopes of the Acropolis. E. Plank

07. La triade delle grandi infrastrutture dello spettacolo delle pendici sud: l’Odeum di Erode Attico, il Teatro di Dioniso e il progetto per l’Odeion di Pericle | The triad of the great performance infrastructures of the southern slopes: the Odeum of Herodes Atticus, the Theatre of Dionysus and the project for the Odeion of Pericles. E. Plank

ciò a una quota inferiore rispetto al piano di calpestio del plateau. Il plateau diventa una cornice che accoglie e valorizza le tracce stratificate nel tempo nell’area dell’Odeion, inglobando frammenti eterogenei per epoca, forma e significato. Il progetto, integrando funzioni di servizio per il percorso di visita e la fruizione del parco archeologico, rievoca la memoria dell’antica sala da musica e restituisce l’immagine della triade delle grandi infrastrutture dello spettacolo che, insieme al Teatro di Dioniso e all’Odeon romano di Erode Attico, caratterizzavano le pendici meridionali dell’Acropoli di Atene.

L’interazione tra il progetto e la rovina

L’Odeion di Pericle, nella sua interezza, è scomparso da circa 18 secoli, un tempo di rovina quasi tre volte superiore a quello della sua presenza integra, durata circa sette secoli. In questo lungo intervallo, tra il suo decadimento e l’oggi, si sono stratificate materia e immaterialità, trasformando quest’area in un crocevia di segni, tracce e resti che vanno oltre la semplice narrazione dell’edificio. L’approccio progettuale, fin da subito, ha voluto accogliere questo palinsesto stratificato all’interno del disegno

di un incubatore contemporaneo di memoria, dove le scelte formali si armonizzano con le esigenze archeologiche. È emerso con chiarezza come l’interazione tra architettura e rovina archeologica sia vantaggiosa per entrambe le parti, laddove il progetto contemporaneo si carica di significato e valore quando riesce a dialogare con la complessità materica e simbolica del contesto, e le vestigia archeologiche, a loro volta, riescono a raccontare di mondi e tempi lontani se messe nelle condizioni di esprimere altro oltre la propria incompletezza. “Le rovine segnalano al tempo stesso

un’assenza e una presenza: mostrano, anzi sono, un’intersezione tra il visibile e l’invisibile” (Settis, 2004) e come tali devono farsi ponte di conoscenza tra il passato e il presente; è compito del progetto, dunque, comprendere la complessità offerta dalle tracce del passato e dipanarla attraverso un’architettura che produca nuove trame di significato.

Conclusioni

Il progetto proposto per l’area delle pendici sud, tra la cavea del Teatro di Dioniso e il quartiere della Plaka, nei pressi del parco archeologico, si

inserisce come l’ultimo strato di un palinsesto in continua evoluzione, aggiungendosi ai livelli di storia e materia qui sedimentati. Non si tratta, dunque, di un intervento definitivo. Il progetto si pone in un tempo intermedio, tra il passato della rovina e le future interpretazioni. Ci troviamo nella dimensione del “non più e non ancora” (Simmel, 1981), laddove il progetto non ambisce a ricostituire l’integrità del manufatto svanito, il “non più” presente Odeion di Pericle, fermandosi “al non ancora”, aperto a prossime stratificazioni di materia e di senso.*

NOTE

1 – La ricostruzione planimetrica più attendibile dell’Odeion di Pericle è da attribuire a John Travlos, contenuta in Travlos, 1971, p. 389.

2 – Il progetto di tesi di laurea magistrale in architettura è stato discusso nell’a.a. 2022-2023 all’Università Iuav di Venezia; relatrice prof.ssa Roberta Albiero, correlatori prof.ssa Monica Centanni, prof. Giovanni Mucelli.

REFERENCES

– Altarelli, L. (2022). L’immaginario delle rovine: da Piranesi al moderno. Siracusa: LetteraVentidue.

– Gros, P. (a cura di) (1997). Vitruvio, De architectura Torino: Einaudi.

– Settis, S. (2004). Futuro del classico. Torino: Einaudi.

– Simmel, G. (1981). La Rovina (traduzione di G. Carchia). Rivista di estetica, n.8. Torino: Rosenberg & Sellier, pp. 121-127.

– Travlos, J. (1971). Bildlexikon zur Topographie des antiken Athen. Tübingen: Wasmuth.

Maria Grazia Giardinelli PhD, Tecnologo di ricerca presso ENEA, Dipartimento Unità per l’Efficienza Energetica. mariagrazia.giardinelli@gmail.com

A Fluid Space Between History and Matter

The landscape of Massafra is part of the Terra delle Gravine regional natural park and extends over an area of over 12 thousand hectares from the southern borders of the Taranto Murge to the Ionian Sea. The first human settlements originated in the karst canyons typical of the Terra delle Gravine regional park, but the contemporary city develops at 110 meters above sea level, enjoying a panorama that embraces the Gulf of Taranto up to the mountains of Calabria. The redevelopment project of the Niccolò Andria terrace overlooking the Massafra valley is strongly influenced by the visceral presence of the karst canyons and by the visual relationships with the historical and architectural presences and with the surrounding territory up to incorporating the horizon of the Ionian Sea.*

Uno spazio fluido tra storia e materia

“Nuovi

passi sulle origini” di Antonio Ligurgo

Il lungovalle Niccolò Andria di Massafra insiste sulla spianata di Santa Caterina, uno dei luoghi panoramici del paese, sviluppandosi lungo la gravina San Marco e assumendo l’aspetto di una terrazza sul villaggio rupestre. La terrazza si pone in una forte relazione visiva con il castello aragonese e la cupola del duomo: gli emblemi del potere temporale e potere spirituale che connotano lo skyline del borgo antico e che, insieme al ponte intitolato a Garibaldi, caratterizzano la “cartolina di Massafra” (img. 01).

Il progetto di riqualificazione del lungovalle dell’architetto Antonio Ligurgo è frutto di studi e analisi della storia dei luoghi, ma anche di indagini sociali e processi partecipati nei quali sono stati coinvolti direttamente e indirettamente gli abitanti e l’amministrazione comunale. Elemento caratterizzante del progetto è il disegno della nuova pavimentazione.

Perché il progetto è stato intitolato Nuovi passi sulle origini?

L’obiettivo della committenza, il Comune di Massafra, era quello di rendere il lungovalle un luogo attrattivo sia per i cittadini che per i turisti, favorendo al contempo l’insediamento di nuove attività commerciali e artigianali, a integrazione di quelle esistenti.

Le attività che originariamente si svolgevano erano per lo più di tipo statico: sia di giorno che alla sera, in particolare giovani e anziani avevano l’abitudine di stazionare sulle panchine preesistenti, uniformemente distribuite, oppure davanti a bar e focaccerie, mentre le attività commerciali si svolgevano in prossimità dei luoghi che le generavano. Pertanto, il luogo era caratterizzato da una separazione netta delle funzioni (quella commerciale e lo svago) e da un punto di vista sociale questo rendeva lo spazio poco inclusivo e poco propenso a nuove interazioni.

Nuovi passi dunque perché la mia idea progettuale è stata quella di realizzare una piazza dinamica, uno spazio fluido in cui si realizza un movimento nuovo non solo nello spazio, ma nella gente e tra la gente. Un luogo fisico dell’incontro e dello scambio, in cui le attività sociali si mescolano a quelle commerciali. Nel nuovo spazio sono state considerate anche le attività relative al culto, promosse dalla chiesa della Madonna del Carmine che insiste sull’area, dunque matrimoni, funerali, ma anche, occasionalmente, i festeggiamenti della Madonna, che prevedono processioni, installazioni di luminarie e concerti.

Antonio Ligurgo

Come nasce il disegno della pavimentazione o tappeto urbano?

La pavimentazione è pensata come un “tappeto urbano” realizzato con elementi lapidei locali, in parte recuperati dalla precedente pavimentazione, collocati in modo da definire il disegno di sinuose trame che accolgono e definiscono tutte le funzioni del luogo.

L’abaco dei materiali è volutamente ristretto: le trame della pavimentazione sono state realizzate mediante lastre di pietra calcarea liscia, gli spazi che delimitano le funzioni sono realizzati in pietra calcarea bocciardata e antiche basole recuperate dal luogo del progetto, infine la zona carrabile è stata distinta con una pavimentazione architettonica continua in legante e inerti locali. Il disegno è generato da incroci tra le linee rette delle proiezioni degli edifici antistanti con le curve che riprendono l’andamento della gravina sottostante (img. 02). Altre tracce curvilinee quasi scolpite nella pavimentazione attraverso un utilizzo diverso dell’elemento pietra e l’attenzione al dettaglio architettonico, definiscono le aree a verde, le aree per la sosta e la passeggiata. Alcune tracce hanno significati simbolici, come la raggiera in prossimità della chiesa, realizzata per evocare la presenza di un sagrato, al centro della quale è collocata la statua del santo. Dal sagrato si generano quindi rette proiettate in ogni direzione della piazza e una di queste, che ho evidenziato mediante un segno più marcato, connette visivamente il santo con la cupola del Duomo, creando un collegamento tra le due emergenze religiose (img. 03).

La piazza ingloba anche elementi architettonici come arredo urbano, tra i quali spicca un elemento a torre dalla forma inconsueta: quali sono la genesi di questo elemento e la sua funzione?

L’idea è stata quella di far nascere dalla trama del “tappeto urbano” nuovi elementi architettonici, generati da una estrusione delle curve disegnate in pianta. La “torre cannocchiale” è uno di questi elementi (img. 04). La torre è concepita per accentuare il legame visivo con le emergenze architettoniche che insistono nel panorama ma senza alcuna imposizione. Evoca nella forma la torre del castello aragonese con cui si relaziona diventando un punto di affaccio. Tuttavia, la mancanza di una copertura e la divisione del manufatto in due parti traslate, come pure l’utilizzo della lamiera traforata

02. Il lungovalle Niccolò Andria dopo l’intervento | The Lungovalle Niccolò Andria after the redevelopment project. A. Ligurgo
01. Veduta della gravina San Marco di Massafra | View of Gravina San Marco in Massafra. buonasera24.it

color acciaio corten, le conferisce leggerezza e la distingue, a sottolineare la tensione dinamica dell’intero progetto. Infine, la torre segnala l’inizio del percorso di accesso al villaggio rupestre.

Ci sono altri elementi architettonici minori, ma altrettanto suggestivi, qual è la loro funzione all’interno della piazza?

Sempre dall’estrusione di curve e archi, nascono delle quinte teatrali traforate e pertanto eteree e leggere. Sono realizzate in ferro color corten e all’interno della piazza svolgono diverse funzioni: sono elementi da poter allestire per mostre o proiezioni, fanno da sfondo per feste religiose, piccoli concerti, eventi culturali, trasformando lo spazio pubblico circostante in un teatro della cultura urbana.

Il tema della linea curva, che è propria dell’andamento sinuoso della gravina, è il filo conduttore che lega gli elementi del progetto. Anche la ringhiera che corre lungo il bordo della terrazza e decora l’affaccio sulla gravina, è costituita da un ritmo di montanti in ferro color corten, ruotati tra loro e raccordati in basso da elementi curvilinei a tutto sesto che citano i fornici del vicino ponte: l’effetto della rotazione è stato scelto per conferire tridimensionalità e dinamismo.

L’arco ha indirizzato anche la scelta degli apparecchi luminosi, anch’essi in color corten, costituiti da pali con diffusore a cupola. A proposito dell’illuminazione va detto che è stata voluta con un impatto minimo sull’area, proprio per preservare le visuali anche di sera. Un led che corre lungo il corrimano della ringhiera traccia una linea sottile di confine tra la piazza e la gravina.

03. Concept progettuale di una porzione di terrazza | Design concept of a portion of terrace. A. Ligurgo
04. Rendering della torre cannocchiale. Vista sul castello aragonese | Rendering of the telescope tower. View of the Aragonese castle. A. Ligurgo

Un altro elemento caratterizzante il progetto, oltre alle tracce incise nella pavimentazione e l’estrusione di leggere architetture, è la presenza dell’acqua. Da dove nasce e come avviene questo legame?

L’acqua è uno degli elementi generatori delle cavità carsiche ed è nella memoria di chi vive i luoghi: un tempo vi erano in questa zona capienti cisterne d’acqua e anche alcune tintorie la cui attività era indissolubilmente legata alla presenza di questa risorsa. Inoltre, l’acqua è presente nell’immagine forte del mare: passeggiando sul lungovalle lo sguardo si perde fino a scorgere il mar Ionio. Pertanto, il progetto ha previsto a nord-est la presenza di una fontanella che segna in maniera discreta l’appartenenza dell’acqua a questo luogo, mentre a sud-ovest trova collocazione una fontana in pietra calcarea, con una parete dalla quale sgorga una lama d’acqua. Il bordo della vasca costituisce una seduta per garantire un ulteriore spazio di aggregazione. Infine, l’acqua durante gli eventi piovosi viene convogliata lungo l’asse centrale e raccolta mediante una canaletta lineare del tipo “a fessura” che corre lungo l’asse dell’intera piazza, scelta che concorre alla linearità del disegno della pavimentazione.

L’acqua e la presenza delle gravine non sono gli unici elementi naturali: le trame della pavimentazione delimitano alcune aree a verde realizzate con piante selvatiche e specie arbustive della macchia mediterranea autoctone ( Myrtus communis, Pistacia lentiscus, Phillyrea latifolia, Rhamnus alaternus, Rosmarinus officinalis, Calicotome villosa ), con l’obiettivo di creare un continuum tra il verde nella gravina e quello sulla terrazza (imgg. 05-06). *

05. Prospettiva verso il lato nord della piazza | Perspective towards the north side of the square. A. Ligurgo
06. La pavimentazione generatrice di spazi sociali | The pavement generating social spaces. A. Ligurgo

Espansione botanica

Tu da dove vieni?

La domanda universale. Nessun’altra racchiude così pienamente il senso dell’esperienza di essere umani.

Da dove vieni, quali sono la tua città, il tuo quartiere, la tua famiglia, la tua storia?

Di chi sei figlio?

E di cosa sei figlio?

Il cambiamento del clima contiene ognuna di queste domande. Io vengo innanzitutto da lì. Sono il figlio del figlio della fabbrica. Sessant’anni dopo, quel poco che rimane del vecchio cantiere è ancora sul bordo dell’acqua, a Bagnoli. Però nel frattempo la fabbrica è stata spogliata, smontata, annichilita, e poi dimenticata. Napoli l’ha trattata come un pensiero intrusivo. L’Italsider del presente è un monumento anonimo al progresso e alle sue bugie, si confron-

sullo scaffale

Tempo di ritorno

Ferdinando Cotugno

Guanda 2025

ta col suo e il nostro tempo, ma non ha perso il rapporto primario col mare, e quindi col cosmo: è una vecchia preghiera di rivoluzione trasformata in una barriera corallina di cemento e ghisa. È incapace di nascondersi, nonostante muri e divieti di accesso, e noi non possiamo nasconderci a lei.

Ci sono passato accanto ancora una volta mentre venivo qui in motorino, da Bagnoli verso il centro di Napoli, una domenica mattina di agosto, e le ho lanciato uno sguardo, uno degli ultimi, l’occhiata smarrita di quando sai che stai per lasciare qualcuno o qualcosa ma non puoi ancora ammetterlo. Per due anni quella fabbrica è stata il mio orizzonte, la mia destinazione, il mio compito, la fine e l’inizio di ogni cosa.

Sono arrivato fuori dalla casa di mia madre, in attesa del coraggio di

entrare. Esito perché stanno finendo così tante cose, e finché rimarrò fuori da questa porta anche il mondo rimarrà immobile, in equilibrio.

L’appartamento è un monolocale al piano terra, affacciato su un cortile che lei ha riempito con centinaia di piante, ben oltre i confini consentiti dai regolamenti condominiali. Sono qualcosa in più di un passatempo per la vecchiaia: quella espansione botanica per lei è una forma di ritorno a casa. Era nata figlia di contadini alla metà quasi esatta del Novecento ed era stata portata via dalla terra beneventana in direzione Napoli quando aveva appena imparato a camminare. Questo cortile è la sua memoria ancestrale: ha vissuto la sua intera vita in città e si è sempre sentita una campagnola, al contrario di sua madre, mia nonna, che era nata in campagna ma si era sempre sentita una cittadina e aveva solo dovuto assecondare quell’istinto migrando a Napoli. Almeno un terzo delle piante è messo male. Lei mi aveva avvertito: Questa estate stanno morendo e io non riesco a farci niente. Le ortensie sono state le prime a cedere, poi è toccato alle azalee, alle gardenie, ai gerani, alle camelie. Si ammalano, oppure si bruciano. Le ha sostituite con il basilico, c’è una fila di piantine aromatiche.*

A cura di Margherita Ferrari

Avevo le mie ragioni
Tadej Golob Ronzani, 2025
Entra il fantasma
Isabella Hammad Marsilio, 2025
Il colore dell’acqua
James McBride Fazi, 2025

Maybe someday your name will be in lights Saying “Johnny B. Goode tonight”

Immagine di Emilio Antoniol
Chuck Berry, Johnny B. Goode, Chuck Berry Is on Top, 1958
Tracce di viaggio

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.
OFFICINA* 51 Tracce by Anteferma Edizioni - Issuu