Paolo Vecchi, critico cinematografico, saggista, collaboratore del mensile «Cineforum», ha pubblicato presso Lindau Sciogliere e legare - Il cinema ungherese degli anni ’60 (1996), Lampi e speroni danzanti - Temi e atmosfere del western psicologico (2000, con Cesare Secchi), Cinenotizie in poesia e prosa - Zavattini e la non-fiction (2000, con Tullio Masoni), Diamanti della notte - Il cinema di Jan Nˇemec (2004), Disertori e nomadi - Il cinema di Juraj Jakubisko (2005).
IL CINEMA DI
Laluna,ifalò FrediM.Murer
acuradiPAOLOVECCHI
www.lindau.it
Fredi Melchior Murer
nato nel 1940 a Backenried, sul lago di Lucerna, si è formato presso il dipartimento fotografico della Scuola d’Arte di Zurigo. Fin dai primi titoli (Marcel 1962, Sylvan, 1965) ha saputo interpretare in maniera autorevole una marginalità in qualche modo walseriana, dando voce sia agli artisti (Chicorée, 1966; Bernhard Luginbühl, 1966; Sad-is-fiction, 1969) che ai montanari, visti un po’ come indiani delle riserve (Wir Bergler in den Bergen…, 1974). Il suo primo lungometraggio di fiction, Grauzone (1979), è una metafora complessa e raffinatissima dalle risonanze orwelliane. Raggiunge il capolavoro con Höhenfeuer (1985), Pardo d’Oro a Locarno, che, raccontando l’amore incestuoso di due fratelli isolati in una malga fuori dal mondo, riesce a elevarsi alla dimensione di tragedia classica. Tra le altre sue opere si segnalano Swissmade (1969, in 3 episodi, assieme a Yersin e Maeder), Der grüne Berg (1990), Vollmond (1998) e Downtown Switzerland (2004). Il suo ultimo lungometraggio Vitus (2006), interpretato da Bruno Ganz e presentato ai festival di Berlino, Locarno, San Sebastian e Roma – dove si è aggiudicato il Premio del pubblico nella sezione «Alice nella città» – è annunciato in distribuzione in Italia. Murer è anche produttore, sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore, attore, nonché un brillante artista grafico.
In copertina: Fredi M. Murer sul set di 2069 - Swissmade, sul retro due fotogrammi da Höhenfeuer e Sad-is-fiction
Direzione Generale per il Cinema - Ministero per i Beni e le Attività
Culturali
Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Triveneto
con il contributo di
Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia - Assessorato all’Istruzione e Cultura
Direzione Generale per il Cinema - Ministero per i Beni e le Attività
Culturali
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CEI (Central European Initiative)
Camera di Commercio Industria, Artigianato e Agricoltura di Trieste
Comune di Trieste - Assessorato alla Cultura
Air Dolomiti
Provincia di Trieste
Fondazione CRTrieste
Fondazione Mediterraneo
In particolare, l’omaggio a Fredi M. Murer è stato realizzato con il prezioso sostegno di Swiss Films
Istituto Svizzero di Roma
LALUNA, I FALÒ
Il cinema di Fredi M. Murer
volume a cura di Paolo Vecchi
cura editoriale del volume
Barbara Zileri per Lindau
traduzioni
Graziella Fantini, Angela Nardone, Amei Teupel, Paolo Vecchi, Christian Zullino
il materiale fotografico proviene da Fredi M. Murer, Swiss Films
Gli scritti di Fredi M. Murer sono tratti da Fredi M. Murer, Pro Helvetia Dossier Cinéma, Zürich 1980; Fredi M. Murer, Höhenfeuer, Edition Baumann & Stromer, Zürich 1986; Martin Schaub (a cura di), Fredi M. Murer - «Vollmond», Benteli Verlag, WabernBern 1998; Martin Schaub, Fredi M. Murer - The Handwriting of the Senses, Pro Helvetia, Zürich 1998
Il volume è edito in occasione della 18ª edizione del Trieste Film Festival a corredo dell’omonima rassegna cinematografica curata da Paolo Vecchi
si ringrazia per aver concesso i film
Fredi M. Murer, Swiss Films
Un particolare ringraziamento per la fattiva collaborazione e la costante attenzione a Peter Da Rin (Vice direttore della Swiss Films) e a Domenico Lucchini (Direttore Culturale dell’Istituto Svizzero di Roma)
Si ringraziano anche Pietro Lanzoni, Mariano Morace e Gianni Muzzini
LALUNA , IFALÒ
ILCINEMADIFREDIM . MURER
INTERVISTAE SAGGI
Story board di «Höhenfeuer»
I FILM ATTRAVERSANO LAMIAVITA
COME PONTI
CONVERSAZIONE CON FREDI M. MURER
a cura di Paolo Vecchi
Potremmo cominciare dall’inizio, con Beckenried, il lago di Lucerna, Nidwalden e Uri…
Sono il più giovane di sei fratelli e sono cresciuto in una casa proprio sulle sponde del lago. Mia madre aveva una sartoria e nel tempo libero scriveva romanzi; mio padre era un costruttore di mobili e un inventore geniale. Mia nonna mi cantava i Lieder di Schubert e mi ha insegnato a contare i soldi. Uscivo di casa con la mia canna da pesca, me ne andavo al lago e tornavo pieno di pesci per tutta la famiglia. Per farla breve, ho avuto un’infanzia felice. Me ne rendevo conto già a cinque anni e speravo che il tempo si fermasse e che non mi toccasse andare a scuola come i miei fratelli. I miei film sono forse proprio un tentativo di conservare la purezza di quello spirito.
Che influenza ha avuto su di lei la frequentazione della scuola cattolica?
Una volta – avevo otto anni – chiesi al parroco durante l’ora di religione come avesse fatto il genere umano a riprodursi se Adamo ed Eva avevano avuto solo due figli. La domanda dovette sembrargli eccessiva, perché il prete mi rispose con un bel pugno in faccia. Mi ritrovai per terra sotto il banco, privo di sensi. Questa spiacevole esperienza non solo non mi ha reso più ubbidiente o più pio, ma ha risvegliato in me una forte avversione nei confronti dei rappresentanti della Chiesa e di ogni altra autorità. Più tardi, ai tempi delle medie, fondai insieme a due miei amici un circolo letterario segreto in cui leggevamo Darwin, Schopenhauer, Nietzsche ecc. Guardando indietro ai tempi della scuola, spero di non aver mai svestito i panni di quell’eterno antagonista del sistema.
Poi c’è stato l’impatto con Zurigo, città nella quale Martin Schaub dice che lei è arrivato come una sorta di Kaspar Hauser…
Quando a diciassette anni lasciai il mio Cantone, Uri, nella Svizzera centrale, per trasferirmi a Zurigo e frequentare la Scuola d’Arte, mi sentivo come una spugna asciutta appena gettata in mare. Potevo finalmente soddisfare la mia sfrenata curiosità per tutto ciò che era cultura, politica, società: oltre a studiare, trascorrevo gran parte del mio tempo al cinema, a teatro, a conferenze politiche, a lezioni universitarie di psicologia, etnologia, storia dell’arte…
Può parlare del clima culturale dell’epoca, degli artisti con i quali è venuto a contatto; in particolare, dell’influenza che ha avuto su di lei Serge Stauffer?
Il clima alla Scuola d’Arte (1958-63) era per me come quello di una serra. Dopo i deprimenti anni ’50, si imponeva finalmente nell’arte un atteggiamento nuovo, molto coraggioso, aperto alla sperimentazione. Serge Stauffer, il mio insegnante di fotografia (oltre che grande conoscitore di Marcel Duchamp), è stato per me una grande fonte di ispirazione, è stato quello che mi ha guidato tra i vari movimenti e correnti di pensiero in ogni campo artistico dell’epoca. Per citare un esempio, è stato lui a portarmi per la prima volta al Festival del Film Sperimentale di Knokkele-Zoute, in Belgio, una manifestazione che oggi è diventata leggendaria. Una vera rivelazione per me!
Lei nasce come artista grafico e fotografo. Quale è stato lo stimolo che lo ha spinto verso il cinema?
Tra gli artisti con cui avevo un rapporto d’amicizia e su cui ho fatto dei film voglio ricordare: il surrealista H.R. Giger, che successivamente avrebbe curato la scenografia e progettato il mostro per il film Alien; il poeta e autore Urban Gwerder; lo scultore Bernhard Luginbühl. Ho conosciuto di persona anche Max Frisch, la cui energia artistica e il cui pensiero politico mi hanno molto ispirato. Altrettanta influenza hanno avuto su di me anche i grandi registi europei: Francesco Rosi, Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Ingmar Bergman, Luis Buñuel.
P. VECCHI
Marcel, Balance e Sylvan, i suoi primi cortometraggi, si muovono sulla falsariga delle avanguardie storiche: surrealismo, espressionismo, cinema rivoluzionario sovietico (per inciso, lei ha definito il primo un plagio di Ejzenštejn in super8)…
Durante il mio tirocinio in disegno scientifico nel 1960, avevano organizzato nel museo della Scuola d’Arte una mostra dal titolo «Der Film». Mi feci una scorpacciata di classici, da La Conquête du pôle di Georges Méliès a I figli della violenza di Luis Buñuel, passando per Rapacità di Erich von Stroheim. Ma la scintilla decisiva scoccò quando vidi il film L’uomo di Aran, di Robert J. Flaherty. Nella mia testa qualcosa si illuminò e da quel momento sapevo che il cinema sarebbe stata la mia vocazione.
I miei primi film furono muti, da una parte perché all’epoca le mie idee per raccontare storie non prevedevano le parole, ma solo le immagini, e dall’altra perché i miei mezzi tecnici erano veramente primitivi (macchine da presa a 8mm e 16mm senza sonoro). Per non parlare delle attrezzature audio, di cui ero completamente sprovvisto. Quando ero un giovane fotografo, ero molto affascinato dai film muti russi; in particolare mi avevano colpito la struttura dell’immagine e della luce nelle opere di Dovženko, Pudovkin e Ejzenštejn.
In Marcel si affaccia già il tema del volo che ritroviamo in Vitus…
Si tratta di una bellissima quanto casuale coincidenza; nessuna connessione premeditata tra il primo e l’ultimo film (mi auguro, tra l’altro, che Vitus non sia la mia ultima opera). Anch’io, come tutti i bambini, da piccolo sognavo di volare, e una volta mi sono costruito una specie di deltaplano col quale (come Icaro) mi sono lanciato e sfracellato al suolo, procurandomi una frattura cranica. Diciamo che la caduta (seppur finta) di Vitus col suo deltaplano ha in sé qualcosa di autobiografico.
In Sylvan lei usa, tra le altre, musiche di Bernard Herrmann.
Sylvan è una sorta di ballata da cantastorie piuttosto macabra. La particolarità (cinematografica) di questo cortometraggio risiede nel fatto che tutti e cinque i personaggi (nonno, padre e tre figli) sono interpretati
dallo stesso attore. Quello che mi interessava allora era capire come le stesse immagini trasmettessero un messaggio e avessero un effetto completamente diversi sullo spettatore con una diversa colonna sonora. Fu questo che mi portò agli «esperimenti sonori» di Sylvan. Per provare l’effetto drammaturgico della colonna sonora, presi dieci tracce musicali diverse da altrettanti soundtracks già esistenti, tra cui quella di Psyco di Hitchcock.
Con Chicorée, Bernhard Luginbühl e Sad-is-fiction lei continua a muoversi nel campo delle arti figurative. Mi sembra però evidente che non si possa parlare di documentari, piuttosto, semmai, di arte concettuale. Personalmente, trovo molto appropriata e suggestiva la definizione che lei ne ha dato: «Dei duelli creativi tra me che stavo dietro la mdp e loro che le stavano davanti».
Quando ero un giovane cineasta volevo per così dire reinventare il film. Il mio desiderio era sempre quello di fare fiction, però non nel modo tradizionale. Volevo creare un genere diverso. Piuttosto che monotoni attori, cercavo dei volti autentici, unici, che fossero contemporaneamente i miei attori ma anche i miei co-autori. Da un lato recitavano sé stessi, dall’altro interpretavano il ruolo che io avevo loro assegnato. Erano duelli davvero creativi e innovativi.
Veniamo al suo primo lungometraggio, Wir Bergler in den Bergen sind eigentlich nicht schuld, dass wir da sind. Rivedendolo, mi si è rafforzata l’idea che me ne ero fatto, dei montanari come una sorta di indiani delle riserve: con una loro democrazia di base, un rapporto stretto con la natura e con una cultura materiale arcaica, dei rapporti umani e familiari improntati al concetto di comunità, i contatti con il resto del mondo che passano attraverso il momento del mercato, il governo, centrale e cantonale, sentito come entità lontana se non ostile, la coscienza nemmeno tanto oscura del proprio anacronismo…
I miei nonni paterni erano contadini di montagna, ma quello stile di vita lo conoscevo solo dai racconti di mio padre. Quando il mio vecchio morì, al suo funerale c’erano centinaia di contadini di montagna. Appresi da loro delle storie incredibili sul conto di mio padre. Lui era per loro una specie di avvocato, scriveva le lettere e riempiva moduli per tutti. Quando andai a trovare qualcuno di questi montanari nelle loro fattorie
P. VECCHI
sperdute, capii che nelle immediate vicinanze da dove ero cresciuto viveva una popolazione arcaica che mi ricordava tantissimo gli eschimesi o gli indiani d’America dei miei libri d’infanzia, a parte il fatto che parlavamo la stessa lingua. Nel loro modo di pensare e di comportarsi ritrovavo parecchi elementi magico-animistici. Mi sembrava di essere andato a trovare i miei avi. Così nacque in me il desiderio di realizzare un film, ma non un film su di loro, bensì con loro: volevo che fossero protagonisti e dar loro la parola. Questo film è un omaggio a mio padre e a tutta la comunità atavica di Uri.
Il segno linguistico del film mi sembra la panoramica, che diventa un vero tour de force nel finale, durante la riunione «comunitaria».
In L’anello d’oro sopra Uri di Eduard Renner, un libro per me molto importante, l’autore parla in un capitolo proprio delle componenti magico-animistiche dei modelli comportamentali e di pensiero dei montanari urani. Scrive Renner che per loro «l’anello», vale a dire disegnare un cerchio o anche descriverlo con gesti corporali, poteva scacciare gli spiriti maligni. Da questo trassi l’idea di tradurre cinematograficamente «l’anello» in una panoramica di 360°, oppure di girare con la cinepresa muovendomi in cerchio.
Con Grauzone lei approda infine al lungometraggio di finzione. Lei ha definito questo film un «documentario di finzione». Vuole spiegare meglio il concetto?
Da una parte la storia si basa su un fatto vero di spionaggio, dall’altra le vicende di Alfred e Julia sono mera finzione. Il film, però, l’ho girato nei luoghi veri e gran parte dei documenti (segreti) sono autentici, documenti che ho ottenuto in modo illegale. Io stesso mi muovevo in una «zona grigia» e gli spiriti che la infestavano non tardarono a piombarmi addosso. Inizialmente erano intenzionati a trascinarmi in tribunale, ma alla fine hanno realizzato che il male minore era di lasciarmi in pace.
Il protagonista del film si chiama Alfred M., viene dalla Svizzera centrale, fa il tecnico del suono… Dunque, c’è molto materiale autobiografico?
No. All’epoca lo scrissi su un comunicato stampa: ho voluto dare al protagonista il mio stesso nome per evitare di diffamare qualcuno che eventualmente si chiamasse proprio come il mio personaggio.
Nel film, giocato sul vedere ed essere visti, ascoltare ed essere ascoltati, mi sermbra ci sia un’atmosfera in qualche modo orwelliana.
Sì. A 1984, il capolavoro di George Orwell, mi sono evidentemente ispirato sia per la realizzazione di 2069, episodio di Swissmade, che di Grauzone
L’occhio tagliato del cavallo è un omaggio a Buñuel. Aquale delle avanguardie, storiche o meno, si sente personalmente più vicino?
Nei primi anni ero follemente innamorato dal surrealismo. Un Chien andalou di Buñuel mi aveva talmente impressionato all’epoca (come tutte le sue opere, tra l’altro) che non ho potuto esimermi dal rendergli omaggio in Grauzone.
Parliamo di Höhenfeuer. Ame sembra, anche, la trasposizione in termini di fiction del materiale raccolto in Wir Bergler in den Bergen… e, insieme, l’esplicitazione di tensioni che a quel film apparivano sottese, la riproposizione, in termini astratti e assoluti, di temi che nel documentario erano comunque legati a una realtà storico-sociale.
Höhenfeuer è una fiction, una sorta di «tragedia greca», che (geograficamente) ho ambientato nella stessa identica regione in cui avevo ambientato Wir Bergler in den Bergen… Per dare quanto più possibile credibilità e autenticità a una trama piuttosto estrema come questa, basata su incesto e parricidio, ho voluto ambientare la storia in un contesto etnografico ben preciso. Conoscendo bene sia il paesaggio, sia l’arcaica mentalità dei montanari urani, ambientare Höhenfeuer nello stesso posto è venuto da sé.
Come lei anticipava, il film racchiude tutti gli elementi della tragedia: anacronismo, sproporzione, illuminazioni e lacerazioni nel rapporto tra uomo e natura, senso del magico. C’è, anche, un’ottica in qualche modo a-morale, o pre-morale…
P. VECCHI
Per rendere credibile una storia del genere, senza alcuna pretesa di moralismi, dovevo soddisfare due condizioni: l’isolamento geografico della famiglia, la sordità del ragazzo sin dalla nascita. Amio avviso, la moralità entra nella nostra coscienza attraverso le orecchie. Non avendo il ragazzo il dono dell’udito, è come se fosse un angelo innocente.
Il luogo, la situazione, il fatto stesso che il ragazzo sia sordomuto, tende ad assolutizzare lo sguardo come elemento di comunicazione. Anche qui ciascuno guarda ed è guardato, l’immagine e il gesto si sostituiscono alla parola. La scansione dei fotogrammi acquista la semplicità sacrale del muto.
La sordità del ragazzo viene compensata da una vista più sviluppata, più acuta. Ho cercato di rendere questo aspetto anche dal punto di vista cinematografico, attraverso l’utilizzo di specchi, binocoli da campo, cannocchiali ecc., che hanno un ruolo molto importante.
Pur nelle spezzature linguistiche interne, il film possiede una sua indubbia classicità, curioso approdo per un autore d’avanguardia.
Sono sempre stato attratto dall’avanguardia, anche se non mi sentivo necessariamente parte di essa. Piuttosto mi sono trattenuto troppo nel polverone che essa ha sollevato nell’arte cinematografica. Crescendo sempre più in me l’interesse per il teatro, accettai un incarico di assistente alla regia al Teatro di Zurigo, durante una rappresentazione scenica della Medea di Euripide diretta da Luca Ronconi. Per farla breve, fu l’incontro con Luca e contemporaneamente con Euripide a farmi dare a Höhenfeuer un taglio classico. La rilettura dei classici greci mi diede il coraggio di essere più radicale, laddove fino ad allora non ero andato al di là della forma e del contenuto.
Spesso vediamo le immagini riflesse negli specchi, quegli stessi che saranno velati alla morte dei genitori.
Quella di coprire lo specchio quando il morto è ancora in casa è un’antica usanza della regione di Uri, che del resto esiste anche in molte altre culture extra-europee e non cristiane. Mi piaceva molto il suo aspetto magico-animistico e ho voluto riportarla pari pari.
La sequenza iniziale, con le talpe prese in trappola, viene ad assumere un significato metaforico?
Sì, certo. È una sorta di prologo. I due ragazzi fanno una scommessa: quante talpe sono finite in trappola, una o due? Il Ragazzo alza un dito, Belli ne solleva due. Si mettono a scavare e scoprono che aveva ragione la ragazza: ci sono un maschio e una femmina. Un’anticipazione metaforica della conclusione del film.
Lei ha definito la non fiction Der grüne Berg «una forma cinematografica di democrazia diretta» e dedicato il film «ai nostri figli e ai figli dei loro figli». Può chiarire meglio questi due concetti?
I rifiuti radioattivi hanno la simpatica caratteristica di non essere smaltiti prima di 30 o 40 anni, anche se poi le radiazioni continuano per centinaia e migliaia di anni. Questi rifiuti rappresentano una minaccia assai minore per noi che siamo gli attuali fruitori dell’energia atomica che non per le generazioni future. I nostri figli erediteranno solo i pericoli del nucleare; non una singola «goccia» di energia, neanche per una lampadina. Eppure siamo in grado di andare indietro con la memoria, anche fino a un secolo fa con l’aiuto dei nostri nonni, ma, chissà perché, è come se ci mancasse un organo o un ricettore corrispondente nel nostro cervello che possa prospettarci il futuro. Noi viviamo secondo il principio: «Dopo di noi, il diluvio!». È per questo che ho dedicato il film ai bambini e ai bambini dei bambini.
Vollmond si ricollega per certi versi a Grauzone. È, a suo modo, un poliziesco, anche qui un fatto misterioso sconvolge una serie di esistenze…
Dopo la grave tragedia di Černobyl, mia figlia, che all’epoca aveva 13 anni, mi disse: «Papà! È ora che tu faccia un film sulla pericolosità degli adulti». Vollmond è un tentativo di soddisfare la richiesta di mia figlia.
Se Höhenfeuer era un film di terra, aria e fuoco, qui è l’elemento primordiale dell’acqua a caratterizzare la vicenda: l’incipit è costituito da un’impressionante ripresa subacquea, i ragazzi scomparsi vivono nei pressi di un lago, il commissario si chiama Wasser…
P. VECCHI
L’acqua è comunemente identificata con la vita. Senz’acqua non esiste più nulla. È lo stesso motivo per cui ho estremizzato la questione, portandola quasi ad absurdum
Il poliziotto, nella sua moralità risentita, ha qualcosa dei personaggi di Dürrenmatt. Che influenza ha avuto sul suo cinema questo grande scrittore?
Conoscevo personalmente Dürrenmatt. Apprezzo molto il suo linguaggio e il suo personalissimo universo poetico, come anche il suo humour nero e il suo sarcasmo, ma credo che la sua influenza sul mio pensiero sia stata lieve, o almeno inconsapevole, al contrario di Max Frisch. Trovo grandiosa l’opera che ci ha lasciato poco prima che morisse: Eclissi di luna.
Una battuta di dialogo recita più o meno: «Proteggici dalla superstizione e dalla televisione». Più in generale, tutto il film mi sembra attraversato da un profondo livore antitelevisivo.
Innanzitutto voglio premettere che adoro lo sport in TV (soprattutto quello in diretta), perché anch’io devo assistere a un gol o a un nuovo record mondiale nello stesso identico istante in cui lo vivono altri 70 milioni di persone. Se invece mi tocca guardare in TV una pellicola cinematografica, per me è come bere Champagne in una coppa di plastica.
Devo ammettere, in effetti, che come film-maker e produttore indipendente ho un rapporto piuttosto combattuto col mezzo televisivo.
Da un lato dipendo, nella buona come nella cattiva sorte, dal sostegno economico della televisione; dall’altro, l’influenza della TV sulla qualità dei film co-prodotti ha spesso un effetto livellante. Il motivo? Siccome la televisione non vive di buoni film, ma di buoni ascolti, il telespettatore intelligente non può scegliere tra le sceneggiature o i film più brillanti, ma deve fare i conti con i telespettatori più stupidi che abbassano la media e di conseguenza la qualità del prodotto.
La famiglia del primo rapito si chiama Escher. È un riferimento voluto ai trompe-l’œil di questo artista, a un gioco di combinazioni che, oltre che nelle immagini, si ripropone anche a livello di numeri?
Nei miei film si trovano continuamente richiami a questo o a quello, non pongo mai limiti, ma in questo caso il nome Escher è esattamente quello di un antico casato dell’aristocrazia zurighese. Sulla Bahnhofplatz (la piazza davanti alla stazione) di Zurigo si erge la statua di Alfred Escher, un visionario del primo periodo industriale.
Protagonista di Vitus è innanzitutto la musica: Schumann, ovviamente, ma anche Liszt, Ravel, Mozart… Grazie al contesto, è la prima volta che il suo cinema si sbilancia a favore di questa arte.
Sposo appieno l’idea di Nietzsche: «Senza la musica, la vita sarebbe un errore». Forse è un errore anche il fatto che io sia diventato un cineasta piuttosto che un pianista. Con Vitus anch’io ho realizzato uno dei miei sogni di bambino.
Qualche anno prima di dirigere il film, lei ha dichiarato: «I bambini sono i rappresentanti più credibili dell’onestà intellettuale… Continuo a pensare che noi raggiungiamo il nostro picco dal punto di vista intellettuale circa all’età di dodici anni» – appunto l’età di Vitus «adulto» – «e in seguito, quando passiamo attraverso la scuola e le autorità ci ghermiscono, cominciamo il processo di conformazione alle norme sociali, scivolando inesorabilmente in una sicura normalità». Letta oggi, la sua non risulta forse come una sorta di dichiarazione di intenti?
Ne sono tuttora convinto, io stesso sono il miglior esempio possibile al riguardo.
Sarebbe d’accordo sulla definizione di Vitus come una fiaba?
Perché no? Apatto che lei non veda in fiaba un sinonimo di disimpegnato o innocuo. Effettivamente nel film Vitus può fare e fa delle cose che appaiono fiabesche anche ai nostri occhi. Detto ciò, credo però che etichettare il mio film come fiaba sia fuorviante.
Il protagonista del film è talvolta antipatico proprio in quanto poco bambino, sottoposto a forti pressioni dall’ambizione materna (e, in misura minore, paterna). Come in tutte le fiabe, è la «follia» del nonno a riequilibrare la sua personalità…
Nel film, il protagonista principale ha due diverse età: 6 e 12 anni. In entrambe il ragazzo è simpatico, affascinante, furbo, testardo, e deciso ad affermarsi e farsi valere nel mondo degli adulti. Del mondo delle fiabe purtroppo sono poco ferrato, quindi non mi sento di darle ragione a proposito della «follia dei nonni». Mia nonna stessa era più o meno così, e non apparteneva certo al mondo delle fiabe. Era una donna in carne e ossa.
Come Tavernier in ‘Round Midnight, lei ha scelto un vero musicista per protagonista. Il regista francese dice di averlo fatto perché, da appassionato, soffre tutte le volte che vede un attore «far finta» di suonare. Quali sono state le sue motivazioni di questa scelta e quanto il film è costruito su Teo Gheorghiu?
La sceneggiatura era già così prima che incontrassi Teo. Il fatto di aver trovato un ragazzo come lui ha permesso l’effettiva realizzazione del film, perché per me era fondamentale non solo che l’attore protagonista sapesse suonare il piano al di sopra della media, ma che avesse nel contempo un grande talento recitativo. In poche parole, se non avessi incontrato Teo Gheorghiu, Vitus non sarebbe mai stato realizzato. Non c’è dubbio che si sia trattato proprio di un colpo di fortuna.
Rispetto a Marcel, il volo assume qui una dimensione metaforica più ampia.
Nei miei film le metafore hanno sempre una dimensione molto reale, concreta. Il sogno del nonno di diventare pilota e mai coronato era reale. Vitus dà realmente a suo nonno la possibilità (economica) di realizzare il suo sogno da bambino, giocando in borsa e riuscendo a trasformare una modica cifra in una fortuna. Sul letto di morte il nonno rivela a Vitus che una volta era riuscito a volare e gli dà tutte le informazioni necessarie per far volare il PC 6. Il ragazzo riesce alla fine a realizzare il sogno del nonno. Poi continua a usare il velivolo per andare dalla sua insegnante di pianoforte. Anche questa può essere vista dallo spettatore come una «metafora».
Il suo cinema mi sembra un unicum, per la cui originalità non funzionano le categorie critiche usuali. Un cinema dell’irrequietudine, della curiosità ine-
sausta, che spazia dall’avanguardia alla classicità, dal comico al tragico, dal documentario alla finzione. Potrebbe indicare tuttavia quelli che secondo lei ne sono alcuni elementi unificanti?
Sono 44 anni che faccio film, a intervalli irregolari. Ogni film rappresenta contemporaneamente una fase ben precisa della mia vita. Posso dunque ricostruire la mia vita e i miei interessi e inclinazioni sempre diversi in base alle mie opere. I miei film attraversano la mia vita come fossero dei ponti. Ma non essendo io un ponte ben fissato, bensì il passante che lo attraversa, anche le forme di rappresentazione dei miei film sono cambiate nel corso della mia vita. Volendo, si può dire che l’«elemento unificante» sta nella vitalità intellettuale, politica e artistica.
Da cosa deriva il suo interesse a mettere in scena gli outcast, i marginali, i non conformisti, per scelta individuale o per condizioni oggettive, comunque fuori dalle regole del gioco, siano essi artisti o montanari?
Se mi fossero interessati la mediocrità, l’adattamento, il conformismo, avrei fatto l’assicuratore. La mia simpatia per gli anarchici tranquilli, per quelli che non si adattano, per quelli che rifiutano di conformarsi, viene forse dalla mia avversione verso tutto ciò che è autorità (vedi il pugno del prete).
Ho letto in una sua biografia che quando, da bambino, le chiedevano cosa volesse fare da grande, lei rispondeva: «Lo straniero». Che da adolescente rifiutava di affermare «Io sono svizzero», preferendo dire di sé stesso «Io sono una persona». E adesso qual è il suo atteggiamento in proposito?
C’è del vero, ma non è proprio così. I miei nonni materni avevano un hotel. Quando chiedevo loro da dove venisse questa o quella persona, mi rispondevano sempre: «Dall’estero!». E, visto che trovavo queste persone molto più interessanti degli indigeni, fin da piccolo volevo essere uno straniero. Mi ha sempre dato fastidio, poi, quando la gente mi diceva che ero svizzero; io rispondevo ogni volta allo stesso modo: «Non sono svizzero, sono una persona».
P. VECCHI
In questa sua inappartenenza, o lacerata appartenenza, quali sono gli autori con i quali comunque si trova in sintonia?
Il mio autore preferito sotto questo aspetto è lo scrittore svizzero
Robert Walser.
E, fuori del suo paese, a quali artisti – ancora una volta non necessariamente del cinema – pensa di essere più vicino?
Il più radicale autore sotto questo aspetto è lo scrittore austriaco
Thomas Bernhard.
L’ultima domanda è quasi d’obbligo. Può fare cenno ai suoi progetti futuri?
Non parlo mai dei miei «film nascituri», figuriamoci di quelli nemmeno «generati».
Novembre 2006
Story board di «Höhenfeuer»
PERCORRENDO LAVIA
TRANATURAE CULTURA
UN ITINERARIO NELL’UNIVERSO POETICO DI FREDI M. MURER
Martin Schaub
N el 1957 arrivò a Zurigo come un Kaspar Hauser: nato nel cuore della Svizzera, è venuto al mondo a Zurigo. Fredi Melchior Murer può continuare a raccontare questa storia, dopo aver passato quarant’anni nella più grande città svizzera, dopo aver speso trentasei anni a fare film, ma riesce ancora a dirla quasi senza un briciolo d’ironia. Le impressioni dell’infanzia e le pressioni della sua regione natale debbono essere state enormi, così come rompere con esse deve essere stato tanto doloroso quanto liberatorio. Probabilmente è impossibile, per chi non ha conosciuto la Svizzera negli anni ’50, capire fino a che punto, a quel tempo, lo sradicamento fosse per un giovane uno shock culturale. Prima che la televisione livellasse ogni diversità, le differenze culturali tra i boschi sperduti e la città erano molto più evidenti di quelle d’oggi. FMM era il più giovane di sei fratelli. Nacque il 1°ottobre del 1940 a Beckenried, un paese sul lago di Lucerna (dove, circa sessant’anni più tardi, avrebbe girato una scena centrale di Vollmond). Prima che il bambino iniziasse la scuola, la famiglia si trasferì in un altro Cantone, in un paesino che, nonostante si trovasse sull’asse principale che attraversa la Svizzera da nord a sud, era il più sperduto tra boschi sperduti. Con forte perplessità si legge degli inizi del boom della «Svizzera esterna» 1, la regione di cui è capitale Zurigo, una città verso la quale i ragazzini a scuola erano spesso messi in guardia. L’espressione senza Dio era ancora pesante in quelle strette vallate. Le guerre erano senza Dio, come lo erano le mode parigine e americane e le città svizzere con il loro potere, con la loro opulenza e, anche, con la loro materialistica mancanza di pietà. La Svizzera centrale era decisamente cattolica e si ergeva a bastione dell’innocenza svizzera, se non addirittura della stessa «Svizzeritudine». Murer stesso dice di non aver mai avuto un insegnante laico. Le pie suore e i fratelli Mariani lo formarono come pensavano fosse giusto: le
preghiere a scuola, un solido insegnamento religioso e la confessione una volta la settimana miravano a difendere i loro protetti dalla tentazione e dal peccato.
Era gravemente dislessico e ricorda la scuola come un incubo, un’esperienza vissuta come un’onta arrecata al candore dell’innocenza e all’immaginazione. Tanto cupi sono questi ricordi, quanto esuberanti e impreziosite appariranno le descrizioni delle scappatoie che escogitò all’epoca: la fuga nei boschi con le loro caverne, che sarebbero diventate il tesoro del suo mondo privato; il piacere che provava a disegnare e fare sport, pratica nella quale eccelleva. La prima strategia di sopravvivenza, creativa e «preservatrice», di un ragazzo e di un adolescente, fu quella di sottrarsi alla mano didattica e spesso punitiva degli adulti che lo circondavano.
Una volta, quando gli adulti si stavano prendendo il loro annuale congedo dai sensi in uno sfogo di follia, intemperanza e paganesimo, la settimana prima del Mercoledì delle Ceneri – il Fastnachtszeit, il periodo di Carnevale che precede la Quaresima nella cattolica Svizzera centrale, famoso per gli stravaganti costumi e le anarchiche mascalzonate – il giovane ebbe il buon senso, letteralmente, di esplodere. Prese il treno e ben presto – essendo i due mondi solo a un’ora buona di viaggio – si trovò nella stazione centrale di Zurigo, con una cartella in mano e in testa un appuntamento col direttore dell’unica scuola d’arte della Svizzera che godesse di un certo prestigio. È un segreto come ci sia riuscito – quali vie di seduzione e d’astuzia abbia seguito per arrivare all’ufficio del direttore – come lo abbia ammaliato. Era ancora troppo giovane per la scuola e la sua preparazione inadeguata, eppure FMM riuscì a estorcere una promessa all’uomo che aveva in mano la chiave della sua libertà. Un anno dopo la promessa fu mantenuta.
Nella scuola della stretta valle, uno psicologo attitudinale aveva suggerito al ragazzo, dotato di eleganza e di talento per il disegno straordinari, di diventare apprendista di un sarto: quindi, il viaggio a Zurigo era una questione di vita o di morte. Il giovane trovò un lavoro per mantenersi e a diciotto anni s’iscrisse al famoso corso di fotografia diretto da Hans Finsler. Provò un vero senso di liberazione e scoprì la sua vocazione due anni più tardi, quando partecipò a una mostra al Museo delle Arti e dei Mestieri (ora Museo del Design) dall’esauriente titolo Der Film [Il film].
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FMM era cresciuto senza cinema e senza televisione. Le lezioni di fotografia erano tenute da un professore capace di dare grandi stimoli, Serge Stauffer, traduttore di Eugène Ionesco e curatore del catalogo ragionato delle opere di Marcel Duchamp, noto a livello internazionale. Il compito che assegnò alla classe fu ingegnoso nella sua semplicità: per la mostra e il catalogo, gli studenti dovevano scattare varie fotografie di classici del cinema durante la loro proiezione, raccontare la storia usando i fotogrammi e farne risaltare il dinamismo in un prospetto grafico.
Murer scoprì un linguaggio «in cui non era necessario parlare». Durante l’infanzia gli avevano annichilito la parola – disse – ed era rimasto fino ad allora in silenzio. «La gente può essere naturalmente taciturna», recita una battuta di Grauzone, «ma il problema è che troppo spesso la parola gli viene tolta». In risposta a un’inchiesta sul documentario svizzero nel 1977, Murer ha scritto: «I miei primi film […] erano una chiara espressione di come mi sentivo nei confronti della vita e il cinema si è rivelato l’unico linguaggio che potessi parlare e che la scuola non avesse distrutto». E, in un’intervista del 1980: «Il cinema, perlomeno, non ha nessuna regola grammaticale, di punteggiatura o di tempi verbali. Il cinema è diventato per me un mezzo attraverso il quale potevo esprimermi […] Al Festival del cinema sperimentale di Knokke-le-Zoute (1964) trovai dozzine di spiriti affini che, come me, sentivano che avere la macchina da presa tra le mani era il modo per superare la loro condizione di mutismo». Pochi registi hanno utilizzato le esperienze personali più intense, trasformandole in soggetti del loro cinema con tale perseveranza, varietà e profondità. FMM rivolge lo sguardo ai temi della sua vita e alla sua biografia. Per il suo film di diploma, il fotografo dislessico riprese un alfabeto fantastico – dalla Adi Aquarium alla Z di Zifferblatt (il quadrante dell’orologio) e di Zylinder (il cilindro) – e il primo lavoro da professionista fu un reportage fotografico sui figli degli agricoltori nelle Alpi, motivi che ritorneranno nei film successivi come Wir Bergler in den Bergen… e Höhenfeuer.
Secondo le sue stesse parole, girò i suoi primi film come un dilettante felice. «Secondo il mio produttore e finanziatore, ho dato vita al mio lavoro come un mago che, per incantesimo, fa apparire delle colombe vere da un cappello che fino a un momento prima era vuoto. Lavorando in questo modo, non ho prodotto dei documentari, ma in quanto film si può dire fossero dei documenti dei primordi del cinema
indipendente svizzero, in un’epoca in cui era solo desolazione e penuria, sì, certo, desolazione.»
In ogni industria cinematografica nazionale fiorente, le attrattive del cinema tradizionale sarebbero state maggiori di quelle che la Svizzera, terra desolata, sapeva offrire. Negli anni ’50 e nei primi anni ’60, la produzione cinematografica si era ridotta a film industriali su commissione. I giovani registi non potevano neppure voltare le spalle al cinema delle generazioni precedenti o metterlo in discussione, perché il cinema svizzero giaceva in uno stato letargico. AGinevra, alcuni futuri registi – Alain Tanner, Claude Goretta e presto anche Michel Soutter –trovarono lavoro alla televisione. La maggior parte dei giovani registi di lingua tedesca iniziò in una terra di nessuno chiamata underground: senza un soldo, senza apparecchiature e studi professionali, senza una guida o una scuola cinematografica. Giovani studenti d’arte o fotografi furono i primi ad avventurarsi nella terra di nessuno del free film. FMM divenne una figura guida del loro cinéma copain. Girò le sue prime sei pellicole praticamente per conto suo, talvolta prendendo in prestito del denaro, talaltra con somme modeste ricevute dallo Stato, da borse di studio o da premi di qualità. Gli amici sostennero il carismatico registapoeta lavorando per lui senza essere pagati o imprestandogli le attrezzature. Essi lavorarono senza le pressioni legate a standard prestabiliti; dal momento che l’industria cinematografica era nelle mani degli americani, dei francesi e degli italiani.
Solo pochi adepti videro il suo primo film, Marcel, che racconta di un pomeriggio di vacanza da scuola nella vita di un undicenne che fa volare il suo modellino d’aeroplano ai margini della città. Ogni volta che atterra nella no man’s land, in una cava di ghiaia, lo riprende e lo fa volare di nuovo, fino a quando non lo troverà più. Allora comincia a giocare con dei sassi, con vecchi pneumatici, dentro a palazzi abbandonati, con la luce e l’oscurità, e alla fine con la sua stessa ombra. È completamente assorbito dal gioco. È solo quando si fa buio che farà ritorno a casa. Sulla via del ritorno, ritrova il suo aereoplanino, ma lo lascerà lì per terra. È un film muto a 8mm di 35 minuti, girato in bianco e nero con una Paillard a mano. Ma non è un film amatoriale o un home movie. Ogni inquadratura era preparata in base a uno story board, metodo che Murer aveva imparato dai libri su Ejzenštejn. La macchina da presa era usata come fosse una Mitchell a 35mm, quasi sempre su un treppiede. Murer tenne
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conto addrittura della continuity, al punto da comprare due set dello stesso apparecchio per il suo attore principale. Influenze? La sua stessa infanzia, naturalmente; sembra impossibile pensare a un film di Murer senza una forte componente autobiografica. E poi tutti quei classici che aveva fotografato per quella mostra: lui stesso cita in particolare i nomi di Robert Flaherty, Luis Buñuel, Charlie Chaplin, Jean Vigo e Sergej M. Ejzenštejn. Naturalmente, vi è una chiara influenza di I quattrocento colpi di Truffaut, ma anche dell’avanguardia polacca e giapponese, i cui film si erano potuti vedere a Zurigo grazie a un Cineclub e a un distributore indipendente.
Il secondo film di FMM, Pazifik, fu presentato al primo Festival del Cinema Svizzero a Solothurn – nel cosiddetto «Anno Zero del cinema svizzero» (!) – e lo impose all’attenzione del pubblico non specializzato. Era un lavoro eccessivo e anarchico. La versione originale si dice che durasse quasi quattro ore. Le poche proiezioni che si ebbero erano accompagnate da dischi, da registrazioni su nastro e da readings; in tal modo, i suoni dal vivo variavano da spettacolo a spettacolo. La versione riportata nelle filmografie dura sessanta minuti con due derivazioni sotto forma di corti di dodici minuti ciascuno.
Murer si era comprato una Bolex a 16mm e in quell’epoca condivideva una villa cadente ai piedi dello Zürichberg, chiamata Pazifik, con degli amici – artisti grafici, fotografi, pittori, musicisti, tutta gente che se la sapeva cavare al meglio in tutte le situazioni. Il film consiste in una serie di bizzarri ritratti di questi amici, che più o meno ruotano attorno al tema omerico della festa orgiastica di commiato dal palazzo, attorno alla comunità che vi abita e a un tremendo gusto per la vita, il tutto abbellito da giochi sempre più fantasiosi e da una processione. La macchina da presa, non sempre nelle mani di Murer, sembra danzare, andando in cerca di prospettive e stati d’animo sorprendenti. «8-7-6-5…» è l’ironica numerazione di Murer, cifre incise a mano sui negativi e dipinte con un pennello, un’indicazione di come i singoli ritratti dovrebbero essere letti: il narcisistico funambolo che precipita nella realtà dal suo mondo di sogni, lo scrittore che sveste una donna dopo l’altra in una foresta vergine e poi rimane solo; l’uomo in fin di vita che si alza dal letto di morte quando vede come i figli litighino e si stiano uccidendo per l’eredità –tutti e quattro i personaggi sono interpretati dallo stesso amico zoppo d’una gamba.
Murer dà sfogo alla stessa libertà anarchica, e al diritto a goderne, nei film successivi, tre ritratti improvvisati di artisti: Chicorée, con il poeta dadaista Urban Gwerder, Bernhard Luginbühl, con il grande scultore su ferro nonché uomo acuto e spiritoso, e Sad-is-fiction, con il pittore e poeta di Zurigo Alex Sadkowsky. Quest’ultimo è stato il primo film di Murer a includere alcuni momenti con il suono sincronizzato. All’inizio, FMM, un uomo che amava le immagini ed era scettico nei confronti della parola, ha fatto dei film muti e solo in seguito ha fatto ricorso al sonoro. All’incirca in quell’epoca, l’autore zurighese Paul Nizon scrisse un articolo sul «Piccolo folle mondo di Zurigo», annoverandovi pure FMM. Questo era solo uno dei numerosi preludi al Sessantotto. Per FMM, senz’altro, il Sessantotto volle dire sia gli accadimenti francesi, sia le lotte e le dimostrazioni di massa a Zurigo. Soprattutto, a ogni modo, nel 1968 Murer stava girando tre film: simultaneamente e fianco a fianco. Tutti e tre i film uscirono nel 1969: il già citato, Sad-is-fiction, Vision of a Blind Man, un film sperimentale, e 2069 - oder dort, Wo sich Futurologen und Archäologen gute Nacht sagen. Tutti e tre assieme durano due ore, due ore che – nello stesso anno in cui Alain Tanner ha fatto Charles mort ou vif, Claude Goretta Le Fou e Michel Soutter La Pomme – determineranno per Murer un nuovo inizio, radicale e del tutto indipendente.
Sad-is-fiction non è il solito ritratto d’artista. Poco si vede dell’arte di Alex Sadkowsky. Alle volte il pittore è ripreso seduto a un lungo tavolo del suo studio sul quale è stesa della carta bianca, al lavoro con un pennino a china, mentre se la prende con Dio, i corpi celesti, l’arte e il mondo, rappresentando con i disegni quello che dice e quello che non può dire, fino a quando tutto sarà completamente ricoperto da un inchiostro luccicante. O appare nel film come un instancabile camminatore – scarpe bianche e calzini rossi, calzoni corti blu, una maglia multicolore e un cappello bianco –, uno sempre in movimento, un umano moto perpetuo. Cammina senza fermarsi, ha una camminata particolare, non del tutto naturale. Porta fuori a fare un po’ di moto il suo animal metaphysicum, stavolta sulla bicicletta, si ferma a meditare sotto la volta di una serra riscaldata, suona una pianola. Senza dubbio è l’immagine personificata dell’uomo nuovo di Murer, innocentemente spiritoso, creativo, indipendente oltremisura e, per soprammercato, pacifista. In un’esilarante sequenza a passo uno, Murer mostra il suo eroe, avvolto in una garza che diventa sempre più rossa mentre, girando come se fosse su un fuso
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e stesse per morire dissanguato, armeggia con una pistola puntandola verso un Nixon urlante e verso i sostenitori della sua campagna («Nixon è il migliore»). In contrapposizione, in un altrasequenza, mostra l’artista come uomo profondamente innamorato della moglie e padre di una nutrita schiera di bambini: Sadkowsky trascina lungo un argine, contro corrente, una sfilza di carrozzine che sembra infinita.
Murer prova simpatia per questo showman chiacchierone e filosofeggiante. Tuttavia, nel lavoro successivo, un esperimento sensoriale in veste filmica, si dissociò completamente dall’imperativo secondo cui il cinema indipendente dovesse avere un messaggio politico. Nel giorno più lungo del 1968, due amici lo passarono a prendere all’alba, lui preparò una Arriflex 16mm senza sonoro, montata a spalla, si mise addosso un paio d’occhialoni neri da saldatore e si fece portare dai suoi amici in ventuno posti, a loro scelta, senza che gli dicessero dove si trovavano. In ognuno cercò di orientarsi con l’udito e col tatto, e, per un’intera giornata, filmò senza vedere e registrò le sue impressioni sensoriali su un nastro.
Lo intitolò Visions of a Blind Man, «indagine elementare». Volle esplorare la supremazia della vista, e quindi della «bella immagine», da una parte, e del potere spaziale dell’udito (e della percezione termica) dall’altra, con la speranza di arrivare a intuire come il potere di definizione dell’immagine e le potenzialità del suono potessero aprire la mente, il contrasto tra essere in campo e fuori campo. Il film da cieco fu per Murer un modo per riconquistare il suono… e di arrivare al motivo dell’occhio interno, a cui tante volte sarebbe poi tornato.
D’altra parte, Vision of a Blind Man fu uno studio preparatorio del mediometraggio 2069, dove il protagonista sarebbe stato un robot extraterrestre che filmava e registrava automaticamente. 2069, il contributo di Murer a Swissmade, un film in tre episodi – gli altri due furono girati da Yves Yersin e Fritz E. Mäder –, mette insieme, per così dire, gli anarchici ritratti d’artista con l’autoritratto del film-maker.
In 2069 la Svizzera è un paese perfettamente organizzato e sotto costante sorveglianza, visiva e acustica, giorno e notte. Ogni passo di ogni cittadino, abitudini sessuali e alimentari comprese, è osservato e registrato in un «Cervello Centrale». Dovunque ci sono «Angoli del Cervello» affinché i cittadini possano contattare il Grande Fratello. Sembra giunta l’era senza tempo della sicurezza eterna. Un robot extra-
terrestre – progettato dal futuro production designer di Alien e premio Oscar, H.R. Giger, amico di Murer e antico habitué di villa Pazifik – è ovviamente in una missione di spionaggio in questo paese, dove una maggioranza schiacciante di cittadini si tiene continuamente d’occhio e si spia a vicenda. Il loro modo abituale di salutarsi è farsi l’un l’altro una foto. Aogni modo, l’extraterrestre scoprirà più di quanto importi al «Cervello Centrale»: le riserve dove lo stato lascia che gli ultimi pochi indomiti ribelli sopravvivano. In una caverna glaciale vivono degli hippy che predicano la fine del mondo, in una casa di campagna belle époque uno studioso si rompe la testa con le sue «puttanate mentali», in un bunker della seconda guerra mondiale un soldato dimenticato fa la guardia al confine (come quei giapponesi dimenticati nelle isole del Pacifico che non sapevano che la guerra fosse finita), un eremita assolutamente xenofobo vive su un’isola la cui superficie è di pochi metri quadrati, un’artista emaciata è ricoverata in una clinica, su una montagna un gruppo di militanti pacifisti ha montato un campo sotto l’insegna di una bandiera bianca. Il robot, che ha sul petto un registratore e il cui occhio ciclopico contiene una macchina da presa, scopre anche come entrare nel bunker del centro nevralgico della sicurezza, dove si fa spiegare come funzionano le apparecchiature di controllo totale. Comprensibilmente, lo stesso robot diventa un pericolo per la sicurezza. Alcuni scienziati intervengono per togliergli il registratore e smontare l’obiettivo della cinepresa inserito nella sua testa. In quel momento, il meraviglioso mondo nuovo crolla fra tuoni e fulmini. Solo i pazzi, gli abitanti delle riserve, riescono a salvarsi. Essi avevano una rete di comunicazioni magica, inaccessibile alle spie. Ecco che li vediamo tutti insieme, la nave dei folli mentre attraversa un lago e naviga verso il giorno nascente. L’unica creatura lasciata a terra in mezzo alla distruzione e alla desolazione è un cane mutante con indosso un carapace che sembra lo scafandro della spia extraterrestre. Swissmade fu un fiasco. Non fu un successo al botteghino in Svizzera, e non riuscì a ottenere alcun riconoscimento nei festival internazionali. La constatazione che film a basso costo, dovuti allo sforzo di una persona singola, sono in grado di attrarre solo un esiguo gruppo di appassionati – che valse a Murer il titolo di re Melchiorre del Cinema –, ma non riescono ad aprirsi un varco verso un pubblico più vasto, specialmente se sono sperimentali, fece sprofondare FMM nella più grande crisi della sua vita. Si trattava di dover affrontare tutti i problemi pratici di un’esistenza di un
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normale padre di due figlie in un paese che non aveva affatto bisogno di lui. FMM si trasferì a Londra con la sua famiglia. «I film che più m’interessava fare erano fiori esotici e film di questo tipo non potevano fiorire nel nostro clima culturale. Avevano bisogno di tanto sole, molto di più di quello che potevano avere qui», disse. Così decise di non aver più niente a che fare con il cinema. Si dedicò all’insegnamento (arte creativa) per guadagnarsi da vivere e iniziò a comporre un testo surrealista di scrittura automatica, una pagina al giorno, che avrebbe dovuto avere 365 pagine e apparire con trenta diversi titoli. Si legge nella prima frase: «Londra, 14-4-1970, l’Apollo è in crisi». L’immagine di una navicella spaziale in orbita che non potrà mai più far ritorno sulla terra è una chiara descrizione della crisi dell’autore stesso.
Murer tornò al lavoro di regista dopo la morte del padre. Andò al funerale nella valle dove aveva trascorso la sua infanzia e rimase sorpreso dal numero di alpigiani che si era recato a porgergli l’estremo saluto. Non aveva la benché minima idea della stima che quest’uomo, lui stesso figlio di un agricoltore delle Alpi, aveva acquisito nella comunità, aiutando tanta gente a misurarsi con le autorità e la burocrazia. Il dottore che lo aveva curato portò Murer con sé nelle visite ai pazienti nelle valli più remote, dove fu subito ben accolto proprio per il fatto che era figlio di suo padre. Il desiderio di fare un nuovo film cresceva dentro e l’idea si concretizzava. Il figliol prodigo sperava che tale proposito l’avrebbe aiutato a scoprire il mondo del padre e del padre di suo padre. Il progetto di un lungometraggio si trasformò in una ricognizione documentaristica. Nella lunga e difficile ricerca, Murer scoprì l’importanza e la poesia del mondo reale. Fu il passo decisivo.
I due film girati tra il ritorno in Svizzera e il grande affresco documentario Wir Bergler in den Bergen… sono film di transizione, ma non sono lavori abborracciati. Anzi, il regista riuscì a trasformare in un arricchimento personale un’opera su commissione per un banchiere privato (che più tardi sarebbe diventato il produttore di Daniel Schmid e Francis Reusser). Gli fu chiesto di fare un doppio ritratto dei figli del banchiere, Christopher e Alexander. Per questo progetto Murer fece un salto indietro nel tempo della sua infanzia, che aveva cercato di capire meglio durante il suo «esilio» londinese, in parte, leggendo Ivan Illich e Paulo Freire. Christopher & Alexander è il racconto della vita agiata, eppure non esente da problemi, di due ragazzini viziati. Il regista parteggia astuta-
mente per i bambini, che, all’età di tre e cinque anni, devono procedere con gran cautela in un sistema che è davvero troppo complicato, malgrado la loro voglia d’affetti sinceri e leali. La cinepresa e il registratore scovano il lato ingenuo che c’è nei bambini. Murer dichiara le sue intenzioni nella sequenza in cui i due sono nudi davanti alla macchina da presa e guardano l’obiettivo senza il benché minimo imbarazzo.
Un anno prima Murer aveva girato il suo unico film per la televisione, un ritratto analitico del suo amico H.R. Giger, pittore di soggetti orrorifici. Ancora una volta, non cerca di riprodurre i lavori di Giger o di farci ascoltare giudizi più o meno illuminanti di esperti. Al contrario, usa il mezzo filmico per esorcizzare il mondo angoscioso dell’autore. Murer trova nella biografia dell’amico, e propriamente nei luoghi della sua infanzia e nell’ambiente di lavoro, quei confini che l’amico teme, e dai quali allo stesso tempo è attratto, che il suo lavoro simultaneamente genera e riflette. Il film mantiene un equilibrio notevole tra il coinvolgimento e il distacco. In una scena curiosa che caratterizza il film, Murer fa un riferimento esplicito al mezzo televisivo: la pellicola si apre avanzando proprio attraverso un «passaggio» dello schermo catodico per poi scomparirvi al termine. Questo stratagemma dà al regista la possibilità di citare la serie pittorica dei «tunnel» di Giger, un’ossessiva sequenza di gallerie, porte, fenditure, caverne e cascate di rifiuti, e anche di rendere esplicita l’idea ricorrente di essere precipitati nel mondo al momento della nascita e grazie a essa.
L’ispirazione iniziale per Wir Bergler in den Bergen… gli venne dalla libera e potente interpretazione del mondo degli agricoltori delle Alpi raccontato nel 1941 da un medico di campagna junghiano, Eduard Renner. Dato che appariva così di frequente nelle leggende, nell’immaginario, nella lingua e nei gesti rituali, Renner ritenne che l’«Anello d’Oro» fosse una appropriata metafora dell’esistenza sulle Alpi, quell’invisibile anello che tiene insieme magicamente e animisticamente gli averi e il «mondo» (la casa e il focolare, la famiglia, gli animali e gli umani). Lo scrittore-interprete attinse sia dalle «storie delle povere anime» – per la maggior parte racconti di peccato, iniquità e impossibile redenzione – che erano state pubblicate nel 1920 dallo studioso del folklore Josep Müller in Sagen aus Uri [Le saghe di Uri], sia dalle vicende e dalle storie dei suoi pazienti. ALondra, FMM aveva concepito l’idea di produrre alcune «storie delle povere anime». Dopo due anni di ricerche con la macchina da
presa e il registratore, l’esperienza diretta ebbe la meglio sulla concezione di un’esistenza magica e animistica, anche se non rinunciò del tutto a quest’ultima. Nel corso delle sue ricerche sul campo, Murer si rese conto, da un lato, che in un certo numero di luoghi la cultura su cui Renner aveva basato il suo lavoro non esisteva più e, dall’altro, che le tesi di Renner erano parte integrante del discutibile richiamo a un rinnovamento conservatore dello spirito che si fondava sull’idea diffusa durante la seconda guerra mondiale di una «Svizzeritudine primigenia». Eppure, le vestigia di un’inequivocabile entità culturale, tanto sorprendenti quanto ovvie, erano forti a tal punto che non si poteva evitare che lasciassero il segno in ogni documentario di tipo realistico che andasse oltre gli angusti confini degli aspetti economici; e, per l’appunto, vi lasciarono una chiarissima impronta.
La scena cruciale di Wir Bergler in den Bergen… e, io credo, il momento topico di tutta l’opera di Murer fino a questo punto, è una scena di incredibile bellezza lirica, un’immagine reale e magica di abbandono. La notte scende sul Mettenen-Butzli, l’alpeggio più alto (a 2000 metri) dove la famiglia Herger – padre, madre, cinque figli e il bestiame – e una famiglia vicina abitano per tre settimane, nei mesi estivi, durante i quali si spostano in otto diversi pascoli. Uno dei due capifamiglia esce sul prato di fronte al rifugio e recita a squarciagola le preghiere rivolto al disteso e silente cerchio dei prati alpini e delle cime montuose: «Un aureo anello si stende sui nostri prati…». Invoca la pace, prega i santi e implora la grazia divina, come fa tutte le sere. La macchina da presa fa una panoramica sull’intero anello che lo circonda, prima di retrocedere nel rifugio, dove la madre sta preparando i bambini per metterli a letto, sollevandoli di peso attraverso un’apertura nel soffitto che porta alla loro cameretta. La cinepresa li sta aspettando, li osserva teneramente e con affetto mentre vanno a letto, soffermandosi faccia a faccia sul più piccolo. Fuori campo, in lontananza, si sente il casaro mentre leva il suo canto rivolto al mondo circostante, alla sua terra e ai cieli. Un po’ più vicino al rifugio, la fonte nell’abbeveratoio mormora. La macchina da presa si sposta di nuovo fuori e scruta il vicino mettere a letto il più piccolo dei bambini e chiudere gli scuretti. Ancora una volta la cinepresa prende posizione di fronte alla voce del pascolo, mentre il contadino conclude la sua preghiera con un inno di gioia. La sequenza chiude con un’eco, una vivida immaginesuono della distesa e dello spazio circoscritto.
Questa scena realistica è intrisa di un’impareggiabile dose di bellezza cinematografica, come in un lungometraggio di finzione. Il suono contribuisce con l’immagine a rendere manifesta quella sfera in cui la vita è tranquilla, in buone mani e sicura. L’ambizione formale del regista di vincere la sfida che consiste nel mostrare la progressione del tempo focalizzandosi sui rituali offre un’ora e mezza di grande bellezza filmica. Mai prima d’ora – e tanto meno su un terreno così difficile – un documentario svizzero aveva assunto come soggetto questa cultura, o piuttosto, una sua immagine in termini di fiction. Murer ha persino costruito un carrello per la macchina da presa capace di entrare in quegli angusti rifugi. Ogni gesto filmico in Wir Bergler in den Bergen… è testimonianza della suo pudore e del suo rispetto.
Il regista non ha voluto cercare né trovare un mondo inalterato nella terra dei suoi avi. Nei tre diversi movimenti del suo «poema sinfonico» mostra piuttosto la fragilità di questo mondo. Nella Göscherenalp, una valle laterale sull’asse portante che va da nord a sud e che è stata sacrificata al traffico nel corso del secolo scorso, l’economia tradizionale alpina è un simulacro, se non solo un ricordo dei tempi che furono; la vita è determinata dalla diffusione dell’industria e dei trasporti. Nella valle di Schächental, nel secondo movimento, si vede invece che l’economia alpina tradizionale – così com’è praticata dalla famiglia Herger, che il film segue per un intero anno – è rimasta intatta, mentre a Bristen e nella valle di Maderanertal è assai compromessa. Qui la gente è indecisa tra il vecchio e il nuovo, tra il lavoro salariato nella valle e il salvataggio della venerabile e democratica economia alpina che si fonda su una struttura cooperativa. Il film ci presenta circa 100 persone in poco più di 100 minuti, senza mai apparire un lavoro frammentario. Questo è un effetto del montaggio, che fa più di un esplicito riferimento alle proprie origini nel sistema di comunicazione dei contadini delle Alpi. Ogni alpigiano ha un binocolo, perfino quei pochi che non hanno una pipa. Lo usano per stabilire un contatto visivo con i vicini, con i quali, comunque, si guardano bene dallo scambiarsi una parola. Questo strumento ottico, onnipresente in un paesaggio costellato da solitarie fattorie lontane tra loro, crea una concatenazione di «anelli». Murer non perde mai l’occasione di tracciare dei cerchi. Se il soggetto è una famiglia solitaria, le attività dei loro figli, il film esplicita il suo girar loro intorno. Con l’aiuto di un vecchio documentario in bianco e nero, il viaggio riesce a includere anche il passato, come fa per esempio con le sto-
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rie bisbigliate, mormorate dalla voce «onnisciente» di uno storico locale, che Murer mantiene come voce fuori campo, aumentandone l’effetto.
Vorrei contraddire con forza chi etichetta Wir Bergler in den Bergen… come un film di solo e unico interesse locale. In questo film Murer raggiunge vette che raggiungerà ancora in Höhenfeur: pudore e limpidezza gli attribuiscono una dimensione europea, e non solo.
In Der grüne Berg (1990), un altro documentario, FMM si immerge di nuovo nelle sue radici culturali alpine. Il progetto di collocare un sito permanente per lo smaltimento di rifiuti nucleari su una montagna a pochi chilometri dal suo luogo natale aveva comprensibilmente suscitato il suo interesse. Il regista scoprì tra gli agricoltori di Wellenberg quel conservatorismo radicale e quella filosofia di vita che John Berger descrive con tanta accuratezza nell’epilogo di Le tre vie di Lucie. Agli occhi di questi contadini – a partire dalla loro consapevolezza ecologica, dal loro concetto di proprietà, per altro simile a quello degli indiani d’America, dal loro grande rispetto per il creato e dalla loro paura di eventi efferati – i propagandisti del progresso moderno appaiono più come figure sinistre che ridicole. Questi ultimi sono degli ideologi mentre i contadini, sia gli uomini che le donne, sono sempre pragmatici nelle loro argomentazioni, perfino in materia di crimine e di peccato. Il regista ha definito il film «una forma cinematografica di democrazia diretta» e lo ha dedicato ai «figli e ai figli dei figli». Un film localistico? Chi pensa sia così non ha capito nulla, né di Černobyl, né di Malville e forse neppure di Hiroshima. Fredi M. Murer sarebbe ritornato a questa gente alcuni anni più tardi nel film Vollmond.
Il regista ha intitolato Grauzone il suo primo lungometraggio a soggetto, che è in qualche modo il seguito di Wir Bergler in den Berger… Il protagonista principale di Grauzone si chiama Alfred M. come lui.
Come lui si è trasferito in città dalla Svizzera centrale. Come lui cattura suoni. Pian piano e in silenzio, il contesto sociale urbano lo manda su tutte le furie, proprio come lui. Alla fine, cambia posizione.
Con alcune mosse azzeccate Murer fa entrare gli spettatori nel film: questa è la città, Zurigo, mostrata con una panoramica da destra a sinistra, l’inquadratura che alla fine mette a fuoco la finestra di un ufficio nel seminterrato, sulle persiane che stanno scendendo. E questo è l’eroe, Alfred, nel suo ufficio alle 5 di un venerdì pomeriggio, che sta appunto abbassando le persiane. Una voce fuori campo fa un breve resoconto della sua vita e, per sommi capi, racconta del suo lavoro come dirigente del
dipartimento per la sicurezza: «… Non ha mai rotto il giuramento di riservatezza – neppure con la propria moglie». Ed ecco sua moglie, Julia, seduta alla scrivania di un’agenzia pubblicitaria, mentre cerca di chiamare il marito. La voce fuori campo traccia a grandi linee anche un suo profilo. Si capisce dai brevi ritratti, distaccati e ironici, che la coppia è in crisi. Un’interminabile serie di episodi mostra ellitticamente che non solo Julia e Alfred, ma tutti gli abitanti del paese vivono in un equilibrio fragilissimo, pur non essendone la maggior parte cosciente. Piccoli incidenti indicano che proprio quel giorno un bollettino pirata, che annuncia lo scoppio di una «misteriosa epidemia» mettendo in agitazione i media, ha affrontato un argomento che covava sotto la cenere ovunque, un male estremamente virulento.
I gesti e il comportamento di Alfred, durante il fine settimana in cui il film si svolge, corrispondono ai sintomi descritti nel bollettino e diffuso dalla stazione radio pirata «Iceberg»: «Le persone colpite provano un improvviso desiderio di uscire fuori all’aperto – sentono il richiamo dei luoghi del loro passato – […] senza alcuna ragione apparente si sentono molto tristi – sostengono che la pelle gli si stia assottigliando […]. Nascondono la loro intenzione di fare qualcosa di loro spontanea volontà – sprofondano inaspettatamente in un sonno senza sogni». Non vi è ombra di dubbio, Alfred è vittima dell’epidemia e deve fare qualcosa –qualcosa di sua spontanea volontà – deve rompere il suo giuramento di riservatezza e lo farà. Lo farà nella fattispecie di una chiamata d’emergenza, un cifrato cri du cœur a Julia, che sarà testimone a distanza della sua liberazione, dall’altra parte dell’apparecchio, e sorriderà.
Nel corso del fine settimana, Alfred incontra delle persone che assomigliano agli outsider di 2069: il tassista che dichiara una repubblica indipendente il suo appartamento è molto di più di un semplice richiamo a quel film, come pure il guardiano della riserva naturale, che Alfred scopre mentre sta dormendo in una casa sull’albero con addosso le cuffie e un registratore. L’agitatore, che, da una nave (di folli), cerca di spiegare ai suoi concittadini la paura di aver paura e l’odio che prova nei confronti del conformismo, è sulla strada del cedimento, così come lo studioso del comportamento con le sue idee sulla moderna necrofilia.
Il predicatore del lago lancia la domanda: «Guardati attorno. Vi è oggi un luogo dove un pesce dotato di polmoni possa trascinarsi a riva? Tutto è proprietà privata e ricoperto di cemento». Alfred M., sentendosi
M. SCHAUB
colpevole per il suo conformismo a un mondo di cemento, un mondo che non può e non dovrebbe essere il suo, per prima cosa deve ricrearne uno. Egli riconfigura il suo sistema di «cimici» nella compagnia, distruggendo l’apparato di spionaggio che aveva creato al servizio del potente. Avendo prima tradito i colleghi, Alfred ora delude il suo boss e lascia andare in pezzi il suo impero: «Un gran passo per me, un piccolo passo per l’umanità».
Ci sono pochi film fondamentalmente politici che riescano a ritrarre con un tale simbolismo il tradimento, lo spossessamento, l’inabilitazione e la riduzione al silenzio della gente comune, mentre simultaneamente e costantemente trascendono tutto questo. Il film si sottrae a ogni classificazione, e deve farlo, perché ogni limitazione sarebbe un’ammissione d’impotenza.
Saltando dal 1978 al 1998, il film di Murer Vollmond s’inserisce nella stessa tradizione politica. Anche qui scoppia un’«epidemia»; anche qui la speranza si fonda sugli anticonformisti. Dodici bambini scompaiono nello stesso momento e senza lasciar traccia la mattina del 22 maggio 1998, facendo girare a vuoto l’intero apparato per la sicurezza del paese. La loro richiesta, un ultimatum, propone un enigma a chiunque sia coinvolto – cioè, ben presto, l’intero paese. «Noi vogliamo la Terra sulla Terra», scrivono i bambini scomparsi, ognuno con la propria grafia, «se non lo farete, la Terra continuerà a girare senza di noi». Con alcune eccezioni, gli adulti, imbrigliati nella loro folle convinzione di poter fare qualsiasi cosa, non hanno la più pallida idea di cosa i bambini stiano dicendo, perché, nonostante i chiari segni dell’avvicinarsi della fine del mondo, stanno ancora immaginando di vivere nel migliore dei mondi possibili. Da qui ne consegue che altri 144 bambini saranno destinati a sparire con la prossima luna piena e poi, in progressione, 1728, 20746, 248832…
Le speranze di Murer (come diceva un alpigiano in Wir Bergler in den Bergen…) che «l’intera questione possa prendere una piega del tutto diversa», in vent’anni si sono ridotte ma non sono del tutto svanite. Le ha riposte nei bambini, in quelle persone che sono pronte a lottare per il proprio futuro e per il futuro del pianeta usando l’immaginazione, l’innovazione e le idee radicali. Come gli outsider alla fine di 2069, i bambini sono spariti dall’altra parte dell’acqua, dove si radunano intorno a un coetaneo dalla pelle scura – Africa, culla dell’umanità –, mentre riecheggia la musica del giovane Mozart, il genio undicenne. Nonostante tutto, essi voglio-
no ancora bene ai loro genitori e desiderano ritornare, ma solo a patto che i loro genitori riconoscano il valore di ciò che sta succedendo e cambino radicalmente la loro cultura di morte.
FMM ha impiegato dodici anni a realizzare questo film, facendo ricerche, usando l’immaginazione, scrivendo e riscrivendo, scartando e ripensando. Inizialmente, concepì due film, uno per adulti e uno per bambini – titolo provvisorio The Whole Truth, Twice [L’intera verità, detta due volte] –, ma fu impossibile trovare i finanziamenti per entrambi. Il risultato finale è un distillato assai ambizioso di tutti e due i progetti. Intere scene sono spesso diventate una singola ripresa. Certe cose, si deve ammetterlo, non sono chiare all’istante, a una prima visione, e si sa che molti frequentatori delle sale cinematografiche non rivedono il film. Per una volta, Murer non ha avuto mezze misure, non si è accontentato di musica da camera, ma ha voluto un’intera orchestra sinfonica – il maggior numero possibile di strati della società postindustriale svizzera. E in aggiunta ha voluto che fosse una critica ai mezzi di comunicazione di oggi, che non fanno altro che grattare la superficie e riducono ogni catastrofe a puro sensazionalismo. Il personaggio centrale nell’allegoria utopica di Murer è un ispettore di polizia filosofico e sensibile, Anatol Wasser, che assomiglia al regista e agisce in sua vece in un mondo in crisi. Laddove le ricerche degli altri investigatori e i loro ordini non raggiungono alcun risultato e mentre genitori e nonni hanno perso la speranza e sono tormentati dalle visioni dei loro bambini, l’ispettore Wasser intraprende un viaggio a ritroso nell’infanzia. Lascia il lavoro e, seguendo il consiglio del suo amato e affezionato gatto, la parte migliore di sé, cambia pelle. Assieme alla madre di Toni, uno degli scomparsi, organizza una trasmissione televisiva per tutti i genitori coinvolti, che inizia con recriminazioni isteriche e sensi di colpa e finisce nel caos quando il ragazzino dalla pelle scura, Omm, l’inviato dei bambini spariti, entrerà nello studio e insegnerà a tutti ad avere occhi per saper vedere l’infanzia. Solo l’ispettore Wasser lo capisce e riesce a vedere i 12 giovani profeti e i 144 che scompaiono oltre le acque con la luna piena per raggiungerli.
Si tratta di un film complesso, a volte barocco e altre austero, fatto probabilmente inevitabile all’interno di un umanistico «gran teatro di vita» che si scontra con lo spirito di fine secolo. Alcuni spettatori non sono riusciti a riconoscere in Murer il romantico moralista coinvolto in que-
stioni a lui contemporanee, forse stanco della civiltà moderna, e hanno voluto vedervi invece solo un cineasta che moraleggia.
Non importa. Vollmond è un’impresa in cui raramente ci si è avventurati in Europa e mai prima di allora in Svizzera: una visione della società che non sia solo una delle pallide copie visibili pressoché in ogni sala cinematografica o nella quotidiana proposta televisiva.
Vollmond risparmia la generazione attuale di genitori, dai 30 ai 50 anni, nonostante riservi per loro i più gravi sospetti. In Höhenfeuer, fino a oggi il capolavoro di FMM, i genitori sono condannati a morire.
Höhenfeuer non è un dramma borghese realistico di colpa ed espiazione, ma una tragedia greca dalle dimensioni mitiche. So che la mia lettura di questa parabola di Edipo è in qualche modo diversa da quella che altri hanno fatto. Amio avviso, mantiene un sapiente buonumore proprio fino alla conclusione, evocando un inizio piuttosto che una fine, il nuovo inizio che Fredi Melchior Murer ha sempre suggerito, nello spirito di tempi remoti, in uno stato d’innocenza infantile.
La linea di demarcazione che Murer traccia tra la sua storia e il mondo del film è il risultato di un lampo di genio. Esclude con disinvoltura la location per concentrarsi immediatamente sul paesaggio. La prima sequenza della sceneggiatura s’intitola «Sistemare le trappole», una ouverture, per così dire, alla storia che segue. Una ragazza e il fratello sordomuto comunicano senza parole, quasi cospirando tra loro, con l’uso dei segni e le espressioni del volto. Il ragazzo sistema le trappole; la ragazza ripulisce dalle pietre un orto a terrazza. La macchina da presa si muove veloce a filo d’erba, lungo i cunicoli labirintici delle talpe. I ragazzi, adesso insieme tra i cumuli di terra, scommettono, a dita tese, poi congiunte. Uno? Due? Sono due e penzolano dalle trappole con il collo spezzato, sorprese dalla morte alla fine del tunnel della vita. I ragazzi si guardano, soddisfatti, con uno sguardo tra il curioso e il sorridente. Il tono è stabilito, il film apre in dissolvenza, a questo punto la storia inizia. È esemplare, fuori dal tempo. Reclama le sue vittime, prima di prendere un’inaspettata svolta amorale e terminare come una bellissima fiaba, un nuovo idillio familiare – un epilogo incredibilmente ardito.
I quattro personaggi principali in Höhenfeuer vivono in un loro mondo isolato: una casa, una stalla, pochi fienili, a monte di queste costruzioni, le vastità circostanti dei pascoli alpini, proprio sotto la rupe, in cima alla montagna di fronte alla casa dei nonni dall’altra parte della
valle. Giù a valle, in lontananza, il villaggio con la chiesa e il mercato. Il padre scende di tanto in tanto, l’intera famiglia ogni domenica. Solo una volta dei soldi compaiono sulla tavola. Padre e figlia hanno una radio a transistor, la ragazza per ascoltare musica da tutte le parti del mondo, l’uomo per avere la conferma che fuori il mondo è impazzito. Qui, nel suo mondo, secondo lui, ogni cosa è in ordine. Non è affatto così. Il suo mondo ha le stesse identiche tensioni di un qualsiasi altro. Dato però che questo mondo è un’isola, le tensioni vengono a galla allo stato puro e sono affrontate senza interferenze esterne. La situazione è presentata in maniera superba; la storia segue il suo corso fatale. Il ragazzo muto si fa uomo e s’innamora della sorella; i due si abbracciano fuori all’aperto. «Essi sognano lo stesso sogno», come afferma Murer. Stipulano un nuovo patto, per loro e contro il potere del vecchio patto e dei genitori; affinché possa sopravvivere quello nuovo, il vecchio deve morire. Il ciclo della vita e della morte. Niente e nessuno potrà mai cambiarlo; questo è il fato e il destino dell’umanità.
La riuscita del film consiste nel dare corpo a uno schema mitico con assoluta sicurezza e disinvoltura, con azioni e gesti realistici. Non ci propone un sistema di riferimento che potrebbe guastarci il piacere della visione, un grave difetto di molti film che affermano di voler offrire al mondo un modello. Fredi M. Murer, l’autore che viene dalla più sperduta delle valli della più profonda Svizzera centrale, eguaglia le vette del perturbante (sur)-realismo del suo grande mentore Luis Buñuel e dei suoi modelli giapponesi.
Veniamo prima agli oggetti. Prendiamo la stessa fattoria alpina. Non è stata una scoperta del regista, ma una sua creazione. Lassù, ogni animale, le mucche, i maiali, il cane, le galline, ogni attrezzo agricolo o utensile della cucina e ogni panno o abito, tutto è stato portato e il giardino è stato sistemato (sempre misurandosi con le stagioni). La fattoria sulla «montagna di fronte», il «mondo» dei nonni, distava per davvero 30 chilometri dal luogo della scena principale; quest’ultimo era il mondo della giovinezza di Murer, il primo quello in cui era nato. Il film s’incentra sulla crescente e silenziosa intesa tra il «Ragazzo» sordomuto e Belli, la sorella. Movimenti loquaci degli occhi e delle mani: Belli disegna le lettere dell’alfabeto sulla schiena del fratello, il Ragazzo tocca la gola alla sorella per sentire la vibrazione delle corde vocali. Gesti d’amore, sguardi, calore di un corpo protettivo. Le fasi di sviluppo del
M. SCHAUB
ragazzo sono mostrate nella scena in cui fa il bagno nudo nella fontana, quando distrugge le cose del padre in uno scatto d’ira, mentre costruisce un muro per punizione, e poi mentre colloca dei sassi in cerchio nel pascolo più alto.
Infine le morti e la veglia funebre. Gli stessi riti da tempo immemorabile. Il Ragazzo e Belli agiscono d’intuito: quando vestono i morti di tutto punto, collocano candele attorno al letto e davanti all’altarino votivo all’angolo; e poi la sepoltura nella neve, il lenzuolo annerito con la fuliggine per indicare il lutto alla fattoria della «montagna di fronte». (Alcuni spettatori l’hanno interpretata come la bandiera nera dell’anarchia.) E, infine, nella scena conclusiva, al culmine della blasfemia, i due fratelli si immedesimano nella vita quotidiana e nei comportamenti dei loro genitori. Senza sensi di colpa, senza alcun timore di dover espiare. Nemmeno una parola. Un patto per la vita contro la morte. Incredibile. Incredibile per come il buonumore si trasmetta in tutto il film e non sia mai intaccato dall’intrusione della morte. Il film, una storia estrema d’amore e della sua ostinazione senza compromessi nel proprio diritto a sopravvivere, induce talvolta al riso gli spettatori e non li fa sentire in colpa per questo. Come il Ragazzo stesso, che «non parla e quindi non sa cosa sia il peccato», non c’è nessuna ragione per cui il pubblico se ne vada con la coscienza sporca.
Come riesce il regista a far capire al pubblico il mondo interiore del ragazzo? Attraverso la reticenza e il calmo fluire delle immagini e, per quanto paradossale possa sembrare, cominciando ad ascoltarlo. Mentre le immagini creano «un mondo tutto loro» al di fuori della fattoria alpina e danno vita a una casa sulla «montagna di fronte» e nel più alto prato delle Alpi, i suoni – la varietà di suoni naturali e la colonna sonora della musica elementare delle sfere – fanno calare gli spettatori dentro l’anima dei personaggi. Sono proprio la definizione dell’immagine e la risoluzione del suono a conferire il suo incanto al film. La sua cultura è come un linguaggio originario, come la natura. «Una seconda natura», come dice Fredi M. Murer. Forse questa è una definizione accettabile del concetto di poesia, quella del regista e della poesia tout court.
1 Si tratta della «Üsserschwiiz», termine usato dagli abitanti dell’Oberwald per indicare il resto della Svizzera [N.d.T.].
Story board di «Höhenfeuer»
DOWNTOWN SWITZERLAND
FREDI M. MURER EILCINEMASVIZZERO
Domenico Lucchini
Venti film, quarantacinque anni di carriera (il suo primo film, Marcel, data il 1962); un’opera importante anche se sicuramente non ancora conclusa. Far conoscere in Italia, come è il caso con questa retrospettiva, il cinema di Fredi Melchior Murer, significa scoprire la specificità del cinema svizzero o meglio ancora di quello svizzero-tedesco nelle sue diverse tappe e derive. Come ben dice Richard Dindo, il nostro maggiore regista documentarista, a ogni svolta del nostro cinema c’è un film di Murer: «Lui è sempre presente, con noi e nel contempo altrove, un po’ a fianco e un po’ più avanti o le due cose insieme» 1 Fredi Murer è originario della Svizzera centrale, nato nel Canton Nidwaldo e cresciuto in quello d’Uri, uno dei nostri cantoni «primitivi», fondativi della Confederazione elvetica. Questo non è un dato puramente anagrafico, ma soprattutto per i registi svizzero tedeschi, le «radici» sono una componente essenziale per il loro cinema.
Da quando si vota al cinema, nel contesto della Zurigo degli anni ’60, Murer è sempre rimasto una persona modesta, rimarchevole ma poco rimarcata, impegnata ma lontana dai clamori dello spettacolo e dai dettati del box office, anche quando i suoi film – da Höhenfeuer, vincitore nel 1985 del Pardo d’Oro al Festival di Locarno, considerato oggi il più «bel film» della storia del cinema svizzero – hanno riscontrato un vasto successo di pubblico e lo hanno fatto assurgere a notorietà internazionale.
Del milieu urano ha conservato l’argutezza e il buon senso, non certo la scaltrezza e l’intraprendenza atte a cogliere le occasioni al momento giusto per calcolo e opportunismo. Le sue ultime due produzioni, Vollmond del 1998 e il recente Vitus, hanno avuto lunghissimi periodi di gestazione, complicati da questioni co-produttive, di sceneggiatura e di casting.
I suoi quarantacinque anni passati a fare cinema possono ripartirsi in tre fasi, e forse in una quarta che si staglia all’orizzonte, che coinci-
dono o vanno in parallelo con l’evoluzione del cinema svizzero. I primi esilaranti anni ’60 e ’70, fatti di sperimentalismo e cinéma de copains , poi la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 con il cinema più professionale, la sua prima fiction e la consacrazione con Höhenfeuer, periodo che coincide, dopo il «miracolo» degli inizi e il suo consolidamento, con la fioritura e l’âge d’or del cosiddetto «nuovo cinema svizzero». Quindi il decennio 1990-2000 con le ristrettezze del mercato nazionale, la difficoltà della ricerca di partner stranieri, che coincide con l’avvento della produzione video, le difficoltà di accesso alle misure di compensazione determinate dal rifiuto di adesione della Svizzera allo spazio economico europeo. Ora siamo agli inizi del nuovo millennio, dove la posta in gioco per il cinema d’autore è sempre più alta, dove le difficoltà di produzione o di co-produzione aumentano e per la sua sopravvivenza si cercano nuovi mezzi e nuovi pubblici. Uno scenario con cui si confronta anche il nostro sistema di promozione statale che ha introdotto da qualche anno l’aiuto selettivo legato al successo, il premio del cinema svizzero e altre misure atte a incentivare il cinema svizzero sotto il motto, invero un poco ambiguo e contraddittorio, di «qualità e popolarità». Una situazione in cui si è trovato coinvolto, nel bene e nel male, anche Fredi Murer già con Vollmond e soprattutto con Vitus. Agli albori del nuovo cinema svizzero e ancora fin verso la metà degli anni ’80, la produzione cinematografica svizzera conobbe un periodo particolarmente fiorente durante il quale beneficiò di una congiuntura eccezionale, di mezzi e di talenti, accompagnata da una duratura risonanza internazionale. Nella Svizzera francese si impose il film di finzione mentre nella Svizzera tedesca divenne un elemento caratterizzante quello documentario. Le misure di promozione legate alla legislazione federale sulla cinematografia entrata in vigore nel l963, pur con risorse limitate anche negli anni successivi, e la televisione, in qualità di co-produttrice, contribuirono in modo decisivo, un po’ sulla falsariga della politique des auteurs francese, all’affermazione di queste due forme espressive del cosiddetto nuovo cinema svizzero. Una produzione cioè estetica identificabile come «svizzera», che presentava caratteri formali e contenutistici «universali» di grande modernità, pur emergendo e prendendo spunto da una situazione strutturale, da un ambiente culturale particolare, da modi di vita specifici, insomma da ciò che è stato indicato anche in seguito come «suissitude» (termine che
D. LUCCHINI
un giornalista di «Le Monde» vedeva quale ibridazione di «suicide» e «solitude»).
Fra questi autori protagonisti ci fu anche Fredi Murer, forse suo malgrado, se è vero che in quegli anni affermava: «Posso tranquillamente concepire tutto il cinema svizzero senza di me, ma pure me stesso senza il cinema svizzero». I suoi primi lavori da Pazifik all’episodio 2069 di Swissmade risentono della sua provenienza geografica e culturale anche se in un senso che potremmo definire opposto a quello delle montagne ataviche del suo paese natale di Wir Bergler in den Bergen… che aveva lasciato alle sue spalle per la città. Erano i primi anni ’60 e una città come Zurigo poteva ben rappresentare per un giovane regista autodidatta il mondo, perlomeno visivo, dove l’occhio, la cinepresa scopre ogni giorno nuovi scampoli di realtà. Balance, Sylvan, Chicorée, Vision of a Blind Man, sono film-ritratto, volutamente anticonvenzionali, anarchici, dei saggi, dei «compiti in classe» estemporanei con cui Murer verifica il suo processo evolutivo nel campo della Settima arte, in cui scopre il cinema non come mezzo per una possibile espressione ma come necessità stessa dell’espressione.
Non si può parlare di stile poiché queste pellicole non sono raffrontabili, ciascuna è un capitolo in progress. Tutte le pellicole sino al ’69 con in più l’appendice rappresentata da Passagen del ’72 hanno ragione d’essere come esigenza personale, realizzate con estrema precarietà di mezzi, con il concorso di amici con cui Murer occupa case, ascolta musica e poesie. È una dimensione intima, privata, circolare, vicina al sogno, alla fiction. D’altra parte Murer non si poneva ancora a priori il problema di come la fiction potesse trovare diritto di cittadinanza nel documentario. Il punto di rottura è contrassegnato dall’episodio 2069 di Swissmade. Film di comanda a più voci, commissionato dalla Banca Popolare Svizzera, costituisce per Murer il banco di prova per un salto di qualità: sceneggiatura, montaggio accurato, colonna sonora, niente improvvisazione. Il tema prefissato (la Svizzera di domani) lo intriga, con l’aiuto di Giger, artista scenografo, mette in scena e racconta una parabola fantascientifica popolata di biomeccanoidi, metafora sottile e critica riflessione sul nostro comportamento sociale e quello futuro. Ma il film (in tutti i suoi episodi) non piacque troppo e non ebbe un buon successo, fatto che rammaricò Murer e lo indusse a emigrare momentaneamente con la famiglia a Londra da dove rientrò in Svizzera solo a
causa della morte del padre, episodio che lo fa riflettere e ragionare nuovamente in termini di cinema.
Nel 1974 gira Wir Bergler in den Bergen…, film che rompe definitivamente gli schemi classici del documentario spazzando via quei luoghi comuni che avevano alimentato la falsa immagine cinematografica, mutuata dal cinema svizzero d’anteguerra, di montagne e pastori, inconsapevoli eredi di ontologiche certezze. Il corpo del film è costituito nel contempo dai personaggi, i luoghi e la cinepresa, non oggetto estraneo ma sussunto nell’ancestralità del quotidiano, nella scansione del tempo che Murer traduce in «tempo visivo», teso alla ricerca mitologica delle origini e della propria identità, «pura etnologia della visione». Qui il documentario assurge a strumento per investigare cosa è realmente la finzione, per scoprire l’accumulo di menzogne che hanno fuorviato la storia; il documentario come momento di un percorso verso una nuova definizione della finzione che racconti la storia di Uri (tutta la storia) come una storia vera. Richard Dindo osserva giustamente: «Quando si è vissuta la storia come mitologia, si finisce per avere un rapporto falso con la finzione. Bisogna dunque reinventare la finzione altrimenti ricadiamo nel cinema, nei medesimi cliché che ci sono noti, nella mitologia. Sarebbe praticamente come continuare una storia falsa con false immagini» 2 .
Con il film successivo, Grauzone, Murer approda al «vero» film di finzione, passando dalla mitologia delle radici a quella della quotidianità. Ma in questa fiction vi è tutta la sua tradizione documentaria, poiché per Murer non si tratta di passare a un genere diverso; dove la finzione diventa un espediente per radiografare una realtà con tanta precisione (da qui la necessità dell’artificio) da farci intravedere ciò che è latente. È l’immagine della Svizzera di domani che si sovrappone alla Svizzera attuale. Ma Murer non si accontenta di ciò, la sua ricerca va ben oltre: non si tratta di una messa in scena ma di una «messa in suono», come nota Norberto Vezzoli. «La colonna sonora sviluppa quasi un film parallelo e complementare a quello visivo, il suono riempie le inquadrature, le trasforma, diviene il palinsesto di questa storia radiofonica. La tecnica mureriana ci immerge in un cinema totale, dove la vita è un film e Murer stesso un’immagine» 3
In una prospettiva iconografica ci immerge anche Höhenfeuer, un capolavoro con cui Murer riesce a dire l’indicibile. Höhenfeuer è un film al contempo etnografico, autobiografico, psicanalitico, naturalista e fan-
D. LUCCHINI
tastico, così complesso e autentico come lo è l’esistenza. Agli antipodi dell’«Heimatfilm» dove i personaggi non sono che figuranti e il cui pathos dovrebbe rappresentare i valori della Svizzera eterna, Murer racconta una storia bella come una tragedia antica ma inserita in un contesto moderno definito, dove la simbologia coglie i motivi di fondo nella mitologia universale ma anche nei segni della modernità. Si tratta in effetti della descrizione minuziosa, scandita nelle diverse stagioni, della vita di una fattoria situata nelle Alpi e in questo senso vi si ritrova il punto di vista entografico di Wir Bergler in den Bergen… Ma guardando più da vicino si capisce che il film non ha una dimensione regionale, aneddotica, ma bensì universale.
Lo chalet dell’«irascibilità», l’alpeggio, le montagne incombenti, la recondita vallata, divengono il palcoscenico dove si svolge e si consuma la tragedia e il racconto dell’amore incestuoso fra fratello e sorella. Questo film complesso, come ben annota Martin Schaub «è una summa delle principali componenti dell’opera realizzata da Murer dagli anni ’60 e anche una summa di elementi caratterizzanti del nuovo cinema svizzero che Murer ha tanto influenzato: oltre allo sguardo etnografico vi si ritrovano i temi del conflitto tra padre e figlio, della fuga, della realizzazione identitaria, l’evocazione di una vita arcaica eccetera» 4 .
Nel 1985 Höhenfeuer fu plebiscitato dal pubblico e raccolse il Pardo d’Oro al Festival di Locarno. Soltanto nel 2006, vent’anni dopo, un altro film svizzero di una giovane regista, Das Fraulein, vince il premio più ambito di questa grande kermesse, piattaforma internazionale e luogo di incontro e di confronto per il cinema svizzero. Le sue ore di gloria il cinema svizzero le avrebbe vissute solo in quel tempo trascorso, dalla rinascita a metà degli anni ’60 alla metà degli anni ’80, quando paradossalmente i mezzi e le strutture erano limitati, la considerazione politica poca e gli autori e i tecnici si battevano per poter accedere con i loro film nelle sale. Oggi il dubbio che il fenomeno del giovane cinema svizzero sia giunto al capolinea dopo una stagione fertilissima permane. Non che siano venute meno le tematiche né che improvvisamente siano mancati i talenti fra i registi. È piuttosto il contesto del cinema internazionale a porre nuove condizioni. Del solo mercato locale il cinema svizzero stenta a sopravvivere e le sovvenzioni pubbliche non sempre sono sufficienti per portare un film a pareggio. D’altra parte i piccoli produttori locali sono sempre più propensi a cercare partner stranieri o a piazzare in anti-
cipo quando possibile i loro prodotti sul scena internazionale. Inoltre televisione e video si fanno avanti in modo invasivo. L’indipendenza, conquistata con molti stenti e con pochi mezzi, sembra in pericolo. Una constatazione che si è potuta evincere anche dalle osservazioni preliminari al disegno della nuova legge federale sulla produzione e la cultura cinematografiche, ora entrata in vigore, elaborato da una commissione di esperti alla vigilia del 2000. In Svizzera gli investimenti nella produzione di film sono assai limitati e con i budget in aumento diventerà sempre più difficile realizzare dei lungometraggi grazie alle risorse finanziarie interne, foss’anche come partner di minoranza nelle co-produzioni. Sempre più rari saranno i lungometraggi classificabili come «svizzeri» dal profilo contenutistico e artistico. Il lungometraggio svizzero, in specie quello a soggetto e di lingua francese, conosce oggi una crisi dalle varie sfaccettature e ha perso sia quote di mercato sia apparentemente reputazione: rari sono i film che dispongono dei mezzi finanziari e del marketing necessari a imporsi su un mercato dell’audiovisivo fortemente concorrenziale. Tuttavia, in questi ultimi anni, soprattutto nella Svizzera tedesca, alcuni segnali e il successo riscontrati da alcuni film, sembrano indicare una controtendenza. Anche la fiction, oltre al documentarismo che ha sempre goduto invero di buona salute, sembra essere più apprezzata: la valorizzazione del dialetto svizzero tedesco in tutti i settori della vita pubblica e culturale ha contribuito a creare una nicchia di mercato e ha decretato per alcuni film un grande successo di pubblico. Il box office e l’aumento, anche se relativo, dell’audience, sembrano confermare questa tendenza sostenuta anche dalla nuova politica federale in materia che vede di buon occhio il successo di pubblico e un ritorno al cinema «popolare e di qualità». Resta, oltre che sulle terminologie, da intendersi sui principi e le finalità di questi intenti e capire se il successo annunciato di alcuni film sia un autentico antidoto alla crisi, sia sinonimo di maggiore consapevolezza da parte dei nostri politici e se questo cinema entrerà mai a far parte a tutti gli effetti del nostro patrimonio culturale. Ciò non toglie che un recente studio sociologico commissionato dalla Sezione cinema della Confederazione abbia comprovato questa tendenza e mutazione di giudizio rispetto al nostro cinema. Una statistica, contenuta in questo essai, concernente l’odierna conoscenza e visibilità di un film come Höhenfeuer di Murer, ben testimonia di questa situazione.
D. LUCCHINI
Höhenfeuer è familiare agli svizzeri (il 58% lo conoscono e il 37% l’hanno visto) anche se, di nuovo più nella Svizzera tedesca (circa l’80% lo conoscono e circa la metà delle persone l’hanno visto) che in quella romanda […] Contrariamente alla storia, imperniata sulla relazione tra fratello e sorella, è un po’ più conosciuto dagli uomini anche se è stato visto ugualmente da entrambi i sessi. […] Anche qui si osserva una cesura attorno all’età, sono soprattutto persone, di estrazione modesta più che universitari, sopra i 25 anni ad averlo visto: 42% tra i 25 e i 44 anni, 65% sopra i 45 anni. 5
Probabilmente come suggerisce la fine dello studio in questione si tratterà in qualche modo di ridefinire la categorizzazione di «cinema svizzero» e di individuare un nuovo pubblico per questo cinema, due processi concomitanti che sono già in corso, come notato, nella Svizzera tedesca. La proposta fatta propria ormai anche dal largo pubblico di rivelare attraverso un cinema anche più commerciale «le realtà nascoste della Svizzera» che è sempre stata una prerogativa di certi nostri registi impegnati, mostra d’altronde una via per risolvere la quadratura del cerchio: connettere il cinema elvetico passato con quello futuro, creare una continuità, che in questo momento ancora manca presso il pubblico, fra i diversi strati della popolazione elvetica e il loro vissuto cinematografico.
È quanto si è accinto a fare Fredi Murer, non so quanto consapevolmente, nell’ultimo suo periodo creativo, con i lungometraggi a soggetto Vollmond e Vitus. Prima di questi due film, molto prima, nel 1990 e dopo un intervallo di ben cinque anni dal successo di Höhenfeuer, Murer realizza un lungo documentario, Der grüne Berg. Il film, ambientato in una regione del Nidwaldo minacciata di divenire un deposito di scorie radioattive, prolunga in un certo qual senso la riflessione di Wir Bergler in den Bergen… ma anticipa soprattutto quella di Vollmond; le preoccupazioni dei contadini sono mutate, l’assunto diviene specchio della Svizzera moderna. La cinepresa mette a confronto un passato che si nutre di memoria collettiva con un avvenire di incertezze che le sicurezze tecnologiche non alleviano dalla paura. Da qui il ruolo importante ancora una volta delle testimonianze dei bambini, leitmotiv anche dei film successivi, i soli protagonisti del futuro.
Der grüne Berg fornisce lo spunto a Murer per dei soggetti successivi che saranno elaborati nel corso di un lungo ed estenuante travaglio dura-
to anni. Sollecitato dalla figlia che in seguito alla catastrofe di Černobyllo induce a responsabilizzare in proposito gli adulti, Murer progetta di realizzare due film, uno filtrato attraverso lo sguardo della figlia, l’altro da una sua lettura in controluce di quegli avvenimenti. Dopo varie vicissitudini produttive e l’impossibilità di acquisire i necessari finanziamenti, Murer deve rinunciare al doppio progetto e realizzare un unico film in cui si concentrano i due assunti. La storia di 12 ragazzi che in una notte di luna piena scompaiono nelle diverse regioni del paese, fornisce il topos per una narrazione a tinte drammatiche e ironiche sulla mentalità elvetica, girata nelle quattro lingue nazionali e in dialetto. La Svizzera diventa una metafora per un plaidoyer «più immaginativo che logico», come recita la sinossi. La ricognizione nel nostro paese è la parte più inquietante e forse più riuscita del film: le strade, le montagne, il modo di filmare le macchine, i segni dell’architettura umana in una natura magniloquente ne fanno risaltare un tratto insolito e curioso, ancorché inattuale, di isola più o meno felice nell’oceano dell’Europa. Ametà tra un film di Spielberg e uno di Altman, Vollmond ha l’ambizione del grande cinema e del largo pubblico pur rimanendo un film d’autore legato a una realtà regionale. Un dettato a cui Murer raccomandava di attenersi in quegli anni in cui era anche presidente dell’Associazione dei Registi Svizzeri: «Dobbiamo fare dei film che rispecchino il nostro linguaggio e che abbiano un senso di appartenenza alla patria». Vollmond ebbe in effetti un lusinghiero successo di pubblico anche se non sempre di critica. Grande successo di pubblico, 200.000 entrate a tutt’oggi alla vigilia della distribuzione nella Svizzera francese e in molti paesi al mondo, sta raccogliendo il recente lungometraggio Vitus. Anche questo film come Vollmond ha vissuto molte traversie produttive.
Abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura di Vitus nell’agosto 2000. Un anno dopo avevamo la versione pronta per essere girata. La mia produttrice ha tentato di mettere insieme una co-produzione europea per due anni, ma invano, perché i nostri partner ponevano condizioni sempre più inaccettabili. La stessa Euroimages ha rifiutato il progetto otto voti a uno. In breve: nel 2003, il progetto era, per cosi dire, morto. Non appena ho ottenuto i diritti del libro, ho deciso di fare un film low budget finanziato in Svizzera. Ho creato quindi una piccola società e mi sono dedicato alla raccolta di fondi per un anno, continuando a cercare un attore di 12 anni
per interpretare Vitus perché ormai il film dipendeva da lui. Tra la scoperta del «cigno nero» e l’uscita nelle sale di Vitus, sono passati altri due anni. Aeccezione del contributo di «Arte», il film è stato finanziato esclusivamente in Svizzera. 6
Anche Vitus è un manifesto per l’infanzia, tematica che percorre tutta l’opera di Murer, dove si illustra il tormento di un ragazzo superdotato che ha voglia di essere come gli altri ma ha difficoltà a realizzarlo. Già il primo cortometraggio di Murer, Marcel, era uno studio su un ragazzo undicenne che si dilettava a giocare con un aereomodello e manifestava la sua «voglia di volare»! Höhenfeuer evocava la violenza dell’interdizione parentale che sconvolge la vita di due adolescenti. Vollmond è la parabola di una banda di ragazzini che vuole sfuggire alla sorveglianza esasperante dei genitori. E anche i documentari Christopher & Alexander, Wir Bergler in den Bergen… e Der grüne Berg hanno al centro l’infanzia. Vitus è un racconto fantastico contrappuntato di episodi che lo fanno assurgere a favola e apologo: riflessione sull’infanzia, ma anche sulla saggezza (vedi il personaggio del nonno splendidamente interpretato da Bruno Ganz), sull’incomprensione dei genitori, sulla libertà inalienabile dell’arte e sulla critica, anche se velata, della nostra società.
Una società, a immagine di quella della Zurigo di Dowtown Switzerland, episodio che Murer realizza nel 2003 per un film collettivo, irta di contraddizioni, di stili, di culture, di sensibilità diverse, spesso contrastanti anche se inserite in un quieto vivere, che il regista ha sempre indagato nella sua opera con lucidità e spirito critico, ma anche con affetto e humour, non rinnegandola mai.
Da adolescente mi sono sempre rifiutato di affermare «sono svizzero» dichiarando ostentatamente «sono una persona». Da adulto ho realizzato con orrore che prima di tutto ero svizzero e in seconda istanza un essere umano. Malgrado ciò non ho mai smesso di lottare contro il proclamato «Swissness» che in sé stesso è un retaggio molto svizzero, tipico in fondo della mia generazione settantottesca. Per me la Svizzera, citando il famoso adagio di Dürrenmatt, è «la più aperta delle prigioni», da dove, insaziabile viaggiatore, sono sempre partito, solo per ritrovarmici più pacificato e con un maggior senso d’affezione: ho girato tutti i miei film in Svizzera! 7
1 Richard Dindo, Quelques idées brouillonnes à propos de deux films de Fredi M., in Fredi M. Murer, Pro Helvetia, Zürich 1980.
2 Ivi
3 Norberto Vezzoli, Cinema Svizzero. Tre Cineasti - Tre Aspetti. Fredi M. Murer, Daniel Schmid, Alain Tanner, Pro Helvetia, Espaces 80, Zürich 1980.
4 Martin Schaub, Martin Schlappner, Cinéma suisse. Regards critiques 1896-1987, Centre Suisse du cinéma, Basel 1987.
5 Olivier Moeschler, Les Publics du cinéma en Suisse, OSP- UNIL, Lausanne 2005.
6 Mathieu Loewer, Intervista con Fredi M. Murer. Regista, «Cineuropa», novembre 2006.
7 Irene Genhart, Seven Questions to Fredi Murer, in Director’s Portrait, Swiss Films, Zürich 1998.
LO SPECCHIO DEI SENTIMENTI
BAGLIORI E SILENZI DI UNASTORIAD’AMORE
Angelo Signorelli
Höhenfeuer racconta una storia piccola e lontana, come se ci si trovasse attorno a un fuoco immaginario, con gli spettatori che vengono incantati da fatti che avvengono molto lontano, quasi fuori dal mondo, tra le nebbie delle montagne, nella solitudine dei pochi che, ancora, resistono lassù, sui «pascoli del cielo». Qui ripetono i loro giorni due fratelli e i loro genitori, tra gli animali a la freschezza dell’acqua, ormai adattati ai tempi della luce a del buio, alla supremazia del freddo, costretti a rincorrere il poco caldo per dare sollievo ai corpi e agli oggetti. Sembra proprio l’inizio di una fiaba e ci si aspetta, così, che da un momento all’altro qualcosa sconvolga il piccolo mondo, che da chissà dove qualcuno o qualcosa arrivi a disturbare quell’apparente armonia.
Niente di tutto questo: i quattro personaggi porteranno a compimento il loro dramma da soli: gli altri, la società con le sue regole, rimarranno laggiù, oltre il lungo sentiero tortuoso, oltre la teleferica, che separano in modo netto la terra dal cielo. Qui molte cose avvengono e sono cose inimmaginabili per il senso comune, per il cittadino che vede nella montagna il regno dell’incontaminato, del «privilegio» che appartiene alla vita di chi sta a contatto della natura e può godere di una libertà invidiabile. Il paesaggio, in realtà, è solo una grande maschera, un grande paravento che nasconde e insieme protegge l’essere nel mondo del giovane pastore che non sa parlare e che gioca con la vita, il sesso e la morte. E con lui la piccola comunità, chiusa e apparentemente inossidabile, inseparabile dalle cose, dalle altre creature, dai suoni, dai ritmi che scandiscono i giorni e le stagioni.
Le prime immagini vengono da una lenta carrellata sul prato, fino a inquadrare due mani che scavano e mettono una trappola per talpe; sono le mani di Ragazzo che si incontrano poi con quelle di Belli, la sorella. Nella sequenza successiva ci troviamo nella camera dei genitori, con quei
letti in legno scuro, semplici e alti, dai profili arrotondati, come si trovavano un tempo nelle case contadine; al muro spoglio è appesa l’immagine sacra di un bambino benedicente. Anche qui una lenta carrellata va a prendere il padre che si alza di buon mattino e lo segue mentre lascia la moglie ancora dormiente. Il tempo è quello dei gesti quotidiani, della natura che detta il programma della giornata; anche i momenti di svago sono dettati dalla necessità. È anche il tempo dei piccoli gesti, come il latte versato per la colazione, quando intorno ogni oggetto sembra ancora intorpidito, dopo la sosta notturna.
Eppure, l’inquietudine già si sente, qualcosa si avverte nell’aria, in maniera indefinita. C’e un’inquadratura particolarmente fissa: un tavolo con due sedie, sopra un piatto ricoperto da una fondina e un cucchiaio appoggiato, con vicino un bicchiere di vino e una fetta di pane scuro. Qualcuno non ha ancora mangiato, non ha diviso con gli altri la comunione del cibo. Il Ragazzo agisce autonomamente, non partecipa alle abitudini della casa; la disposizione della vivanda fa pensare che potrebbe mangiare anche molto tardi. Non è atteso, prima o poi arriverà. La durata dell’inquadratura ha un che di sospensivo, rompe la quiete della rappresentazione, dice sommessamente, ma drammaticamente, che nella casa non tutto è tranquillo. La scena che segue è piu esplicita: il Ragazzo è seduto con la schiena contro la parete e vi batte ripetutamente la testa fino a prendersela stretta tra le mani, come a evitare che scoppi. Poi la situazione ritorna normale, con le donne che si occupano delle faccende domestiche, ma ormai è chiaro che c’è qualcosa di diverso, di imprevedibile, di strano: qualcuno che, con la sua singolare presenza, agiterà la storia della piccola comunità.
Molto succederà sulla montagna, ma la visione non sarà accompagnata dal fragore della retorica, gli eventi precipiteranno dapprima con dolcezza e poi con una sorta di svolgimento fatalistico, come se tutto fosse già stato scritto sulle pietre e sui corpi. Murer contiene il racconto entro una visione pacata e teneramente distante, lasciando che l’evidenza della quotidianità leghi con il manifestarsi del turbamento, della successiva catastrofe e contemporaneamente ne assorba l’inevitabile clamore. Tutto è bizzarro nel comportamento del ragazzo: il suo apparire e scomparire improvvisi, il suo curiosare di nascosto, il suo arrivare da una botola, nel soffitto sopra la stufa. È un bambino, quasi un cucciolo che gioca con quello che gli capita tra le mani, che ha paura del temporale,
A. SIGNORELLI
che si arrabbia o cade nel silenzio più assoluto. La sordità e lo sviluppo corporeo che contrasta con gli atteggiamenti fanciulleschi sono il suo modo di manifestarsi agli altri, i quali lo trattano con la pazienza, l’irritazione, la comprensione e l’incapacità normalmente riservate a un soggetto mentalmente malato. Murer, però, non sembra interessato a scavare dentro la diversità, alle motivazioni «sociali» della situazione esistenziale del ragazzo; nella sua famiglia ci sono le tensioni e le tonalità affettive che possiamo trovare dovunque. Poca importanza hanno le condizioni umane e ambientali, la limitatezza dell’orizzonte conoscitivo, la povertà della sollecitazione interpersonale. Ciò che veramente conta è l’espressione della soggettività del ragazzo, la sua autarchia spirituale, la sua sfida al mondo. Egli realizza alcune esperienze fondamentali, cercando di dare libero corso a un’interiorità impedita dal non poter dire di sé alle persone che lo circondano. Così, non serve a nulla saper scrivere sotto dettatura parole che non nascono da un bisogno di comunicare, di raccontarsi e di suggestionare. Quello dell’incomunicabilità è un dramma atroce, soprattutto quando è questione non di esigere risposte, ma di desiderare il proprio riconoscimento. Il Ragazzo combatte una battaglia irrimediabilmente persa se pretende che l’altro lo veda come soggetto di pari valore sul piano dello scambio identificativo. Egli rimane un «essere inferiore», qualcuno che viene tollerato per la sua eccentricità e compatito per la sua inettitudine; qualcuno al quale viene negata la possibilità di diventare una persona adulta. Il Ragazzo ha intorno un universo rigido e quindi non gli rimane che essere sé stesso fino in fondo, al di fuori delle regole e contro l’intelligenza di chi lo vorrebbe in qualche modo recuperare. La sua intenzionalità nasce dal profondo, dalla forza primaria di affermare una sua originarietà sostanziale. Murer non fa che «obbedire» a tale evidenza; il suo cinema si fonda sulla discrezione, sul rispetto per i segni e per i tempi della diversità. Mai il racconto è contaminato dal giudizio, piuttosto si fa strada sovente la dolcezza e la magia, l’incanto dell’occhio preso dalla sincerità, dall’ingenuità del «ragazzo selvaggio». Il regista guarda la sua creatura con un atteggiamento di paziente attesa, senza mai dare l’impressione di volere interferire; al di là della natura dei protagonisti, la loro storia d’amore ha la forza del desiderio, della complicità, dell’affetto smisurato, dell’incontro tra due solitudini, dell’occasione creata dalle circostanze della vita, della passione che restava latente e che un calore nuovo ha improvvisamente liberato.
C’è un grande senso di purezza in tutto quello che fa il Ragazzo, una purezza che si rivela in una sorta d’indispensabilità del gesto, il quale, da solo, sembra produrre esistenza, richiesta all’altro e, insieme, ascolto, reticenza, timoroso sospetto. Mancando dello strumento principe della comunicazione interumana, la parola, il Ragazzo appare distante anche da ogni atteggiamento riflessivo; innanzitutto agisce, in modo quasi autistico, affidando unicamente alla propria corporeità la risposta linguistica all’aggressione dell’esterno. Si ha come la sensazione che voglia difendere il proprio io da un nemico che egli avverte troppo potente, troppo superiore ai suoi scarsi mezzi, che si traducono fondamentalmente nell’impossibilità di opporre ragioni alle definizioni, ampiamente motivate, di coloro che parlano e che sanno, e che quindi si sentono in grado di spiegare sé stessi e gli altri. Egli può solo contrapporre il suo non sapere, che non significa mancanza di conoscenza, ma significa, in maniera più «vera» e profonda, abitare il reale con la propria sensibilità. Ciò che può far pensare a un linguaggio primitivo, in realtà è la donazione di sé nella solitudine dell’essere differente. Per tutto il film i suoi progetti non trovano mai l’accordo con il resto del gruppo; le sue azioni ricordano le innumerevoli ripicche del mondo infantile e si accompagnano a un forte senso di appropriazione degli oggetti, siano essi cose o persone, che via via entrano nel suo campo d’azione.
Davanti allo specchio
Nell’essenzialità della sua costruzione personale entrano in gioco –in senso letterale – lo sguardo, il sesso, la morte. Lo sguardo è curiosità, è scoperta, è soprattutto invenzione. Il Ragazzo è affascinato dagli oggetti che si interpongono tra l’occhio e la realtà e che la trasformano, la alterano. In particolare lo specchio, usato in maniera cinematografica, riflette una realtà che muta col continuo cambiare della direzione e dell’inclinazione. L’immagine che cambia, l’inquadratura entro cui le cose appaiono e scompaiono, dove si forma una realtà che ciascuno può manipolare come vuole, che può mettere insieme secondo i suoi desideri e i suoi punti di vista. Come dimenticare la bellissima inquadratura dei due fratelli che si confrontano con l’oggetto magico; seguendo i loro sguardi entriamo in uno spazio assolutamente contemplativo e di forte carica ero-
A. SIGNORELLI
tica. Lui la guarda da sopra la cornice, mentre nello specchio vediamo che le accarezza il viso; lei lo guarda dal basso verso l’alto, i suoi occhi sono grandi, pieni di tenerezza e di affetto. La geometria circoscrive per un istante l’enorme tensione che unisce i due giovani esseri, per un istante la loro distanza e la loro vicinanza si chiudono in una meravigliosa armonia. Nel campo visivo si condensa lo scarto tra realtà e rappresentazione, tra realtà e desiderio, tra realtà e immaginazione; il possibile si rivela nell’incanto, improvvisamente il tempo precipita e nessuna misura stabilita riesce a ripristinare il corso della legge. È come una vertigine che fa cadere ogni barriera, l’inizio di un orgasmo che, a quel punto, può solo continuare e chiudersi con la pace della soddisfazione e dell’incoscienza.
II Ragazzo ama distorcere la realtà con un piacere quasi morboso: si veda come egli si accanisce sui volti e sui particolari con la lente d’ingrandimento del nonno, come si precipita ad afferrare il cannocchiale, altro strumento che sfalsa le porzioni di mondo sulle quali è puntato. Si diverte con il pezzo di tubo a isolare particolari, come faceva una volta il cinema muto. Murer gioca anche lui con le bizzarrie dell’occhio, diventa complice dei divertimenti del suo personaggio, lascia che la macchina da presa scherzi con quei dispositivi ottici. Egli dà l’impressione di voler avvicinarsi il più possibile alla fantasia del ragazzo, di volerlo capire utilizzando il suo modo di esprimersi, di mettersi realmente nei suoi panni, perché, così facendo, puo sospendere qualsiasi giudizio e far sì che la storia si svolga fino alle sue estreme conseguenze. Il gioco è l’elemento dominante della prima parte del film, quello che filtra l’eccentricità e la fanciullezza del ragazzo, l’amorevole cura della sorella, la preoccupazione della madre e la severa comprensione del padre. Nella seconda parte il quadro cambia: il primo atto è la fuga dal padre che lo minaccia per aver distrutto il tagliaerba. Il secondo atto è l’incesto con la sorella che, dopo alcuni giorni lo raggiunge all’alpeggio per portargli del cibo; il terzo atto è la morte tragica dei genitori, causa prima la gravidanza di Belli. Sembra una parabola psicanalitica, ridotta all’essenziale dalla semplicità del contesto. Eppure, anche qui, non conta la presunta «mostruosita» di quanto è successo, ma conta, ancora una volta, il modo con cui il Ragazzo reagisce agli eventi. Il suo corpo adulto obbedisce come sempre all’istinto, guidato dalla confidenza raggiunta con la sorella, con la quale continuerà a giocare anche dopo che la vede
ingrossata nel ventre, senza restare particolarmente turbato dal cambiamento fisico di lei; anzi, non capisce e fugge di nuovo quando lei si nega alle sue attenzioni. L’aggressione al padre è una difesa animalesca, naturale, della compagna minacciata, della prole che sta per nascere. Dopo la loro morte, non affiora in lui alcun senso di colpa. I corpi diventano oggetto di un rito che ne conservi la presenza ancora per qualche tempo; sono composti come per un lungo sonno, che il freddo preserverà ancora per un po’ di tempo, fino all’avvento della primavera. Murer, di nuovo, sceglie di non forzare l’andatura lungo il percorso drammatico; la tragedia rimane come un evento inevitabile, un dato di fatto che non travolge il racconto condizionandone l’esito. La morte entra di forza nella casa, così come la capacità di uccidere, che c’è anche nella creatura più fragile e apparentemente inoffensiva. Eppure, il trambusto e lo sconcerto non durano a lungo; lo spazio si richiude e la calma ritorna, e la vita continua. La storia d’amore tra i due fratelli non puo essere attribuita alle condizioni di vita e a essa nulla si oppone perché non si realizzi; lassù, nell’alto della montagna, tra le rocce e le nebbie, c’e tutta la libertà del vento e dello spazio che si prolunga nell’infinito del cielo, i corpi dei ragazzi si uniscono, illuminati e protetti dal fuoco. Molta felicità c’era stata quando si erano rivisti, con quell’ampia carrellata che accompagna la corsa gioiosa di lui verso la sorella che è venuta a trovarlo. Tutto accade come per necessità, forse ancora per gioco, ma ora c’è la disponibilità di Belli, la sorella che è anche una seconda madre, per certi versi più importante di quella naturale. All’anziana donna spetta il compito, difficile e tremendo, ma che solo lei può assumere perché il sentimento di una madre può sopportare qualsiasi cosa, di capire la maternità della figlia, di accettarla anche con l’aiuto di una religiosità fatta di tanta rassegnazione. Il suo sguardo triste e malato pare vegliare sui turbamenti dei figli, mentre continua a rimanere in disparte, perché non vuole che un suo intervento faccia precipitare la situazione. Quando comunica al marito lo stato della figlia, lo fa mentre è assonnato e nelle sue parole c’è il tono dell’evidenza, del così è e non si può fare più niente. Ma il padre-padrone non può accettare quella scandalosa devianza e la natura fragile della donna non regge la violenza scatenata dall’uomo. È questo l’unico passaggio veramente e violentemente tragico, ma esso si scioglie fino a spegnersi nello sguardo attonito di Belli, mentre raccoglie tra le braccia il corpo senza vita della madre.
C’è molto silenzio nella seconda parte del film: c’è silenzio negli incontri d’amore dei due ragazzi, nell’esplorazione del proprio corpo gravido da parte di Belli, nelle veglie ai genitori morti. È il silenzio della montagna, della neve che scende copiosa a che separa ancor più Belli e il fratello dal resto del mondo, come a consacrare l’umanità della loro avventura, lontano dal giudizio della gente, protetti da quella natura che non conosce i contorni umani assegnati alla nascita e alla morte. Murer sa guardare i tempi e le apprensioni di quelle esistenze che poco partecipano dei commerci che ci sono giù, in fondo alla valle. Aesse guarda da un’amorevole distanza, con il rispetto che nasce dalla comprensione e dallo stupore, lasciando che sia la loro storia a esprimersi con tutto il suo carattere straordinario, sconvolgente e suggestivo.
Story board di «Vitus»
VITUSEGLIALTRI
ILCINEMAPOLIFONICO/POLIFRENICO DIFREDI M. MURER
Paolo Vecchi
De la musique avant toute chose… Paul Verlaine
Schumann: ouverture
Le note del Concerto in la minore per pianoforte e orchestra op. 54 di Robert Schumann aprono e chiudono Vitus, quasi il racconto del film fosse da ricondurre ai pensieri del protagonista durante l’esecuzione pubblica che ne sancisce l’apoteosi. In questo caso, ci troveremmo di fronte all’artificio linguistico, piuttosto originale, di una serie di flashback aperta, anziché da una «cornice» di immagini, da una musica dapprima avvertita come extradiegetica, praticamente l’unica assieme ai «raccordi d’atmosfera», come sempre calibratissimi, di Mario Beretta.
Ma il cinema di Fredi M. Murer possiede una concretezza che sfida chi si avventura nelle intercapedini delle sue ambiguità e contraddizioni. Vale forse la pena, allora, di fare un passo indietro, alla ricerca, anche, di pezze giustificative che esulano dal testo filmico.
In una sorta di carteggio con sé stesso vergato nel 1980, brillante e angoscioso, in linea con una tradizione culturale mitteleuropea – ma non solo – per cui l’ironia è spesso introiezione del tragico, il regista, in crisi dopo l’insuccesso di Grauzone, manifesta il proprio desiderio di diventare musicista:
Mi piacerebbe suonare uno strumento a corda, far brontolare l’enorme ventre del contrabbasso, ma non cantare con una voce di testa. Lo vedi, ho voglia di cose che vengano dal ventre. Non parlarmi di quello che viene dalla testa. Mi piacerebbe essere apolitico, come un musicista.
Non come il componente di una banda militare; piuttosto come un suonatore di blues, un interprete di Bach. Amio avviso, la musica non viene da un paese che si può rintracciare sulla carta geografica, ma dal paese della giustizia, del pensiero, dell’immaginazione. Un paese senza classi e senza lotta di classe, senza razzisti né fascisti, senza sfruttatori, senza omicidi di bambini travestiti da insegnanti, senza agenzie di collocamento, senza televisione.
Forse, a distanza di un quarto di secolo, Vitus rappresenta l’approdo, felice e caparbio, di questa dichiarazione di intenti. Ovviamente, con tutte le sedimentazioni che tempo ed esperienza hanno portato con sé, allargando a dismisura l’ansia di sperimentazione di una personalità insieme caleidoscopica e lineare.
Se Höhenfeuer, attraverso, anche, la mediazione di Wir Bergler in den Bergen…, costituiva lo straordinario approdo alla classicità di un autore profondamente segnato dall’avanguardia, Vitus ne è probabilmente il corrispettivo sul piano di un cinema capace di dialogare con platee più vaste da parte di chi sembrava aver fatto della marginalità una scelta per certi versi morale 1 .
Ed è affidandoci alla griglia di lettura della musica che, forse pretestuosamente, ma non oltre i limiti di una soggettività consentita nell’ambito dell’esercizio critico, proviamo a «entrare» nelle ragioni di Vitus, della svolta che rappresenta ma anche delle costanti che lo legano alla poetica del suo autore.
Florestano ed Eusebio
Il Concerto in la minore, dunque. Come ogni temperamento romantico, Schumann deve fare i conti con un io diviso, «così povero e così ricco, così stanco della vita e così pieno di energia vitale» (sono parole del compositore stesso), una divaricazione che ha i suoi antecedenti sia nei poli oppositivi della dialettica hegeliana che in quelli beethoveniani di «maschile» e «femminile» e che possiamo ritrovare anche in una tradizione letteraria che va da Goethe a Foscolo. Aincarnarlo sono per lui la passione, gli slanci e la curiosità di Florestano e la malinconia, la tenerezza e l’introversione di Eusebio, personaggi fittizi ai quali egli demanda
P. VECCHI
l’interpretazione dei «colori» della propria anima. Quella che, brutalmente ancorché in termini culturali e non tecnici, potremmo chiamare schizofrenia, oltre ad attraversare intimamente pressoché tutte le sue composizioni, può essere usata per una prima, grossolana categorizzazione della sua opera. Da un lato, l’imponenza esibita delle masse orchestrali e corali (le quattro sinfonie, il Manfred…), dall’altro, l’implosione autistica dei capolavori per pianoforte solo, della cameristica, dei Lieder.
Nell’ambito di questo schema di comodo, il Concerto in la minore segna il momento più alto e «spudorato» del florestanismo, inserendosi oltretutto in un genere – quello per strumento solista e orchestra – per sua stessa natura votato alla spettacolarizzazione della musica e perciò visto con qualche sospetto dagli ascoltatori risentiti di adorniana memoria.
Purtuttavia, sempre di capolavoro si tratta, oltre che, probabilmente, dello Schumann più amato dal grosso pubblico.
È anche per questo che la scelta del celeberrimo brano come prologoepilogo, oltreché, in qualche modo, come filo conduttore, non ci sembra casuale da parte del regista-musicista. Come già accennavamo, Vitus rappresenta infatti il film più estroverso di Murer, quello che fa più direttamente i conti con le leggi dello spettacolo. Racconta infatti una vicenda che si rivolge a una platea intergenerazionale oltre che internazionale, con una sceneggiatura che prevede più linee di intreccio, compresa una tenera quanto maldestra storia d’amore fra adolescenti. Inoltre, mette in scena non uno ma due attori-bambini, diretti con sicurezza e levità comenciniane, cosa non facile, come testimonia una serie di fallimenti, anche illustri, che spesso confermano l’assioma che chi ama l’infanzia nella realtà non vorrebbe mai vederla sullo schermo. Infine, utilizza per la prima volta un grande attore, Bruno Ganz, che è anche un po’ divo, almeno limitatamente ai frequentatori del cinema più nobile prodotto oggi, giocando quasi più sulle sue doti di umana simpatia che sulla sua formidabile professionalità. Tout se tient, dunque: il Concerto in la minore, lo Schumann-Florestano che fa da pronubo a una squillante ouverture aviatoria e che, nell’epilogo, accompagna in maniera travolgente il successo del protagonista, con stretta di mano del direttore d’orchestra, applausi e bravo del pubblico, mazzi di fiori dell’amichetta e lacrime di commozione e orgoglio dei genitori. Ma questa è solo una delle facce del prisma Murer. Il regista, ancora nel medesimo Carteggio contenuto in questo volume, dichiara – non senza ironia, come sempre – di non essere schizofrenico, ma polifrenico.
Sulla polifrenia di Murer, supposta o reale che sia, torneremo più avanti. Ci basta per il momento segnalare come, seguendo la falsariga musicale, ma non solo, essa incrini anche l’apparente compattezza di Vitus, insinuandosi subdolamente nelle sue cellule costitutive.
Bach, Bernhard, Gould
Per inciso, nel film viene eseguito un altro Schumann, quello del Wilde Reiter, dall’Album für die Jugend ma, visti l’ambizione e gli studi del protagonista, è dato spazio anche (in ordine alfabetico, e sperando di non aver dimenticato nessuno) ad Alkan, Balakirev, Czerny, Liszt, Mozart (il Lacrimosa dal Requiem K. 626 nel quale «entra» il pianoforte di Vitus, oltre al Rondò K. 511), Ravel (l’elettrizzante Alborada del Gracioso) e Scarlatti, con un’appendice concessa a Tina Turner, a caratterizzare la cultura pop di Isabel, la baby-sitter adolescente della quale Vitus s’innamora.
Ma, Schumann a parte, è soprattutto Johann Sebastian Bach a fare da chiave di volta alla vicenda. Il nonno, infatti, si accorge dell’abile marchingegno simulatorio messo in atto dal ragazzo vedendolo eseguire le Variazioni GoldbergBWV 988 dopo aver creduto, ascoltando da fuori, che si trattasse di un CD («La cosa più difficile è stata perdere a scacchi con te», gli dice Vitus alla fine del racconto della sua messa in scena, suscitandone la gioiosa indignazione). Ora, la scelta di questa partitura del «Maestro di Eisenach», con la sua architettura possente e geometrie che rappresentano una sorta di corrispettivo sonoro della mise en abyme, si inquadra perfettamente in quel binomio musica-matematica che costituisce la spina dorsale della genialità di Vitus 2, offrendogli per soprammercato il destro per una disquisizione in qualche modo teorica sull’approccio interpretativo a un capolavoro (il rallentato della mano destra, considerato dapprima «noioso» nel corso della lezione dell’insegnante al conservatorio, viene qui definito non senza un certo sussiego come uno dei caratteri della scuola pianistica russa).
Anche Bach, come poco sopra Schumann, può prestarsi a una ulteriore scorribanda interpretativa, certo da affrontare con cautela, ma forse non poi così pretestuosa.
Nell’intervista riportata in questo libro, Murer dichiara la propria predilezione per Thomas Bernhard, che considera l’artista più vicino fra
P. VECCHI
quelli nati fuori dal territorio della Confederazione. Ora, nel 1983 lo scrittore austriaco dà alle stampe Il soccombente (Der Untergeher), pubblicato in Italia da Adelphi nella bella traduzione di Renata Colorni. L’io narrante è un pianista giovane e dotato che, insieme a Wertheimer, un amico e collega di pari capacità professionali, partecipando ai corsi di perfezionamento tenuti da Vladimir Horowitz a Salisburgo, conosce il grandissimo pianista canadese Glenn Gould, allora nelle medesime condizioni di talento non ancora espresso. Una sua esecuzione vis-à-vis, appunto, delle Variazioni Goldberg , cambia drammaticamente la vita di entrambi. L’impatto è infatti devastante, portando ciascuno a misurare le proprie capacità e ambizioni con l’indiscutibile evidenza del genio. Così, il narratore regalerà il proprio Steinway a una ragazzina senza avvenire, mentre l’amico finirà per suicidarsi dopo la morte di Gould, quest’ultimo, anch’egli risucchiato nel vortice letale della propria stessa genialità.
Nella sua apparente levità fiabesca, di racconto morale a lieto fine, Vitus ci sembra tuttavia attraversato da una filigrana di angosce e frustrazioni, che rimandano per analogia al romanzo di Bernhard 3. Il talento è un dono per il protagonista, ma rischia di essere una maledizione che gli si rivolta contro a ogni inciampo. Significa pressione di genitori pur intelligenti, colti e amorevoli; rifiuto da parte dei coetanei, con conseguente tendenza all’isolamento, o a una forma di sufficienza che fatalmente genera l’antipatia dei compagni «normali»; paura di un fallimento che, sia pure a ben altri livelli, Vitus vede compiersi per l’amata Isabel, che sognava di diventare una rockstar e finisce per fare la commessa in un negozio di CD.
La differenza è che la «normalità», vissuta come maledizione livellante dagli angosciati personaggi di Bernhard, finisce per esser una scelta da parte di Vitus, ancora una volta pronto a raccogliere i consigli del nonno (la bellissima sequenza del cappello che, lanciato come il boomerang poco prima, attraversa il fiume andando a posarsi sulla sponda opposta, ripetuta in split screen quando il ragazzo prende la decisione: come dire, I Walk the Line, per citare un titolo del compianto Johnny Cash). O, diciamo meglio, letta a posteriori, una prova, un passaggio necessario, momento dialettico per arrivare a una sintesi matura.
È il nonno, con la sua carica di folle saggezza, di partecipe alterità, di carica poetica e senso dell’umorismo, a incardinare i comportamenti del nipote, mostrandogli di volta in volta con tatto e discrezione le possi-
bili opzioni esistenziali, ciascuna con i suoi pro e contro. L’anziano montanaro, in una delle prime, brillantissime sequenze, dichiara che nella graduatoria delle dieci professioni che avrebbe voluto fare, al primo posto veniva quella di pilota. «E al secondo? Il costruttore di bare?», gli chiede il bambino. «Le altre nove non contano», è la sua risposta.
E infatti, come nell’esordio di Marcel, ma in maniera molto più complessa e strutturata, è il volo a costituire la spina dorsale metaforica del film, abbia esso esiti felici o infausti: il boomerang e il cappello già citati, le lettere d’amore affidate ai palloncini, il salto – finto – dal balcone a mo’ di Icaro, il simulatore con i suoi apparati che evocano una realtà virtuale, la rovinosa caduta dalla seggiola durante un maldestro quanto generoso tentativo di riparare il tetto che porta il nonno in un letto d’ospedale, da cui, pur in fin di vita, il vecchio non riesce a non avere un moto d’orgoglio e intesa comunicando al nipote di avere finalmente pilotato l’aereo, cosa che anche il ragazzo farà di lì a poco entrando in manierà spettacolare nel parco della sontuosa villa di Gina Fois.
Il volo come aspirazione a guardare le cose dall’alto, a sollevarsi sulle quotidiane pochezze dell’esistenza ma anche come levità, ironia, nonchalance. Tutte qualità che il nonno ha ereditato da una cultura che nulla ha a che fare con i disastri dell’urbanizzazione, e che lo collocano in una dimensione che sta tra la genialità e la magia (si veda la sequenza, insieme esilarante e commovente, in cui egli ammansisce un ringhioso cagnone, per raccogliere fiori nel giardino da lui custodito).
È questa ammirevole figura, dei cui panni Bruno Ganz si veste con straordinaria adesione, offrendole con ogni probabilità più di un apporto personale, ad attribuire al film un aspetto in qualche modo dionisiaco –sbocco non proprio prevedibile per il cinema di Murer –, al pari della musica con la quale arriva a fondersi e a interagire.
Se Wertheimer avesse avuto un nonno – questo nonno – non si sarebbe certo suicidato.
Altre voci, altre stanze
Ma il regista-musicista Fredi M. Murer non è solo da Vitus che dimostra sensibilità e competenza nell’orchestrare i non facili rapporti tra immagine e musica di repertorio. E questo a prescindere dal lavoro pre-
P. VECCHI
zioso fatto per lui dal già citato Mario Beretta, che, assieme al bravissimo direttore della fotografia Pio Corradi, forma ormai una factory di affidabili collaboratori.
La natura di avanguardia dell’esordio di Marcel veniva infatti già sottolineata dalle note di un autore «di cerniera» come Edgar Varèse. Curioso poi lo sperimentale grottesco di Sylvan, il cui accompagnamento sonoro è caratterizzato quasi ossessivamente dalla ricollocazione straniata degli archi «strappati» del Bernhard Herrmann di Psyco, curiosa anticipazione del dittico La morte al lavoro ed Effetti speciali, in cui Gianni Amelio utilizzerà brani da La donna che visse due volte, Tempeste sul Congo e La congiura degli innocenti.
La sintesi di statura intellettuale e adorniano risentimento del regista non poteva poi prescindere dal jazz: ecco allora il quartetto della pianista Irène Schweizer a scandire i tempi del ritratto d’artista in Bernhard Luginbühl, ecco due evergreen come Caravan di Ellington e St. Louis Blues di Handy a definire le atmosfere, in qualche modo anche noir, di Grauzone – e ci sia perdonato il bisticcio cromatico. Dato però che Murer non è uno snob, non mancano citazioni pop, come i Minstrelsin Sad-is-fiction.
Ma è ovviamente la musica colta a intrigarlo, a entrare nelle cellule costitutive delle sue immagini in movimento. Così il sempiterno Bach in Vollmond: eseguito al violoncello dal padre di uno dei ragazzi scomparsi, che poi, in un accesso di rabbia e disperazione, finisce per fracassare lo strumento; al pianoforte dall’accordatore, al quale la cecità acuisce la sensibilità musicale, e che, come nella tragedia greca, vede il futuro essendo privato delle immagini del presente. O l’evocativo Ligeti di Lux aeterna (lo stesso brano usato da Kubrick in 2001 durante l’approccio delle scimmie pre-umane al monolito), nel magnifico incipit di Wir Bergler in den Bergen…, in cui l’occhio della mdp entra ed esce da una serie di gallerie stradali un po’ come nel lungo camera car nel traffico della megalopoli in Solaris di Tarkovskij.
Musica concreta e coda walseriana
Wir Bergler in den Bergen… funziona anche sotto questo aspetto come anticipazione del capolavoro Höhenfeuer. La ricostruzione ambientale si basa infatti sui rumori, che, anche per la professione del protagonista, tro-
vavano largo spazio pure in Grauzone, che aveva inoltre la radio come filo conduttore acustico. È ancora una volta il transistor a diffondere la musica che accompagna il lavoro domestico di Belli: canzonette banali, ovviamente, che però, provenendo da tutto il mondo, acquistano un sovrappiù di senso in quanto rappresentano il filo che unisce il maso sperduto fra le montagne con il resto della comunità degli umani. Ma sono soprattutto altri suoni diegetici a fare da naturale sottofondo alla vita di questa famiglia di contadini: il vento, il temporale, sassi che rotolano verso valle, il ronzio di un tagliaerbe, il rombo del motore di un elicottero… Quasi alla fine, nel silenzio della veglia funebre, ecco una sorda esplosione che fa tremare le fondamenta della casa colonica e che, con un’ambiguità che ricorda alcuni momenti alti del cinema di Tarkovskij (si veda, ad esempio, il finale di Stalker, con il bicchiere che si muove sul tavolo, non si sa se per effetto di telecinesi o per le vibrazioni causate dal passaggio del treno), può essere attribuita sia al precipitare di una valanga che allo scatenarsi della thonos degli dei della montagna, che reagiscono alla ubris dei protagonisti che hanno violato i più inviolabili fra i tabù. L’uso dei rumori in qualche modo come musica concreta avvicina questo film straordinario all’opera di un maestro, Robert Bresson, al quale lo accomuna anche lo scarnificato rigore delle scelte espressive.
D’altronde, tornando a Vitus, il mestiere del padre del protagonista, come per altri versi quello di Alfred M. in Grauzone, consiste nel captare i suoni, sia in maniera più banalmente professionale, amplificandoli per i deboli d’udito (la Phonaxis per la quale lavora ha una ragione sociale facilmente riconducibile alla più grande industria svizzera del settore, d’altronde ringraziata nei titoli di coda) che, più creativamente, rubandoli mediante un marchingegno di sua invenzione, usato anche dal figlio per spiare le conversazioni del mondo che lo circonda, dall’osservatorio privilegiato di una finestra o dall’isolamento della sua «tana» domestica. Non a caso, tutto il film – dal Bat-Plano con cui Vitus simula il salto dal balcone al pupazzo grazie al quale si fa riconoscere da Isabel – è attraversato dalla figura mitica del pipistrello, blind man capace di percepire il mondo esterno grazie a una sensibilità auditiva fuori del comune.
Autorizzati da una sua esplicita quanto autoironica definizione, facevamo prima cenno alla supposta polifrenia di Murer. In Bird Clint Eastwood disegna un memorabile ritratto di Charlie Parker, costretto da un talento inarrivabile ed estremo a inseguire «tutti i suoni del mondo».
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Allo stesso modo, pur senza il retroterra maudit del geniale altosassofonista bopper, un’inesausta curiosità spinge il regista svizzero a misurarsi con temi, «generi», modalità produttive, spettatore tra loro differenti, rimanendo però sempre fedele al giuramento di moralità artistica e onestà intellettuale, oltreché ad alcune costanti che anche qui abbiamo cercato di ricordare.
Nella sua lineare complessità, dunque, il cinema di Fredi M. Murer forse non è poi così lontano dalla passeggiata walseriana, in quanto pervicacemente impegnato ad assumere «la forma del dire di Sì a ogni immagine di vita e di morte – dell’aprirsi senza residui alle infinite possibilità dell’incontro» 4 .
1 Appare significativo sotto questo punto di vista che il film si sia aggiudicato il Premio del pubblico della sezione «Alice nella città» della Festa del Cinema di Roma, così come ne sia prevista la distribuzione in molti paesi del mondo, Italia compresa.
2 È paradossale che le straordinarie doti matematiche di Vitus vengano applicate alla finanza e contro di essa, per aggredire a fin di bene i blindatissimi meccanismi del Paese che è un po’ la cassaforte (e lavanderia) d’Europa, mostrando contemporaneamente la rancorosa mediocrità dei suoi addetti ai lavori. Ma paradosso è appunto il sostantivo alla cui definizione Vitus si applica a soli sei anni…
3 Non c’entra con Vitus, ma il Wertheimer di Bernhard, oltre che dopo la morte di Gould, si uccide in seguito al matrimonio della sorella, alla quale è morbosamente legato, reminiscenza forse del rapporto Ulrich-Agathe in L’uomo senza qualità di Robert Musil, nel quale cerca di ricomporsi misticamente quella sorta di ermafroditismo della fantasia originaria alla quale forse si può far risalire anche l’amore di Belli e il Ragazzo in Höhenfeuer, un film che, nella sua dimensione di tragedia classica, funziona appunto per archetipi. Al di là di sempre opinabili suggestioni letterarie, vale ovviamente il dato storico-culturale di endogamia e incesto come pratiche abbastanza ricorrenti in società «chiuse». C’entra invece il rapporto che Vitus intrattiene con i propri maestri, verso i quali manifesta una certa insofferenza prima di volare – è il caso di dirlo – dalla gran signora delle tastiere Gina Fois. Scrive infatti Bernhard: «Avevamo imparato da Horowitz più che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie. Horowitz ha veramente abolito tutti i nostri professori. Eppure quegli atroci maestri ci erano stati utilissimi per capire Horowitz a fondo».
4 Massimo Cacciari, Canti del dipartito, in Dallo Steinhof - Prospettive viennesi del primo Novecento, Adelphi, Milano 1980.
Cartoons
DAUNLUOGOSCONOSCIUTO
L’ARTE DI FREDI M. MURER
Tullio Masoni
Gallerie. Porte incise su geometriche superfici di cemento; porte buie che l’automobile infila una dopo l’altra velocemente; porte chiare lontano, quando la corsa è nel cuore della roccia. Si pensa a Tarkovskij, dapprima, allungo camera car di Solaris, poi al più probabile incipit di Vaghestelle dell’Orsa. Nel film di Visconti l’auto partiva da una luminosa e moderna Ginevra per poi prendere l’A1 in Italia e, galleria dopo galleria – nel tratto appenninico fra Bologna e Firenze – uscire fra le colline senesi. Ancora gallerie, ma evocanti caverne, la strada sempre più stretta: Volterra.
Il viaggio lasciava trasparire, dal cambiamento di luogo, un ritorno al passato; di più, il rischio di chi è attirato nelle arcaiche zone del rimosso.
All’uscita dalla moderna autostrada, il Fredi Murer di WirBergler in den Bergen… fa presagire qualcosa di simile. Il paesaggio alpino che il regista scopre senza enfasi, anzi riservando all’inquadratura la precarietà di un cantiere, alzerà presto la coltre su storie già chiuse nella dimenticanza; non a caso, come il titolo del film annuncia, accompagnate da un segno di colpa.
«La forza di Murer – ha scritto Freddy Buache a proposito – sta nell’evitare i cliché legati alle lusinghe che suscita da sempre nel cinema svizzero la bellezza del paesaggio alpestre. È risaputo che il culto delle vette, dei ghiacciai sublimi e delle nevi eterne è stato all’origine di una specie di teologia espressa con metafore che, attraverso la via indiretta di una mistica dello sforzo, assimilano le ascensioni difficili di minacciose pareti di roccia a picco all’avvicinamento a Dio» 1 .
Buache poi si spinge oltre fino a cogliere, in Höhenfeuer, un deciso rovesciamento: «Questa concezione che Siegfried Kracauer (nel suo libro DaCaligari a Hitler) confronta o paragona all’ideologia del totalitarismo
nazista, Murer la ripropone magnificamente in Höhenfeuer: l’avvicinarsi del cielo non equivale più a una “catarsi”, alla repressione dei desideri profondi, ma al contrario all’esplosione degli stessi attraverso la distruzione dei tabù» 2; vale a dire una scoperta del negativo che, vedremo fra poco, si compie attraverso la distanza della regia.
In Höhenfeuer le vette alpine non si vedono quasi mai. Come già in Wir Bergler in den Bergen… Murer preferisce gli scorci, le scoscese frastagliate spesso avvolte, o contrastate, dai colori di una natura brulla, invernale. Solo in qualche raro momento la visione della montagna somiglia a quelle del senso comune; e tuttavia il paesaggio domina la vicenda, viene indagato continuamente dai protagonisti col binocolo, distingue il tipico e, al tempo stesso, ne crea uno diverso. Ecco allora che una visione «classica» l’avremo quando il ragazzo muto, che si diverte con gli specchi, la osserverà riflessa. Per lui è un gioco infantile: gli specchi, i vetri, le lenti per ingrandire e deformare immagini e volti, per il regista e per noi è un’esperienza esplorativa, uno spunto di analisi, un’interrogazione. In altre parole Murer traduce in immagini – in esperimento visivo astratto –ciò che del ragazzo suo fratello dice Belli conversando con la madre: «È uomo, quando lavora, è bambino quando gioca». Parafrasando, potremmo aggiungere che lui gioca e noi, gli adulti, attingiamo alla sua creatività concettualmente.
È quel che accade quando l’immagine del paesaggio nello specchio perde la sua casualità e diventa riflessione iconologica, o quando seguiamo i movimenti del tubo-cannocchiale che isola dettagli, accorgendoci che il Ragazzo, senza volerlo, usa il suo strumento come il mascherino del cinema muto.
Ha scritto Angelo Signorelli che il personaggio dona sé stesso: «Nella solitudine dell’essere differente» 3, ma è vero altrettanto che la sua azione è il luogo mediano nel quale l’osservatore (e il regista prima di lui) intraprende una nuova e più vasta ricerca poetica. Così, nel richiamo di spazi deserti e nella densità misteriosa che incombe, il Ragazzo gioca con le pietre, costruisce muretti circolari, dispone guglie: come offriva spunti all’artista concettuale maneggiando lenti e specchi, così interviene nel paesaggio come farebbe Richard Long.
La figura del cerchio è per Murer ricorrente. Penso all’assemblea sulla piazza del paese di Wir Bergler in den Bergen… e, nello stesso film, alla preghiera collettiva o al montanaro col «megafono» – una tinozza
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schiacciata in tondo dalla mdp messa di fronte – la cui cantilena induce a una panoramica di 360°; penso alle inquadrature che si soffermano sulla luna (Vollmond) e sul sole (Sad-is-fiction), al letto matrimoniale di Grauzone (l’incipit di questo film fa pensare alle scenografie del Faust di Murnau come, del resto, il modo di riprendere gruppi di case dall’alto: Höhenfeuer e, più ancora, Wir Bergler in den Bergen…, mentre in Sylvan si avverte la parodia di qualche suggestione dreyeriana), e penso ai profili curvi delle spalliere nelle composte camere contadine.
Cerchi, umori segreti, vocazione artistica inconsapevole. Come riscopre il paesaggio suo originario e ne mostra la barbarie, così Murer trattiene nell’opera un mistero del quale dissemina tracce o lascia risuonare echi. Luogo sconosciuto non è solo la montagna dell’interno e la sua insospettata anomalia ma lo stesso approccio con l’espressione artistica e il bisogno di praticarla usando mezzi diversi. Sad-is-fiction si presenta quindi come un ritratto del pittore Alex Sadkowsky – «espressionista surreale», dice di sé stesso, o «surrealista espressivo», o, meglio ancora, «non depressionista» – e diventa, nel gioco spiazzante di Murer (fra le altre mi piace ricordare la citazione, bellissima, dell’albero di Mondrian), un esercizio di diacronia umoristica, ove per umorismo si intenda il rapporto che si crea, in profondità, fra l’immediatezza del comico e la tenacia dell’inquietudine.
Luogo sconosciuto. Da illuminare, come suggerisce la chiusa del film appena menzionato e, fatalmente, ricondurre alla sua magica oscurità.
Questa mattina, svegliandomi, ho visto per la prima volta il mio asciugamano, asciugamano senza peso, un’immobilità mai vista, come sospeso in uno spaventoso silenzio. Non aveva più alcun rapporto con la sedia senza fondo né con il tavolo, i cui piedi d’altronde non riposavano più sull’impiantito, lo toccavano appena, non vi era più alcun rapporto tra gli oggetti, separati da incommensurabili abissi di vuoto. Guardai la mia stanza con spavento, e un sudore freddo mi colò giù per la schiena.
Sono parole di Alberto Giacometti 4. Nello scritto su Höhenfeuer già richiamato, Signorelli osservava: «Il tempo è quello dei gesti quotidiani, della natura che detta il ritmo della giornata dello svago provocato dalla
necessità. […] Eppure l’inquietudine appare, qualcosa che si avverte in modo indefinito. C’è un’inquadratura particolarmente fissa: un tavolo con due sedie, sopra un piatto ricoperto da una fondina e un cucchiaio appoggiato, vicino un bicchiere di vino e una fetta di pane scuro. […] La durata dell’inquadratura ha un che di sospensivo, rompe la quiete della rappresentazione, dice sommessamente, ma drammaticamente, che nella casa non tutto è tranquillo» 5 .
AGiacometti tornerò presto; ora, per avvicinarmi al Murer disegnatore, partirei dalle «geometrie».
Se ci si ferma al significato primo del termine: misurazione della terra, i piani che l’artista delinea rivelano certa struttura invisibile del paesaggio, talvolta, e altrove assumono una corporeità quasi naturalistica rinviando alla morfologia della roccia: sporgenze, spigoli, crepe. Come già dicevo, Murer vuole rifuggire dalle «vedute classiche» di montagna e invece preferisce gli ampi dettagli; se così è, un’inquadratura di Vollmond, che mostra lo splendido spazio di una valle parzialmente invaso dalla massa di un edificio in primo piano, e tagliato dalla linea spezzata in obliquo del tetto, offre un efficace esempio di sintesi fra l’evidenza verosimigliante dell’immagine fotografica e la concezione astratta – nascosta – che la precede o la segue.
Le geometrie di Murer, poi, seguono elaborazioni libere, intriganti: moduli regolari ma difettosi quanto basta per disorientare (qualcosa di simile all’effetto-labirinto), forme sovrapposte che fanno pensare alle guglie costruite dal ragazzo in Höhenfeuer ma invitano al capovolgimento, alla rotazione (la tavola è firmata e datata su due lati opposti), superfici di piano sospese.
Gli story board, disegnati con cura d’artista e al tempo stesso molto essenziali, sembrano dare conferma; collocati fra il progetto e la forma compiuta del film, evidenziano le linee nude (geometriche) dell’astrazione e il chiaroscuro, cioè anticipano il naturalismo fotografico e si giovano dell’incompiutezza. Un carattere decisivo, quest’ultimo, nei disegni «non progettuali».
Nel cimitero di Wir Bergler in den Bergen…, Murer fissa l’inquadratura sul primissimo piano di una croce tombale; al centro, cioè all’incrocio dei bracci, sta il triangolo con l’occhio di Dio. Lo schiacciamento dell’immagine fa però sortire un effetto di trasfigurazione: l’occhio non è più l’occhio di Dio perché il dettaglio lo involgarisce, la croce non è più una
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croce perché le sue linee rette non si distinguono dalle linee ornamentali ricciolute che fanno corona, e i peli delle ciglia che ci è dato scorgere provocano un senso d’impurità. Insomma il kitsch «sacro» diventa blasfemo, e l’intenzione religiosa sembra precipitare nello sberleffo surrealista.
Ancora in un disegno Murer ci presenta un tronco d’albero dal quale invece che fronde spuntano mani; in un altro la mano fa da radice e l’albero spoglio (fra il Segantini delle Cattive madri, il Klee delle incisioni giovanili e, un po’, Schiele) si piega dolorosamente.
Murer usa l’ibrido surrealista nei «cartoons»: seni fisiognomici, volti incastrati in forme solide, braccia trasformate in ali, e, per dar vita ai suoi «personaggi», lo fonde con la caricatura e la suggestione animalesca.
Sembra esserci davvero, nella sua avventura immaginaria, oltre all’eredità surrealista – che gli ispira qualche impennata di erotismo sgradevole (deformità, peli) –, certa memoria del Klee ultimo, quello delle opere più «infantili» (le «Maschere») e, appunto, dell’incompiutezza. Il Klee che alternava il nitore del segno graffito a sbavanti «sciatterie»; lo stesso, ormai vicino a morire, che il figlio Felix così ricorda: «Su un suo quadro non finito, una composizione con frutta, ho scoperto una scritta a matita, con la quale vorrei chiudere i miei pensieri con e su mio padre, Paul Klee: “Sappiamo forse tutto? No. Non credo (Ich glaube nein)!”» 6 .
Il Klee degli ultimi anni è anche quello che usa «reticoli»: Secondo le regole verso le piante, Coppia sorpresa, Frettasenza riguardo, opere del 1935. L’uso del reticolo, però, ricorre anche nel Giacometti dichiaratamente surrealista: Gabbia , Palla sospesa (1930-31), Palazzo dalle quattro del mattino (1932), solo per fare qualche esempio, e anche nel più tardo: Il naso (1947), Figurina tra due scatole che sono case (1950). D’altra parte certi suoi stilemi potrebbero esser messi a confronto con quelli adottati sia pur raramente e tempo addietro da Klee: penso alle illustrazioni del Candide di Voltaire, del 1911, a proposito delle quali Federica Pirani ha scritto: «La produzione grafica, che aveva caratterizzato tutta la prima fase della ricerca, non è comunque abbandonata, anzi, nella serie delle illustrazioni per il Candide di Voltaire l’artista arriva a una completa smaterializzazione delle forme attraverso un nervoso e accentuato linearismo» 7 .
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Dai reticoli – in Klee, ma più ancora nella tridimensionalità plastica di Giacometti – vengono allusioni sullo spazio; i reticoli definiscono semivirtualmente una condizione fatale e ambigua: le forme (o i corpi, o brani dei corpi) vi lievitano in fantastica libertà ma, al tempo stesso, sono costrette al limite, alla gabbia.
E a gabbie, in qualche modo, fanno pensare certe figure di Murer: scommesse geometriche, linee, spigoli e volumi che non risolvono la forma: reticoli, appunto, diventati antropomorfi. Non la figura imprigionata, ma una «figura-prigione» che, per la sua incompiutezza, lascia perennemente e disperatamente aperta l’ansia della libertà.
Da una parte Murer fa pensare a Giacometti per alcune analogie formali, dall’altra per la crudeltà. Un termine, quest’ultimo, che va inteso non superficialmente, come proverò a spiegare, perché crudele è la natura profonda del luogo sconosciuto in cui l’artista ritrova sé stesso.
Vediamo intanto le analogie.
Su alti trespoli piantati nell’acqua, e in totale solitudine, certi omini aspettano (pregando? invocando? meditando?) non si sa cosa; un altro disegno rappresenta l’omino appollaiato su un precario castello di sedie; la «L» rovesciata su cui il castello poggia è una specie di piattaforma con sotto i frastagli di una cresta rocciosa.
Poi troviamo, sfogliando, uno zolfanello che si alza come una stele da un prato peloso: l’apice ovale dà l’idea di una testa, coi rilessi simmetrici come occhi («Devo riuscire a ridurre le mie figure al formato del fiammifero…», annotava Giacometti nei primi anni ’40) 8. Sempre dalla serie dei «cartoons» un mezzobusto nudo di donna richiama, vagamente, la Tavola surrealista disegnata e scolpita dallo stesso maestro nel 1933; somigliano un po’ le figure femminili e l’obliquo del velo che cade dalla testa di entrambe, ma quel che dà carattere all’accostamento è una linea ondulata «brancusiana»: un piede della tavola in Giacometti, il velo sui due lati in Murer.
La caricatura di un personaggio con occhiali – un uomo calvo di profilo – colpisce per l’esagerato taglio della bocca che, semiaperta nel ghigno, arriva fin quasi all’orecchio e scopre i denti. Il taglio della bocca fa venire il mente, per la mostruosità, quello del Naso, anche se bisogna aggiungere subito che la caricatura di Murer sembra derivare da certa tradizione satirico-polemica, mentre la testa di Giacometti, edentula, esprime significati filosofici ed esistenziali più ampi.
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Proprio da questi ultimi, però, e al di fuori di impropri paragoni, si potrebbe cogliere un dialogo a distanza fra il cineasta e il grande scultore.
Aproposito del Naso Jean Clair ha scritto:
Esistono due modi per rianimare un cranio, per conferirgli, al di là della morte, un’apparenza di vita, o piuttosto per farne, secondo l’espressione di Giacometti, «qualcosa di vivo e di morto simultaneamente», di strano e di inquietante, partecipe dei due regni, e quindi anche della sfera dell’orrido e del sacro. Si può per esempio munirlo di uno sguardo […] oppure si può innestare sul cranio, come egli fa in questo caso, quell’organo dotato di un potere di crescita autonomo, il naso.
E ancora, poche pagine più avanti, soffermandosi sull’esperienza angosciosa dello sguardo che lega l’artista e il suo oggetto:
Come l’acqua che scorre tra le dita, il viso «guardato» del modello e il viso «che guarda» dello scultore che crollerebbero l’uno nell’altro, infusione della vita nella morte, e avanzata simultanea della morte nella vita, quel flusso perpetuo, quella trasfusione del viso di colui che guarda verso colui che si sente oggetto dello sguardo, ma anche quel contenersi della morte nello sguardo che l’afferra, che costituisce infine quel perpetuo andare-venire, quell’eterno costruire-distruggere, creare-cancellare. 9
Ho scritto poc’anzi, riguardo alla tensione poetica del Murer regista, e di Höhenfeuer in particolare, di luogo sconosciuto da illuminare e fatalmente ricondurre alla sua magica oscurità; Angelo Signorelli, dal canto proprio, commenta:
Lo sguardo è curiosità, scoperta, ma è soprattutto invenzione. Il Ragazzo è affascinato dagli oggetti che si interpongono tra l’occhio e la realtà e che la trasformano. Lo specchio in particolare, usato in modo cinematografico, che riflette una realtà che muta col continuo cambiare della direzione e dell’inclinazione. L’immagine che cambia, dove le cose appaiono e scompaiono. 10
Cose che vivono e muoiono; con le sue creature Giacometti si dibatte nella stessa agonia e, talvolta – penso ancora al Naso – cerca di rappresentare un ultimo, disperato, tentativo di ribellione.
Ecco la crudeltà che, in qualche tortuoso modo, accomuna Giacometti e Murer: una crudeltà del vivere, o meglio dell’esistere; dell’uomo che scavando nel rimosso scopre una sorte determinata lontano, a sua insaputa.
Come le unghie e i peli, che continuano a crescere ancora per un po’ dopo la morte, il Naso di Giacometti si allunga, forza i limiti della gabbia, compie un’estrema, quanto disperata e inutile azione erotica. Valga il classico esempio di Pinocchio – il personaggio al quale con macabra suggestione si pensa immediatamente – per dire che il naso simboleggia la bugia della vita, sempre mobile e provvisoria, cioè il desiderio che cerca vanamente di opporsi alla perpetua verità della morte. È dunque, davvero, una maschera: l’ultima delle maschere, quella che il viso crea da sé stesso. Come in Grauzone – film livido, misterioso – dove il protagonista si taglia la barba e mostra la dimensione insospettata e sgradevole (cioè caricaturale) del proprio naso.
L’accostamento più giusto, però, ci viene ancora da Höhenfeuer; perché se ha ragione Buache, quando parla di affermazione dei desideri profondi e di abbattimento dei tabù, è vero altrettanto che il «luogo sconosciuto» dove ciò avviene è anche una prigione dalla quale è impossibile fuggire: alla celebrazione dell’eccesso di vita, insomma, corrisponde l’evidenza di un destino di morte.
Ci accorgiamo allora che il paesaggio aveva dato segnali di corruzione; non diversamente dalla casa di montagna, prima ordinata e sobria e, dopo la tragedia, sporca per abbandono. E ricordiamo la dispersione che anche i disegni a volte testimoniano: il cerchio assembleare di Wir Bergler in den Bergen… che si scompone, o quello della luna che, nel finale di Vollmond, si frange nell’acqua.
1 I film della selezione, in Nuovi volti del cinemasvizzero, Lab 80 Film, Bergamo 1987, p. 22.
2 Ivi.
3 Höhefeuer - I falò, «Cineforum», n. 326, luglio-agosto 1993, p. 78.
4 Le Rêve, le Sphinx et la Mort de T., in Écrits, Hermann, Paris 1990, p. 31.
5 Höhenfeuer - I falò cit., p. 76.
T. MASONI
6 In Paul Klee, Opere 1900-1940. Dalla collezione Felix Klee, a cura di Carmine Benincasa, Electa, Firenze 1981, p. 24.
7 Klee, «Art Dossier», inserto redazionale allegato al n. 43, Giunti, Firenze febbraio 1990. Mi pare importante segnalare che in questo momento l’artista è molto assorbito dalla lezione cézanniana.
8 In Gérard-Georges Lemaire, Giacometti, «Art Dossier», inserto redazionale allegato al n. 154, Giunti, Firenze marzo 2000.
9 Jean Clair, Il naso di Giacometti. Una scultura, un simbolo, Donzelli, Roma 1994, p. 27.
10 Höhenfeuer - I falò cit., p. 78.
LUOGO SCONOSCIUTO
DAUN
DAMURER AMURER
Autoritratto
AUTOBIOGRAFIA
Fredi M. Murer
Ultimo di una famiglia di sei figli, sono nato il 1°ottobre 1940 a Beckenried, sul lago dei Quattro Cantoni. Mia madre faceva la sarta, mio padre il falegname.
I ricordi della mia prima infanzia si limitano quasi esclusivamente alla larga e piatta distesa del lago, e a quella specie di imbuto che le montagne formavano intorno a me. La nostalgia dei grandi spazi, il desiderio di andare oltre il «Nez» – così si chiamava la collina boscosa dietro alla quale scomparivano i battelli a vapore – non mi hanno mai abbandonato.
Avevo una nonna che scriveva poesie e mi cantava ballate e Lieder di Schubert. Ma ho sempre pensato che la scuola fosse una perdita di tempo. Essendo del tutto dislessico, i temi svolti in classe mi venivano invariabilmente restituiti con l’aspetto di un campo di battaglia insanguinato. Invece di osservazioni circa il contenuto, c’era sempre scritto il numero – formato da parecchie cifre – degli errori che avevo commesso. È per questo che ho smesso di scrivere delle storie e ho preferito immaginarmele. Sono stati, per così dire, i miei primi film.
Nel 1953 ho visto quello che è stato davvero il primo film della mia vita: Il monello di Chaplin. Nelle settimane successive mi sono identificato a tal punto con Jackie Coogan che mi sono perfino dimenticato di andare a scuola.
Nel 1956, siccome il consigliere per l’orientamento professionale aveva certificato la mia attitutudine a diventare sarto per uomo, e suo figlio aveva appunto un posto libero da apprendista, ho abbandonato precipitosamente la famiglia per andare a Zurigo. Dopo aver cercato per due anni un mestiere la cui pratica non servisse a nessuno tranne a me, mi sono alla fine ritrovato in una scuola; ma questa volta l’avevo scelta da solo.
Nel 1959 sono dunque entrato alla Scuola di Arti Decorative di Zurigo. Dopo un anno passato a fare disegno tecnico, ho scelto di entrare nella classe di fotografia.
Nel 1960 Zurigo ha ospitato una mostra internazionale di cinema. Ho avuto così l’occasione di vedere in tempi brevissimi tutte le opere più significative della storia della Settima arte, alcune sino a quattro o cinque volte di seguito. Da allora il cinema è stato per me una vera rivelazione. Vi ho scoperto un linguaggio che nessun professore di grammatica poteva tenere a freno. Forse ho trovato nel cinema quello che cercavo all’epoca in cui volevo assolutamente andare a vedere cosa ci fosse dietro al «Nez».
Dal 1965 vivo dei miei film.
Non ho mai avuto molta stima delle scuole. I miei modelli sono stati, a quei tempi, Buñuel e Flaherty. Se proprio ci deve essere una scuola, credo che sia il cinema in generale, la sala di proiezione.
I miei primi film li ho fatti con la felicità e l’incoscienza del dilettante. In effetti, non appartengono a nessun genere preciso: erano semplicemente dei film. Uscivano direttamente dai miei sentimenti intimi e sono stati realizzati praticamente senza soldi e senza sceneggiatura, quindi senza il placet della Confederazione e della Televisione, di conseguenza anche senza autocensura. Essendo produttore di me stesso e mio mecenate, ero per certi versi più vicino alla condizione di un mago che fa uscire delle vere colombe dal cilindro realmente vuoto. Quelli che producevo allora non erano documentari, ma piuttosto dei documenti su una vita autonoma e indipendente nel panorama del cinema svizzero.
Il metodo che ho utilizzato per realizzare i miei film si è modificato di volta in volta, a seconda del soggetto e della mia presa di coscienza come regista; ma, che io sappia, non ho mai inventato un metodo preciso che si potesse etichettare come mureriano e che io avrei potuto brevettare. In questo senso, i miei film sono sempre anche una specie di autobiografia e per il mio lavoro l’incontro di opere di etnologi come Lévi-Strauss e Georges Devreux è stato molto più importante di tutti i modelli ed esempi cinematografici.
Intorno al 1964, una volta ho sognato un film intero. Ero seduto da solo al cinema Piccadilly e mi chiedevo: «Ma perché non c’è nessuno a vedere questo fantastico film?». Era una lunga pellicola con Anouk Aimée e Max Haufler nei ruoli principali, un cast mai visto fino ad allo-
ra. Ero geloso di non esserne il regista, ma, svegliandomi, ho compreso che quel film non esisteva. Era nella mia testa. Toccava a me realizzarlo. Appena sveglio mi sono messo a scriverlo, scena dopo scena, perfino a disegnarlo. E così è nata la mia prima sceneggiatura. Tutti i film che da allora ho realizzato mi appaiono oggi come aspetti particolari e parziali di questo film originario.
In quel tempo abitavo con sette o otto persone in una vecchia villa di Plattenstrasse. È su questo tema che ho girato Pazifik. Eravamo un piccolo gruppo molto carico, e tendevamo a rappresentare in modo esoterico, idealista e onirico la nostra sensibilità esistenziale. Il ’68 era ancora lontano. Non avevamo una coscienza politica nel senso in cui la si intende oggi. Eravamo non conformisti, eravamo contro, anche se non sapevamo mai esattamente contro che cosa. Io però mi sforzavo già di realizzare film piuttosto per che contro qualcosa: per la nostra alternativa nei confronti del mondo e per i nostri sentimenti di quel tempo.
In Svizzera non c’era nessuna scuola di cinema. Si poteva imparare a fare cinema solo facendolo. Era normale avere mezzi limitati, per esempio chiedere l’aiuto di quelli che mi stavano intorno piuttosto che pagare degli attori. Ho fatto del cinéma copain, nel senso che ho inventato una storia, degli sviluppi narrativi, intorno a queste persone. Per realizzarlo mi sono basato sia su osservazioni dirette che sul film originario Pazifik è stato un documentario su cinque-sei anni di vita in comune, il ritratto dei miei amici e coinquilini. Ma allo stesso tempo è stato un tentativo di parziale realizzazione del film originario.
Il fallimento di 2069 - Swissmade si è trasformato in collera e odio, non solo contro chi non amava il film, ma contro la Svizzera in generale. Questo mi ha dato la forza per andare in Inghilterra con mia moglie e le nostre due bambine. Non volevo più avere nulla a che fare con il cinema. Allora ho preso coscienza che i film che avrei preferito fare erano come fiori esotici. Ma essi non possono sbocciare nel nostro clima culturale federalista; hanno bisogno di troppo sole, e qui non c’è.
La funzione del cinema documentario, in generale ma soprattutto in Svizzera, è paragonabile a quella del sesso: servire alla perpetuazione della razza (dei film e dei registi) e alla liberazione per mezzo del piacere. Obiettivamente la sua è una funzione sovversiva, ovvero, come sostiene Russell, di mettere in discussione tutto ciò che consideriamo acquisito; di riconsiderare tutti i postulati vigenti, di infiltarsi in tutti i tabù e pro-
vocare dubbi e domande. Consiste anche nel contrapporre una maggiore complessità e una parziale apertura all’esigenza arrogante e disumana di obiettività ed equilibrio. In questo senso, la Svizzera ha bisogno soprattutto che siano realizzati film umani e di umanisti che pensino di dover salvare l’umanità da sé stessa, suo malgrado.
I miei ultimi film li ho fatti con l’accanimento del professionista. Il felice dilettante di una volta è stato vittima di pressioni interne ed esterne. Si è sottomesso a esperti e ha dovuto ricorrere al loro aiuto per poter soddisfare le istanze di promozione del cinema le cui esigenze sono un freno sempre più grande. Il dilettante sensibile e creativo di un tempo, il suo identificarsi con la cinepresa, il suo lavoro di fantasia in rapporto al linguaggio filmico, le sue utopie e le sue visioni, la sua propensione allo sperimentalismo e all’arte, tutto ciò è quasi completamente scomparso, vittima di una professionalità senza fantasia, in nome dello zelo e della serietà.
CARTEGGIO CON SÉ STESSO
Fredi M. Murer
Fredi M. Murer
25 marzo 1980
NCaro FMM,
o, io non ti trovo schizofrenico; mi sembri piuttosto polifrenico; hai l’anima multipla, l’anima archeologica, tanto che si è reso necessario procedere periodicamente a dei sondaggi, al fine di sapere in che ordine gli strati sono disposti. Per esperienza personale, il modo migliore di arrivarci è scrivere senza riflettere… e il modo miglore di scrivere senza riflettere è farlo con una lettera.
Innanzitutto, debbo servirmi del mio super-io, perché definisca qual è l’io che si trova attualmente davanti alla macchina da scrivere, e qual è l’io al quale mi indirizzo.
Per quanto riguarda il mio super-io, il compito è facile: è sempre il produttore a sedersi per primo davanti alla macchina da scrivere. Dunque è il cineasta a essere il destinatario. Per lo meno è quello che tu eri fino a poco fa: colui per il quale mi prendo la pena di scrivere. Ma ormai ti circonda un silenzio così sospetto che sono un po’ preoccupato per me stesso. Come produttore ti sono legato nel bene e nel male, e tu anche. C’è una sola differenza: tu moriresti di fame piuttosto che scendere a compromessi e io preferisco morire di sazietà.
Mio caro FMM, come tu sai, io sono marito e padre esemplare, membro di un consiglio di amministrazione, titolare di un conto in banca, realista, pragmatico, stratega e all’incirca quarantenne; per farla breve, sono il tuo produttore e il tuo mecenate. Tu sfuggi a ogni definizione, tuttavia io voglio provarci: ti sentiresti adulato se ti dicessi che sei un artista – sensibile –, un poeta – anarchico –, uno scrittore – autistico –,
un sognatore – sismografico –, uno scopritore, un cieco, un veggente, un cinico, un furbo, non sprovvisto di humour, che conosce l’amore ma è capace di odiare, un po’ nevrotico, in analisi, paralizzato, e soprattutto cineasta per passione?
Siccome è da molto tempo che mi lasci senza notizie e da più tempo ancora senza pellicola, mi permetto di chiederti educatamente in quale ipotetica congiuntura, esterna e interiore, tu ti possa sentire e quando possa dichiararti pronto a fare qualcosa. Se hai bisogno di libri, di documenti, di utensili o, peggio, di interlocutori, fammelo sapere. Io provvederò a tutto. Se, per ritrovare la creatività, hai bisogno di un certo clima, di un certo luogo, o più semplicemente di solitudine, dimmelo; io soddisferò tutti i tuoi desideri, nei limiti in cui il denaro può provvedere a farlo. Sai che, secondo me, si può comperare tutto. È sufficiente trovare il mecenate che sia pronto a sborsare.
Dimmi quanto costano le tue idee – le tue idee cinematografiche – e ti dirò quello che mi costerebbe se non ne avessi più. So bene che l’onestà non è una virtù da produttore, ma lasciami dire questo: fai uno sforzo; maltratta la tua creatività mureriana; i film ricchi di immaginazione non possono contare né su sovvenzioni né su un pubblico. Costringi piuttosto la tua immaginazione a fare qualcosa di piatto. Scrivi con abbondanza ed eleganza, se possibile qualcosa di storico, con eroe virile e conclusione tragica; ma soprattutto, di un umorismo grossolano, da far sì che gli spettatori non stiano più nella pelle. Mettici anche un po’ di politica, altrimenti le Chiese non entreranno nell’affare.
Rompi il silenzio, caro FMM, e dammi un segno di vita.
Il tuo produttore: FMM
25 marzo 1980
Caro produttore,
I tempi debbono essere diventati proprio difficili, se i produttori si mettono a scrivere ai cineasti. Sia quel che sia, sono stato molto toccato dal fatto di avere tue notizie, perché ti credevo perduto nella zona grigia
Tu pensi dunque che io debba rompere il silenzio – ma credo che mi romperei davvero le ossa, se acconsentissi alla tua richiesta. No, mio caro,
è tempo di tacere. Si parla tanto, si scrive tanto, si dissimula tanto, si filma tanto che mi sembra più elegante pensare solo i miei film anziché realizzarli; scrivere solo i miei testi piuttosto che pubblicarli; col tempo forse rinuncerò anche a quello. Sfortunatamente non so giocare a scacchi, e non mi sento una vocazione monastica… Al contrario. Una mattina, ho semplicemente fatto la constatazione molto profana che il mio film era sparito durante la notte. All’alba non c’era proprio più; sparito senza lasciare tracce, svanito come un sogno; in ogni caso, introvabile. Tuttavia a volte mi sorprendo a chiedermi a cosa potrebbe assomigliare il mio prossimo film.
Adire la verità non mi sento sommerso dalle visioni, e non mi sento affatto il fuoco alle calcagna; mi sento bene, quasi un po’ troppo calmo per sentirmi bene. Per dovere, vado a vedere tutti i film svizzeri, e spesso devo impegnarmi moltissimo per trovare un posto in sala. Forse ho esaurito tutta la mia immaginazione per capire questo fenomeno, anziché per parteciparvi. Quello che mi rallegra e mi dà slancio, è il fatto che si tratti quasi esclusivamente di film onesti – e di film belli: bella musica, begli attori, belle scenografie, bella mdp, bella luce, belle storie; e non riesco a spiegare in maniera credibile a mia madre, ai miei conoscenti e anche ai miei amici più stretti perché non trovo belle tutte queste bellezze. Spesso mi sento come un diabetico che abbia passato 90 minuti ininterrotti davanti alla vetrina di una pasticceria…
Tu puoi constatarlo, mio caro mecenate, non è il cinema svizzero, sono io a essere in crisi. Ma non ne soffro. Ecco la novità. Debbo confidarti un grande segreto, FMM: nella mia testa non c’è più nessun film; solo qualche obbligo e contratto stipulati con te, altrimenti, più nulla che attenga al cinema. Nessuna visione, nessun desiderio, nessuna immagine quando chiudo gli occhi. I miei film erano compensazioni in una vita insoddisfacente; delle sublimazioni abbastanza riuscite. Per tanta gente, il cinema è una professione come un’altra. Dunque allo stesso modo sta per diventarlo per me. È di questo che debbo prendere atto – e anche tu. Noi dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare. Non dobbiamo più fare film, ma soldi; questi soldi li otterremo, alla peggio, grazie a dei film, alla meglio, grazie al cinema.
Ancora una raccomandazione, mio caro mecenate; una raccomandazione dettata dalla mia vanità e dal mio timore per gli umani: vorrei girare i miei prossimi film con delle scimmie, nella foresta vergine; come
CARTEGGIO CON SÉ STESSO
avevo fatto per i miei primi film. Troppo tardi per emigrare a New York; ma mi è sufficiente sapere che ci si può arrivare in nove ore.
Aspetto ardentemente la tua risposta (e il tuo assegno).
Il tuo FMM
25 marzo 1980
Caro FMM e cineasta,
La tua replica a stretto giro di posta mi ha sorpreso quasi più del contenuto della tua lettera, ma entrambi mi hanno molto rallegrato. Il contenuto, tuttavia, non smette di preoccuparmi, almeno un po’; tra le righe vi si manifesta una sfumatura di depressione. So bene che è privilegio degli artisti sensibili sfruttare tali stati d’animo, al fine di costringere a una dose maggiore di amore o simpatia chi sta loro più vicino. Non la prendo male. Spero che anche tu non me ne vorrai per averti smascherato.
Non è la prima volta che finisci per non sapere più su cosa diavolo potresti girare un film. Spesso ti sei già ritrovato come un cieco nel vasto paesaggio del cinema; e poi, all’improvviso, il minimo accadimento ti restituiva le ali – a meno che tu non fossi alle prese con cose più importanti, come ad esempio la morte di tuo padre. È così che è nato il tuo film sul Cantone di Uri, che testimonia sotto molti aspetti la tua vitalità.
Il fatto che tu non veda più nulla quando chiudi gli occhi (sono le tue parole), al contrario, non mi preoccupa affatto. Te ne prego, approfitta almeno di questa oscurità, perché stai facendo l’esperienza che la stragrande maggioranza della gente fa tutti i giorni. Anch’essa non vede nulla, quando ha gli occhi chiusi. D’altronde, non vede nulla anche quando li apre, cosa che puoi constatare quotidianamente. In effetti, si dovrebbe piuttosto parlare di ciechi che di maggioranza silenziosa: essi tacciono perché non vedono niente.
Tenderei a pensare che per te non si tratti di cecità, ma di rifiuto di vedere. Sei ferito, umiliato nella tua anima di artista e di veggente, perché il grande pubblico non ha visto ciò che tu volevi rendere visibile. Una volta in più, provi sulla tua pelle il fatto che tutti i tuoi amici, insieme al successo, ti abbandonano. E se desideri fare buona impressione, pensi di
F. M. MURER
riuscirci più facilmente rinunciando a girare dei film. Ho notato questo fenomeno ogni volta che l’ho discusso con altri produttori o cineasti. Taluni manifestavano anche un evidente sollievo, un po’ come il bottegaio del rione che leggeva il giornale aspettando il suo turno dal barbiere: «Ancora dieci clienti perduti dalla Migros» 1. Aveva appena scorso gli annunci funebri.
Conosco la tua ambizione di realizzare un lavoro che si rivolga a tutti, ma dovresti ammettere alla fine che i tuoi film sono innanzitutto dei film su te stesso. In Grauzone, tu eri anche l’attore principale, che si faceva doppiare per evitare di farsi notare troppo. Questo film, se ho buona memoria, l’hai concepito mentre eri in posizione orizzontale, si potrebbe dire: è come il referto di un’inumazione; o come l’attraversamento di un paesaggio che avresti popolato di morti e di Lazzari: «O essi compiono un atto libero, o non si sveglieranno mai più dal sonno senza sogni», suona la citazione anonima che hai inserito nel film. Anche tu hai vissuto in questo soggiorno dei morti, anche tu sei stato toccato dall’epidemia. Hai rifiutato di far parte dei morti, e hai realizzato un atto libero, il tuo film, per sfuggire alle tenebre del sonno senza sogni. E adesso, saresti dunque allo stesso punto di prima? Dici che non ci sono più film nella tua testa: solo tenebre, quando chiudi gli occhi. Non la penso come te. Sei uscito dal sogno, non ci sono dubbi. Dici testualmente: «Noi non dobbiamo più fare film, ma soldi». Infine, eccoci d’accordo, per la prima volta da tempo. E tu dici di nuovo noi. Questo mi concede qualche speranza. Tu sei la cima dell’albero, io ne sono le radici, e noi ci ricongiungiamo nel tronco – se posso osare esprimermi con qualche pretesa, io che sono il produttore di un poeta ribelle (NZZ dixit) 2 .
Attendo un segno da parte tua.
Il tuo produttore: FMM
P.S.: Non avresti voglia di produrre un film con me?
26 marzo 1980
Caro produttore, Hai davvero tutto quello che ci vuole per diventare un grande mecenate. Le tue parole di adulazione sono riuscite a gettare lo scompiglio
nella mia anima, ma, per fortuna, non nel mio cervello. Che rimane in pieno possesso delle proprie facoltà. Ti sei smascherato. Mescoli uno spirito calcolatore a una notevole carica di simpatia e comprensione. Rimani tuttavia un imbroglione. Prendilo come un complimento: se non lo fossi, non saresti un produttore, o per lo meno non un produttore capace.
Alla domanda che conclude la tua lettera così commovente, non ho né voglia né non voglia di rispondere. La tua domanda anticipava la mia sola risposta possibile. È per questo che mi vedo obbligato a dirti: proprio perché tu ne hai tanta voglia, io non ne ho affatto voglia. Tu subisci le costrizioni della produzione e vuoi costringermi all’azione: entrambi siamo costretti al successo. Ma i miei desideri non possono nascere da una costrizione.
Vado a enumerarti alcune costrizioni alle quali è sottoposta la maggioranza dei film svizzeri: costrizioni legate alla continuità, al dialetto, allo strabismo, agli attori o romanzieri (esclusivamente svizzeri), alle questioni sociali, alla patria, alla ripetizione, alla co-produzione con la TV, al DFI 3, alla sceneggiatura, al colore.
Si potrebbe intonare un’altrettanto lunga litania di voglie; ancora qualche anno fa, lo avrei fatto senza pena: voglia di sperimentare, di concepire, di lavorare, di correre rischi, di provocare, di improvvisare, di criticare, di mandare in bestia, di aggredire, di uccidere, di amare e, soprattutto, voglia di essere un musicista piuttosto che un cineasta. Tutte queste voglie da allora mi sono passate, a eccezione forse delle ultime tre.
Mi piacerebbe suonare uno strumento a corda, far brontolare l’enorme ventre del contrabbasso, ma non cantare con una voce di testa. Lo vedi, ho voglia di cose che vengano dal ventre. Non parlarmi di quello che viene dalla testa. Mi piacerebbe essere apolitico, come un musicista. Non come il componente di una banda militare; piuttosto come un suonatore di blues, un interprete di Bach. Amio avviso, la musica non viene da un paese che si può rintracciare sulla carta geografica, ma dal paese della giustizia, del pensiero, dell’immaginazione. Un paese senza classi e senza lotta di classe, senza razzisti né fascisti, senza sfruttatori, senza omicidi di bambini travestiti da insegnanti, senza agenzie di collocamento, senza televisione. Nel fondo, mi piacerebbe poter essere Kaspar Hauser. Adesso, caro il mio produttore, sai cosa mi fa ancora voglia. Trovami dei soggetti che io possa mettere in scena come musicista-cineasta.
F. M. MURER
Politicamente parlando, niente da sperare: la tua anima da piccolo carrierista socialista non mi interessa. Ma se tu avessi ancora l’intenzione di trasformare in progetti lucrosi i desideri di cui ti ho parlato, e che tu trovi narcisistici, ma che, agli occhi di qualcuno, avrebbero senza dubbio degli aspetti politici, allora fammi un cenno. E non dimenticare di farmi avere una lista di tutti i temi che sono alla moda in questo momento: ci tirerò fuori dei film geniali. Quello che mancava nell’ultima lettera, è l’assegno. Non credere che la miseria renda creativi.
Tuo FMM
26 marzo 1980
Mio caro «musicista», Rifiuti dunque di essere un uomo politico, perché senti di essere un artista. Il ventre è il solo luogo dei tuoi desideri. Nonostante tu abbia perso il desiderio di rimpinzarti, il solo che condividevo con te. Adire la verità, non ti avrei mai creduto così reazionario, o per lo meno così arretrato. Poeti nella loro torre d’avorio ce ne sono sempre stati. Ma che volessi esserne uno, è l’ultima cosa che avrei creduto di te. La vita che sogni è quella di una pianta sotto vuoto. Non esiste, che io sappia, un’arte degna di questo nome che abbia avuto origine dalla storia delle piante: questo privilegio è sempre stato riservato alla storia umana. Di quest’ultima, tu, l’artista, non sei in tutta evidenza affatto cosciente. Passa attraverso i tuoi geni e le tue vene, nella tua mano. Allo stesso modo, il ventre vibrante del contrabbasso, anche lui, non capisce nulla di Bach. Arigore, posso anche ammettere che, in quanto artista, tu voglia mantenere le distanze dagli avvenimenti politici del giorno e arrogarti il diritto di contemplare le piramidi da lontano.
Sì, l’arte ha diritto al gesto ampio, alle immersioni nei tesori dell’inconscio e alle risorse atemporali dei nostri avi e della nostra discendenza. Ma la tua arte non è per questo meno collocata nel tempo. Come ogni cosa, ovunque sulla terra, dipende dal tempo, è generata, deve nascere un bel giorno. Il momento, l’epoca, la cultura segnano l’arte che tu crei. Ma non le conferiscono nessuna garanzia di essere immortale o mortale, profonda o superficiale, sottomessa alla moda o classica, vera,
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falsa, retorica, confidenziale, morta o viva. In altre parole: un film storico, girato nel 1980, è un film sul 1980, anche se l’azione si colloca nel 1902. Chiaro?
Dal 1900 esiste una cosa che si chiama divisione del lavoro. Credo che il nostro scambio epistolare abbia fatto progredire il rapporto fra di noi in questo senso. Possiamo accordarci su questo punto, che io guardo verso l’esterno, e tu verso l’interno. Tu ti abbandoni alle tue visioni archetipiche e io sto all’erta. Tu disponi della memoria lunga dei tuoi antenati, mentre io mi limito alla vista corta degli anni ’80. Io mi assumo dunque la responsabilità di vestire cose senza tempo alla moda d’oggi: di collocare i tuoi personaggi eterni in case attuali; di farli andare in automobile piuttosto che a cavallo – a parte i figli degli industriali, che rimetterei sui cavalli. Per tutto questo, puoi avere fiducia in me. D’altronde, al giorno d’oggi, in tutti i settori della produzione cinematografica, ci sono specialisti consumati, e anche loro hanno il diritto di vivere. So che la mia anima socialista non ti interessa; ma io mi interesso alla tua anima anarchica.
Ti prego dunque all’istante, con tutto quello che mi resta di educazione, di consegnarmi delle Visioni.
Per favore, piazza i tuoi sismografi, in modo da rilevare i nostri più impercettibili terremoti; metti in moto il tuo radar; concentra i tuoi raggi X sulla grigia monotonia delle nostre viscere; prendi i tuoi sogni per i capelli, prima che sprofondino di nuovo nell’oscurità.
Per soddisfare la tua domanda di soggetti, ho bisogno di un’immagine della situazione cancerosa della nazione: mi necessitano informazioni sulla velocità con cui le metastasi guadagnano terreno nelle città contaminate e vanno ad annidarsi nell’anima dei bambini. Forniscimi delle immagini ai raggi X del nostro universo sempiternamente cementificato. Le microfessure sono visibili a occhio nudo? O quando lo saranno? Il tuo radar ha scoperto degli UFO? Sono piuttosto scuri o piuttosto azzurri?
Delle Visioni, caro il mio genio, ecco cosa mi aspetto da te. Al lavoro! L’assegno arriverà solo dopo.
Il tuo mecenate: FMM
Mio caro mecenate, produttore e FMM,
Mi si chiedono delle Visioni. Ma volentieri, per me non è un problema. In seguito, però, sarà affar tuo districartene.
Ecco la mia visione: ero molto vecchio. Qualche anno dopo la data prevista per la mia morte, ero ancora in vita, coriaceo come un microbo. Mi sentivo come un organismo cellulare, una specie di pianta (come hai notato tu stesso), ma una pianta capace di produrre flussi di pensiero, di trasformare acidi nucleici in flussi affettivi e riflessivi. E in più, questo organismo cellulare era capace di autotrasformazione. L’età, la avvertivo come regressione verso uno stadio anteriore. Sebbene da un lato sentissi le mie cellule grigie tornare in qualche modo allo stato vegetale, mentre le altre, quelle che non facevano parte del cervello, si moltiplicavano selvaggiamente, scoppiavano, si dividevano poi si riunivano, sempre meno numerose, fino al punto in cui, finalmente, non ne restava che una sola: io. Proprio al mio fianco c’era quella del mio vicino, e così di seguito. Mi sentivo come un microbo sulla superficie di una specie di bolla, un microbo terribilmente affamato. Il desiderio di mangiare combatteva con quello di procreare. E le altre cellule sempre più numerose manifestavano desideri sempre più insaziabili. Attorno a me ce n’erano di piuttosto verdastre; altre rossastre, o brunastre, altre nere, o più semplicemente grigie o incolori. Alcune si rivelavano più resistenti delle altre, conformemente al loro colore. Le incolori e le grigie sembravano beneficiare della più grande capacità d’adattamento. Erano senza colore al punto tale che talvolta viravano al verde, talaltra al rosso o al bruno, il che attribuiva loro le migliori possibilità di vivere, o piuttosto di sopravvivere. Costituivano la maggioranza assoluta e, come è normale in democrazia, determinavano il colore della bolla. Le verdi si ritiravano nelle riserve messe a loro disposizione dalle grigie, le brune entravano in grigi palazzi ufficiali, tanto da diventare invisibili, e le rosse si riunivano in cellule in cui, a seconda delle regioni, torturavano o erano torturate, sotto la direzione delle brune. A questo punto, la mia visione si è bruscamente interrotta. Ho guardato il mio orologio e ho constatato che eravamo nell’anno di grazia 1980.
Caro produttore, se vuoi sopravvivere in quanto tale, dimmi quale deve essere il colore del nostro prossimo film.
Saluti FMM
9 aprile 1980
Caro FMM e visionario,
La tua visione mi ha reso sognatore. Dopo averla letta e riletta, arrivo alla conclusione che non sia filmabile: è troppo carica di simboli, e in più, il momento non è proprio il più adatto per girare dei film sull’umanità. Credo che Bergman sia sufficiente alla domanda per molti anni ancora. Questi film del genere «il-mondo-è-buono-l’uomo-è-cattivo» sono superati; sono legati a quel moralismo postbellico, che imperversava negli anni ’50 e all’inizio degli anni ’60. E soprattutto, io mi riconosco nelle tue cellule incolori. Da quando esisto, mi sono truccato in nero, blu, rosso, verde (il che, tenendo conto delle mescolanze, può anche avere come risultato il bruno), e non posso più sentir parlare di una ripartizione degli umani in alcuni colori ben distinti. Anch’io non posso più sopportare questa gemente senilità, che si lamenta del fatto che tutto sia sempre più grigio, complicato, opaco, repressivo, cementificato, regolamentato. Da anni, questi superlativi e super-superlativi rimangono puramente verbali, mentre nella pratica quotidiana le cose diventano davvero sempre più grigie, complicate ecc.
Chi è infastidito dai ponti in cemento, ebbene, che li faccia saltare per aria, ma stando zitto. Dopotutto, anche a noi non fanno discorsi quando decidono di costruirli.
Se devo vivere ancora, non posso farlo in un mondo che detesto: è il motivo per cui ho deciso di amare questo mondo, e di detestare quello in cui sognavo di vivere. Constatazione di impotenza, penserai tu; rinuncia all’utopia di un mondo migliore, fuga in avanti, o semplicemente darwinismo opportunista. No, ho solo voluto dire che la depressione, la rassegnazione, l’apatia sono legati a stati d’animo reazionari. Per parlar chiaro: se cado in balia della depressione perché la costruzione di un’autostrada sfigura il paesaggio, se soccombo alla rassegnazione perché ogni lotta è vana, se, rassegnato, mi ritrovo su questa stessa autostrada, viaggiando apaticamente, anche senza gioire della velocità, ebbene, l’autostrada in questione non avrà solamente sfigurato il paesaggio, ma anche me stesso; e io non ho voglia di fare questo piacere ai costruttori di autostrade. Così finisco per amare l’au-
F. M. MURER
tostrada, è già così, invece del paesaggio che non esiste più. Mi sono spiegato bene?
Mi hai trasmesso il virus delle tue cellule. Invece di travasarti visioni più utilizzabili, ecco che cado preda di una filosofia incolore. Forse sono stato un po’ impressionato dalla tua ostinazione a pormi domande funebri e senza risposta. Come un malato che crede di uscirne senza medico e medicine, vuoi a ogni costo continuare a distillare la tua paura e la tua insicurezza. Quello che mi rassicura, è che il nevrotico può sentirsi rafforzato dalla sua nevrosi.
Potresti forse descrivere la tua solitudine in immagini?
Il tuo produttore: FMM
9 aprile 1980, la sera tardi
Caro produttore,
Non mi limiterò alla tua lettera, almeno oggi; mi sembrava troppo inerente al problema perché potessi reagirvi senza averci dormito sopra. In compenso, la tua ultima frase, in cui dici che io dovrei descrivere la mia solitudine in immagini, mi ha dato all’improvviso un’idea della quale voglio metterti al corrente prima che la dimentichi. Si tratterebbe di filmare dei paesaggi: munito della mia mdp e del mio registratore, percorro la Svizzera per un mese, in lungo e in largo, e lascio che i paesaggi rispondano al sentimento che mi fanno provare.
Se li detesto li filmo, e se li amo ne faccio una descrizione usando la penna. Poi taglierò o invertirò le mie immagini e vi inserirò i miei testi; di lì usciranno nuove immagini, nuovi paesaggi: amore-odio.
Da cui un film documentario sul mio turbato rapporto con la Svizzera, sulla Svizzera turbata, sulla Svizzera come fattore di turbamento negli svizzeri; un film sulla Svizzera come patria. Come un reporter del telegiornale, sto con il microfono a tutto schermo e, come un maestro davanti alla lavagna, indico quello che è giusto e quello che è falso. Al pubblico dei cinema o della televisione mostro dove sono i miei amici e i miei nemici e come si chiamano. Dico a chi appartiene la tale casa, la tale industria, a chi questa risalita di china fa guadagnare dei soldi, e cosa paga di tasse chi li intasca. Chiamo tutte le cose e tutte le persone per
nome, e aggiungo l’indirizzo del mio avvocato, perché si sappia a chi indirizzare le querele per diffamazione che rischiano di piovere. Presento mia madre e mostro il luogo in cui Guglielmo Tell non ha voluto levarsi il cappello. In guisa di commento, esprimerò il mio stupore: come può una nazione così fiera come la Svizzera costruire il suo mito della libertà su una minoranza così minuscola? Poiché è provato che Tell fu l’unico abitante del Cantone di Uri a non essersi levato il cappello. Se fossi del Cantone di Uri, e fiero di Tell, dovrei logicamente non esser fiero dei suoi compatrioti.
Ti chiedo di dirmi se questo schizzo potrebbe beneficiare del denaro necessario in termini ragionevoli. Per il budget, tengo a precisare: 99 minuti, 35mm, colore…
Saluti FMM
18 aprile 1980
Caro cineasta di paesaggi,
Qui allegato troverai un articolo su Francesco Rosi, tratto dalla NZZ di oggi. Egli dichiara di detestare i documentari. Dopo aver letto il tuo esposto, sono arrivato a condividere questa opinione. Trovo i documentari noiosi, cavillosi e creduloni; per di più sono quasi sempre senza forma, senza musicalità, simmetrici, al servizio dello sfruttamento e della menzogna. Avolte tuttavia i documentari prendono posizione: difendono la causa degli scioperanti, degli alcolizzati, dei galeotti o ex galeotti, ecc. Ma secondo me questo atteggiamento non implica nessun sentimento di responsabilità sociale; di più, si spiega con un buon senso degli affari, assieme a un buon fiuto. Per dirlo in altri termini, non c’è nessun bisogno di coraggio per fare un film su persone coraggiose – e neppure bisogno di immaginazione. L’autore di un documentario in genere sfrutta le proprie vittime con la prospettiva di girare un buon film. Tu non fai eccezione: hai infatti utilizzato i montanari. Certo, non lo hai nascosto. Ma questa onestà e questo sovrappiù di coscienza di cui ti puoi fregiare, ti rendono forse migliore? La maggior parte degli autori di documentari si credono impegnati, per la sola ragione che impegnano persone impegnate. Io lo chiamo opportunismo. In quanto produttore, mi rifiuto di fare dei
documentari. Ma ti metto volentieri in contatto con la struttura della televisione che si occupa di questi film.
Quello che mi interessa è esclusivamente la Fiction. Qui allegato troverai un assegno la cui cifra dovrebbe permetterti di ritirarti per qualche mese in un’isola deserta. Nel frattempo io mi cercherò un nuovo mestiere; al tuo ritorno brinderemo insieme alla liquidazione della nostra ditta: sempre che nel frattempo tu non sia morto di fame e io crepato di sazietà.
Con la più profonda afflizione.
Il tuo FMM
19 aprile 1980
Caro produttore, mecenate e amico,
Sei posseduto dal demonio! Vuoi spontaneamente rinunciare al tuo mestiere, oggi che ciascuno dubita di perdere il posto, avvenga questo a causa dello psichiatra o di un giovane leone che sgomita. Non vuoi dunque cogliere più le piccole mele mature dal tuo piccolo albero? In questo modo lasci il paradiso, senza preavviso, senza sapere per quale destinazione? Comincio a credere che potresti diventare scrittore; sicuramente, non si scrive ancora abbastanza su questo continente. C’è ancora qualche foresta che aspetta di essere disboscata, di arrivare sotto forma di carta stampata sugli scaffali delle librerie, in attesa di ritrovarsi, non letta, sugli scaffali dei lettori. Ti consiglio di non dire a nessuno che scrivi: ci si prenderebbe gioco di te. Dì piuttosto che hai fatto fallimento e che vivi alle spalle dei tuoi creditori.
Arrivederci
Tuo FMM
1 Catena di grandi magazzini.
2 «Neue Zurcher Zeitung».
3 Dipartimento Federale degli Interni, incaricato dei finanziamenti al cinema.
Story board di «Vitus»
TRE FILM
Fredi M. Murer
Aproposito di «Grauzone» e delle zone grigie
Le zone grigie fanno parte della mia esperienza quotidiana. Che io legga il giornale, che lasci la città o che rientri da un sogno, dovunque incontro questa no man’s land, questa cosa-tra che non ha un nome preciso. La si riconosce per così dire dal fatto che non la si può designare nominativamente. Perché questo accade nella zona grigia.
Si può riconoscere la zona grigia per esempio dal fatto che il suo contrario è per lo meno altrettanto vero: malattie che sono in effetti reazioni sane, una legalità che è illegale e viceversa. Le zone grigie sono anche là dove il genio tecnologico e l’intrallazzo politico si fondono intimamente; dove persone sanamente ragionevoli si assumono, per decine di migliaia di anni, la responsabilità delle scorie radioattive; in cui le imprese si insediano nelle buche per le lettere e le città divorano il paese. Le zone grigie si collocano anche tra gli strati sociali, tra le relazioni umane e anche tra la testa e il ventre di ciascuno.
Il film Grauzone si situa tra queste zone grigie e altre zone – dal punto di vista sociale, circa a metà strada tra la parte inferiore dello strato superiore e la parte superiore dello strato inferiore. Cioè là dove vive la stragrande maggioranza della gente e dove vivo anche io. Per simpatia e pietà ho dato il mio nome al personaggio principale del film, anche al fine di evitare di denunciare qualcuno.
Nel film, Alfred e Julia, una coppia senza figli, vivono in periferia, in quella stessa periferia in cui ho ritrovato la maggior parte di quei figli e figlie di contadini di montagna che hanno abbandonato il loro villaggio. Di questa origine, nel paesaggio della loro nuova casa, resta tutt’al più una radice scolpita. Per molti di loro è la zona grigia a essere la nuova patria. In questo senso, esiste un rapporto diretto tra Grauzone e il mio
film precedente sui montanari. Vi si può vedere insieme una prosecuzione e un parallelismo. Se il film sui montanari parlava di una minoranza condannata a tacere, in Grauzone è rappresentata una maggioranza volontariamente silenziosa. Là il quotidiano era determinato dal tempo che fa, qui dall’atmosfera dominante.
Grauzone cerca di rendere visibile e tangibile questa atmosfera: qui c’è la solitudine a frigo pieno. Qui gli esperti e i controesperti cercano la loro vittima e i capi del personale trovano i loro salariati. Qui gli studi di architettura determinano la collocazione del letto coniugale in funzione dello schema delle prese elettriche, e mandano i pedoni a camminare sul cemento. Qui gli orologi spaccano più o meno il centesimo di secondo e la domenica mattina ci si alza tardi, anche se ci sono le elezioni sulla cogestione. Qui palme e cactacee crescono dietro i vetri. Non c’è quasi nulla che non si possa comperare, e a volte si produce uno scatto sulla linea quando si telefona.
La metà degli anni ’70 – tutta una zona grigia, a mio vedere – si situa esattamente tra il 1968 e il 1984.
Con Grauzone, non ho avuto l’intenzione di fare del cinema americano d’identificazione (anche perché bisognerebbe esserne capaci), ma ho voluto raccontare una storia inventata come se fosse stata autentica, e fare dunque un film che si collochi nella zona grigia. Ciò significa obbligatoriamente: un film sull’insicurezza e il livellamento. Facendo questo, ho preso il rischio di vedere queste «citazioni» eventualmente attribuite al film stesso. Perché, nel Cinema, chi ha piacere di identificarsi con il gregge e con le coscienze-cadaveri? Seguendo il mio principio-speranza, ho tuttavia cercato – almeno nel film – di non lasciare che l’Utopia andasse del tutto persa: scoppia una misteriosa epidemia; chi è contagiato ha una possibilità di sopravvivere.
Grauzone non sarebbe un film svizzero, se in proposito non si ponesse anche una questione di Denaro. Mezzo milione di franchi svizzeri –quello che è costato all’incirca – è una grossa somma, anche nel paese più ricco del mondo. È molto denaro quando si deve guadagnarlo con il sudore della fronte, quando lo si sottrae al fisco o lo si brucia in 30 secondi, in una salva di artiglieria, in una frana, durante le manovre dell’esercito. Ma è abbastanza poco per un film che dura pur sempre 100 minuti. Così come è vero che esistono dei disegni in punta di penna e delle cappelle Sistine, il denaro nel cinema è un elemento dello stile. Non voglio
F. M. MURER
naturalmente dire che un film costoso debba necessariamente essere bello o viceversa, ma allorché la stessa ambizione è servita da 50 milioni o dall’1% di questa somma, deve ben risultarne una differenza sensibile per lo spettatore. In ogni caso, ho potuto leggere a proposito di Cannes che oggi solo i giganti dello schermo sono in grado di costringere lo spettatore alla riflessione, mentre i piccoli film non sanno fare di meglio che invitarlo alla stessa operazione.
Per questa volta, almeno, non sono (ancora) in grado di costringervi; mi auguro di essere riuscito a invitarvi.
«Höhenfeuer»
La famiglia
Da tempo immemorabile il podere apparteneva alla stessa famiglia, alla stessa stirpe. Era usanza che di volta in volta venisse ereditato dal più piccolo degli aventi diritto, in modo tale che la proprietà restasse il più a lungo possibile in mano ai genitori. Il podere si trovava in un posto isolato sulle montagne, proprio ai limiti della vegetazione. La maggior parte del terreno era scoscesa. Dalle montagne sovrastanti si abbattevano tempeste e valanghe che, anno dopo anno, avevano scaraventato giù numerosi sassi poi rimasti sui prati. Ogni anno, da generazioni, i sassi venivano raccolti e riutilizzati per costruire muri e muretti sulla china. I fossi e le buche che si erano formati dalla rimozione delle pietre si riempivano di detriti e humus e, col passare del tempo, tutto il terreno era chiazzato di piccole terrazze d’erba in leggera pendenza. In virtù di questa sua caratteristica, il podere fu chiamato «Sul Muro».
La casa e la stalla erano distanti appena venti passi l’una dall’altra. L’abitazione era stata costruita in un avvallamento. Attraverso la finestra che dava sulle montagne si poteva accedere direttamente al piano di sopra, mentre dalla parte della vallata, al pian terreno, c’era la cantina. Nel cuore della costruzione di legno di forma cubica c’era la stufa di steatite, intorno alla quale si sviluppava il soggiorno; accanto, la camera da letto dei genitori; dietro – nella montagna – la cucina. Oltre il soggiorno, verso la vallata, si aprivano le due camere dei bambini, mentre una terza stanza, che dava verso la montagna, era disabitata e fungeva da sgabuzzino e deposito. Qui c’erano due letti di ferro, armadi e como-
dini con vestiti invernali o estivi cosparsi di canfora, una scarpiera, uno scaffale per le conserve, una dispensa per le provviste protetta da un’inferriata, un televisore rotto, un aquilone fatto a mano, e altro ancora, segnali evidenti di una vita al contempo povera ma vivace, come quella dei predecessori.
Bergmann Franz, l’ultimo padrone di casa, si era sposato tardi, un anno dopo la morte di sua madre, all’età di 40 anni. Sua moglie, originaria della «Montagna di fronte» – il podere dall’altra parte della vallata era chiamato invece «Sul Muro» – lo aveva aspettato a lungo. Fino al giorno delle sue nozze aveva abitato e lavorato nella tenuta di Heimet, sulla «Montagna di fronte», come serva nella sua stessa casa. Le voci che giravano su di lei la dipingevano come un’anima buona e una gran lavoratrice. Hanni era di cinque anni più giovane di Franz.
Nei primi tempi trascorsi «Sul Muro», Hanni si fece talvolta prendere dalla nostalgia per la «Montagna di fronte». Quando soffiava il föhn e la visibilità era buona, prima di mettersi a letto faceva dei segni con le braccia alla finestra, e ogni tanto qualcuno le rispondeva. Per anni prima del matrimonio aveva comunicato con Franz scambiandosi cenni di ogni tipo; gesti di desiderio, all’epoca. Avevano due figli, un maschio e una femmina. Il bambino lo ebbero sei anni dopo la primogenita. La vecchia ostetrica – che aveva fatto venire al mondo più di duemila bambini –disse alla madre, una volta riavutasi dal parto, che era viva per miracolo. Cercare un terzo figlio non era umanamente pensabile, sarebbe stato come tentare la provvidenza.
La bambina nel frattempo andava a scuola, e ci andava volentieri. Era la più sveglia della classe, vale a dire la più intelligente. Dopo nove anni, il padre le fece abbandonare gli studi. Aveva bisogno di lei in casa, disse all’anziana suora allorché questa, subito dopo la messa della domenica, l’aveva preso in disparte avvertendolo che sua figlia aveva la stoffa per diventare addirittura insegnante. Non era l’unica in paese a trovare anacronistico che si trattassero i propri figli come servi della gleba. Ma il padre non ci faceva caso, aveva i suoi motivi e non doveva certo dare spiegazioni a nessuno. Anche la ragazza non condivideva la disapprovazione altrui al suo esilio sulla montagna. Era troppo intelligente e troppo buona. Lei conosceva bene i motivi e riteneva, devota qual era, che ubbidire ai genitori fosse tanto più naturale quanto più una coscienza sporca si riempie di pensieri proibiti. In cuor suo era addirittura felice della deci-
M.
sione del padre, poiché era così attaccata al fratellino che non riusciva nemmeno a immaginare di dovergli stare lontana, per una settimana o chissà quanto, giù a valle o chissà dove. Lo considerava una sorta di suo allievo. Lui non andava a scuola perché era sordo dalla nascita, ma al di là di questo handicap non gli mancava niente, né dal punto di vista fisico, né mentale. Era un bambino oltremodo allegro e vivace. In casa non si parlava molto – era una peculiarità della famiglia – e ciò non fu certo d’aiuto, tant’è che i genitori ci misero un bel po’ prima di accorgersi che il bambino aveva problemi seri. Ma non se la sentirono di rinchiudere il Ragazzo – lo chiamavano così quando si riferivano a lui – in un istituto e decisero di tenerselo in casa, il che permise loro di percepire, da quel momento in poi, una pensione di invalidità. Il ragazzo si chiamava Ragazzo e la ragazza Belli, diminutivo del suo nome di battesimo. Il Ragazzo e Belli si volevano un bene dell’anima.
Il linguaggio
La ragazza aveva quindici anni quando divenne serva nella sua stessa casa. Il Ragazzo all’epoca ne aveva nove. Più cresceva e più la sua sordità contribuiva ad affievolire – fino a farla scomparire quasi del tutto – la già di per sé scarsa loquacità della famiglia, a favore di una lingua dei segni interna al nucleo familiare stesso. Quel poco che c’era da dire nel corso delle loro giornate scandite dalla monotonia avveniva anche attraverso gesti, segni con le mani, sguardi; in un qualunque modo, insomma, che il Ragazzo potesse capire. Raramente capitava di dover parlare di fatti che rendessero necessario l’uso di qualche parola, se non proprio di frasi. E quelle poche parole assumevano allora contorni ancora più ampi, avevano un timbro ancora più pieno. Quando arrivavano visite, la parola più frequente era «Sì», che, a seconda dei casi, poteva dare l’idea di consenso, diffidenza, attesa, stupore, incredulità, rispetto, astuzia, disprezzo o addirittura minaccia. Col tempo, poi, anche questi sporadici visitatori dei Bergmann decisero di tenersi alla larga da quella casa, perché «Sul Muro» si diceva sempre «Sì» a tutto. In questo microcosmo, che gli adulti avevano oramai dimenticato, Belli e il Ragazzo erano diventati inseparabili. Alternavano gioco e lavoro senza soluzione di continuità. Dove e quando non aveva importanza, i loro compiti quotidiani li eseguivano sempre insieme, si trattasse di raccogliere il fieno, asportare il fogliame, ripulire dal letame, strigliare i
cavalli o altro. Tra di loro avevano sviluppato un linguaggio talmente affinato che alle volte non avevano neanche bisogno di farsi gesti o segni: si «sentivano» anche a distanza. Ogni tanto s’inginocchiavano, vicinissimi l’uno di fronte all’altra, si appoggiavano le mani palmo contro palmo e si fissavano a lungo negli occhi. Che quello fosse un modo per raccontarsi le storie più folli e segrete, lo si intuiva a malapena dalla loro mimica facciale.
Il Ragazzo era intelligente e malgrado restasse un po’ indietro nel suo sviluppo sociale e intellettuale rispetto agli altri per via dei suoi noti problemi di linguaggio, dimostrava una sempre crescente capacità di esprimere i propri sentimenti in maniera diretta e di abbandonarsi completamente agli umori del suo animo. Ora lo si sentiva urlare di gioia, ora disperarsi per la rabbia, con grida che sembravano uscirgli più dalle viscere che dalla gola. Quando era triste o stanco, si cercava un posticino appartato, si raggomitolava come un gatto e dormiva. Guai, però, a svegliare la sua ira! Non aveva paura di niente, lui! Tranne dei temporali, che in montagna nella maggior parte dei casi erano piuttosto violenti. I fulmini e il successivo rimbombare dei tuoni, di cui avvertiva fortemente le vibrazioni nel corpo, gli mettevano addosso un tale panico che al primo lampo si precipitava in casa e andava a rifugiarsi sotto le coperte. Sua sorella era costretta a stargli vicino e stringerlo forte a sé finché non era tutto passato. Per contro, il Ragazzo si sentiva magicamente attratto dall’acqua. Quando non lo si trovava da nessuna parte, era al ruscello. Costruire laghetti artificiali e tuffarvisi dentro nudo era la sua più grande passione. E talvolta, malgrado il freddo, lo faceva anche nell’abbeveratoio delle mucche, soprattutto mentre bevevano. Asua madre la cosa non andava affatto giù; suo padre invece lo lasciava fare. Rispetto a sua sorella, godeva generalmente di una posizione privilegiata. Ciò che per gli altri poteva sembrare sconveniente, per il Ragazzo era in qualche modo naturale. Anzi, a volte dava persino l’idea che il fatto di non possedere la lingua madre lo dispensasse anche dalla loro morale, come se la coscienza, soprattutto quella sporca, risiedesse nell’orecchio.
La pubertà
Gli anni volavano via. Col lento risveglio della maturità sessuale del Ragazzo, si evidenziava sempre più in lui una certa imprevedibilità, in particolar modo nel rapporto con le bestie. Non a caso sua sorella non gli
F. M.
toglieva mai gli occhi di dosso. Il Ragazzo aveva sì sempre più o meno dialogato con gli animali, li aveva sempre accarezzati e coccolati, ma negli ultimi tempi sembrava che qualcosa turbasse quest’armonia. All’improvviso e senza un motivo apparente si eccitava talmente tanto che si scagliava con tutta la sua forza contro gli animali, soprattutto sul bestiame grosso, mentre molestava pesantemente gli animali da cortile, salvo poi subito dopo riabbracciarli e accarezzarli teneramente. I veri oggetti del desiderio, comunque, le vere vittime delle sue scorrerie erano le scrofe. Solitamente amava cavalcarle sui campi: vi si avvicinava di soppiatto, vi si gettava addosso e le stringeva forte con braccia e gambe. Oppure entrava nel recinto, saliva a quattro zampe sui porcellini e si azzuffava con loro finché sfinito, ogni volta, si addormentava appoggiato al pancione di mamma scrofa. I genitori iniziarono a preoccuparsi delle strane inclinazioni del figlio e cercarono di capire come aiutarlo, se non proprio di risolvere il problema. Non erano abituati a parlare di certe cose, ma convennero che sarebbe stato meglio se il Ragazzo avesse sfogato la sua rabbia sulle numerose pietre sparpagliate sul loro terreno, pietre che in alcuni casi raggiungevano dimensioni umane. In questo modo potevano unire l’utile al dilettevole, rifletté la madre.
Non molto tempo dopo, infatti, padre e figlio furono avvistati sui campi con una mazza da fabbro sulle spalle. Il Ragazzo «colse» subito come dovevano essere «prese» le pietre per essere ridotte in pezzi con un sol colpo. Dopodiché raccoglieva i frammenti e li portava sulla china dove, con gran maestria, tirava su muri e muretti. Il Ragazzo era evidentemente divertito da quel duro lavoro da uomini e in più sortiva l’effetto sperato: da quel momento, infatti, lasciò in pace le scrofe e la gatta non gli girò più al largo. La sera il Ragazzo era visibilmente soddisfatto dei suoi muretti; anche il padre lo era, tanto che divideva con lui la salsiccia. Da quel giorno la sorella dovette lavare i piatti da sola.
Tornato dal mercato del bestiame, il padre portò al Ragazzo una pipa da tabacco e raccontò alle donne di casa che nella zona correva voce che il figlio dell’«Iracondo» sgobbava come una bestia e presto non avrebbe temuto rivali in quanto a spaccare pietre.
L’«Iracondo» e la malinconia
La madre non amava affatto che anche il padre parlasse di sé come dell’«Iracondo». In verità, iracondo non lo era per niente anche se nella
zona tutti lo chiamavano così; era piuttosto un uomo tranquillo e gentile, e forse gli era capitato una volta nella vita di imprecare e non prendere parte alla preghiera insieme alle donne. C’era stato, però, chissà quante generazioni prima, un iracondo in famiglia, da cui aveva preso il nome tutta la stirpe. Non era un nomignolo, dunque, ma semmai un soprannome del cognome, pratica fin troppo diffusa in quella zona.
Ma la madre detestava a tal punto quel nome che, quando le si rivolgevano così, rifiutava insolentemente di voltarsi. Il che era tutto dire, perché non era proprio da lei offendere qualcuno. Piuttosto aveva provveduto con umiltà e modestia materne ad annullare ogni suo desiderio e vocazione personale, fino quasi all’abnegazione. C’era ovviamente un motivo se aveva mutato la sua «gioiosa natura» di una volta in quella di una donna malata e rassegnata al suo destino. Il Ragazzo le aveva cambiato la vita: dal giorno in cui era venuta a conoscenza della sua totale sordità, iniziò a soffrire di asma e disturbi cardiaci. Forse per un disperato tentativo di dare una svolta al destino, si era rifugiata nel rosario, finendo per sprofondare in un cupo bigottismo che l’aveva portata ormai a mormorare le sue preghiere distrattamente tra una faccenda domestica e l’altra. Ad autunno inoltrato, una volta che tutti i lavori in casa e fuori erano stati compiuti, e nell’aria si sentiva già il profumo della neve, arrivava per lei il momento peggiore. Si sedeva sulla panca davanti a casa e fissava immobile un punto nel vuoto. Il padre, perplesso e preoccupato, le stava accanto e aspettava. Aspettava la neve. Poi, al cadere del primo fiocco da quel cielo grigio, tutto passava e la malinconia era solo un ricordo lontano; e lontana sarebbe rimasta finché non si fosse sciolta la neve intorno alla casa. Per questo l’inverno era per la famiglia «Sul Muro» il momento più felice dell’anno, anche quando era rigido e minaccioso e rendeva quel podere solitario ancora più isolato. Il pericolo di valanghe li tagliava fuori dal mondo spesso per settimane.
La rasatura
Ogni anno, a Natale, arrivava puntuale il pacchetto dalla grossa ditta di vendita per corrispondenza della città. Al momento di scartarlo erano tutti in apprensione – tutti tranne la madre che aveva fatto l’ordine; volevano scoprire quale degli articoli segnati fosse effettivamente presente all’interno della confezione. Dal temperamatite al reggiseno, poteva esserci di tutto. Il catalogo restava l’unico libro illustrato della casa per
il resto dell’anno. Una cosa era certa: c’era sempre una sorpresa per il Ragazzo. Ma questa volta era proprio speciale: un kit per la barba, con tanto di rasoio, pennello e sapone. Quando scoprì che erano per lui, il Ragazzo non stava più nella pelle e si coprì il viso per la contentezza. Il padre volle subito dargli una dimostrazione pratica dell’arte della rasatura e s’insaponò immediatamente il viso. Osservando la scena della rasatura davanti allo specchio della cucina, le donne non riuscirono a trattenere le lacrime dalle risate. Spinto dall’ilarità che aveva suscitato, il Ragazzo volle esagerare con le sue gag. La sua goffa comicità fece ridere talmente tanto la mamma e la sorella che si ritrovarono barcollanti in cucina a boccheggiare e strillare. Continuando così si sarebbero fatte la pipì addosso.
Da quel giorno memorabile, il Ragazzo era diventato un giovanotto. Ma il suo viso rasato non impedì a nessuno in famiglia di continuare a chiamarlo «Ragazzo».
La separazione
La prima rasatura fu percepita dal Ragazzo come una sorta di rituale che lo colpì molto più di quanto i suoi genitori potessero immaginare. Da quel momento, avrebbe conosciuto perfettamente la differenza tra un lavoro da uomo e uno da donna. I lavoretti che aveva fatto fino allora con la sorella, ora improvvisamente li rifiutava con decisione. Apartire da quell’inverno, avrebbe aiutato solo suo padre: concimò i campi col letame, tagliò gli alberi, macellò le scrofe e spazzò i sentieri dalla neve più alta. Portò le mucche dal toro e si mise accanto alle giovenche nella stalla. Una volta (la prima, in verità) giunse perfino ad accompagnare in chiesa il padre, che per l’occasione gli prestò un vestito. Non riappariva mai prima di sera, dopo il caffè, quando era ormai stanco e la pipa gli aveva fatto girare un po’ la testa. Aquel punto cercava la mamma o la sorella per potersi sdraiare accanto a loro e dormire, meglio ancora se gli carezzavano i capelli. Adorava poi quando la sorella gli cantava la ninnananna: le poggiava una mano sulla gola o la fronte sullo sterno e si cullava finché non si addormentava. Questa scena al caldo del salotto durante le sere d’inverno era frequente almeno quanto lo scoppiettare del fuoco nella stufa di steatite.
Passò così l’inverno. Con l’arrivo della primavera tornò anche la malinconia della madre. Il Ragazzo, che percepiva l’umore degli altri in
modo quasi sismografico, reagiva ora in maniera davvero ipersensibile agli alti e bassi della madre nei suoi periodi di depressione. Iniziò a evitarla e a non avvicinarsi più nemmeno alla casa. In fondo alla stalla, sul fienile, si era costruito un «Gliger», un piccolo giaciglio, un nido tutto suo. Quando nell’aria aleggiava anche il minimo dissapore, sua sorella era costretta a portargli da mangiare fuori. I genitori conoscevano la sua testardaggine e lo lasciavano fare; sua madre ne capiva a stento l’umore. A17 anni riusciva già a fare tutto il lavoro di un uomo. Era una questione vitale, importantissima per la sopravvivenza in quel podere. O almeno così la vedevano i genitori. Per la sorella, invece, restava sempre il suo fratellino, da cui doveva precipitarsi ogni volta che c’era un temporale e infilarsi sotto le coperte con lui, essendogli rimaste tutte le paure infantili di tuoni e fulmini. Capitava spesso nelle notti tempestose di vedere Belli andare dalla casa alla stalla come una sonnambula a trovarlo nel suo «Gliger».
La caccia
Come ogni mattina, anche quella domenica il padre andò nella stalla a svegliare il Ragazzo, ma non lo trovò. Non era né nella stalla con le bestie, né in casa. Essendo però il suo «Gliger» ancora caldo, intuì che non poteva essere andato lontano. Non vedendo arrivare nemmeno il padre per la colazione, si misero a cercarlo anche le due donne. Dato che non potevano chiamarlo, la sorella fu costretta a scendere giù fino al ruscello e ad arrampicarsi sull’abete dove spesso lui andava a sedersi, mentre il padre salì fino all’«Angolo», il posto in cui c’era la vista più bella della zona. Nessuna traccia del Ragazzo, era come se fosse stato inghiottito dalla terra; unico indizio: era sparito anche il «cannocchiale».
Verso sera, senza che nessuno l’avesse visto rientrare, il Ragazzo riapparve. Appese il binocolo da campo sullo stipite della porta da cui era solito ciondolare e spiegò con gesti inequivocabili e il volto raggiante di felicità di essere piuttosto affamato. Dapprima scompariva solo la domenica, ma col passare del tempo iniziò a farlo anche durante i giorni feriali: se ne andava e si rendeva irrintracciabile per ore, a volte anche per tutto il giorno. Da quella volta che il padre l’aveva portato con sé a caccia di marmotte l’autunno precedente, i «cannocchiali» erano diventati la sua passione.
F. M. MURER
I falò
L’estate successiva il Ragazzo trascorse diverse settimane da solo sulla «montagna», in una Maiensäß – una specie di rifugio costituito da una parte abitabile piuttosto primitiva ma molto curata e da una stalla sotto il tetto – che apparteneva al podere e fungeva da residenza estiva della famiglia durante l’alpeggio. Lassù dove il magro pascolo cedeva il passo a un ghiaione in leggera salita, e questo a sua volta a pareti rocciose perpendicolari, il prato era disseminato di ingombranti pietre, che in parte ricordavano animali preistorici fossilizzati. Quei «fossili» nella mente del Ragazzo dovevano diventare muri e muretti, un’impresa impensabile e imprevedibile quando erano ancora parte integrante delle montagne.
Una sera, mentre le cime tutt’intorno brulicavano di incendi, Belli andò a trovare il fratello sulla «montagna» e gli portò da mangiare per l’indomani. Il Ragazzo aveva spaccato pietre tutto il giorno e mostrò orgoglioso alla sorella il frutto di tante fatiche. Poi raccolsero un po’ di legna e accesero un fuoco su cui fondere del formaggio. Il Ragazzo si sdraiò per terra e si addormentò subito. Belli gli sollevò la testa, gli appoggiò sotto un cuscino e lo coprì con un piumino che aveva preso nel vicino rifugio.
Con i fuochi ancora poco più luminosi delle stelle, Belli rimase lì seduta, assorta nei suoi pensieri. Stava immaginando come sarebbe stato fare l’insegnante e ritrovarsi di fronte alla propria classe, come avrebbe arredato una casa tutta sua, i discorsi che avrebbe fatto col professore dell’aula accanto durante la pausa. Immaginò anche come sarebbe stata la vita del Ragazzo se avesse potuto imparare a parlare, a leggere e a scrivere. Improvvisamente se lo vide davanti che le parlava, e si spaventò. Nel frattempo avvertì che la temperatura si era abbassata. La parte del suo corpo di fronte al fuoco era come addormentata. Belli s’infilò sotto il piumino, abbracciò il fratello sordo come aveva sempre fatto e si addormentò.
La rottura degli argini
Quella notte fecero lo stesso sogno: due esseri si muovevano in una palude fumante avvolta da una luce fioca, scivolando e sprofondando l’uno nell’altro. Entrambi erano ricoperti da uno strato di melma; erano visibilmente ciechi e sordi. Si cercavano con le mani, che allungavano
come antenne, e col naso, che tenevano all’insù per annusarsi nell’aria. E quando si trovarono, si appoggiarono prima con le mani palmo contro palmo, poi pelle contro pelle, poi labbra contro labbra. I corpi avvolti dal fango scivolarono l’uno sull’altro fino a unirsi in un’unica creatura che pian piano fu risucchiata dalla palude.
Belli e il Ragazzo riaprirono gli occhi quasi nello stesso istante. Si guardarono. Lentamente il sogno lasciò il posto alla realtà: durante il sonno avevano avuto un vero rapporto sessuale. In quel momento indescrivibile, in cui furono inondati come da una cascata di felicità, di piacere e di raccapricciante terrore, sentirono tuttavia il bisogno irrefrenabile di stringersi e abbracciarsi più forte che mai. «Gli argini avevano ceduto» e loro, inermi, cercavano di darsi conforto a vicenda. Le acque avevano abbattuto ogni limite, anche quella del tabù. Dopo che era successo una prima volta, fu per entrambi naturale amarsi e continuare ad amarsi ancora. Il Ragazzo rimase sulla montagna, mentre Belli continuò a portargli da mangiare ogni giorno, per tutta l’estate.
Stato interessante
Circa sei mesi dopo – era un rigidissimo febbraio in cui la neve aveva raggiunto un’altezza tale che era impensabile fare qualsiasi lavoro fuori di casa – Belli custodiva ancora il suo segreto. Certamente aveva intuito che la madre avesse capito qualcosa, pur non avendo lei mai fatto niente del genere prima. La madre naturalmente sapeva che la sua bambina era in stato interessante, ma non poteva essere vero; per l’amor di Dio, no! Alla fine Belli le confessò tutto, e si tolsero entrambe un gran peso dal cuore.
Quando la madre lo rivelò al padre, questi non disse una parola. Era già a letto e lì rimase immobile con gli occhi spalancati, come morto. Non disse una parola ma iniziò a tremargli tutto il corpo, come fosse lacerato da tormenti indicibili. Gli occhi cominciarono a bruciargli, gli diventarono rossi e s’inarcarono fuori dalle orbite. In quel preciso istante, si rivolse alla moglie e disse: «L’iracondo!» Davanti a lei nel letto non c’era più il suo Franz, bensì il suo antenato. Era la voce di uno sconosciuto quella che era uscita dalla sua bocca, dicendo prima sottovoce, poi sempre più forte: «Li uccido! Li uccido tutti e due!» Un attimo dopo balzò in piedi e corse nell’altra stanza a prendere il fucile dall’armadio. La madre si aggrappò alla sua camicia da notte gridando aiuto e non se ne staccò
nemmeno quando cadde per terra. I mobili volarono sottosopra. Nell’ottenebramento della sua mente avrebbe gridato i nomi dei suoi figli finché… non li avrebbe uccisi. Le sue grida si levarono fin oltre il soffitto della stanza. Improvvisamente apparve Belli sulla porta del soggiorno. La madre le si lanciò contro per proteggerla, si mise davanti a lei e la spinse all’indietro verso l’angolo dove c’erano il crocifisso e la Madonna. Dal lucernaio sopra la stufa di steatite comparve la testa del Ragazzo, che non ci mise molto a capire la gravità del momento. Scivolò giù come un felino e con un gran balzo scaraventò il padre a terra con tutto il fucile. Tra i due si scatenò una lotta furibonda: era questione di vita o di morte. Urla e colpi sordi pervasero la stanza. Il respiro della madre si fece sempre più affannoso. La ragazza, che continuava a stringerla da dietro, le strappò il vestito sopra il petto. Improvvisamente la donna emise un urlo straziante e si accasciò al suolo col cuore spezzato. Nello stesso istante partì un colpo e, un attimo dopo, un silenzio di tomba avvolse tutto l’ambiente. La mano del padre si staccò lentamente dal fucile. Il Ragazzo si sollevò con il respiro affannoso e si avvicinò tremante e con le lacrime agli occhi all’amata sorella, cercando conforto. Padre e madre giacevano immobili sul pavimento. Entrambi avevano trovato la morte.
L’attesa
Il giorno dopo era uguale a quello dopo, e quello dopo uguale a quello dopo ancora. Il tempo s’era fermato. Tutt’intorno, nient’altro che neve. Il Ragazzo e la ragazza esposero il feretro dei genitori nel soggiorno, come da usanza, e accesero delle candele. Le fiammelle dovevano rimanere accese per tre giorni e tre notti, o almeno per due. La ragazza si dedicò anima e corpo alla veglia funebre e non uscì mai di casa. Addirittura, dormiva in salotto. Il Ragazzo si occupò della stalla e dello stretto necessario in casa.
Non smise quasi mai di nevicare. Non c’era una sola orma che partisse dalla casa verso l’esterno né una che venisse in direzione contraria verso la casa. Erano bloccati dalla neve, il che capitava spesso durante quel periodo dell’anno. Erano tagliati fuori dal mondo da settimane per il pericolo di valanghe. In quel silenzio si potevano udire rumori che normalmente erano appena percettibili, mentre altri, come colpi, passi, voci, si sentivano distintamente. Avolte si avvertiva un lontano mugghiare, un
rimbombare distante, come provenisse dalle viscere della Terra, accompagnato da quelle che sembravano vibrazioni dell’aria. Forse erano valanghe che venivano giù. Una volta, come in un incubo, l’aria spinse fino alla casa un vibrante frastuono. Era un elicottero che aveva sorvolato la valle per un po’ e poi, dopo aver catturato una mucca e averla imbragata sotto la pancia del velivolo, era volato via. Subito la foschia invase di nuovo le radure sotto il cielo grigio, e il crepuscolo scese ancor prima del solito. Quei giorni per i ragazzi passarono in un alternarsi di veglia e sonno, monotoni e sempre uguali come la luce delle candele in soggiorno. La ragazza doveva accertarsi ogni volta che il sorriso sulle labbra della madre se lo fosse solo immaginato, o che il busto del padre non si fosse alzato e riabbassato veramente; le sue erano contemporaneamente paure e speranze. I ricordi allontanavano il presente, e il presente allontanava i ricordi.
Il fumo
All’alba del quarto giorno, il Ragazzo e la ragazza scavarono una fossa sotto casa, proprio là dove sorgeva il piccolo orticello ricoperto di neve. Qui sistemarono l’uno accanto all’altra i genitori defunti e li ricoprirono di neve fino al volto. Era usanza del luogo seppellire i morti sotto la neve se, passati tre giorni, le condizioni del tempo non ne permettevano il trasporto a valle.
A«sepoltura» ultimata, la prima cosa che fece la ragazza fu di lavare tutti i panni e di stenderli sulla cordicella tirata dalla casa alla stalla. Uno dei lenzuoli l’aveva lasciato bollire talmente tanto in una brodaglia di acqua e carbonella sbriciolata che era diventato completamente nero. L’aveva messo ad asciugare a mo’ di bandiera fuori dalla finestra della camera da letto dei genitori. Su disposizione della ragazza, il Ragazzo aveva tirato via tutta la cenere dalla stufa di steatite e aveva riacceso il fuoco con un fascio di arbusti. Aveva smesso di nevicare. Il paesaggio era come un grande manto bianco intorno ai volti «dormienti» di mamma e papà. Dal grigiore emerse l’azzurrino della «Montagna di fronte», il podere dei genitori. Si vedeva a occhio nudo che dal camino usciva del fumo e che sotto le finestre della camera da letto c’erano delle lenzuola stese ad asciugare. Un segno evidente che dall’altra parte non era cambiato nulla.
«Vallmond»
Sono passati già dodici anni da quando FMM e lo scrivente si recarono a Quincy, un paesino dell’Alta Savoia, da John Berger, il quale aveva amato Höhenfeuer a tal punto da scrivere una lettera all’autore. «AMonsieur Fredi M. Murer, cinéaste, Zürich» e la lettera era arrivata. «Caro Signor Murer, desidero dirle semplicemente che il suo film è un capolavoro. Per me è una delle dieci opere più importanti della storia del cinema. Lei supera perfino i fratelli Taviani. Desidero congratularmi con lei, ringraziarla e, se questo fosse in mio potere, benedirla. Il breve testo allegato vuole solo dimostrarle che sono in grado di giudicare ciò di cui lei parla con tanto genio.» John Berger fu la prima persona a sapere del nuovo progetto. Già nel primo abbozzo non scritto vi erano dodici bambini scomparsi. Le discussioni nella cucina di Berger, infatti, vertevano principalmente sulla figura del 13°«fuggitivo». Una tradizione ricca, pesante: Gesù? Re Artù? Un pifferaio di Hamelin? «È affar tuo», disse Berger, «ma devi starci attento. È un terreno pericoloso. Quanto cristiano debba essere tutto ciò, lo si deciderà con il 13° personaggio». Che dovesse trattarsi di un «innocente» fu chiaro sin da quella prima discussione. L’idea di un «film per adulti» e di uno «per bambini», di uno per così dire classico e di uno «selvaggio», era allora ancora valida. E tuttavia si sarebbe rivelata troppo bella per divenire realtà nei lunghi anni di riflessione e ideazione.
I particolari del progetto non sono mai stati resi noti. Forse FMM ha estorto un voto di silenzio ai suoi più stretti collaboratori e ai pochi iniziati. Ha raccolto montagne di materiale, eppure le inevitabili commissioni, i partner finanziari e i mecenati hanno visto solo la punta dell’iceberg. Il grande progetto in pillole.
Anche prima e durante le riprese le informazioni erano razionate, ridotte all’essenziale. Qui di seguito vedremo due di questi testi condensati: un resoconto dell’intero progetto redatto nella sua forma definitiva nell’autunno del 1996 e una lettera che gli attori e le attrici hanno ricevuto poche settimane prima dell’inizio dei lavori. Esistono anche interi dossier sulle dodici famiglie. In essi sarebbe possibile riconoscere persone realmente vissute in quel periodo. Anche per questo motivo restano segreti.
(m.s.)
Per incarico del futuro
L’antefatto
Lo spunto per il presente progetto mi fu dato da un’esortazione di mia figlia a realizzare un film sulla «pericolosità degli adulti». Sophia aveva allora 14 anni. Il motivo di questa sua richiesta va ricercato in quell’incidente entrato nella storia sotto il nome esotico di «Černobyl». Non so quali pensieri l’evento abbia scatenato in lei, tuttavia la sua reazione fu molto forte e altrettanto impietosa la sua opinione sugli adulti responsabili della catastrofe, me compreso. Quando tentai di spiegarle e anzi di giustificare la creazione di condizionamenti nella nostra società moderna mi propose di realizzare due film: uno su come la vedevo io in quanto adulto e uno dal suo punto di vista di bambina.
Oggi anche mia figlia è adulta e vive in America. Ciononostante, l’incarico che lei mi diede allora è ancora valido, perché il tema di Sophia non ha perso attualità negli ultimi dieci anni e, anzi, ha acquisito maggiore significato nella nostra vita di tutti i giorni. Successivamente ho realizzato due sceneggiature dal titolo Zwei Mal die ganze Wahrheit [Due volte la stessa verità] basate entrambe su un’identica trama. Lo stesso giorno scompaiono in tutto il paese 12 bambini senza lasciar traccia e rimangono irrintracciabili per 29 giorni.
La situazione attuale
L’idea originaria di girare i due film uno dopo l’altro e di presentarli contemporaneamente nelle sale si dimostrò irrealizzabile, sia per motivi di produzione, sia di finanziamento e di distribuzione. Ci concentrammo quindi, con raddoppiata energia, su un solo film, quello che presentava la prospettiva dell’adulto senza però dimenticare il punto di vista del bambino. Abbiamo inserito in questo lungometraggio i punti chiave essenziali del «film per bambini» e abbiamo scelto Emmi, con i suoi cinque anni, quale «ambasciatrice» dei bambini scomparsi.
Il tema del film
I sei bambini e le sei bambine, che di loro iniziativa si sono incontrati per sfuggire ai loro genitori per un motivo specifico, potrebbero essere definiti come una specie di «profeti in patria». In una lettera comune pongono ai loro genitori una domanda sibillina, che potrebbe rientrare in
F. M.
quella categoria della quale la polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura, parla in una sua poesia: «Non esistono domande che siano più urgenti di quelle ingenue». Sebbene in questo film scompaiano 12 bambini e il protagonista sia un commissario, non si tratta di un film giallo nel senso classico del termine. Le indagini e la tensione che ne deriva sono contemporaneamente anche il veicolo per esprimere la metafora della «scomparsa della verità». (Un film [giapponese] con qualche affinità è La ballata di Narayama, basato su un racconto di Shichiro Fukazawa.)
I livelli drammaturgici
In questo film, dal punto di vista degli adulti, i 12 bambini sono presenti solo attraverso la loro assenza. Da ciò risulta un vuoto su più piani: per i genitori significa una rottura nelle loro strutture sociali e psichiche; per la polizia il «caso» rappresenta una sfida professionale e per l’opinione pubblica si tratta ormai solo di una piccola notizia sensazionalistica in più.
E dal punto di vista dei 12 bambini? Per 29 giorni, privando i genitori della loro presenza, hanno fatto a loro ciò che essi fanno all’ambiente con le loro azioni quotidiane. L’ultimo giorno si chiedono giustamente se i loro genitori abbiano capito cosa possa significare la loro richiesta «Vogliamo la terra in terra». Arrivando alla conclusione che il lavoro debba essere portato avanti.
Il luogo dell’azione
Teatro della vicenda del film è la piccola e quadrilingue Svizzera, non perché io sia particolarmente patriottico o troppo poco europeo, bensì perché sono casualmente venuto al mondo qui e perché conosco un po’ questo paese e la sua gente. Ma vi sono anche motivi migliori per utilizzare la Svizzera quale «terreno di studio». Questo mini-stato industrializzato, multiculturale e ordinato in maniera esemplare, tra il lago di Costanza e il lago Lemano, è addirittura l’ideale per la rappresentazione di una metafora in qualche modo utopica. Per molti europei la Svizzera è ancora la cassaforte più sicura del mondo ed è, al contempo, (soprattutto per i non-europei) un simbolo di benessere e pace. Il progetto cinematografico vuole anche essere una sorta di radiografia di questo paradiso apparentemente pacifico. Per me è anche una questione di stile piantare
questo chiodo fisso cinematografico nel mio paese natale piuttosto che altrove.
L’identità del film
Mi piace essere annoverato nell’ambito dei registi visivi. I miei maestri facevano film muti e anche quando arrivò il sonoro non dimenticarono mai la magia dell’immagine. Intendevano il film come opera completa di artigianato multimediale e in alcuni casi fortunati hanno creato degli autentici capolavori. Per i miei maestri, la sceneggiatura era importante quanto lo è un progetto edile per un architetto, per il quale, tuttavia, il progetto in sé non è certo ancora la casa. Voglio dire: un film è tale solo quando può essere visto sullo schermo di un cinema.
Da quando in Europa (a eccezione della Francia) le pellicole americane hanno occupato il 90% dei nostri schermi e delle nostre retine, la questione dell’identità del cinema europeo è divenuta più attuale che mai. Sono convinto che qualsiasi spettatore sia in grado di stabilire immediatamente se un film abbia radici e se queste radici traggano il loro nutrimento da un substrato autentico o solo da qualche soluzione artificiale. Un film privo di una chiara identità mi appare superfluo ed inutile. Tuttavia, il pericolo della mediocrità è, a mio parere, presente in entrambi i casi: nella tendenza all’incesto e nell’impulso a creare dei pudding condizionati dalle case produttrici.
Il lavoro con gli attori
Il libro è necessariamente limitato a un solo mezzo espressivo, la lingua, e non sarà mai all’altezza della magia che un mezzo multimediale quale il film è in grado di creare. Aseconda di quale attrice reciti un dialogo (supposto come «ostentato») e in quale modo lo faccia, avremo una resa differente, credibile o viceversa appunto «ostentata». Per questo per me il «come» è altrettanto importante del «cosa». Con questo voglio dire che per me l’accurata scelta degli attori e soprattutto il lavoro con loro sono di primaria importanza. Amo il teatro quasi quanto il cinema, ma trovo insopportabile quando sullo schermo gli attori recitano come a teatro. Il mio motto è: non rivelare niente! Amo profondamente l’understatement inglese – don’t act, just be! Questo comporta molto lavoro di preparazione e affinamento. I dialoghi scritti sono vincolanti per gli attori, sempre che non abbiano da propormi di meglio. E
F. M. MURER
qualsiasi cosa siano in grado di dire mediante gesti o sguardi, sono disposto a cancellarla nel testo. È un mio grande desiderio che questo progetto venga valutato non solo per il mio testo, ma anche per il mio lavoro di regia.
Per concludere
Questo progetto cinematografico sul tema di Sophia «La pericolosità degli adulti» nel corso della sua stesura si è sviluppato anche come una sorta di congiura dei 12 bambini contro di me come loro Autore. Questi piccoli rappresentanti delle future generazioni non hanno permesso a me, il loro avvocato, di ideare un happy end all’americana. Solo con l’astuzia sono riuscito a estorcere loro almeno un finale nel quale sia identificabile il «principio della speranza».
Fredi M. Murer Zurigo, ottobre 1996
Care attrici, cari attori, nell’inviarvi il programma delle prove colgo l’occasione di farvi pervenire, forse con un po’ di ritardo, alcune informazioni di carattere personale.
Innanzitutto voglio esprimervi tutta la mia gioia nel comunicarvi che, dopo un’«incubazione» di quasi dieci anni, il film può finalmente essere realizzato. Le riprese avranno luogo dal 12 aprile al 21 luglio p.v., arco di tempo in cui verranno girate tutte (o quasi) le scene che vedono protagonisti le attrici e gli attori. ALos Angeles si dice: se hai un cast, il film è gia fatto per due terzi. Fondamentalmente sono d’accordo anch’io con questa massima, ma essendo proprio di queste parti, preferisco che la responsabilità del successo di un film sia ripartita più o meno in egual misura tra la creatività di chi sta davanti alla cinepresa e quella di chi vi sta dietro. Amio avviso il lavoro più importante, nel senso di una Gesamtkunstwerk, è quello che di volta in volta viene fatto da tutti sia sul set che dietro le quinte. Tuttavia, secondo una statistica sugli spettatori cinematografici, un film è tanto più credibile quanto più lo è il suo cast. Mi riferisco ai film che dico io.
Il cast per me aveva e ha un’importanza centrale. Mi son preso tutto il mio tempo per metterlo insieme, secondo il motto: un gruppo omogeneo di alto livello; tutti i ruoli sono principali e «niente star» (sebbene io non abbia nulla in contrario se qualcuno si ritenga tale).
Il cast è nato grazie anche alla stretta collaborazione di Corinna Glaus, dell’Ufficio Casting di Zurigo. Abbiamo prima selezionato i personaggi della nostra sceneggiatura seguendo ogni criterio possibile e immaginabile e con un occhio anche ai vantaggi di produzione, e poi stabilito in maniera definitiva la «composizione chimica» delle attrici e degli attori attraverso i provini.
Mi sono permesso di assegnare ruoli a singoli volti, senza poi assumerli.
Dovevamo attribuire in tutto 70 parti, ma c’erano almeno 100 persone che sarebbero rimaste a mani vuote. So di avervi fatto attendere a lungo prima di informarvi del casting e di questo vi chiedo scusa a posteriori. Purtroppo, essendo per tutti le attività culturali strettamente legate ai soldi e alle commissioni, anche per questo progetto le condizioni cambiavano quasi settimanalmente. Io stesso ignoravo fino a metà gennaio (1997) se il film sarebbe stato realizzato o meno.
La settimana scorsa le attrici e gli attori hanno ricevuto ufficialmente la notizia per posta, insieme a una copia della loro parte.
Ho sentito che qualcuno o qualcuna qua e là ha fatto il muso lungo, perché si aspettava un ruolo più importante, diverso e soprattutto molto più lungo di quello assegnatogli/le. Vorrei a questo proposito chiarire un paio di punti generali.
La mia definizione di «ruolo principale» non si basa su un numero preciso di giornate di riprese o, come per il teatro, su una quantità possibilmente immane di testo. Nel cinema mi interessano in particolar modo quelle attrici e quegli attori che sappiano avere, nel momento più opportuno e col volto più convincente, un forte impatto scenico, anche senza testo o proprio per quello. È per questo motivo che considero i «ruoli secondari» alla stessa stregua di quelli principali.
All’inizio, effettivamente, tutti i ruoli del mio film erano più grandi e più lunghi. Il motivo è presto detto: l’idea iniziale, ossia la stessa storia raccontata e girata da due prospettive diametralmente opposte per poi portare nelle sale contemporaneamente e indipendentemente l’uno dall’altro i due film, l’abbiamo dovuta temporaneamente abbandonare lo
F. M. MURER
scorso autunno per motivi di budget. Dalle due sceneggiature ne è stata ricavata una della durata di oltre quattro ore, che ho poi dovuto accorciare ulteriormente o, per usare un eufemismo, concentrare in una terza della durata cinematografica «normale» di due ore; un’operazione nient’affatto indolore neanche per me.
Sulle eventuali delusioni per le troppo poche giornate di riprese, la mia idea è che la questione sia solo economica. Giusto a titolo informativo: su circa 70 «ruoli principali», solo cinque hanno superato i sette giorni di riprese.
Ci sono sempre buone ragioni anche per rifiutare una parte. Cosa sarebbe un lungometraggio senza attrici e senza attori?
Nella speranza che qualcuno di voi rimanga con me, mi rallegro dell’imminente periodo di prove e riprese.
Vi porgo cordiali saluti,
FMM
Zurigo, marzo 1997
Story board di «Vitus»
DISCORSI E RELAZIONI
Fredi M. Murer
La fantasia è per noi un bene di vitale importanza
Non solo in seguito all’uscita del suo film Höhenfeuer, ma sicuramente anche per questo volo ad alta quota intrapreso da un’arte dalle profonde radici che è riuscita, tuttavia, a superare ogni confine, Fredi M. Murer è stato spesso invitato come ospite di seminari ed è stato insignito del Premio per l’Arte di Zurigo e del Premio per la Cultura della Svizzera centrale. In entrambi i casi i suoi discorsi di ringraziamento sono stati programmatici e, al contempo, maliziosi. Höhenfeuer è stato un segnale: in ambito francofono è stato proiettato con il bel titolo di L’âme sœur, in territorio anglosassone con il titolo alquanto folcloristico di Alpine Fire, mentre il titolo giapponese non siamo in grado di scriverlo. I giapponesi, per contro, non sono in grado di pronunciare il titolo tedesco, ma il distributore ha comunque deciso di lanciare il film con il suo titolo originale. I giapponesi apprezzano i titoli originali più di quanto non lo facciamo noi occidentali. Dopo il 1985, anno di nascita del film Höhenfeuer, è divenuta più pressante, anche nell’ambito degli accordi del GATT, la discussione sull’autonomia e sulla globalizzazione; il concetto di «film europeo», a tratti scandito come fosse uno slogan, ritornava di continuo. Nello stesso periodo esplodevano i «nuovi media». È in quest’ottica che vanno letti e compresi i discorsi di Murer. Per quattro anni Murer ha rivestito la carica, o meglio ha lavorato quale presidente dell’Associazione dei Registi Svizzeri. I suoi interventi in occasione delle negoziazioni per il «patto dell’audiovisivo» tra televisione e cinema indipendente e le sue opinioni sulla cosiddetta «promozione cinematografica legata al successo» della Confederazione svizzera sono comunque riportati (con tono meno divertente) nei protocolli delle riunioni. I discorsi e le relazioni invece sono conservati nell’archivio di Murer; si tratta di considerazioni sulla cultura e sulla politica formulate con grande precisione, testi nei quali il regista lascia trasparire le profondità della sua anima e il suo pensiero anticonformista.
Qui di seguito vengono riportati integralmente due di questi interventi, seguiti da un estratto. Il primo discorso è stato tenuto da Murer in occasione del simposio «Pane e giochi» sulla politica culturale e sulla sponsorizzazione presso l’Istituto Gottlieb Duttweil a Rüschlikon, Zurigo (1993), il secondo durante il primo Congresso-Fiera Svizzero del Multimediale e dei Media Interattivi a Berna nel 1996. Il terzo testo è la conclusione del suo discorso di ringraziamento in occasione del conferimento del Premio per la Cultura della Svizzera centrale nel 1997. (sb.)
Pane e giochi
Verso la fine dell’era d’oro degli anni ’20, in un suo discorso finora dimenticato, tenuto alla presenza di un eletto consesso sul tema «Lo sport - Un impegno comune di stato, imprese e mecenati», Karl Valentin avrebbe premesso l’affermazione secondo la quale lo sport sarebbe la cultura delle classi povere, mentre la cultura sarebbe lo sport dei ricchi.
Tuttavia, se il compito della commissione non fosse di discutere di sport, ma di cultura, allora sarebbe vero il contrario! Se ora pensate che questa buffissima idea della intercambiabilità tra sport e cultura sia pura acrobatica della formulazione, che nasca dalla logica assurda di quel comico geniale e stravagante, debbo deludervi. Qualche tempo fa, il direttore di un canale televisivo svizzero mi ha espresso la sua opinione in merito al concetto di cultura in termini riconducibili allo stesso minimo comun denominatore. Ha detto che secondo lui anche una trasmissione sportiva ben fatta è cultura, che dovremmo finalmente liberarci da questo concetto angusto ed esclusivo di cultura, e soddisfare i bisogni culturali di fasce più ampie di popolazione, che tutto il resto sarebbe a suo dire «elitario».
Aquesto non avrei altro da aggiungere, quale ex atleta dell’arte e ammiratore di Valentin, se, divenuto nel frattempo a mia volta un operatore culturale, non mi sentissi provocato a farlo.
E dato che recentemente vi sono state altre occasioni per meravigliarsi della nuova sensibilità alla cultura dei dirigenti televisivi, ho colto questo segno dei nostri tempi quale occasione per riflettere ad alta voce
F. M.
sulle possibili cause e sugli effetti dell’attuale cambiamento di clima. In questo senso l’evento televisivo mi ha fornito solo la materia prima per una specie di studio del caso con il quale desidero chiarire un po’ le vostre idee su quali conseguenze possa avere la commercializzazione e la privatizzazione della cultura, ovvero l’assenza di una politica culturale di stato. La televisione rifiuta categoricamente di essere un ente di promozione culturale, ma sulla base delle concessioni e degli accordi quadro con il cinema indipendente svizzero, nonché per ragioni morali ed etiche, vi sarebbe comunque obbligato. Ciò che in realtà dovrebbe spaventarci, ma paradossalmente non vi riesce, è che la tesi provocatoria espressa da McLuhan negli anni ’60 «The medium is the message» nel frattempo si sta rivelando sempre più vera. In parole povere, ciò significherebbe che il fatto che il televisore sia acceso è più importante di ciò che esso trasmette. Una simile idea, che per un produttore di opere multimediali come me è una vera mostruosità, paralizza e al contempo mette le ali alla mia fantasia.
Non riesco a immaginare, per quanto sforzi la mia fantasia, quale valenza abbia la comparsa del fenomeno televisivo nella nostra epoca per la civilizzazione umana e in ultima analisi per il nostro pianeta e, nello specifico, quali effetti essa abbia ed avrà ancora in futuro sulla cultura nel più ampio senso di tale termine. Credo però che l’invenzione della televisione abbia infranto tutte le dimensioni e che per il suo significato storico possa essere paragonata all’estinzione dei dinosauri, sebbene con auspici diametralmente opposti. In questo senso noi (anche senza il Jurassic Park di Spielberg) siamo testimoni della nascita di un nuovo sauro e assistiamo ogni giorno alla crescita sfrenata di questo «mega-dino» dai milioni di occhi, oppure magari si tratta di un altro tipo di essere, con milioni di tentacoli, di quelli che in medicina si chiamano anche metastasi.
Qualsiasi cosa si voglia proiettare in questa rete audiovisiva che ormai ricopre tutta la superficie terrestre, di una cosa sono piuttosto sicuro: senza un aiuto dall’esterno l’«amato mostro» sembra essere irrevocabile. Dobbiamo convivere con esso come con un agente patogeno che si riproduce vertiginosamente o come con un evento naturale: da molti benedetto come dono del cielo (o quantomeno dei satelliti), da pochi maledetto come regalo del diavolo.
Ciò che non è né buono né cattivo, è comunemente considerato neutro, ma di neutrale nella televisione per me vi è solo l’apparecchio. Dato
che, come un altare domestico secolarizzato, è probabilmente l’unico oggetto che in casa condivido con tutti e dato che mentre è acceso diventa l’unico soggetto che ci accomuna, mi sento in obbligo di rivelare alcune indiscrezioni sul mio rapporto privato con il televisore e su quale utilità culturale esso possa avere per me.
Sono di fatto possessore di un apparecchio con una capacità di ricezione di ben 40 canali, la maggior parte dei quali, tuttavia, è comprovata solo dalla sigla leggibile in uno degli angoli dello schermo. Eppure per me la televisione non è, proprio come l’energia atomica, «la vita», ma vivere del tutto senza di essa non mi è possibile. Quale uomo contemporaneo interessato al proprio tempo non posso e non voglio rinunciare a ricevere anch’io di tanto in tanto il calice del «sano buonsenso».
Come regista vicino al popolo e per poter meglio tastare il polso del sentire popolare comune, utilizzo a volte il televisore come fosse una specie di droga in grado di diluire la coscienza. Tiro le tende, accendo l’apparecchio e, senza alcun altro nutrimento, mi siedo di fronte ad esso. Quanto più a lungo guardo senza interruzioni la televisione, tanto più forte si instaura in me la sensazione che sia il televisore a guardare me. E quanto più armonicamente rimaniamo in questa condizione, gli occhi negli occhi, tanto più sfocati si fanno i contorni della mia personalità e del mio contesto sociale. Dopo due settimane di consumo quotidiano, per cinque, otto ore al giorno, scivolo senza opporre resistenza in una crisi di identità senza fondo. Poco prima che io inizi ad identificarmi con questa condizione di «perdita di sé», tento ogni volta di ritrovare me stesso. Il metodo più efficace è frequentare le sale cinematografiche. Quello più economico invece è il metodo omeopatico (che utilizza quale antidoto una dose diluita di veleno) con il quale continuo a «guardare lontano», ma senza l’apparecchio. Con i miei occhi interiori vedo davanti a me la Svizzera dall’alto, quando il sabato sera, dai montanari sulle montagne ai cittadini nelle città, sono tutti seduti davanti ai loro apparecchi e ridono nello stesso istante di una battuta del conduttore del programma a quiz. Quest’idea mi permette quindi finalmente di tornare con i piedi per terra. Coloro che sono più coraggiosi di me riconducono questo sentimento dell’essere una cosa sola con il televisore a quello di «Patria».
La prospettiva di una «televisione quale patria» può apparire sacrilega. Tuttavia, si tratta di un fatto statisticamente comprovato che la realtà fittizia della televisione sia diventata, attraverso la sua crescente pre-
senza e dominanza nelle nostre esistenze familiari e di single sempre più isolate, per un numero di persone molto superiore di quanto non si creda, una specie di «seconda o nuova patria».
Un programma televisivo equilibrato, indifferente alle minoranze ed in grado di incontrare il consenso della maggioranza ha maggiori probabilità di conquistare la fedeltà di un alto numero di consumatori e consumatrici per quel «canale-patria». Nel linguaggio tecnico dei direttori della programmazione questa si chiama «quota di mercato».
Per un numero sempre più alto di persone la televisione è anche l’unico veicolo culturale. Oserei affermare che per noi che siamo interessati alla cultura, e che a nostra volta ne creiamo, si annunciano tempi duri, o meglio silenti. Non nego che di tanto in tanto venga trasmesso qualcosa anche per noi «senza patria»: quando la sera alle 11 e 11 inizia il mio film e in tutto il paese si spengono le luci, e tranne i lampioni in strada e gli acquari non vi è più quasi nulla che illumini la madre patria, inizia in casa ciò che a sua volta sarà presto probabilmente oscurato, ovvero il programma per le élite.
Appartenere a queste minoranze sta diventando sempre meno piacevole. Ultimamente, nella generale e febbrile caccia alle quote di mercato dei produttori mediatici, la parolaccia «elitario» è stata di nuovo ammessa dalla buona società. Perfino gli intellettuali del consumo come i commentatori giornalistici con il loro sguardo fisso ed inequivocabile o gli stressati direttori di strutture televisive trovano ormai chic screditare pubblicamente le minoranze con interessi culturali specifici. Un giornale di spicco, che esce nei giorni feriali, parla ad esempio di un «manipolo di depositari della cultura scarni ed elitari» che vorrebbe rovinare una frivola proposta culturale della DRS 1 per le masse. In un altro giornale che esce solo la domenica, dall’orientamento meno univoco, sono stati viceversa ridotti a «15 librai e 3 fanatici della e-music» i responsabili dei bassi indici d’ascolto. «No», dice il responsabile della cultura dell’emittente svizzera DRS, «no, dobbiamo demolire il concetto dei gruppi di utenza. Dobbiamo prendere in considerazione fasce di ascoltatori più ampie. Sono loro che pagano il canone».
Sì, vorrei rispondere, anch’io mi considero, assieme a molti altri, spero, che con me condividono le stesse opinioni, come appartenente a quei gruppi di utenza sui quali costui punta il dito e che, a quanto si dice, non pagherebbero il canone. Eppure, se mi calo nei panni del responsa-
bile della cultura della DRS, riesco perfino a provare comprensione per la sua visione delle cose così orientata alle quote di mercato. In effetti, a causa degli ultimi sviluppi sul fronte della privatizzazione televisiva, oggi anche gli operatori culturali della televisione pubblica sono coinvolti nella lotta per la sopravvivenza tra quote di mercato ed incarichi culturali. La mia domanda è la seguente: si può desiderare una situazione simile? Se è corretta la mia interpretazione di ciò che avviene nella fitta nebbia delle competenze ai vertici della SRG 2, è lo stesso Consiglio federale che da una parte ha considerevolmente ampliato l’incarico culturale nella nuova concessione alla SRG e dall’altra impone alla stessa società una quota di mercato del 32%.
Una partecipazione così ambiziosamente alta veniva sfiorata ai tempi del socialismo dalla televisione della ex RDT e anche in quel caso solo grazie ad alti muri e a massicce trasmissioni di disturbo. La SRG deve o vuole ora (con la concorrenza di più di 40 emittenti) raggiungere lo stesso risultato e ci prova quindi eliminando il settore cultura. Aquesto proposito mi viene in mente solo una barzelletta per bambini, quella in cui un cacciatore nella nebbia, dopo aver girato a lungo in cerchio, spara al suo stesso zaino.
Quando il direttore della RTLThoma dice che la televisione è una semplice «impresa di trasporti per spot pubblicitari», allora è facile prevedere che anche l’emittente SRG trasporterà presto tanta cultura quanta ne possiamo incontrare, per così dire, in autostrada. Per sostenere tale tendenza, il partito politico svizzero «Autopartei» coglierà certamente l’occasione per superare il proprio «trauma monotematico» e si chiamerà in futuro «Partito dell’auto e della televisione».
Capisco che si possa cominciare a pensare che io non sia più in grado di distinguere tra «vedere la televisione» e «vedere nero», ma vi è di peggio: come sappiamo la RTLha aperto una finestra anche in Svizzera. Atal proposito Oskar Reck ha scritto: «Agli autori dei testi ed ai moderatori dell’ente televisivo commerciale RTLnon è consentito l’uso della parola libro. Quest’emittente non vuole neppure sentir parlare di storia. Per la RTLesiste solo una cosa: il presente. Partiti politici, sindacati e religioni sono considerati irrilevanti e ciò che è passato è passato».
Io personalmente non temo che la RTLpossa con questo provvedimento eliminare la nemica giurata della televisione, ovvero la lettura. Sotto il profilo ecologico, le emittenti con alti indici di ascolto come la RTL
F. M. MURER
prestano addirittura un buon servizio nella loro funzione di «trappola amorosa». La massa di persone inchiodate davanti al televisore è, almeno per un po’, impossibilitata a nuocere alla natura.
Nel frattempo vi sono segni inequivocabili del fatto che anche la gente della nostra televisione, quella ai vertici della gerarchia, guardi sempre più spesso la RTL. Le conseguenze per noi (il settore cinematografico indipendente) sono già percepibili. L’indispensabile visita al partner delle co-produzioni, la televisione, si rivela essere sempre più palesemente una visita da Procuste: i nostri piedi nudi e le nostre teste vengono tagliate perché si conformino sempre più incondizionatamente alle regolamentari misure di cappello e scarpe imposte dalle esigenze televisive. I criteri principali, secondo i quali la televisione vuole vedere realizzati da noi cineasti indipendenti i suoi «principi etici», tendono a ridursi a tre paroline: equilibrato, breve e divertente.
Io temo che, con questi obblighi oggettivi, il dovere di intrattenimento e le imposizioni di software possa crearsi un clima che metta seriamente in dubbio una fruttuosa collaborazione tra la produzione cinematografica indipendente e la televisione. Sarebbe la fine di molti film originali e di alto valore artistico di autori e autrici indipendenti e anche la fine della collaborazione creata insieme, dell’amicizia e solidarietà tra gli operatori culturali all’interno e all’esterno dei tre «canalipatria» della SRG.
Un contadino di montagna disperato, con cinque mucche, celibe, senza terreni di proprietà, mi ha detto una volta al microfono: «Deve esserci un cambiamento completamente diverso in tutta quella cosa lì».
Invece di disperarci e di continuare a lagnarci, propongo un cambiamento completamente diverso, in tutta quella cosa culturale lì. Si tratta, in effetti, solo di un abbozzo di idea, che forse in questa sua forma ridotta potrà sembrare un po’ stramba e utopica, ma io desidero ugualmente che provochi un primo serio dialogo con il Consiglio federale.
Ecco quindi la mia proposta (e in questo rappresento solo me stesso!): il Consiglio federale prenda i necessari provvedimenti affinché, nell’interesse della «cultura svizzera», la televisione sia rimessa in libertà. A seguito della sua liberazione, la «Televisione Svizzera» dovrebbe quindi chiamarsi poi solo «Televisione» e sarebbe, in cambio, affrancata da tutti quei fastidiosi oneri previsti dalle concessioni, compreso il seguente compito programmatico: «Rafforzare i valori culturali del paese, stimolare e
sostenere la produzione culturale e soprattutto di opere cinematografiche svizzere, nonché contribuire allo sviluppo culturale del pubblico». La televisione arriverebbe finalmente lì dove sarebbe sempre voluta arrivare e dove anche il nostro ex ministro delle comunicazioni e consigliere delle privatizzazioni Adolf Ogi avrebbe voluto che essa giungesse, ovvero all’indipendenza della libera imprenditorialità, vale a dire alla dipendenza dal «basic instinct» delle maggioranze, del settore lunatico della pubblicità e degli sponsor delle trasmissioni con le loro pretese discrete. Da non dimenticare: la dipendenza dal dato «di non ascolto».
Con i circa 600 milioni di franchi svizzeri non più investiti in tasse di concessione, il Consiglio federale dovrebbe avviare una consapevole politica culturale svizzera.
La «Televisione» dovrebbe in fondo soltanto adottare una nuova sigla, ciò che a ben vedere non rappresenterebbe poi una grave sventura. Quale informatrice culturale essa sicuramente riferirà una sera alle 11 e 11 in maniera equilibrata, breve e divertente che grazie alla rinuncia della SRG al canone a favore dell’«Ufficio Federale della Cultura» sono stati creati i presupposti per poter sostenere, non solo la già privilegiata cinematografia, ma finalmente anche le attività nei campi del teatro, della letteratura, della musica, della danza e della fotografia.
Sarei lieto di scoprire un giorno cosa pensa il Consiglio federale della mia proposta (e mi interesserebbe anche sapere la sua opinione riguardo alla sensibilità alla cultura della Televisione Svizzera). Tuttavia, temo che la sua opinione non giungerà mai al mio orecchio, dato che è tenuto al rispetto del principio di collegialità. Questo principio fa del Consiglio federale un essere con sette lingue, che parlano sempre a nome di tutti e nessuna per sé. Il principio sarà anche democratico, ma è altrettanto antiquato. Nelle questioni di politica culturale preferirei un po’ meno democrazia e un po’ più cultura politica. Ciò che noi operatori culturali e le persone interessate alla cultura abbiamo ottenuto finora dal palazzo federale è stata un’opinione in genere permanentemente divisa per 7, ciò che ci aspetteremmo sarebbe una risposta alla settima potenza. Alla domanda se la promozione della cultura debba essere un compito comune di stato, imprese e mecenati, posso rispondere dal mio punto di vista, non propriamente disinteressato, solo con «Sì, certo» e per un interesse vitale vorrei anche subito chiedere: Tra quanto? Quanti soldi? E a quali condizioni?
F. M.
Mi interesserebbe anche sapere cosa intendono lo stato, le imprese o i mecenati per «compito»; se per lui o lei in questa parola ne risuonano altre, quali bisogno, desiderio, voglia, passione e corresponsabilità.
Quando un’impresa dalle nobili e meritorie intenzioni promuove la cultura, o quando un mecenate, per l’alta considerazione che ha dell’arte e della cultura, trasforma i propri mezzi materiali in «valore aggiunto culturale», lo fa in genere volontariamente e logicamente in considerazione dell’andamento generale degli affari, che a sua volta è legato alla congiuntura vigente.
La promozione culturale da parte dei privati prevede uno spirito molto liberale e aperto, a volte perfino un po’ di coraggio civico, dato che l’impegno artistico o sociale delle istituzioni che necessitano di contributi o del singolo operatore culturale non sempre coincide con la filosofia d’impresa dello sponsor.
Poiché la buona arte può essere realizzata solo in spazi liberi, o addirittura solo nell’assoluta libertà della follia, la garanzia d’indipendenza è per noi operatori culturali un presupposto d’importanza vitale pari a quella dei mezzi materiali. Già questo sarebbe un motivo sufficiente affinché la mano pubblica non perda la presa sulla responsabilità ultima nel preservare e promuovere la cultura, e di certo neppure per motivi di risparmio.
Possiamo quindi porre la domanda decisiva sulla sensibilità alla cultura dei promotori: le decorazioni delle facciate e degli uffici, per quanto mi riguarda, possono anche rientrare in questo concetto, ma la cultura che intendo io è, oltre a molte altre cose, ciò che essa rappresenta anche come nutrimento dello spirito, un elisir di vita in grado di donare pace e libertà, senza il quale nessuna società umana e nessuna comunità politica può preservare e riscoprire nel tempo la propria identità. Contemporaneamente, essa supera con piede leggero e insieme con sicurezza i confini nazionali e contribuisce così alla comprensione tra i popoli e alla solidarietà internazionale. Per quanto locale essa sia, contribuisce quindi a formare la cultura mondiale.
Viceversa, l’apertura di succursali da parte di un produttore culturale a Berlino, Bruxelles e Madrid non garantisce affatto che i suoi prodotti siano anche veramente europei. Anche la cultura europea deve avere radici da qualche parte in Europa. Quando dico che lo stato non dovrebbe delegare la responsabilità finale nella promozione culturale al
settore privato, non sto parlando a favore di una cultura di stato che, come i pomodori olandesi «hors-sol», se ne stia nella serra attaccata alla flebo, senza substrato e senza l’influsso del vento e del clima, senza correre rischi. Al contrario. La cultura che intendo io deve affrontare la sfida del tempo e deve, ogniqualvolta ve ne sia motivo, essere espressione di dissenso. Deve estasiare, intimorire e stimolare, deve aprire occhi e orecchie e creare visioni contraddittorie, chiare e critiche. Deve anche essere una memoria a lungo termine e aiutare a elaborare il lutto. Deve ricordarci che in fondo noi viviamo sulle spalle dei nostri predecessori e che anche le generazioni future dovrebbero poter vivere sulle nostre. Vista in quest’ottica, anche la cultura è molto tradizionalista, essa preserva la nostra storia.
Immaginate se la nostra generazione lasciasse in eredità a quella futura solo bei viadotti, scorie radioattive e gallerie alpine. E niente cultura!
La cultura quale forza rinnovatrice, come acqua nel deserto, dovrebbe finalmente avere accesso all’alta politica ed ottenere, accanto alla politica economica e sociale, un suo spazio anche nella testa dei politici e nella costituzione stessa. Sarebbe bello se la parola «cultura» venisse menzionata di tanto in tanto nei programmi di partito, nei documenti programmatici o nelle campagne elettorali.
Tuttavia, vi dico, la cultura non ha una lobby forte nei nostri parlamenti. Questo, a mio avviso, ha a che vedere con il fatto che noi, che siamo seduti ai remi, abbiamo scritto troppi dettati e applicato troppe volte le tabelline durante le scuole dell’obbligo.
Viviamo in un paese che è caratterizzato (ancora) da uno spirito scolastico per il quale, secondo un principio botanico, i bambini si distinguono in piante buone e male erbe, in altre parole in primo luogo sulla base della loro utilità economica e solo in quarto luogo quali esseri creativi e spirituali.
Sono andato a scuola in un paese nel quale era necessario avere zero in canto e disegno per essere un bravo studente agli occhi degli insegnanti e dei genitori. Con grande rincrescimento del mio adorato padre, eccellevo proprio in queste due materie e, a parziale consolazione della mia amata madre, almeno in ginnastica ero anche più bravo.
Mi figuro quanti bambini e bambine vengano trascurati nelle loro doti artistiche a scuola e in famiglia, che poi più tardi nella loro vita, a
causa della sensazione di essere stati trattati ingiustamente da piccoli, decidono di studiare giurisprudenza. Successivamente, per via del loro rapporto giuridico con il mondo, si vendicano contro di esso, trascurando e ignorando a loro volta ogni espressione artistica. Se penso alla percentuale di giuristi nei nostri parlamenti, provo pena per la cultura. Sarei molto contento se la mia tesi venisse al più presto confutata.
Però, fino a quando la Svizzera riuscirà ancora a trovare abbastanza esprit e senso della realtà da lasciarsi rappresentare in un’esposizione mondiale da un quadro sul quale c’è scritto «La Suisse n’existe pas», per me vale la pena di dare manforte a questa terra. Nonostante il numero altissimo di persone prive di senso dell’umorismo in questo paese che, a causa di quel quadro presentato all’Expo di Siviglia, vedeva seriamente compromessa la credibilità della Svizzera – quale paese altamente industrializzato e dotato di quattro culture – proprio per amore di tutte le persone prive di umorismo e povere di spirito, la Svizzera necessita di una politica culturale più acuta, più vitale e più sicura di sé.
Settembre 1993
Cyberworld
Gli oratori più benvoluti sono quelli che dicono con parole diverse quello che tutti sanno già. È una citazione del saggio Hegel. Temo che oggi non mi rimanga altro da fare di saggio che farmi benvolere da voi. La mia dimestichezza coi «nuovi mezzi di comunicazione di massa» a livello pratico è prossima allo zero e la stessa parola «Cyberworld» la conosco solo per sentito dire.
Non so bene neanch’io cosa sia venuto a fare a un «Congresso del terzo tipo»; forse per cercare la chiave d’accesso a un promettente futuro mediatico e non perdere l’opportunità di un commiato al mio altrettanto promettente passato mediatico. Nel settore audiovisivo, d’altra parte, assegnare ruoli a caso è all’ordine del giorno.
Lo scopo perseguito dal committente di questo mio discorso, invece, mi è già più chiaro: avere un tipico rappresentante del «primo tipo», che per il generale diletto dei qui presenti pionieri mediatici getta un’ultima occhiata all’epoca ormai defunta della Settima arte.
Proverò ad adempiere degnamente al mio compito. Davanti a voi non c’è un censore multimediale e cibernetico, ma un film-maker ultraconvenzionale. In quanto tale, dovrei essere considerato un esperto, e gli esperti sono notoriamente persone che in ogni altro campo che non sia il loro sono dei profani. Mi si richiede, dunque, (nel senso di Max Frisch) di immischiarmi nelle mie stesse faccende. Per lo meno abbiamo in comune il fatto che sia voi che io facciamo un uso professionale di immagini e suoni. Come descriviamo le nostre opere? Film per il cinema, videoproduzioni o prodotti multimediali: in linea di massima sono convinto che un mezzo non sia (in sé) né buono né cattivo. Lo si deve sempre rapportare a sé stessi e alle proprie esigenze per giudicare la qualità del lavoro e del prodotto. Se queste opere vengano realizzate con i mezzi tecnologicamente più avanzati o con quelli tradizionali, per me non fa differenza. Nel giudizio tengo sempre prima conto del come e poi del cosa viene rappresentato. Può succedermi di trovare che un film sia fatto bene, ma di rifiutarlo poi per motivi contenutistici; ma i film fatti male li trovo sempre brutti anche se hanno un bel contenuto. Sono solito dire che i soldi hanno influenza sullo stile: con un budget più alto viene fuori un film diverso, il che non vuol dire necessariamente migliore o peggiore. Nel rapporto con i mezzi elettronici o, come li chiamo io, coi nuovi mezzi, sopraggiunge a mio avviso qualcosa di assolutamente specifico. Chiamiamola «breve durata calcolata». È il mercato a tenere gli utenti e gli ideatori in un permanente stato di stress, costringendoli a stare al passo con lo sviluppo tecnologico. L’odierna avanguardia audiovisiva spala la neve di oggi già domattina. Inizia qui un tipo di rivoluzione permanente capace di infiltrarsi da sola in profondità. Solo i produttori di detersivi maneggiano il termine «nuovo» in modo ancora più incisivo dei produttori di hardware e software. Per quanto riserbo possa avere per il nuovo, non mi è tuttavia sfuggito che è iniziata una nuova era. «Un’altra», verrebbe da dire: ci siamo appena lasciati alle spalle quella dell’elettricità e della televisione. Alcuni la chiamano «era digitale», altri «era informatica». Ad ogni modo il nuovo simbolo è internet, mentre la virtualità del cyberspace sembra soddisfare anche i bisogni religiosi e mistici della nuova società. Sono convinto che anche il mondo digitalizzato, collegato in rete e virtuale sarà soggetto alla regola darwiniana: l’origine delle specie attraverso l’adattamento e la selezione. O, per dirla informalmente, è il mercato che consacra i mezzi. Ci si sbrana l’un l’altro finché non si viene sbranati. Se
F. M. MURER
si vuole sopravvivere nella giungla mediatica, si devono continuamente cambiare le proprie «abitudini alimentari», o ancor meglio procurarsi i menu più recenti.
Ed eccoci finalmente al linguaggio del computer. Da buon profano, non voglio avventurarmi oltre Windows né vendere alcun software grafico-verbale. Sì, l’inglese informatico ce l’ha fatta: nessun’altra innovazione figlia del suo tempo è riuscita ad arricchire il dialetto svizzero come il linguaggio del computer. Ed è confortante rilevare come ciononostante la nostra lingua sia ancora viva, e con essa la fantasia. La creatività è il nostro capitale più essenziale e allo stesso tempo la più inesauribile e la meno ingombrante tra le materie prime del nostro pianeta. Bisogna perciò valutare la qualità dei nuovi mezzi a seconda che essi liberino e diano spazio alla fantasia oppure che la limitino e la eliminino. Ciò dovrebbe rappresentare per ogni creativo, utente interattivo, navigatore, cliccatore, il sine qua non. Dalla mia personale esperienza non posso giudicare se a lungo andare il rapporto di simbiosi tra uomo e macchina darà nuovi stimoli o porterà all’isolamento. Mi appare del tutto evidente, però, che il linguaggio settoriale del marketing stia abusando fino a inflazionarli i concetti che ruotano attorno alla creatività umana.
Tutti i sistemi (tecnici e politici) che impediscono o peggio proibiscono la fantasia, alla lunga non reggono. L’«Impero Millenario» è durato dodici anni. Perdonatemi l’inaccettabile paragone, ma se leggo le pagine economiche di questi giorni ho l’impressione che la questione riguardi più i giganti del settore che le sole quote di mercato. Leggo testualmente: «In internet è guerra aperta. Bill Gates si trova in una posizione difficile, nonostante la Microsoft stia gettando nella battaglia tutte le forze a sua disposizione». E ancora: «Internet cambierà radicalmente la geografia intellettuale». Si tratta di potere, dunque; almeno questo non è nuovo. Non sto tratteggiando la fine del mondo, sto solo cercando di attirare la vostra attenzione su un altro metodo per distruggere il cinema. Si tratta di video on demand , un servizio on-line venuto fuori di recente che presenta, tra l’altro, un impressionante parallelismo con i distributori di preservativi dei bagni pubblici: entrambi consentono di scegliere individualmente, garantiscono assoluta discrezione, impediscono ogni contatto fisico con gli altri e promettono protezione dal contagio.
Ciò che non è ancora chiaro, però, è fin dove si spingerà questo sgretolamento della struttura cinematografica dell’immagine. Tra un po’ su internet o sulle «autostrade» sarà disponibile tutta la storia del cinema in formato francobollo. (Da quel che si sente, la Microsoft sta comprando tutti i diritti attualmente disponibili.) E se uno ama l’arte, può già tranquillamente risparmiarsi il viaggio a Parigi o a Londra. A fronte di un modesto compenso, infatti, si può frugare tra le giacenze di magazzino del Louvre o della Tate Gallery, e con una lente fissata all’estremità di uno zoom digitale ci si può perdere nei dettagli pittorici delle opere. Sfuggono al tatto e non si sente ancora l’odore delle vernici a olio, ma, se è vero quello che dicono i propagandisti del cyberspazio, è solo una questione di tempo prima che vengano coinvolti anche gli altri nostri organi sensoriali. La magia del cinema diventa concorrenza. La conquista del mondo sensibile è oggi uno dei fronti principali degli sperimentatori del cyberspazio, dice a mo’ di esempio Hartmut Böhme. Eserciti di seguaci hanno lavorato febbrilmente per riuscire a telematizzare i contatti. Il loro scopo, pur restando sempre ancorati a questa terra contaminata, è di poter instaurare contatti gioiosi; di potersi collegare virtualmente in ogni momento con ogni punto del mondo; di immergersi con tutti i sensi in un mondo fatto di sole luci e nessuna ombra; di essere un po’ come Dio, essere virtualmente sempre in ogni dove, anche se fisicamente assenti: insomma, essi vogliono il mondo in mano alla loro miseria! Questa grandiosa coscienza di sé fa sì che oggi il cyberspazio sia visto di buon occhio da un numero sempre crescente di persone.
Tale bisogno di fuga dal mondo non mi suona certo sconosciuto. Solo che per me al posto del mondo virtuale c’è la realtà del cinema. Se non avessi voglia di finzione, che senso avrebbe per me realizzare dei film?
Ammetto che il cinema negli ultimi anni sia diventato un po’ démodé. Dove se non sul grande schermo viene evocato con tanto sforzo tecnologico e in modo così efficace e monumentale la nostalgia dei bei tempi passati? I film di fantascienza generalmente non sono altro che racconti di barbarie medievali proiettati nel futuro. E se ora anche in Europa (e in questo paese) i promotori e i produttori cinematografici credono solo alla regola del successo, allora è bene che l’arte cinematografica torni nell’underground.
Forse il futuro non appartiene più al cinema, ma ai monitor, a internet, al cyberspazio; in breve, ai nuovi mezzi. Devo tuttavia richiamare l’attenzione su una preoccupante perdita di qualità: mi riferisco al formato. Il cinema, si dice, è «bigger than life». La frase è da prendere alla lettera solo se è compresa anche la superficie di proiezione. È sulla grandezza dello schermo che viene fuori, se c’è, l’effetto emozionale, artistico e anche sociale di un film, e con esso la sua qualità e potenza. Dal punto di vista storico-culturale, la miniaturizzazione dello schermo cinematografico nel formato televisivo è l’illusione più fatale del secolo; ma, come ho già ammesso, anche la più comoda, e l’impatto che ha avuto è epocale almeno quanto quello del leggendario meteorite che avrebbe portato all’estinzione dei dinosauri sulla terra. Le immagini televisive rendono gli elefanti dei topolini, eppure ogni sera tantissima gente se ne sta accovacciata davanti ai propri schermi ricurvi sostenendo il giorno dopo di aver visto una pellicola cinematografica. E intanto cresce il numero di uomini, donne e bambini che passano metà della loro vita davanti a un monitor a cliccare col loro dito interattivo su un mouse. Non disconosco l’utilità ecologica di questa società passivamente immobile, perché in quei momenti nessuno scorrazza nel sottobosco o uccide foche, o perlomeno non senza un joystick ottico-digitale. È a questa società che si rivolge il macabro slogan della nostra economia energetica: «La corrente elettrica è tutta la vita».
Dovrò ancora adattarmi un po’ all’era informatica. Spero di capire un giorno perché starsene seduti a cliccare per ore renda così felici e cosa ci sia di tanto stimolante nel disporre di una quantità mostruosa di dati senza sapere niente per sé. Un giorno mi piacerebbe anche vedere cosa si prova a farsi un bagno e non bagnarsi.
Settembre 1996
Sulle spalle degli altri o le radici lunghe
Mi sono chiesto più volte come sarebbe stata la mia filmografia se non avessi passato l’infanzia e la giovinezza nel cuore della Svizzera, a patto ovviamente che fossi diventato un film-maker. Una domanda oziosa! Ma è comprovato che le mie opere cinematografiche abbiano le radi-
ci lunghe e ho anche l’impressione che continuino a crescere man mano che mi avvicino alla vecchiaia. In un modo o nell’altro, quando esce un mio nuovo film, arriva fino a Beckenried e a Maderanertal. Sono consapevole che il Premio della Cultura della Svizzera centrale non è né un caso, né appartiene solo a me. In molti hanno partecipato attivamente al mio processo di maturazione, ed è per questo che ho pensato spesso a chi, tra coloro che mi circondano e hanno contribuito alla mia fortuna, non ho ancora avuto modo di ringraziare. Sono talmente tanti che sono felice di non dover dividere il premio con tutti. Mi limiterò a citare i più importanti.
Il primo posto spetta senz’altro alla mamma: alla fine, alla veneranda età di 90 anni, mi ha suggerito di girare un film tratto da uno dei suoi romanzi (inediti). Non vuole diventare famosa prima della sua morte!
Trovo che l’umorismo e l’autoironia siano due tra le forme più raffinate di intelligenza. Nel caso la sua innata arguzia dovesse avermi influenzato, la ringrazio.
Subito dopo viene il papà. Robert Walser sostiene che la poesia e la precisione vanno a braccetto. Non voglio dire che ho ereditato la mia vena poetica da lui, ma la precisione senz’altro sì.
I miei cinque fratelli mi hanno sempre dato la fetta di torta più grossa, perché ero il più piccolo. Aloro devo da una parte la mia «conversione» all’altruismo e dall’altra il fatto che non mi accontento mai solo della fetta.
Prima che mettessi piede a scuola, mia nonna, che tanto amava cantare, mi aveva già insegnato a contare i soldi (anche se si trattava di poche rappen 3); avevo imparato anche Il re degli elfi e La canzone della campana di Schiller a memoria. Alei devo il mio rapporto sereno con i soldi e la mente.
Come nel Faust di Goethe, Gretchen vuole sapere da Faust cosa pensi della religione, così un giorno in seconda elementare chiesi al prete come aveva fatto l’umanità a svilupparsi in quel modo se Adamo ed Eva avevano avuto solo due figli. Padre Kuriger perse temporaneamente il controllo di sé e la sua risposta più che faustiana fu con un faust 4. Alui devo non solo l’immediata presa di coscienza che la fede e la conoscenza non vadano affatto d’accordo, ma anche un piccolo miracolo: di colpo (uno solo) mi ero convertito al darwinismo.
Per compensare i mancati successi scolastici, vinsi per quattro anni consecutivi il premio Challenge nella ginnastica artistica. In seguito fui
preso come giovane speranza nella palestra di Magglingen dall’allora capo allenatore Jack Günthart. Alui devo il fatto che stare sull’attenti non sia mai diventata la mia posizione preferita. Ero bravo a disegnare, ma la maggior parte dei miei compagni mi apprezzavano soprattutto per le mie abilità sportive e mi stimavano molto più del primo della classe. Grazie a quest’esperienza, posso dire oggi di aver vinto in carriera quasi quanto Martina Hingis.
Fin da bambino sono stato implicato in una guerra persa in partenza con l’ortografia, e mi son tornati in mente i miei quaderni dei temi, rossi come un campo di battaglia, con relativo aggiornamento delle vittime in basso a ogni pagina: 71, 98 ecc.
Le cose non cambiarono finché non arrivai in quinta, dal professor Michel. Lui non era solito scrivere numeri a fondo pagina, bensì sempre giudizi come «buono» o «molto buono» e poi mi faceva leggere il tema davanti alla classe. Se il servizio sociale del Cantone di Uri si ritrova con un caso in meno e l’Ufficio Federale della Cultura con uno in più, lo devono a lui.
Molto tempo dopo, lessi una frase di Adorno che con ogni probabilità avrà ripreso dal professor Michel: «Una grammatica che non permette di scrivere tutto è una grammatica insufficiente.» Michel nel mio caso è andato addirittura un passo oltre e ha incluso in questa teoria anche l’ortografia. Non sarò diventato propriamente uno scrittore, ma uno sceneggiatore almeno sì. E di questo devo ringraziare lui.
Settembre 1997
1 Emittente televisiva della svizzera tedesca e romanda [N.d.T.]
2 Società svizzera di radiotelevisione [N.d.T.].
3 Rappen: centesimi del franco svizzero [N.d.T.]
4 Faust: pugno [N.d.T.].
Story board di «Vitus»
PICCOLODIZIONARIO
Fredi M. Murer
Film muto
Ascuola facevo sempre i temi più lunghi, ma, così come i dettati, mi tornavano indietro rossi come campi di battaglia. Facevo di tutto per cacciare dalla mia mente qualsiasi cosa avesse a che fare con la scrittura, fin quando un bel giorno, invece di consegnare un tema, scrissi una storia, ma fu per me solo motivo di scherno. Questo grande timore della scrittura continuò nella mia vita adulta. L’affermazione secondo la quale sono diventato un regista perché il cinema non è una lingua scritta può sembrare di comodo, ma a me sembra plausibile. Il fatto che i miei primi film fossero muti, dunque, ha a che vedere sia con i mezzi tecnici e finanziari a mia disposizione, sia con la mia paura di scrivere. Le difficoltà contingenti divennero un elemento dello stile. Essendo un artista grafico e un fotografo, pensavo per immagini e, dato che all’epoca volevo reinventare il cinema, dovevo cominciare dal cinema muto. Imparato il linguaggio, misi al servizio del cinema un silenzio deliberato e la mia singolare esperienza, come succede in Grauzone, in cui lo specialista in microspie è condannato al silenzio, o nel caso di Höhenfeuer, dove il ragazzo è sordomuto.
L’«uomo nuovo»
Avent’anni mi sono affacciato alla finestra e ho guardato in tutte le direzioni in cerca di mentori, ma all’orizzonte ho visto solo aiuole di fiori, divise militari stese a prender aria. Sebbene alcune madri avessero iniziato a indossare la minigonne e a cotonarsi i capelli, i padri continuavano a portare il solito taglio a spazzola. (Non sapevo che Max Frisch
avesse tenuto un diario per anni.) È nei primi anni ’60 che si può collocare anche l’Anno Zero del cinema svizzero. Il cinema precedente era caratterizzato da flashback e ritorni, nella rurale Emmental, per così dire, o nel conformismo dilagante nella media e piccola borghesia della Zurigo contemporanea. Non volevo aver niente a che fare con queste cose. Così ho prestato attenzione ai venti forieri di rivoluzioni, anche oltre i confini svizzeri, perché avevo letto da qualche parte che ogni generazione ha diritto a una rivoluzione, anche se solo culturale, una rivoluzione che non sarebbe venuta dal proletariato e tanto meno dagli studenti e dai professori beneducati. Furono gli artisti a provocarla. Quasi ogni giorno, qualche artista infrangeva un tabù e tutti assieme trasformarono gli anni ’50, periodo di deprimente paralisi, in un enorme laboratorio sperimentale. Il cinema fece la parte del leone in questo movimento. È stato in questo clima e con questa percezione delle cose che ho concepito i miei primi film. Grazie ai miei lavori, fui a dir poco travolto dal polverone sollevato dall’avanguardia dell’epoca. Ho girato i primissimi film tra la mia cerchia di amici – che comprendeva molti artisti – e, comunque, li ho pensati per una più ampia cerchia, la maggior parte sempre d’amici, senza perdere di vista neppure i festival del cinema adatti ai miei lavori. Il cast del mio secondo, poi del terzo e del quarto film, era formato da poeti, scultori e pittori colti nella loro vita reale e, nonostante interpretassero ruoli di finzione, mettevano in scena pur sempre loro stessi. Mi piaceva – e mi piace ancora – confondere la linea di confine tra realtà e finzione. Gli attori erano, allo stesso tempo, soci e co-autori. Grazie a una sana dose di narcisismo, erano sempre fortemente motivati e vivevano per davvero con addosso i più bei vestiti e in quegli ambienti. Ho avuto spesso la sensazione che la collaborazione con loro si risolvesse in duelli creativi tra me dietro alla macchina da presa e loro davanti, solo che, senza ucciderci a vicenda, ne abbiamo tratto mutuo beneficio, senza guadagnare un soldo abbiamo creato valore culturale aggiunto e non abbiamo risparmiato in fatto di provocazioni.
Bambini
Adire il vero, non so perché i bambini abbiano un ruolo così importante nei miei film. In parte, ne sono sicuro, perché non ho brutti ricordi
della mia prima infanzia. Nello stesso tempo, i bambini sono un memento, più o meno doloroso, del nostro essere mortali, mi rammentano la mia finitezza, e forse li invidio proprio perché vivono ancora in una terra di nessuno. Questo si associa a uno struggimento indefinibile per l’età primitiva dell’uomo. I bambini sono i miei cavernicoli e palafitticoli. Sono ancora crudi, nel senso che non sono stati cucinati. Secondo il poeta inglese del ’700 Edward Young, quando nasciamo siamo degli originali e quando moriamo delle copie. Per me i bambini sono una metafora dell’utopia e dell’anarchia. Un artista senza queste caratteristiche non è degno di tale nome. Nel film Der grüne Berg, i bambini hanno un doppio ruolo di testimoni delle realtà politiche e sociali e di rappresentanti delle future generazioni. In Vollmond, sono addirittura profeti e, in quanto profeti («un profeta non è senza onore, tranne che nel suo paese»), sono presenti solo grazie alla loro assenza.
Illusione
I film comprimono il tempo reale riducendolo a istanti e in tal misura saranno sempre illusioni, ma sono anche delle finestre aperte. Sono felice quando m’ingannano: ciò che so dell’America l’ho imparato dai film americani, ciò che so della Germania l’ho imparato dalle serie televisive poliziesche. Mi chiedo chi, qui o da qualsiasi altra parte, sappia qualcosa della Svizzera e grazie a quale mezzo di comunicazione. Vi sono prove certe che la maggior parte degli svizzeri crede molto di più nelle previsioni del tempo della televisione che in ciò che scorge fuori della finestra.
Capacità di resistenza della terra
Si dice che gli alpinisti più arditi resistano solo tre minuti sulla cima di una montagna, essendo quello il tempo massimo in cui riescono a sopportare la tremenda visione di una natura silente. Quest’immagine è un’eccellente descrizione di una fantasia che mi accompagna e mi ha ispirato fin dall’infanzia: vedere il mondo com’era prima della comparsa dell’uomo. Forse le mie fantasticherie circa la fine del mondo sono la copia esatta di questa nostalgia infantile. Sono rimasto imbrigliato nelle cre-
denze magiche dei miei avi. Loro non si sedevano al cinema, ma per terra a guardare l’orizzonte. Dicevano: il sole tramonta, il tempo passa. In realtà, era la terra che stava semplicemente girando e il tempo non passava, ma erano loro a farlo. Il linguaggio è sempre un’immagine riflessa della percezione, non della realtà – come il cinema. Da quando ci sono persone sulla terra, le civiltà sono comparse e scomparse, sia nel cinema che nella realtà. Sono un moralista perché, a differenza della natura, mi preoccupo per davvero dello stato in cui la terra è ridotta. Aquesto riguardo, nondimeno, i film che ho fatto non sono proprio dei messaggi morali quanto, piuttosto, misure disperate contro il mio tendere al nichilismo.
Studioso del comportamento
(In lontananza la torre di raffreddamento di una centrale nucleare.)
Riesci a vedere l’iceberg? Esteticamente è proprio bello, non è vero? Una variante della propensione distruttiva umana è la necrofilia, ovvero il piacere di uccidere o il desiderio di vedere morto ogni essere vivente. Ma i moderni necrofili non sono attratti da cadaveri o da escrementi, ma da macchine, macchine lucenti e pulite, strutture d’alluminio e vetro che non fanno rumore, non hanno odore e non lasciano alcun residuo: come gli iceberg!… Mi sembra che la mia pelle si stia di nuovo assottigliando.
Taxista
(Nel suo taxi con il passeggero Alfred M.)
Non so da che parte lei stia, cosa pensi, ma la gente che vota un referendum per porre fine a un suo diritto di gestione partecipativa, è una cosa che non è accaduta dai tempi in cui i greci inventarono la democrazia. O il nostro istinto di sopravvivenza è andato a farsi benedire o gli oligarchi sono la maggioranza. Ho capito in entrambi i casi che io non ne voglio più far parte. Ho dichiarato il mio appartamento una repubblica. Quando arrivo a casa, mi trovo in un altro paese. In tal modo non ho più bisogno né della radio né della televisione. Lei ha mai visto un repubblicano interessato agli affari esteri? Fuori, sono uno straniero, un Gastarbeiter. Senza diritti e senza doveri.
I film e il cinema
Non si può dire che tutti i film siano cinema. I film tendono a dire la verità, mentre il cinema vive di illusioni che mirano a colpire. Ci piace il cinema per il pathos e la freschezza di respiro, perfino quando vi si accende una sigaretta. Nella vita di tutti i giorni, di rado i baci hanno una colonna sonora, ma al cinematografo un bacio senza musica è visto come una rappresentazione a metà.
I FILM
Fredi Melchior Murer
BIOGRAFIA
Fredi Melchior Murer nasce nel 1940 a Beckenried, sul lago di Lucerna. Adiciassette anni si trasferisce a Zurigo, dove dal 1959 studia disegno tecnico. Dopo due anni passa al corso di fotografia tenuto da Serge Stauffer, che in seguito avrebbe fondato la scuola indipendente d’arte F+F, e Walter Binder, poi curatore della Fondazione Svizzera di Fotografia. Nel 1964 partecipa all’Expo di Losanna realizzando le diapositive per il padiglione «Istruzione ed Educazione». Nello stesso anno pubblica la raccolta di fotografie Gioventù 13-20. Nel frattempo ha iniziato la sua carriera di film-maker indipendente. Nel 1970, insieme alla famiglia, va in «esilio» a Londra, dove svolge le funzioni di professore ospite alla Guildford Arts School. Torna in Svizzera nel 1971 e gira il suo primo lungometraggio, Wir Bergler in den Bergen… Lo stesso anno fonda la società di produzione Nemo Film GmbH, insieme a Alexander J. Seiler, Georg Radanowicz, Kurt Gloor, Claude Champion, Yves Yersin, Hans-Ulrich Schlumpf e Ywan Schumacher. Nel 1975-76 è negli Stati Uniti per una visita di studio. Dal 1995 vive e lavora a Zurigo. Dal 1992 al 1996 è Presidente dell’Associazione dei Registi Svizzeri. Come film-maker indipendente e innovativo Murer ha dato un contributo straordinario alla rinascita della cinematografia svizzera. Nel 1985 con Höhenfeuer si aggiudica il Pardo d’Oro al Festival di Locarno. Nel 1995 vince il Premio d’Arte della Città di Zurigo e nel 1997 il Premio per la Cultura della Svizzera Centrale. Nel 2005 gli viene conferito il Premio alla Carriera della Fondazione di Zurigo per l’Etica e la Cultura Occidentali. È la prima volta che questo riconoscimento è attribuito a un regista. In questa occasione, l’importanza della sua opera nell’ambito del cinema svizzero viene descritta come «esemplare per la potenza del suo messaggio».
Cartoons
FILMOGRAFIA
Marcel
t.l.: id.
Svizzera, 1962, super8, b/n, 18’
Soggetto e sceneggiatura: Fredi M. Murer. Musica: Edgar Varèse. Produzione: Fredi M. Murer.
Un ragazzo – l’undicenne Marcel – gioca con un aliante. Lo lancia in aria, lo rincorre attraverso i campi, lo prende in mano e lo rilancia ancora una volta. Un treno interrompe il divertimento per un attimo. Poi l’aliante riprende il volo. Il ragazzo cade in una fossa di ghiaia. Si perde nel giocare con i sassi, l’acqua, le canne e un vecchio copertone, esamina i vecchi macchinari sparsi qua e là, esplora la fabbrica, ritrova l’aliante e continua i suoi giochi. Fredi M. Murer gira il suo primo film in bianco e nero, su pellicola super8, senza sonoro, prendendo lo spunto dai classici del cinema muto.
Con il mio passato nella fotografia, quello che mi interessava a quei tempi erano le immagini in movimento, le luci… Ho dovuto abbandonare il cinema svizzero tradizionale per scoprire qualcosa di diverso. Ho iniziato a leggere le opere di Pudovkin e il mio primo film era un plagio di Ejzenštejn in super8.
Fredi M. Murer, in O. Ceresa, I. Lambelt, Fredi M. Murer, Zytglogge, Berna 1981
Pazifik oder die Zufriedenen
t.l.: Pacifico o i contenti
Svizzera, 1965, 16mm, b/n e colorato a mano, 60’ Soggetto, sceneggiatura, fotografia, montaggio: Fredi M. Murer. Interpreti: Sylvan Guntern, Jean-Marc Seiler, Erich Frei, Mario Beretta, Augustin
Erb, Daniel Bamert, Fredi M. Murer. Produzione: Fredi M. Murer. Premio di qualità 1966 del Dipartimento Federale degli Interni.
L’ambientazione: la pericolante Villa Pazifik sul Zürichberg. Gli abitanti: sette uomini di circa vent’anni, uno dei quali è il cineasta. Al centro di Pazifik oder die Zufriedenen sta un tavolo nel giardino dove gli amici mangiano e bevono, e sono queste occasioni che agiscono da sfondo per i sogni e i vagheggiamenti dei personaggi che il film ritrae. Uno vorrebbe tentare la strada dell’equilibrismo, un altro sta disseppelendo un pallone nel cimitero. Un terzo suona il piano, mentre un paio di scarpe da uomo e da donna ballano insieme. Pazifik oder die Zufriedenen è l’espressione cinematografica del nonconformismo anarchico. Girato su pellicola 16mm e senza sonoro, con riprese spezzettate, il film unisce episodi di slapstick e sequenze «dal vivo» e animate. Qua e là Murer ha colorato dei particolari a mano, mentre in altre sequenze ha eseguito il montaggio del negativo stesso. In origine il film durava quasi quattro ore e la colonna sonora era ripresa dal vivo. La versione attuale è stata abbreviata da Fredi M. Murer a 60 minuti e ha una colonna sonora spiritosamente sperimentale quanto le immagini.
Oggi, [questo film] fa parte della leggenda degli inizi del nuovo cinema svizzero, avendo espresso prima di ogni altro la gioia della scoperta del cinema. E, come se l’autore non avesse saputo controllare questo nuovo strumento, la sua impresa è sfociata alla fine in un film della durata di quattro ore. Non era ancora questione di un tema o di un messaggio. Quello che il regista filmava era il suo immediato entourage, molto semplicemente quello che passava davanti alla macchina da presa.
Pierre Lachat, «Vision of a Blind Man» ou peut-être dois-je apprendre à crier, in Fredi M. Murer, Pro Helvetia, 1980
Balance
t.l.: Equilibrio
Svizzera, 1965, 16mm, b/n, 12’
Soggetto, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Fredi M. Murer. Interprete: Augustin Erb. Produzione: Fredi M. Murer.
Premio di qualità 1966 del Dipartimento Federale degli Interni.
Balance è un cortometraggio surreale di 12 minuti tratto da Pazifik oder die Zufriedenen. Un uomo tende una corda da funambolo nella foresta e si trucca per l’entrata in scena. Una banda militare inizia a suonare, il
funambolo sale sulla corda. Compare una giovane donna che indossa una camicia da notte bianca e tiene in mano una pistola. Preme il grilletto; «Sono pronto, puoi farmi fuori», dice l’uomo, e cade dalla corda mente la donna abbassa la pistola. Giace a terra con un gatto seduto sul petto; improvvisamente, al suo fianco compaiono due uomini in piedi vestiti di nero. La donna urla, l’immagine trema mentre attorno imperversano scene di guerra. I due uomini si allontanano portando il morto su una barella. Cercano di seppellirlo in mezzo alla battaglia, ma lui si alza…
Sylvan t.l.: id.
Svizzera, 1965, 16mm, b/n e colore, 12’
Soggetto, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Fredi M. Murer. Interprete: Sylvan von Guntern. Produzione: Fredi M. Murer. Premio di qualità 1966 del Dipartimento Federale degli Interni.
Anche Sylvan deriva da Pazifik oder die Zufriedenen e prende spunto dall’espressionismo tedesco. Racconta la storia di un padre morto e dei suoi tre figli, in cui ogni ruolo è interpretato da Sylvan von Guntern. Poco dopo aver litigato sul letto di morte del padre per il suo misterioso portamonete, i figli si fronteggiano in uno scontro mortale sul tetto della casa. Il primo figlio muore con il tubo dell’annaffiatore intorno al collo, il secondo spira sotto il sole cocente, mentre il terzo riesce ad afferrare il portamonete prima di cadere dal tetto e morire davanti alla porta d’entrata della casa. Con i figli tutti morti da pochi minuti, il padre si alza dal letto, esce di casa e, con un sorriso sulle labbra, apre il portamonete, che contiene delle biglie di vetro. Aquesto punto il film passa dal bianco e nero al colore. Vediamo marito e moglie vestiti all’antica. Accovacciato ai loro piedi c’è un ragazzino che gioca con le biglie.
Chicorée: elf schizofragmentarische Aufzeichnungen über das Leben des Comte Ivan Merdreff
t.l.: Cicoria: undici appunti schizoframmentari sulla vita del conte Ivan Merdreff
Svizzera, 1966, 16mm, b/n e colore, 27’
Soggetto, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Fredi M. Murer. Musica: Celly Pastorini. Interpreti: Urban Gwerder, sua moglie Tina, loro figlio Wanja nel ruolo di sé stessi. Produzione: Fredi M. Murer. Premio di qualità 1967 del Dipartimento Federale degli Interni; Primo premio al Cinestud di Amsterdam; Premio speciale a Oberhausen.
Chicorée è il primo dei tre ritratti d’artista girati da Fredi M. Murer fra il 1966 e il 1969. Il protagonista è il poeta di Zurigo Urban Gwerder. Montato per associazioni, facendo uso di temi religiosi e di un tono decisamente surrealista, Chicorée contiene scene di vita quotidiana della vita di famiglia di Gwerder in bianco e nero, mentre i suoi sogni sono a colori. Gwerder sogna di essere Salvador Dalí, i Beatles e Frank Zappa. Camminando all’indietro durante la marcia pasquale per la pace portando un cartellone con le parole «Vuoi essere urbanizzato fino all’oblio?», deride le forme convenzionali di protesta sociale. Chicorée raggiunge l’apice in una scena di action painting, al termine della quale Gwerder salta oltre la tela e finisce nel fango. In origine, Chicorée fu proiettato con una colonna sonora per organo e strumenti a percussione; oggi esiste una versione con la musica di Celly Pastorini.
Dal momento che il lavoro richiedeva una concentrazione intensa, bevemmo litri di caffé nero. Fu mentre sorseggiavo un’altra tazza di quella schifezza, assai amara e sicuramente fatta con la cicoria, che Fredi, mia moglie e io – quasi nello stesso istante – avemmo l’idea di intitolare il film Chicorée. Urban Gwerder a colloquio con Samuel Plattner, «Tages-Anzeiger», 17 febbraio 1967
Bernhard Luginbühl
t.l.: id.
Svizzera, 1966, 16mm, b/n, 25’
Soggetto, sceneggiatura, fotografia, suono, montaggio: Fredi M. Murer. Aiuto regista: Stefan Portmann. Musica: Quartetto Irène Schweizer. Produzione: Fredi. M. Murer. Premio di qualità 1967 del Dipartimento Federale degli Interni.
Fredi M. Murer parla dei suoi ritratti di artisti come «duelli» tra sé stesso e coloro che ritrae. Le armi dello scultore di Berna Bernhard Luginbühl sono
il pennarello, il ferro, il fuoco, il martello, una faccia di bronzo con una sigaretta fumante e la famiglia. Murer ha passato dieci giorni assieme ai Luginbühl e il suo film prende il suo impianto dal farsi di una scultura. Dal punto di vista stilistico, Bernhard Luginbühl rappresenta un cambiamento rispetto alle precedenti opere di Murer. Ricalcando da vicino, dal punto di vista fotografico, le tecniche del realismo documentario, e con la musica del Quartetto della pianista jazz Irène Schweizer come colonna sonora, Bernhard Luginbühl contiene tracce di cinéma vérité. Tuttavia, Murer non amava che la critica lo circoscrivesse in un genere cinematografico, insistendo che il suo non era cinéma vérité ma piuttosto cinéma privé. Questo è vero nel senso che in Bernhard Luginbühl non è tanto l’opera a definire l’artista quanto il calore della famiglia a lui sempre vicina a fornirgli l’ispirazione per l’opera.
Mio fratello più grande fa lo scultore. In un certo senso, è sempre stato il mio punto di riferimento: aveva tredici anni più di me e – qualsiasi cosa io facessi –era migliore di tredici anni. Inconsciamente, nel girare un film su Luginbühl, che ha pressappoco l’età di mio fratello, in realtà ho fatto un film su di lui e in questo modo l’ho «raggiunto».
Fredi M. Murer, in «Kommunikation & Gesellschaft», n. 9, 1979
High and Heimkiller
t.l.: id.
Svizzera, 1967, 16mm, colore, 10’
Soggetto, sceneggiatura e fotografia: Fredi M. Murer. Produzione: H.R. Giger, Fredi M. Murer.
Con il senno di poi, High and Heimkiller sembra uno studio preliminare per il ritratto d’artista Passagen, girato cinque anni dopo sull’illustratore e disegnatore H.R. Giger. La colonna sonora del film è costituita dalla musica psichedelica di C. Lange e Fredi M. Murer lascia che una cinepresa statica plani sui primi disegni dell’artista.
Sad-is-fiction
t.l.: id.
Svizzera, 1969, 16mm, colore, 43’
Soggetto e sceneggiatura: Fredi M. Murer. Fotografia: Fredi M. Murer, Fritz E. Mäder (interviste). Musica: The Minstrels, The Coincidence. Montaggio: Renzo Schraner, Fredi M. Murer. Interprete, testi e voce fuori campo: Alex Sadkowsky. Produzione: Fredi M. Murer. Premio di qualità 1969 del Dipartimento Federale degli Interni.
Terzo film di Fredi M. Murer su un artista, Sad-is-fiction ha come soggetto il pittore e poeta zurighese Alex Sadkowsky. «L’uomo moderno non si butta né a sinistra né a destra; continua solo a camminare.» Così inizia l’introduzione programmatica – e per il resto del film Sadkowsky fa proprio questo. Girovaga per aerei e per Londra e saltella attraverso paesaggi rocciosi. Quando si sente solo, porta con sé un animal metaphysicum, che ha origine nei suoi quadri. Sad-is-fiction ritrae Sadkowsky come un sognatore visionario che – benché padre, artista, amante e soprattutto uomo dalla parola a dir poco facile – resiste all’essere etichettato in qualsiasi modo. In Sad-is-fiction Murer per la prima volta lavora con la presa del suono in diretta e fa uso di un collega, l’operatore Fritz E. Mäder.
Avendo sempre presente lo spirito del suo film originario, Murer proietta arditamente le sue idee e i suoi desideri sulle figure delle quali fa il ritratto. Si impegna con una mancanza di serietà del tutto consapevole e lavora in modo sovranamente smisurato. Per farla breve, tutto il contrario di quello che è in linea con il linguaggio televisivo.
Pierre Lachat, «Vision of a Blind Man» ou peut-être dois-je apprendre à crier, in Fredi M. Murer, Pro Helvetia, 1980
Vision of a Blind Man
t.l.: Visione di un cieco
Svizzera, 1969, 16mm, colore, 45’
Soggetto, sceneggiatura e fotografia: Fredi M. Murer. Assistenti alla regia: Renzo Schraner, Christian Kurz. Produzione: Fredi M. Murer.
Vision of a Blind Man, ha spiegato Fredi M. Murer alla prima di quello che è senz’altro il suo film più sperimentale, è «una forma cinematografica di ricerca pura»: il 21 giugno 1968, alle cinque e mezzo del mattino, Murer indossa un paio di occhiali opachi da saldatore e issa una cinepresa
Arriflex a 16mm sulla sua spalla destra. Durante il corso della giornata, due amici lo portano in auto in ventuno diverse località sconosciute, dove gira «a orecchio» e registra i pensieri che gli passano per la mente. Nel curriculum del regista, Vision of a Blind Man segna l’allontanamento dal surrealismo e prefigura molto del suo cinema a venire: l’extraterrestre con la cinepresa e il registratore incorporati di 2069; lo specialista delle «cimici» in Grauzone, l’accordatore cieco in Vollmond – ma anche i non vedenti e i loro cani di Sehen mit anderen Augen.
Una finezza linguistica vuole che in inglese la parola vision – contrariamente al tedesco – non significhi solo illusione, miraggio, ma anche vista, l’azione del vedere; si potrebbe così tradurre il titolo di questo film Un cieco può vedere… Il film fu d’altronde montato in maniera parimenti cieca: Murer in effetti si è limitato a giustapporre le bobine di immagini e suoni una dietro l’altra. In questa esperienza, la mdp ha preso davvero il posto dell’occhio umano. Allo stesso modo, per Murer, il linguaggio cinematografico ha preso il posto della lingua parlata ed è diventato come l’occhio di un cieco o la voce di un muto.
Pierre Lachat, «Vision of a Blind Man» ou peut-être dois-je apprendre à crier, in Fredi M. Murer, Pro Helvetia, 1980
2069 - oder dort, Wo sich Futurologen und Archäologen gute Nacht sagen
t.l.: 2069 - O là dove futurologi e archeologi si dicono buonanotte
Svizzera, 1969, 35mm, colore, 34’
Soggetto, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Fredi M. Murer. Suono: Christian Kurz. Produttore esecutivo: Giorgio Frapolli. Produzione: Yersin-
Mäder-Murer con il supporto della Schweizerische Volksbank. Selezionato al Festival di Mannheim 1969.
2069 è il contributo di Fredi M. Murer a Swissmade, una film a episodi diretto anche da Fritz E. Mäder e Yves Yersin. Il tema è «La Svizzera secondo noi». Nella pellicola di Murer corre l’anno 2069 e un «cittadino integrato con tendenze occulte a essere un cittadino non integrato» viene incaricato dal «Cervello Centrale» di produrre una relazione filmata sulla missione sconosciuta di un extraterrestre. «L’extraterrestre» è una creatura con cinepresa e registratori incorporati – creato da H.R. Giger – che nel-
l’anno 2069 attraversa la terra per scoprire come le persone moderne vivono la loro vita. Il telecronista è lo stesso Murer. Lo scopo della missione è di studiare alcuni non conformisti che stanno cercando di fomentare l’anarchia ai margini dello stato del Grande Fratello. 2069, il primo film di Murer girato con pellicola a 35mm, rappresenta una visione cinica di «il Grande Fratello ti osserva», che può anche essere interpretato come monito.
Con questi elementi futuristicamente esagerati eppure innegabilmente opportuni, Murer – sebbene in maniera piuttosto superficiale – sta giocando un gioco intelligente. In questo gioco, comunque, il commento politico passa in secondo piano: chiaramente, l’interesse principale di Murer è qui l’impatto estetico, l’originalità delle immagini, gli effetti ritmici e i colori. In maniera dichiarata, nel caso di Murer questi interessi sono l’espressione così diretta del piacere intatto e quasi naïf nel fare film che egli non può in ogni caso essere accusato di formalismo.
Pierre Lachat, «Tages-Anzeiger», 16 maggio 1969
Passagen
t.l.: Passaggi
Svizzera, 1972, 16mm, colore, 50’
Soggetto, sceneggiatura e fotografia: Fredi M. Murer. Montaggio: Yves Yersin, Fredi M. Murer. Suono: Benny Lehmann. Ricerche: Hans-Ulrich Jordi. Commento: Konrad Farner, Fritz Illeter. Interprete: H.R. Giger. Produzione: Nemo Film AG Zürich.
Selezionato al Festival di Mannheim 1972
Passagen è il quarto e finora ultimo film d’artista di Fredi M. Murer. È la prima pellicola girata con la Nemo Film AG, il gruppo di sceneggiatori e produttori da lui co-fondato, e – dal momento che coinvolge anche una rete televisiva – è un’opera notevolmente diversa dai suoi precedenti ritratti d’artista. Anziché riprendere l’autore e le sue opere in modo accentuatamente sperimentale, Murer propone qui un’analisi approfondita dell’opera di Giger, sorretta dalle opinioni di vari esperti. Il film si concentra sui processi creativi, le corrispondenze tra il mondo interiore di Giger e i suoi dipinti. «L’artista ha un ruolo nella società, oppure è sol-
tanto un sismografo che misura lo Zeitgeist?», questa è la domanda che pone Passagen. Il film sottolinea ancora una volta i temi dei lungometraggi di Murer, come Grauzone e Vollmond: gli obblighi verso il mondo dell’individuo in generale e dell’artista in particolare.
In Passagen, Murer […] compie un coraggioso tentativo di capire un artista eccentrico dalla prospettiva delle sue proprie esperienze di vita e delle sue idee fisse. «Luzerner Neueste Nachrichten», 7 febbraio 1973
Christopher & Alexander t.l.: id.
Svizzera, 1973, 16mm, colore, 46’
Soggetto e sceneggiatura: Fredi M. Murer. Fotografia: Fredi M. Murer, Iwan P. Schumacher. Musica : Jonas C. Haefeli. Suono : Benny Lehmann. Produzione: Nemo Film AG Zürich, Artco-Film SAGenève, Eric Frank.
Fredi M. Murer era pronto a girare il lungometraggio Wir Bergler in den Bergen… quando ricevette la proposta da parte di un banchiere di Zurigo di realizzare un ritratto cinematografico dei suoi due figli di tre e cinque anni. Murer accettò, anche perché era smanioso di guardare dietro la siepe di una grande villa. Il risultato è un film in due parti. La prima riprende una giornata tipo nella vita dei due bambini. La seconda riguarda invece le ricorrenze principali nel calendario familiare, come i compleanni e la vacanze, che danno sapore all’anno. Christopher & Alexander ebbe recensioni non unanimi e per un certo periodo fu omesso dalla filmografia di Murer. Oggi il regista ha inserito il doppio ritratto tra i suoi lavori etnografici e considera Wir Bergler in den Bergen… e Christopher & Alexander come opere complementari.
Murer, padre lui stesso di due ragazzine, si è speso in commoventi e sensibili ritratti di bambini. Nel suo film Christopher & Alexander […] sceglie deliberatamente di non denunciare il ricco ambiente nel quale i due ragazzi sono cresciuti; la sua non è una pellicola sulla lotta di classe. «Non voglio dover fare una dichiarazione di intenti in ogni film», dice. Solidale con i bambini, ha fatto il film per loro, affinché «possano guardarsi indietro e vedere com’erano».
René Bortolani, «Zuri Leu», 15 febbraio 1974
Wir Bergler in den Bergen sind eigentlich nicht schuld, dass wir da sind
t.l.: Non è colpa nostra se siamo montanari
Svizzera, 1974, 16mm, colore, 108’
Soggetto e sceneggiatura: Fredi M. Murer, Jean-Pierre Hoby, Georg Kohler. Fotografia: Iwan P. Schumacher. Montaggio: Fredi M. Murer, Eveline Brombacher. Suono: Luc Yersin. Produzione: Nemo Film AG Zürich, con il supporto della Televisione Svizzera, del Dipartimento Federale degli Interni, di Migros, del Cantone di Uri e altre fondazioni private. Premio di qualità 1975 del Dipartimento Federale degli Interni; Premio FIPRESCI al Festival di Locarno.
In origine il regista voleva trasportare nel presente cinque leggende delle montagne del Cantone di Uri. Ma, dopo oltre sei mesi di ricerca in loco, Murer fu costretto ad ammettere che il vecchio mondo di miti e leggende era praticamente scomparso dalla cultura quotidiana degli svizzeri. Le conversazioni delle persone del luogo si incentrano sui problemi provocati dall’industrializzazione del Cantone montanaro di Uri, per esempio l’emigrazione dei giovani verso i centri urbani. Murer si rese anche conto che non gli interessava girare un film sugli abitanti delle montagne, ma che preferiva la possibilità di dare voce a questa gente – che nel mondo moderno corre sempre più il rischio di non essere ascoltata. Così Wir Bergler in den Bergen… è diventato un film etnografico in tre movimenti, come una sinfonia. I tre movimenti riflettono le tre diverse fasi di sviluppo che coesistono all’interno di questo Cantone di montagna. AGöschenen, ai piedi del Gottardo, a cavallo dell’asse Nord-Sud dell’Europa, l’industrializzazione si è insediata da tempo e quelli che una volta erano contadini e pastori ora lavorano negli uffici e nelle fabbriche. Ma nello Schächtental sopravvive la vecchia economia che ha al centro la famiglia, mentre il paese di Bristen nel Maderanertal è stato sconvolto: la comunità montanara resiste ancora, ma quasi 250 abitanti escono dalla zona ogni giorno per andare a lavorare o a studiare altrove. In Wir Bergler in den Bergen… Murer si trova per la prima volta fuori dal suo terreno familiare del cinéma copain. Il tema e le caratteristiche formali sono gli stessi: come gli artisti e i non conformisti dei film precedenti, i contadini montanari vivono ai margini della società; per quanto rigurda la forma, Wir Bergler in den Bergen… ,
con i suoi sinuosi movimenti di macchina, un montaggio studiato e una intelligente colonna sonora, ha molto in comune con una lunga ballata o una poesia.
Questa volta, Murer ha abbandonato tutti gli espedienti formali e gli effetti che spesso hanno giocato un così importante ruolo nei suoi primi film, spostando lo sguardo su questi montanari, la loro esistenza e i loro problemi. L’atteggiamento di Murer è evidente nel modo in cui ha realizzato il film, e la sua presa di posizione è probabilmente riflessa soprattutto dalla musica che ha usato in singole sequenze – Györgi Ligeti per le immagini della galleria all’inizio, un brano di Prokof’ev nel momento in cui viene citato il disastro di una valanga nella Schächtental e così via… Come documento della Svizzera moderna, il film di Murer ha un grande significato politico e morale. Tra i suoi meriti, non è certo il più piccolo quello di essere una sfida alla credibilità della nostra fin troppo lodata solidarietà federale.
Franz Ulrich, «Zoom», n. 15, 1974
Grauzone
t.l.: La zona grigia
Svizzera, 1979, 16mm, b/n, 99’
Soggetto e sceneggiatura: Fredi M. Murer. Fotografia: Hans Liechti. Musica: Mario Beretta, Beo Oertli. Montaggio: Reiner Trinkler. Scenografia e costumi: Bernhard Sauter. Suono: Florian Eidenbenz. Interpreti: Giovanni Früh (Alfred M.), Olga Piazza (Julia M.), Peter Siegenthaler (il predicatore), Walo Lüönd (guardiano notturno), Janet Haufler (chiaroveggente), Mathias Gnadiger (tassista), Michael Massen (studioso del comportamento), Ernst Stiefel (dirigente d’azienda). Produttore esecutivo: HansUlrich Jordi. Produzione: Nemo Film AG Zürich, con il sostegno del Dipartimento Federale degli Interni, Televisione Svizzera, Televisione Bavarese, Migros, Chiesa Riformata del Cantone di Berna, Cantone di Zurigo, Fondazione Volkart, Banque Populaire Suisse.
Grauzone è il primo lungometraggio di finzione di Fredi M. Murer, che il regista definisce «un finto documentario». L’intera vicenda si svolge nell’arco di un lungo fine settimana. È il «dramma del tempo che scorre», come lo chiama Murer, a determinarne il montaggio. Allontanandosi dal
posto di lavoro il venerdì sera, Alfred M., uno specialista nel collocare «cimici» per una grossa ditta, è testimone di un presunto rapimento. Sulla strada del ritorno a casa, l’autoradio diffonde un annuncio anonimo su una misteriosa epidemia che sta infettando il paese. Acasa, Alfred non dice niente del rapimento a Julia, la moglie, così come le ha sempre nascosto la sua vita segreta. L’annuncio del contagio provoca una crisi in tutto il paese. Per evitare il panico di massa, il Consiglio Federale ordina il silenzio stampa, ma alcune radio pirata continuano a trasmettere informazioni e la maggior parte della popolazione passa il sabato sera chiusa in casa in preda all’ansia. Durante i due giorni successivi, Alfred incontra alcuni personaggi che si difendono contro «l’epidemia». Infine, in un momento onirico, visionario, Alfred scopre di essere già stato contagiato molto tempo prima. Con le sue suggestive immagini in bianco e nero e una ben congegnata e stratificata colonna sonora, Grauzone rappresenta fedelmente il clima di depressione conformista che imperversava in Svizzera prima delle rivolte giovanili degli anni ’80. Nell’opera di Murer, Grauzone si colloca pressappoco tra 2069 e Vollmond e, per quanto riguarda l’aspetto realistico, anticipa in qualche modo lo scandalo sulle intercettazoni che scoppiò in Svizzera dieci anni dopo.
La fiction in Grauzone è così documentarizzata che, come in un palinsesto, si vede l’immagine della Svizzera futura sovrapporsi a quella della Svizzera di oggi. È dunque senza alcun dubbio che si può definire questo film VISIONARIO.
È il cineasta e lui soltanto a dare oggi l’immagine GIUSTA dello stato della nostra società così come sarà. È di nuovo un film sul paesaggio patrio, ma diventato irriconoscibile, è l’utopia che diventa incubo, un’altro modo di porre lo stesso problema: come vivere in questo paese? È raccogliendo suoni nella fabbrica dove lavora a spiare gli altri, registrando il discorso ribelle di un pazzo, ascoltando gli uccelli nella foresta, che Alfred misura il livello della sua oppressione, è facendo esplodere questa parola registrata ma soffocata che egli manifesta la sua rivolta, è nella sua rivolta che ritrova una sorta di felicità e l’armonia con la moglie che rende testimone, in una bella scena di ascolto telefonico, del suo rifiuto di spiare gli altri. Così diventa l’eroe marginale che si costituisce come soggetto per un atto di rivolta e diventa fratello di sangue di altri personaggi del cinema svizzero, che è sempre stato un cinema della marginalità.
Richard Dindo, Quelques idées brouillonnés à propos de deux films de Fredi M. Murer, in Fredi M. Murer, Pro Helvetia, 1980
Höhenfeuer
t.l.: I falò
Svizzera, 1985, 35mm, colore, 117’
Soggetto e sceneggiatura: Fredi M. Murer. Fotografia: Pio Corradi. Musica: Mario Beretta. Montaggio: Helena Gerber. Art director: Bernhard Sauter, Werner Santschi. Scenografia e costumi: Edith Pejer, Greta Roderer. Suono: Florian Eidenbenz. Interpreti: Rolf Illig (il padre), Dorothea Moritz (la madre), Johanna Lier (Belli, la figlia), Thomas Nock (Ragazzo, il figlio sordomuto), Jörg Odermatt (il nonno), Tilli Breidenbach (la nonna).
Produzione: Bernhard Lang AG.
Pardo d’Oro al Festival di Locarno, Hugo di Bronzo al Festival di Chicago.
Il primo abbozzo di Höhenfeuer fu concepito nel 1979, sei anni prima della sua realizzazione, come un episodio di un film sul tema della sessualità che non fu mai girato. Ma, dopo Grauzone, Murer dubitò seriamente di essere in grado di dirigere degli attori, e così prese una pausa dai suoi impegni creativi, si guadagnò da vivere come montatore e seguì un corso di drammaturgia con Lee Strasberg. Un periodo di sei mesi trascorso in Islanda lo ricondusse a uno stato d’animo positivo e, al suo ritorno, ampliò lo spunto fino a trarne un racconto di quindici pagine. Aquell’epoca voleva diventare sceneggiatore ed era sua intenzione ambientare il film nel paesaggio desolato dell’Islanda. Tuttavia, i vincoli finanziari e produttivi lo costrinsero a riportare il progetto in Svizzera e alla fine fu Murer stesso a dirigere il film. Il racconto parla di un rapporto incestuoso in un maso sperduto nelle montagne svizzere appena al di sotto il limite massimo della vegetazione. È qui che il Ragazzo, nato sordomuto e che rimarrà senza nome per tutta la durata del film, vive assieme alla sorella più grande, Belli, al padre e alla madre. La famiglia ha pochi rapporti con il mondo esterno. I suoi componenti non possono mai guardare negli occhi i loro vicini e il tragitto per raggiungere il paese per andare a messa o al mercato significa un viaggio di un giorno a piedi. Il Ragazzo viene spedito dal padre sulla montagna per ripulire il pendio dai massi caduti. Quando Belli va a trovare il fratello in quel luogo isolato, i due diventano amanti. Nella fattoria essi continuano a vivere assieme ai genitori mantenendo segreto il loro amore, finché la gravidanza di Belli non rende la situazione evidente e inevitabile l’epilogo tragico.
Considerare questo film come un semplice dramma contadino sarebbe semplicistico. Non si può ridurlo a una nuova variazione su un tema drammaturgico, per cui una sorta di fato viene a rendere ancora più arcaica una narrazione che si svolge tra il fascino e le costrizioni delle montagne. Certo, il romanzesco si affida qui tanto al carattere d’eccezione di una scenografia (fisica e sociale) che alla descrizione, lenta e attenta, dei rapporti che esistono tra i personaggi. Rapporti in cui la tenerezza non è mai separata dalla rudezza imposta da quel tipo di vita. La tragedia nasce in apparenza dall’isolamento di una famiglia che insiste a vivere aggrappata al fianco di una montagna, in un luogo dove bisogna stare in bilico sui pendii, fare il fieno in posizione scomoda, utilizzare il più piccolo metro quadrato di terra fertile. In questo ambiente dove il ritmo delle stagioni scandisce le attività, una falciatrice a motore, un transistor, un catalogo di vendita per corrispondenza sono veri e propri tesori. Ma la cronaca attenta ai rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e le cose sfuma a favore di una fiction che si basa su un concatenamento di situazioni provocate da un ragazzo muto… considerato un handicappato mentale. Questi, all’interno della marginalità descritta dalla cronaca, rappresenta una marginalità raddoppiata. Egli assume su di sé un rifiuto violento delle norme, compresi i tabù sessuali. Conferisce al film un colore non documentario, e alimenta una poesia selvaggia. Si pone come una fuga dalla realtà, accompagnata da un lirismo che conduce a una soluzione sorprendentemente fantastica. Il gioco sullo spazio, la successione delle sequenze in base a due o tre livelli, orchestrano i momenti del racconto all’interno di una messa in scena ammirevole da ogni punto di vista.
Quello che il film porta con sé sul piano della constatazione semplice e austera corrisponde bene alla volontà di critica sociale, che è una delle basi essenziali del cinema della Svizzera germanofona. In questo film la fiction si sviluppa nel rispetto di una realtà precisa e di un sentimento doloroso delle sue contraddizioni.
Daniel Sauvaget, «La Revue du Cinéma», n. 415, aprile 1986
Sehen mit anderen Augen
t.l.: Visto attraverso occhi altrui Svizzera, 1987, 16mm, colore, 38’
Soggetto e sceneggiatura: Fredi M. Murer. Fotografia: Otmar Schmid. Suono: Florian Eidenbenz. Produzione: Bernhard Lang AG.
Un film informativo sui cani guida e la loro importanza nella vita dei ciechi. Ci vengono presentati cinque non vedenti, ai quali vengono poste delle domande, e vediamo come essi interagiscono con i propri cani guida, nonché ciò che questi significano per loro. La pellicola, girata con la collaborazione della Fondazione Svizzera per l’Addestramento dei Cani Guida, spiega anche come vengono preparati gli animali per questo difficile ruolo, come sono addestrati e come i loro padroni ciechi imparano a gestirli.
Sono i cani a essere al centro del film, con immagini fresche e molto dirette, piuttosto che le persone, alle quali Murer concede lo spazio dovuto, ma le cui situazioni ed esperienze di vita vengono illustrate solo in maniera frammentaria. Il breve incontro con uno studente di teologia, che vediamo mentre si dedica allo sport e all’interno di un’aula universitaria, accenna a ciò che un’analisi più approfondita di queste persone avrebbe potuto svelare. Sehen mit anderen Augen è un documentario solido, onesto e ben strutturato. «Cinéma», n. 33, 1987
Der grüne Berg
t.l.: La montagna verde Svizzera, 1990, 16mm, colore, 128’
Soggetto e sceneggiatura : Fredi M. Murer. Fotografia : Pio Corradi.
Montaggio: Kathrin Pluss. Suono: Tobias Ineichen, Florian Eidenbenz. Produzione: Bernhard Lang AG.
Mentre prepara e gira Höhenfeuer, Fredi M. Murer fa la conoscenza del paesaggio e della gente intorno al Wellenberg, nella zona di Wolfenschiessen, nel Nidwalden. Quando nel 1988 la NAGRA(compagnia nazionale dello smaltimento dei rifiuti nucleari) progetta la costruzione di una discarica permanente di scorie ai piedi del Wellenberg, Murer rimane tanto colpito che, senza neanche pensare a un film, si reca a Nidwalden ogni fine settimana e inizia a parlare con la gente del posto. L’impotenza politica degli agricoltori di Wolfenschiessen fa infuriare Murer a tal punto che, in prospettiva del referendum che si sarebbe tenuto da lì a poco (settembre 1989) sull’iniziativa «Dite no alle centrali nucleari», insieme all’operatore Pio Corradi, decide di girare un «film di
intervento» di circa venti minuti, che diventa poi un documentario di oltre due ore, al quale il regista aggiunge il sottotitolo laconico di «assemblea cinematografica del popolo». Il film offre un luogo di dibattito a esperti, rappresentanti delle autorità politiche, NAGRAe soprattutto alla popolazione locale coinvolta direttamente – le famiglie che hanno vissuto all’ombra del Wellenberg per generazioni e che si vedranno togliere da sotto i piedi la propria terra e i mezzi di sostentamento. Queste persone hanno istituito un gruppo d’azione regionale per resistere al progetto. Nella pellicola di Murer siedono attorno al tavolo nel bar del paese con i bambini vicino, e parlano con grave preoccupazione della radioattività e di Černobyl, di come la povera gente viene derubata dall’industria, dalla tecnologia e dal capitale. Fredi M. Murer ha dedicato Der grüne Berg «ai figli e ai figli dei figli» e mette a confronto gli adulti di oggi e la generazione successiva. Sotto quest’ottica Der grüne Berg ha l’aspetto di uno studio preliminare per Vollmond, che avrebbe girato otto anni dopo.
Negli ultimi decenni, c’è stata una grave mancanza di film documentari svizzeri capaci di fare i conti in maniera convincente con la realtà svizzera contemporanea. Con Der grüne Berg, Fredi M. Murer non ha solo affrontato un argomento molto attuale, ma ha frantumato le barriere tra quello che viene comunemente detto e la verità vera.
Christoph Egger, «NZZ», 1°giugno 1990
Vollmond
t.l.: Luna piena
Svizzera-Germania-Francia, 1998, 35mm, colore, 156’ (versione originale), 126’ (versione per il mercato internazionale)
Soggetto e sceneggiatura: Fredi M. Murer. Fotografia: Pio Corradi, Patrick Lindenmaier. Musica: Mario Beretta. Montaggio : Loredana Cristelli. Scenografia: Tom Meyer. Costumi: Claudia Flütsch. Suono: Henri Maikof. Effetti speciali: Swiss Effects. Interpreti: Hanspeter Müller (ispettore Wasser), Lilo Baur (Irene Escher), Benedict Freitag (Max Escher), MarieBelle Kühn (Emmi), Joseph Scheidegger, Verena Zimmermann, Soraya Gomaa, Max Rüdlinger, Sara Capretti. Produzione: T&C Films, Zürich. Co-produzione: Pandorafilm Colonia, Aréna Films Paris. Grand Prix des Amériques a Montréal.
Passano quasi tredici anni prima che, il 22 maggio 1998, Fredi M. Murer presenti Vollmond, il suo secondo lungometraggio di finzione dopo Höhenfeuer. Il fatto su cui si basa il film è pura invenzione, ma ha anticipato un evento analogo verificatosi alcuni anni dopo per l’orrore della popolazione svizzera. In una notte di luna piena della primavera del 1998, 12 ragazzi di 10 anni spariscono. L’ispettore Wasser, che si è occupato della scomparsa del primo adolescente, Toni Escher, che abitava vicino al lago di Greifen, scopre le vere dimensioni del disastro navigando su internet. Vollmond non potrebbe essere più lontano dall’atmosfera senza tempo di Höhenfeuer. Di impressionante attualità, il film – che fustiga la società come Grauzone lo fece nel 1979 – getta uno sguardo caleidoscopico sulla mainstream della società svizzera. Che tipo di genitori hanno i bambini di oggi e quali sono le loro possibilità di crescere bene negli anni formativi? La domanda più importante, tuttavia – ed è qui che il lato più scettico di Murer si fa di nuovo avanti – è: il mondo in cui vivono i nostri figli è davvero vivibile? Wasser, un detective come spesso vengono descritti nei libri, accetta con impegno e moralità risentita questa sfida che suscita tante perplessità. In Vollmond, Murer impiega una forma di narrazione frammentata, fatta di tanti elementi a incastro, un miscuglio in stile New Age, una caotica contaminazione di generi in cui i destini degli individui si fondono in una grande tragedia. «Vogliamo la terra sulla terra» è lo slogan dei bambini. È stata la figlia di Murer, Sophia, a suggerirgli di girare Vollmond. In seguito al disastro nucleare di Černobyl, chiese al padre di fare «un film su quanto siano pericolosi i grandi». Il regista sa, anche per esperienza personale, che niente spaventa un genitore più di un figlio scomparso: anni fa, infatti, nel bel mezzo di Londra, egli perse di vista l’altra figlia, Sabina, per quindici minuti. Oggi, Murer ricorda quei quindici minuti come il peggior quarto d’ora della sua vita.
Avent’anni di distanza dal suo visionario ritratto di un’era, Grauzone, Murer porta a compimento un’altra grande impresa di saggezza quotidiana, giocata sia sul registro della sincerità che su quello dell’ironia. Questo film onesto e magico, pieno di sviluppi originali e imprevedibili, è insieme utopistico e realistico, svizzero ed europeo, per il modo in cui mette in scena un mondo in cui sono andati persi l’immaginazione infantile, la comprensione e la speranza. Un divertente e sonoro incitamento a liberare la nostra fantasia, a riflettere e reagire.
Rolf Breiner, «Appenzeller Zeitung», 16 marzo 1998
Downtown Switzerland t.l.: id.
Svizzera, 2004, 35mm, colore, 94’
Co-regia: Christian Davi, Stefan Haupt, Kaspar Kasics. Fotografia: Pio Corradi, Jann Erne, Kaspar Kasics, Pierre Mennel, Filip Zunbrunn. Musica: Thomas Korber, Galoppierende Zuversicht, Minimetal & Luxus. Montaggio: Stefan Kälin. Suono: Christian Davi, Jann Erne, Matteo Pellegrini, Lukas Piccolin. Produzione: Fontana Film, eXtra-Film, FMM Film GmbH, Hugofilm GmbH.
Nell’autunno del 2004, Fredi M. Murer, in collaborazione con Christian Davi, Stefan Haupt e Kaspar Kasics, presenta Downtown Switzerland. Non è l’episodio di una serie di film, ma un’opera unica che si propone di offrire un ritratto di una città in cui la metropoli svizzera viene sottoposta a una dura analisi da più punti di vista. Alcune della persone che esprimono le proprie opinioni in Downtown Switzerland fanno uso di aggettivi come «urbano», «splendido», «sontuoso», «cosmopolita», dinamico», «vivace», «divertente» e «multiculturale» per descrivere Zurigo. Ma altri pensano che la città che ospitò Zwingli sia diventata ora un luogo sporco e aggressivo, e raccontano come hanno ormai paura di andare in giro a piedi di notte. Le conversazioni con i residenti, con la gente per strada, con i commercianti, i politici, gli stranieri e le persone nate in Svizzera, i bambini e gli adulti, conduttori di tram, industriali e sociologi ci restituiscono una condizione – politica – che riflette l’orientamento esistenziale delle persone che vivono, lavorano e si divertono a Zurigo. Le interviste sono integrate da viaggi e carrellate attraverso la città.
Si trattava di scoprire la mia città e di soddisfare la mia curiosità. Vivo nel Quartiere Uno, in centro. La mia Zurigo è quello che riesco a coprire a piedi in dieci minuti. Per molti residenti di Zurigo la mia Zurigo è un idillio. Dicono che la vera Zurigo si trova altrove. E allora dov’è? Incuriosito, con la cinepresa ho iniziato a scoprirne le parti al di fuori del raggio delle mie passeggiate. Come abitante del centro, non ho la minima idea di quello che accade nel Quartiere Nove o Undici. Ecco quello che mi ha motivato, con la cinepresa che girava e spinto dalla sola curiosità, a intraprendere spedizioni ai margini di Zurigo – dove ho incontrato la vera Svizzera.
Fredi Murer
Vitus
t.l.: id.
Svizzera, 2006, 35mm, colore, 100’
Soggetto e sceneggiatura: Fredi M. Murer, Peter Luisi, Lukas B. Suter. Fotografia: Pio Corradi. Musica: Mario Beretta, e Alkan, Bach, Balakirev, Czerny, Liszt, Ravel, Scarlatti, Schumann, Tina Turner. Montaggio : Myriam Flury. Costumi: Sabine Murer. Suono: Hugo Poletti. Interpreti: Fabrizio Borsani (Vitus a 6 anni), Teo Gheorghiu (Vitus a 12 anni), Bruno Ganz (il nonno), Julika Jenkins (la madre), Urs Jucker (il padre), Eleni Haupt (Luisa), Kristina Lykova (Isabel a 12 anni), Tamara Scarpellini (Isabel a 19 anni), Daniel Rohr (Hoffmann junior), Norbert Schwientek (Hoffmann senior), Heidy Forster (Gina Fois). Produzione: Vitusfilm GmbH.
Presentato ai festival di Berlino, Montréal, San Sebastian e alla Festa del Cinema di Roma, dove si è aggiudicato il Premio del pubblico nella sezione «Alice nella città».
Vitus è la storia di un’infanzia, la storia di un ragazzo dotato in modo quasi favoloso, per il quale i genitori hanno progettato un grande futuro: vogliono che faccia il pianista. Vent’anni dopo il suo capolavoro universalmente riconosciuto, Höhenfeuer, Fredi M. Murer ancora una volta pone un ragazzo molto particolare al centro di un film: Vitus ha un talento straordinario per la musica e la matematica e le sue ambizioni sono all’altezza. Ma si stanca ben presto del noioso ruolo di bambino prodigio e si rifugia in una doppia vita. Vitus è una storia universale, una dichiarazione d’amore per l’infanzia e la musica, raccontata con ironia e grazia. Il tema centrale – un giovane dotato di talento multiforme che sfida le convenzioni sociali – ne fa un tipico film «alla Murer». «Tutti gli adulti sono stati una volta bambini – anche se pochi lo ricordano», scrive Antoine de Saint-Exupéry nell’introduzione di Il piccolo principe. Murer persegue un’idea simile: la domanda è come si possa mantenere vivo fino all’età adulta il potenziale di ogni bambino. Vitus è una risposta a questa domanda.
Un piccolo miracolo di humour e tenerezza… Malgrado l’argomento possa sembrare realistico, il film non lo è affatto. Per parlare dell’imperativo categorico della performance, della gelosia, del mondo della finanza (perché a un certo punto
Vitus, a dodici anni, sarà il «Fantasma della Borsa», speculatore geniale e temuto dalle grandi banche), Murer ha preferito giocare sulle iperboli, scommettere sulla favola. Burlone come il suo eroe, sa legare a meraviglia gag, annotazioni saporose e sorprese, creando attesa e suspense. Vitus è un film notevole, divertente e molto più profondo della maggioranza di quelle sentenziose pizze che pretendono di spiegare il mondo d’oggi.
Edouard Waintrop, «Libération», 28 settembre 2006
Alexander J. Seiler, Fredi M. Murer und der junge Schweizer Film, «Zürcher Almanach», Zürich-Einsiedeln-Cologne 1968.
BUACHE Freddy, Le Cinéma suisse, Lausanne 1974.
BUACHE Freddy, Trente ans de cinéma suisse, 1965-1995, Paris 1995.
JEANCOLAS, J.P., EGGER M., PERNOD P., «Positif», n. 302, Paris 1986, 1991.
Fredi M. Murer (con saggi di André Cornand, Richard Dindo, Pierre Lachat, Fredi M. Murer, Martin Schlappner, Louis Skorecki), Pro Helvetia Dossier Film, Zürich 1980.
Fredi M. Murer, Pro Helvetia Dossier Cinéma, Zürich 1980 (in francese).
Höhenfeuer, «Ciné Vivant», n. 15, Tokyo 1986 (in giapponese).
GERIG Christian, KELLER Walter, Gespräch mit Fredi M. Murer, Der Alltag 4/5, Zürich 1985.
PEETERS Benoît, FATON Jacques, PIERPONT Phillippe de, Storyboard - Le cinéma dessiné, Brussels 1988.
SCHAUB Martin (a cura di), Fredi M. Murer - «Vollmond» (con saggi di Zoë
Jenny, Albert Kuhn, Fredi M. Murer, Franz Xaver Nager, Louis Skorecki, Martin Schaub, Alexander J. Seiler), Wabern-Bern 1998.
SCHAUB Martin, Die eigenen Angelegenheiten, «Cinéma», n. 29, 1983.
SCHAUB Martin, Film in der Schwiez, Zürich 1997 (edizione inglese: The Swiss Cinema, Zürich 1998).
SCHULER Josef (a cura di), Fredi M. Murer Filmschaffender, Altdorf 1997.
STROMER Klaus (a cura di), Fredi M. Murer - «Höhenfeuer» (con un saggio di Martin Schaub), Zürich 1986.
STUCKI Peter F., «Höhenfeuer», Materialien einer Analyse, Fribourg 1990.
ULRICH Franz, Nachrichten aus einem schweizerischen Entwicklungsgebiet, «Wir Bergler in den Bergen…», «Cinéma», n. 3, 1974.