OFFICINA* 50

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Morte naturale o indotta di Alice Zanatta

Il ciclo della vita è rappresentativo della natura vista come un sistema formale che si autoregola. La morte improvvisa talvolta suscita un senso di incompiutezza e di ingiustizia: questa viene concepita come un’eccezione all’interno di un sistema naturale determinato da regole aprioristiche. Il limone richiama il normale decadimento della natura; invece il fenomeno legato agli incedi boschivi causati spesso dalla negligenza dell’uomo, rappresenta la casualità della morte prematura.

Forma fluida

Formale e informale non sono, come ci mostra questo numero di OFFICINA*, categorie contrapposte. L’informalità non prevede necessariamente la mancanza di regole e di forme ma contempla la possibilità che un oggetto, un edificio o un luogo si adattino alle diverse condizioni e configurazioni che possono accadere nel corso del suo sviluppo progettuale e durante il suo ciclo di vita. Se infatti un sistema codificato di regole e leggi produce, generalmente, spazi e contesti dalla forma chiara e definita, ciò non significa che un sistema informale, governato da altre regole, generi spazi privi di forma. Produce altresì forme diverse, spesso non convenzionali o non codificate, ma pur sempre dense di senso e significato.

Questo ragionamento è vero soprattutto quando l’oggetto della nostra riflessione non è specifico e concreto, fatto di materia solida, ma piuttosto un’entità complessa come può essere un appartamento, un quartiere, uno spazio urbano o una città, in cui materiale e immateriale si intrecciano per dar forma a un ecosistema articolato. L’azione del “dare forma” è, in questo caso, l’elemento di maggiore interesse del ragionamento, in quanto una plausibile etimologia della parola “forma” trova origine proprio nella radice sanscrita dhar- che significa “tenere, sostenere o contenere”, associando quindi il concetto di forma non tanto all’esito finale, all’aspetto fisico dell’oggetto, quanto alla capacità di “formare” la materia in una certa modalità o di sostenerecontenere la materia entro determinate proporzioni.

Tuttavia, in un’epoca moderna che Bauman definisce fluida, anche lo spazio della vita - le nostre case, le nostre città, ecc. - diventano fluidi e mutano al mutare delle fluttuazioni del resto della società. Così, anche la loro forma si adatta al variare dei contesti, delle condizioni e delle situazioni assumendo spesso l’informalità come strumento di generazione di nuovi spazi. Un’informalità che non è quindi anarchia - nel senso etimologico di assenza di governo e di regole - ma capacità di adattamento, possibilità di modificare e di trasformare sé stessi e lo spazio che ci circonda, ma anche varietà, originalità e specificità, caratteristiche che danno forma a un ecosistema spaziale nuovo, fluido, mutevole e informale, ma non per questo senza forma. Emilio Antoniol

Direttore editoriale Emilio Antoniol Vicedirettrice Rosaria Revellini

Direttrice artistica Margherita Ferrari

Comitato editoriale Viola Bertini, Doriana Dal Palù, Letizia Goretti, Stefania Mangini, Cristiana Mattioli, Elisa Zatta

Comitato scientifico Federica Angelucci, Stefanos Antoniadis, Sebastiano Baggio, Maria Antonia Barucco, Matteo Basso, Eduardo Bassolino, Martina Belmonte, Giacomo Biagi, Paolo Borin, Alessandra Bosco, Laura Calcagnini, Federico Camerin, Alberto Cervesato, Giulia Ciliberto, Sara Codarin, Francesca Coppolino, Silvio Cristiano, Federico Dallo, Lavinia Maria Dondi, Paolo Franzo, Jacopo Galli, Silvia Gasparotto, Gian Andrea Giacobone, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Beatrice Lerma, Elena Longhin, Antonio Magarò, Filippo Magni, Michele Manigrasso, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Fabiano Micocci, Mickeal Milocco Borlini, Magda Minguzzi, Beatrice Moretti, Massimo Mucci, Maicol Negrello, Corinna Nicosia, Maurizia Onori, Valerio Palma, Elisa Pegorin, Ilaria Pittana, Federica Pompejano, Laura Pujia, Silvia Santato, Chiara Scanagatta, Chiara Scarpitti, Roberto Sega, Gerardo Semprebon, Giulia Setti, Francesca Talevi, Alessandro Tessari, Oana Tiganea, Massimo Triches, Ianira Vassallo, Luca Velo, Alberto Verde, Barbara Villa, Paola Zanotto

Redazione Luca Amici, Daniele Archetti, Luca Ballarin, Martina Belmonte, Giulia Conti, Eleonora Fanini, Alice Gasparini, Silvia Micali, Sofia Portinari, Marta Possiedi, Tommaso Maria Vezzosi

Web Emilio Antoniol

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Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218

Pubblicazione online ISSN 2384-9029

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Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2025 32,00 € | 4 numeri

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OFFICINA*

“Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953

Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.50 luglio-agosto-settembre 2025 Informale

Il dossier di OFFICINA*50 – Informale è a cura di Alessandro Tessari.

Hanno collaborato a OFFICINA* 50: Lisbet Alessandra Ahon Vasquez, Angélica Benatti Alvim, Vittoria Berno, Giacomo Biagi, Camillo Boano, Martina Carandente, Matteo Carmine Fusaro, Manuel Grimaldi, Stefano Mastromarino, Tommaso Mauro, Massimo Mucci, Richard Lee Peragine, Ciro Priore, Camilla Rondot, Jehan Salim, Eliana Saracino, Renzo Sgolacchia, Gianluca Stasi, Antonio Stopani, Alessandro Tessari, Giulia Visintin, Alice Zanatta, Alessandro Zorzetto.

OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Tutti gli articoli di OFFICINA* sono sottoposti a valutazione mediante procedura di double blind review da parte del comitato scientifico della rivista. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. OFFICINA* è inserita nell’elenco ANVUR delle riviste scientifiche per l’Area 08.

INTRODUZIONE

Dal controllo alla cura From Control to Cure

Alessandro Tessari

Pianificare l’impianificabile Planning the Unplannable

Eliana Saracino

Verso un cambio di paradigma per i campi profughi Towards a Paradigm Shift for Refugee Camps

Elisa Vendemini, Jehan Salim

ESPLORARE

Spunti da visitare a cura di Massimo Mucci e Rosaria Revellini

Olocene. L’ipotesi di Milo Holocene. Milo Maricelli’s Perspective

Giacomo Biagi

La favela come laboratorio urbano The Favela as an Urban Laboratory

Angélica Benatti Alvim

Spazi di fede non tuoi Not Your Usual Faith Spaces

Vittoria Berno

Informal

n•50•lug•ago•set•2025

Morte naturale o indotta Natural or induced death

Alice Zanatta

SCIENTIFIC DOSSIER

Il sapere tacito Tacit Knowledge

Renzo Sgolacchia

Luoghi in transito Territories in Transit

Camilla Rondot

Progetto e superamento Project and the Politics of Overcoming

Manuel Grimaldi, Stefano Mastromarino, Richard Lee Peragine, Antonio Stopani, Camillo Boano

COLUMNS

Il Parque Minhocão esiste, mancano solo gli alberi! The Parque Minhocão exists, but only the trees are missing!

Tommaso Mauro

L’IMMERSIONE

Sorbole: la cupola delle lettere

Sorbole: the Dome of Letters

Gianluca Stasi, Alessandro Zorzetto

Autocostruzione come autodeterminazione Self-Building as SelfDetermination

Ciro Priore

Abitare la modificazione Dwelling the Modification

Matteo Carmine Fusaro

Il giardino spontaneo The Spontaneous Garden

Lisbet Alessandra Ahon Vasquez

Spazi instabili di coesistenza Unstable Spaces of Coexistence

Martina Carandente

INFONDO

Modi, a modo Ways, in a way

Stefania Mangini

Ferrovia della Petite Ceinture Petite Ceinture railway

Letizia Goretti

CELLULOSA (S)COMPOSIZIONE

Seguire lo smoking a cura di Margherita Ferrari

Una formalità Emilio Antoniol

Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettiva - La Biennale di Venezia. 19 Mostra Internazionale di Architettura 10/05 - 23/11/2025

Venezia

labiennale.org/it/architettura

Prosegue fino a novembre l’apertura al pubblico della mostra La Biennale di Venezia 2025 curata da Carlo Ratti, dal titolo Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettiva. Ci sono 66 partecipazioni nazionali esposte ai Giardini, all’Arsenale e nel centro di Venezia, insieme al Padiglione Italia, il Padiglione della Santa Sede, il Padiglione Venezia e oltre 750 partecipazioni individuali o di organizzazioni.

Il tema di quest’anno sembra in qualche modo riprendere e rielaborare quello della precedente Biennale di Architettura, in quanto al centro della riflessione è ancora una volta il “cambiamento”. Anche l’urgenza imposta dal clima è nuovamente la cornice all’interno della quale si è chiamati a inserire la propria proposta. L’interpretazione del curatore Carlo Ratti è tanto chiara quanto allarmante: il cambiamento climatico che si è manifestato proprio nel 2024, anno tra le due esposizioni, con temperature mai raggiunte prima dalla Terra, impone un cambio di prospettiva. Innanzitutto richiama il concetto di architettura come riparo per la sopravvivenza fisica dell’uomo, dopodiché propone di passare dall’approccio progettuale guidato dalla “mitigazione” degli effetti sull’ambiente, alla più radicale idea di progetto che risponde all’esigenza di “adattamento” ad un mondo in profondo mutamento. Anche il ruolo del progettista, con la sua autorialità, è rimesso in discussione quando, ben oltre l’idea di estensione del termine “architetto” introdotta nella precedente Biennale, aggiunge la proposta di una collaborazione scientifica multidisciplinare al pari livello tra figure anche esterne a quelle dei tradizionali operatori dell’ambiente costruito. Inoltre, nel messaggio del curatore si auspica una collaborazione tra diverse “intelligenze”, distinguendole tra “naturale”, “artificiale” e “collettiva”. È proprio dalla comprensione e l’ascolto di queste tre intelligenze che, nonostante la

premessa allarmante sullo sfondo, nascono soluzioni innovative senza dover necessariamente rinunciare a un’architettura poetica rivolta al cambiamento costruttivo. M. Mucci

Firenze Rivista

19/09 – 21/09/2025

Le Murate, FI

firenzerivista.it/programma Nato nel 2015 come evento dedicato al mondo delle riviste, nel 2025 il festival Firenze RiVista festeggia il suo decennale. È la prima manifestazione italiana che mette in relazione le riviste con case editrici indipendenti attraverso uno spazio fieristico all’aperto presso Le Murate a Firenze, con numerosi eventi per il pubblico. Organizzato con cadenza biennale dal 2019, ogni anno il festival è dedicato a un tema: dopo Passaggio (2021) ed Elementi (2023), quest’anno sarà dedicato a Cicli per costruire approfondimenti sui cicli naturali e i cicli temporali, nelle loro

espressioni fisiche e fantascientifiche, i cicli vitali delle persone e delle tecnologie, il rapporto con il ciclo del corpo e con quello delle stagioni, il tema del ritorno. Nell’idea di ricostruire un rapporto sano con la natura, la riconversione dei mezzi di trasporto, la bicicletta come mezzo sostenibile, il riciclo come possibilità virtuosa di dare nuova vita ad abiti, cibi e manufatti. I cicli come manifestazione della ricorsività degli eventi, ma anche come percorsi di crescita che, nel loro svolgersi, ci guidano attraverso una trasformazione e ci riportano al punto di partenza con maggiore coscienza e consapevolezza, di noi e del mondo che ci circonda. L’edizione 2025, organizzata dalla rivista L’Eco del Nulla insieme alla casa editrice effequ, è selezionata e cofinanziata dall’Estate Fiorentina 2025. Il festival torna con un’offerta culturale originale e plurale, costruita insieme a riviste, case editrici indipendenti e istituzioni nazionali e del territorio, messe in dialogo con un approccio orizzontale per riflettere sul mondo sociale e culturale contemporaneo attraverso la lente del tema scelto per questa edizione. Le Murate ospiteranno oltre all’esposizione di riviste e case editrici indipendenti, oltre 70 eventi aperti al pubblico: talk, laboratori, mostre, performance, podcast, presentazioni editoriali. R. Revellini

Equilibri. Fiera del libro di Venezia 27/09 – 28/09/2025

Convitto Marco Foscarini, VE equilibrifiera.it/equilibiri-2025/

19. Mostra Internazionale di Architettura La Biennale di Venezia, Intelligens. Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia Firenze Rivista, 2021

A cura di Alessandro Tessari

Contributi di Lisbet Alessandra Ahon Vasquez, Camillo Boano, Martina Carandente, Manuel Grimaldi, Stefano Mastromarino, Richard Lee Peragine, Camilla Rondot, Eliana Saracino, Renzo Sgolacchia, Jehan Salim, Antonio Stopani, Elisa Vendemini.

Dal controllo alla cura

“L’informale non è un’anomalia della forma. È una forma altra del mondo” (Canguilhem, 1991).

Nel dibattito contemporaneo su spazio, progettazione e trasformazioni urbane, la nozione di informale rappresenta uno snodo teorico cruciale e insieme ambiguo. Non è un termine univoco, ma un concetto relazionale definito in opposizione a ciò che si presenta come chiuso, ordinato e legittimo: il formale, il pianificato, il regolato. Questo numero di OFFICINA* assume l’informalità non come difetto o patologia, ma come paradigma critico, capace di mettere in discussione i fondamenti culturali e disciplinari del progetto contemporaneo. L’informale non è un semplice oggetto da rappresentare, né una condizione da risolvere o romanticizzare, ma un dispositivo operativo: una chiave per leggere i territori reali e immaginare nuove possibilità progettuali e politiche.

Nel suo sviluppo moderno, l’informale entra nel vocabolario delle scienze sociali per descrivere fenomeni urbani ed economici non regolati, soprattutto nei contesti postcoloniali e del Sud globale. Dagli studi pionieristici di Hart (1973), De Soto (1989) e Turner (1972) emerge come pratica autonoma e non mera conseguenza di povertà o marginalità. L’informale non si oppone al formale, ma lo attraversa e complica. Le città contemporanee sono il risultato di stratificazioni conflittuali tra istituzioni e pratiche diffuse, norme e adattamenti situati.

Ananya Roy (2005) invita a sospettare della categoria stessa: “informale” è spesso un dispositivo di potere che riproduce gerarchie. L’informalità non è assenza di regole, ma presenza di regimi normativi alternativi, spesso efficaci nel produrre ordine sociale e forme di vita condivise. L’obiettivo non è ridefinire il confine tra formale e informale, ma superare questa dicotomia, interrogando le condizioni della sua produzione e le funzioni che svolge. L’informale è dunque un concetto relazionale e critico: descrive ciò che sfugge, resiste, innova e struttura. L’informalità è an-

KEYWORDS:

From Control to Cure

“The informal is not an anomaly of form. It is an other form of the world.” (Canguilhem, 1991).

In contemporary debates on space, design, and urban transformations, the notion of the informal represents a crucial yet ambiguous theoretical pivot. It is not a univocal term but a relational concept defined in opposition to what presents itself as closed, ordered, and legitimate: the formal, the planned, the regulated. This issue of OFFICINA* embraces informality not as a defect or pathology, but as a critical paradigm capable of challenging the cultural and disciplinary foundations of contemporary design. Informality is neither a mere object to be represented nor a condition to be resolved or romanticized, but an operative device: a key to interpreting real territories and imagining new design and political possibilities.

In its modern development, informality enters the vocabulary of social sciences to describe unregulated urban and economic phenomena, especially in postcolonial and Global South contexts. From the pioneering studies of Hart (1973), De Soto (1989), and Turner (1972), it emerges as an autonomous practice, not merely a consequence of poverty or marginality. Informality does not oppose the formal but intersects with and complicates it. Contemporary cities result from conflicting stratifications between institutions and widespread practices, norms and situated adaptations.

Ananya Roy (2005) cautions suspicion toward the category itself: “informal” is often a power device reproducing hierarchies. Informality is not the absence of rules but the presence of alternative normative regimes, often effective in producing social order and shared ways of life. The objective is not to redefine the boundary between formal and informal but to transcend this dichotomy by interrogating the conditions of its production and the functions it performs. Informality is thus a relational and critical concept: it describes what escapes, resists, innovates, and structures. Informality

Informale. A. Tessari

che forma spaziale e sensibilità estetica. I luoghi informali non sono vuoti o caotici, ma generati da logiche di riuso, accumulo e adattamento, capaci di rispondere in tempo reale a condizioni materiali e relazionali. Come osservava Canguilhem (1991), il vivente non si adatta a un ambiente neutro, ma ne ricostruisce le condizioni: così lo spazio informale reinventa i suoi dispositivi di funzionamento. Dalla baracca autocostruita alla contro-infrastruttura migrante, dal giardino spontaneo alla piazza occupata, lo spazio informale produce morfologie non codificate ma leggibili e funzionali. Questa logica è simile al bricolage di Lévi-Strauss (1962): una progettualità fondata sull’uso creativo delle risorse, sull’accumulo più che sulla sintesi. Tuttavia, nell’informale emerge una grammatica spaziale

L’informale genera non tipologie ma ecologie:

ambienti aperti, adattivi, interconnessi

fatta di regole locali, memorie sedimentate e strategie collettive. Non è caos, ma un ordine relazionale che rifiuta la formalizzazione a priori e si sviluppa per approssimazioni, assemblaggi e iterazioni. Un’estetica dell’instabilità e della resistenza, che impone una nuova lettura dello spazio, non più solo formale ma processuale, attenta a ritmi e confini mobili. L’informale genera non tipologie ma ecologie: ambienti aperti, adattivi, interconnessi. L’informale si rivela infine come metodo progettuale riconoscendo che l’intenzionalità non garantisce controllo, che la forma non precede il processo, che il progetto è mediazione instabile tra attori, vincoli, risorse e tempi. Implica accettare che l’imprevisto, l’incompiuto, l’ibrido non sono errori, ma costitutivi della realtà urbana e sociale.

È un passaggio epistemico: dal progetto come risposta a problemi dati a pratica di interrogazione e apertura, forma

is also spatial form and aesthetic sensibility. Informal places are not empty or chaotic but generated by logics of reuse, accumulation, and adaptation, capable of responding in realtime to material and relational conditions. As Canguilhem (1991) observed, the living does not adapt to a neutral environment but reconstructs its conditions: likewise, informal space reinvents its functional devices. From the self-built shack to the migrant counter-infrastructure, from spontaneous gardens to occupied plazas, informal space produces morphologies that are uncodified yet readable and functional. This logic resembles Lévi-Strauss’s bricolage (1962): a design practice founded on creative use of resources, accumulation rather than synthesis. However, within informality emerges a spatial grammar made of local rules, sedimented memories, and collective strategies. It is not chaos but a relational order that refuses a priori formalization, developing through approximations, assemblages, and iterations. An aesthetics of instability and resistance demands a new reading of space—not merely formal but processual, attentive to shifting rhythms and boundaries. Informality generates not typologies but ecologies: open, adaptive, interconnected environments. Finally, informality reveals itself as a design method, acknowledging that intentionality does not guarantee control, that form does not precede process, and that design is an unstable mediation among actors, constraints, resources, and timeframes. It entails accepting that the unforeseen, the incomplete, and the hybrid are not errors but constitutive of urban and social reality.

It marks an epistemic shift: from design as a response to given problems to a practice of inquiry and openness, a situated form of knowledge. In architecture, this implies overcoming the authorial model in favor of collective and incremental practices; in urbanism, abandoning totalizing grids for mobile and participatory tools; in design, arts, and fashion, nonlinear and adaptive processes, practices of

situata di conoscenza. In architettura ciò comporta il superamento del modello autorale a favore di pratiche collettive e incrementali; in urbanistica, l’abbandono della griglia totalizzante per strumenti mobili e partecipativi; nel design, nelle arti e nella moda processi non lineari e adattivi, pratiche di rottura e rinegoziazione simbolica. L’informale non è eccezione ma condizione diffusa e opportunità progettuale, un’alleanza tra pensiero e prassi, progetto e contingenza: un invito a spostare il baricentro dal controllo alla cura, dall’ordine alla relazione, dalla norma alla possibilità.

Tre dicotomie fondamentali definiscono il quadro per mettere a fuoco le questioni più rilevanti.

Pianificato/Non pianificato. I piani, come strumenti previsionali e normativi, faticano a gestire la natura instabile e policentrica dei territori contemporanei, che non si lasciano anticipare o controllare linearmente. L’informale emerge come principio adattivo, basato su urgenze, risorse e contingenze locali, non su previsioni. Dove il progetto tradizionale agisce per definizione, l’informale opera per approssimazione; dove la pianificazione cerca coerenza, l’informale usa variabilità, ibridazione e temporaneità. Non si tratta di opporre “non pianificato” e “pianificato”, ma di riconoscere un continuum dai confini instabili. I processi informali, spesso risposte a crisi come migrazione o esclusione, generano forme spaziali durevoli, economie locali e reti di solidarietà. Il “non pianificato” è pianificazione senza piano, un’intelligenza collettiva invisibile ma generativa. L’informalità interpella l’identità del progettista: da regista onnisciente a facilitatore di processi aperti, che accompagna trasformazioni anziché dirigerle.

rupture and symbolic renegotiation. Informality is not an exception but a widespread condition and a design opportunity, an alliance between thought and praxis, project and contingency: an invitation to shift the focus from control to care, from order to relation, from norm to possibility.

Three fundamental dichotomies define the framework for focusing on the most relevant issues.

Planned/Unplanned. Plans, as predictive and normative tools, struggle to manage the unstable and polycentric nature of contemporary territories, which resist linear anticipation or control. Informality emerges as an adaptive principle based on urgencies, resources, and local contingencies rather than forecasts. Where traditional design acts by definition, informality operates by approximation; where

Informality generates not typologies but ecologies: open, adaptive, interconnected environments

planning seeks coherence, informality employs variability, hybridity, and temporality. It is not a matter of opposing “unplanned” and “planned” but recognizing a continuum with unstable boundaries. Informal processes, often responses to crises such as migration or exclusion, generate durable spatial forms, local economies, and solidarity networks. The “unplanned” is planning without a plan, an invisible yet generative collective intelligence. Informality challenges the designer’s identity: from omniscient director to facilitator of open processes who accompanies transformations rather than directs them.

Legalità/Illegalità. Il progetto urbano moderno disciplina lo spazio con norme e codici, ma le regole formali non esauriscono tutte le possibilità. L’informalità si situa tra norma e necessità, legge e sopravvivenza, disciplina e disobbedienza. Definirla “illegalità” è riduttivo: l’informale non solo viola

Legality/Illegality. Modern urban design disciplines space through norms and codes, but formal rules do not exhaust all possibilities. Informality situates itself between norm and necessity, law and survival, discipline and disobedience. Defining it as “illegality” is reductive: informality

la norma, ma la aggira, reinventa e riscrive. È una normatività non riconosciuta ma efficace, che produce spazi spesso più vivibili di quelli ufficiali. In contesti carenti di pianificazione, l’informalità è infrastruttura sociale prima che fisica, reggendo economia, abitare, mobilità e solidarietà. Resiste a marginalizzazione, standardizzazione e repressione simbolica. L’illegalità non è un fine, ma una condizione necessaria in assenza di alternative. Ciò solleva questioni politiche: chi definisce legalità e potere? L’informale mostra che la legalità è una costruzione storica e non neutra, e il progetto deve confrontarsi con queste soglie. Serve un riconoscimento istituzionale non normalizzante, che valorizzi senza sterilizzare le pratiche informali. Non integrazione passiva, ma rinegoziazione critica dei dispositivi di autorizzazione, dove la progettualità coniuga autonomia e non imposizione. Spazio formale/Spazio informale. Lo spazio informale non è tabula rasa, ma morfologia stratificata, dove il progetto nasce per sedimentazione, non imposizione. Ogni traccia, oggetto o gesto costruisce un ordine flessibile, adattivo e spesso effimero ma significativo. La progettualità qui non coincide con composizione formale, ma con l’emersione di grammatiche spaziali situate: autocostruzione, appropriazione collettiva, recupero creativo, contaminazione di usi e significati. L’informalità è un’estetica dell’instabilità, non del disordine; una logica in cui forma e funzione si definiscono reciprocamente e l’adattamento è criterio estetico e politico. L’ecosistema spaziale si organizza per interazioni, non imposizioni. Questa condizione si manifesta in contesti marginali e negli interstizi urbani, faglie infrastrutturali, vuoti normativi e spazi di transizione ecologica e sociale. L’informale non ha scala fissa: si muove dalla micro-azione alla trasformazione territoriale, dall’elemento architettonico al sistema insediativo. Il progetto non dà forma a ciò che è amorfo, ma rivela e potenzia ciò che esiste come forma in atto, invisibile ma operativa. Richiede un cambio di sguardo: dal controllo alla cura, dalla norma all’ascolto, dalla struttura al processo.*

REFERENCES

Canguilhem, G. (1991). Il normale e il patologico. Torino: Einaudi.

De Soto, H. (1989). The Other Path: The Invisible Revolution in the Third World. New York: Harper & Row.

– Hart, K. (1973). Informal Income Opportunities and Urban Employment in Ghana. Journal of Modern African Studies, 11(1), pp. 61-89.

– Lévi-Strauss, C. (1962). The Savage Mind. Chicago: University of Chicago Press.

– Roy, A. (2005). Urban Informality: Toward an Epistemology of Planning. Journal of the American Planning Association, 71(2), pp. 147-158.

– Turner, J.F.C. (1972). Housing by People: Towards Autonomy in Building Environments. London: Marion Boyars.

not only violates norms but circumvents, reinvents, and rewrites them. It is an unrecognized yet effective normativity that produces spaces often more livable than official ones. In contexts lacking planning, informality is first a social infrastructure rather than physical, sustaining economy, housing, mobility, and solidarity. It resists marginalization, standardization, and symbolic repression. Illegality is not an end but a necessary condition in the absence of alternatives. This raises political questions: who defines legality and power? Informality shows that legality is a historical, non-neutral construction, and design must engage with these thresholds. Institutional recognition is needed that is not normalizing but values informal practices without sterilizing them. Not passive integration, but critical renegotiation of authorization devices, where projectuality combines autonomy with non-imposition.

Formal Space/Informal Space. Informal space is not a tabula rasa but a stratified morphology, where design arises through sedimentation, not imposition. Every trace, object, or gesture builds a flexible, adaptive, often ephemeral but meaningful order. Design here does not coincide with formal composition but with the emergence of situated spatial grammars: self-building, collective appropriation, creative recovery, contamination of uses and meanings. Informality is an aesthetics of instability, not disorder; a logic in which form and function mutually define each other and adaptation is both an aesthetic and political criterion. The spatial ecosystem organizes through interactions, not impositions. This condition manifests in marginal contexts and urban interstices, infrastructural faults, normative voids, and spaces of ecological and social transition. Informality has no fixed scale: it moves from micro-action to territorial transformation, from architectural element to settlement system. Design does not give form to the amorphous but reveals and enhances what exists as form in action, invisible yet operative. It requires a shift of perspective: from control to care, from norm to listening, from structure to process.*

La città informale. G. Visintin

Eliana Saracino Architetto, PhD, postdoc researcher, Free University of Bozen-Bolzano. elianasaracino@gmail.com

Pianificare l’impianificabile

01. Le ex piste di atterraggio | The former runways. E. Saracino

Planning the Unplannable The condition of contemporary urban space highlights the difficulty of transforming the city through traditional planning tools as well as the presence – within the folds of imposed forms – of active communities which offer meaningful contributions to the resolution of public issues. Today’s city demands a new paradigm, one that integrates informality as a resource and traditional planning as a framework, shaping a dialectical relationship between strategy and tactics, between long-term visions and immediate actions.

Berlin’s former Tempelhof Airport represents a paradigmatic case of experimentation, a laboratory of coexistence between top-down planning and bottom-up practices, capable of generating new opportunities for urban space.*

La condizione dello spazio urbano contemporaneo mette in evidenza sia la difficoltà di trasformare la città con i tradizionali strumenti di governo del territorio, che l’esistenza, tra le pieghe delle forme imposte, di comunità attive che propongono sollecitazioni rilevanti rispetto alla risoluzione di questioni pubbliche. La città attuale richiede un nuovo paradigma capace di coniugare l’informalità come risorsa e la pianificazione tradizionale come struttura, configurando un rapporto dialettico tra strategia e tattica, tra lungo periodo e azioni immediate.

L’ex aeroporto di Tempelhof a Berlino costituisce un esempio emblematico di sperimentazione, un laboratorio di convivenza tra pianificazione dall’alto e pratiche dal basso, capace di determinare nuove possibilità per lo spazio urbano.*

La rigenerazione dell’ex aeroporto di Tempelhof a Berlino

e pratiche informali possono essere integrate nei metodi di pianificazione ufficiale, contribuendo in modo significativo ai processi di rigenerazione urbana. Sebbene inizialmente appaiano come inconciliabili, esiste invece una possibile complementarietà tra approcci istituzionali e iniziative dal basso. Una complementarietà che, con alcuni limiti e vantaggi, permette di combinare visioni strutturate sul lungo periodo e tattiche rapide e flessibili che intercettano contingenze a breve termine.

Tra le iniziative che stanno sperimentando la possibilità di questa integrazione, il processo di trasformazione sviluppato negli ultimi 15 anni nell’ex aeroporto di Tempelhof a Berlino costituisce un esempio rilevante per alcune valutazioni.

Tempelhofer Feld. Un campo di sperimentazione

L’aeroporto è situato a sudest della città, tra i quartieri di Kreuzberg, Neukölln e Tempelhof (img. 02). Uno spazio molto ampio (circa 330 ha1, a cui si aggiunge il grande edificio), resosi disponibile a nuovi usi nel 2008 a seguito della chiusura del terminal aeroportuale.

Tempelhof è sempre stato un grande campo, inedificato per secoli2. Da area bonificata per usi agricoli a piazza d’armi per parate ed esercitazioni militari, a sede di sperimentazioni di volo; da monumentale emblema del potere nazista ad approdo del ponte aereo durante il blocco sovietico; da unica porta tra Berlino Ovest e il resto del mondo, fino al grande attuale spazio aperto, bordato nei suoi limiti e indeterminato nelle sue funzioni, nel cuore della città che nel frattempo lo ha inglobato.

KEYWORDS: RIGENERAZIONE URBANA, PIANIFICAZIONE STRATEGICA, COOPERAZIONE | URBAN REGENERATION, STRATEGIC PLANNING, COOPERATION

Già nei primi pareri quadro sul futuro dell’area a metà degli anni Novanta (img. 03), emerge l’idea di urbanizzare lo spazio disponibile, ma anche un’attenzione particolare verso il grande vuoto centrale e, con una certa lungimiranza, la necessità di coinvolgere l’utenza nei processi di pianificazione. Pertanto, sin da subito, si è cercato di affiancare un percorso pianificatorio tradizionale a uno alternativo. Intanto, a due anni dalla

chiusura, lo spazio è aperto al pubblico come parco, ottenendo immediatamente un grande successo, nonostante un’infrastrutturazione minima. Nel suo essere indeterminato, il parco offre spazio per numerose attività previste e non previste, per lo sport e il tempo libero, e si distingue per un elevato livello di biodiversità, giocando un ruolo cruciale per il bioclima urbano. Il parco e gli edifici possono essere affittati per eventi, i cui proventi contribuiscono ai costi di generali di manutenzione. Tra il 2008 e il 2014, il Senato di Berlino indice una serie di concorsi sull’area. Tra questi, il concorso di idee del 2008

La città come un’opera aperta, che rinuncia a un preciso risultato finale e predilige l’incertezza

determina i principi per la trasformazione, che diventano la base per i successivi approfondimenti progettuali specifici. Questi prevedono la conservazione del vuoto centrale come parco e la densificazione a uso misto (residenze, commercio e servizi pubblici) delle fasce di bordo. Un concorso successivo, articolato in due fasi3 (2010-11), si concentra poi specificatamente sull’area del parco, nel frattempo designata per accogliere l’IGA20174 (img. 03).

Contestualmente, il Senato incarica un gruppo interdisciplinare di architetti e urbanisti, esperti in usi temporanei e in attivazioni di spazi pubblici5, per esplorare modalità alternative di partecipazione e coinvolgimento. La prima occasione si sviluppa nel 2007 attraverso una consultazione online, con l’obiettivo di stimolare il potenziale creativo della città. Nella prima fase, sono stati invitati i soggetti interessati a esprimersi sulla prevista chiusura dell’a-

02. Vista aerea dell’aeroporto di Tempelhof | Aerial view of Tempelhof airport. Avda, wikimediacommons

03. Alcuni esiti della pianificazione formale. In senso orario: progetto di Kienast, Vogt & Partner/Bernd Albers (1998); progetto di GROSS.MAX/Sutherland Hussey (2011); masterplan di ASTOC/GROSS.MAX, adattato da Tempelhof Projekt GmbH; mappa con indicati i perimetri di conservazione definiti dal ThFG (2016) | Some outcomes of formal planning. Clockwise: project by Kienast, Vogt & Partner/Bernd Albers (1998); project by GROSS.MAX/Sutherland Hussey (2011); masterplan by ASTOC/GROSS.MAX, adapted by Tempelhof Projekt GmbH; map showing the conservation boundaries defined by the ThFG (2016). Tempelhofer Feld ideas competition documentation, Senatsverwaltung für Stadtentwicklung, Bauen und Wohnen

eroporto e sulle opportunità future; nella seconda fase, le idee sono state discusse in eventi pubblici e con gli esperti, per essere poi organizzate in quattro temi principali6 I risultati confluiscono nel Dynamischer Masterplan, un piano strategico che si sviluppa più nel tempo che nello spazio, suddiviso in quattro fasi legate a momenti-chiave (apertura parziale, esplorazione, sperimentazione con usi pionieri e apertura completa). Ognuna di queste fasi prevede scenari aperti, che consentono adattamenti in risposta a iniziative inattese e non prevedibili. Facendo leva sulla tradizione culturale berlinese di autorecupero e autorganizzazione di pratiche informali, accentuata in quegli anni grazie a un’ampia disponibilità di spazi facilmente accessibili e una classe creativa molto attiva, sono inserite nel parco, come forma di procedura sperimentale, tre aree destinate a campi pionieristici (img. 04), ambiti per testare progetti innovativi e sostenibili, con un’iniziativa dal basso. Ogni area ha una vocazione prevalente, una dimensione e

una scadenza temporale diversa7. I progetti sono presentati tramite una procedura digitale e un comitato consultivo, composto da rappresentanti del quartiere e degli organi amministrativi statali, valuta l’idoneità ed effettua la selezione. Uno dei progetti è assegnato all’associazione locale 100% Tempelhofer Feld, che mette in discussione la realizzazione delle nuove cubature previste dai piani di sviluppo, sollevando la necessità più impellente di garantire l’esistenza di spazi liberi per l’aggregazione. L’associazione richiede inoltre al Senato una revisione radicale delle forme di coinvolgimento della cittadinanza nei processi decisionali. Il giardino condiviso gestito dall’associazione costituisce un presidio di controllo sul campo delle trasformazioni in corso, contribuendo a costruire una consapevolezza tra gli utenti su questo tema. Grazie a questa attività che rende visibili le istanze di cui si fa portatrice, l’associazione raccoglie firme sufficienti per indire un referendum di iniziativa popolare contro l’urbanizzazione dell’anello esterno del parco. Il referendum, vinto,

porta nel 2014 all’adozione del ThFG - Tempelhofer Feld Gesetz (img. 03), decreto di conservazione che definisce Tempelhof un bene comune, uno spazio aperto, pubblico e popolare. Il ThFG esclude l’edificazione, preserva totalmente l’area centrale come naturale, consente la possibilità di realizzare alcuni tipi di progetti nell’anello esterno, e stabilisce che i piani di sviluppo per l’area siano elaborati in condizione paritaria tra società civile e amministrazione.

In risposta alla crisi migratoria del 2016, un’ala del terminal è stata trasformata in campo di accoglienza, trasferito poi in parte fuori dall’edificio, dove è tuttora presente un villaggio di case temporanee. Con questa necessità è stato emendato il ThFG, generando nuove preoccupazioni tra gli utenti. Infatti, è adesso aperto un nuovo concorso di idee8 che, sollevando la problematica dell’emergenza abitativa, rimette in discussione l’inedificabilità dell’area, proponendo una “cauta edificazione periferica” da discutere attivamente con la popolazione. Prima del lancio del concorso, un campione trasversale di cittadini9 è stato coinvolto in un processo di dialogo. I workshop, di cui uno dedicato a bambini e ragazzi, hanno prodotto tre tipi di risultati, assorbiti poi nel disciplinare di concorso: le raccomandazioni (alcune delle quali “chiave”), organizzate in cinque aree tematiche e approfondite in ogni gruppo con lezioni specialistiche, le indicazioni spaziali, riportate su mappe (img. 07), e le prospettive di sviluppo. Cinque cittadini eletti faranno parte

della giuria di concorso e saranno selezionati cinque gruppi vincitori che discuteranno poi i progetti in un confronto aperto tra le parti.

Tempelhof è fino ad ora uno dei più grandi spazi aperti urbani al mondo, che svolge un ruolo centrale nel panorama ecologico, sociale e culturale della città. Attualmente sono attivi 26 progetti di impegno civico, provenienti dai campi dell’arte, dell’orticoltura e degli affari sociali, che promuovono diversità, tolleranza e comunità, offrono opportunità ricreative e di svago alternative, sperimentano nuove idee imprenditoriali, sociali e culturali. L’esistenza di questo spazio e di queste opportunità è possibile solo perché un’iniziativa popolare ha modificato i piani di sviluppo. Ad oggi gli scenari futuri sono ancora aperti.

Reciprocità possibili

Se la costruzione della città e il sistema generale lavorano su tempi lunghi, caratterizzati da grandi trasformazioni e ingenti investimenti, è possibile immaginare una modalità di intervento complementare che, quasi come un parassita, sfrutti la natura stessa del sistema, le sue inerzie e le sue lacune, affiancandosi ai metodi tradizionali di pianificazione e sviluppo urbano? Leggendo attentamente tra le pieghe della città, questo avviene già spontaneamente, attraverso pratiche che rendono visibili le posizioni di resistenza messe in atto da una cittadinanza attiva e propositiva, in opposizione

04. Campi pioneristici. In senso orario: 1. Columbiadamm (sport e cultura); 2. Oderstrasse (natura); 3. Temphelhoferdamm (cultura) | Pioneer fields. Clockwise: 1. Columbiadamm (sport and culture); 2. Oderstrasse (nature); 3. Tempelhoferdamm (culture). Zwischen-und Pioniernutzer der Tempelhofer Freiheit brochure, Senatsverwaltung für Stadtentwicklung

a scelte calate dall’alto e spesso disancorate dalle reali esigenze del territorio, oppure in risposta a domande emergenti e urgenti che la pianificazione ufficiale non riesce a riconoscere nell’immediato, né tantomeno a dargli risposta con gli strumenti tradizionali. L’obiettivo dovrebbe essere quello di abilitare le condizioni affinché queste pratiche possano realizzarsi in un quadro condiviso di regole e possibilità.

Le posizioni della pianificazione formale e degli usi informali sono fondamentalmente diverse (in termini di tempi, risorse e strutture), interpretano un ruolo diverso e mettono in atto azioni diverse: posizioni probabilmente opposte, ma reciprocamente necessarie (Sassen, 2008) e, completandosi l’una con l’altra, mutuamente consistenti. Esiste tra loro una complementarietà semantica e temporale che ne rende possibile la convivenza e la possibilità, per entrambe, di avvantaggiarsi dalla loro simultaneità.

basso, da soggetti normalmente esclusi dai processi decisionali. In particolare, laddove le prospettive a lungo termine rimangono incerte e non immediatamente definibili, laddove la crescita può ammettere conflitti e dissonanze (Sendra e Sennett, 2022), i luoghi possono essere reinterpretati e reinventati definendo nuovi connotati per l’ambiente in cui sono inseriti. In questi contesti, i modelli operativi informali possono integrarsi con i modelli tradizionali di sviluppo, non solo come riempimenti momentanei, ma anche come

Spazio di negoziazione democratica per pianificare ciò che, apparentemente, è impianificabile

Da un lato, l’attivazione informale si incunea nelle lentezze della pianificazione e nei rallentamenti del mercato, traendo beneficio da costi di accesso ridotti e dalla presenza di un capitale sociale e creativo desideroso di autodeterminarsi. Dall’altro lato, la pianificazione tradizionale, inserendo tra le sue strategie queste pratiche, ha la possibilità di testare rapidamente gli effetti delle trasformazioni e di includere esigenze e proposte derivanti da sollecitazioni dal

catalizzatori per orientare i futuri processi di trasformazione. Queste opportunità non implicano la sostituzione della pianificazione tradizionale, che dovrà comunque regolare il quadro generale di indirizzo dello sviluppo urbano. Al contempo, è necessario che lo sviluppo urbano stesso sia in grado di assorbire esigenze derivanti da modelli di uso, da economie e modi di vivere differenziati e dinamici. Modelli estremamente aderenti all’attuale, emergenti da mutamenti concreti – sociali, culturali o economici – che si manifestano con tempi più rapidi e imprevedibili rispetto a quelli

05. Progetti civici nel Tempelhofer Feld | Civic projects in Tempelhofer Feld. E. Saracino

contemplati dai piani istituzionali, e che proprio per questo richiedono risposte più flessibili e tempestive.

Il processo presenta certamente dei rischi. In un contesto in cui sempre più decisioni riguardanti la trasformazione urbana sono lasciate ad attori non pubblici (Misselwitz, 2018), l’istituzionalizzazione delle pratiche spontanee potrebbe diventare un modo per capitalizzare il valore prodotto collettivamente, convertendolo in vantaggio per pochi. Frequentemente, il buon esito delle attivazioni informali avvia processi di gentrificazione locale (Schalk, 2014) che, se da un lato arricchiscono la vita sociale e culturale del

Coniugare l’informale inteso come risorsa e la pianificazione formale

intesa come struttura

quartiere, dall’altra parte risvegliano nuovi interessi economici, accelerando operazioni di speculazione immobiliare che tendono a estromettere gli usi spontanei. All’incremento dei valori di mercato consegue solitamente l’espulsione delle classi più fragili, le stesse che nella maggior parte dei casi sono state il motore della trasformazione e le animatrici delle attività, e che dovranno spostarsi verso altri ambiti urbani che il normale ciclo economico della città reputa al

momento scarsamente interessanti. Talvolta, però, la massa critica della comunità attiva è tale da poter avere una capacità contrattuale in fase di pianificazione o di rinegoziazione delle posizioni, così da modificare i progetti e gli indirizzi della futura trasformazione. Inoltre, la normalizzazione di questi modelli operativi può limitare l’immaginazione e quel carattere di leggerezza tipico dell’informalità, ma d’altra parte può determinare sul lungo periodo mutazioni positive nella struttura istituzionale. Serve quindi interrogarsi su quale sia il giusto equilibrio tra top-down e bottom-up, tra determinatezza e indeterminatezza, tra controllo e apertura; un equilibrio da rinegoziare continuamente, in relazione alla società e ai contesti locali.

Gli usi informali, in una forma di organizzazione spontanea, riescono a colmare alcuni limiti della gestione urbana, ma è necessario predisporre una cornice fertile che permetta loro di evolvere in un sistema riconoscibile, autonomo e in grado di inserirsi nei tempi e nei modi della pianificazione tradizionale. Tempelhofer Feld dimostra come questa sia un’operazione complessa, ma non impossibile, che restituisce riscontri positivi e risultati spesso inattesi. Adottando tecniche e strumenti, anche provvisori, derivanti dall’adattamento dei dispositivi disponibili per la pianificazione tradizionale, la pubblica amministrazione

06. Progetti civici nel Tempelhofer Feld | Civic projects in Tempelhofer Feld. E. Saracino

07. Alcune delle mappe con le indicazioni spaziali sviluppate dai gruppi di lavoro tematici (sinistra: Opportunità e spazi aperti; destra: Quartieri e connessioni) | Some of spatial statements on the maps developed by the thematic working groups (left: Opportunities and open spaces; right: Neighbourhoods and connections). Tempelhofer Feld ideas competition documentation, Senatsverwaltung für Stadtentwicklung, Bauen und Wohnen

può sperimentare modelli più agili e flessibili per aderire a contingenze mutevoli, da declinare ogni volta in relazione ai contesti, al campo di azione e all’obiettivo da raggiungere.

Per costruire un equilibrio dinamico tra forme di pianificazione formale e informale è necessario lavorare su più livelli operativi. Prima di tutto, occorre riesaminare gli strumenti urbanistici, legali e amministrativi esistenti, allontanandosi dalla logica esclusiva del “divieto” per aprirsi, attraverso forme di supporto e incentivazione, a nuove opportunità per scenari non previsti. È essenziale partire dalle risorse del territorio, dai suoi elementi fisici e dal patrimonio immateriale, che insieme istituiscono il milieu di un certo luogo, elemento di distinzione nella rete globale. Poi sviluppare sistemi di condivisione delle conoscenze e, infine, “imparare facendo” dalle pratiche spontanee che diventano mezzi del fare (Paba, 2010), comprendendo i modelli di organizzazione e deducendone insegnamenti.

Il ruolo del soggetto pubblico dovrebbe, dunque, evolversi da semplice fornitore di soluzioni ad attivatore di processi, incentivando iniziative diversificate e nuove forme di collaborazione tra i diversi attori. Analogamente, il ruolo del cittadino deve passare da chi subisce le politiche, a portatore di scelte (Pasqui, 2008). Gli strumenti formali possono supportare un quadro alternativo per la risoluzione delle questioni collettive, più aperto, orizzontale e collaborativo. Possono fornire una struttura generale in grado di accogliere risoluzioni particolari e molteplici, espressione della vibrazione positiva della città, affiancando metodi tradizionali con configurazioni spaziali a lungo termine a tattiche rapide e flessibili, capaci di adattarsi alle contingenze. In questo contesto serve procedere tatticamente piuttosto che strategicamente, pensando alla città come un’opera aperta, che rinuncia a un preciso risultato finale e a una figuratività univoca, prediligendo le potenzialità inespresse e l’incertezza formale. Costruendo un reale spazio di negoziazione democratica, sarà possibile pianificare ciò che, apparentemente, è impianificabile.*

NOTE

1 – Una dimensione pari a Central Park, due volte il Principato di Monaco, poco più di Panarea.

2 – Per approfondire le vicende storiche e urbanistiche riguardanti l’area fino ad oggi, si veda Jost (2011), Sanz Merlo (2021) e la documentazione per il Tempelhofer Feld ideas competition (berlin.de/sen/bauen/wettbewerbe/2024/tempelhofer-feld/; ultimo accesso luglio 2025).

3 – Vinto da GROSS.MAX con Sutherland Hussey Architects, incaricati poi delle fasi successive, ma fermati dal cambiamento degli indirizzi generali.

4 – La realizzazione dell’IGA International Garden Exhibition del 2017, avvenuta poi in un altro distretto della città, doveva essere presa in considerazione nella progettazione del parco.

5 – Del gruppo fanno parte Raumlabor, Urban Catalyst e mbup. Sui temi degli usi pionieri e temporanei e sul contesto berlinese si veda SenStadt (2007) e Oswalt et al. (2013).

6 – Verde, sport, industrie creative, residenze. Hanno partecipato 40mila utenti con 900 proposte.

7 – Legata all’inizio dei cantieri per la realizzazione dell’IGA (vedi nota 4). Il programma è stato poi rilanciato annualmente sulla base del nuovo piano di sviluppo.

8 – La procedura si concluderà nel 2025.

9 – 275 cittadini selezionati casualmente nel registro della popolazione, di cui 75 provenienti dai quartieri circostanti.

REFERENCES

– Jost, R. (2011). Tempelhofer Freiheit - Flughafen Tempelhof. Berlin: Stadtwandel Verlag. – Misselwitz, P. (2018). Rethinking temporary use in the neoliberal city. In Cupers, K., Miessen, M. (a cura di), Spaces of uncertainty. Berlin revisited. Basel: Birkhäuser, pp. 60-69. – Oswalt, P., Overmeyer, K., Misselwitz, P. (2013). Urban catalyst. The power of temporary use. Berlin: DOM publishers.

– Paba, G. (2010). Corpi urbani. Differenze, interazioni, politiche. Milano: FrancoAngeli.

– Pasqui, G. (2008). Città, popolazioni, politiche. Milano: Jaca Book.

– Sassen, S. (2008). Una sociologia della globalizzazione. Torino: Einaudi.

– Sanz Merlo, A. (2021). La regeneración de infraestructuras abandonadas en la ciudad contemporánea. Proyectar el futuro del aeropuerto de Tempelhof en Berlín. Cuaderno de Notas, n. 22, pp. 182-193.

– Schalk, M. (2014). Utopian desires and institutional change. In Bradley, K., Hedrén, J. (a cura di), Green utopianism. Perspectives, politics and micro-practices. New York: Routledge, pp. 131-149.

– Sendra, P., Sennett, R. (2022). Progettare il disordine. Idee per la città del XXI secolo. Roma: Treccani.

– SenStadt (2007). Urban pioneers. Temporary use and urban development in Berlin. Berlin: Jovis.

Urban research has shown that informal practices can be integrated into official planning methods, making a significant contribution to urban regeneration processes. While they may initially appear irreconcilable, a potential complementarity exists between institutional approaches and grassroots initiatives. This complementarity – albeit with certain limits and advantages – enables the combination of long-term structured visions with rapid and flexible tactics that respond to short-term contingencies.

Among the initiatives experimenting with this form of integration, the transformation process developed over the past 15 years at the former Tempelhof airport in Berlin offers a compelling case for consideration.

Tempelhofer Feld. A Field of Experimentation

The airport is located in the southeastern part of the city, between the districts of Kreuzberg, Neukölln, and Tempelhof (img. 02). This vast open space – approximately 330 ha1, plus the large terminal building – became available for new uses in 2008 following the closure of the airport.

Tempelhof has always been a field, undeveloped for centuries2. From land reclaimed for agricultural use to parade ground for military drills, from site of aviation experimentation to monumental symbol of Nazi power, from airlift hub during the Soviet blockade to the only gateway between West Berlin and the rest of the world, it has now become a vast open space, bounded yet functionally indeterminate, at the heart of a city that has gradually engulfed it.

As early as the mid-1990s, in initial framework proposals for the area’s future (img. 03), the idea of urban development was already present, alongside a notable focus on the central void and, with some foresight, the need to involve users in the planning process. From the outset, an attempt was made to combine a traditional planning pathway with an alternative one. In the meantime, just two years after the closure, the site was opened to the public as a park, enjoying immediate success despite minimal infrastructural intervention. In its state of indeterminacy, the park accommodates both planned and spontaneous activities, recreational and sportsrelated, and is notable for its high level of biodi-

Planning the Unplannable

The Regeneration of Berlin’s Former Tempelhof Airport

versity, playing a crucial role in the city’s bioclimate. The park and the buildings can be rented for events, revenue from which contributes to overall maintenance costs.

Between 2008 and 2014, the Berlin Senate launched a series of design competitions for the site. Among these, the 2008 ideas competition established the foundational principles for its transformation, which subsequently informed more detailed project proposals. These included the preservation of the central void as a park and the densification of the perimeter strips with mixed-use developments (residential, commercial, and public services). A later two-stage competition3 (2010-11) focused specifically on the park area, by then designated to host the IGA 20174 (img. 03).

At the same time, the Senate commissioned an interdisciplinary group of architects and urban designers, specialists in temporary uses and public space activation5, to explore alternative modes of participation and engagement. The first initiative emerged in 2007 through an online consultation aimed at stimulating the city’s creative potential. In the first phase, stakeholders were invited to voice their opinions on the airport’s impending closure and its future prospects; in the second, ideas were discussed at public events and with experts, then organised into four thematic areas6

The outcomes were consolidated in the Dynamischer Masterplan, a strategic plan conceived more in terms of time than space, structured into four phases tied to key actions (partial opening, exploration, experimentation with pioneer uses, and full opening). Each phase proposed open-ended scenarios, allowing adaptation in response to unexpected and unforeseeable initiatives. Building on Berlin’s cultural tradition of self-recovery and grassroots organisation of informal practices – further bolstered in those years by the abundance of easily accessible spaces and a highly active creative class – three pioneer zones (img. 04) were introduced into the park as a form of experimental procedure. These zones were designed to test innovative, sustainable projects arising from bottom-up initiatives. Each zone was defined by a prevailing vocation, specific dimensions, and a distinct timeframe7. Projects were submitted via a digital platform

and assessed by an advisory board composed of neighbourhood representatives and public authorities, who evaluated their suitability and selected the most promising proposals. One of the projects was assigned to the local association 100% Tempelhofer Feld, which disputed the planned new constructions included in the development schemes, highlighting instead the urgent need to safeguard free spaces for community gathering. The association also solicited the Senate to radically revise the mechanisms for civic engagement in decisionmaking processes. The community garden it manages acts as a point of observation and resistance within the field, raising awareness among users about the ongoing transformations. Through this activity, which made the association’s demands visible, it gathered enough signatures to trigger a citizens’ referendum against the urbanisation of the park’s outer ring. The referendum, which passed, led in 2014 to the adoption of the ThFG - Tempelhofer Feld Gesetz (img. 03), a preservation law that defines Tempelhof as a common good: an open, public and civic space. The ThFG prohibits construction, entirely preserves the central area as a natural landscape, allows for certain types of projects in the peripheral ring, and establishes that any development plans must be co-produced by civil society and public authorities on equal terms.

In response to the 2016 refugee crisis, one wing of the terminal was converted into a asylum-seekers’ centre, which was later partly relocated outside the building, where a village of temporary housing units still exists. To enable this adaptation, the ThFG was amended, raising new concerns among users. Indeed, a new ideas competition is now underway8, which, in addressing the housing emergency, reopens the debate around construction by proposing a “cautious peripheral densification” to be actively discussed with the inhabitants. Before launching the competition, a crosssection of citizens9 was involved in a dialogue process. The workshops – one of which was specifically dedicated to children and young people – produced three types of outcomes, which were incorporated into the competition brief: a set of recommendations (some of them designated as “key”), organised around five

thematic areas and explored in detail in each group through expert-led sessions; spatial indications represented on maps (img. 07); and a series of development perspectives. Five elected citizens will sit on the competition jury, and five winning teams will be selected to further develop and publicly discuss their proposals. Today Tempelhof remains one of the largest open urban spaces in the world, playing a central role in Berlin’s ecological, social and cultural landscape. Currently, 26 civic engagement projects are active on the site, spanning the fields of art, horticulture and social enterprise. These initiatives promote diversity, tolerance and community, offer alternative forms of recreation and leisure, and experiment with new entrepreneurial, social and cultural models. The existence of this space and these opportunities was only made possible by a grassroots initiative that overturned the city’s original development plans. As of now, future scenarios still remain open.

Reciprocal Possibilities

While the construction of the city and the broader system unfold over long timeframes, characterised by major transformations and substantial investments, could a complementary mode of intervention be envisioned, one that –like a parasite – inhabits the system’s very fabric, leveraging its inertia and gaps to work alongside conventional planning and urban development strategies? A close reading of the urban fabric suggests this is already happening: informal practices are making visible forms of resistance enacted by a proactive and engaged citizenry in opposition to top-down decisions often disconnected from local needs, or in response to emerging and urgent demands that institutional planning struggles to detect – let alone address –with its traditional tools. The goal should therefore be to enable conditions that allow such practices to emerge and flourish within a shared framework of rules and possibilities. Formal planning and informal uses occupy fundamentally different positions (in terms of timeframes, resources and structures), performing distinct roles and implementing different forms of action. These may appear diametrically opposed, but they are mutually necessary (Sassen, 2008), and in complementing each other, they become mutually consistent. A semantic and temporal complementarity allows for their coexistence, enabling both to benefit from their simultaneous presence.

On the one hand, informal activation wedges itself into the slow pace of planning and the delays of the market, capitalising on low entry costs and the presence of a socially and creatively rich milieu eager for self-determination. On the other hand, conventional planning, by integrating these practices into its strategies, has the opportunity to rapidly test the effects of transformations and to incorporate demands and proposals arising from grassroots mobilisation – especially from those typically excluded from institutional processes. Where long-term visions remain uncertain or undefined, and where growth may embrace conflict and dissonance (Sendra & Sennett, 2022), places can be reinterpreted and rein-

vented, developing new meanings within their territorial context. In such scenarios, informal operational models may integrate with traditional development frameworks, not merely as temporary fillers, but as catalysts for orienting future transformation processes. These opportunities do not entail the replacement of conventional planning, which must still regulate the overall framework guiding urban development. Yet urban development itself must evolve to accommodate models of use, economies and ways of life that are diverse and dynamic. Such models are extremely responsive to the present, emerging from concrete changes - social, cultural or economic - that manifest themselves more rapidly and unpredictably than those contemplated by institutional plans, and which precisely for this reason require more flexible and timely responses.

The process undoubtedly carries certain risks. In a context where decisions concerning urban transformation are increasingly delegated to non-public actors (Misselwitz, 2018), the institutionalisation of spontaneous practices may become a means of capitalising on collectively generated value, converting it into an advantage for a select few. Often, the success of informal activations triggers local gentrification processes (Schalk, 2014) which, while enriching the social and cultural life of a neighbourhood, simultaneously awaken new economic interests. These interests may accelerate real estate speculation that tends to displace spontaneous uses. The rise in market value is usually followed by the expulsion of more vulnerable social groups – those who, in most cases, initiated the transformation and animated its activities – who are then pushed towards other urban areas deemed less attractive by the city’s prevailing economic logic. However, at times, the critical mass of an active community may be sufficient to exert negotiating power during planning or in the renegotiation of future development strategies, thereby influencing projects and the direction of transformation. In addition, the normalisation of such operational models may limit imagination and the fluid nature typically associated with informality. Yet, in the long term, it can also lead to positive structural changes within institutions. It is thus necessary to reflect on the appropriate balance between top-down and bottom-up approaches, between determination and indeterminacy, between control and openness – a balance to be continuously renegotiated in relation to society and local contexts.

Informal uses, through forms of spontaneous organisation, can address certain shortcomings in urban governance. However, it is crucial to establish a fertile framework that enables these practices to evolve into a recognisable and autonomous system, one capable of integrating into the timing and modalities of traditional planning. Tempelhofer Feld demonstrates how such an operation is complex but not impossible, often yielding positive and unexpected outcomes. By adopting techniques and tools – even provisional ones – drawn from adaptations of instruments developed for conventional planning, public authorities can test more agile and flexible models that are responsive to shifting conditions, to be

calibrated each time in accordance with context, field of action, and the intended goals. Constructing a dynamic balance between formal and informal modes of planning requires work on multiple operational levels. First and foremost, it is necessary to re-examine existing urban, legal, and administrative tools, moving beyond a logic based solely on prohibition, and instead opening up – through forms of support and incentives – to new opportunities for unforeseen scenarios. It is essential to begin with the territory’s own resources, its physical elements and intangible heritage, which together constitute the milieu of a place, a distinctive feature within the global network. Then, it is vital to develop systems for sharing knowledge and, finally, to “learn by doing” from spontaneous practices that become tools of action (Paba, 2010), by understanding their organisational models and drawing lessons from them.

The role of the public sector should evolve from being a mere provider of solutions to that of a process activator, encouraging diverse initiatives and new forms of collaboration among various actors. Similarly, the citizen’s role must shift from passive recipient of policies to active agent of decision-making (Pasqui, 2008). Formal instruments can support an alternative framework for addressing collective issues, one that is more open, horizontal, and collaborative. They can provide a general structure capable of accommodating specific and plural solutions – expressions of the city’s positive vibrancy – by combining traditional long-term spatial configurations with rapid and flexible tactics able to respond to contingencies. In this context, it is necessary to proceed tactically rather than strategically, conceiving of the city as an open work, one that forgoes a fixed final outcome and a univocal form, favouring instead latent potentialities and formal indeterminacy. By building a genuine space for democratic negotiation, it becomes possible to plan for what, at first glance, appears unplannable.*

NOTES

1 – As big as Central Park, twice the size of the Principality of Monaco, just a bit larger than Panarea.

2 – For further historical and urban insights on the area up to the present day, see Jost (2011), Sanz Merlo (2021), and the documentation for the Tempelhofer Feld ideas competition (berlin.de/sen/bauen/wettbewerbe/2024/tempelhoferfeld/; last access July 2025).

3 – The competition was won by GROSS.MAX with Sutherland Hussey Architects, who were later commissioned for the subsequent phases, but the project was halted due to a change in overall policy direction.

4 – The design of the park was originally meant to consider the implementation of the IGA International Garden Exhibition 2017, which was instead eventually held in another district of the city.

5 – The team included Raumlabor, Urban Catalyst, and mbup. For further reading on pioneer and temporary uses and the Berlin context, see SenStadt (2007) and Oswalt et al. (2013).

6 – Green spaces, sports, creative industries, housing. Over 40 thousands users participated, submitting 900 proposals.

7 – Linked to the beginning of construction for the IGA (see note 4). The programme was later relaunched annually based on the new development plan.

8 – The procedure will be completed in 2025.

9 – 275 citizens were randomly selected from the population registry, 75 of whom were residents of the surrounding neighbourhoods.

Elisa Vendemini

Research fellow, Università Iuav di Venezia; Teaching Assistant, Università degli Studi della Repubblica di San Marino; Urban Planning Expert Consultant, UNDP-PAPP. evendemini@iuav.it

Jehan Salim

Former Head of Technical Unit at Zaatari Refugee Camp, UNHCR; Independent Consultant. jehan.salim@gmail.com

Towards a Paradigm Shift for Refugee Camps

01. Market street in Zaatari Refugee Camp | Strada del mercato nel campo profughi di Zaatari. UNHCR Communication team, 2017

Verso un cambio di paradigma per i campi profughi Il campo profughi di Zaatari, istituito nel 2012 al confine settentrionale della Giordania, rappresenta un esempio emblematico di insediamento informale nato a seguito di flussi migratori forzati. Inizialmente concepito come una soluzione temporanea a una necessità emergenziale, si è rapidamente ampliato, trasformandosi in una comunità stabile. La sua evoluzione mette in luce le tensioni tra temporaneità e stabilità, tra interventi istituzionali e pratiche informali. Il passaggio dalle tende fornite dall’UNHCR a strutture più stabili, la realizzazione di infrastrutture e lo sviluppo di un’economia locale spontanea dimostrano come gli insediamenti temporanei tendano a stabilizzarsi nel tempo, sottolineando l’importanza di adottare modelli adattivi per affrontare le crisi umanitarie.*

Established in 2012 on Jordan’s northern border, the Zaatari refugee camp is an emblematic example of an informal settlement created as a result of forced migration flows. Initially conceived as a temporary solution to an emergency, it quickly grew into a stable community. Its development highlights the tensions between temporariness and stability, between institutional interventions and informal practices. The transition from UNHCR-provided tents to more stable structures, the establishment of infrastructure, and the development of a spontaneous local economy demonstrate how temporary settlements tend to stabilize over time, underscoring the importance of adopting adaptive models to deal with humanitarian crises.*

Rethinking emergency solutions through informality

Refugee camps are designed as temporary solutions in response to sudden crises of displacement, but in reality, they often lose their temporary character and, over time, transform into stable settlements that increasingly resemble urban contexts (Sanyal, 2013; Picker and Pasquetti 2015). An emblematic example is the Zaatari refugee camp in Jordan, which has evolved over the years from a conglomeration of tents into a structured community with complex social and economic dynamics. To describe this transformative phenomenon, Michel Agier uses the term “city-camps” (Agier, 2002, p. 318), highlighting the natural convergence between refugee camps and cities. However, refugee camps are still considered by international organizations, in particular UNHCR (UN refugee agency), as mere temporary spaces of humanitarian intervention, without fully grasping their transformative potential. In fact, according to the 2005 UNHCR Handbook for Planning and Implementing Development Assistance for Refugees Programmes, there are three categories of planning: “short-term humanitarian and transitional planning”, “multi-year development planning”, and “macro-policy and global development”. In fact, the three categories are divided into separate management frameworks by phases and objectives, when, in reality, these processes are much more fluid and overlapping. Contemporary wars have changed the traditional approach to crisis management, highlighting the fact that protracted conflicts make it difficult to separate the phases: emergency response, recovery and long-term development (Duffield, 2013). Indeed, time is the key factor in the consolidation and entrenchment of emergency settlements.

Zaatari: an Unplanned Refugee Camp

KEYWORDS: REFUGEE CAMPS, SELF-BUILT SETTLEMENTS, HUMANITARIAN PLANNING | CAMPI PROFUGHI, INSEDIAMENTI AUTO-COSTRUITI, PIANIFICAZIONE UMANITARIA

Zaatari was established in response to the Syrian civil war, which began in 2011, and the urgent need to accommodate people fleeing the conflict. The Jordanian government, in cooperation with United Nations agencies and other international organizations, identified an area near the northern

border, on the road to Damascus, to host the refugee camp. The intention was to provide temporary shelter, but the exponential increase in displaced people due to the escalation of war and occupation by ISIS between 2013 and 2014, effectively transformed Zaatari from an emergency shelter to the fourth largest settlement by population in Jordan (Staff, 2022). The speed with which the camp formed did not allow for formal, planned growth; the priority was simply to provide immediate shelter for the large numbers of people arriving. Initially, tents were provided for refugee families randomly and chaotically scattered throughout the camp, but as the conflict continued, the lack of infrastructure and difficult environmental conditions highlighted the need for more stable shelters and organized planning. Caravans were

Zaatari transformed from emergency shelter to fourth largest settlement in Jordan by population

introduced, but their limited availability due to lack of funds caused tensions among the residents and led them to seek alternative housing solutions using available materials and modifying existing structures.

The awareness of a prolonged stay and the desire to create more livable spaces led refugees to take initiatives to improve their living conditions by using salvaged materials found in the camp (such as metal sheet, different types of panels, and even parts of other tents or caravans) to build superfetations, expand dwellings with new rooms and verandas, or reinforce existing structures to provide better protection from the weather, such as wind and sand, typical of the desert climate (Dalal, 2016). Another common practice was to combine different housing solutions within the same unit, resulting in articulated structures that could accom-

modate larger households or distinguish separate functional spaces. For example, a family might receive a container and later add one or more adjacent tents to expand the living space and define an uncovered functional area. In this way, refugees could adapt their dwellings, move toilet blocks, and gradually build neighborhoods around social networks (Beaumont, 2014). In fact, the changes affected not only the housing, but also the surrounding outdoor spaces, such as the creation of small courtyards, often enclosed or fenced, to provide more privacy for families and a semi-private area for domestic and social activities. These self-organizing and self-constructing interventions have resulted in different housing types and multiple urban configurations. In some areas, for example, the arrangement of dwellings and the formation of courtyards recalled the structure of ancient Arab cities, reproposing familiar socio-spatial practices typical of the regions of origin (Dalal, 2016). In addition to structural and functional interventions, a strong component of aesthetic personalization was evident through the addition of ornamental elements such as decorations or paintings. In addition to creating a sense of belonging, these elements transformed what was at first perceived as a temporary and impersonal space into a more familiar space. Parallel to the development of the living space, a vibrant informal economy also developed. Despite restrictions on refugee employment, many of them set up businesses of various kinds, transforming the camp streets into bustling centers of exchange that, in addition to providing essential goods and services, represent important social spaces and sources of income for the community (Al-Qutub, 1989). The emergence of these processes of adaptation, on the one hand, and entrenchment, on the other, directly led by the refugees themselves, highlights the strong desire to “inhabit” rather than “have shelter”, overcoming the temporary nature of the camp.

02. Zaatari informal settlement | Insediamento informale di Zaatari. J. Salim, 2019

This process of spontaneous appropriation and modification of space, although not without tensions and conflicts, immediately laid the groundwork for what would become significant informal urbanization. The absence of rigid and controlled planning allowed for self-management of the spaces in which they lived, but while it allowed for greater freedom in the management of living spaces, it also hindered the establishment of infrastructure and essential services sufficient for the growth of the settlement, compromising the road system and causing severe shortages of water and electricity supplies. Initially, minimal services were provided through communal facilities such as shared kitchens and bathrooms,

Comparing Zaatari and Azraq reveals the gap between spontaneous adaptability and planned efficiency

but over time many residents made their own water and electricity connections to their homes, often without proper coordination, resulting in waste, high costs, and numerous inconveniences. Informal construction of the canals and septic tanks also created sanitation problems, with water stagnation and siltation. To address these critical issues, international

agencies, particularly UNHCR, have initiated interventions to improve infrastructure, including providing households with direct water supply and constructing roads. However, the uneven distribution of housing and the ever-expanding settlement have complicated these interventions, resulting in fragmented and inefficient services.

From the earliest stages of the camp’s organization, the UNHCR set up a Technical Unit1 composed of five local staff members. In 2020, the unit was expanded to include two Syrian refugees residing in the camp. The aim was to support infrastructure improvements and address the evolving needs of the refugee population. The Unit was responsible for coordinating shelter upgrades and improving the distribution of basic services, although its activities were constrained by limited funding. In 2021, the team conducted a shelter assessment carried out using a representative sampling methodology: from approximately eleven thousand households across Zaatari’s twelve districts, random samples were selected and visited to collect data on shelter conditions, structural configurations, infrastructure needs, and direct feedback from refugee families. The survey revealed that electricity supply has been a major challenge, as the power generated by the solar plant donated in 2017 has been constantly overloaded due to increased consumption caused by growing number of house-

03. Refugee camp transformation process from November 2011 to August 2023 | Processo di trasformazione del campo rifugiati da novembre 2011 ad agosto 2023. Images extracted from Google Earth, reprocessed by Elisa Vendemini

holds and the greater use of household appliances. In order to meet the growing demand for electricity, there was indeed a widespread phenomenon of unregulated connections to the grid, using light poles as a power source. This practice mainly affected commercial activities within the camp, exacerbating grid congestion and increasing operating costs, especially during the winter months. The uncontrolled growth of the camp also resulted in a haphazard road network with difficult access and frequent flooding. Construction of roads, schools, and clinics was reactive rather than based on a structured plan, making camp management even more complex.

Azraq: a Planned Refugee Camp

The Zaatari experience led to the establishment of another camp in Jordan, Azraq, in April 2014. Its establishment was necessary to cope with the continued and increasing influx of refugees in the Mafraq area, and the gradual reduction of available space in Zaatari. Designed with the aim of relieving the pressure on the former camp, Azraq was designed and built over the course of about a year and, unlike the former camp, was based on strict planning, with greater institutional control and the establishment of services (community centers, basic first aid, safe spaces for women and children, sports fields, schools, toilets, etc.). From the outset, planning was based on a decentralized model, based on individual villages (Knell, 2014). Each village was designed to be self-sufficient in terms of basic services to avoid the

overcrowding that occurs in other camps. The organization of the camp thus follows a cluster structure, with refugees housed with people from their own towns or regions of origin, in order to preserve social networks, community traditions and to foster a sense of belonging and continuity. The goal was to create an environment that resembled an organized city rather than an emergency camp. Housing accommodations consisted of fixed shelters, prefabricated made of corrugated metal, with rammed earth floors, arranged in a grid pattern. Electricity was supplied through solar panels installed on the roof of each shelter, while public lighting at night was provided by solar-powered streetlights. Drinking water was distributed through a network equipped with wastewater treatment facilities. Additionally, two market areas were established, hosting activities run by both refugees and members of the host community. While this structure facilitated logistical management, it sacrificed social vibrancy. Indeed, Azraq proved to be more organized on paper, but less dynamic in practice. Another difference between the two camps is their location. Zaatari, located only 16 km from Mafraq, benefits from its relative proximity to the surrounding infrastructure. Azraq, on the other hand, was built about 100 km east of Amman in a remote desert area. This was intended to prevent the kind of informal sprawl that occurred in Zaatari, but the isolation eventually led to exclusion from economic opportunities, and for this reason the camp never developed a similar social or commer-

cial structure. According to testimonies collected during the 2019 field experience and reported by The Guardian at the time, newcomers described Azraq as a desolate place, comparable even to a prison (Beaumont, 2014). The configuration of Azraq, while designed to create villages and group communities into clusters, never encouraged organic development comparable to Zaatari. In 2024, Azraq housed approximately 41thousand people, although it was built to accommodate 130thousand (UNHCR, 2024). Despite careful planning, stateof-the-art facilities, and a more functional organization, Az-

combine structured planning with the active participation of refugees to ensure more sustainable and resilient solutions.

A City-Camp: Changing the Paradigm

Informality as a key element of urban and social transformation in contexts of protracted displacement.

raq lacks the social complexity necessary for a true sense of community to emerge. As a result, many refugees have preferred the spontaneous living model of Zaatari. This raises a fundamental question: is a planned or spontaneous refugee camp preferable? A comparison of Zaatari and Azraq reveals the strengths and weaknesses of both models. While Zaatari offers more flexibility and autonomy to its residents, but is difficult to manage, Azraq is more infrastructurally efficient, but less adaptable and livable. It is clear from the analysis that there is an urgent need for a hybrid approach that can

Looking forward, it is essential to recognize the inherent urbanization of refugee camps, overcoming the dichotomy between planned and spontaneous settlements. Zaatari is not just a camp, but a living laboratory that invites us to rethink urban systems and their planning as a dynamic process in which the city emerges from the interplay between institutional governance and collective initiatives. The informal practices adopted by refugees are not mere “fillers” of a void left by planning, but represent valuable forms of spatial and social intelligence. These practices offer important insights for rethinking urban design and suggest fundamental principles for its application in crisis contexts, such as: spatial flexibility, adaptability, use of local resources and prior knowledge, community participation, planning for stages of growth, integration with the surrounding context, and incremental approaches to infrastructure development. The Zaatari experience clearly demonstrates how informality can be a key element of urban and social transformation in contexts of protracted displacement. Far from being a marginal phenomenon, the spontaneous practices adopted by refugees reveal an extraordinary capacity for adaptation

and self-organization that overcomes the limitations of traditional planning models. In this scenario, the adoption of bottom-up strategies that enhance local resources and community expertise proves crucial in developing adaptive settlement patterns that respond to the changing needs of the population (Albrecht and Galli, 2023). Accepting uncertainty and incorporating principles of flexibility into design allows for the construction of more resilient and sustainable settlements in the long term. Indeed, plans for refugee camps should provide the possibility of modifications and adaptations by the residents themselves, recognizing the dynamic and evolving nature of settlements. An incremental approach, rather than rigid, definitive plans, allows the camp to evolve over time in response to emerging needs. Moreover, understanding the relationship between governance and informal adaptations, analyzing local specificities, and enhancing the potential of spontaneous practices are key steps in rethinking urban design in humanitarian crisis contexts. The design principles that emerged from Zaatari’s experience offer concrete insights for the discipline, suggesting a more flexible, participatory approach that is attentive to the real needs of the inhabitants. It is essential to abandon the view of the camp as a purely temporary space and to embrace its potential evolution towards unexpected but meaningful forms of urbanization.*

NOTES

1 – One of the authors, Jehan Salim, was the head of the Technical Unit at the Zaatari camp (UNHCR) from September 2019 to September 2021. This fieldwork directly contributed to the planning recommendations and analysis presented in this article.

REFERENCES

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04. Self-built housing in Zaatari | Abitazioni autocostruite a Zaatari. J. Salim, 2019

I campi profughi sono concepiti come soluzioni temporanee per rispondere a crisi di sfollamento improvvise, ma nella realtà spesso perdono questo carattere di transitorietà, trasformandosi nel tempo in insediamenti stabili che somigliano sempre più a contesti urbani (Sanyal, 2013; Picker and Pasquetti 2015). Un esempio emblematico è il campo profughi di Zaatari, in Giordania, che da un agglomerato di tende si è evoluto nel corso degli anni in una comunità strutturata con complesse dinamiche sociali ed economiche. Per descrivere questo fenomeno trasformativo, Michel Agier utilizza il termine “citycamps” (Agier, 2002, p. 318), evidenziando la naturale convergenza tra campi rifugiati e città. Tuttavia, i campi profughi continuano a essere considerati dalle organizzazioni internazionali, e in particolare da UNHCR (agenzia ONU per i rifugiati), come meri spazi di intervento umanitario a carattere temporaneo non cogliendone appieno il potenziale trasformativo. Infatti, secondo il manuale prodotto nel 2005 da UNHCR, Handbook for Planning and Implementing Development Assistance for Refugees Programmes, esistono tre categorie di pianificazione: “pianificazione umanitaria e di transizione a breve termine”, “pianificazione dello sviluppo pluriennale”, “macropolitica e sviluppo globale”. Dividendo, di fatto, le tre categorie in ambiti di gestione per fasi e obiettivi quando, nella realtà, questi processi sono molto più fluidi e sovrapposti. Le guerre contemporanee hanno trasformato il tradizionale approccio alla gestione delle crisi, evidenziando che i conflitti prolungati rendono difficile separare la fase di risposta emergenziale, la fase di ripresa e la fase di sviluppo a lungo termine (Duffield, 2013). Il fattore tempo è effettivamente l’elemento chiave in relazione al consolidamento e al radicamento degli insediamenti di emergenza.

Zaatari: un campo profughi non pianificato Zaatari è stato istituito in risposta alla guerra civile siriana iniziata nel 2011, e all’esigenza urgente di accogliere la popolazione in fuga dal conflitto. Il governo giordano, in collaborazione con le agenzie delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali, individuò una zona nei pressi del confine settentrionale, lungo la strada per Damasco, per collocare il campo profughi. L’intento era quello di fornire un riparo temporaneo, ma l’aumento esponenziale di sfollati, dovuto all’intensificarsi della guerra e all’occupazione da parte dell’ISIS

Verso un cambio di paradigma per i campi profughi

Ripensare le soluzioni di emergenza attraverso l’informalità

nel periodo compreso tra il 2013 e il 2014, ha di fatto trasformato Zaatari da rifugio di emergenza al quarto insediamento più grande della Giordania (Staff, 2022). La rapidità con cui si formò il campo non rese possibile uno sviluppo formale pianificato; la priorità era semplicemente quella di fornire un riparo immediato al gran numero di persone in arrivo. Nei primi mesi, alle famiglie di rifugiati furono distribuite tende, collocate all’interno del campo in modo arbitrario e caotico, ma con il protrarsi del conflitto, la mancanza di infrastrutture e le difficili condizioni ambientali, resero presto evidente la necessità di una sistemazione più stabile e di una pianificazione più organizzata. Successivamente furono introdotti i caravan, ma la loro disponibilità limitata, a causa della mancanza di fondi, generò tensioni tra i residenti, spingendoli a cercare soluzioni abitative alternative utilizzando i materiali disponibili e modificando le strutture esistenti.

La consapevolezza di una permanenza prolungata e il desiderio di creare spazi più vivibili hanno portato i rifugiati a intraprendere iniziative per migliorare le proprie condizioni abitative, utilizzando materiali di recupero trovati nel campo (come lamiere di metallo, pannelli di vario tipo e persino parti di altre tende o caravan) per realizzare superfetazioni, ampliare le abitazioni con nuove stanze e verande o rinforzare le strutture esistenti per garantire una migliore protezione dagli agenti atmosferici, come il vento e la sabbia, tipici del clima desertico (Dalal, 2016). Un’altra pratica comune era quella di combinare diverse soluzioni abitative all’interno della stessa unità, dando origine a strutture articolate in grado di ospitare nuclei familiari più numerosi o distinguere spazi funzionali separati. Una famiglia, ad esempio, poteva ricevere un caravan e successivamente aggiungere una o più tende adiacenti per ampliare lo spazio abitativo e definire un’area esterna di pertinenza. In questo modo i rifugiati potevano adattare le loro abitazioni, spostare i blocchi dei servizi igienici e costruire gradualmente i quartieri attorno a reti sociali (Beaumont, 2014). Le modifiche riguardavano infatti non solo gli alloggi, ma anche gli spazi esterni circostanti, come la creazione di piccoli cortili, spesso delimitati o recintati, per garantire maggiore privacy alle famiglie e offrire un’area semi-privata per attività domestiche e sociali. Questi interventi auto-organizzati e auto-costruiti hanno dato origine a diverse tipologie abitative e a molteplici configurazioni urbane. In alcune aree, ad esempio, la disposi-

zione delle abitazioni e la formazione di cortili richiamava la struttura delle antiche città arabe, riproponendo pratiche socio-spaziali familiari tipiche delle regioni di origine (Dalal, 2016). Oltre agli interventi di natura strutturale e funzionale, si è manifestata anche una significativa componente di personalizzazione estetica, con l’aggiunta di elementi ornamentali come decorazioni o dipinture. Oltre a creare un senso di appartenenza, questi elementi hanno trasformato quello che all’inizio era percepito come uno spazio temporaneo e impersonale in uno spazio più familiare. Parallelamente all’evoluzione dello spazio abitativo, si è sviluppata anche una vivace economia informale. Nonostante le restrizioni sull’occupazione dei rifugiati, molti di loro hanno avviato attività commerciali di vario genere, trasformando le vie del campo in animati centri di scambio che, oltre a fornire beni e servizi essenziali, rappresentano importanti spazi sociali e fonti di reddito per la comunità (Al-Qutub, 1989). L’emergere di questi processi di adattamento, da un lato, e di radicamento, dall’altro, guidati direttamente dagli stessi rifugiati, evidenzia il forte desiderio di “abitare” piuttosto che di “avere un riparo”, superando la natura temporanea del campo. Questo processo di spontanea appropriazione e trasformazione dello spazio, sebbene non privo di tensioni e conflitti, ha fin da subito gettato le basi per quella che sarebbe poi diventata una significativa urbanizzazione informale. È stata proprio l’assenza di una pianificazione rigida e controllata a permettere l’autogestione degli spazi in cui i rifugiati vivevano, ma se da un lato ha consentito una maggiore libertà nella gestione degli spazi abitativi, dall’altro ha ostacolato la realizzazione di infrastrutture e servizi essenziali sufficienti alla crescita dell’insediamento, compromettendo la viabilità e causando gravi carenze nelle forniture di acqua ed elettricità. Inizialmente, i servizi minimi erano forniti attraverso strutture comuni, come cucine e bagni condivisi, ma con il tempo molti abitanti hanno realizzato autonomamente gli allacciamenti idrici ed elettrici alle proprie abitazioni, spesso senza un adeguato coordinamento, con conseguenti sprechi, costi elevati e numerosi disagi. Anche la costruzione informale di canali e fosse settiche ha generato problemi igienico-sanitari, con ristagni d’acqua e fango. Per far fronte a queste criticità, le agenzie internazionali, in particolare UNHCR, hanno avviato interventi per migliorare le infrastrutture, tra cui la fornitura diretta di acqua agli alloggi e la sistemazione di strade. Tuttavia,

la disposizione disomogenea delle abitazioni e l’insediamento in continua espansione hanno reso difficili tali interventi, portando a servizi frammentari e non adeguatamente efficienti. Fin dalle prime fasi di organizzazione del campo, l’UNHCR istituì una Unità Tecnica1 composta da cinque membri del personale locale. Nel 2020, l’Unità fu ampliata per includere due rifugiati siriani residenti nel campo. L’obiettivo era di sostenere il miglioramento delle infrastrutture e rispondere ai bisogni della popolazione. L’Unità era infatti responsabile del coordinamento degli interventi di upgrading degli alloggi e del potenziamento della distribuzione dei servizi di base, sebbene le attività fossero talvolta limitate da risorse finanziarie insufficienti. Nel 2021, l’équipe ha condotto una valutazione degli alloggi utilizzando una metodologia di campionamento rappresentativa: tra circa undicimila famiglie distribuite nei dodici distretti di Zaatari, sono stati selezionati campioni casuali ed esaminati tramite sopralluoghi per raccogliere dati sulle condizioni degli alloggi, sulle configurazioni spaziali, sulle esigenze infrastrutturali e sul feedback diretto delle famiglie rifugiate. L’indagine ha evidenziato che la fornitura di energia elettrica rappresentava una sfida significativa, con considerevoli criticità, poiché l’impianto solare donato nel 2017 era stato costantemente sovraccaricato a causa del crescente numero di famiglie e dell’uso sempre più diffuso e intensivo di elettrodomestici. Per soddisfare la crescente domanda di elettricità, si è infatti diffuso il fenomeno degli allacciamenti non regolamentati alla rete elettrica, utilizzando i pali della luce come fonte di energia. Questa pratica ha interessato soprattutto le attività commerciali interne al campo, aggravando il sovraccarico della rete e aumentando i costi operativi, in particolare nei mesi invernali. La crescita incontrollata del campo ha portato anche a una rete viaria disordinata, con difficoltà di accesso e frequenti allagamenti. La costruzione di strade, scuole e cliniche è avvenuta in modo reattivo, piuttosto che sulla base di un piano strutturato, rendendo la gestione del campo ancora più complessa.

Azraq: un campo profughi pianificato L’esperienza di Zaatari ha portato alla creazione di un altro campo in Giordania, Azraq, nell’aprile del 2014. La sua istituzione si rese necessaria per far fronte al continuo e crescente afflusso di rifugiati nella zona di Mafraq e alla progressiva riduzione dello spazio disponibile a Zaatari. Creato con l’obiettivo di alleggerire la pressione sul precedente campo, Azraq è stato progettato e costruito nell’arco di circa un anno e, a differenza del primo, si è basato su una pianificazione rigorosa, con un maggiore controllo istituzionale e predisponendo servizi (centri comunitari, pronto soccorso di base, spazi sicuri per donne e bambini, campo sportivi, scuole, servizi igienici ecc.). La pianificazione è stata concepita fin dall’inizio secondo un modello decentralizzato, basato su villaggi separati (Knell, 2014). Ogni villaggio è stato progettato per essere autosufficiente dal punto di vista dei servizi di base, al fine di evitare la congestione riscontrata in altri cam-

pi. L’organizzazione del campo segue quindi una struttura a cluster, nella quale i rifugiati sono stati raggruppati insieme ad altre persone provenienti dalle stesse città o regioni d’origine, in modo da preservare le reti sociali, le tradizioni comunitarie e favorire un senso di appartenenza e continuità. L’obiettivo era quello di creare un ambiente che somigliasse a una città organizzata piuttosto che a un campo di emergenza. Gli alloggi consistevano in shelter fissi, prefabbricati in metallo ondulato, con pavimenti in terra battuta, disposti a griglia. L’elettricità era fornita tramite pannelli solari installati sul tetto di ogni abitazione, mentre l’illuminazione pubblica notturna era garantita da lampioni a energia solare. L’acqua potabile era distribuita attraverso una rete dotata di un impianto di trattamento delle acque reflue. Inoltre, erano state predisposte due aree mercato che ospitavano attività gestite sia dai rifugiati che dai membri della comunità ospitante.

Se da un lato questa struttura ha facilitato la gestione logistica, dall’altro ha sacrificato, però, la vivacità sociale. In effetti, Azraq si è rivelato più organizzato sulla carta, ma meno dinamico nella realtà. Un’ulteriore differenza tra i due campi rifugiati riguarda la loro localizzazione. Zaatari, situato a soli 16 km da Mafraq, beneficia della relativa vicinanza alle infrastrutture circostanti. Azraq, invece, è stata costruito a circa 100 km a est di Amman, in una remota area desertica. L’intento era quello di evitare il tipo di espansione informale che si è verificata a Zaatari, ma l’isolamento ha finito per portare all’esclusione dalle opportunità economiche e per questo motivo il campo non ha mai sviluppato un tessuto sociale o commerciale simile. Secondo le testimonianze raccolte durante l’esperienza sul campo nel 2019 e come venne riportato dal The Guardian all’epoca, i nuovi arrivati descrivevano Azraq come un luogo desolato, paragonabile persino a una prigione (Beaumont, 2014). La configurazione di Azraq, pur essendo progettata per creare villaggi e raggruppare le comunità in cluster, non ha mai favorito uno sviluppo organico paragonabile a Zaatari. Nel 2024, Azraq ospitava circa 41mila persone, pur essendo stato costruito per accoglierne 130mila (UNHCR, 2024). Nonostante un’attenta pianificazione, strutture all’avanguardia e un’organizzazione più funzionale, Azraq manca della complessità sociale necessaria a far emergere un vero senso di comunità. Di conseguenza, molti rifugiati hanno preferito il modello di vita spontaneo di Zaatari. Ciò solleva una questione fondamentale: è preferibile un campo profughi pianificato o spontaneo? Il confronto tra Zaatari e Azraq mette in luce i punti di forza e le criticità di entrambi i modelli. Mentre Zaatari offre maggiore flessibilità e autonomia agli abitanti, ma presenta difficoltà nella gestione, Azraq è più efficiente dal punto di vista infrastrutturale, ma meno adattabile e vivibile. Dall’analisi emerge con chiarezza l’urgente necessità di adottare un approccio ibrido che possa combinare una pianificazione strutturata con la partecipazione attiva dei rifugiati per garantire soluzioni più sostenibili e resilienti.

City-camp: un cambio di paradigma In prospettiva, è essenziale riconoscere l’urbanizzazione intrinseca dei campi profughi, superando la dicotomia tra insediamenti pianificati e spontanei. Zaatari non è solo un campo, ma un laboratorio vivente che invita a ripensare i sistemi urbani e la loro pianificazione come un processo dinamico in cui la città emerge dall’interazione tra governance istituzionale e iniziative collettive. Le pratiche informali adottate dai rifugiati non sono semplici “riempitivi” di un vuoto lasciato dalla pianificazione, ma rappresentano preziose forme di intelligenza spaziale e sociale. Queste pratiche offrono importanti spunti per ripensare la progettazione urbana e suggeriscono principi fondamentali per la sua applicazione in contesti di crisi, quali: flessibilità, adattabilità, utilizzo delle risorse locali e delle conoscenze pregresse, partecipazione comunitaria, progettazione per fasi di crescita, integrazione con il contesto circostante e approcci incrementali allo sviluppo infrastrutturale. L’esperienza di Zaatari dimostra in modo inequivocabile come l’informalità possa essere un elemento chiave nella trasformazione urbana e sociale in contesti di sfollamento prolungato. Lungi dall’essere un fenomeno marginale, le pratiche spontanee adottate dai rifugiati rivelano una straordinaria capacità di adattamento e autorganizzazione che supera i limiti dei modelli di pianificazione tradizionali. In questo scenario, l’adozione di strategie bottom-up, che valorizzano le risorse locali e le competenze della comunità, si rivela fondamentale per sviluppare modelli di insediamento adattivi che rispondano alle mutevoli esigenze della popolazione (Albrecht e Galli, 2023). Accettare l’incertezza e integrare principi di flessibilità nella progettazione consente di costruire insediamenti più resilienti e sostenibili nel lungo periodo. I piani per i campi rifugiati dovrebbero infatti prevedere la possibilità di modifiche e adattamenti da parte degli stessi abitanti, riconoscendo la natura dinamica e in continua evoluzione degli insediamenti. L’adozione di un approccio incrementale, anziché di piani rigidi e definitivi, permette al campo di evolversi nel tempo in risposta ai bisogni emergenti. Inoltre, la comprensione del rapporto tra governance e adattamenti informali, l’analisi delle specificità locali e la valorizzazione del potenziale delle pratiche spontanee sono passaggi fondamentali per ripensare la progettazione urbana nei contesti di crisi umanitaria. I principi di progettazione emersi dall’esperienza di Zaatari offrono spunti concreti per la disciplina, suggerendo un approccio più flessibile, partecipativo e attento alle reali esigenze degli abitanti. È fondamentale abbandonare la visione del campo come uno spazio puramente temporaneo e abbracciare la sua potenziale evoluzione verso forme di urbanizzazione inattese ma significative.*

NOTE

1 – Una delle autrici, Jehan Salim, è stata a capo dell’Unità Tecnica del campo profughi di Zaatari (UNHCR) da settembre 2019 a settembre 2021. Questo lavoro sul campo ha contribuito direttamente alle raccomandazioni e all’analisi della pianificazione presentata in questo articolo.

PhD in Architecture, City, and Design, guest lecturer, Amsterdam Academy of Architecture. renzosgolacchia@hotmail.com

Tacit Knowledge

01. Roma community at De Witte Plas campsite, North Brabant region, Netherlands | Comunità rom al campeggio De Witte Plas, regione del Brabante settentrionale, Paesi Bassi. R. Sgolacchia

Il sapere tacito L’articolo esamina la comunità Rom di De Witte Plas, nei Paesi Bassi, come caso studio di pratiche abitative informali e auto-organizzate che resistono ai sistemi aziendali dominanti. Attraverso una combinazione di lavoro sul campo, ricerca progettuale e workshop collaborativi, la ricerca indaga come i membri della comunità riconfigurano creativamente abitazioni containerizzate, utilizzando materiali riciclati e piattaforme digitali. Inquadrato attraverso il duplice significato del termine flessibilità, l’articolo sostiene l’informalità come paradigma strategico ed emancipatorio. Propone una rilettura dell’abitare dei lavoratori migranti, incentrata su autonomia dei fruitori, adattabilità e radicamento sociale, sfidando i limiti dei modelli istituzionali come i flexwoningen *

The article examines the Roma community at De Witte Plas, Netherlands, as a case study of informal, self-organised housing practices that resist dominant corporate systems. Through a combination of fieldwork, design-driven research, and collaborative workshops, the study explores how community members creatively reconfigure containerised housing using recycled materials and digital platforms. Framed through the dual meaning of flexibility, the article argues for informality as a strategic, emancipatory paradigm. It proposes a reconceptualisation of migrant workers’ housing that foregrounds user autonomy, adaptability, and social embeddedness, challenging the limitations of institutionally regulated models like flexwoningen *

Understanding

Informality

as Self-organised

Housing in the Netherlands

Introduction

In their book Informal City: Caracas Case, Brillembourg and Klumpner investigate the informal processes supporting spontaneous urbanisation, seeking to identify the implicit logics and structures that organise what might initially seem as disorder (Brillembourg et al., 2005, pp. 16-23). Crucial to their analysis is the concept of flexibility, framed as a model of self-organised development that challenges conventional planning approaches and is manifested in the adaptive construction practices characteristic of informal settlements (Brillembourg et al., 2005, pp. 248-259).

KEYWORDS: FLEXIBILITY, SELF-DESIGN, WORKERS’ HOUSING | FLESSIBILITÀ, AUTOPROGETTAZIONE, ABITAZIONI PER LAVORATORI

In recent times, however, the concept of flexibility has shifted to a more restrictive meaning, primarily addressing housing emergencies. Temporary, mobile, modular, containerised, and prefab became synonyms of flexible. In the Netherlands, flexwoningen (flexible housing) are designed to accommodate migrant workers and defined by containerised and temporary nature. These units can be “moved, stacked, connected, or split,” provided that at least “one of the following aspects is temporary: the house itself, the occupation through temporary lease, or the location” (Housing Expert Team, 2021). This narrow definition, focused on mobility and temporariness, implicitly excludes user adaptation and self-design. The efficiency criteria of flexwoningen and the design of dormitories as simulacra of vacation accommodations enable employment agencies to consolidate their pervasive presence and maintain constant surveillance. By reducing inhabitants to a condition of “bare life” (Agamben, 1998, pp. 21, 169-170), workers’ housing seems instrumental in developing a disciplinary code to educate the workforce. Agencies control workers’ lives through inspections, warnings, and organising shifts and transport via algorithms. These coercive practices reveal the oppressive and panoptical nature of workers’ housing, where hyper-rationalised layouts amplify workers’ stress (Sgolacchia, 2023). A relevant example is the orthogonal grid layout of mobile home parks, which enables a complete view (img. 02). Security officers and agencies’ personnel can moni-

tor the entire outdoor area simply by walking along the site’s perimeter, while the layout offers no blind spots in the field of view of surveillance camera. This spatial arrangement transforms the campsite into a fully observable environment, revealing the disciplinary logic embedded in its design.

Stichting Normering Flexwonen (SNF) regulates the architectural standards of migrant workers’ housing, defining the “minimum requirements for liveability,” such as square meters per person, cupboard volume, and bed dimensions (SNF, 2025, pp. 6-9). A prefabricated mobile home, which workers usually call a “bungalow” or “chalet,” typically includes three bedrooms, a bathroom, and a living room with an open kitchen, housing three to four people. In this type, the SNF estimates the minimum space for a single room at 3.5 m2, specifying that such figures are largely based on guesswork and intuition1. This approach reveals SNF’s insensibility to the lived realities and needs of inhabitants, regulating only the minimum thresholds for liveability.

site owner, they settled there with their families and invited relatives and fellow villagers from across Europe. Currently, the Romani community comprises almost three hundred residents at the campsite of which nearly a hundred primarily work as pickers at Bol.com, a major Dutch webshop, in its distribution centre in Waalwijk. Functioning as a de facto trade union, the community collectively negotiates directly with factory management on specific requests and employment conditions3. The community’s informal approach is exemplified by their resistance to the dormitory labour regime and their self-construction of homes, adapting and extending standard containerised units to house newcomers (img. 01).

Objectives

Roma community reclaims flexibility through self-built housing in Dutch campsite

By contrast, the Roma community at De Witte Plas, a campsite in North Brabant, close to the Belgian border, represents an emblematic case of informal spatial reconfiguration and self-designed housing, subverting dominant corporate architectures in the Netherlands. Mario and Lavi, two Roma individuals from Bistrița-Năsăud county in Romania, arrived in the Netherlands in 20202. After initial work experiences under the control of recruitment agencies, they emancipated themselves finding alternative accommodation outside the agencies’ system and living with their children, who are excluded from workers’ dormitories and often left in the country of origin. Having reached an agreement with De Witte Plas camp-

The article explores the Roma community’s practices within broader theoretical debates on flexibility and informal architecture, emphasising their relevance in reimagining contemporary urban forms. These practices, including self-planning, recycling and sourcing building materials, and the negotiations of labour conditions, challenge the rigid models of workers’ housing conceived and imposed by agencies and regulated by SNF. By actively subverting the formal systems that govern their lives, the Roma community embodies Adrian Forty’s concept of “flexibility as a political strategy” (Forty, 2000, p. 147). According to him, this notion of flexibility emerged as a countermeasure to the capitalist control of space, which limits individual freedom by compartmentalising domestic life, leisure, and work into distinct functional zones, transforming them into commodified spaces with exchange value (ibidem). Forty analyses the Situationist International’s “appropriation of existing buildings with predetermined uses” in the late 1950s and Henri Lefebvre’s “resistance to dominated space” theorised in his 1974 book, The Production of Space (ibidem). These examples demonstrate a collective pursuit of “freedom of use,” promot-

ing the reinterpretation of buildings and cities beyond their prescribed functions (ibidem). In this sense, flexibility is not merely an architectural feature of buildings, but a political act to adapt spaces for diverse everyday uses.

The main hypothesis of the article is that, by rejecting the compartmentalisation of life into rigid functions, typical of flexwoningen designed to optimise profit and control labour, the community’s informal strategies demonstrates how workers’ housing can be reconfigured into adaptable, circular, and participatory frameworks that better respond to the inhabitants’ needs. In other words, how containerised housing types can be repurposed into truly flexible dwellings.

The community’s approach emphasises the appropriation and transformation of existing buildings and resources by users, who apply flexibility and multifunctionality as tools of collective care and resistance. The article seeks to position these self-organised practices as an emancipatory response to the pervasive systems of control embedded in the Dutch corporate housing regime, while also integrating the community’s practical, tacit knowledge into architectural research. Furthermore, the article argues for a reconceptualisation of the boundary between formal and informal architecture, proposing a hybrid paradigm in which user autonomy, adaptability, and social embeddedness are central to the design of inclusive environments.

Methods

The adopted method combines field study and design-driven research. Data were collected through spatial analysis and fieldwork conducted in the spring of 2024, including a series of qualitative interviews at De Witte Plas campsite with the inhabitants. In addition, a twelve-minute documentary filmed on site offers a visual impression of community life.

Engaging in a research-by-design process involves using design not just as a problem-solving activity or a means of architectural production, but as a method for inquiry and exploration4. Collaboration with the Romani community took the form of workshops focused on their spatial practices, em-

phasising the role of negotiations and the potential of their architectural tacit knowledge. As part of this process, I briefly reconstructed the community’s informal approach, particularly their strategy for extending containerised units and optimising resource flows. Drawing, as a visually-oriented experience, served as a medium for mutual learning and knowledge exchange during these workshops.

To develop the design-driven investigation, I selected a specific case study: the home of Mario’s family, which exemplifies a typical construction process initiated by Roma people at the campsite. Mario methodically organised the project into five phases: purchasing a mobile home on the site, storing building materials, preparing the extension, constructing internal partitions, and installing a roof. This progression illustrates the transformation of a rigid, containerised unit into a selfdesigned, adaptable dwelling, highlighting the community’s capacity to manage complex logistical operations and produce sustainable, inhabitable space (img. 03).

A defining feature of the Roma community’s informal approach is their strategic activation of existing logistical functions embedded within digital platforms. As Clare Lyster argues, apps that mediate between users and urban systems offer an interesting model for sharing infrastructure and goods (Lyster, 2016). The community’s use of classified advertising platforms such as Marktplaats and Facebook Marketplace, augments access to recycled building materials and second-hand furniture. They benefit from these platforms to employ the material surplus of other users, selecting listings within a 50 to 100 km radius of De Witte Plas, and linking otherwise disconnected basements, storages, and depots into a distributed supply network. The community subverts the platforms’ profitdriven models, which rely on listing fees, advertising, and subscriptions, by sourcing materials free of charge, typically from private homeowners, and bypassing paid services entirely.

The construction of Mario’s home exemplifies the community’s resourcefulness and its strong collective commitment. The project involves eight months of planning, namely

02. Typical mobile home park to accommodate migrant workers, North Brabant region, Netherlands | Tipico parco di case mobili per accogliere i lavoratori migranti, regione del Brabante settentrionale, Paesi Bassi. R. Sgolacchia

researching, negotiating, purchasing, transporting, and storing materials, followed by one-month of on-site construction. Mario, his son Edy, and other community members rolled up their sleeves to participate, transforming the project into a shared endeavour and a powerful symbol of self-sufficiency.

Discussion

This building process illustrates two key outcomes. First, it disrupts the agency-imposed logic of containerised housing by demonstrating how rigid, prefab units can be reconfigured into adaptable dwellings. Second, it emphasises the broader

sation, resourcefulness, and adaptability,” someone who creates something new using whatever materials or tools are at hand, often operating outside formal, conventional practices (Scalbert, 2011). He introduces this figure from Claude LéviStrauss’s distinction between the bricoleur and the engineer, developed in his 1962 book La Pensée Sauvage (The Savage Mind): while the engineer subordinates materials to a predefined project, imposing a conceptual framework on reality, the bricoleur, by contrast, adapts their design to a specific and limited inventory and recycles the remains of older projects in response to present needs (ibidem).

Community-led architecture promotes autonomy, adaptability, and

spatial justice

social cohesion that emerges from these construction efforts. The focus extends beyond individual homes to include forms of social aggregation and collective infrastructure within the campsite. At De Witte Plas, the Roma community has established mutual aid systems, collective bargaining practices, and knowledge-sharing networks, functioning as a civic organisation. These mechanisms challenge the isolation typical of migrant workers’ housing and their impact contribute to include forms of social aggregation and the creation of shared facilities within the campsite. Considering the lack of formal public spaces, shared outdoor areas of the campsite have been informally repurposed for rituals, celebrations, religious ceremonies, and communal childcare, creating vital nodes of everyday life and cultural expressions.

To better understand this self-organised process, the notion of the architect as a bricoleur, as developed by Irénée Scalbert, provides a clear analogy for understanding the Roma community’s informal. Scalbert describes the bricoleur as “at once designer, builder, and user,” characterised by “improvi-

Like Scalbert’s bricoleur, the Roma community operates in an environment of constraint, where access to conventional building materials and institutional support is limited. They creatively respond to these limitations reconfiguring available resources through online platforms and adapting second-hand materials and tools to fit their immediate needs. This process mirrors the bricoleur’s method of assembling disparate elements into a coherent whole, constructing meaningful spaces from what others might consider unusable or insignificant. This ability to work fluidly with what is at hand demonstrates a deep flexibility, a peculiar quality of Scalbert’s bricoleur

De Witte Plas emerges as a key site of alternative and informal architecture, shaped by what Edwin Buitelaar calls the “spontaneous order” of a “free society.” This concept stands in contrast to a “designed order,” which typically involves nationally-operating developers, active land-use policies, and formal zoning regulations (Buitelaar, 2020, pp. 38-39). Spontaneous order, by contrast, relies on minimal and generic building regulations (ibidem). In such contexts, social and spatial order emerges organically, without a central organising authority, and inhabitants establish rules to prevent unjust actions between individuals (ibidem). At De Witte Plas, familial and neighbourly connections among residents help regulate

relations and prevent injustices, reinforcing the principles of spontaneous order and showing its practical implications in creating a just and supportive community. Scholars argue that institutional frameworks must meet certain justice requirements, such as establishing fundamental freedoms and equal rights (Buitelaar, 2020; Moroni, 2019). In this particular conceptualisation of the just city, the Roma community achieved a significant progress when they successfully registered their residency with the municipality of Schijf in 20205. This registration marked a key moment, as the spontaneous order at De Witte Plas emerged primarily from the community’s own initiative rather than from institutional planning. Nevertheless, the municipality played a crucial role by formally recognising and certifying the community’s desire to reside at the campsite, thereby guaranteeing their freedom of choice.

Conclusions

The findings reveal the Roma community’s capacity to negotiate autonomy within the constraints of global logistics and labour systems. Their housing practices, rooted in circular economy principles and participatory design, demonstrate how informal architecture can create adaptive, fair, and resilient environments. This case study contributes to understanding informality as a strategic paradigm, offering insights into the transformative potential of grassroots action. It suggests urban planning frameworks that foster community agency, flexibility, and sustainability, redefining justice and equity in spatial arrangements.*

NOTES

1 – Interview with Jolet Woorders, the secretary of SNF, 8th December 2022.

2 – Interview with Mario, 2th July 2022.

3 – Ibidem

4 – The research-by-design method is extensively investigated by the CA2RE+ seminars. See for instance one of the publications: CA2RE+ Delft Recommendation, Book of Proceedings, (TU Delft: Open Publishing, 2023).

5 – The old leadership of the Schijf municipality was kind and supportive, unlike the new one that has been intolerant for two years.

REFERENCES

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Brillembourg, A., Feireiss, K. Klumpner, H. (2005). Informal city: Caracas case. Munich, New York: Prestel.

Buitelaar, E. (2020) Maximaal, Gelijk, Voldoende, Vrij: Vier perspectieven op de rechtvaardige stad [Maximum, Equal, Sufficient, Free: Four Perspectives on the Just City]. Haarlem: TrancityxValiz.

Expertteam Woningbouw [Housing Expert Team] (2021). Flexwonen [Flexible Housing] (online). In rvo.nl/onderwerpen/expertteam-woningbouw/flexwonen#wat-is-flexwonen%3F (last access July 2025). – Forty, A. (2000). Words and Buildings: A Vocabulary of Modern Architecture. London: Thames & Hudson.

Lévi-Strauss, C. (1962). La Pensée Sauvage. [The Savage Mind]. Paris: Librairie Plon.

Lyster, C. (2016). Learning from Logistics: How Networks Change Our Cities. Basel and Berlin: Birkhäuser.

Moroni, S. (2019). The just city. Three background issues: Institutional justice and spatial justice, social justice and distributive justice, concept of justice and conceptions of justice, Planning Theory, n. 19(3).

Scalbert, I. (2011). The Architect as Bricoleur, Candide. Journal for Architectural Knowledge, n. 04.

Sgolacchia, R. (2023). Housing Migrant Workers, Footprint, n. 17(1).

SNF Stichting Normering Flexwonen [Flexible Housing Standards Foundation] (2025). Standards for housing migrant workers (online). In normeringflexwonen.nl/cms/ files/2025-07/norm-voor-huisvesting-arbeidsmigranten-per-1-juli-2025-engelse-versie.pdf (last access July 2025).

03. Outcome of the design-driven research and collaborative workshops at De Witte Plas | Risultati della ricerca orientata alla progettazione e dei workshop collaborativi presso De Witte Plas. R. Sgolacchia

Introduzione

Nel loro libro Informal City: Caracas Case, Brillembourg e Klumpner analizzano i processi informali che supportano l’urbanizzazione spontanea, cercando di identificare le logiche implicite e le strutture che organizzano ciò che inizialmente può apparire come disordine (Brillembourg et al., 2005, pp. 16-23). Un concetto cruciale nella loro analisi è quello di flessibilità, intesa come un modello di sviluppo autoorganizzato che mette in discussione gli approcci di pianificazione convenzionale, manifestandosi nelle pratiche costruttive adattabili tipiche degli insediamenti informali (Brillembourg et al., 2005, pp. 248-259).

Negli ultimi anni, tuttavia, il concetto di flessibilità ha assunto un significato più restrittivo, riferito principalmente alle emergenze abitative. Temporaneo, mobile, modulare, containerizzato e prefabbricato sono diventati sinonimi di flessibile. Nei Paesi Bassi, i flexwoningen (abitazioni flessibili) sono progettati per ospitare lavoratori migranti e sono caratterizzati dalla loro natura containerizzata e temporanea. Queste unità possono essere “spostate, impilate, collegate o divise”, a condizione che almeno “uno dei seguenti aspetti sia temporaneo: la casa stessa, l’occupazione tramite contratto temporaneo o la localizzazione” (Housing Expert Team, 2021). Questa definizione limitata, incentrata sulla mobilità e temporaneità, esclude implicitamente l’adattamento da parte degli utenti e l’autoprogettazione.

I criteri di efficienza dei flexwoningen e la progettazione dei dormitori come simulacri di camping o case per le vacanze consentono alle agenzie di lavoro di consolidare la propria presenza pervasiva e di mantenere una sorveglianza costante. Riducendo gli abitanti a una condizione di “nuda vita” (Agamben, 1998, pp. 21, 169-170), l’alloggio dei lavoratori appare funzionale alla costruzione di un codice disciplinare per l’educazione della forza lavoro. Le agenzie controllano la vita dei lavoratori attraverso ispezioni, avvertimenti e l’organizzazione algoritmica dei turni e dei trasporti. Queste pratiche coercitive rivelano la natura oppressiva e panottica degli alloggi, dove la razionalizzazione estrema degli spazi amplifica lo stress di chi ci abita (Sgolacchia, 2023). Un esempio rilevante è l’impianto a griglia ortogonale dei cosiddetti mobile home parks, che consente una visione completa (img. 02). Gli agenti di sicurezza e il personale delle agenzie possono sorvegliare l’intera area esterna semplicemente camminan-

Renzo Sgolacchia

Il sapere tacito

Comprendere l’informale come abitare autoorganizzato nei Paesi Bassi

do lungo il perimetro del sito, e senza che vi siano punti ciechi nei campi visivi delle telecamere di sorveglianza. Questa configurazione spaziale trasforma il camping in un ambiente pienamente osservabile, rivelando la logica incorporata nel suo progetto.

Stichting Normering Flexwonen (SNF) regola gli standard architettonici per gli alloggi dei lavoratori migranti, definendo i “requisiti minimi di vivibilità”, come i metri quadrati per persona, il volume degli armadi e le dimensioni dei letti (SNF, 2025, pp. 6-9). Una mobile home prefabbricata, che i lavoratori chiamano solitamente “bungalow” o “chalet”, include di norma tre camere da letto, un bagno e un soggiorno con cucina, ospitando tre o quattro persone. In questa tipologia, la SNF stima lo spazio minimo per una stanza singola in 3,5 m², specificando che tali valori sono basati principalmente su approssimazioni e intuizioni1. Questo approccio rivela l’insensibilità della SNF rispetto alle realtà vissute e ai bisogni degli abitanti, regolando unicamente le soglie minime di abitabilità. Al contrario, la comunità Rom del camping De Witte Plas, nel Brabante Settentrionale, vicino al confine con il Belgio, rappresenta un caso emblematico di riconfigurazione spaziale informale e di autocostruzione a scopi abitativi, che sovverte le architetture aziendali dominanti nei Paesi Bassi. Mario e Lavi, due cittadini Rom originari della contea di Bistrița-Năsăud, in Romania, sono arrivati nei Paesi Bassi nel 20202. Dopo le prime esperienze lavorative sotto il controllo delle agenzie per l’impiego, si sono emancipati trovando un alloggio alternativo fuori dal sistema delle agenzie per vivere con i loro figli, che non possono risiedere nei dormitori per lavoratori e quindi spesso lasciati nel paese d’origine. Raggiunto un accordo con il proprietario del camping De Witte Plas, si sono stabiliti lì con le loro famiglie e hanno invitato parenti e compaesani provenienti da tutta Europa. Attualmente, la comunità Rom conta circa trecento residenti nel camping, dei quali quasi un centinaio lavorano come addetti al picking presso il centro di distribuzione di Bol.com, un noto webshop olandese, a Waalwijk. Funzionando come un vero e proprio sindacato informale, la comunità negozia collettivamente con la direzione della fabbrica richieste specifiche e condizioni di lavoro3. L’approccio informale della comunità si esprime nella resistenza al regime dei dormitori aziendali e nella pratica dell’autocostruzione, adattando ed estendendo le unità container standard per accogliere nuovi arrivati (img. 01).

Obiettivi

L’articolo esplora le pratiche della comunità Rom all’interno dei più ampi dibattiti teorici sulla flessibilità e sull’architettura informale, sottolineandone la rilevanza nella rielaborazione delle forme urbane contemporanee. Queste pratiche, che includono l’autopianificazione, il riciclo e l’approvvigionamento dei materiali da costruzione, così come la negoziazione delle condizioni lavorative, mettono in discussione i modelli rigidi di alloggio per lavoratori concepiti e imposti dalle agenzie e regolamentati dalla SNF. Sovvertendo attivamente i sistemi formali che governano le loro vite, la comunità Rom incarna il concetto di “flessibilità come strategia politica” elaborato da Adrian Forty (Forty, 2000, p. 147). Secondo Forty, questa forma di flessibilità nasce come contromisura al controllo capitalista dello spazio, che limita la libertà individuale suddividendo la vita domestica, il tempo libero e il lavoro in unità funzionali distinte, trasformandole in spazi mercificati dotati di valore di scambio (ibidem). Forty analizza, tra gli altri, “l’occupazione degli edifici esistenti con usi predeterminati” da parte dell’Internazionale Situazionista negli anni ’50, e “la resistenza allo spazio dominato” teorizzata da Henri Lefebvre nel suo libro La produzione dello spazio del 1974 (ibidem). Questi esempi evidenziano una ricerca collettiva di “libertà d’uso”, promuovendo l’interpretazione alternativa degli edifici e delle città al di là delle loro funzioni prescritte. In questo senso, la flessibilità non è soltanto una qualità architettonica degli edifici, ma un atto politico per adattare gli spazi agli usi quotidiani più vari. L’ipotesi centrale dell’articolo è che, rifiutando la compartimentazione della vita in funzioni rigide, tipica dei flexwoningen progettati per ottimizzare il profitto e il controllo del lavoro, le strategie informali della comunità dimostrano come l’alloggio per lavoratori possa essere riconfigurato in strutture adattabili, circolari e partecipative, più rispondenti ai bisogni reali degli abitanti. In altre parole, come i container abitativi possano essere reinterpretati come vere abitazioni flessibili.

L’approccio della comunità pone al centro l’appropriazione e la trasformazione di edifici e risorse esistenti da parte degli utenti stessi, che applicano flessibilità e multifunzionalità come strumenti di cura collettiva e resistenza. L’articolo intende collocare queste pratiche autoorganizzate come una risposta emancipatoria ai sistemi di controllo radicati nel regime abitativo aziendale olandese, integrando al contempo il

sapere pratico e tacito della comunità nella ricerca architettonica.

Inoltre, l’articolo propone una riconcettualizzazione del confine tra architettura formale e informale, suggerendo un paradigma ibrido in cui l’autonomia degli utenti, l’adattabilità e il radicamento sociale siano centrali nella progettazione di ambienti inclusivi.

Metodologia

Il metodo adottato combina lo studio sul campo con una ricerca guidata dal progetto (researchby-design). I dati sono stati raccolti attraverso l’analisi spaziale e un lavoro sul campo condotto nella primavera del 2024, comprendente una serie di interviste qualitative agli abitanti del camping De Witte Plas. Inoltre, un documentario di dodici minuti, girato in loco, offre una rappresentazione visiva della vita comunitaria.

La ricerca mediante progetto non è intesa solo come attività risolutiva o mezzo di produzione architettonica, ma come strumento di indagine ed esplorazione4. La collaborazione con la comunità Rom ha preso la forma di laboratori dedicati alle loro pratiche spaziali, evidenziando il ruolo delle negoziazioni e il potenziale del loro sapere tacito in ambito architettonico. Nell’ambito di questo processo, ho ricostruito brevemente l’approccio informale della comunità, in particolare la loro strategia per estendere le unità containerizzate e ottimizzare i flussi di risorse. Il disegno, come esperienza visiva, ha funzionato da mezzo di apprendimento reciproco e di scambio di conoscenze durante i laboratori.

Per sviluppare l’indagine progettuale, è stato selezionato un caso studio specifico: la casa della famiglia di Mario, che rappresenta un tipico processo di costruzione avviato dalla comunità Rom nel camping. Mario ha organizzato metodicamente il progetto in cinque fasi: acquisto di una mobile home sul sito, stoccaggio dei materiali da costruzione, preparazione dell’estensione, costruzione delle partizioni interne e installazione del tetto. Questo processo illustra la trasformazione di un’unità rigida e containerizzata in un’abitazione autoprogettata e adattabile, mettendo in luce la capacità della comunità di gestire operazioni logistiche complesse e produrre uno spazio abitabile e sostenibile (fig. 03). Una caratteristica fondamentale dell’approccio informale della comunità Rom è la capacità di attivare strategicamente funzioni logistiche esistenti, integrate in piattaforme digitali. Come afferma Clare Lyster, le app che mediano tra utenti e sistemi urbani offrono un modello interessante per condividere infrastrutture e beni (Lyster, 2016). L’uso da parte della comunità di piattaforme di annunci come Marktplaats e Facebook Marketplace amplia l’accesso a materiali da costruzione riciclati e ad arredi di seconda mano. Tali piattaforme permettono alla comunità di impiegare il surplus materiale di altri utenti, selezionando annunci entro un raggio di 50-100 km da De Witte Plas, e collegando cantine, magazzini e depositi in una rete di approvvigionamento distribuita. In questo modo, la comunità sovverte il modello di profitto di queste piattaforme, basato su tariffe di inserzione, pubblicità e abbonamenti, recuperando materiali gratuitamente da privati e aggirando completamente i servizi a pagamento.

La costruzione della casa di Mario è un esempio emblematico della creatività e dell’impegno collettivo della comunità. Il progetto ha richiesto otto mesi di pianificazione tra ricerca, negoziazione, acquisto, trasporto e stoccaggio dei materiali, ed un mese di costruzione in loco. Mario, suo figlio Edy e altri membri della comunità, hanno partecipato attivamente, trasformando il progetto in uno sforzo collettivo e in un simbolo concreto di autosufficienza.

Discussione

Questo processo costruttivo evidenzia due risultati fondamentali. In primo luogo, interrompe la logica abitativa containerizzata imposta dalle agenzie, dimostrando come unità prefabbricate rigide possano essere riconfigurate in abitazioni adattabili. In secondo luogo, sottolinea la coesione sociale più ampia che emerge da questi sforzi di costruzione collettiva. L’attenzione si sposta così oltre le singole case per includere forme di aggregazione sociale e infrastrutture condivise all’interno del camping.

A De Witte Plas, la comunità Rom ha sviluppato sistemi di mutuo aiuto, pratiche di negoziazione collettiva e reti di condivisione delle conoscenze, funzionando come una vera e propria organizzazione civica. Questi meccanismi sfidano l’isolamento tipico degli alloggi per lavoratori migranti e contribuiscono a creare forme di aggregazione sociale e servizi collettivi. In assenza di spazi pubblici formali, le aree esterne del camping sono state riconfigurate informalmente per ospitare rituali, celebrazioni, cerimonie religiose e attività di cura collettiva dei bambini, trasformandosi in nodi vitali della vita quotidiana e dell’espressione culturale. Per comprendere meglio questo processo autoorganizzato, il concetto di bricoleur, come sviluppato da Irénée Scalbert, offre un’analogia illuminante dell’approccio informale della comunità Rom. Scalbert descrive il bricoleur come “al tempo stesso progettista, costruttore e utente”, caratterizzato da “improvvisazione, ingegnosità e adattabilità”, una figura capace di creare qualcosa di nuovo utilizzando ciò che è disponibile, spesso operando al di fuori delle strutture formali e delle pratiche convenzionali (Scalbert, 2011). Questa figura si rifà alla distinzione formulata da Claude Lévi-Strauss tra il bricoleur e l’ingegnere nel suo libro La Pensée Sauvage (1962): mentre l’ingegnere sottopone i materiali a un progetto predefinito, imponendo un quadro concettuale alla realtà, il bricoleur adatta il proprio disegno a un inventario limitato e ricicla i resti di progetti precedenti in risposta ai bisogni del presente (ibidem).

Come il bricoleur di Scalbert, la comunità Rom opera in un ambiente di costrizione, dove l’accesso a materiali da costruzione convenzionali e al supporto istituzionale è limitato. La risposta a tali limiti è creativa: le risorse disponibili vengono riconfigurate tramite piattaforme digitali, i materiali e gli strumenti di seconda mano sono adattati alle esigenze immediate. Questo processo rispecchia il metodo del bricoleur, che assembla elementi disparati in un insieme coerente, costruendo spazi significativi a partire da ciò che altri considererebbero inutile o irrilevante. Questa capacità di lavorare in modo fluido con ciò che si ha a disposizione rappresenta una

profonda forma di flessibilità, una qualità peculiare del bricoleur

De Witte Plas emerge come un sito emblematico di architettura informale alternativa, modellato da ciò che Edwin Buitelaar definisce ordine spontaneo di una “società libera”. Questo concetto si contrappone “all’ordine progettato”, che normalmente coinvolge immobiliaristi che operano su scala nazionale, politiche attive di uso del suolo e regolamenti urbanistici formali (Buitelaar, 2020, pp. 38-39). L’ordine spontaneo, al contrario, si basa su regolamenti edilizi minimi e generici. In questi contesti, l’ordine sociale e spaziale emerge organicamente, senza un’autorità centrale organizzativa, e gli abitanti stabiliscono regole per prevenire ingiustizie tra individui (ibidem). A De Witte Plas, le relazioni familiari e di vicinato tra i residenti aiutano a regolare i rapporti e a prevenire conflitti, rafforzando i principi dell’ordine spontaneo e mostrando le sue implicazioni pratiche nella costruzione di una comunità giusta e solidale. Gli studiosi sostengono che i quadri istituzionali debbano soddisfare alcuni requisiti di giustizia, come la tutela delle libertà fondamentali e l’uguaglianza dei diritti (Buitelaar, 2020; Moroni, 2019). In questa particolare concettualizzazione della just city (città giusta), la comunità Rom ha compiuto un importante passo avanti quando, nel 2020, ha ottenuto la registrazione della residenza presso il comune di Schijf5. Questo evento ha segnato un momento chiave, poiché l’ordine spontaneo di De Witte Plas è nato principalmente dall’iniziativa autonoma della comunità, piuttosto che da una pianificazione istituzionale. Tuttavia, il comune ha svolto un ruolo cruciale, riconoscendo formalmente e certificando il desiderio della comunità di risiedere nel camping, garantendo così la libertà di scelta e una certa stabilità, sia legale che spaziale.

Conclusioni

I risultati emersi dimostrano la capacità della comunità Rom di negoziare forme di autonomia all’interno dei vincoli imposti dalla logistica globale. Le loro pratiche abitative, fondate sui principi dell’economia circolare e della progettazione partecipata, mostrano come l’architettura informale possa generare ambienti adattabili, equi e resilienti.

Questo caso studio contribuisce a ripensare l’informalità come paradigma strategico, offrendo spunti sul potenziale trasformativo dell’azione collettiva dal basso. Propone l’adozione di modelli di pianificazione urbana che promuovano l’autonomia comunitaria, la flessibilità e la sostenibilità, ridefinendo le nozioni di giustizia ed equità nella distribuzione e nell’organizzazione dello spazio.*

NOTE

1 – Intervista a Jolet Woorders, segretaria della SNF, 8 dicembre 2022.

2 – Intervista a Mario, 2 luglio 2022.

3 – Ibidem

4 – Il metodo della research-by-design è ampiamente approfondito nei seminari CA2RE+. Si veda, ad esempio, una delle pubblicazioni: CA2RE+ Delft Recommendation, Book of Proceedings, (TU Delft: Open Publishing, 2023).

5 – La vecchia leadership del comune di Schijf era gentile e solidale, a differenza della nuova che è stata intollerante per due anni.

Dottoranda in Urbanistica, DCP, Università Iuav di Venezia. crondot@iuav.it

Luoghi in transito

01. Insediamento informale del Puertito de Adeje | Informal settlement of Puertito de Adeje. C. Rondot

Territories in Transit This contribution explores the concept of extended transience in marginal territories shaped by contemporary migration, focusing on the Canary Islands. Through a case study in Puertito de Adeje, it investigates the relationship between informality, space, and mobility, highlighting the coexistence of formal and informal practices in territorial production. In this context, counterinfrastructures emerge as adaptive responses to fragmented institutional regulation. The research challenges conventional dichotomies (formal/informal, temporary/permanent), opening new perspectives for reading and designing transforming spaces.*

Il contributo esplora il concetto di transitorietà estesa nei territori marginali attraversati dalle migrazioni contemporanee, con particolare attenzione alle Isole Canarie. Attraverso un caso studio situato nel Puertito de Adeje, il testo indaga le relazioni tra informalità, spazio e mobilità, evidenziando la coesistenza di pratiche formali e informali nella costruzione del territorio. In questo contesto, le contro-infrastrutture emergono come risposte adattive a una regolazione istituzionale frammentata. La ricerca propone di superare le dicotomie tradizionali (formale/informale, temporaneo/permanente) aprendo nuove prospettive per la lettura e il progetto di spazi in trasformazione.*

Spazi, corpi e attese nei territori delle Isole Canarie

Introduzione

L’informalità, nonostante possa apparire paradossale, rappresenta oggi un paradigma alternativo capace di trasformare profondamente la società contemporanea. Essa, nel contesto delle migrazioni contemporanee, rappresenta una chiave interpretativa fondamentale per comprendere come i territori vengano abitati, trasformati e negoziati da soggetti in condizioni di marginalità differenti. La riflessione che si propone si colloca all’interno di una ricerca in corso che indaga l’arcipelago delle Isole Canarie come luogo di sovrapposizione tra flussi migratori e trasformazioni urbane. Nel contesto dell’arcipelago canario, la produzione informale dello spazio assume un ruolo centrale nella ridefinizione delle logiche insediative. Le terre di confine internazionali sono spazi marginali definitivi del mondo contemporaneo. Disomogenei e ambigui, questi paesaggi emergono dove i progetti di territorializzazione, sicurezza ed esclusione sponsorizzati dagli Stati si scontrano (o colludono) con i progetti globali di deterritorializzazione, mobilità e inclusione (Agier, 2016). Il potere dei progetti di confine, sia come processi politico-economici sia come espressioni ideologiche, dipende in larga misura dalle infrastrutture –le reti di risorse naturali, materiali e umane realizzate per controllare il movimento di persone, cose e idee (Larkin, 2013). Allo stesso tempo, le persone in movimento indagate nella ricerca presentata risiedono all’ombra di questi progetti, costruiscono vite accanto a essi e, in alcuni casi, scivolano attraverso le loro crepe. È proprio a partire da tale punto che si struttura il contributo: esplorare come corpi in movimento, spazi interstiziali e forme di regolazione diano luogo a configurazioni spaziali ibride e frammentate, difficili da ridurre ai binarismi tra interno/esterno, centro/margine, legale/illegale, formale/informale. In questo scenario, la regolazione dei flussi e il rapporto tra corpi, spazi e potere emergono come questioni cruciali.

KEYWORDS: TRANSITORIETÀ ESTESA, INFORMALITÀ, PRATICHE SPAZIALI | EXTENDED TRANSIENCE, INFORMALITY, SPATIAL PRACTICES

È chiaro che i flussi che costruiscono la rotta atlantica vengano regolati e gestiti all’interno del territorio delle Iso-

le Canarie in modo completamente diverso rispetto ad altri presenti nello stesso territorio. In questo sistema che si palesa come un’infrastruttura fatta di sistemi di sorveglianza, dispositivi giuridici, luoghi di detenzione o comunque sistemi di controllo, esistono una serie di soglie da cui è possibile uscire e che permettono ai soggetti protagonisti di questi movimenti di rendersi visibili nello spazio. Quello che sembra caratterizzare il territorio delle Canarie, più di altri, è proprio la fragilità strutturale della regolazione istituzionale. Sono le crepe di questo sistema a diventare spazi abitabili: margini, interstizi, cortine di invisibilità dove si stabiliscono presenze precarie ma resilienti. In molti casi, questi spazi si organizzano secondo temporalità frammentate: l’attesa, l’interruzione, la sospensione costruiscono forme spaziali altre, non pianificate ma pienamente operative. È proprio la relazione tra tempo e spazio, tra i ritmi spezzati della burocrazia e le architetture precarie del vivere, a costituire una delle chiavi interpretative centrali della lettura di questi luoghi. Si tratta dunque di luoghi attraversati da quella che diversi studiosi individuano come transitorietà estesa (Brun, 2015), uno stato caratterizzato da temporaneità, incertezza e provvisorietà che si prolunga nel tempo, spesso indefinitamente, attraversando molteplici spazi fisici e gruppi sociali.

in cui diversi soggetti coesistono, ma anche di riflettere su questioni più generali riguardanti la progettazione di spazi caratterizzati da alterità. L’articolazione del testo si sviluppa attraverso quattro passaggi principali: la contestualizzazione del fenomeno migratorio in oggetto all’interno del caso studio specifico delle Isole Canarie, l’introduzione del concetto di transitorietà estesa reso operativo nell’interpretazione di alcuni luoghi dell’abitare migrante, l’individuazione di un caso studio specifico, una riflessione conclusiva sull’utilità di interrogare nel campo disciplinare degli studi urbani e territoriali contesti di tale natura. Provare a ripensare le mobilità sociali e spaziali attraverso il paradigma dell’informalità e della transitorietà estesa conduce, infatti, a interrogarsi sulle trasformazioni materiali e quotidiane dei territori al di là delle grandi narrazioni globali, aprendo nuove prospettive teoriche e progettuali sul futuro delle nostre città.

Migrazioni, emergenza e produzione dello spazio nei territori insulari

Come riportato recentemente da numerosi organi di stampa, nel corso del 2023 si è registrato il numero più alto di arrivi migratori sulle coste delle Isole Canarie dall’inizio della recente ripresa della cosiddetta rotta atlantica, con circa 40 mila sbarchi registrati. Questi dati indicano chiaramente come il fenomeno, pur definito spesso come secondario rispetto ad altre rotte migratorie, stia assumendo caratteristiche di stabilità e rilevanza sempre più evidenti.

La transitorietà estesa genera territori ibridi, complessi, in continua negoziazione

Il contributo intende sviluppare un’indagine mirata su specifici luoghi dell’arcipelago Canario nei quali la popolazione migrante esce dalle infrastrutture istituzionali, costruendone di nuove che operano nel confine sfumato tra formalità e informalità. Questa prospettiva permette non solo di osservare con una grana più fine gli spazi informali

Come già anticipato nell’introduzione, il contributo, frutto di una ricerca di dottorato in corso, indaga come fenomeni sociali e territorio si costruiscano l’uno con con’altro attraverso il flusso secondario delle migrazioni verso l’Europa, con particolare attenzione all’arcipelago delle Canarie, solitamente noto per ben altre connotazioni. L’arcipelago delle Canarie rappresenta un interessante caso studio se osservato come

luogo di intersezione tra mobilità differenti che costruiscono e riconfigurano continuamente gli spazi.

A circa quattro anni dalla ripresa significativa degli arrivi provenienti dai paesi dell’Africa Occidentale, l’arcipelago si configura oggi come territorio emblematico della mobilità contemporanea. Le Canarie cessano di essere percepite solo come luoghi remoti o di vacanza e diventano invece vere piattaforme connesse a reti globali, fungendo da trampolino per flussi migratori sempre più consolidati. Le motivazioni che spingono numerose persone a lasciare l’Africa sono complesse e includono conflitti, povertà, instabilità politica e fattori climatici.

L’arcipelago non è nuovo a simili dinamiche: aveva già vissuto una situazione analoga nel 2006 con la cosiddetta Crisis de los Cayucos1, quando circa 31.678 persone sbarcarono improvvisamente. Tuttavia, l’attuale fenomeno presenta caratteristiche differenti e più strutturali rispetto al passato: dopo una breve flessione registrata tra il 2021 e il 2022, il 2023 segna una significativa ripresa, confermando una stabilità che sfida la definizione stessa di “rotta secondaria”.

A questo fenomeno il Governo spagnolo risponde nel novembre 2020 con il cosiddetto Plan Canarias, un piano emergenziale che prevedeva la riorganizzazione di strutture esistenti e la realizzazione di macro accampamenti per un totale di 6 mila posti letto. Sin dalla sua presentazione, però, il piano ha evidenziato rilevanti criticità strutturali: benché articolato in due fasi – una prima emergenziale e una seconda finalizzata alla stabilizzazione abitativa – di fatto ha previsto l’uso delle medesime strutture temporanee (principalmente tende) per entrambe le necessità, sottolineando così un evidente limite nella gestione istituzionale dell’accoglienza.

La risposta istituzionale, articolata e frammentata tra le diverse isole, ha prodotto un’infrastruttura puntuale fatta di spazi minuti integrati nelle città principali e grandi strutture isolate nell’entroterra, creando una rete complessa che sfida ogni tentativo di regolazione unitaria del fenomeno.

Transitorietà estesa e produzione dello spazio

Se l’esperienza migrante si definisce sempre più attraverso temporalità frammentate, asincrone e disorganizzate, è nei territori che raccolgono queste traiettorie – instabili, incerte, spesso sospese – che spazio e tempo si intrecciano in modi nuovi e significativi. In tali contesti, il tempo si addensa attorno a ciò che non accade, un permesso che non arriva, un trasferimento che non si concretizza, una sistemazione che resta provvisoria, mentre lo spazio si plasma su disponibilità parziali, usi temporanei, appropriazioni minute. Le Isole Canarie e in particolare spazi come quello del Puertito de Adeje (che verrà approfondito successivamente), insediamenti informali diffusi nel sud dell’isola di Tenerife, edifici abbandonati e occupati abusivamente, rappresentano un osservatorio privilegiato: luogo di passaggi forzati, di attese indefinite, di transiti interrotti, ma anche di insediamenti precari e continui riadattamenti. In questi ambienti, ciò che emerge è una condizione che potremmo definire di transitorietà prolungata: una temporalità dell’abitare che non si esaurisce nel passaggio, ma che si estende nel tempo senza mai diventare pienamente stanziale. Non si tratta solo di una precarietà materiale, ma di una condizione sociale e politica che investe soggettività diverse – migranti, lavoratori stagionali, richiedenti asilo, ma anche soggetti esclusi dai circuiti ordinari della cittadinanza urbana. Abitare in condizioni simili implica sviluppare strategie adattive, manovre laterali, pratiche quotidiane di riorganizzazione. In contesti come le Canarie, questo si traduce in un abitare precario attivo: un insieme di gesti, saperi e reti che consentono di mantenere una presenza, seppure semivisibile o tollerata, nello spazio. In assenza di riconoscimento formale, queste presenze si appoggiano a risorse minime: frammenti di infrastruttura, spazi abbandonati, materiali residuali, relazioni orizzontali. Si costruiscono così infrastrutture informali, composte da elementi fisici (tende, pallet, tettoie improvvisate), ma anche da competenze relazionali, circuiti economici alternativi, forme di solidarietà tra pari. Una tale forma dell’abitare non è però

riducibile a sopravvivenza. Essa implica la produzione quotidiana di spazio: cortili dismessi, sentieri laterali, scogliere periferiche o case occupate diventano luoghi di scambio, di lavoro informale, di socialità minima. L’incompiuto, l’interrotto, il non finito diventano risorse: ciò che non è stato previsto o completato viene reimpiegato, risignificato, trasformato in occasione abitativa. In questo orizzonte, mobilità e radicamento non si escludono, ma coesistono: vivere in un luogo non significa necessariamente volerci restare, ma neanche volerne fuggire. Questa presenza discontinua e non lineare sfida le categorie della pianificazione urbana. L’abitare non si configura più come un’azione stabile e insediativa, ma come una pratica negoziale, dinamica, che si reinventa giorno per giorno. Le persone abitano per quanto è possibile, con ciò che è disponibile, nel tempo che hanno, e, all’interno di tale dinamica, trasformano lo spazio convertendo l’attesa in una condizione quasi strutturale.

Le migrazioni costruiscono luoghi, immaginari e contro-infrastrutture di resistenza

Nelle Canarie si aspetta una casa, una decisione, un permesso, un trasferimento, ma anche una via d’uscita, un cambiamento, una stabilizzazione possibile. Eppure, questa attesa non è mai del tutto passiva: è abitata, riempita, trasformata. La città che ne emerge non è solo quella disegnata nei piani, ma quella costruita dalle presenze invisibili che, pur non potendo rimanere, non smettono di esserci. Per comprendere appieno le forme dell’abitare migrante, è necessario allontanarsi dallo sguardo che si concentra esclusivamente sugli spazi istituzionali dell’accoglienza. Uscendo dai confini del visibile – quelli dei centri, delle carte, dei progetti – si incontrano ambienti informali, interstiziali, talvolta invisibili, in cui le temporalità della migrazione si materializzano in modi

inaspettati. L’informalità, in questi contesti, non è un’eccezione al sistema, ma una sua estensione opaca. Non è soltanto ciò che sta fuori dal sistema di accoglienza: è piuttosto una delle sue espressioni strutturali, una zona di ambivalenza in cui il controllo si allenta, ma non scompare. Le attese dei migranti – di un documento, di un alloggio, di una decisione – si moltiplicano e si sovrappongono, dando forma a un tempo frammentato e discontinuo. Queste attese non sono localizzate solo ai confini geografici, ma si distribuiscono dentro e fuori le città, nelle periferie, negli insediamenti informali, nei margini non pianificati. Sono tempi fatti di ricircoli, di ritardi, di promesse rinviate. L’informalità, allora, non è solo una mancanza: è anche una modalità di presenza, una grammatica dello spazio che rende possibile la sopravvivenza, e talvolta anche la sperimentazione di nuove forme di coesistenza. Le Isole Canarie offrono un esempio emblematico di tutto ciò. Territori attraversati da dispositivi formali di gestione dell’accoglienza, ma anche da pratiche informali di insediamento, adattamento e ricodifica. Spazi dove la soglia tra istituzionale e spontaneo è porosa, e dove è proprio nei luoghi meno visibili che si rivelano le forme più intense dell’abitare migrante. È a partire da qui che si può iniziare a leggere il territorio delle Canarie come campo dinamico in cui la migrazione non è solo presenza, ma produzione di spazio. Le forme di abitare che si danno a Puertito e Los Cristianos sono assemblaggi ibridi, che non cancellano il disordine ma lo abitano, lo trasformano. Sono, forse, forme di abitare simili a ciò che Tsing chiama “assemblaggi contaminati” (Tsing, 2021): eterogenei, incerti, ma capaci di sostenere la vita.

Tra margine e conflitto: lo spazio al Puertitode Adeje Il caso studio presentato in questo paragrafo è stato selezionato secondo una prospettiva aperta, sperimentale e non rigidamente dimostrativa. Non si intende conferire al caso un carattere esemplare, né utilizzarlo a scopo di le-

gittimazione generale. La scelta è avvenuta in itinere, assecondando ri-orientamenti progressivi del ragionamento e riconoscendo in questa specifica situazione un’utilità peculiare per esplorare alcuni aspetti della relazione tra transitorietà estesa, informalità e territorio. L’intento, seguendo quanto proposto da Bianchetti (2013), non è perseguire la completezza o la verificabilità, ma evidenziare la pertinenza e la rilevanza del caso rispetto ai temi centrali della ricerca. Il Puertito de Adeje è una piccola località costiera situata nel sud dell’isola di Tenerife, nel comune di Adeje. Raggiungibile attraverso strade secondarie che lo collegano alla TF-1, arteria principale della regione, il Puertito si colloca a breve distanza dai grandi centri turistici della Costa Adeje e di Playa de las Américas. Rappresenta uno degli ultimi frammenti territoriali non ancora completamente assorbiti dall’infrastruttura turistica che, al contrario, ha trasformato radicalmente l’intera costa sud dell’isola. Caratterizzato da un paesaggio vulcanico unico, con spiagge rocciose e sabbiose,

il territorio è stato designato ufficialmente dall’Istituto Geologico e Minerario di Spagna (IGME) come Sito di Interesse Geologico (LIG) grazie alle sue formazioni vulcaniche risalenti alla metà del 1500 a.C. Il luogo costituisce inoltre un laboratorio di biodiversità, preservando specie autoctone ormai scomparse nelle aree turistiche circostanti. Storicamente villaggio di pescatori, negli ultimi decenni il Puertito ha visto una crescente frequentazione turistica interessata a esperienze autentiche e alternative rispetto al turismo di massa prevalente in altre parti dell’isola.

Alle spalle del porticciolo e delle case tradizionali dei pescatori, su terreni un tempo agricoli, si sviluppa oggi un insediamento informale estremamente variegato (img. 01). Tale conformazione spaziale include abitazioni realizzate con pallet e materiali di recupero, tende disposte in radure isolate, spazi per roulotte e camper, e rifugi naturali ricavati nelle grotte vulcaniche. Alcune cuevas2, scavate nella roccia nera, sono occupate stabilmente da anni e attrezzate in modo fun-

02. Insediamento informale del Puertito de Adeje | Informal settlement of Puertito de Adeje. C. Rondot

zionale: esistono divisioni interne, aree comuni, punti luce improvvisati collegati a piccoli pannelli solari, aree cottura rudimentali. Le insenature naturali, la vegetazione costiera e i dislivelli del terreno vengono usati strategicamente per creare spazi intimi, protezione dal vento e mascheramento visivo. Lo spazio si organizza in modo fluido sfruttando la

La materialità di questo abitare temporaneo riflette pienamente il paradigma della transitorietà prolungata

morfologia del territorio per distribuire insediamenti a bassa densità. Dalla strada principale che scende verso il vecchio porto si estendono sentieri informali che si insinuano tra le rocce e collegano nuclei abitativi e frammentati. Alcune tende sono piantate in modo semi permanente circondate da piccole recinzioni, tavoli di fortuna, zone d’ombra costruite con teli e vegetazione intrecciata. Altri dispositivi più stabili sono caratterizzati da vere e proprie abitazioni costruite con pellet e materiali di recupero. La materialità di questo abitare temporaneo riflette pienamente il paradigma della transitorietà prolungata descritta precedentemente. L’insediamento del Puertito è espressione di una capacità progettuale implicita: risponde a condizioni di incertezza attraverso forme spaziali flessibili, ad attive, resiliente, spesso in contrasto con le logiche tradizionali della pianificazione.

L’insediamento sorge in un’area non urbanizzata, dove la costruzione è formalmente vietata, creando una situazione complessa e spesso conflittuale con le normative locali. Nonostante i tentativi delle autorità di offrire alternative abitative, la mancanza di spazi disponibili e di soluzioni accessibili ha reso molto complicata la gestione del fenomeno. Chi vive al Puertito spesso affronta condizioni abitative precarie,

senza regolare accesso ad acqua, elettricità e gestione dei rifiuti, e con infrastrutture pubbliche carenti. L’insediamento si è sviluppato a partire dagli anni ’60 e ’70, parallelamente al boom turistico, come luogo marginale e alternativo rispetto alle trasformazioni territoriali dell’isola. Nel tempo, ha attratto gruppi sociali molto eterogenei. Un primo gruppo, prevalentemente spagnolo, composto da giovani tra i 20 e i 40 anni, ha scelto deliberatamente questo luogo in opposizione alle dinamiche turistiche di massa, insediandosi in modo stabile o ciclico fin dai primi anni Duemila. Durante la pandemia COVID-19, tale presenza si è intensificata, consolidando ulteriormente il nucleo comunitario, che oggi arriva persino a offrire sistemazioni su piattaforme come Airbnb. Accanto a tale gruppo, il Puertito ospita migranti provenienti principalmente dall’Africa e dall’America Latina. Questi abitanti vivono generalmente in condizioni ancora più precarie, alloggiando prevalentemente in tende o baracche, svolgendo lavori irregolari e affrontando quotidianamente gravi disagi (img. 02). Negli ultimi anni, un terzo gruppo significativo è quello degli attivisti impegnati nella protesta contro il progetto turistico-residenziale Cuna del Alma, sostenuto da investitori belgi. Il progetto, che prevede ville e appartamenti esclusivi con servizi turistici di alto livello, ha generato intense proteste da parte di residenti e attivisti, preoccupati per la tutela ambientale, sociale e culturale del luogo. Dal gennaio 2022, le mobilitazioni si sono intensificate, alternate a fasi di stallo. Il gruppo Save the Puertito propone una revisione del Piano Generale di Adeje per estendere l’area naturale protetta e bloccare il progetto. Oggi la situazione rimane sospesa tra proteste e timidi avanzamenti dei lavori, con l’insediamento informale che continua a essere abitato e a rappresentare un esempio evidente di sovrapposizione tra dinamiche formali e informali, temporanee e permanenti (img. 03).

Conclusioni

Guardare a territori di questo tipo permette di proporre alcune riflessioni che scardinano i tradizionali dualismi tra formale e informale, temporaneo e permanente, legale e illegale. Ogni luogo (le Canarie), ogni processo (le migrazioni), ogni discorso (il discorso sulle Canarie e le migrazioni) è un intreccio indefinibile (Sini, 2006) di racconti che sono allo stesso tempo storiografici, antropologici, sociali, economici e geografici. In questo intreccio complesso, l’informalità, la transitorietà estesa e le contro-infrastrutture emergono come elementi centrali per leggere i territori contemporanei non come spazi compiuti, ma come campi aperti di negoziazione. La transitorietà non rappresenta solo una condizione temporanea o emergenziale, ma si configura come una dimensione strutturale e duratura che mette in tensione i modelli dominanti di regolazione. L’informalità, lungi dall’essere marginale, si manifesta come una postura attiva, capace di generare risposte adattive e innovative. In particolare, la tesi sostenuta dal contributo e che nei territori insulari e marginali come il Puertito, caratterizzati da una regolazione debole e da una forte pressione migratoria, diventa particolarmente fertile osservare il nesso tra frammentazione temporale e spaziale. Gli spazi informali, ibridi e precari che si sviluppano in questi contesti sono al tempo stesso esito e strumento della transitorietà: la discontinuità temporale delle traiettorie migranti si riflette in assetti spaziali mobili, ad attivi, mai del tutto provvisori né completamente stabili. Le contro-infrastrutture, intese come pratiche materiali e simboliche di resistenza e sopravvivenza, diventano allora strumenti chiave per abitare l’instabilità, riorganizzando spazio e relazioni. Un simile intreccio invita a ripensare le politiche territoriali e le strategie progettuali: non più strumenti rigidi di gestione, ma dispositivi capaci di leggere la complessità e di aprirsi all’ibridazione, all’adattamento e alla coesistenza di forme diverse di presenza nello spazio. *

03. Insediamento informale del Puertito de Adeje | Informal settlement of Puertito de Adeje. C. Rondot

NOTE

1 – Con il termine Cayuco si indica, in spagnolo, il tipo di imbarcazione con cui le persone in movimento erano solite arrivare, una barca molto grande capace di trasportare numeri importanti di persone e di far fronte anche alle attraversate più lunghe. I primi arrivi cominciarono a verificarsi già negli ultimi anni del 2005.

2 – Le cuevas sono grotte scavate nella terra dove vivevano gli antichi abitanti delle Canarie Guanches e che attualmente vengono occupate e utilizzate da abitanti temporanei.

REFERENCES

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– Tsing, A. L. (2021). Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo. Rovereto: Keller.

Territories in Transit

Spaces, Bodies, and Waiting in the Territories of the Canary Islands

Introduction

Informality, although it may seem paradoxical, today represents an alternative paradigm capable of profoundly transforming contemporary society. In the context of contemporary migration, it is a fundamental key to understanding how territories are inhabited, transformed and negotiated by individuals in different conditions of marginalisation. The reflection proposed in this contribution is part of ongoing research investigating the Canary Islands archipelago as a place where migratory flows and urban transformations overlap. In this context, the informal production of space plays a central role in redefining settlement patterns. International borderlands are definitive marginal spaces of the contemporary world. heterogeneous and ambiguous, these landscapes emerge where state-sponsored projects of territorialisation, security and exclusion clash (or collude) with global projects of deterritorialisation, mobility and inclusion (Agier 2016).

The power of these border projects, both as political-economic processes and as ideological expressions, depends to a large extent on infrastructure the networks of natural, material, and human resources built to control the movement of people, things, and ideas (Larkin 2013). At the same time, the people on the move investigated in this research reside in the shadow of these projects, build lives alongside them and, in some cases, slip through their cracks. It is precisely from this point that this contribution is structured: to explore how bodies in motion, interstitial spaces and forms of regulation give rise to hybrid and fragmented spatial configurations that are difficult to reduce to binaries such as internal/external, centre/margin, legal/illegal, formal/informal. In this scenario, the regulation of flows and the relationship between bodies, spaces and power emerge as crucial issues. It is clear that the flows that make up the Atlantic route are regulated and managed within the territory of the Canary Islands in a completely different way from others in the same territory. In this system, which manifests itself as an infrastructure made up of surveillance systems, legal devices, places of detention or, in any case, control systems, there are a series of thresholds that can be crossed, allowing the protagonists of these movements to become visible in space. What seems to characterise the Canary Islands, more than other places, is the structural fragility of this regulation. And it is the cracks in this system that become habitable spaces: margins, interstices, curtains of invisibility where precarious but resilient presences establish themselves. In many cases, these spaces are organised according to fragmented temporalities: waiting, interruption and suspension construct other spatial forms that are unplanned but fully operational. It is this relationship between time and space, between the broken rhythms of bureaucracy and the precarious architectures of living, that constitutes one of the central interpreta-

tive keys to understanding these places. These are therefore places traversed by what various scholars identify as extended transience (Brun, 2015), a state characterised by temporariness, uncertainty and provisionality that extends over time, often indefinitely, crossing multiple physical spaces and social groups.

This contribution aims to develop a targeted investigation of specific places in the Canary Islands where the migrant population leaves institutional infrastructures and builds new ones that operate in the blurred boundary between formality and informality. This perspective allows us not only to observe with greater detail the informal spaces in which different subjects coexist, but also to reflect on more general issues concerning the design of spaces characterised by otherness. The text is structured around four main sections: the contextualisation of the migratory phenomenon in question within the specific case study of the Canary Islands; the introduction of the concept of extended transience, applied to the interpretation of certain places of migrant living; the identification of a specific case study; and a concluding reflection on the usefulness of questioning contexts of this type in the field of urban and territorial studies. Trying to rethink social and spatial mobility through the paradigm of informality and extended transience leads us to question the material and everyday transformations of territories beyond the grand global narratives, opening up new theoretical and design perspectives on the future of our cities.

Migration, emergency, and space production in island territories

As reported recently by numerous media outlets, 2023 saw the highest number of migrant arrivals on the Canary Islands’ shores since the recent resumption of the so-called ‘Atlantic Route,’ with approximately 40,000 landings recorded. These figures clearly indicate that the phenomenon, although often defined as secondary to other migration routes, is becoming increasingly stable and significant. As already mentioned in the introduction, this contribution, the result of ongoing doctoral research, investigates how social phenomena and territory co-construct themselves through the secondary flow of migration to Europe, with a particular focus on the Canary Islands, usually known for quite different reasons. The Canary Islands are an interesting case study when viewed as a place where different forms of mobility intersect, continuously co-constructing and reconfiguring spaces.

About four years after the significant resumption of arrivals from West African countries, the archipelago is now an emblematic territory of contemporary mobility. The Canary Islands are no longer perceived as remote or holiday destinations, but have become true platforms connected to global networks, serving as a springboard for increasingly consolidated migratory flows. The reasons that drive many people to leave Africa are complex

and include conflict, poverty, political instability and climatic factors. The archipelago is no stranger to such dynamics, having already experienced a similar situation in 2006 with the so-called Crisis de los Cayucos, when some 31,678 people suddenly landed. However, the current phenomenon has different and more structural characteristics than in the past: after a brief decline between 2021 and 2022, 2023 marks a significant recovery, confirming a stability that challenges the very definition of “secondary route”.

The Spanish government responded to this phenomenon in November 2020 with the so-called Plan Canarias, an emergency plan that provided for the reorganisation of existing structures and the creation of macro-camps with a total of 6,000 beds. However, since its presentation, the plan has highlighted significant structural problems: although divided into two phases – an initial emergency phase and a second phase aimed at stabilising housing – it actually provided for the use of the same temporary structures (mainly tents) for both needs, thus highlighting a clear limitation in the institutional management of reception.

The institutional response, which is fragmented and divided between the different islands, has resulted in a patchwork infrastructure made up of small spaces integrated into the main cities and large isolated structures in the hinterland, creating a complex network that challenges any attempt at unified regulation of the phenomenon.

Extended transience and the making of

space

If the migrant experience is increasingly defined by fragmented, asynchronous and disorganised temporalities, it is in the territories that gather these trajectories – unstable, uncertain, often suspended – that space and time intertwine in new and meaningful ways. In these contexts, time thickens around what does not happen, a permit that does not arrive, a transfer that does not materialise, an accommodation that remains temporary, while space is shaped by partial availability, temporary uses and minute appropriations. The Canary Islands, and in particular spaces such as Puertito de Adeje (which will be explored in more detail later), informal settlements scattered across the south of the island of Tenerife, abandoned and squatted buildings, represent a privileged observatory in this sense: a place of forced passages, indefinite waits, interrupted transits, but also of precarious settlements and continuous readjustments. In these environments, what emerges is a condition that we could define as prolonged transience: a temporality of living that is not exhausted in the passage, but extends over time without ever becoming fully permanent. It is the conjunction between collecting residues and a transience that never ends that emerges with force. It is not just a matter of material precariousness, but of a social and political condition that affects different subjectivities — migrants, seasonal workers, asylum seekers, but also those excluded from the ordinary circuits of urban citizenship. Living in these conditions implies developing adaptive strategies, lateral manoeuvres, and daily practices of reorganisation. In contexts such as the Canary Islands, this translates into active precarious living: a set of gestures, knowledge and networks that allow for maintaining a presence, albeit semi-visible or tolerated, in the space. In the absence of formal recognition, these presences rely on minimal resources: fragments of infrastructure, abandoned spaces, residual materials, horizontal relationships. Informal infrastructures are thus constructed, composed of physical elements (tents, pallets, improvised shelters), but also of relational skills, alternative economic circuits,

and forms of peer solidarity. However, this way of living cannot be reduced to survival. It involves the daily production of space: abandoned courtyards, side paths, peripheral cliffs or squatted houses become places of exchange, informal work and minimal socialising. The unfinished, the interrupted, the incomplete become resources: what has not been planned or completed is reused, reinterpreted and transformed into housing opportunities. In this context, mobility and rootedness are not mutually exclusive but coexist: living in a place does not necessarily mean wanting to stay there, but neither does it mean wanting to escape. This discontinuous and non-linear presence challenges the categories of urban planning. Living is no longer a stable, settled activity but a dynamic, negotiated practice that is reinvented day by day. People live as much as they can, with what is available, in the time they have. And in this process, they transform space.

In all this, waiting becomes an almost structural condition. In the Canary Islands, people wait for a home, a decision, a permit, a transfer, but also for a way out, a change, a possible stabilisation. Yet this waiting is never entirely passive: it is inhabited, filled, transformed. The city that emerges is not only the one drawn in plans, but the one built by invisible presences that, although unable to remain, never cease to exist. To fully understand the forms of migrant living, it is necessary to move away from a perspective that focuses exclusively on institutional spaces of reception. Leaving the confines of the visible – those of centres, maps and projects – we encounter informal, interstitial, sometimes invisible environments where the temporalities of migration materialise in unexpected ways. Informality, in these contexts, is not an exception to the system, but its opaque extension. It is not just what lies outside the reception system: it is rather one of its structural expressions, a zone of ambivalence where control loosens but does not disappear. Migrants’ expectations – for a document, accommodation, a decision – multiply and overlap, giving shape to a fragmented and discontinuous time. These expectations are not only located at geographical borders, but are distributed inside and outside cities, in suburbs, informal settlements, and unplanned margins. These are times made up of recirculation, delays, and postponed promises. Informality, then, is not just a lack: it is also a mode of presence, a grammar of space that makes survival possible, and sometimes even the experimentation of new forms of coexistence. The Canary Islands offer an emblematic example of all this. These are territories crossed by formal reception management devices, but also by informal practices of settlement, adaptation and recoding. These are spaces where the threshold between the institutional and the spontaneous is porous, and where it is precisely in the least visible places that the most intense forms of migrant living are revealed. It is from here that we can begin to read the territory of the Canary Islands as a dynamic field in which migration is not only presence, but also the production of space. The forms of living that exist in Puertito and Los Cristianos are hybrid assemblages that do not erase disorder but inhabit it and transform it. They are, perhaps, forms of living similar to what Tsing calls “contaminated assemblages”: heterogeneous, uncertain, but capable of sustaining life.

Boundaries and conflict: space in Puertito de Adeje

The case study presented in this section was selected based on an open, experimental and nonrigidly demonstrative approach. It is not intended to give the case an exemplary character, nor to use

it for general legitimisation purposes. The choice was made in itinere, following progressive reorientations of reasoning and recognising in this specific situation a particular usefulness for exploring some aspects of the relationship between extended transience, informality and territory. The intention, following Bianchetti (2013), is not to pursue completeness or verifiability, but to highlight the relevance and significance of the case in relation to the central themes of the research. Puertito de Adeje is a small coastal town located in the south of the island of Tenerife, in the municipality of Adeje. Accessible via secondary roads connecting it to the TF-1, the main artery of the region, Puertito is located a short distance from the major tourist centres of Costa Adeje and Playa de las Américas. It represents one of the last fragments of territory not yet completely absorbed by the tourist infrastructure that has radically transformed the entire southern coast of the island. Characterised by a unique volcanic landscape with rocky and sandy beaches, the area has been officially designated a Site of Geological Interest (LIG) by the Geological and Mining Institute of Spain (IGME) thanks to its volcanic formations dating back to the mid-1500s. The place is also a biodiversity laboratory, preserving native species that have disappeared from the surrounding tourist areas. Historically a fishing village, in recent decades Puertito has seen a growing number of tourists interested in authentic experiences that are an alternative to the mass tourism prevalent in other parts of the island. Behind the small harbour and traditional fishermen’s houses, on land that was once agricultural, an extremely diverse informal settlement has developed (img. 01). This spatial configuration includes dwellings made from pallets and recycled materials, tents set up in isolated clearings, spaces for caravans and camper vans, and natural shelters carved out of volcanic caves. Some of these “cuevas”, dug into the black rock, have been permanently occupied for years and are functionally equipped: there are internal divisions, common areas, improvised lighting connected to small solar panels, and rudimentary cooking areas. The natural inlets, coastal vegetation and uneven terrain are strategically used to create intimate spaces, protection from the wind and visual screening. The space is organised in a fluid manner, exploiting the morphology of the territory to distribute lowdensity settlements. From the main road that descends towards the old port, informal paths wind their way through the rocks and connect fragmented residential areas. Some tents are pitched semi-permanently, surrounded by small fences, makeshift tables, and shaded areas constructed from tarpaulins and woven vegetation. Other more stable structures consist of actual dwellings built from pellets and recycled materials. The materiality of this temporary housing fully reflects the paradigm of prolonged transience described above. The Puertito settlement is an expression of an implicit design capacity: it responds to conditions of uncertainty through flexible, active and resilient spatial forms, often in contrast with traditional planning logic. The settlement is located in an unurbanised area where construction is formally prohibited, creating a complex situation that often conflicts with local regulations. Despite attempts by the authorities to offer alternative housing, the lack of available space and affordable solutions has made it very difficult to manage this phenomenon. Those living in Puertito often face precarious housing conditions, without regular access to water, electricity and waste management, and with poor public infrastructure. The settlement developed in the 1960s and 1970s, parallel to the tourist boom,

as a marginal and alternative place to the territorial transformations of the island. Over time, it has attracted very heterogeneous social groups. A first group, mainly Spanish, made up of young people between the ages of 20 and 40, deliberately chose this place in opposition to mass tourism, settling there permanently or cyclically since the early 2000s. During the Covid-19 pandemic, their presence intensified, further consolidating this community nucleus, which now even offers accommodation on platforms such as Airbnb. Alongside this group, El Puertito is home to migrants mainly from Africa and Latin America. These inhabitants generally live in even more precarious conditions, mainly in tents or shacks, doing irregular work and facing serious hardships on a daily basis (img. 02).

In recent years, a significant third group has emerged: activists protesting against the “Cuna del Alma”tourist and residential project, backed by Belgian investors. This project, which involves the construction of exclusive villas and apartments with high-end tourist services, has sparked intense protests from residents and activists concerned about the environmental, social and cultural protection of the area. Since January 2022, protests have intensified, alternating with periods of stalemate. The Save the Puertito group is proposing a revision of the Adeje General Plan to extend the protected natural area and block the project. Today, the situation remains suspended between protests and tentative progress on the works, with the informal settlement continuing to be inhabited and representing a clear example of the overlap between formal and informal, temporary and permanent dynamics (img. 03).

Conclusions

Looking at territories of this kind allows us to propose some reflections that undermine the traditional dualisms between formal and informal, temporary and permanent, legal and illegal. Every place (the Canary Islands), every process (migration), every discourse (the discourse on the Canary Islands and migration) is an indefinable intertwining (Sini, 2006) of narratives that are at once historiographical, anthropological, social, economic and geographical. In this complex intertwining, informality, extended transience and counter-infrastructures emerge as central elements for reading contemporary territories not as finished spaces, but as open fields of negotiation. Transience is not only a temporary or emergency condition, but a structural and lasting dimension that puts pressure on dominant models of regulation. Informality, far from being marginal, manifests itself as an active stance, capable of generating adaptive and innovative responses. In particular, the thesis supported by this contribution is that in insular and marginal territories such as Puertito, characterised by weak regulation and strong migratory pressure, it becomes particularly fertile to observe the link between temporal and spatial fragmentation. The informal, hybrid and precarious spaces that develop in these contexts are both the result and the instrument of transience: the temporal discontinuity of migrant trajectories is reflected in mobile, active spatial arrangements that are never entirely temporary or completely stable. Counter-infrastructures, understood as material and symbolic practices of resistance and survival, thus become key tools for inhabiting instability, reorganising space and relationships. This intertwining invites us to rethink territorial policies and design strategies: no longer rigid management tools, but devices capable of reading complexity and opening up to hybridisation, adaptation and the coexistence of different forms of presence in space.*

Manuel Grimaldi

Studente magistrale in Relazioni Internazionali, Università degli studi di Torino. manuel.grimaldi@edu.unito.it

Antonio Stopani

Ricercatore, DIST, Università degli studi di Torino. antonio.stopani@unito.it

Stefano Mastromarino

PhD, ricercatore, The Bartlett’s Development Planning Unit, UCL (UK). stefano.mastromarino.23@ucl.ac.uk

Camillo Boano

Professore ordinario, DIST, Politecnico di Torino. camillo.boano@polito.it

Progetto e superamento

Richard Lee Peragine

Assegnista di ricerca, Dipartimento di Architettura, Università degli studi di Ferrara. richardlee.peragine@unife.it

01. Borgo Mezzanone, tipologie abitative, settembre 2024 | Borgo Mezzanone, housing types, September 2024. S. Mastromarino

Project and the Politics of Overcoming In recent years, new inhabitation spaces have emerged in Southern Italy’s rural areas, places defined as “informal ghettos”, deeply connected to the agri-food sector. Defined as a state of exception and ambiguity, informality is rather reconsidered as a practice of impossibility tapping into the context of the “informal ghetto of Borgo Mezzanone”. Located in the province of Foggia, the settlement is currently affected by “overcoming” projects supported by the PNRR’s substantial investments. Examining Borgo Mezzanone enables us to construct narratives and memories of refusal and resistance that escape the formal/informal dualism informing the PNRR project. Instead, it offers a glimpse of the possibility of another way of living. Through field research conducted from mid-2023 to the present, the action research investigates on the economic and social role of the ghetto, in sharp contrast to the emergency and objectifying perspectives on which the proposed institutional alternatives revolve.*

Negli ultimi decenni si sono consolidati nuovi spazi dell’abitare nelle aree rurali del sud Italia: luoghi definiti “ghetti informali” con marcata dipendenza dal settore agroalimentare. L’informalità, storicamente definita come stato di eccezione e ambiguità, è riconsiderata come pratica dell’impossibilità guardando al “ghetto informale di Borgo Mezzanone”. Situato in provincia di Foggia, l’insediamento è attualmente interessato da progetti di “superamento” supportati da investimenti del PNRR. Guardare a Borgo Mezzanone consente di costruire narrative e memorie di rifiuto e resistenza che sfuggono al dualismo formale/informale su cui fa perno il progetto di superamento, lasciando intravedere la possibilità di un abitare altro. Attraverso il lavoro sul campo sviluppato da metà 2023 ad oggi, l’indagine-azione riflette sul ruolo economico e sociale del ghetto, in contrasto con le prospettive emergenziali ed oggettivanti sui cui fanno perno le alternative istituzionali proposte.*

Costruire l’emergenza a Borgo Mezzanone

Borgo Mezzanone: evoluzioni e superamenti Il dibattito sull’informalità, o ciò che esiste al di fuori di contesti giuridici e legali formali, è incredibilmente vasto. Dalla sua emersione all’inizio degli anni Settanta nei lavori di Keith Hart (1985), è poi divenuto territorio di indagine di sociologi, urbanisti e architetti. Intesa come “uno stato di eccezione e di ambiguità” (Roy, 2005, p. 147), come “modo di produzione dello spazio definito dalla logica territoriale della deregolamentazione” (Roy, 2009, p. 7) è certamente un sintomo delle economie neoliberali e allo stesso tempo una strategia di sopravvivenza. Prima relegata a significare le disfazioni urbane del Sud Globale, per poi essere re-importata nel Nord del Mondo, come categoria olistica per definire marginalità urbana e trasgressione formale, è comunque impossibile vederla come pura negatività, come mancanza. Appare infatti necessario pensare all’informale come una pratica dell’impossibilità, un progetto di “beni comuni latenti” (Tsing, 2021), di lifelines (Boano e Bianchetti, 2022): luoghi, spazi che fanno mondo, che catturano e allo stesso tempo sostengono; che permettono a molti modi di esistere senza che nessuno se ne appropri; disegnano presenze scomode ma familiari, tracciano forme di esilio e resistenza, lasciando intravedere la possibilità di un nuovo abitare.

KEYWORDS: INSEDIAMENTI INFORMALI, SUPERAMENTO, BRACCIANTI AGRICOLI | INFORMAL SETTLEMENTS, OVERCOMING, AGRICULTURAL WORKERS

Per riflettere sull’informalità, facciamo riferimento al territorio della Capitanata in provincia di Foggia, ovvero uno dei principali poli della produzione agricola italiana. Quest’ultima è in larga parte sostenuta dal lavoro bracciantile migrante, la cui persistenza è influenzata da vari fattori: la stagionalità delle colture, la presenza di intermediari illeciti e la vulnerabilità dei lavoratori stranieri legata alla loro condizione giuridica con un forte impatto su quella socioeconomica. Per motivazioni che rispondono alle medesime problematiche, il lavoro bracciantile ha contribuito alla creazione, nel corso degli anni, di una serie di insediamenti abitativi, variabili per dimensioni e caratteristiche, nelle aree rurali. Comunemente chiama-

ti “insediamenti informali” ne esistono oltre 35 in tutta la regione Puglia, di cui 24 in provincia di Foggia con 8.640 presenze e picchi di 12.540 persone nei mesi estivi (Centro Studi e Ricerche IDOS, 2022). Gli insediamenti includono grandi agglomerati ma anche casolari isolati sparsi nelle campagne, dove si vive spesso senza accesso ai servizi essenziali, come acqua potabile ed energia elettrica (Caltabiano, 2023). I più grandi insediamenti sono composti principalmente da baracche costruite con materiale di risulta, container, abitazioni realizzate in tufo ed ex strutture di accoglienza abbandonate e occupate (img. 01). Sebbene le istituzioni abbiano più volte avanzato tentativi di rimozione facendo leva sull’attenzione mediatica1, essi continuano a ricrearsi, rispondendo a necessità sempre

gestione delle ingenti somme. Un caso peculiare è il comune di Manfredonia, destinatario di oltre 53 milioni di euro per il superamento dell’insediamento abitativo di Borgo Mezzanone, al centro della seguente ricerca, per il quale ha avanzato una proposta sintetica del PAL, firmata – in prima istanza – il 9 gennaio 2023 (DGC n.4)2 .

Luoghi, spazi che fanno il mondo, che catturano e allo stesso tempo sostengono

più articolate e assumendo le fattezze di vere e proprie città dotate di una serie di economie, servizi alle persone, spazi di aggregazione, negozi, bar e ristoranti, chiese e moschee e reti di solidarietà (img. 03).

Queste condizioni abitative sono attualmente interessate da progetti, caratterizzati da modelli di governance multilivello e multisettoriali, volti al loro “superamento”. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) prevede l’impiego di 200 milioni di euro per “superare gli insediamenti abusivi” (M5C2 Investimento 2.2). A seguito di un’analisi delle condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore alimentare realizzato nel 2022 da ANCI e Cittalia, la metà dei fondi nazionali sono stati destinati alla provincia di Foggia e assegnati direttamente alle amministrazioni comunali. Quest’ultime, senza una reale esperienza pregressa, hanno quindi dovuto stilare dei Piani di Azione Locale (PAL) per la

Il piano originale prevede il trasferimento degli abitanti in piccoli borghi ideati dal regime fascista (img. 02). Nonostante sia noto che l’identità di tali luoghi è caratterizzata dalla “desolazione”, in quanto isolati da decenni dal punto di vista spaziale, politico e sociale (Fanizza, 2012), si immagina la loro rinascita mediante la costruzione di tre tipologie di abitazioni corrispondenti ad altrettante temporalità della presenza migrante (temporanea, semi-permanente e transitoria). Non solo il piano non presenta alcuna specificazione riguardo alle modalità di individuazione e selezione delle persone coinvolte, ma non è previsto nessun intervento pubblico volto a informare e intermediare a livello politico tra le parti sociali chiamate in causa: gli abitanti delle borgate e quelli dell’insediamento abitativo da “superare”. Appare quindi chiaro che il progetto di territorio, supportato dall’approccio emergenziale tipico delle proposte politiche riguardanti le persone migranti, è ambizioso per la scala e l’immaginario di paesaggio, in quanto mobilita visioni neo-rurali e piani di colonizzazione agricola, pensando nuovi dispositivi di una integrazione nella separazione per i braccianti africani. Al fine di comprendere come si produce un “progetto del superamento” inquadrato dalla dicotomia formale/ informale, concentreremo il nostro sguardo sulla cosiddetta “Pista di Borgo Mezzanone” (Manfredonia) – che chiameremo “Borgo”, nome in uso fra i suoi abitanti. Nei paragrafi successivi, utilizzeremo riflessioni in corso e risultati attesi di un’indagine-azione collettiva svolta da metà 2023 ad oggi3.

Campi agricoli | Arable fields Vigneti | Vineyards

Ghetti per i braccianti stranieri | Migrant farmworker Ghettos Frutteti | Orchards Oliveti | Olive trees

Strade | Roads Ferrovia | Railway

Alloggi per i braccianti stranieri | Organised accomodations for migrant farmworkers Aree forestali | Forest areas Edifici | Buildings Corpi idrici | Waters Borgate | Rural hamlets

in projects of overcoming. S. Mastromarino, 2025

02. La Capitanata, insediamenti e borgate nei progetti di superamento | Capitanata, settlements and rural hamlets

Questo lavoro di ricerca sul campo è servito a delineare i caratteri della costruzione discorsiva istituzionale che sottende la prevista evacuazione del cosiddetto “insediamento informale”. Lo studio è stato accompagnato da un necessario lavoro di archivio di indagine in merito ai piani in un sistema temporale di relazioni più ampio e complesso. Tuttavia, nonostante sia inquadrato nella cornice del piano istituzionale, il nostro sguardo si è sempre situato nel margine, instaurando relazioni con residenti

Borgo

come un

mercatale

in

seguito, presenteremo osservazioni in corso con l’obiettivo di interrogare la narrazione che attribuisce a Borgo, con le sue vie trafficate, attività commerciali e condizioni abitative, l’appellativo di “informale”. Proveremo quindi a volgere lo sguardo a frammenti di una storia relazionale e affettiva che immagina futuri altri, al di là della prospettiva soluzionista tecnocratica prevista dal “superamento”.

continua evoluzione piuttosto che magazzino di manodopera passivamente in attesa di essere sfruttata

stabili, commercianti e nuovi arrivati a Borgo, bevendo caffè al bar e riunendoci in celebrazioni sacre, partecipando a piccole assemblee interne (non formalizzate da alcuna realtà associativa) e creando insieme momenti di discussione collettiva4, osservando e sostenendo processi di auto-costruzione e appropriazione spaziale.

Fare, disfare, immaginare un abitare altro I molteplici fronti e retri, dedali e slarghi dell’insediamento di Borgo Mezzanone non permettono di delineare alcuna sintesi unitaria; Borgo risulta irrappresentabile: sfugge. Per questo motivo, la nostra narrazione è necessariamente focalizzata e puntualmente situata in un’area e in tempi specifici: facciamo infatti riferimento a una delle tante vie di Borgo, che chiameremo “via secondaria”5. Di

Per ripercorrere la formazione della via secondaria in questione bisogna riattraversare l’intera storia dell’insediamento. Borgo sorge su una pista aeroportuale risalente alla Seconda guerra mondiale, utilizzata poi come base logistica durante la guerra del Kosovo. Nel 1999, una porzione della pista viene convertita a centro di accoglienza e, tra il 2002 e il 2004, nasce un centro permanente per richiedenti asilo (CARA), dando inizio in modo lento e graduale alla formazione di quello che diventerà il cosiddetto ghetto di Borgo Mezzanone. La pista vede un aumento demografico a partire dagli anni 2016/2017, per motivazioni diverse legate all’aumento di arrivi nella provincia, all’incendio di insediamenti vicini (Caltabiano, 2023) e alla rispettiva “rigenerazione” (Caruso e Corrado, 2021) – cioè la rimodulazione e ricreazione dei ghetti da parte degli abitanti a seguito di operazioni di sgombero. Dall’analisi di cartografia a nostra disposizione, la via secondaria presenta la formazione di prime baracche autocostruite dal 2016, per poi espandersi a fine 2017 lungo l’intera via. Ad oggi, le sue abitazioni sono quasi raddoppiate e la via costituisce una delle tante aree prevalentemente residenziali di Borgo.

Dalla seconda metà del 2023, abbiamo, in momenti diversi, frequentato la via, tessendo relazioni con i suoi abitanti e imparando a conoscere le storie materiali che

la costituiscono. M., S. e L. sono alcuni degli abitanti che la compongono e che la abitano giornalmente. Provengono in prevalenza dell’Africa occidentale e si identificano come braccianti agricoli, muratori o camionisti. Per motivazioni e percorsi diversi si sono trovati a vivere qui a Borgo, ma sono uniti da una violenza comune: la frontiera. Pur non trattandosi di un confine sanzionato, anche a Borgo Mezzanone la violenza della frontiera si spazializza laddove si definiscono le condizioni normative perché avvenga un’esclusione. Tuttavia, andando oltre un approccio esclusivamente vittimizzante, gli abitanti della via hanno in questi anni contribuito a costruire e immaginare una possibilità di abitare oltre le logiche di controllo e oggettivazione che spesso contraddistinguono i percorsi di accoglienza umanitaria (ActionAid, 2023). Al momento della scrittura di questo articolo, L. è partito per lavoro, ha lasciato la sua casa in tufo a un amico, affinché anche lui possa cercare lavoro nelle campagne foggiane e costruire un futuro a Borgo. S. ha iniziato a gettare le basi per ricostruire la sua casa, dopo che la sua baracca in legno è andata distrutta un anno fa per via di un incendio: questa volta costruirà anche lui in tufo. Anche M., infine, sta costruendo la sua casa in muratura: una casa unifamiliare, con struttura in calcestruzzo armato e blocchi di cemento, terrazzo calpestabile e posto auto. Noncurante dei progetti di superamento, M. non accetterà di essere spostato da qui e sottolinea fieramente che la sua è “come una casa italiana”, e resterà. Più tempo passiamo a Borgo, più la “via secondaria” ci sembra una sineddoche per l’intero insediamento, la sua crescita continua, il suo palpitare. Non cerchiamo negli scambi, negli investimenti, nelle relazioni che vi si annodano delle forme solidaristiche improbabili. Alcune lo potranno essere – come ci sembrano quelle che stiamo osservando più da vicino – altre lo sono meno, lo si in -

tuisce. Interessa qui guardare allo spazio di Borgo come un divenire, un assemblarsi, un continuo aggiustarsi e organizzarsi che fa vacillare il nostro pensiero dualista (formale vs informale) che aspira a trasformare le pratiche sociali in oggetti perfettamente controllabili, immediatamente leggibili. Non sorprende che la razionalità pianificatoria e la pretesa logistica delle normative europee sulle migrazioni trovino nei ghetti i luoghi della propria crisi. Non sorprende neppure che l’immagine di Borgo come funzionale all’incontro tra domanda e offerta di manodopera a basso costo, propria del discorso legato alla razionalità produttiva, risulti drammaticamente povera rispetto al pullulare di scambi, alle economie di servizi che lo innervano. Da questo punto di osservazione, Borgo emerge come un mercatale in continua evoluzione piuttosto che magazzino di manodopera passivamente in attesa di essere sfruttata.

Ci domandiamo allora quale sia il senso delle politiche che rivendicano di voler “superare gli insediamenti informali”. Questa formula ritma regolarmente da un paio di decenni l’intervento delle politiche pubbliche, si atteggia a loro principio. Tale principio equivale alla cancellazione del luogo seguita dal trasferimento delle persone migranti altrove. Ma ecco il paradosso: alla continuità dei tentativi di superamento corrisponde il radicarsi e, anzi, addirittura la moltiplicazione di centri abitati imprevisti che tendono a diventare permanenti. Se infatti la nostra osservazione si è concentrata su Borgo, almeno altri due insediamenti – quelli di Rignano e Borgo Tre Titoli – stanno conoscendo simili dinamiche. Le proposte di “superamento” di questo e altri insediamenti si confrontano con il “farsi città” del ghetto continuando ad esacerbare un conflitto, ormai decennale, tra diversi immaginari di pianificazione dei futuri urbani e rurali della Capitanata.

Informalità e progetto dell’emergenza

Attraverso questa breve narrazione di un pezzo della pista di Borgo, di una via che, come tante altre, forma la geografia materiale e sociale di Borgo Mezzanone, abbiamo provato a interrompere la dicotomia tra formale e informale, legale e illegale su cui fa perno tale visione. Oltre ad essere risultata fino ad oggi incapace di rispondere ai processi di “rigenerazione”, tale dicotomia appare problematica in quanto inserisce alcune forme dell’abitare nelle aree rurali come un’anomalia da correggere, mettendo in ombra le motivazioni da cui emergono. Il dialogo, costruito con gli individui impegnati a investire tempo e denaro per la realizzazione di una casa in muratura, ci ha dimostrato

del sistema di accoglienza e alla precarietà abitativa imposta alle persone migranti.

L’informalità come strategia politica che mira a etichettare specifiche forme abitative come temporanee e, in quanto tali, superabili

come questi agglomerati abitativi sovente prendono forma in risposta a una carenza strutturale di alternative abitative per le persone migranti e acquisiscono un ruolo sociale ed economico centrale per le progettualità degli individui. In realtà, insediamenti come Borgo non sono semplicemente il prodotto di una mancanza di pianificazione, come vorrebbero lasciare intendere le visioni in questione, ma – come si evince ascoltando la narrazione dei percorsi migratori dei nostri interlocutori – il risultato di politiche migratorie e decisioni governative che hanno sistematicamente escluso le persone dalle opzioni abitative regolari, relegandole ai margini in condizioni di precarietà. Ciò che viene descritto come “informale” è una mera risposta adattiva alle carenze

Nel nostro abitare, frequentare, dialogare, interagire con la pista abbiamo provato a mettere in dubbio questa categorizzazione, constatando come l’informalità non sia un mero deficit di regolazione, come inteso nello spettro del dibattito pubblico a carattere emergenziale, ma una strategia politica che mira ad etichettare specifiche forme abitative come temporanee e, in quanto tali, superabili. Nell’osservare l’evoluzione delle progettualità da un punto di vista metodologico, è emerso che il progetto dovrebbe prendere in considerazione storicità e complessità dei luoghi, imperfezioni e vantaggi - economici e sociali - dei suoi sistemi “informali” di accoglienza per sortire degli effetti benefici sulle esistenze degli individui coinvolti. Infatti, al presupposto che il ghetto sia un male assoluto da dover superare e cancellare consegue la sua riduzione a semplice fenomeno di ordine pubblico, di povertà, un luogo malsano, e quindi, da curare. Così, quando il pensiero sui ghetti si riduce alla sua necessaria superabilità, basata sulla pretesa di definire “l’informale”, si riproduce il pensiero dell’emergenza, dando vita a semplificazioni tecnologiche o tipologiche e non a progetti di infrastrutture dell’esistenza, investimenti, miglioramenti, e supporto a nuove configurazioni spaziali.*

RINGRAZIAMENTI

L’articolo descrive parte dell’attività di Inappropriable, un’infrastruttura collettiva di sperimentazione che mette in contatto un gruppo eterogeneo e diversificato di ricercatrici e ricercatori. È finanziato in parte da un piccolo fondo di ricerca del Politecnico di Torino, DIST, intitolato Al di là del campo. Indagare opacità, forme e visioni del superamento come logica territoriale, che ha esaminato l’impatto dei progetti di sviluppo realizzati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per contrastare il caporalato, e in parte sostenuto dal progetto britannico AHRC Reframing arrival: Transnational perspectives on perceptions, governance and practices – REFRAME

03. Borgo Mezzanone, bar-ristorante su una via principale, febbraio 2025 | Borgo Mezzanone, bar-restaurant on

NOTE

1 – Si pensi, ad esempio, al 2019, anno in cui l’allora Ministro dell’Interno ha portato avanti una campagna politica per “smantellare” l’insediamento abitativo di Borgo Mezzanone.

2 – Lavoro che ha implicato la costruzione di un dialogo con diversi attori del territorio: prefettura di Foggia, Università di Bari, Università di Foggia, Politecnico di Bari, rappresentanti sindacali e alcuni enti del terzo settore.

3 – Attraverso una prospettiva longitudinale che segue evoluzioni, stalli e involuzioni del piano finanziato dal PNRR, abbiamo in questi anni svolto interviste semi-strutturate con attori istituzionali e raccolto informazioni attraverso conversazioni e dialoghi costruiti nel tempo con abitanti, attivisti e referenti delle associazioni presenti sul territorio e a Borgo. Principali partecipanti sono riportati di seguito: sindaci, vice-sindaci e assessori dei comuni di Manfredonia, San Severo, Cerignola e Foggia; Funzionari della Regione Puglia; Referenti Caritas; Intersos (FG); Comunità Oasi2 San Francesco; Comunità sulla strada di Emmaus (FG); Flai CGIL (FG); Scuola Fatoma.

4 – Presenza in cinque assemblee partecipate da abitanti e attivisti/e, volte al confronto riguardo il progetto del PNRR e alle continue e pressanti urgenze legali, sanitarie, lavorative degli abitanti di Borgo.

5 – Per motivi etici e di sicurezza, non sono localizzati i siti precisi e non sono riportate caratteristiche morfologiche. Per le stesse motivazioni, vengono utlizzati degli pseudonimi puntati per nomi personali di abitanti e partecipanti alla ricerca.

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N.50

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– Raeymaekers, T. (2024). The natural border: bounding migrant farmwork in the Black Mediterranean. Ithaca, New York: Cornell University Press.

– Roy, A. (2005). Urban Informality: Toward an Epistemology of Planning, Journal of the American Planning Association, 71(2), pp. 147-158.

– Roy, A. (2009). Strangely Familiar: Planning and the World of Insurgence and Informality, Planning Theory, vol. 8, n.1, 2009, pp: 7-11.

– Tsing, A.L. (2021). The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins. Princeton: Princeton University Press.

the main street, February 2025. S. Mastromarino

Borgo Mezzanone: evolutions and overcoming

The debate on informality, or what exists outside formal, legal and juridical contexts, is vast. Since its emergence in the early 1970s in the works of Keith Hart (1985), it has become a field of investigation for sociologists, urban planners, and architects. Understood as “a state of exception and ambiguity” (Roy, 2005, p. 147), as “a mode of production of space defined by the territorial logic of deregulation” (Roy, 2009, p. 7), it is certainly a symptom of neoliberal economies and, at the same time, a survival strategy. Previously relegated to the urban decay of the Global South, it is only re-imported to the Global North as a holistic category to define urban marginality and formal transgression. Nevertheless, it is impossible to see it as pure negativity. The informal may be thought as a practice of impossibility, a project of ‘latent commons’ (Tsing, 2021: 401), of lifelines (Boano and Bianchetti, 2022): spaces of worlding, that capture and at the same time sustain; that allow many ways of existing beyond appropriation; that draw uncomfortable but familiar presences, trace forms of exile and resistance, offering a glimpse of the possibility of a new way of living.

To reflect on informality, we refer to the Capitanata area in the province of Foggia, one of the main centres of Italian agricultural production. The latter is largely supported by migrant farm labor, whose persistence is influenced by various factors: the seasonality of crops, the presence of illegal intermediaries and a specific vulnerability of foreign workers linked to their legal status, which has a strong impact on their socioeconomic status. For reasons related to these same issues, farm labor has contributed to the creation, over the years, of a series of settlements in rural areas of varying sizes and characteristics. Commonly referred to as ‘informal settlements’, there are currently over 35 of them throughout the region of Puglia, 24 of which are in the province of Foggia, with an estimated 8,640 residents and peaks of 12,540 people in the summer months (IDOS Study and Research Center, 2022). The settlements include large agglomerations, but also isolated farmhouses scattered throughout the countryside, where

Manuel Grimaldi, Stefano Mastromarino, Richard Lee

Peragine, Antonio Stopani, Camillo Boano

Project and the Politics of Overcoming

Building Emergency in Borgo Mezzanone

people often live without access to essential services such as drinking water and electricity (Caltabiano, 2023). The largest settlements consist mainly of shacks built with scrap materials, containers, tuff dwellings, as well as abandoned and occupied former reception facilities (img. 01). Although institutions have repeatedly attempted to evacuate them, leveraging media attention1, such settlements continue to exist and proliferate, while responding to increasingly complex needs and taking on the features of real cities comprising a range of economies, services, meeting places, shops, bars and restaurants, churches and mosques, and solidarity networks (img. 03).

These conditions are currently affected by projects, characterised by multilevel and multisectoral governance models, aimed at “overcoming” them. The National Recovery and Resilience Plan (PNRR) allocated €200 million to “overcome illegal” (M5C2 Investment 2.2). Following an analysis of the housing conditions of migrants working in the food sector carried out in 2022 by ANCI and Cittalia, half of the national funds were allocated to the province of Foggia and assigned directly to municipal administrations. The latter, without any previous experience, had to draw up Local Action Plans (PAL) in order to manage the large sums of money. A peculiar case is the municipality of Manfredonia, which received over €53 million to overcome the settlement of Borgo Mezzanone—the focus of this research—for which it put forward a summary proposal for the PAL, signed, at first, on January 9, 2023 (DGC No. 4)2 .

According to the original plan, Borgo Mezzanone’s inhabitants were to be transferred to small villages designed during the fascist regime (img. 02). Although these places are known to be characterized by “desolation,” having been isolated for decades from a spatially, politically, and socially (Fanizza, 2012), their rebirth supposedly comes through the construction of three types of housing, corresponding to three types of migrant presence (temporary, semi-permanent, and transitory). Not only does the plan not specify how beneficiaries will be identified and selected, but also it does not take

into account any public political of information and mediation between all parts involved in the plan: the inhabitants of the villages and those of the settlement to be ‘overcome’. It is therefore clear to us that the territorial project, whose political proposal and approach to migrant bodies exposes the familiar logic of emergency, is ambitious in terms of scale and landscape, as it mobilizes neo-rural visions and agricultural colonization plans, devising new mechanisms for integration-through-separation for African labourers.

In order to understand how a ‘project of overcoming’ framed by the formal/informal dichotomy is produced, we will focus our attention on the so-called “Pista di Borgo Mezzanone” (Manfredonia) – which we will call “Borgo”, the name used by its inhabitants. In the following paragraphs, we will use ongoing reflections and expected results from a collective action research project carried out from mid-2023 to the present3. This field research has served to outline the characteristics of the institutional discourse underlying the planned evacuation of the “informal settlement.” Such an approach was accompanied by archival research on the plans within a broader and more complex temporal system of relationships. However, despite being framed within the institutional plan, our gaze has always been situated on the margins, establishing relationships with permanent residents, merchants, and newcomers to Borgo, drinking coffee at the bar and gathering at sacred celebrations, participating in small internal assemblies (not formalized by any association) and creating moments of collective discussion together4, observing and supporting processes of self-construction and spatial appropriation.

Doing, undoing, imagining an inhabiting otherwise

The multiple front and rear sides, alleys and open spaces of Borgo Mezzanone do not allow for any unified synthesis; Borgo is unrepresentable: it eludes description. For this reason, our narrative is necessarily focused and situated in a specific area and time: we refer to one of the many streets of Borgo, which we will call

“secondary street”5. Below, we will present ongoing observations with the aim of questioning the narrative that attributes the label “informal” to Borgo, as a way to describe its busy streets, commercial activities, and housing conditions. We will therefore try to look at fragments of a relational and emotional history that imagines other futures, beyond the technocratic solutionist perspective envisaged by the logic of ‘overcoming’.

To retrace the history of this secondary street, we must revisit the entire history of the settlement. The construction of the airport runway, on which Borgo stands, dates back to World War II, and it was later used by the Italian Air Force as a logistics base during the Kosovo War. In 1999, a portion of the runway was converted into a reception centre. Between 2002 and 2004, a permanent centre for asylum seekers (CARA) was opened, around which slowly and gradually emerged what would become the so-called “Ghetto di Borgo Mezzanone.” The Pista saw a population increase starting in 2016/2017, for various reasons related to the increase in migrant arrivals in the province, the burning of nearby settlements (Caltabiano, 2023), and subsequent “regeneration“ (Caruso and Corrado, 2021) – that is, the remodeling and recreation of ”ghettos” by the inhabitants following eviction operations. From cartographic analysis, the first self-built shacks appear along the secondary road in 2016, which took up the entire street at the end of 2017. To date, the number of these dwellings has almost doubled and the street is one of the many predominantly residential areas of Borgo. Since the second half of 2023, we have been frequenting the street at various times, building relationships with its inhabitants and learning about the material stories that make up the settlement. M., S., and L. are some of the inhabitants who make up the street and live there on a daily basis. They come mainly from West Africa and identify themselves as agricultural laborers, bricklayers, or truck drivers. For different reasons, they found themselves living here in Borgo and are united by a common violence: the border. Although it is not a sanctioned border, even in Borgo the violence of the border spatializes where regulatory conditions enable exclusion. Yet, if we avoid an exclusively victimizing approach, the inhabitants of the street have in recent years contributed to building and imagining a possibility of living beyond the logic of control and objectification that often characterizes humanitarian reception processes (ActionAid, 2023). At the time of writing this article, L. has left for work, leaving his tuff house to a friend so that he too can look for work in Foggia’s countryside and build a future in Borgo. S. has begun laying the foundations to rebuild his house after his wooden shack was destroyed by fire a year ago: this time, he too will build in tuff. In the meantime, M. is also building his brick house: a single-family home with a reinforced concrete structure and cement blocks, a walkable terrace, and a parking space. Unconcerned with the PNRR’s plans, M. will not agree to be moved from here and proudly emphasizes that his house is “like an Italian house” and will stand. The more time we spend in Borgo, the more the “secondary road” seems to us to be a syn-

ecdoche for the entire settlement—for its continuous growth and beating heart. We are not looking for unlikely forms of solidarity in the exchanges, investments, and relationships that are woven together in Borgo. Some may be – as those we are observing more closely seem to us – others less so, as we are able to gather. What is interesting, rather, is to look at the space of Borgo as a form of becoming, an assembling, a continuous adjusting and organizing that shakes our dualistic thinking (formal vs. informal), one which aspires to transform social practices into perfectly controllable, immediately readable objects. It is not surprising that the planning rationality and logistical pretensions of European migration regulations find their crisis in the ghettos. Nor is it surprising that the image of Borgo as being functional to meeting the supply and demand of low-cost labour—typical of the discourse linked to productive rationality—is dramatically poor compared to the abundance of exchanges and service economies that innervate the settlement. From this point of view, Borgo emerges as a constantly evolving market rather than a warehouse of labour passively waiting to be exploited.

We therefore wonder what is the point of policies that claim to aim at “overcoming informal settlements.” This formula has regularly punctuated public policy intervention for a couple of decades, posing itself as its principle. This principle amounts to the erasure of the area followed by the relocation of migrant bodies elsewhere. But here is the paradox: the continuity of attempts to overcome these settlements corresponds to their entrenchment and, indeed, to the multiplication of unexpected settlements that thereby tend to become permanent. Indeed, while our observations have focused on Borgo, at least two other settlements – those of Rignano and Borgo Tre Titoli – are experiencing similar dynamics. Proposals for “overcoming” this and other settlements confronts the process in which the ghetto “became a city” thereby continuing to exacerbate a decadeslong conflict between different imaginaries of urban and rural future planning.

Informality and the project of emergency

Through this brief account of a secondary road of the “Pista” in Borgo – one that, like many others, shapes the material and social geography of Borgo Mezzanone – we have attempted to interrupt the dichotomy between formal and informal, legal and illegal, which underpins this vision. Not only has this dichotomy so far proven unable to address “regeneration” processes, but it is also problematic in that it frames certain forms of rural dwelling as anomalies in need of correction, obscuring the motivations behind their emergence. Dialogue with individuals investing time and money to build permanent brick homes has shown us that these settlements often arise in response to a structural lack of housing alternatives for migrants, while playing a central social and economic role in individual life plans. In reality, settlements like Borgo are not simply the product of a lack of planning, as such narratives suggest, but – as clear from the stories of our interlocutors – the result of migration policies and government de-

cisions that have systematically excluded people from formal housing options, relegating them to the margins and precarious conditions. What is described as “informal” is merely an adaptive response to the failures of the reception system and to the housing insecurity imposed on migrant bodies.

In our living, socializing, dialoguing, and interacting with Borgo, we have attempted to question this categorization and recognize that informality is not merely a regulatory deficit, as conceived in emergency-oriented public discourse, but a political strategy aimed at labeling specific dwellings as temporary and therefore erasable – or, indeed, in need of overcoming. From a methodological perspective, we argue that any project in this situation should take into account the historicity and complexity of places, their imperfections as well as the economic and social specificities of its “informal” reception system, as a way to bring about beneficial effects on the existence of who is actually involved. The assumption that Borgo is an absolute evil to be overcome and erased reduces it to a mere issue of public order, of poverty: an unhealthy place to be treated. Thus, when the discourse on ghettos is reduced to the necessity of their elimination, based on the claim of “informality”, the emergency rhetoric that is reproduced leads to technological or typological simplifications rather than projects of existential infrastructure, investment, improvement, and support for novel spatial configurations.*

ACKNOWLEDGMENT

The article describes part of activity of the Inappropriable, a collective infrastructure of experimentation, connecting a diverse and heterogeneous group of researchers. It is funded partially by a small research fund from the Politecnico di Torino, DIST entitled Al di là del campo. Indagare opacità, forme e visioni del superamento come logica territorial which looked at the impact of developmental projects carried out by the National Recovery and Resilience Plan (PNRR) to contrast Caporalato and partially supported by the UK AHRC project Reframing arrival: Transnational perspectives on perceptions, governance and practices – REFRAME

NOTES

1 – For instance, in 2019, the minister of the interior carried out a political campaign to “dismantle” the Borgo Mezzanone settlement. See (bari.repubblica.it)

2 – Work that has involved the establishment of a dialogue with various local actors: the Prefecture of Foggia, the University of Bari, the University of Foggia, the Polytechnic University of Bari, trade union representatives, and some third sector organizations.

3 – Through a longitudinal perspective that follows the developments, stalls, and setbacks of the plan financed by the PNRR, we have conducted (10) semi-structured interviews with institutional actors and gathered information through conversations and dialogues built up over time with residents, activists, and representatives of associations in the area and in Borgo. Main participants are listed below: mayors, deputy mayors and aldermen of the municipalities of Mandredonia, San Severo, Cerignola and Foggia; officials of the Puglia Region; Caritas representatives; Intersos (FG); Comunità Oasi2 San Francesco; Comunità sulla strada di Emmaus (FG); Flai CGIL (FG); Scuola Fatoma.

4 – We took part in 5 assemblies attended by residents and activists/activists aimed at discussion regarding the PNRR project and the continuous and pressing legal, health, labor urgencies of Borgo residents.

5 – For ethical and safety reasons, we will not locate or delineate morphological features. For the same reasons, we will use dotted pseudonyms for personal names of inhabitants and research participants.

Lisbet Alessandra Ahon Vasquez

Architetta, PhD in Paesaggio e Ambiente, Università degli Studi di Roma La Sapienza. lisbetalessandra.ahonvasquez@uniroma1.it

Il giardino spontaneo

01. La vegetazione del progetto Superbloom di Nigel Dunnett nel mese di settembre (Londra, 2024) | The vegetation of Nigel Dunnett’s Superblooom project in September (London, 2024). L.A. Ahon Vasquez

The Spontaneous Garden The article explores how informality and vegetative spontaneity in urban landscape design function as design strategies capable of adapting to the climate crisis and biodiversity loss in contemporary cities. Through analysing three experimental projects involving low-maintenance vegetation and natural processes, it shows how the spontaneous garden paradigm enables the regeneration of marginal areas, enhances ecological resilience, and promotes forms of social participation. It further highlights how this approach, as an alternative to traditional planning, creates accessible and sustainable spaces, reduces management costs, and fosters an emotional connection with nature. The findings aim to propose theoretical and practical implications for designers and local authorities, helping to pave the way for new models of urban regeneration and new ways of living in cities that are more sustainable and resilient.*

L’articolo indaga come l’informalità e la spontaneità vegetazionale nel progetto del paesaggio urbano si configurano come strategie progettuali capaci di adattarsi alla crisi climatica e alla perdita di biodiversità nella città contemporanea. Attraverso l’analisi di tre progetti sperimentali su vegetazione a bassa manutenzione e processi naturali, si mostra come il paradigma del giardino spontaneo abiliti la rigenerazione di aree marginali, incrementi la resilienza ecologica e promuova forme di partecipazione sociale. Si evidenzia inoltre come tale approccio, alternativo alla pianificazione tradizionale, generi spazi accessibili e sostenibili, riduca i costi di gestione e favorisca un rapporto emotivo con la natura. I risultati vogliono suggerire implicazioni teoriche e pratiche per progettisti e amministrazioni, capaci di contribuire ad aprire la strada a nuovi modelli di rigenerazione urbana e nuovi modi di vivere in città, più sostenibili e resilienti.*

Sperimentazioni urbane per un rinnovato dialogo tra natura, sostenibilità e paesaggio

Introduzione1

La crisi climatica e la crescente pressione urbana sugli ecosistemi hanno spostato l’attenzione verso gli spazi naturali in città. L’urbanizzazione intensiva accelera la perdita di biodiversità, mentre cresce il desiderio di natura. Per affrontare tali sfide, molte città adottano soluzioni basate sulla natura per rigenerare spazi abbandonati, rivitalizzare luoghi pubblici, ridurne l’impronta ecologica e i costi di gestione (Metta e Olivetti, 2019).

Considerando che le aree urbane coprono circa il 3% del territorio terrestre e si stima che entro il 2050 quasi l’85% della popolazione mondiale vivrà in città2, è evidente che l’emergenza climatica e la crisi della biodiversità debbano essere affrontate a partire dagli ambienti urbani e dai suoi abitanti. Tale urgenza è rafforzata da normative europee come l’EU Biodiversity Strategy for 2030, che mira ad ampliare gli spazi aperti urbani, migliorarne la biodiversità e promuovere le nature-based solutions.

In questo contesto, il progetto di paesaggio e le sperimentazioni innovative sono cruciali. È opportuno interrogarsi sul ruolo degli spazi verdi informali nel progetto urbano. Si tratta di aree non sempre riconosciute formalmente dalle amministrazioni locali come destinate al giardinaggio, all’agricoltura o alla ricreazione, né la vegetazione in esse contenuta viene gestita dalle istituzioni: qualunque scopo ricreativo è informale e spesso transitorio, sfruttando le caratteristiche intrinseche del sito stesso (Rupprecht e Byrne, 2014, p. 598).

KEYWORDS: GIARDINO SPONTANEO, PAESAGGI INFORMALI, RIGENERAZIONE URBANA | SPONTANEOUS GARDEN; INFORMAL LANDSCAPES; URBAN REGENERATION

A partire dagli anni Ottanta il concetto di informalità si è evoluto: non più solo prodotto di povertà, disuguaglianza, illegalità o marginalità, ma processo in costante divenire che ridefinisce i rapporti con il formale (Castells, 1983). Gli usi informali dello spazio urbano, come suggerivano Michel De Certeau e Henri Lefebvre, nascono dal praticare quotidiano degli abitanti, generando relazioni in grado di incrinare il modello della città rigidamente pianificata3. Gli spazi informali, infatti, sono esclusi da ciò che comunemente si definisce città formale perché contrastano con l’immagine

dominante di una metropoli ordinata, come quella promossa nei piani regolatori convenzionali (Lehmann, 2020, p. 3).

In generale, l’informalità applicata al progetto di paesaggio urbano si riferisce a una dimensione più spontanea, temporale e in continua evoluzione degli spazi aperti. In tale contesto

L’informalità applicata al progetto di paesaggio urbano si riferisce a una dimensione più spontanea, temporale e in continua evoluzione degli spazi aperti

la spontaneità vegetazionale si configura come processo ecologico non controllato centralmente, in cui specie erbacee e pioniere colonizzano i vuoti in modo non programmato.

Il rapporto tra natura e progettazione ha sempre oscillato tra il desiderio di controllare la spontaneità e la volontà di riscoprirne l’autenticità. Oggi, una crescente consapevolezza delle problematiche ambientali alimenta la volontà di “ritorno alla natura”4 (Heatherington e Sargeant, 2005, p.1), che si esprime sia in progetti istituzionalizzati, con controllo parziale dei processi naturali, sia in iniziative nate dal basso. Il giardino spontaneo rappresenta una manifestazione di questo desiderio: un modello basato su vegetazione composta soprattutto da piante “povere”, a bassa manutenzione – perlopiù specie erbacee, graminacee e perenni – e sulla possibilità di accogliere vegetazione spontanea.

L’articolo studierà tre esempi di giardini spontanei, declinati lungo un continuum dal pianificato allo spontaneo, per evidenziarne il potenziale adattivo di questi approcci come risposta alla crisi clima-

02. Localizzazione dei progetti Superbloom (N. Dunnett) e Barbican Wildlife Garden a Londra (Foto del Barbican Wildlife Garden, City Matters) | Location of the Superbloom (N. Dunnett) and Barbican Wildlife Garden projects in London (Barbican Wildlife Garden’s photo, City Matters). L.A. Ahon Vasquez

tica e come alternativa alla rigida pianificazione urbana. Il primo progetto è Superbloom (2022) di Nigel Dunnett (img. 02), che ha trasformato l’antico fossato della Torre di Londra in un giardino fiorito, dove i cambiamenti stagionali e la fauna attirata dalle piante creano una trasformazione continua. Il secondo è la Petite Ceinture (2018) di Wagon Landscaping (img. 03), che recupera spazi abbandonati lungo un’ex cintura ferroviaria a Parigi attraverso una progettazione aperta alla vegetazione spontanea e una manutenzione leggera, in dialogo con le dinamiche naturali. Infine, il Barbican Wildlife Garden (img. 02), nato dal basso nel complesso del Barbican Estate: un piccolo spazio di natura spontanea curato e gestito dai volontari, volto a creare habitat per la fauna selvatica in città. Questi progetti dimostrano come l’informalità nel progetto di paesaggio possa favorire la rigenerazione di spazi marginali e promuovere un dialogo rinnovato tra città e natura, offrendo soluzioni sostenibili ed esperienze estetiche ed emozionali.

Superbloom: la risignificazione di un fossato

Il progetto Superbloom di Nigel Dunnett si inserisce nella tendenza che privilegia habitat non pianificati e paesaggi informali in contesti urbani, basandosi sull’uso di miscele di semi annuali selezionate scientificamente per favorire la resilienza e la biodiversità urbana (Oudolf e Kingsbury, 2013, p. 159).

Per celebrare il Giubileo di platino di Elisabetta II, l’antico fossato della Torre di Londra è stato trasformato in un giardino fiorito (img. 01). Questo, grazie all’importazione di profili di suolo conformi alle rigidissime linee guida archeologiche e a soluzioni ad hoc per i microclimi variabili, ha dato vita a un ecosistema capace di sostenere api, farfalle e altri impollinatori nel cuore della città (Historic Royal Palaces, 2023). Il percorso, lungo circa 800 m, circonda la Torre con prati fioriti, installazioni artistiche e pannelli informativi che illustrano biodiversità e filosofia del progetto (img. 04), proponendo un’esperienza emozionale in linea con il con-

03. Localizzazione del progetto Petite Ceinture (Wagon Landscaping) a Parigi | Location of the Petite Ceinture project (Wagon Landscaping) in Paris. L.A. Ahon Vasquez

cetto di enhanced nature di Dunnett (Dunnett, 2019; Oudolf and Kingsbury, 2013, p. 168).

Pur trattandosi di un intervento gestito da istituzioni e professionisti, Superbloom adotta un modello che privilegia la

I giardini spontanei come alternativa alla pianificazione tradizionale, offrono spazi aperti urbani accessibili e “democratici”

metamorfosi stagionale rispetto alla staticità dei prati urbani convenzionali. Il ricorso a mix di specie annuali, accuratamente selezionate per le condizioni di stress del fossato, consente fioriture spettacolari ma richiede monitoraggi continui per garantire il rispetto dei vincoli archeologici e la coerenza con gli obiettivi di biodiversità (Historic Royal Palaces, 2023).

La forte componente estetica e lo storytelling legato al Giubileo hanno svolto un ruolo cruciale nella sensibilizzazione del pubblico. Tuttavia, l’accesso a pagamento e la stagionalità limitano l’esperienza diretta dei cittadini al periodo di fioritura, sollevando un importante quesito sulla sostenibilità sociale e sull’efficacia a lungo termine di progetti simili.

Petite Ceinture: reinventare uno spazio abbandonato Il lavoro dello studio francese Wagon Landscaping si distingue per la sua estetica del selvatico. I loro progetti evidenziano “l’accento sul valore ecologico ed estetico di aree dall’aspetto incerto, risultato di processi di naturalizzazione spontanea, e sulla loro esplosiva vitalità” (Rinaldi, 2024, p. 250). La Petite Ceinture è un esempio emblematico, volto a trasformare una serie di siti abbandonati lungo un’ex cintura ferroviaria

04. Vista dall’alto delle composizioni vegetazionali di Superbloom nel mese di settembre (Londra, 2024) | Areal view of the plant compositions of Superbloom in September (London 2024). L.A. Ahon Vasquez

dismessa a Parigi, valorizzando la vegetazione spontanea e installando arredi leggeri e reversibili, come terrazze e panchine in legno che richiamano le banchine ferroviarie.

Il primo tratto aperto ai cittadini si trova nei pressi dell’ex stazione di Rue de la Marre, nell’area di Ménilmontant, nel 20° arrondissement (img. 06). Dopo un’analisi dei margini del sito, del rapporto con l’ambiente costruito e della flora spontanea, il progetto ha preservato un binario con traversine originali come omaggio storico, trasformando l’altro in un sentiero pedonale (img. 05). La sinergia tra progettisti, abitanti e servizi tecnici ha favorito azioni rispettose dei processi naturali, mentre la vicinanza con gli edifici conferisce al luogo “l’impressione di trovarsi nel giardino degli abitanti del quartiere”.

L’approccio di Wagon Landscaping alla Petite Ceinture si fonda sull’idea di “natura a costo zero” (Catalano et al., 2023, p. 61) capace di essere apprezzata e valorizzata dai cittadini grazie alla loro partecipazione. In questo contesto, l’informalità non è data solo dalla vegetazione spontanea presente, ma anche da un punto di vista gestionale, poiché la manutenzione è condivisa e le strutture leggere possono essere rimosse o modificate in base alle esigenze future. A differenza di un progetto spettacolare come Superbloom, la Petite Ceinture mira piuttosto a innescare un cambiamento culturale: gli abitanti hanno collaborato fin dall’inizio, acquisendo competenze nel riconoscere la flora spontanea e contribuendo a sostenere un ecosistema urbano in continua trasformazione. Tuttavia, questa modalità partecipativa, se da un lato riduce i costi, dall’altro può rappresentare un limite in caso di cambiamento dei residenti o di mutamenti nelle priorità istituzionali.

Barbican Wildlife Garden: autogestione di un ecosistema Nato come iniziativa dei residenti del Barbican Estate, il Barbican Wildlife Garden occupa un vuoto urbano gene-

06. Primo tratto della Petite Ceinture realizzato da Wagon Landscaping nei pressi dell’ex stazione di Rue de la Marre nel mese di luglio (Parigi, 2024) | First section of the Petite Ceinture designed by Wagon Landscaping near the former Rue de la Marre station in July (Paris, 2024). L.A. Ahon Vasquez
05. Dettaglio dei binari dell’ex cintura ferroviaria: nel progetto si è deciso di mantenere un binario con le traversine in legno, mentre il secondo binario è stato trasformato in un sentiero per i visitatori (Parigi, 2024) | Detail of the tracks of the former railway belt: the project preserved on track with wooden sleepers, while the second was converted into a visitor pathway (Paris, 2024). L.A. Ahon Vasquez

i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Allestito nel 1974 come giardino di servizio, è stato riqualificato nel 2003 grazie al sostegno dei City Gardeners (Barbican Wildlife Group, 2022, p.1): oggi ospita un ampio prato di piante perenni, fiori selvatici annuali, arbusti sempreverdi e due stagni artificiali, offrendo habitat a oltre 300 specie di fauna selvatica. In un contesto edificato – dove l’aumento delle temperature ha reso l’ambiente sempre più inospitale per la vegetazione – la presenza di spazi di naturalità è cruciale5, così come la presenza di una “natura incolta”, capace di trasformare questi luoghi urbani in veri fari di biodiversità rispetto agli ambienti rurali circostanti (Kowarik, 2011). In questo quadro, il Barbican Wildlife Garden, in giugno e luglio, regala fioriture rigogliose (img. 07): un micro-ecosistema resiliente in un contesto brutalista reso ostile dalle alte temperature estive (Kingsbury and Takacs, 2022, p. 225).

Questo giardino incarna una forma di informalità estrema: la natura evolve secondo logiche spontanee, mentre la comunità interviene in modo flessibile, dimostrando come l’autogestione e il coinvolgimento della comunità possano trasformare spazi marginali in spazi ecologici e sociali (img. 08). Pur non potendo contare su un budget istituzionalizzato, la cura costante dei cittadini è il vero motore del progetto. Tuttavia, il legame forte con il volontariato rende il giardino vulnerabile a eventuali cali di partecipazione o a cambiamenti nel supporto dei City Gardeners.

A differenza di Superbloom, gestito da professionisti e caratterizzato da un accesso a pagamento limitato ai mesi di fioritura, questo giardino nasce come iniziativa spontanea dei residenti, senza finalità estetiche predefinite, e rimane sempre fruibile. Inoltre, rispetto alla Petite Ceinture, dove l’informalità si esprime tramite strutture leggere e una manutenzione partecipata, il Barbican Wildlife Garden evolve in modo ancora più libero, attraverso la cura partecipata che accompagna la natura nella sua trasformazione continua.

Riflessioni finali: informalità e resilienza nella rigenerazione urbana

Appare evidente che la diminuzione delle opportunità di contatto diretto con la natura in città imponga sfide sempre più complesse al progetto di paesaggio: la priorità consiste nel creare spazi verdi informali e sostenere l’inclinazione delle persone verso la spontaneità (Soga e Gaston, 2016).

I giardini spontanei propongono un’alternativa alla pianificazione tradizionale, offrendo spazi aperti urbani accessibili e “democratici”, con costi contenuti per realizzazione e mantenimento, ricchi di naturalità. Ciò evidenzia come, al di là delle differenze di scala e di obiettivi iniziali, la gestione dell’informalità e della spontaneità sia in grado di generare resilienza urbana anche in contesti molto diversi.

In tutti e tre i casi analizzati emerge un filo conduttore: la volontà di considerare il giardino non come un prodotto statico, bensì come un processo evolutivo.

L’esperienza di Superbloom dimostra che persino un progetto fortemente organizzato – con miscele di semi calibrati per rispondere a vincoli archeologici e microclimatici – può evolvere in un ecosistema capace di reinterpretare la percezione del fossato. La Petite Ceinture, con il suo approccio aperto alla vegetazione spontanea e alla manutenzione condivisa, dimostra come gli spazi abbandonati possano diventare laboratori di apprendimento collettivo, in cui l’informalità è occasione di partecipazione attiva. Il Barbican Wildlife Garden, infine, è l’esempio più radicale di gestione nata dal basso, in cui i residenti si fanno custodi di un micro-ecosistema in continua metamorfosi, dimostrando che l’affidamento alla spontaneità vegetazionale migliora la capacità di fronteggiare ondate di calore e fasi di siccità. Queste differenze sono dei punti di forza: ciascun modello mette in luce come diverse interpretazioni dell’informalità generino soluzioni adattive ai mutamenti climatici e sociali.

Da queste esperienze emergono pratiche riproducibili in altri contesti, a patto di accettare il giardino come in-

07. La fioritura del Barbican Wildlife Garden nel mese di giugno (Londra, 2012) | The flowering of the Barbican Wildlife Garden in June (London, 2012). D. Hawgood ratosi dopo

sieme di processi in divenire. Innanzitutto, occorre porre al centro la flessibilità progettuale: ad esempio, la regolazione delle modalità di manutenzione e la possibilità di rimodulare arredi leggeri sono aspetti che consentono di rispondere rapidamente alle esigenze locali. A questo si deve affiancare un coinvolgimento della comunità: quando i cittadini diventano co‐protagonisti – nella Petite Ceinture, attraverso workshop e azioni condivise, o nel Barbican, affidandosi a un gruppo di volontari – si crea un capitale di competenze collettive e un senso di appartenenza che resiste al turn‐over individuale. In questa prospettiva, i giardini spontanei non sono più soltanto luoghi di biodiversità, ma anche catalizzatori di coesione sociale e laboratori di educazione ecologica.

Tuttavia, i limiti dei casi analizzati emergono chiaramente: la dipendenza dall’impegno costante di professionisti, istituzioni o volontari rischia di far cadere nell’abbandono questi spazi se viene meno il loro sostegno. Anche la percezione della natura incolta come “disordine” richiede adeguati strumenti di comunicazione, altrimenti si rischia di svuotarne il valore ecologico e sociale. Infine, altro aspetto da considerare sono i quadri normativi che spesso non riconoscono l’informalità nel disegno del paesaggio. Per promuovere una vera cultura del giardino spontaneo e di approcci informali al progetto urbano, è indispensabile superare l’idea di prodotto finito: servono formazione, coinvolgimento collettivo, sperimentazione continua, impiego di specie a bassa manutenzione e norme agili, affinché diventino best practice replicabili, capaci di coniugare sostenibilità, valore ecologico e inclusione sociale e generare paesaggi resilienti anche nelle aree più complesse della città contemporanea.*

Volontari impegnati nella falciatura di alcune parti del prato del Barbican Wildlife Garden nel mese di agosto. Lo sfalcio del prato è essenziale per impedire la proliferazione di erbe infestanti che impedirebbero la crescita dei fiori selvatici (Londra, 2017) | Volunteers engaged in scyting parts of the meadow at the Barbican Wildlife Garden in August. Mowing the meadow is essential to prevent the spread of invasive grasses that would hinder the growth of wildflowers. Barbican Wildlife Group

NOTE

1 – Il contenuto di questo articolo è frutto di studi e ricerche effettuate dall’autrice all’interno della sua tesi di dottorato dal titolo Giardini spontanei in città: un ossimoro? Storia ed esperienze nella progettazione di aree urbane (tutor prof.ssa A. Capuano, prof.ssa F. Morgia, prof. F. Di Carlo, prof. P. Corona), sviluppata all’interno del Dottorato di Ricerca in Paesaggio e Ambiente, presso il Dipartimento di Architettura e Progetto dell’Università degli studi di Roma La Sapienza.

2 – Dati e previsioni tratte da Mission Board per le città intelligenti e a impatto climatico zero della Commissione Europea.

3 – Per approfondimento si consulti: Lefebvre, H. (2018). La produzione dello spazio. Milano: Pgreco; De Certeau, M. (2010). L’invenzione del quotidiano. Roma: Edizioni Lavoro

4 – “[...] return to nature” (traduzione dell’autrice).

5 – Secondo uno studio del Ministero della Salute britannico, entro la fine del secolo la temperatura media nel Regno Unito aumenterà di circa 2°C in inverno e 4°C in estate, effetti già evidenti nel Barbican Estate. Per approfondimento si veda il rapporto Health effects of climate change in the UK - 2008, pubblicato dal Ministero della Salute britannico e dalla Health Protection Agency (Hpa), in cui sono stati affrontati i possibili effetti dei cambiamenti climatici sulla salute delle persone in Inghilterra.

REFERENCES

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– Castells, M. (1983). The City and the Grassroots: A Cross-Cultural Theory of Urban Social Movements. Berkeley: University of California Press.

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– Dunnett, N. (2019). Naturalistic Planting Design. The Essential Guide. Trento: Filbert Press.

– Heatherington, C., Sargeant, J. (2005). A New Naturalism. Chichester: Packard Publishing Ltd.

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– Kingsbury, N., Takacs, C. (2022). Wild. The Naturalistic Garden. London: Phaidon Press Limited.

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– Oudolf, P., Kingsbury, N. (2013). Planting. A New Perspective. Portland: Timber Press.

– Rinaldi, B. M. (2024). Le geometrie del selvatico. Ri-Vista. Research for Landscape Architecture, vol. 22, n. 1, pp. 248–257.

– Rupprecht, C.D.D., Byrne, J.A. (2014). Informal urban greenspace: A typology and trilingual systematic review of its role for urban residents and trends in the literature. Urban Forestry and Urban Greening, vol. 13, n. 4, pp. 597-611.

– Soga, M., Gaston, K. J. (2016). Extinction of experience: the loss of human–nature interactions. Frontiers in Ecology and the Environment, vol. 14, n. 2, pp. 94-101.

08.

Introduction1

The climate crisis and the increasing urban pressure on ecosystems have shifted attention towards natural spaces within cities. Intensive urbanisation accelerates biodiversity loss, while the desire for nature grows. To address these challenges, many cities are adopting nature-based solutions to regenerate abandoned areas, revitalise public spaces, and reduce ecological footprints and maintenance costs (Metta and Olivetti, 2019).

Considering that urban areas cover approximately 3 % of the Earth’s land surface and that by 2050 nearly 85 % of the global population is projected to live in cities2, it is clear that the climate emergency and biodiversity crisis must be tackled starting from urban environments and their inhabitants. This urgency is reinforced by European regulations such as the EU Biodiversity Strategy for 2030, which aims to expand urban open spaces, enhance their biodiversity and promote nature-based solutions. In this context, landscape design and innovative experiments are crucial. It is appropriate to question the role of informal green spaces in urban planning. These are areas not always formally recognised by local authorities as destined for gardening, agriculture or recreation, nor is their vegetation managed by institutions: any recreational use is informal and often transient, making use of the site’s intrinsic characteristics (Rupprecht and Byrne, 2014, p. 598).

Since the 1980s, the concept of informality has evolved: no longer merely a product of poverty, inequality, illegality or marginality, but a constantly unfolding process that redefines relations with the formal (Castells, 1983). Informal uses of urban space, as Michel de Certeau and Henri Lefebvre suggested, emerge from inhabitants’ everyday practices, generating relationships capable of unsettling the model of a rigidly planned city3. Indeed, informal spaces are excluded from what is commonly defined as “formal city” because they contrast with the dominant image of an orderly metropolis,

The Spontaneous Garden

Urban experiments for a renewed dialogue between nature, sustainability and landscape

such as that promoted by conventional zoning plans (Lehmann, 2020, p. 3).

Generally, informality applied to urban landscape design refers to a dimension that is more spontaneous, temporal and continually evolving. In this context, vegetational spontaneity is configured as an ecological process not centrally controlled, in which herbaceous and pioneer species colonise vacant sites in an unplanned manner.

The relationship between nature and design has always oscillated between the desire to control spontaneity and the will to rediscover its authenticity. Today, a growing awareness of environmental issues fuels a “return to nature” (Heatherington and Sargeant, 2005, p. 1), expressed both in institutionalised projects, with partial control of natural processes, and in grassroots initiatives.

The spontaneous garden symbolises this desire: a model based primarily on “poor” plants requiring minimal maintenance – mostly herbaceous, grass-like and perennial species – and on the possibility of accommodating spontaneous vegetation.

This article will examine three examples of spontaneous gardens, positioned along a continuum from planned to spontaneous, to highlight their adaptive potential as a response to the climate crisis and as an alternative to rigid urban planning.

The first project is Superbloom (2022) by Nigel Dunnett (img. 02), which transformed the ancient moat of the Tower of London into a flowering garden, where seasonal changes and fauna attracted by the plants create continuous metamorphosis. The second is Petite Ceinture (2018) by Wagon Landscaping (img. 03), which reclaims abandoned spaces along a former railway loop in Paris through a design open to spontaneous vegetation and light maintenance, in dialogue with natural dynamics. Finally, the Barbican Wildlife Garden (img. 02), a grassroots initiative within the Barbican Estate: a small space of spontaneous nature cared for and managed by volunteers,

aiming to create habitats for urban wildlife. These projects demonstrate how informality in landscape design can foster the regeneration of marginal spaces and promote a renewed dialogue between city and nature, offering sustainable solutions and aesthetic, emotional experiences.

Superbloom: reimagining a Moat Nigel Dunnett’s Superbloom project exemplifies the trend that favours unplanned habitats and informal landscapes in urban settings, based on the use of scientifically selected annual seed mixes to promote urban resilience and biodiversity (Oudolf and Kingsbury, 2013, p. 159).

To celebrate Queen Elizabeth II’s Platinum Jubilee, the ancient moat of the Tower of London was transformed into a flowering garden (img. 01). This transformation, achieved by importing soil profiles compliant with stringent archaeological guidelines and by devising bespoke solutions for variable microclimates, created an ecosystem capable of sustaining bees, butterflies and other pollinators in the heart of the city (Historic Royal Palaces, 2023). A roughly 800 m-long route encircles the Tower with flowering meadows, artistic installations and interpretative panels illustrating biodiversity and the project’s philosophy (img. 04), offering an emotional experience in line with Dunnett’s concept of “enhanced nature” (Dunnett, 2019; Oudolf and Kingsbury, 2013, p. 168).

Despite being overseen by institutions and professionals, Superbloom adopts a model that privileges seasonal metamorphosis over the static nature of conventional urban lawns. The use of carefully selected annual species, chosen for their ability to withstand the stress conditions of the moat, allows for spectacular blooms but requires continuous monitoring to ensure compliance with archaeological constraints and alignment with biodiversity objectives (Historic Royal Palaces, 2023). The strong aesthetic component and the Ju-

bilee-themed storytelling played a crucial role in raising public awareness. However, ticketed entry and seasonality limit direct citizen engagement to the flowering period, raising important questions about social sustainability and the long-term efficacy of similar projects.

Petite Ceinture: reinventing an abbandoned space

The work of the French studio Wagon Landscaping stands out for its “wild” aesthetic, emphasising the ecological and aesthetic value of areas with an uncertain appearance, resulting from spontaneous naturalisation processes and their explosive vitality (Rinaldi, 2024, p. 250). Petite Ceinture is a prime example, aimed at transforming a series of abandoned sites along a disused railway loop in Paris by valuing spontaneous vegetation and installing light, reversible furnishings such as wooden terraces and benches reminiscent of railway platforms. The first section opened to the public is near the former Rue de la Marre station in the Ménilmontant area of the 20th arrondissement (img. 06). After an in-depth analysis of the site’s edges, its relationship with the built environment and its spontaneous flora, the project preserved one track with original sleepers as a historic nod, while converting the other into a footpath (img. 05). The synergy between designers, residents and technical services fostered actions respectful of natural processes, and the proximity to buildings gives the place “the feeling of being in the neighbourhood residents’ garden”. Wagon Landscaping’s approach to Petite Ceinture is based on the idea of “zero-cost nature”4 (Catalano et al., 2023, p. 61), appreciated and valued by citizens through their participation. In this context, informality arises not only from the presence of spontaneous vegetation but also from a managerial perspective: maintenance is shared, and lightweight structures can be removed or modified according to future needs. Unlike a striking project such as Superbloom, Petite Ceinture aims to spark a cultural shift: residents collaborate from the outset, acquiring skills in recognising spontaneous flora and helping to sustain an urban ecosystem in constant transformation. Nevertheless, this participatory approach, while reducing costs, may become a limitation if resident turnover or shifts in institutional priorities occur.

Barbican Wildlife Garden: self-managed ecosystem

Born as a grassroots initiative by the residents of the Barbican Estate, the Barbican Wildlife Garden occupies an urban void created by Second World War bombings. Initially established in 1974 as a service garden, it was revitalised in 2003 with the support of the City Gardeners (Barbican Wildlife Group, 2022, p. 1). Today, it hosts a wide meadow of perennial plants, annual wildflowers, evergreen shrubs and two artificial ponds, providing habitat for over 300 wildlife species. In a built-up context where rising temperatures have rendered the environment increasingly hostile to vegeta-

tion, the presence of natural spaces is crucial5, as is that of wild nature, able to transform these urban patches into true beacons of biodiversity compared to surrounding rural areas (Kowarik, 2011). In this setting, the Barbican Wildlife Garden offers lush blooms in June and July (img. 07): a resilient micro-ecosystem within a brutalist environment made inhospitable by summer heatwaves (Kingsbury and Takacs, 2022, p. 225).

This garden embodies a radical form of informality: nature evolves according to spontaneous logic, while the community intervenes flexibly, demonstrating how self-management and community involvement can turn marginal spaces into ecological and social hubs (img. 08). Without access to an institutional budget, the constant care provided by residents is the project’s true engine. However, the strong reliance on volunteering makes the garden vulnerable to declines in participation or changes in support from the City Gardeners. Unlike Superbloom – managed by professionals and accessible only during the flowering months via paid entry – the Barbican is a spontaneous initiative by residents, without predefined aesthetic goals, and is accessible year-round. Compared to Petite Ceinture, where informality manifests through shared light structures and collaborative maintenance, the Barbican evolves even more freely, sustained by a participatory stewardship that accompanies nature through its continuous transformation.

Final Reflections: informality and resilience in urban regeneration

It is evident that diminishing opportunities for direct contact with nature within cities pose ever-more complex challenges to landscape design: the priority is to create informal green spaces and support people’s inclination towards spontaneity (Soga and Gaston, 2016). Spontaneous gardens offer an alternative to traditional planning, providing accessible, “democratic” open spaces at low construction and maintenance costs, rich in naturalness. This demonstrates that, beyond differences in scale and initial objectives, managing informality and spontaneity can foster resilience even in very diverse contexts.

In all three case studies there is a common thread: the intention to regard the garden not as a static product, but as an evolving process. Superbloom’s experience shows that even a highly organised project – featuring seed mixes calibrated to comply with archaeological and microclimatic constraints – can develop into an ecosystem that reinterprets the moat’s perception. Petite Ceinture, with its open approach to spontaneous vegetation and shared maintenance, proves that abandoned spaces can become collective learning laboratories, where informality is an opportunity for active participation. Lastly, the Barbican Wildlife Garden stands as the most radical example of bottom-up management, in which residents become custodians of a micro-ecosystem in constant metamorphosis, demonstrating that reliance on vegetational spontaneity enhances the capacity to withstand heatwaves and

droughts. These differences are strengths: each model highlights how varied interpretations of informality yield adaptive solutions to climatic and social changes. From these experiences arise practices that can be reproduced elsewhere, provided the garden is accepted as a set of ongoing processes. First and foremost, project flexibility must be placed at the centre: adjusting maintenance methods and reconfiguring light furnishings, for instance, allows a rapid response to local needs. Alongside this must come community involvement: when citizens become co-protagonists – at Petite Ceinture through workshops and shared actions, or at the Barbican by organising volunteer groups – a collective pool of skills and a sense of belonging is created, capable of resisting individual turnover. In this light, spontaneous gardens cease to be mere biodiversity hotspots and become catalysts for social cohesion and permanent ecological education laboratories.

Nonetheless, the limitations of the analysed cases emerge clearly: dependence on the constant commitment of professionals, institutions or volunteers risks the abandonment of these spaces if that support wanes. The perception of untamed nature as “disorder” also demands adequate communication tools, otherwise the ecological and social value may be undermined by prevailing cultural prejudices. Finally, another aspect to consider is that regulatory frameworks often do not acknowledge informality in landscape design. To promote a genuine culture of the spontaneous garden and informal approaches to urban planning, it is essential to move beyond the notion of a finished product: education, community engagement, continuous experimentation, the use of low-maintenance species and agile regulations are needed so that these projects can become replicable best practices, able to combine sustainability, ecological value and social inclusion, and generate resilient landscapes even in the most complex parts of the city.*

NOTES

1 – The content of this article is the result of studies and research carried out by the author as part of her doctoral thesis entitled Giardini spontanei in città: un ossimoro? Storia ed esperienze nella progettazione di aree urbane (supervised by Prof. A. Capuano, Prof. F. Morgia, Prof. F. Di Carlo and Prof. P. Corona), developed within the PhD programme in Landscape and Environment at the Department of Architecture and Design, Sapienza University of Rome.

2 – Data and forecasts taken from the Mission Board for Climate-Neutral and Smart Cities of the European Commission.

3 – For further reference, consult: Lefebvre, H. (1991). The production of space. Oxford: Blackwell; De Certeau, M. (1988). The practice of Everyday Life. Berkeley: University of California Press.

4 – “[…] natura a costo zero” (Author’s translation)

5 – According to a study by the UK Department of Health, by the end of the century the average temperature in the United Kingdom is expected to rise by around 2°C in winter and 4°C in summer – effects already visible in the Barbican Estate. For further information, consult the report Health Effects of Climate Change in the UK – 2008, published by the UK Department of Health and the Health Protection Agency (HPA), which addresses the potential impacts of climate change on public health in England.

Martina Carandente

Dottoranda in Filosofia dell’Interno Architettonico, DISU, DIARC, Università degli Studi di Napoli Federico II. martina.carandente@unina.it

Spazi instabili di coesistenza

01. Interspecies Campus, Superflex Studio. T. Eskerod

Unstable Spaces of Coexistence Within a contemporary framework of extended agency, a primordial generative vitality acts as an immanent design force engaging all living beings. Non-human species consistently reveal fundamental building capacities, expressed through instinctive and collaborative construction strategies: effective actions capable of informing permeable, adaptive shelters. Informal architecture emerges also through the effects of different life forms with which humans interact and blend: dynamic interspecies entanglements, that foster innovative design solutions. By examining diverse modes of intervention, this paper explores participatory relational design practices aimed at generating informal, coconstructed environments as platforms for new cross-species alliances.*

In un sistema contemporaneo di agency esteso, emerge una primordiale vitalità generatrice, intesa come forza progettuale immanente capace di accogliere e “attraversare” ogni essere vivente. Le specie non umane manifestano da sempre un’istintiva abilità edificatoria, frutto di un processo strategico condiviso: azioni “primitive”, capaci di strutturare rifugi permeabili. L’architettura informale si manifesta, così, anche attraverso l’azione di diverse forme di vita con cui l’uomo si rapporta e si mescola: intrecci instabili, incubatori di innovative soluzioni creative. Esplorando differenti strategie di intervento, il presente articolo intende analizzare pratiche relazionali partecipative volte alla definizione di spazi informali destinati a nuove alleanze.*

Progettare l’informale attraverso l’interspecie

mbienti nomadi

Il concetto di architettura informale affonda le sue radici nei tempi più antichi, in cui l’uomo primitivo, per necessità e sulla base del proprio istinto, si adopera per strutturare spazi abitabili in cui riconoscersi e rifugiarsi. Bernard Rudofsky parla di “un’architettura vernacolare […] non blasonata, [ovvero] nomade, rurale, indigena” (Rudofsky, 1977, p. 2), ma soprattutto “collettiva […], prodotta dall’attività spontanea e costante di un popolo partecipe e operante, sulla base di una comune esperienza” (Rudofsky, 1977, p. 3): costruzioni autonome frutto di costruttori anonimi, in quanto non riconoscibili in una molteplicità di attori che – senza alcuna forma di pianificazione, ma in perfetta armonia con il contesto circostante – danno luogo a nidi di protezione e convivenza, mossi dall’impulso condiviso di conformare e preservare un ambiente in cui identificarsi e a cui appartenere. Pertanto, agendo nello spazio libero – aperto – della natura, ogni essere vivente occupa il proprio habitat ancora prima di costruirlo, generando ambiti “interni” di riparo e privatezza: recinti effimeri nello spazio “esterno” della foresta, delimitazioni intuitive espressione di “riconoscimento e appropriazione collettiva di una porzione di terreno” (Gregotti, 1979, p. 5). In un tale contesto di “instabilità”, in totale assenza di schemi o regole precise, ogni entità esprime una sua intrinseca “animalità”, lascandosi guidare dal proprio istinto. Si rivela, dunque, un sotteso parallelismo comportamentale tra specie che evidenzia quanto ogni essere vivente manifesti da sempre un significativo carattere edificatorio (Pallasma, 2021), inteso come atto involontario ma necessario alla propria sopravvivenza.

KEYWORDS: INTRECCIO, COABITAZIONE, PERMEABILITA’ | ENTANGLEMENT COHABITATION, PERMEABILITY

Tuttavia, le costruzioni animali paiono superare per ingegno e abilità una più convenzionale umana coscienza progettuale: soluzioni primitive, audaci ed efficaci che, che dettate da strategie precise, anticipano e talvolta influenzano, seppure inconsapevolmente, l’agire umano: “È [infatti] improbabile che i castori abbiano avuto l’idea di costruire

dighe dall’osservazione dell’uomo intento a un simile lavoro. Semmai avvenne proprio il contrario. Quasi certamente, l’uomo ebbe il primo stimolo a costruirsi un rifugio dalle [...] scimmie antropomorfe” (Rudofsky, 1977, p. 2). Osservando differenti aspetti e tipologie costitutive che caratterizzano le specie animali, Michael Hansell (1984) classifica specifici metodi e funzioni costruttive relative alle creazioni “piùche-umane”, rilevando un’interessante corrispondenza –spesso segnata da un rapporto di inversa proporzionalità –tra la dimensione fisica del soggetto e la sua relativa abilità progettuale: si pensi al lavoro delle formiche operaie, alle termiti o ai castori, piccoli costruttori instancabili che, operando per aggregazione1 o sottrazione2, strutturano rifugi resistenti, elevano robusti termitai o scavano dighe profonde regolandone temperatura, umidità e ventilazione. Si tratta di insediamenti informali, autonomi, in cui è il corpo dell’animale stesso a farsi necessario elemento progettuale o, addirittura, architettura per il vivente (Pallasma, 2021).

L’efficienza delle invenzioni non umane risiede, pertanto, “nell’integrazione totale con il modello di vita del costruttore e, soprattutto, con il sistema equilibrato della natura” (Pallasma, 2021, p. 21): edificando, ogni essere vivente si riconosce nel proprio habitat, un nido che esso stesso ha contribuito a organizzare e preservare. Come sostiene Von Uexküll, “la caratteristica propria del vivente corrisponde a quella sua innata capacità di farsi il proprio ambiente, di comporselo” [poiché] la sua struttura ontologica coincide esattamente col suo essere in quel [rispettivo] ambiente” (Von Uexküll, 2010, p. 23).

Muovendosi all’interno del cosmo, allora, ogni specie animale – umana e non umana – struttura il proprio “dintorno” (Von Uexküll, 2010, p. 28)3: uno spazio ordinato, regolato dalla propria presenza; una sfera di mondo che stabilisce confini nella superficie “non normata” (Marini, 2020, p. 11) della selva, intreccio di tensioni e di moti incontenibili. La foresta stessa, in qualità di essere vivente, emerge come protagonista attiva del processo: una natura partecipe –piuttosto che contemplativa – che, nella sua indocile vitalità (Marini, 2020), può rivelarsi contenitore di relazioni e interazioni in cui quei mondi apparentemente distanti si invadono reciprocamente, aprendosi a una comunità univoca in grado di progettare rifugi interconnessi. La selva è, dunque, “un magma di ‘zone’ nelle quali è facile perdersi, ma è anche un ‘ambiente’ attraversabile disegnando linee di incursione. Per abitare la selva serve aumentare la capacità di riconoscimento, definire modalità di convivenza, in pratica serve sancire una nuova alleanza” (Marini, 2020, p. 11).

Sostare nel compost

Per disegnare la selva bisogna stabilire pratiche relazionali in cui ogni soggetto sia parte di una trama univoca

La foresta tratteggia contorni incerti, labili, caotici: orientarsi in essa significa assumere la natura come reale architettura di riferimento, attraverso cui declinare nuovi sensi e modi di abitare nel disordine apparente. Comprenderne l’ordine richiede, quindi, una connessione tra tutti quegli “ambienti” che la compongono: giardini aperti di mondi invasi, in cui ogni “dintorno”, da recinto che delimita e distingue ambiti (Gregotti, 1979, p. 5), si fa spazio di coesistenza instabile, costantemente esposto alla trasformazione dettata dall’attività di tutte le forme di vita agenti, che – manifestando la propria abilità edificatoria – concorrono alla generazione di habitat partecipativi, intrecciati e in continua ricreazione.

Un nuovo ordine, che accoglie quell’incontro effimero tra mondi in ricomposizione tramite cui prende vita ciò

02. The Living. Alive: un nuovo contratto spaziale per l’architettura multispecifica. David Benjamin. Biennale di Architettura, 2021 | The Living. Alive: A New Spatial Contract for multispecies Architecture. David Benjamin. Architecture Biennale, 2021. M. Carandente

che Donna Haraway (2019) definisce “compost”: un processo che fa si che l’umano si mescoli al non umano, in cui ogni “figura di filo [agisce] per ‘mondeggiare’4 il multispecie” (Haraway, 2019, p. 25), per fare mondo assieme. Per disegnare la selva (Marini, 2023), per sostare in essa, bisogna stabilire patti tra categorie differenti, pratiche relazionali (Gisbert, Nieto, 2025) in grado di riconoscere un ecosistema in cui ogni soggetto, attore attivo e sempre intricato in un complesso sistema di interazioni (Latour, 2022), sia parte di una trama univoca, di quel mondo “dei collettivi” (Haraway, 2019, p. 66) che si costituisce nell’immanenza delle reciproche relazioni. Haraway parla di making kin, ovvero di “fare matassa”, creare catene di reti interconnesse – come il ragno che tesse la sua tela –“per stare nel disordine”, generando legami imprevedibili, sistemi di cura “nel gioco simpoietico dello Chthulucene […], fatto di storie multi-specie in via di svolgimento, di pratiche del con-divenire in tempi che restano aperti, tempi precari” (Haraway, 2019, p. 85).

Solo così si possono strutturare le basi per una convivenza significativa: stando non più dentro l’umano o al di fuori nel non umano, ma piuttosto restando nell’insieme, sostando nell’attraversamento di questi mondi complessi, incrociandone i dintorni e generando sistemi viventi privi di confini definiti. Zone di contatto (Haraway, 2019)

Bisogna individuare una soggettività

estesa,

basata su una nuova solidarietà

trans-specifica

tra forme di vita, per sopravvivere in una natura incerta in cui una nuova energia produttiva – la cosiddetta “Zoe” (Braidotti, 2013) – esprime la propria vitalità generatrice, in quanto struttura dinamica e “forza trasversale che attraversa e ricollega specie, categorie e domini precedentemente segregati” (Braidotti, 2013, p. 60).

Riscrivendo la relazione con “l’altro”, dunque, diviene possibile instaurare nuovi processi collaborativi, ammettendo l’esistenza di un sistema coabitativo in cui l’essere umano decentralizzi la sua superiorità, e – piuttosto che negare la sua esistenza – si riconosca in questo “divenire” con ogni specie compagna (Haraway, 2019), in quanto “humus, non Homo, non Antropos” (Haraway, 2019, p. 85): un “compost” in cui ogni attore e la sua rete risultano elementi costitutivi di uno stesso sistema (Latour, 2022). Bisogna, allora, individuare una soggettività estesa, che richiami – e allo stesso tempo espanda – quel monismo spinoziano5 che elude la plurità degli esseri e riconduce a un unico principio: una nuova unità che richiede una solidarietà trans-specifica basata sull’identità del singolo, e dell’uomo, in quanto “incarnato, inserito e in simbiosi con le altre specie” (Braidotti, 2013, p. 67), non escluso o scavalcato.

“Dintorni” inter-specie: casi studio Occorre, pertanto, chiedersi in che modo sia possibile formulare questo “incontro” tra entità eterogenee e congiunte, soggetti indistinti di una comunità univoca in cui ogni singola unità acquisisce forma e forza proprio nella connessione con l’alterità. Disegnare habitat cooperativi significa stabilire pratiche di cura (Gisbert, Nieto, 2025) che siano in grado di disciplinare tale rapporto, instaurando processi partecipativi attraverso di esso. È in quest’ottica che il progetto di architetture e allestimenti coabitativi necessita di essere inserito, in quanto risorsa sostanziale mediante cui esplorare nuove condizioni di possibilità che si aprano al progetto di ambienti “creativi”, frutto di una nuova competizione: dispositivi “aperti”, in grado di ospitare “l’indomito” (Pastorello, 2023).

Nel panorama contemporaneo sono molteplici i casi di ricerca e sperimentazione in cui tutte le componenti vi-

03. Interspecies Campus, Superflex Studio. Interspecies Campus è stato progettato in stretta collaborazione con KWY.studio. Commissionato dall’Agenzia danese per l’edilizia e la proprietà (Bygningsstyrelsen) per l’Università di Roskilde | Interspecies Campus, Superflex Studio. Interspecies Campus was designed in close collaboration with KWY.studio. Commissioned by The Danish Building and Property Agency (Bygningsstyrelsen) for Roskilde University. T. Eskerod

venti emergono come protagoniste indistinte di pratiche progettuali volte a valorizzarne e risignificarne l’avvicinamento, tradotto secondo una nuova forma di compenetrazione consapevole. Alive: A New Spatial Contract for Multispecies Architecture, opera dell’americano David Benjamin presentata a Venezia in occasione della Biennale di Architettura 20216, traduce il concetto di architettura multi-specie attraverso un’installazione che appare come un vero e proprio contratto spaziale. Una stanza, un rifugio (img. 02), i cui limiti risultano segnati da un materiale biorecettivo insolito, ruvido e poroso, definito e preservato dall’incursione di quei microbioti che operano e vi abitano e in cui macro e microspazi si incrociano e si alterano per ospitare più forme di vita calibrando grana, luce e flusso d’aria. Un sistema di interrelazioni che avverte e riconosce la presenza di ogni componente coinvolta, ammettendo quella “reciprocità delle azioni” (Pastorello, 2023, p. 297) tra mondi differenti che si osservano e si fondono, mitigando vicendevolmente le proprie essenze e le proprie necessità.

vita “altra”. Talvolta sculture – apparentemente – statiche, talaltra dispositivi di relazione in grado di indicare e strutturare percorsi specifici, ogni apparato esplora differenti strategie di coabitazione con la vita sottomarina come unica possibilità di sopravvivenza futura per il nostro pianeta, a seguito degli effetti dovuti al cambiamento climatico. Il progetto Interspecies Campus, uno spazio pensato per il cortile dell’Università di Roskilde, interrompendo e reindirizzando i movimenti umani, si apre al coinvolgimento di tutte le agency implicate nel processo: “un’infrastruttura” scultorea rosa (img. 03), costituita da mattoni curvi in sabbia e argilla che – metafora della vita collettiva sottomarina – si estende come un organismo vitale in crescita, le cui fessure, come innesti per la vita agente, permettono l’attraversamento di ogni creatura favorendone lo stanziamento (img. 01).

“Figure di filo” che danno vita a incontri inattesi, sui margini di questi nuovi “dintorni” inter-specie

Pratiche ibride, in grado di partecipare alla ricomposizione di un nuovo sé collettivo utilizzando il design come espediente per articolare legami alternativi, attivare processi cooperativi e stabilire nuove modalità per vivere con “l’altro” (Gisbert, Nieto, 2025).

Coltivando quel senso di response-ability di cui parla Donna Haraway (2019), il collettivo danese Superflex Studio propone strutture performative a sostegno di coesistenze interspecifiche promuovendo nuovi materiali capaci di supportare e contribuire all’insediamento della

Luoghi di coabitazione, di cocreazione, in cui talvolta è il materiale stesso che, con la sua varietà di consistenze, odori e caratteri, si fa strumento di interazione e spazio ospitante per il vivente. Studio Ossidiana – gruppo pluripremiato con sede nei Paesi Bassi, la cui ricerca è sempre rivolta alla sperimentazione materica – propone nuovi materiali compositi, frutto della contaminazione tra artificiale e naturale, indagando innovative modalità per riallestire lo spazio pubblico attraverso installazioni in cui proprio la componente vegetale diviene protagonista essenziale della narrazione dello spazio. The new Lawn sintetizza quell’incrocio effimero tra “compost” restituendo un’invasione di mileu in costante formazione: blocchi di sale, argilla e canapa da esplorare, annusare, e coltivare. L’allestimento diventa uno strumento per suggerire comportamenti inediti, un apparato (Leveratto, 2021) in grado di richiamare alla vita ogni specie, strutturando veri e propri giardini interspeciali: spazi vivi, permeabili, in “movimento”. Luoghi in cui quest’incrocio partecipativo si esplicita, si rinnova e si

trasforma attraverso configurazioni sempre variabili, costantemente soggette all’azione di tutti gli attori coinvolti. L’Earth Sea Pavilion, di Ossidiana, presentato alla Triennale di Brugge (2024) in Belgio, collega due sfere diverse, la terra e il mare, mediante una struttura in acciaio riempita da una varietà di materiali organici e minerali, impilati come singoli ecosistemi: limo, compost, muschio, semi. Ci si rifugia in essa mentre la vegetazione cresce e respira (img. 04) e, mentre ogni strato di materia diviene humus, gli uccelli nidificano sviluppando la propria rete di relazione. Nuovi recinti, “collettivi”: una nuova comunità, in cui ogni elemento si mescola ed evolve definendo un ambiente inconcluso, ambiguo, in cui differenti abilità creative si sovrappongono (Pastorello, 2023).

Ogni pratica, dunque, appare come un laboratorio trasformativo in cui coppie apparentemente dicotomiche si dissolvono in un gioco alternativo di entità che operano in sinergia: “figure di filo” (Haraway, 2019), che intrecciano ecologie e tecnologie per dare vita a incontri inattesi sui margini di questi nuovi dintorni inter-specie. In un tale sistema in divenire, bisogna tuttavia chiedersi in che modo riuscire a tenere insieme queste tensioni “aperte”, per sostenere nel tempo un equilibrio tra questi mondi intrecciati che non si pieghi al rischio di ristabilire nuove forme di supremazia o domini sistemici e competitivi. Se ogni risorsa, ogni “figura”, cela in sé una potenziale minaccia, è forse mediandone i pesi, sostando in ogni “dintorno” e progettandone i confini porosi, che si può immaginare di incrociare uno spazio intermedio – informale – in cui umano e non umano si scontrano per collaborare in una dimensione “sinctonica” (Haraway, 2019) in cui cocreare e coesistere in sintonia.*

NOTE

1 – Un esempio sono le formiche legionarie dell’Eciton che, stanziandosi, strutturano nidi dettati dalla loro aggregazione: catene di corpi appoggiati e assemblati su tronchi d’albero.

2 – Le termiti del paesaggio africano lavorano per sottrazione generando una sorta di architettura in negativo: i loro termitai sono strutture molto complesse, dotate di numerose gallerie di collegamento e sistemi di aerazione, ma il loro nido vero e proprio si trova sotto il livello del suolo.

3 – J. V. Uexküll (2010, p. 28) afferma che i “dintorni” delle specie animali non umane corrispondono proprio all’ambiente umano, suggerendo una interrelazione tra mondi apparentemente lontani.

4 – Nello sviluppo della sua teoria, D. Haraway prende in prestito un termine della filosofia heiddegeriana, il “mondeggiare”, per escludere la specificità di una singola identità capace di “fare mondo” e avvalorare una relazione costitutiva plurima e contingente.

5 – R. Braidotti (2016, p. 57) analizza la teoria spinoziana indicando una diretta connessione con il concetto di unità della materia vivente e con il post antropocentrismo, come fondamentale riferimento per la definizione di una nuova soggettività contemporanea.

6 – Il macrotema della diciassettesima Mostra internazionale di Architettura – curata dall’architetto, docente e ricercatore Hashim Sarkis – richiedeva proprio il raccoglimento di idee che provassero a rispondere alla difficile questione del How Will We Live Toghether? sfidando gli architetti ad immaginare spazi in cui poter vivere, liberamente, insieme.

REFERENCES

– Braidotti, R. (2013). The Posthuman. Cambridge: Polity Pr.

– Gregotti, G. (1979). Editoriale. Recinti. Rassegna. Problemi di architettura dell’ambiente, n. 1. Bologna: Editrice compositori, pp. 5-7.

– Gisbert Alemany, E., Nieto Fernandez, E. (2025). Editorial: Affirmation? How to Learn to Live with ‘The Others’ Through Design. Diseña, n. 26. Scuola di disegno, Pontificia università Cattolica del Cile, pp. 1-9.

– Hansell, M. (1984). Animal Architecture & Building Behaviour. New York: Longman. – Haraway, D. J. (2019). Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. Roma: Nero. – Latour, B. (2022). Riassemblare il sociale. Actor-Network theory. Milano: Maltemi. – Leveratto, J. (2021). Posthuman architectures: a catalogue of archetypes. San Francisco: Applied Research&Design.

– Marini, S. (2020). Nella Selva / Wildness. Vesper. Rivista di architettura arti e teoria, n. 3. Macerata: Quodlibet, pp. 10-17.

– Pastorello, A. (a cura di), (2023). Selvario. Guida alle parole della selva. Milano: Mimesis.

– Pallasma, J. (2021). L’architettura degli animali. Firenze: Firenze Univ.Press.

– Rudofsky, B. (1964). Architecture without architects. A short introduction to non-pedigreed architecture. New York: Doubleday & C.

– Von Uexküll, J. (2010). Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili. Roma: Quodlibet.

04. Earth Sea Pavilion. R. de Vecchi, per gentile concessione di Studio Ossidiana

Nomadic environments

The concept of informal architecture has its roots in ancient times, when early humans, driven by necessity and instinct, created habitable spaces in which they could find both identity and shelter. Bernard Rudofsky speaks of a “vernacular architecture […] unpretentious, [that is] nomadic, rural, indigenous” (Rudofsky, 1977, p. 2), but above all “collective […], produced by the spontaneous and continuous activity of a participatory and active people, based on shared experience” (Rudofsky, 1977, p. 3). These are autonomous constructions built by anonymous makers, not identifiable as single authors, but rather as a collective of actors who – without any formal planning, yet in perfect harmony with the surrounding environment – create protective and communal shelters, driven by a shared instinct to shape and preserve a space in which they can belong. Acting within the open and free space of nature, every living being occupies its own habitat even before building it, generating “interior” zones of shelter and intimacy: ephemeral enclosures within the “outer” space of the forest, intuitive boundaries expressing a “collective recognition and appropriation of a piece of land” (Gregotti, 1979, p. 5). In such a context of “instability,” in the total absence of fixed rules or structures, each entity expresses its own innate “animality”, guided purely by instinct. This reveals an underlying behavioral parallel between species, highlighting how all living beings have always demonstrated a significant drive to build (Pallasmaa, 2021), understood as an involuntary yet essential act for survival. However, animal constructions often seem to surpass conventional human design thinking in both ingenuity and skill. These are primitive, bold, and effective solutions which, guided by precise strategies, anticipate – and sometimes even influence – human behavior, albeit unconsciously: “It is [indeed] unlikely that beavers got the idea to build dams by observing humans at work on similar tasks. If anything, the opposite happened. Almost certainly, humans

Unstable Spaces of Coexistence

Designing the Informal through Interspecies

first felt the impulse to build shelters by watching [...] anthropoid apes” (Rudofsky, 1977, p. 2). By observing the different forms and construction methods among animal species, Michael Hansell (1984) identifies specific building strategies and functions in these “morethan-human” creations. He notes a fascinating correlation – often marked by an inverse relationship – between the physical size of a creature and its relative design abilities. Consider the job of worker ants, termites, or beavers: small, tireless builders that, through processes of aggregation1 or subtraction2, construct durable shelters, erect robust termite mounds, or dig complex dams capable of regulating temperature, humidity, and airflow. These are informal, autonomous, settlements in which the animal’s own body becomes an essential architectural element – or even the architecture – for the living being (Pallasmaa, 2021). The efficiency of such non human inventions lies in their “complete integration with the builder’s way of life and, above all, with the balanced system of nature” (Pallasmaa, 2021, p. 21). In building, each living being recognizes itself in its habitat – a nest it has helped to organize and protect. As Von Uexküll argues, “the defining feature of a living being is its innate ability to create its own environment, to compose it”, since “its ontological structure coincides exactly with its being in that [specific] environment” (Von Uexküll, 2010, p. 23). Moving within the cosmos, then, every animal species – human and non human – shapes its own “surrounding” [Umwelt] (Von Uexküll, 2010, p. 28)3: an organized space regulated by its very presence; a world-sphere that defines boundaries within the “unregulated” surface (Marini, 2020, p. 11) of the forest – an entangled network of tensions and uncontrollable motions. The forest itself, as a living entity, emerges as an active participant in this process: not a passive backdrop, but a responsive nature whose untamed vitality (Marini, 2020) becomes a container for relations and interactions. In this

space, seemingly distant worlds overlap and intermingle, opening to a unified community capable of designing interconnected shelters. The forest is thus “a magma of ‘zones’ where it’s easy to get lost, but also an ‘environment’ that can be traversed by drawing lines of incursion. To inhabit the forest, we must enhance our capacity for recognition, define new modes of coexistence – in short, we must establish a new alliance” (Marini, 2020, p. 11).

Staying with the compost

The forest draws uncertain, fluid, and chaotic contours: to find one’s way within it means to take nature itself as a real architectural reference, through which to explore new senses and ways of inhabiting apparent disorder. Understanding its internal order therefore requires a connection between all the “environments” that compose it: open gardens of entangled worlds, where every “surrounding”, once a boundary that defined and separated domains (Gregotti, 1979, p. 5), becomes a space of unstable coexistence, constantly exposed to transformation driven by the actions of all living agents, which – by expressing their constructive capacities – contribute to the creation of participatory and intertwined habitats, in continuous recreation. This gives rise to a new order, one that welcomes the fleeting encounter between recomposing worlds – an encounter that brings to life what Donna Haraway (2019) calls “compost”: a process in which the human becomes mixed with the non human, where each “thread figure [acts] ‘to world’4 the multispecies” (Haraway, 2019, p. 25) – “making world” together. To draw the forest (Marini, 2023), to stay with it, we must form pacts between different categories – relational practices (Gisbert, Nieto, 2025) capable of recognizing an ecosystem in which each subject, as an active agent entangled in a complex web of interactions (Latour, 2022), is part of a unified fabric, of that world of “collectives” (Haraway, 2019, p. 66), built through the immanence of mutual re-

lationships. Haraway speaks of “making kin”, or “making string”, building interconnected networks – like a spider weaving its web – “to stay with the trouble”, generating unpredictable bonds and systems of care “in the sympoietic play of the Chthulucene […] made of multispecies stories in the making, of practices of becoming-with in times that remain open, precarious times” (Haraway, 2019, p. 85). By rewriting our relationship with “the other”, it becomes possible to establish new collaborative processes, recognizing the existence of a cohabiting system in which the human decentralizes its sense of superiority and –rather than denying its existence – it sees itself as becoming-with every companion species (Haraway, 2019), as “humus, not Homo, not Anthropos” (Haraway, 2019, p. 85): a “compost”  in which each actor and its network are fundamental components of the same system (Latour, 2022). What is needed, then, is the recognition of an expanded subjectivity – one that recalls and extends Spinozan monism5, which avoids the multiplicity of beings and returns to a single principle. A new unity is called for, based on trans-species solidarity, rooted in the identity of the individual, and of the human, as “embodied, embedded, and in symbiosis with other species” (Braidotti, 2013, p. 67), not excluded or dominant. Only in this way can we lay the foundation for meaningful coexistence: not by staying “within” the human or “outside” in the non human, but by remaining “within the whole,” lingering in the crossing of these complex worlds, tracing their edges and generating living systems without fixed boundaries. These are zones of contact (Haraway, 2019) between life forms, ways to survive within an uncertain nature, where a new productive force – “Zoe” (Braidotti, 2013) – unfolds its generative vitality as a dynamic structure and “transversal force that crosses and reconnects previously separated species, categories, and domains” (Braidotti, 2013, p. 60).

Interspecies “surroundings”: case studies

It is therefore necessary to ask how this “encounter” between heterogeneous yet connected entities can be formulated, subjects indistinct within a unified community where each individual unit gains shape and strength precisely through its connection with otherness. Designing cooperative habitats means establishing practices of care (Gisbert, Nieto, 2025) capable of structuring this relationship by initiating participatory processes through it. From this perspective, the design of cohabitative architectures and installations becomes essential as a substantial resource through which to explore new conditions of possibility that lead toward the creation of “creative” environments, born of a new “competition”: open systems capable of hosting the “untamed” (Pastorello, 2023). In the contemporary landscape, numerous cases of research and experimentation highlight all living components as indistinct protagonists of design practices aimed at enhancing and reinterpreting their coming

together, translated into a new form of conscious interpenetration. Alive: A New Spatial Contract for Multispecies Architecture, a work by American architect David Benjamin presented at the Venice Architecture Biennale in 20216, expresses the concept of multispecies architecture through an installation conceived as a genuine spatial contract. A room, a shelter, whose boundaries are defined by an unusual bioreceptive material, rough and porous, shaped and maintained by the incursion of the microbiota that inhabit it (img. 02). In this space, macro and micro environments intersect and shift to host multiple life forms, balancing texture, light, and airflow. It is a system of interrelations that senses and acknowledges the presence of every involved agent, recognizing that “reciprocity of actions” (Pastorello, 2023, p. 297) between different worlds, that observe and merge with each other, mutually softening their essences and needs. These are hybrid practices, capable of contributing to the recomposition of a new collective “self,” using design as a tool to articulate alternative connections, activate cooperative processes, and establish new ways of living with “the other” (Gisbert, Nieto, 2025). By cultivating the sense of response-ability described by Donna Haraway (2019), the Danish collective Superflex Studio proposes performative structures that support interspecies coexistence, promoting new materials capable of sustaining and contributing to the settlement of “other” forms of life. Sometimes these are seemingly static sculptures, at other times relational devices designed to suggest or structure specific pathways. Each installation explores different strategies for cohabiting with marine life, as a unique possibility for the planet’s future survival in the face of climate change. Interspecies Campus project, a space designed for the courtyard of Roskilde University, by interrupting and redirecting human movements, it opens to the involvement of all agencies implicated in the process: a pink sculptural “infrastructure” (img. 03), made of curved bricks composed of sand and clay, which – as metaphor for collective underwater life – stretches outward like a growing organism. Its openings, acting as grafts for active life, allow creatures to pass through and settle within (img. 01). Shared habitats of cocreation, where the material itself, with its variety of textures, scents, and qualities, becomes both a tool for interaction and a hosting space for the living. Studio Ossidiana – a multi-award-winning group based in the Netherlands known for its focus on material experimentation – proposes new composite materials, resulting from the fusion of artificial and natural elements. Their projects explore innovative ways to reorganize public space through installations where the vegetal component plays a central narrative role. The New Lawn embodies the ephemeral crossing of “compost,” offering a living and ever-forming milieu: blocks of salt, clay, and hemp to explore, smell, and cultivate. The installation becomes a tool for suggesting new behaviors, a device (Leveratto, 2021) capable of calling all species to life, forming

interspecies gardens: vibrant, permeable, ever-changing spaces. Places where this participatory entanglement is made visible, renewed, and transformed through constantly shifting configurations, always influenced by the actions of all involved agents. The Earth Sea Pavilion by Ossidiana, presented at the 2024 Bruges Triennale in Belgium, connects two different worlds, land and sea, through a steel structure filled with a variety of organic and mineral materials, stacked like separate ecosystems: silt, compost, moss, seeds. It offers refuge as vegetation grows and breathes (img. 04), and as each layer of matter becomes humus, birds nest and develop their networks of interaction. These are new, collective enclosures: a new kind of community where each element blends and evolves, defining an unfinished, ambiguous environment in which different creative abilities overlap (Pastorello, 2023). Each practice thus becomes a transformative laboratory, where apparently dichotomous pairs dissolve into an alternative play of entities acting in synergy: “string figures” (Haraway, 2019), that interweave ecologies and technologies giving rise to unexpected encounters at the edge of these new interspecies territories. In such an evolving system, we must ask to what extent it is possible to sustain these “open” tensions, maintaining over time a balance between interwoven worlds that avoids reestablishing new forms of supremacy or systemic and competitive hierarchies. If every resource, every “figure”, holds within itself a potential threat, it is perhaps by mediating their tensions, dwelling in each “surrounding” and designing porous boundaries that we might imagine a shared, informal space. A space where human and non human confront each other in order to collaborate within a “symchthonic” dimension (Haraway, 2019), where cocreation and coexistence occur in harmony.*

NOTES

1 – An example is the  Eciton army ants, which, when settling, form nests through aggregation: chains of bodies resting on and assembled around tree trunks.

2 – Termites in the African landscape work by subtraction, generating a kind of negative architecture: their termite mounds are highly complex structures, featuring numerous connecting tunnels and ventilation systems, yet their actual nest lies below ground level.

3 – J. V. Uexküll (2010, p. 28) states that the “surroundings” (Umwelten) of non-human animal species actually correspond to the human environment, suggesting an interrelation between seemingly distant worlds.

4 – In developing her theory, D. Haraway borrows a term from Heideggerian philosophy “to world” (from “mondeggiare” in Italian) – to reject the specificity of a single identity capable of “making world” and instead affirm a plural and contingent form of relational world-making.

5 – R. Braidotti (2016, p. 57) examines Spinozist theory, identifying a direct connection with the concept of the unity of living matter and with post-anthropocentrism, as a key reference for defining a new contemporary subjectivity.

6 – The main theme of the 17th International Architecture Exhibition – curated by architect, professor, and researcher Hashim Sarkis – explicitly called for a collection of ideas responding to the complex question  How Will We Live Together?, challenging architects to imagine spaces in which we might live, “freely,” together.

Modi, a modo

Da sempre momento di condivisione e cultura, la tavola è il riflesso di quell’evoluzione che negli anni ha investito ogni ambito della socialità. Come nella comunicazione verbale, dove negli ultimi decenni, l’uso di formule un tempo riservate soltanto ai rapporti informali si è esteso a situazioni più formali, così il pasto ora ricerca autenticità e leggerezza. Un’indagine condotta da AstraRicerche per Birra Moretti,

In Armenia, chi ha la sventura di prendere l’ultimo bicchiere di una bottiglia è obbligato a pagare la successiva.

Se comunemente si pensa che finire il piatto non lasciando resti di cibo significa averlo apprezzato, in Cina l’interpretazione è totalmente differente. Non lasciare alcun boccone nel piatto dimostra la quantità insufficiente della portata, con il rischio di mortificare i padroni di casa.

In Ungheria, come anche nel nostro galateo è consigliato evitare di far tintinnare i bicchieri per brindare. Oltre all’etichetta, il gesto viene associato alla sconfitta nella rivoluzione ungherese del 1848 contro gli austriaci, i quali festeggiarono con il tintinnar di calici.

Una regola non scritta del Giappone vuole che non ci si riempia mai il bicchiere da soli. Si deve mescere a chi è seduto accanto e aspettare che venga fatto lo stesso. Per non apparire troppo dediti all’alcool, non si può iniziare a bere prima che tutti siano serviti.

PIATTO STESO

TOVAGLIOLO

PIATTINO DEL PANE

BICCHIERE DA ACQUA

BICCHIERE DA VINO COLTELLO DA PORTATA

In Francia si considera poco cortese tagliare la baguette o l’insalata con il coltello, a causa dell’ossidazione a cui è soggetta l’argenteria. Per il pane si aggiunge anche il simbolismo religioso che rende questo gesto dissacrante.

La Thailandia, proibisce l’uso della forchetta per mangiare qualsiasi piatto con riso cotto: una regola applicata ad alcuni piatti tailandesi del Nord e del Nord-est che richiedono l'uso delle mani a causa della viscosità del riso.

La tradizione del Giappone insegna che quando si mangiano i tipici noodles si devono gustare facendo rumore. Aspirarli tra le labbra, inoltre, li raffredda più velocemente e contemporaneamente si mostra apprezzamento per il piatto.

racconta che il 70% degli italiani riconosce nell'informalità i momenti migliori in cui stare con gli amici e trascorrere della buona compagnia e che quasi quattro italiani su dieci preferiscono ambienti poco convenzionali, rispetto al 28% del campione che sceglie esperienze gourmet. Stanno cambiando i luoghi, i cibi, le bevande - tra le quali la protagonista indiscussa è la birra preferita dal 70% degli interpellati -

In Italia il Galateo insegna che a tavola non si usano le mani, ma esistono alcune eccezioni: il pane, la pizza, piccoli frutti, i molluschi con guscio — come cozze, vongole e ostriche, il pollo e le costine di carne.

e di riflesso cambiano anche i modi coi quali stiamo a tavola. Il Galateo, che da spiegazioni su come assegnare i posti, su come organizzare la mise en place, su come studiare il menu perfetto e scegliere il vino adatto, ci autorizza ufficialmente a mangiare il pollo arrosto con le mani, sdoganando un gesto che - la scienza ci conferma - ci fa godere del cibo con tutti cinque i sensi. S. Mangini

Se i costumi del Cile vietano di mangiare con le mani, l’Arabia Saudita concede di mangiare tutto con le dita - anche di leccarle alla fine del pasto - a condizione che vengano utilizzate solo tre dita per farlo, esattamente come fece il profeta Maometto.

In alcune regioni del Medio Oriente, dell’India e in alcuni Paesi dell’Africa quando si è a tavola è obbligatorio l’uso della mano destra per mangiare.

In Cina, girare un pesce nel piatto per mangiarlo evocherebbe Dao Yue, ovvero la sfortuna e l’affondamento della barca che lo ha pescato, quindi per mangiarlo si deve prima consumare tutto un lato, deliscarlo e poi procedere con il lato in basso.

Chiedere sale e pepe in Portogallo è considerato estremamente maleducato perché vuol dire che il pasto servito manca di gusto. In Giappone invece, è poco educato chiedere un coltello, che ricorda eventi poco felici della storia ed è quindi considerato in molte zone una sorta di minaccia.

PIATTINO DEL PANE

COLTELLO DA BURRO SOTTOPIATTO PIATTO STESO FONDINA

FORCHETTA DA OSTRICHE

CUCCHIAIO DA CONSOMMÉ

COLTELLO DA PESCE

COLTELLO DA PORTATA

POSATE DA FRUTTA / DESSERT

FORCHETTA DA PORTATA

FORCHETTA DA PESCE

FORCHETTA DA PORTATA

BICCHIERE DA VINO BIANCO

BICCHIERE DA VINO DOLCE

BICCHIERE DA VINO ROSSO

BICCHIERE DA ACQUA

Holocene. Milo Maricelli’s Perspective

This contribution presents the first work of Milo Maricelli, an artist whose practice lends itself to semantic hypotheses, focusing primarily on techniques such as casting in combination with natural and industrial materials. This results in unusual eco-design idol-objects. Secondly, within the current eco-queer discourse, Maricelli’s body of works appears to adopt an asymmetrical stance, shaping archaeological forms that can be interpreted as evidence of a space consisting of organised, modular accumulations, within a qualitative, domestic timelandscape. This time-landscape seems to be conceived as an extended, decisive temporality that is indefinite, yet something has happened within it.*

introduzione del neologismo

Antropocene, sin dalla sua presentazione al Congresso Internazionale di Geologia di Cape Town, ha innescato una querelle trasversale a più ambiti, tra assertori e detrattori di un termine concepito per succedere, e in parte sostituirsi, all’era dell’Olocene, dal punto di vista scientifico inquadrata ancora come l’era attuale. Gli assertori sono i sostenitori dell’incedere di una nuova era geologica, in cui l’uomo appare quale agente di trasformazione in grado di incidere sull’equilibrio naturale del pianeta, alle volte in chiave negativa (ghiacciai, oceani e atmosfera ormai contaminati dalle micro e nanoplastiche), altre in maniera positiva (è consolidata a oggi l’accezione di “restauro” da parte dell’uomo degli eco-sistemi danneggiati – o addirit-

tura distrutti – dall’azione antropica). I detrattori sono, al contrario, coloro che vedono lo sviluppo delle attività tipiche della specie umana come conseguenza essenzialmente naturale della deglaciazione e del surriscaldamento, entrambi fenomeni di avvio dell’Olocene (Alì e Grasso, 2025, p. 25; Danovaro, 2025).

Le demarcazioni non sono però nette, vedono anzi una distinzione ambigua tra parti spesso sovrapposte, e non esclusivamente dettate da prospettive scientifiche o ideologiche, ma anche motivate da posizioni culturali, laddove, per esempio, l’adozione del nuovo termine condurrebbe a una visione escludente per la natura, e a partire dall’etimologia di Antropocene antropocentrica, in chiave letterale e totalizzante: quando già citando il Lévi-Strauss de Il pensiero selvaggio, “fine ultimo delle scienze umane” non dovrebbe “essere costituire l’uomo ma dissolverlo” (Lévi-Strauss, 2015, p. 257). Tutte maglie di un capitolo antico ma attuale, messe a sistema a mo’ di enfilade anche in arte, di recente entro l’estetica eco-queer (Alì e Grasso, 2025). In questo frangente Milo Maricelli, giovane artista attivo tra Svizzera e Italia, assume una posizione peculiare, inaugurando a Firenze, presso la Galleria Cartavetra, una mostra, da calendario di 72 ore, intitolata Olocene, era geologica per l’artista attuale e a cui guardare come uno “scenario dalla fertile aridità”, costituito di “personaggi” in stretta relazione con i sistemi che abitano. Il titolo di questa mostra, tra l’ironico e lo speculativo, riprende l’analogo titolo di una serie avviata

nel 2024, la quale si distingue, nei suoi nuclei e differenti declinazioni, non solo per il reiterato impiego di calchi ceramici, e su cui torneremo, ma per formulare nell’insieme, quel che appare un ipotetico catalogo, scandito per frammenti, di ciò che si potrebbe intendere entro un futuro prossimo per Olocene. In particolare, uno scenario questo, popolato: da pale di fichi d’india in ceramica bianca, adagiate sul pavimento o instabilmente poste a parete; calchi ceramici di zampe suine, ricavati da una spalla di jamón serrano e alle volte esposti in serie, come fossero monili; e non meno attinente, una serie di terracotte ricavate da un roditore, disposte in modo tale da infestare e abitare educatamente lo spazio, come emergenze simili ai calchi di Pompei. Opere, queste, ottenute da matrici di animali e vegetali che proliferano negli spazi espositivi, suscitando in chi guarda la sensazione di essere dentro a coreografie di habitat, non distanti dalle ricostruzioni dei musei di storia naturale o, alle volte, all’isolamento frammentario di reperti riscontrabili entro certi percorsi archeologici. A demarcare la distinzione è piuttosto l’humus, il ragionamento, formale e di pensiero che vi soggiace. Il tema ritorna, affrontato secondo un’altra chiave, in Olocene, Fichi d’india su irrigatori: un esemplare presenta adesso un irrigatore dalla fattura industriale sul quale si innesta ludicamente una pala di fico, versione in cui il contrasto tra materiali funzionali e modellati, si esprime entro un iperbolico tentativo di reidratare la pala, dapprima sottoposta ai processi

Olocene. L’ipotesi di Milo

01. Olocene, Zampe, calchi in ceramica di zampe suine, 2023-2024 | Holocene, Paws, ceramic casts of pig feet, 2023-2024. M. Maricelli
Questo corpus non è “né primo, né inventato” ma simile al più per contatto a quanto lo precede

ceramici di colaggio ed essicazione. Un tentato ripristino, per quanto destinato a fallire d’ingegneria ecosistemica, in cui la dialettica tra esclusività della creazione artistica e inclusività del quotidiano, emerge come altro leitmotif che si intreccia al primo, connotando il corpus di Maricelli su più livelli: le zampe suine, come esposte, testimoniano per esempio di una coerenza formale e incongrua, dovuta al processo ceramico e cadenzata anche da una cromia, non pittorica o applicata, ma conferita dal colore del materiale utilizzato; a un tempo trattasi di un calco ottenuto a partire da una zampa di jamón recapitata come souvenir all’artista da un amico; il decentramento, qui quantitativo, quasi da asettica macelleria o da allevamento intensivo, si riconferma in Piazza Puccini. Monumento, secondo un’angolazione ulteriore. In quest’opera, con evidenza antimonumentale, pile accatastate di casse di ortaggi, dunque oggetti d’uso, con all’interno fusioni in ottone ottenute da calchi di bucce di agrumi, bene incarnano l’attenzione dell’artista a restituire una forma di vissuto estrapolata direttamente dalla realtà, in questo caso il mercato giornaliero della piazza fiorentina: “Ogni giorno in Piazza Puccini a Firenze, dopo il mercato, due cumuli di cassette e ortaggi abbondanti si ergono al centro della piazza; mi piace pensarlo come monumento. […] Ogni volta che

passavo di lì con la mia bicicletta recuperavo qualche cassetta” (Maricelli, 2025). L’esperienza è anche olfattiva, le casse sono infatti trattate con olio essenziale di mandarino; a distanza si qualificano per un intelligente gioco di colore, dettato dalle cassette sovrapposte; mentre a una visione ravvicinata le etichette pubblicitarie, applicate sulle fusioni (è il caso di Linbo, azienda frutticola di Taranto), o direttamente sulle casse (le insegne delle aziende agricole, per la rivendita all’ingrosso), testimoniano, con le bucce (fuse assieme in rudimenti informi simili a resti-carcasse o a oggetti rituali forse consapevoli del precedente di Spoerri), di una catena di produzione e distribuzione, nel carattere residuale di un lavoro che dunque convive e si confronta con le logiche del consumo. L’insieme è però quello di una immagine composta, di casse essenzialmente vuote o quali strumenti di scavo o da lavoro, in cui raccogliere e catalogare reperti di qualche sorta.

Nella concezione di Milo, rilievo peculiare assume in tal senso l’impiego del calco, secondo una sistematicità certo non dissimile (e forse debitrice) a una fortunata linea dell’arte, in particolare post-duchampiana, e la cui matrice esemplare può essere individuata ne La Foglia di vite femmina, di Duchamp. Nel caso però di Maricelli l’attenzione primaria al processo appare divenire espediente per un’attenzione tecni-

ca volta, non a meccanizzare o commutare, ma ad aumentare la distanza dall’uomo pure nella sua reminiscenza, e il continuo gioco tra autenticità dell’opera e suo valore replicabile, nella sua reiterazione e ripetizione, appare diventare a un tempo meccanismo: per esagerare e ridurre, il significato e le forme di “corpi” e di cose, restituiti quali tracce mnestico-archeologiche. Nondimeno il calco in quanto immagine tattile, e a distanza, visiva, carica il lavoro di una fattura plastica dall’intensità verificabile, ma di fatto non leggibile quale corpo originale, per cui l’autentico anche nel corpus di Milo risiede piuttosto nell’essere, per citare Didi-Huberman, autore frequentato dall’artista, “né primo, né inventato” ma simile al più per contatto a quanto lo precede (Didi-Huberman, 2009, p. 113). Assunto questo, vero solo in parte. La natura di questa pratica concede altresì a Maricelli di risemantizzare stessi esemplari in diversi combinamenti e contesti. A Casa Azul in Svizzera, in occasione di una mostra, di Maricelli, in collaborazione con Giorgia Filipponi, due zampe suine sono inserite adesso entro un’installazione dall’inconsueto ecodesign, coronata da fiori selvatici e il cui perno appare una luce da cantiere, su cui è adagiata un’arella da recinzione in canna di bambù. Il combinamento assume di maggiore chiarezza entro una mostra per Milo incentrata sulla tematica del

02-04. Olocene, Pale di fico d’india, calchi in ceramica bianca, 2024 (Galleria Cartavetra, Firenze 2025 - in alto; Museo del Novecento, Firenze 2025 - al centro e in basso) | Holocene, Prickly Pear Blades, white ceramic casts, 2024 (Cartavetra Gallery, Florence 2025 - top; Museo del Novecento, Florence 2025 - middle and bottom). S. d’Amico
06. Senza titolo (chimera), lampada da cantiere, mazzo di fiori del mio giardino, arella di bambù, 2025 (Casa Azul, Gordola 2025) | Untitled (Chimera), building site lamp, bunch of flowers from my garden, bamboo roll screen, 2025 (Casa Azul, Gordola 2025). M. Maricelli
05. Danza, terracotta, 2024 (Toast Project, Firenze 2024) | Dance, terracotta, 2024 (Toast Project, Florence 2024). L. Morfini
07-08. Piazza Puccini. Monumento, bucce di agrumi in ottone, cassette in plastica per la frutta, olio essenziale di mandarino, 2025 (Toast Project, Firenze 2025) | Piazza Puccini. Monument, brass citrus peels, plastic fruit crates, tangerine essential oil, 2025 (Toast Project, Florence 2025). L. Morfini

09-10.

11.

Amaca, ceramica e corda tecnica azzurra, 2024 (Museo Novecento, Firenze 2025) | Hammock, ceramic and light blue technical rope, 2024 (Museo Novecento, Florence 2025). S. d’Amico (in alto); L. Morfini (in basso)
Odio gli anni ’90, appunti fotografici, 2025 I Hate the 90s, photo-notes, 2025. M. Maricelli

giardino, non un giardinaggio, questo, razionalista, o teso all’ordinamento della natura da parte dell’uomo, ma un giardinaggio dall’intensità emotiva e incolta, disordinata, che attraverso l’installazione, dal sottotitolo chimera, oltreché giocare, ancora, su di un aggregato di oggetti a funzionamento archeologico, appare anzitutto restituire un ipotetico fermo-immagine di un oggetto-idolo biomorfo, derivato dall’unione sperimentale, mitica e in progress, di elementi in relazione e rispettivamente afferenti all’ambito, lavorativo e dello sforzo (la lampada da cantiere), e a un privato ristoro (i fiori selvatici e la recinzione). A fianco, nella mostra, ancora delle casse, questa volta disposte ad angolo, reperite nel giardino di casa, e nel quotidiano utilizzate realmente per lavorarvi. Il dettaglio dell’esuberante ciuffo d’erba su questa nuova chimera (essereautoma nato dall’innesto di elementi montati secondo una logica onirica e da rebus oggettuale), e indicato in descrizione come “fiori del mio giardino” restituisce altresì con evidenza la presenza, nel repertorio, di tangenze con le tematiche del gardening, sempre più frequentate nell’arte, da Edible Estate Project di Fritz Haeg alle monumentali installazioni di Tomás Saraceno: un giardino, quello di Milo però, in cui non domina un’estetica coordinata, o ordinata entro uno stile, né dall’istanza esplicitamente sociale,

ma la spontaneità dell’erba incolta di un luogo di lavoro e di accoglienza. A una reinterpetazione in chiave emotiva del gardening è riconducibile anche Amaca, del 2024. Un esoscheletro di calchi ceramici, ottenuti da due differenti rami di un melo (situato nel giardino di famiglia), è tenuto assieme da una corda tecnica di colore blu, la quale corre attraverso passanti fatti di viti e bulloni da officina. Traduzione di un’amaca del giardino dell’artista, che realmente si sostiene al melo, l’opera, nella sua estensione fragile e precaria, è latrice anche di una memoria del padre, prematuramente scomparso. La dimensione, in questo caso, è dunque sancita dalla simbiosi, nell’amaca, del progressivo deterioramento paterno, dei racemi fruttiferi del melo, e dei bulloni meccanici e del filo tecnico blu che ne rinsaldano la struttura. Depauperata del suo valore funzionale, questa amaca, fissata come idea, bene restituisce anche il cadenzarsi della dimensione temporale in Milo, una dimensione non diacronica, ma qualitativa e lenta, progressiva e afferente a un tempo selettivo che solidificato, come un’amaca risulta esterno alle fughe del divenire ed estraneo, nella forma, alle cose che ne sono la matrice; se prendiamo i casi considerati, nel complesso il repertorio appare come un inventario, anche di oggetti relativi alle attività dell’uomo, ma sempre esposti in assenza dell’uo-

Il tempo è da considerarsi più naturalmente geologico, non afferma ma erode

mo; non riferibili dunque a un tempo storico, esclusivo della vicenda umana, ma a un tempo da considerarsi più ampiamente geologico, che non afferma ma erode, e produttore di esperienze introiettate in oggetti-immagine dall’estetica fossile, un’estetica custode di inaspettate rivelazioni, ma anche passibile di improvvise rotture. È ora in cantiere un’altra opera, Odio gli anni ’90. Milo Maricelli è del 2000.*

REFERENCES

– Alì, D., Grasso, V. (2025). Natura contronatura – Estetica ecoqueer. Milano: Meltemi editore.

– Danovaro, R. (2025). Restaurare la natura. San Giuliano Milanese: Edizioni Ambiente. – Maricelli, M. (2025). Portfolio. Firenze.

– Didi-Huberman, G. (2009). La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta (ed. or. 2008, La resemblance par contact. Archéologie, anachronisme et modernité de l’empreinte, Parigi). Torino: Bollati Boringhieri.

– Lévi-Strauss, C. (2015). Il pensiero selvaggio (ed. or. 1962, La pensée sauvage, Parigi). Milano: Il Saggiatore.

Angélica Benatti Alvim

Professore Ordinario, Facoltà di Architettura e Urbanistica, Università Presbiteriana Mackenzie, San Paolo, Brasile. angélica.alvim@mackenzie.br

Informal Rooting. An Open Atlas

Alessandro Tessari LISt Lab, 2020

The Favela as an Urban Laboratory

This book explores the favelas of Rio de Janeiro as complex urban systems. Through maps, drawings, and diagrams, the volume demonstrates how informality produces coherent morphologies, governed by specific spatial logics: incremental growth, the collective appropriation of rooftops, and the vibrancy of alleyways. The favela emerges as a creative and deeply rooted presence, an integral component of the contemporary metropolis.*

La favela come laboratorio urbano

Il volume Informal Rooting. An Open Atlas, di Alessandro Tessari, è il risultato di una ricerca di dottorato svolta in cotutela tra l’Università Iuav di Venezia e l’Università Federale di Rio de Janeiro, premiata dall’ANPARQ nel 2018 e divenuta un’opera di riferimento sul tema dell’urbanizzazione informale. A partire da un intenso lavoro di campo condotto in diverse comunità carioca, Tessari elabora uno sguardo originale sulla favela, proponendo un metodo di analisi morfologica che coniuga rigore accademico e ricchezza grafica. Attraverso disegni, mappe e diagrammi comparativi, l’autore individua pattern e logiche spaziali che organizzano il territorio informale, mettendo in discussione la visione che riduce la favela carioca a sinonimo di caos o precarietà.

L’opera si articola in tre momenti complementari: una prima sezione di contestualizzazione storica e demografica della favela a Rio de Janeiro; una seconda di analisi di casi studio in quattro comunità della città – Vila Canoas, Santa Marta, Rocinha e Maré –; e una terza di sintesi grafica, Atlante Informale, in cui i risultati vengono condensati in un apparato visivo che evidenzia al tempo stesso la coerenza e la diversità delle soluzioni urbane informali. Tale struttura consente una lettura progressiva, che procede dal fenomeno generale alla materialità concreta, fino all’elaborazione concettuale e metodologica.

Il concetto centrale è quello del “radicamento informale” (informal rooting), che mostra come la favela non vada più intesa come condizione transitoria, ma come componente stabile della città. Questo radicamento si manifesta sia sul piano sociale, attraverso identità e pratiche comunitarie, sia su quello spaziale, con la consolidazione di tessuti urbani densi, complessi e creativi. In tale prospettiva, la favela non è assenza, ma presenza; non errore, ma invenzione. Un riposizionamento cruciale nel contesto brasiliano, dove storicamente la favela è stata trattata come patologia urbana.

Analizzando la forma urbana, Tessari evidenzia come lo spazio della favela sia regolato da una sintassi propria, segnata da una morfologia frammentaria e aperta. Le abitazioni minime si aggregano per accrescimento incrementale, generando un tessuto in continua trasformazione ma dotato di una logica interna riconoscibile. Scale, vicoli e coperture si rivelano elementi strutturanti, capaci di produrre centralità e usi collettivi, delineando una coerenza spaziale forgiata dalla necessità e dalla creatività. Questa lettura pone l’informalità come un vero e proprio modo di produzione dello spazio urbano, da studiare e valorizzare, piuttosto che semplicemente correggere.

La metodologia rappresenta uno dei punti di forza dell’opera. Tessari si colloca nella tradizione italiana della mor-

fologia urbana, inaugurata da Saverio Muratori e sviluppata da Gianfranco Caniggia, Gian Luigi Maffei, Aldo Rossi e Carlo Aymonino, tra gli altri. In questa prospettiva, la città è letta come un processo storico, un organismo in continua trasformazione, in cui le forme urbane derivano da pratiche sociali sedimentate. Tale approccio consente di comprendere la favela carioca non come un’anomalia, ma come espressione legittima di processi di radicamento urbano. Il metodo grafico impiegato dall’autore si pone dunque come erede della tradizione tipo-morfologica, ma al contempo la reinventa ed espande per interpretare la singolarità dei territori informali brasiliani. Il dialogo con il dibattito internazionale amplia ulteriormente la portata dell’opera. In contrasto con la visione di Mike Davis (2006), che associa le favelas ai sintomi del collasso urbano globale, Tessari ne dimostra la produttività spaziale e sociale. In sintonia con Neil Brenner (2014), evidenzia come l’urbanismo della favela si concretizzi nelle scale locali, nei vicoli e nelle stradine. In risonanza con James Holston (2009), riconosce nella materialità costruita della favela l’iscrizione di una cittadinanza insurgente, poiché la costruzione incrementale e collettiva è anche espressione di rivendicazioni di appartenenza e diritti. Questa articolazione rafforza il carattere innovativo del libro, che sposta la favela dal mar-

gine del pensiero critico al centro della riflessione sulla città contemporanea.

Proponendo la favela come laboratorio urbano, Tessari invita architetti, urbanisti e pianificatori ad abbandonare visioni normative e a riconoscere i potenziali creativi dell’informalità. Ciò implica comprendere che politiche pubbliche e pratiche progettuali possono risultare efficaci solo se tengono conto della logica propria della favela. La lettura dell’informalità come presenza strutturante apre la strada a città più inclusive, resilienti e democratiche, dove la pratica urbanistica non viene imposta, ma costruita in dialogo con i saperi e le esperienze degli abitanti.

Più che un semplice studio accademico, Informal Rooting. An Open Atlas propone un cambiamento di paradigma. Nell’unire la tradizione tipo-morfologica italiana con la vitalità dell’esperienza urbana brasiliana, il volume offre un contributo originale e prezioso al pensiero urbanistico contemporaneo. Con densità metodologica, rigore analitico e sensibilità, Tessari consegna un’opera indispensabile non solo per comprendere la favela carioca, ma anche per riflettere sulle traiettorie future dell’urbanizzazione su scala planetaria. Il messaggio che ne emerge è inequivocabile: la favela è una presenza creativa e produttiva, capace di ispirare nuove forme di comprensione, pianificazione e progetto della città.*

REFERENCES

Brenner, N. (2014). Implosions/Explosions: Towards a Study of Planetary Urbanization. Berlin: Jovis Verlag. – Davis, M. (2006). Planet of Slums. London and New York: Verso.

Holston, J. (2008). Insurgent Citizenship: Disjunctions of Democracy and Modernity in Brazil. Princeton, NJ: Princeton University Press.

Nonostante si sia provato a contrastare il pluralismo religioso-culturale attuando un’indifferenza programmatica, il desiderio di affermazione rimane così forte che non cessa con la negazione formale di un luogo legislativamente regolato; semplicemente, migra appena al di fuori dei limiti dell’impossibilità, attuando così il cambiamento urbano (Cassani, 2013). Il cambiamento e lo stravolgimento dati da una possibile commistione di fedi e di gestualità religiose ci lascia impauriti e dubbiosi perché estranei a quella che è la nostra memoria storica, o almeno quella costruita fino ad oggi. Ma cosa potrebbe accadere se accogliessimo questa diversità? Sarebbe così strano e dissacrante pensare di adattare e offrire i nostri spazi sacri, ormai vuoti, a chi necessita di trovare il proprio luogo di ancoraggio? La città è sempre stata un telaio su cui tessere e intrecciare storie di popoli, culture e avvenimenti. Il mosaico culturale che sta tornando a colorare le nostre collettività deve diventare principio di nuovo disegno urbano, capace di sedimentarsi e stratificarsi sulla tradizione già presente e costruire così una nuova memoria comune. *

NOTE 1 –La “libertà religiosa” dovrebbe essere normata da principi fondamentali emanati dallo Stato; ma, non esistendo una disciplina a livello statale, sono le singole Regioni a legiferare specificatamente il territorio. 2 –Riferimento alla festa Vaisakhi di Novellara durante la quale il campo da calcio è utilizzato dalla comunità Sikh per poter creare agilmente file parallele funzionali per il rito.

REFERENCES –Bartolomei, M.C. (2021). Ripensare il sacro come esercizio politico. In Ghisleri, L., Poma, I. (a cura di) Il sacro e la polis. Intersezioni simboliche Sesto San Giovanni: Mimesis Edizioni, pp 11-17. –Careri, F. (2001). Constant. New Babylon, una città nomade . Torino: Testo & Immagine. –Cassani, M. (2013). Sacred Places in Profane Buildings. The spatial implication of religious pluralism . Tesi di Dottorato XXV ciclo, Politecnico di Milano. –Moore, C.W. (2001). You Have to Pay for the Public Life: Selected Essays of Charles W. Moore . Cambridge, London: The MIT Press. –Piva, A. (1995). La città multietnica: lo spazio sacro . Venezia: Marsilio Editore.

Terrain vagues : baluardi di interstizi dimenticati e spazi in attesa di trasformazione che, nella caotica e frenetica condizione della città moderna, vengono vissuti e rinnovati in quanto spazi di libertà (Careri, 2001) capaci di indurre informali affermazioni culturali. La globalizzazione ha portato l’Italia, insieme a diversi altri paesi, a trasformarsi in una società plurale, ricevendo comunità minoritarie che hanno cercato negli anni di rivendicare e ritrovare la propria identità (Piva, 1995). Nonostante l’epoca di forte secolarizzazione, la religione, in questi casi, è diventata carattere culturale estremamente importante in quanto soluzione adattiva al nuovo contesto insediativo (Bartolomei, 2021); difficile invece è stato trovare un luogo dove poterla praticare. I vuoti urbani si fanno così risposta alla necessità di adattamento, eludendo l’approvazione delle autorità e della società ospitante, proponendo esperienze di luogo inedite e insolite per preservare la propria identità nel nuovo mondo. Matilde Cassani dal 2010 indaga lo svolgersi delle pratiche religiose nei contesti urbani. Dalle sue ricerche emerge come in Italia la costruzione di luoghi di culto non cristiani sia un processo regolato da norme giuridiche complesse e caotiche 1 ; perciò spesso questo porta a prediligere la scelta di luoghi neutri, informali, diventati per la città ormai insignificanti, per sacralizzarli tramite l’importanza degli oggetti del rito, più che della forma architettonica (Moore, 2001). Lo spazio religioso diventa per queste comunità non solo luogo dedito alla preghiera, ma si avvale di una funzionalità molto più ampia (Cassani, 2013): luogo d’incontro, di scambio, centro conferenze, scuola di lingua; spesso tutto concentrato in una stanza sola che cerca di sopperire alle mancanze del contesto limitrofo. Cassani, tramite il suo lavoro, descrive l’adattamento religioso che avviene sia nelle metropoli –con la mostra Sacred Spaces in Profane Buildings –sia nelle campagne –con l’installazione Countryside worship/A Celebration Day . Non solo un negozio sfitto o un vecchio capannone industriale possono diventare luoghi di riferimento per una comunità, ma anche un campo da calcio può essere reinterpretato diventando struttura funzionale per la celebrazione del rito 2 È evidente che l’esigenza spaziale per queste comunità non è negoziabile.

Spazi di fede non tuoi

Not Your Usual Faith Spaces

Vittoria Berno Studentessa magistrale in Architettura, Università Iuav di Venezia. v.berno@stud.iuav.it

Sacred interiors in profane buildings. Ricerca a cura di Matilde Cassani. M. Cassani

Da quassù il grigio skyline del Centro di São Paulo è illuminato da una luce diversa. Passeggiando a circa 7 m di altezza, lontano da motori e clacson, tra le finestre e i balconi delle vite degli altri, puoi trovare bambini in bicicletta, chi fa yoga, chi legge un libro, chi chiacchiera, chi balla, chi prende il sole, anziani che passeggiano, persone che fanno jogging, turisti incuriositi, cani sullo skateboard… C’è spazio per tutti quassù! In una città sempre più arida di spazio pubblico, durante gli orari di chiusura al traffico l’Elevado Presidente João Goulart viene preso d’assalto da centinaia di persone che chiamano questo viadotto parco, o meglio, Parque Minhocão. Minhocão , tradotto “lombricone”, è il nomignolo affibbiato a un’infrastruttura che sembra strisciare tra i grattacieli della floresta de concreto . Un dispregiativo che, con il tempo e soprattutto grazie all’Associazione Parque Minhocão, ha iniziato ad assumere nella geografia dei paulistani un nuovo significato: Minhocão è un parco e non solo un disperante viadotto. Quello che ha portato i paulistani a trovare un parco in questi 3,5 km di cemento è stato un lungo percorso che ha visto (e vede) come protagonisti cittadini, attivisti e artisti che insieme immaginano il futuro di questa lingua d’asfalto. Il viadotto è apparso nelle loro vite in pochi mesi e ha cambiato il destino di un’intera area della città: annunciata nel 1969 1 e inaugurata il 24 gennaio 1974 2 , l’infrastruttura aveva l’obiettivo di connettere est-ovest della megalopoli liberando il Centro dalla morsa del traffico. Fin da subito, non ha portato i benefici auspicati, anzi, ha incancrenito i quartieri che attraversa diventando un vero e proprio “muro” 3 capace di dividere la città. Nel 1976 arriva la prima chiusura al traffico automobilistico durante la notte e circa dieci anni dopo lo stop anche la domenica e nei giorni festivi. Il silenzio lasciato dall’assenza delle auto richiama un lento ma progressivo avvicinamento dei cittadini a questo spazio. In una zona della città sempre più pericolosa, inquinata e priva di aree verdi, il viadotto diventa il luogo accessibile a tutti dove poter passare il tempo libero. Il viadotto inizia così un’inaspettata nuova vita che si scontra con l’immobilismo della politica e le nostalgie del passato. Di fronte a tutto ciò nel 2013 nasce l’Associazione Parque Minhocão che, in una delle sue prime azioni civiche, organizza nella propria sede (che affaccia sul dibattuto viadotto) una mostra sull’High Line di New York, parte della X Bienal de Arquitetura de São Paulo. L’iniziativa associativa è stata promossa da Athos Comolatti, un appassionato d’architettura e urbanistica che vuole far scattare nella testa dei suoi concittadini la stessa scintilla che gli ha fatto vedere nel progetto newyorkese il Minhocão e il suo futuro. Il tam-tam ha poi dato il via a un’azione collettiva: l’attivista Renata Falzoni, l’architetto Marcio Kogan e l’artista Felipe Morozini sono stati tra i primi a collaborare con Athos. Questa sinergia artistico-politica ha avviato uno scollamento tra significato e significante: le facciate dei palazzi sono tele per gli street artist, un appartamento e la sua finestra diventano una quinta teatrale e il viadotto la sua platea, nelle calde sere d’estate sulla carreggiata si organizzano cineforum, festival di street-food, corsi di pattinaggio o di yoga, si costruisce una piscina o un campetto da calcio: non ci sono limiti in questa città dove tutti hanno bisogno del loro spazio. Quando sei lassù basta guardarsi intorno per capire che Felipe Morozini ha ragione: “Il parco esiste già, mancano solo gli alberi”. * NOTE 1 –In pieno stile propagandistico, il progetto venne presentato in diretta tv dal Prefetto della città Paulo Maluf. 2 –Giorno del 417° anniversario della fondazione di São Paulo. 3 –Non a caso l’Elevado Presidente João Goulart è tra i Muros de Ar individuati dal Padiglione Brasile alla 16. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia.

Tommaso Mauro Architetto. tommasomauroarchitetto@gmail.com

Skyline del Centro di São Paulo, visto dal Minhocão. Skyline of downtown São Paulo, seen from Minhocão. T. Mauro

Gianluca Stasi

PhD in Architettura, Università di Siviglia. luca@ctrlz.net

Alessandro Zorzetto Dottorando in Architettura, Università di Siviglia. arch.zorzetto@gmail.com

Sorbole: the Dome of Letters For seven years, a local community demonstrated its ability to independently manage and adapt to its needs the public space offered by a temporary art installation created in 2016 as part of a three-week programme. This led to the funding and construction of a permanent structure to replace the original installation in 2024, consolidating a public infrastructure rooted in and serving the vocations and needs of the community.*

istituto di istruzione secondaria Joaquín Romero Murube, situato nel Polígono Sur di Siviglia, un quartiere con alti tassi di esclusione sociale e di assenteismo scolastico, collabora da quindici anni con associazioni e amministrazioni locali per trasformare i suoi spazi, dotandoli di un uso ludico e educativo per promuovere dinamiche sociali positive. Nel 2016, grazie al programma municipale Luces de Barrio, è stata realizzata un’installazione artistica nel suo cortile: una cupola che il centro ha successivamente utilizzato come aula all’aperto, uno spazio per incontri, laboratori ed eventi aperti al quartiere. Diverse

associazioni locali, come Entre Amigos, Verdes del Sur o il club di lettura Cúpula de las Letras, che dà nome al progetto, hanno trovato in questo spazio ombreggiato, lo spazio appropriato per le loro attività. Tutto ciò ha contribuito a consolidarlo come elemento identitario a livello locale.

Sebbene l’incarico sia arrivato da un programma della durata di appena tre settimane, la sua progettazione e costruzione aspiravano a una durata ben più lunga. Grazie alla sinergia creatasi con gli attori locali e con le loro esigenze, la cupola è rimasta in uso per sette anni, senza essere iscritta nell’inventario del Comune, promotore dell’iniziativa, né in quello della Regio-

ne, a cui fa capo l’istituto, provocando una situazione di incertezza giuridica. Nonostante ciò la comunità locale ha provveduto indipendentemente alla manutenzione e il gruppo educativo ha creato un giardino intorno alla cupola, con aule all’aperto, un’area con piante aromatiche e una cintura di alberi e arbusti mediterranei. L’interruzione delle attività causata della pandemia ha accelerato il deterioramento della struttura, portando alla sua chiusura temporanea nel 2023 per lavori di ristrutturazione.

I primi sette anni di gestione indipendente hanno dimostrato che il paradigma di un’architettura realmente generata e gestita dal basso1 pote-

Sorbole: la cupola delle lettere

Un’architettura

che riflette la rigenerazione dal basso di una comunità

01. Vista est, 2024 | East view, 2024. Elpezcamara.com

Sette anni di

gestione

informale, hanno

dimostrato l’opportunità di riconoscere e formalizzare l’iniziativa

va funzionare e l’importanza che una struttura come Sorbole può assumere a livello locale. Grazie a ciò, nel 2024, con il sostegno del programma Progetti Solidali dell’Ordine degli Architetti di Siviglia, la cupola è stata riconosciuta e omologata come struttura destinata a uso culturale, sostituendo l’installazione artistica con una architettonica permanente.

Con la nuova costruzione si è voluto riconoscere il lavoro della comunità locale e garantire continuità e sostegno giuridico all’infrastruttura e alle iniziative che la riempiono di vita, conferendole un significato sociale e urbano.

Dal 2016 la cupola ha ospitato iniziative che in precedenza non avevano una sede adeguata. La sua presenza iconica ha invitato e incoraggiato altri soggetti e attività a unirsi, catalizzando le loro energie e consolidando la coesione intorno a obiettivi, esigenze e a uno spazio condivisi.

Il progetto della struttura ha evitato l’utilizzo di elementi che potessero limitarne l’adattabilità a esigenze non previste nel programma iniziale. Similarmente a quanto affermato da Ulivieri per l’acqua anche le infrastrutture pubbliche costituiscono “una risorsa che produce tanta più ricchezza quanto più si rende riusabile e quanto meno soffre di appropriazioni individuali” (Ulivieri, 2022, p. 46): in contesti dinamici come il Polígono Sur è essenziale concentrarsi sull’adattabilità dell’architettura e creare spazi che possano essere utilizzati per diverse attività a seconda delle esigenze del momento.

Sono stati scelti sistemi di costruzione basati su operazioni semplici che non richiedessero un’eccessiva forza fisica o formazione preliminare, così da consentire un’ampia partecipazione e promuovere un senso di appartenenza e di identità con la proposta.

A volte le pratiche architettoniche si avvicinano agli ambiti al margine della pianificazione per capitalizzare il percorso che le comunità locali hanno già intrapreso e attratte dalla maggiore libertà di sperimentazione che deriva dal minore controllo esercitato dalle istituzioni che spesso la-

sciano fare per non vedersi obbligate ad affrontare la propria inazione. Sennett avverte l’errore di considerare il centro urbano come la culla della vita comunitaria, mentre i margini come luoghi dove non avviene nulla di particolare: infatti l’interesse degli autori del progetto era suscitato proprio dal fatto che in questi ambiti sorgono spontaneamente laboratori socioculturali, in cui si creano nuove forme di abitare la città, ai margini del campo d’azione di istituzioni troppo spesso distanti, rigide e quindi incapaci di riconoscerne il valore (Sennet, 2019, p. 22). Sono questi ambiti in cui osserva Staid “si riformano le reti sociali, si costruiscono progetti politici trasversali che dialogano ai margini della metropoli” (Staid, 2017, p. 62).

Gli autori miravano a trasformare l’iniziativa in uno spazio di sperimentazione e di ricerca, in un’occasione di dialogo con gli schemi di lavoro locali, che hanno permesso di generare e gestire gli orti urbani già attivi nel patio della scuola, e di ricongiunzione della pratica professionale con la società e la città, per sostenere comunità informali che non sono affatto disorganizzate e che anzi si regolano secondo schemi che meglio si adattano al territorio e alle proprie idiosincrasie.

Iniziative come la serra acquaponica promossa da Verdes del Sur o gli orti educativi dell’Istituto, premiati ancora prima della costruzione dell’installazione artistica, dimostrano le capacità e l’intraprendenza già presenti a livello locale. L’obiettivo era quello di sostenerle senza impatti negativi.

In uno spazio pubblico, come il patio del Murube, gli accordi scritti e non scritti che ne regolano l’uso e che permettono la convivenza di molte realtà diverse, costituiscono un patrimonio immateriale che riveste un ruolo molto più rilevante nella configurazione di un’iniziativa resiliente rispetto alle caratteristiche spaziali del luogo stesso. Il sorgere di questo tipo di accordi avviene soprattutto ai margini delle città, dove una minore pressione della regolamentazione istituzionale, lascia spazio e rende possibili e necessarie altre strutture

di gestione. La Cecla considera che proprio in questi accordi, spesso neppure coscientemente ratificati, si fondi il senso di appartenenza a una comunità insediata (La Cecla, 1993, p. 89).

Questo patrimonio è il frutto di una costruzione culturale che riflette le relazioni comunicative e collaborative che i soggetti che abitano lo spazio intrattengono tra loro e quelle che ognuno di essi stabilisce con il luogo stesso. Attraverso queste relazioni si coniuga lo spazio e si contribuisce alla sua costruzione fisica e mentale giorno dopo giorno.

Non è efficiente intervenire in questi ambiti senza conoscere tali accordi e senza riconoscere il ruolo dei soggetti che li sostengono. Troppo spesso i primi vengono ignorati, stravolgendo gli equilibri che permettono l’uso condiviso, mentre i secondi vengono oggettualizzati in funzione della creazione di uno spettacolo architettonico, producendo iniziative fragili, poco utilizzate e di corta durata. Questo tipo di proposte assume significato solo quando si riempiono di vita, e sono quindi le persone a confe-

rire un senso agli spazi e alle iniziative: nulla è sostenibile se si scartano le risorse già presenti sul territorio, nulla è sostenibile se non viene utilizzato, nulla è sostenibile se, non essendo utilizzato, si degrada rapidamente.

È fondamentale che al centro di ogni iniziativa siano posti i soggetti che possiedono le chiavi di lettura necessarie per il corretto approccio e sviluppo di un’iniziativa nella loro comunità. Spesso, però, come sottolinea Michel de Certeau, le loro pratiche finiscono per essere “collocate lontano dal sapere benché detentrici del suo segreto. E in ciò possiamo scorgere una figura della modernità” (Certau, 2011, p. 109), e si osserva come questi stessi soggetti vengano relegati a ruoli marginali, scalzati da professionisti esterni, che promuovono iniziative che non li contemplano come soggetti attivi.

Il progetto della Cúpula de las Letras è partito proprio dall’avvicinamento alla comunità e agli attori locali che generavano e sostenevano gli ecosistemi socioculturali che facevano funzionare il patio come un grande spazio aperto, interconnesso, vissuto

È reciproco: Le comunità si interessano all’architettura quando questa si interessa alle comunità
02. Inaugurazione, 2024 | Inauguration, 2024. G. Jiménez-Cruz

e continuamente trasformato. Ciò ha permesso di convertire un intervento esterno e top down della durata prevista di tre settimane, in un processo locale bottom up, che continua a servire la comunità dopo otto anni, e con tutte le caratteristiche necessarie per poter estendere la sua continuità. Una comunità investe energie nella manutenzione di una struttura per sette anni, solo se questa ha assunto un significato all’interno delle proprie “mappe mentali”2, se ha creato delle corrispondenze con le sue aspirazioni e dinamiche. La struttura, costruita con materiali apparentemente inadeguati a tale scopo, è potuta rimanere al servizio della comunità per sette anni, solo grazie alla manutenzione effettuata dalla stessa comunità. Seguendo la propria filosofia di lavoro, il suo modo di intendere la città e i processi partecipativi, che colloca le persone e le realtà locali al centro di ogni azione architettonica, lo studio di architettura Ctrl+Z ha ufficialmente ceduto agli attori locali le infrastrutture, prima quella del 2016 e successivamente quella del 2024.

La cessione è intesa come la consegna dei frutti del lavoro degli agenti locali coinvolti e delle risorse pubbliche investite nell’iniziativa, che se-

condo gli autori hanno più senso nelle mani degli agenti locali che nelle proprie. Si spera che una gestione locale le renda più flessibili per accogliere attività a beneficio di tutta la comunità.

Il valore della Cúpula de las Letras risiede nelle sinergie e nelle corrispondenze che ha saputo stabilire con le vocazioni, i sogni e le necessità degli abitanti del cortile e del quartiere circostante, offrendo loro un luogo adatto per sviluppo e la convivenza.

Proposte come Cúpula de las Letras dimostrano l’opportunità e la convenienza di realizzare progetti che guardino negli occhi le comunità e i territori in cui si sviluppano.

Il valore sociale e urbano delle attività che permette e permetterà di sviluppare, è ciò che motiva e giustifica sia il suo mantenimento da parte della comunità, sia la dotazione economica ricevuta per il suo consolidamento in un elemento architettonico permanente. Progetti come la Cúpula de las Letras dimostrano l’efficienza economica e socioculturale di proposte che si impegnano a promuovere la convivenza e la collaborazione, basate e calibrate sulle realtà locali e coordinate con gli agenti sociali già operanti sul territorio, al fine di promuovere ambienti più inclusivi e sostenibili.*

NOTE 1 – Gli autori hanno appreso e consolidato il paradigma di un’architettura “dal basso” anche a partire dalla visione di Teddy Cruz, tanto da arrivare ad intervistarlo nel suo atelier in California durante un viaggio culturale finanziato con una borsa di studio dell’Ordine degli Architetti di Pordenone. Nell’intervista, pubblicata nel catalogo Quaderni di Viaggio, Cruz afferma infatti che “tanti quartieri, tante comunità marginali nel mondo sono rimasti centri di produzione culturale” (Zorzetto in APPC Pordenone, 2012, p. 25). Questi concetti vengono tutt’oggi approfonditi e ampliati dallo stesso Cruz, come dimostra la sua più recente monografia Socializing Architecture: Top-Down / Bottom-Up (Cruz & Forman, 2023). 2 – La Cecla conia il termine “mappe mentali” come la somma delle soglie, le preesistenze, le memorie, le mappe del futuro e via dicendo, della comunità insediata sul territorio d’intervento (La Cecla, 1993, p. 70).

REFERENCES

– de Certeau, M. (2001). L’invenzione del quotidiano. Roma: Edizioni Lavoro.

– La Cecla, F. (1993). Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare. Milano: Elèuthera.

– Sennett, R. (2019). Building And Dwelling: Ethics for the City. London: Penguin Books.

– Staid, A. (2017). Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini dell’occidente. Milano: Milleu Edizioni.

– Ulivieri, D. (2022). Paradigmi di architettura vernacolare in Toscana. Pisa: Pisa university press.

03. La cupola, il patio e il quartiere | The dome, the patio and the neighborhood. F. Alda

Ciro Priore

PhD in Architettura degli Interni, Università degli Studi di Napoli Federico II. ciro.priore@unina.it

Self-Building as Self-Determination

Through the example of AVL-Ville, the aim is to highlight the antagonistic and radical approach of Atelier Van Lieshout, which provided a constant critique of an over-designed and hyper-productive society — one driven by an idea of individual freedom, equality, and an art not to be merely observed, but lived, coexisted with, and lived from. It proposed a vision of society in which the only permissible form of design was self-design and the only acceptable form of determination was self-determination.*

telier Van Lieshout (AVL), lo studio artistico multidisciplinare, fondato da Joep a Rotterdam nel 1995, si è reso noto per i numerosi tentativi di stirare i confini tra l’arte scultoria, la sopravvivenza e il design. Attraverso una produzione ricca e articolata, Joep Van Lieshout ha interrogato i concetti di autorità e gerarchia, traducendo queste riflessioni in opere, installazioni, oggetti, sculture, unità abitative e persino intere città: questo è il caso dello Stato Libero di AVL-Ville, un esperimento di vita autonoma e indipendente da qualsiasi altra struttura politica, fondato nel 2001, nei pressi del porto di Rotterdam. Qualche anno prima AVL era stato incaricato di disegnare il piano urba-

nistico per la città olandese di Almere e aveva approcciato al progetto elaborando un piano per un piccolo stato indipendente e isolato dal resto del paese (Allen e Van Lieshout 2001).

La città, fondata nel 1969 sull’isola di Flevopolder, si presentava come un tipico distretto suburbano caratterizzato da una popolazione di pendolari che si muoveva tutti i giorni tra la casa e il lavoro (che spesso era a Utrecht o ad Amsterdam).

Invece di costruire 30mila nuove case, come richiesto dall’amministrazione locale, AVL aveva rilanciato proponendo di fornire a ognuno dei nuovi abitanti una casa mobile, costruita

grazie alla fondazione di una fabbrica locale. Così facendo, non solo la città avrebbe potuto sviluppare una propria economia ma, in conseguenza della possibilità di posizionare la propria casa in qualsiasi luogo, sarebbero venute meno tutte le regole di zonizzazione e gestione urbana.

Quando la proposta “sfortunatamente – o forse fortunatamente” (Allen et al., 2007, p. 95) fu respinta, AVL decise di riproporre il piano per uno Stato Libero su un terreno vuoto ottenuto con la scusa di realizzare un museo a cielo aperto. Lo Stato Libero “divenne un mix suggestivo di santuario e sito artistico, popolato dalle opere di AVL”

Autocostruzione come autodeterminazione

L’esperienza

corporea dello Stato Libero di

AVL-Ville

01. Workshop for Weapons and Bombs, Atelier van Lieshout. FaceMPLS, 2022

Autodeterminarsi implica non avere

luogo, non avere vincoli, non avere gusto.

Unica eccezione è il proprio stesso

corpo

(Allen et al., 2007, 95): era di fatto una comune autosufficiente, dotata di una propria bandiera, una propria valuta e una costituzione autonoma. Quest’ultima delineava chiaramente gli obiettivi del progetto già dagli articoli fondamentali: l’articolo nove garantiva a ogni individuo “il diritto di creare autonomamente il proprio alloggio all’interno del territorio dell’AVL-Ville” (Allen et al., 2007, 120), senza restrizioni di luogo o di mezzi, mentre l’articolo dieci sanciva “l’immunità sul corpo e sullo spirito”, riconoscendo a ciascuno “la possibilità di disporne a propria discrezione, con o senza l’aiuto di mezzi artificiali” (Allen et al., 2007, 120). In questo modo, il piccolo stato autonomo sarebbe stato un esperimento artistico in cui, sperimentando in prima persona, mettendo in gioco nient’altro che il proprio corpo, ognuno sarebbe andato alla ricerca del proprio personale dispositivo domestico autonomo. Al contrario dell’irrealizzabile proposta per Almere, AVL-Ville era perfettamente funzionante: “non un’arte da osservare, ma un’arte in cui vivere, con cui vivere e da cui vivere” (Allen et al., 2007, p. 95).

Presupposti

Nel primo disegno che l’Atelier aveva allegato al piano urbanistico di Almere, subito dopo lo schema della piccola fabbrica per l’autoproduzione delle unità abitative (Blast Furnace, 1998), si mostrava il proprietario della prima

casa mobile − Autocrat − di ritorno da una battuta di caccia, mentre le sue mogli lavoravano la terra.

Nella visione successiva (Artillery Farm), cinque anni più tardi, lo sguardo si allargava a un pezzo più grande di città, dove era stata costruita un’officina per la produzione di arredi, una stalla, una casa colonica, un dormitorio e un’armeria per la produzione di esplosivi. Autocrat sarebbe stato trainato da una Mercedes accessoriata di armi e cannoni. La casa colonica sarebbe stata provvista di un bagno con doppia tazza, per poter ricevere compagnia anche durante i momenti più intimi. Lo spazio comune conteneva un grande tavolo da pranzo, mentre la cucina mostrava, oltre al buon cibo,

anche un arsenale di coltelli, granate e mitragliatrici. Armi da caccia o da guerra erano una costante di tutti i disegni, come a sottolineare una delle ipotesi di AVL: cioè che le persone che avrebbero deciso di abitare Lo Stato Libero, definite “idealisti radicali”, sarebbero state “pronte a morire per i loro ideali” (Allen et al., 2007, p. 94).

A differenza di come gli veniva chiesto di fare dall’amministrazione di Almere, insomma, AVL si svincolava dalla difesa e dalla gestione della proprietà privata, proponendo uno stato autarchico e senza regole, i cui membri condividevano vita e lavoro: tutti sarebbero stati pronti a spendersi – e morire – in prima persona solamente per il proprio benessere e le proprie

02. AVL Ville, Atelier van Lieshout. Veertje, 2011

pulsioni. Quella proposta da Atelier Van Lieshout, insomma, è una forma di società tipicamente anarchica in cui qualsiasi forma di organizzazione politica è stata sostituita dall’organizzazione di sé stessi.

Dal momento dell’istituzione dello Stato Libero di AVL-Ville, Joep Van Lieshout e il suo collettivo avevano progettato e autocostruito, in prima persona, ogni manufatto presente sul terreno della Ville, dalle unità abitative alle mitragliatrici. Per un anno, nel porto di Rotterdam, i membri dell’AVL hanno condiviso vita e lavoro, abitando case mobili, gestendo una fattoria biologica, un ristorante e una distilleria clandestina.

Il loro approccio antagonista e radicale forniva una costante critica nei confronti della società ultraprogettata e iperproduttiva: tutto era mosso da un’idea di libertà individuale e di esasperata uguaglianza. Si proponeva una visione della società in cui l’unica forma di progettazione ammissibile fosse l’autoprogettazione; in cui l’unica forma di determinazione ammissibile fosse l’autodeterminazione.

Prima regola: ovunque

Il modulo alla base di tutto il progetto era Autocrat, un bungalow verde leggermente rialzato da terra, fornito di rimorchio e portelloni. Era stato il

primo prototipo realizzato dallo studio nel 1997, per poi essere installato nella AVL-Ville qualche anno dopo. Si trattava sostanzialmente di un rimorchio di sopravvivenza, capace di adattarsi alla vita in luoghi remoti, lontani dalla società consolidate.

Rivestito in pannelli di legno, l’intera abitazione si presentava piuttosto spartana: mentre l’interno, infatti, sembrava essere solamente una cellula utile a riposare, l’esterno si presentava come il vero e proprio spazio domestico che suggeriva la possibilità di abitare all’aperto.

La costituzione stessa, oltre ad essere concepita come un decalogo di non-regole, sembrava infatti suggerire alcune modalità di ingaggio per l’abitabilità del grande spazio libero di cui disponeva la Ville: oltre ad autoprogettare e autocostruire la propria casa, qualsiasi abitante dello Stato Libero di AVL-Ville avrebbe avuto il diritto – e il suggerimento – di autoposizionarla. Qualsiasi terreno vuoto avrebbe potuto essere una “proprietà in potenza” quindi, per definizione, una non-proprietà. Qualsiasi casa avrebbe potuto essere lì e qua, adesso o più tardi, a seconda delle necessità o delle volontà di chiunque.

L’idea di massima mobilità è certamente una delle più importanti intuizioni dell’AVL-Ville: lì dove non c’è

La vita ad AVLVille era basata esclusivamente sulla difesa e la gestione dell’unica proprietà che potesse realmente appartenere unicamente ai propri abitanti: il corpo

proprietà non c’è domicilio, e dove non c’è domicilio non c’è luogo. Dove non c’è luogo non c’è vincolo, dove non c’è vincolo non c’è regola, e dove non c’è regola non c’è gusto: autodeterminarsi implica non avere luogo, non avere vincoli, non avere gusto. Unica eccezione è il proprio stesso corpo.

Il corpo come unico bene

La vita ad AVL-Ville era basata esclusivamente sulla difesa e la gestione dell’unica proprietà che potesse realmente appartenere unicamente ai propri abitanti: il corpo. Sperimentando in prima persona la fame, la fatica e la violenza, tramite il proprio corpo, ognuno sarebbe andato alla ricerca del proprio personale dispositivo domestico autonomo, fino a raggiungere un equilibrio pacifico, ordinatore della società.

Il corpo, oltre a essere principio ordinatore, era anche interpretato come forma di sopravvivenza e sostentamento.

Con la necessità di rendersi indipendenti dal sistema capitalista, di sfuggire alle leggi e ai bisogni generati dalla società industriale, AVL proponeva una comunità autarchica “in cui gli effluvi collettivi e raccolti producono il cibo che mantiene in vita gli abitanti” (Betsky 2007, p. 23). Il corpo umano, insomma, proprio come proposto nel successivo progetto Slave City del

03. AVL Ville, Atelier van Lieshout. FaceMPLS, 2022

2005, oltre a essere motore e macchina per costruire è vera e propria fonte di energia e sostentamento. Così come Peter Singer (1975) arrivò a sostenere che l’unico modo per dare valore alla vita vuol dire associare quest’ultima al concetto di corpo, di sofferenza e di possibilità di percezione, allo stesso modo tutto il lavoro di AVL sembrava in qualche modo fare i conti con la possibilità del “massacro”, inteso come elemento catartico, in grado paradossalmente di allontanare la necessità della violenza (Singer, 1975).

Josep VL, ricordando che la macellazione del maiale faceva parte della vita del villaggio ed era seguita da una festa che coinvolgeva tutto il vicinato, sosteneva che l’allontanamento del pensiero della morte dalla società aveva avuto come effetto un’intensificazione del bisogno di violenza. Per scongiurare quest’ultimo, Josep si impegnava in prima persona nella macellazione degli animali, riconoscendo in questi la capacità di ricordargli la corporeità del proprio stesso corpo (Atelier Van Lieshout 1997, p. 212).

La macellazione degli animali, insieme all’essiccazione, alla salatura, all’affumicatura e alla marinatura della carne, erano talmente importanti per il sistema AVL-Ville che erano le uniche mansioni a essere state descritte, oltre alle tecniche di autocostruzione, nei manuali di AVL (Atelier Van Lieshout 1997).

Manuali

Con la consapevolezza che non c’è limite all’autonomia che non sia la propria forza e la propria conoscenza, AVL ha prodotto e distribuito una serie di manuali che offrono descrizioni dettagliate, passo dopo passo, su come creare un’opera d’arte o un mobile in poliestere, come costruire la propria casa in modo semplice ed economico, oltre a come macellare animali e conservare/preparare la carne: insieme all’istituzione dello Stato Libero di AVL-Ville potrebbero essere visti come la sua opera più politica.

Esistono, nel mondo dell’arte, precedenti storici di diffusione di manuali

con approcci simili: gli artisti del collettivo Fluxus e, successivamente, gli artisti concettuali avevano già elaborato schemi e istruzioni dettagliate, la cui esecuzione da parte di terzi portava alla realizzazione di opere d’arte.

Tuttavia, i manuali di Van Lieshout vanno oltre la semplice produzione di un risultato predefinito. Non sono strumenti pensati per replicare fedelmente il suo metodo di lavoro, ma piuttosto per consentire la creazione di oggetti che sfuggono sia alle logiche del mercato sia all’ideologia dell’artista. Si tratta di una critica che riconosce la realtà del mondo contemporaneo, ma che al tempo stesso dimostra come sia possibile sottrarsi alle dinamiche imposte dallo Stato, dal mercato e dalla tecnologia. Basta solo avere la volontà di agire e mettersi all’opera.

Grazie ai manuali, l’eredità di AVLVille si estende oltre i suoi confini fisici e temporali: il progetto continua a interrogare e a ispirare, dimostrando che l’arte non è solo un prodotto del sistema, ma può diventare uno strumento di emancipazione e di trasformazione sociale. I manuali di AVL, così come le sue sperimentazioni urbanistiche, suggeriscono che il cambiamento non è solo auspicabile, ma praticabile, a patto di essere disposti a mettere in discussione le strutture esistenti e ad agire con determinazione.*

Qualsiasi terreno vuoto avrebbe potuto essere una “proprietà in potenza” quindi, per definizione, una non-proprietà

REFERENCES

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– Atelier Van Lieshout (1997b), New Tribal Labyrinth Rotterdam: Frame Publishers.

– Allen, J., Betsky, A., Laermans, R., Vanstiphout, W. (2007). Atelier Van Lieshout. Rotterdam: NAi Publishers.

– Allen, J., Van Lieshout, J. (2001). Up the organization. Artforum, n. 39 (8), pp. 104-109.

– Betsky, A. (2007). The Deformation of Everyday Life: A Short History of Joep van Lieshout’s Architecture In Allen et al. (ed.) Atelier Van Lieshout.Rotterdarm: NAi Publishers, pp. 21-27.

– Singer, P. (1975). Liberazione animale. Il manifesto di un movimento diffuso in tutto il mondo. Milano: Il Saggiatore.

04. AVL Ville, Atelier van Lieshout Rotterdam. Gouwenaar, 2008

Dwelling the Modification In contemporary society, the organisational dynamics of territories and those related to the architectural components are highly influenced by environmental, social and economic changes. Especially in informal contexts, one of the commitments architecture will have to face will be to design in a resilient way. Specifying the importance of residential aspects in the resilient development of the anthropized environment, the paper examines the difficulties that architectural design may encounter in using resilience as a paradigm for modifying the built environment.*

Abitare la modificazione

Informalità e resilienza nel progetto della residenza contemporanea

Introduzione

Negli ultimi decenni il concetto di resilienza ha acquisito una crescente popolarità che ha portato in ambito scientifico a un reiterato utilizzo del termine. In seguito all’ecologia e all’ingegneria, discipline come l’economia e le scienze sociali hanno fatto ricorso alla resilienza per studiare l’evoluzione di alcune teorie proprie dei rispettivi campi di studio (Montenegro, 2010), mentre solo in tempi più recenti l’architettura ha virato verso la ricerca di un atteggiamento propriamente resiliente tracciando un percorso che oggi è decisamente osservato e in fase di studio.

Dal punto di vista terminologico, lo sviluppo di strategie resilienti ha determinato la comparsa di 25 differenti definizioni della medesima nozione. Tali descrizioni si concentrano perlopiù sulla teoria della persistenza delle condizioni dell’ambiente urbano tralasciando l’idea che la città possa essere interessata da un processo di cambiamento (Meerow et al., 2016). Ampliare lo spettro di interpretazione di siffatto principio verso un’esegesi maggiormente trasformativa significa tuttavia consentire ai territori antropizzati di interfacciarsi alla resilienza secondo un approccio alternativo. Alla

Prediligere

l’evoluzione alla sopravvivenza sposta il punto dalla persistenza alla modificazione

01. Esposizione alla Biennale Architettura 2016 di Venezia del sistema flottante MFS II. | Exhibition at the 2016 Venice Architecture Biennale of the MFS II floating system. L. Hayes

luce dell’avvio di una stagione in cui l’equilibrio tra certezza e incertezza pare non possa essere più garantito, considerare una serie di circostanze che spingono a una lettura dell’ambiente costruito in termini di informalità diventa un’urgenza. Prediligere l’evoluzione alla mera sopravvivenza sposta perciò il punto della questione dalla persistenza alla modificazione, e apre lo scenario a un’interpretazione progettuale che rimarca la relazione tra l’oggetto e il suo contesto di appartenenza e che evita di precludere le possibilità di sviluppo architettonico.

Obiettivi

I drammatici eventi provocati dall’emergenza climatica, la scarsità sempre più evidente delle risorse disponibili e le differenti modalità di accesso rappresentano alcune tra le più critiche minacce che incombono sullo sviluppo della città contemporanea. Considerando che le città possiedono già una propria e innata capacità rigenerativa, fissare l’obiettivo della mera soprav-

vivenza e parlare di resilienza urbana esclusivamente in termini di rischio rappresenta, per la disciplina architettonica, un limite operativo. La letteratura che ha affrontato criticamente il

È necessario che la resilienza del progetto trovi una coerenza

tema dello sviluppo resiliente dell’ambiente costruito propone una sua revisione avanzando l’idea di relazionalità e offrendo un’interpretazione della città come sistema urbano dotato di un’indole votata all’inclusione di prospettive adattive affini ma distinte. La ricerca della resilienza in termini architettonici assume perciò l’aspetto di un processo

interdisciplinare che porti a ragionare in termini complessi propriamente detti al fine di esplorare non soltanto le capacità reattive, adattive e di recupero dei sistemi urbani, ma anche quelle legate a una loro possibile trasformazione (Olazabal et al., 2012). Rielaborando tale definizione, la città potrà essere definita resiliente non solo se si adatta, reagisce e attua strategie di recupero, ma soprattutto se si trasforma apportando una serie di adeguamenti che interessano tutti gli elementi del sistema urbano. Chiamando in causa l’impossibilità di considerare separatamente tessuto urbano e spazio dell’abitare, osservare la relazione di reciprocità tra città e residenza nel cammino verso la ricerca di un environment resiliente è un atto fondamentale. Così come la città è esposta a tensioni indefinite e a rischi ambigui, anche la residenza rileva il medesimo grado di tensione.

Approccio e metodi

Una delle direzioni maggiormente battute nello studio del rapporto tra

02. Planimetria dell’area di Makoko e localizzazione del sistema flottante MFS. | Plan of the Makoko area and localisation of the MFS floating system. M. C. Fusaro

resilienza e modalità insediative viene spesso tracciata lungo la declinazione degli aspetti economici della questione. Secondo Tipple (2006), poiché l’aumento della resilienza delle città è strettamente legato all’accessibilità economica degli alloggi, il raggiungimento della resilienza dello spazio urbano è congiunto al contenimento dei costi delle abitazioni. Sottrarre da tale corrispondenza gli aspetti qualitativi del progetto di architettura equivale tuttavia alla restituzione di una prospettiva parziale. Soprattutto in alcune aree geografiche caratterizzate da un alto grado di informalità, la qualità della residenza concorre direttamente allo sviluppo di un atteggiamento resiliente. In questo senso introdurre all’interno dello spazio abitativo una predisposizione alla dinamicità, alla potenzialità e all’indeterminatezza (Perriccioli e Ginelli, 2018) significa preparare la residenza ad affrontare le differenti possibilità di cambiamento. Talvolta la realizzazione di un progetto che sia contemporaneamente dina-

mico, potenziale e indeterminato può tuttavia incontrare svariate complicazioni. Eppure interrogarsi su simili questioni rappresenta un’occasione irripetibile per comprendere come operare in situazioni e contesti informali, potenzialmente non vantaggiosi, e di conseguenza sviluppare un marcato imprinting di resilienza.

Risultati e discussione

Negli ultimi 20 anni sono stati realizzati alcuni importanti progetti tramite i quali è possibile analizzare i concetti di modificazione e di resilienza. Un’interessante soluzione in cui le situazioni di svantaggio diventano un abile presupposto architettonico è fornita dal progetto del sistema flottante Makoko realizzato dallo studio NLÈ (img. 01).

L’elaborazione di un sistema galleggiante è stata ipotizzata per essere realizzato in quelle aree del mondo dove l’incertezza del rapporto vitale tra acqua e terraferma ha fatto sì che la vita venga organizzata entro confini mutevoli e informali (img. 02). Cercando una con-

cordanza tra i ritmi costruttivi dell’architettura e quelli talvolta imprevedibili dell’ambiente, è interessante notare come nel progetto i margini tipologici vadano oltre i soli aspetti residenziali e come la tecnologia costruttiva abbia previsto la creazione di un sistema in legno modulare riproducibile e assemblabile in tempi brevi senza l’utilizzo di particolari macchinari (img. 03). L’ambizione per cui all’informalità di un contesto spiccatamente indeterminato il progetto di architettura possa favorire una quota importante di resilienza può essere rintracciata anche nelle Full Fill Homes progettate da Anupama Kundoo a Auroville (img. 04). Lo spirito resiliente del progetto viene definito da una visione programmatica per cui la progettazione dello spazio abitativo è strettamente legata a fattori come l’incremento delle dimensioni, lo sviluppo di sistemi di autocostruzione e la caratterizzazione spaziale dovuta alle particolarità del materiale da costruzione, il ferrocemento. Incoraggiare la partecipazione ai lavori e integrare tale

04. Schema costruttivo delle Full Fill Homes. | Construction diagram of the Full Fill Homes. M. C. Fusaro
03. Schema costruttivo del sistema flottante MFS. | Construction diagram of the MFS floating system. M. C. Fusaro

attitudine con l’uso di materiali locali è una delle cifre del lavoro di Kundoo che guarda a una visione orientata alla riduzione dei costi totali di costruzione e a favorire l’impegno e lo sviluppo delle competenze della comunità (Kundoo, 2021) (img. 05). Il coinvolgimento degli abitanti, l’ausilio dell’autocostruzione, l’utilizzo di una logica incrementale di sviluppo degli alloggi di partenza e l’idea di costruire un insediamento in divenire rappresentano formidabili strumenti potenziali per la riuscita di un’operazione che permette di garantire al territorio una quota di resilienza. Tra i riferimenti più ragguardevoli che nel passato recente hanno inaugurato il solco di tali direzioni i progetti per abitazione realizzati da Elemental in sud America rappresentano ancora importanti esperienze.

Nonostante le datazioni dei progetti, la loro considerazione deve essere intesa come punto di partenza per lo sviluppo di una riflessione sulla complessità del rapporto tra resilienza e modificazione dell’architettura abitativa. Dal lavoro di Elemental è possibile cogliere come lavorare con l’incertezza e l’informalità prefigurino “un’opera aperta […] sospesa tra presente e futuro, tra la sostanza del costruito e l’incertezza di quello che verrà” (Privitera, 2015, p. 52). Come detto, talvolta però non tutte le operazioni che incorporano nel processo progettuale simili dinamiche arrivano a una riuscita completa. A distanza di decenni, alcuni insediamenti abitativi sono ritornati a condizioni di precarietà simili a quelle che hanno reso necessaria l’opera facendo registrare nel complesso un peggioramento delle condizioni sociali che in origine erano state uno dei punti di forza degli interventi (O’Brien e Carrasco, 2021).

Conclusioni

Seppur dimostrativi, a partire dai progetti considerati possono essere estratte alcune considerazioni generali sul rapporto tra modificazione e resilienza. Il primo aspetto sul quale soffermarsi riguarda il concetto di partecipazione. Intesa come una “collaborazione tra progettista e pubblico dell’architettura” (Marini, 2020, p. 75),

l’esclusiva declinazione sotto forma di iniziativa self-made degli abitanti depotenzia il ruolo dell’architettura nella relazione tra scelta progettuale e condizione informale. Ulteriori valutazioni riguardano inoltre questioni legate alla scala degli interventi. Indagare il progetto di architettura e intendere l’atto dell’abitare come sistema di relazioni, ponendo la residenza al centro di un sistema policentrico, rappresenta un approccio particolarmente utile nei contesti informali. Pertanto se la natura complessa della resilienza si mostra su registri differenti, è necessario che la resilienza del progetto trovi anche una coerenza interscalare tra oggetto e contesto. Concetti come la modificazione, l’informalità e la resilienza non devono infatti superare solamente la prova della relazionalità o della sistematicità: il rispetto dei riferimenti storici e identitari dei territori è una componente imprescindibile per abitare in maniera resiliente. Ragionare attorno al progetto della modificazione permetterebbe perciò lo sviluppo resiliente degli artefatti costruiti attraverso il linguaggio della conoscenza del luogo: nella dialettica tra oggetto e contesto l’uno è vicendevole componente fondamentale dell’altro, e “il progetto diventa misura della qualità della modificazione che esso introduce” (Gregotti, 1984, p. 3). In conclusione, l’articolo evidenzia come associare l’idea di resilienza a quella di trasformazione sia una direzione necessaria per il progetto contemporaneo. Le esperienze progettuali riportate hanno il merito di mostrare come attraverso caratteristiche di flessibilità tipologica, temporaneità in termini di uso e autodeterminazione, e come tramite il contenimento dei costi di costruzione e l’utilizzo consapevole dei materiali, all’interno di un contesto informale il progetto della residenza abbia le potenzialità per raggiungere uno stato resiliente. Allo stesso tempo, ragionare criticamente in maniera induttiva su tali esperienze permette però di comprendere come tale processo, altamente complesso, sia ancora da sviluppare nel profondo per orientare in maniera lungimirante la pratica del progetto.*

All’interno di un contesto informale il progetto può ambire a raggiungere uno stato resiliente

REFERENCES

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– Meerow, S., Newell, J. P., Stults, M. (2016). Defining urban resilience: A review. Landscape and Urban Planning, 147, pp. 38-49. doi.org/10.1016/j.landurbplan.2015.11.011.

– Montenegro, M. (2010). Urban Resilience. Landscape Architecture Magazine, n. 100(7), pp. 70-77.

– O’Brien, D., Carrasco, S. (2021). Contested incrementalism: Elemental’s Quinta Monroy settlement fifteen years on. Frontiers of Architectural Research, 10(2), pp. 263-273. doi.org/10.1016/j.foar.2020.11.002.

Olazabal, M., Chelleri, L., Waters, J.J., Kunath, A. (2012). Urban resilience: towards an integrated approach (online). In Paper presentato alla 1st International Conference on Urban Sustainability and Resilience, Londra: UCL. Inresearchgate. net/publication/236236994_Urban_resilience_towards_ an_integrated_approach#fullTextFileContent (ultima consultazione luglio 2025).

– Perriccioli, M., Ginelli, E. (2018). Progettare per l’abitare: strategia e tattiche per affrontare il mutamento. In Lucarelli, M. T., Mussinelli, E., Daglio, L. (a cura di), Progettare Resiliente. Santarcangelo di Romagna: Maggioli Editore, pp. 97-104.

– Privitera, F. (2015). ELEMENTAL: Da Quinta Monroy a Conjunto habitacional Violeta Parra. Firenze Architettura, 19(1), pp. 52-59. doi.org/10.13128/FiAr-17615.

– Tipple, G. (2006). Housing, urban vulnerability and sustainability in rapidly-developing cities. Built Environment, 32(4), pp. 387-399. doi.org/10.2148/benv.32.4.387.

05. Full Fill Homes, vista interna del prototipo. | Full Fill Homes, interior view of the prototype. S. Giannesini

Ferrovia della Petite Ceinture 15ème arrondissement, Parigi

La natura trova sempre il modo di farsi spazio, di adattarsi, anche nei luoghi più urbanizzati. Le piante selvatiche crescono tra le crepe dell’asfalto, lungo i marciapiedi, sulle rotaie e perfino sui tetti. Queste cosiddette “erbacce” sono molto importanti, ad esempio, migliorano la qualità dell’aria oppure offrono rifugio agli insetti impollinatori. Le piante selvatiche ci ricordano che la natura – compresa quella umana – possiede una straordinaria capacità di resilienza: non tutto può essere controllato o pianificato.*

Petite Ceinture railway 15ème arrondissement, Paris

Nature always finds a way to make space for itself, to adapt — even in the most urbanised places. Wild plants grow through cracks in asphalt, along pavements, on railway tracks, and even on rooftops. These so-called “weeds” are very important: for example, they improve air quality and provide shelter for pollinating insects. Wild plants remind us that nature — including human nature — has an extraordinary capacity for resilience: not everything can be controlled or planned.*

Letizia Goretti

Seguire lo smoking

All’inizio, piuttosto prevedibilmente, fummo bloccate fuori dalla porta. Il portiere ci lanciò un’occhiata e ci fermò, quasi ridendoci in faccia. Eravamo vestite più o meno allo stesso modo: una maglietta sudicia con una scritta sul petto, un paio di jeans tagliati all’altezza delle cosce, occhiali da sole e infradito. Non mi intendevo molto di ristoranti, ma era chiaro che ci trovavamo in un quartiere esclusivo e persino io capivo che il nostro abbigliamento non era all’altezza del luogo.

“Siamo invitate a cena da Mr Wilder”, disse Gill, rispondendo al portiere che le aveva chiesto di andarsene.

“Certo, come no” commentò l’uomo e distolse lo sguardo, ignorandoci, per fissarlo invece sulla strada.

sullo scaffale

Indossava un abito scuro completo di cravatta e aveva il viso lucido di sudore per il caldo.

“È stato lui a invitarci” insisté Gill. “Miss-ter Wild-der” sillabò.

Il portiere le lanciò un’altra occhiata, poi, con un sospiro di disprezzo, girò sui tacchi e sparì all’interno. Tornò dopo un minuto, con un’espressione diversa, anche se non più amichevole.

“Qual è il nome?” chiese.

“Foley. Gill Foley.”

“Gill” ripeté, come se non riuscisse davvero a convincersi di farci entrare al ristorante. “D’accordo, andiamo.”

Fece un cenno con la testa e noi lo seguimmo all’interno. Ricordo ancora la sua struttura massiccia e ondeggiante mentre ci affrettavamo alle sue spalle e il rotolo di ciccia nella

parte posteriore del collo che premeva contro il colletto inamidato.

L’interno del ristorante aveva un che di assurdo, esattamente come la facciata. Fuori c’era il cielo azzurro e il sole incalzante tipico della California in pieno di luglio. Dentro, dopo essere passati in un piccolo ingresso (dove una ragazza pallida seduta a una scrivania stava per chiederci se volevamo lasciare qualcosa al guardaroba, per cambiare rapidamente idea dopo averci rivolto un’occhiata più attenta) ci si ritrovava in un ampio salone che sembrava appartenere a un altro mondo. Pannelli di legno scuro dai bordi smussati, lampadari di cristallo, specchi ovunque, il bancone del bar che correva lungo una parete. Tutto molto elaborato. [...] Il portiere ci consegnò al direttore di sala – un uomo con i baffi che indossava uno smoking piuttosto aderente ed era troppo professionale e educato per guardare di traverso il nostro abbigliamento inappropriato –, il quale girò sui tacchi e ci precedette, aprendosi un varco tra i tavoli con movimenti agili che denotavano una lunga pratica. Al nostro passaggio gli altri clienti interruppero le conversazioni per guardarci. Avevano le guance in fiamme.* A cura di Margherita Ferrari

Il giardiniere e la morte
Georgi Gospodinov Voland, 2025
Agosto blu Deborah Levy NNE, 2025
Un gruista in paradiso
Arto Paasilinna Iperborea, 2025

Una formalità

“È una questione di qualità, o una formalità Non ricordo più bene, una formalità”

CCCP, Io sto bene, Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi, 1986

Immagine di Emilio Antoniol

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