In copertina: Tullio Kezich nell’insolita veste di presentatore in TV per il ciclo Sui sentieri del west (1965).
Tullio Kezich, il mestiere della scrittura
a cura di Riccardo Costantini e Federico Zecca
k a p l a n
Lo schermo triestino
Progetto di ricerca a cura di Luciano De Giusti
Con la collaborazione di Riccardo Costantini
Federico Zecca
Università degli Studi di Trieste
Facoltà di Scienze della Formazione
Dipartimento di Scienze Geografiche e Storiche
Questo volume viene edito in occasione della retrospettiva dedicata a Tullio
Kezich dalla XIX edizione del Trieste Film Festival (17-24 gennaio 2008)
Con il sostegno di Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
Provincia di Trieste
Fondazione CRTrieste
Alpe Adria Cinema-Trieste Film Festival
Ringraziamenti
Ringraziamo vivamente Tullio Kezich, che ha seguito la preparazione di questo volume fornendo generosamente documenti, informazioni, testi e fotografie.
Un ringraziamento sentito inoltre a:
Giuliano Abate, Massimiliano Bonaccorsi, Andrea Bruscia, Silvio Celli, Piero Colussi, Elisa Cristin, Michele Da Col, Patrizio A. De Mattio, Patrizia Fasolato, Fabio Francione, Daniela Kovacich, “La Contrada Teatro Stabile di Trieste”, Matteo Lena, Francesco Macedonio, Diego Matuchina, Alessandra Venturini, Alessandro Vendraminelli.
Indice
Introduzione
Riccardo Costantini, Federico Zecca – Il mestiere della scrittura
Lorenzo Codelli – If... (Un ricordo fantasioso di Tullio)
Scritti di Tullio Kezich
Italo Svevo, genero letterario raccontato da sua suocera
Fellini. Biografia immaginaria di una coppia di ballerini che forse sono una persona sola
Cinema e architettura
Svevo, D’Annunzio e Pirandello
L’uomo dai cinque volti
Il mio Fellini
Sulla triestinità
Maestri e Amici
Il mio scopritore Giulio Cesare Castello (1921-2003)
Caro Comencini. Vita da artigiano di un artista “incompreso”
Un uomo che non dimenticherò mai. Luigi Chiarini (1900-1975) (Non) ho sposato la Proclemer, ma… Anna Proclemer
Orazio, uomo-città. Orazio Bobbio (1946-2006)
Siamo illirici. Lettera a Enzo Bettiza
In due si scrive meglio?
Mariano Faraguna (1924-2001) Lino Carpinteri
A Portofino con G. Giorgio Strehler (1921-1997)
Appendice
Fondamentale è capirsi e volersi bene
Una lettera di Giorgio Strehler
Luciano De Giusti – Postilla
Apparati
Nota biografica
Autobiografia cronologica
Bibliografia
Teatrografia
TVgrafia
Contributi speciali DVD
Indice dei nomi
Introduzione
Riccardo Costantini e Federico Zecca
Tullio Kezich, il mestiere della scrittura
Incontrandolo nel suo studio romano – un appartamento intero arredato solamente da librerie – Tullio Kezich ebbe modo di dirci, con quel perfetto stile ironico triestino – misto di sarcastico witz e di scanzonato ma profondamente cosciente approccio alla vita – che di tutta la sua produzione, di tutte quelle scaffalature stracolme di suoi testi che lo circondavano, nulla sarebbe restato, a eccezione di poche cose, forse della “biografia felliniana” e delle commedie triestine... Questo libro vuole in qualche modo dimostrare il contrario, offrendosi al lettore da una parte come concentrato di memorie kezichiane (presentando in grande quantità sia testi inediti che altri già pubblicati ma di difficile reperimento), dall’altra, soprattutto, come momento di analisi e approfondimento della produzione di un autore che ha trasformato la vocazione della sua vita, la scrittura, in uno strumento non solo professionalmente evoluto, ma così virtuoso da esprimere contemporaneamente anche la sua personalità e il suo stile. Della scrittura Kezich ha fatto un lasciapassare, una formula alchemica che gli ha consentito di transitare indistintamente (e indenne) fra media, arti e mestieri; una sorta di minimo comune denominatore, costante epifania della sua allegra creatività, impulso quotidiano di attestazione della sua vitalità.
Senza rischio alcuno di iperbole, la produzione intellettuale di Tullio Kezich appare di sconfinata vastit à: qualunque tentativo di razionalizzarne analiticamente i contorni deve fare fronte sia alla sua “lunga durata” (più che sessantennale: il primo intervento pubblico, sulle pagine di « Cinema », è di un Kezich dodicenne! 1) sia alla sua multiforme morfologia (cinematografica, teatrale, letteraria e televisiva). Ma la magmatica varietà dell’opera kezichiana non deve trarre in inganno: dietro la sua eterogeneità
1 Tullio Kersich (sic), nella rubrica di corrispondenza dei lettori Capo di buona speranza, « Cinema », n. 109, 10 gennaio 1941. Questo intervento precede di nove giorni la “segnalazione” fatta da Kezich su « Film », n. 3, 19 gennaio 1941 e giustamente ricordata da Claudio Bisoni nel suo saggio in questo volume come l’inizio “ufficiale” dell’attività critica del nostro.
Tullio Kezich, il mestiere della scrittura
formale è facile rintracciare una serie di costanti stilistiche che manifestano la presenza di un punto di vista unitario.
L’opera kezichiana va inquadrata attraverso focali diverse, per metterne in luce sia la rilevanza artistica che la costanza professionale. Possiamo considerarla come il prodotto di una personalità quasi rinascimentale, precocissima nello sviluppare i suoi mille talenti, capace, come scrive in questo volume Fabio Francione, di dare del “tu” alla Letteratura (si pensi al lungo “dialogo” con Svevo), e di declinare la propria scrittura in forme molteplici, dalla monografia cinematografica al romanzo epistolare, dalla pièce teatrale alla sceneggiatura televisiva, trovandosi in tutte pienamente a suo agio. Oppure, scavalcando con decisione il campo della nostra osservazione, possiamo considerare quest’opera come la ricca messe di un brillante professionista della parola, come l’abbondante raccolto di un pragmatico esponente della moderna intellettualità italiana, capace di orientarsi con agio nel mare mosso dell’industria culturale nostrana, di passare con facilità da un medium all’altro2, di occupare posizioni di indubbio prestigio istituzionale3 e, infine, di raggiungere le vette più alte del mestiere di critico cinematografico, prima su «la Repubblica» e poi sul «Corriere della Sera».
Senza dubbio, l’opera di Tullio Kezich è questo e quello: è un’opera in cui la creatività individuale si associa alla consapevolezza sociologica, in cui la costrizione industriale, più che venir recepita come un dispositivo di impoverimento culturale, viene affrontata, per dirla con Jean Hyppolite, come una “positività storica” con cui fare dialetticamente i conti, con cui negoziare le proprie esigenze comunicative.
Si prenda il caso della “scheda breve”4 , cioè della recensione cinematografica “veloce”, ideata da Kezich per «Panorama» sul finire degli anni ’70. Kezich configura una formula critica innovativa e destinata a un grande successo giornalistico, che coniuga almeno due fattori distinti. Il primo fattore è di carattere espressivo, laddove la “critica veloce”, lungi dal funzionare come semplice comunicazione di servizio, pone all’autore, di volta in volta, una piccola sfida intellettuale da superare non tanto col cesello del
2 Dall’esordio come rumorista e poi come critico cinematografico su Radio Trieste, agli “incarichi speciali” come produttore alla RAI, dal lavoro sul set di Cuori senza frontiere come segretario di produzione, all’esperienza come autore al Teatro di Genova, alle varie riviste per cui ha scritto...
3 Si pensi ai tre anni di collaborazione con Luigi Chiarini alla Mostra del Cinema di Venezia: cfr. Tullio Kezich, Un uomo che non dimenticherò mai. Luigi Chiarini (1900-1975), infra
4 Cfr. Alberto Pezzotta, L’arte della recensione breve, infra
Riccardo Costantini e Federico Zecca
redattore quanto con il bisturi dello scrittore. La brevitas funziona qui sia come uno strumento di economia verbale sia come un motore di ecologia interpretativa: a un nuovo modo di scrivere di cinema, fondato sulla sincope della classica struttura tripartita della recensione (introduzione, trama, giudizio), corrisponde un nuovo modo di parlare di cinema, qui assoggettato a una sorta di “messa in abisso”, in cui ogni elemento riflette l’altro e si riflette sull’altro, e basta concentrarsi su un singolo aspetto per risalire idealmente al trompe l’œil dell’intera costruzione. Il secondo fattore è di carattere sociale: la scheda breve di Kezich riflette e preannuncia il riassetto industriale del giornalismo italiano, che di lì a pochi anni andrà progressivamente restringendo gli spazi dedicati al cinema, e alla critica in particolare, per lasciare campo libero all’iperrealtà televisiva. Kezich non si fa prendere alla sprovvista ma inventa una formula giornalistica al passo col presente, capace contemporaneamente di mettere in risalto la propria soggettività di critico militante e di venire pragmaticamente incontro ai bisogni di un lettore sempre più disorientato dalle nuove dinamiche del consumo audiovisivo. È in questo contesto, in un’epoca in cui i dizionari del cinema non esistevano ancora, che va inquadrata la disposizione kezichiana a raccogliere in volume le schede brevi, a partire dal MilleFilm del ’77. Passando dalla rivista al libro, queste schede cambiano tipo di pubblico e fungono da preziosi strumenti di navigazione in mano al “telenauta”, che le usa per orientarsi nell’offerta filmica della televisione e del nascente home video. Se su «Panorama» le recensioni riflettono la perifericità in cui l’assetto postmoderno del sistema dei media ha spinto il dispositivo cinematografico, raccolte in volume le stesse recensioni manifestano, per contro, la centralità sociale (e commerciale) raggiunta dal cinema in televisione.
La lunga carriera di Kezich è d’altronde punteggiata da un costante interesse critico per il medium televisivo. Fino all’avvento fragoroso dei palinsesti commerciali, che ha recisamente rifiutato, anche spendendosi dall’altra parte della barricata, come illuminato produttore per la RAI, Kezich ha sempre dedicato alla televisione uno sguardo curioso e competente, riconoscendone l’importanza sociale e il valore comunicativo. Interessante è al riguardo un articolo intitolato Cinema e televisione, apparso su «Sipario» nel giugno 1960, in cui l’autore fa i conti con il nuovo fenomeno del film per la televisione. Kezich studia anzitutto il riflesso avuto da questo tipo di film sull’industria cinematografica, che a suo avviso si vede danneggiata nel settore intermedio della produzione d’intrattenimento commerciale, e si concentra poi su tre lungometraggi (La terza voce di Hubert Cornfield, I piaceri del sabato sera di Daniele D’Anza e I trentanove scalini di Ralph Thomas), girati da registi televisivi alla
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loro prima prova per il grande schermo. Kezich indaga la “televisività” di questi film (centratura su un personaggio unico, scarnificazione narrativa, scioglimento finale «secco e violento») e afferma che l’«amplificazione cinematografica» a cui sono sottoposti gli fornisce «il pregio di uno stile».
Ma la posizione kezichiana sul rapporto cinema-televisione è a ben vedere molto più sfaccettata. Nella chiusura dello stesso articolo egli afferma che: «Cinema o TV, anche nel campo del puro intrattenimento, è il tono che fa la canzone. Ciò che conta, in definitiva, è la personalità dietro la macchina da presa o alla telecamera. Artista o artigiano, tutto dipende da lui». Per Kezich il “medium non fa il messaggio”, ma lo fa la capacità del regista di manipolare le potenzialità linguistiche del mezzo, in vista delle proprie esigenze espressive, artigianali o artistiche che siano. Non dobbiamo dunque stupirci se nel 1964 Kezich produrrà per la “22 dicembre” la prima serie televisiva di Roberto Rossellini, L’età del ferro, che tanto scandalo scatenerà fra i puristi del grande schermo.
La dialettica fra creativit à individuale e consapevolezza sociologica, che ravvisiamo essere un elemento essenziale della fortuna professionale di Kezich, fa da fondamento alla sua attività di critico cinematografico. Kezich si libera piuttosto velocemente dall’influenza di Guido Aristarco, con cui aveva cominciato a collaborare nel 1950, ai tempi di «Cinema», e che aveva seguito nell’avventura di «Cinema Nuovo». Accusato di aver dato troppo spazio al cinema americano durante la gestione “autonoma” della rivista 5, l’abbandona nel ’54, un anno dopo la sua fondazione (a cui pure aveva preso parte). Ci sembra importante sottolinearne la data, poiché di due anni precedente al ’56, quando i fatti di Ungheria impongono l’ammorbidimento dell’ortodossia zdanovista anche nella critica cinematografica. Il progressivo superamento dello zdanovismo permette la nascita di un nuovo modo di rapportarsi al cinema, «sostanzialmente indifferente ai diktat ideologici» e mosso «dalla curiosità pragmatica», come scrive Claudio Bisoni nel suo contributo a questo volume. Un modo che Kezich ha già abbracciato in tempi non sospetti, ancor prima di lasciare la rivista aristarchiana e di passare a «Settimo Giorno», e che gli permette di rapportarsi con più agio ai suoi interessi precipui, uno su tutti Il western maggiorenne (volume antologico e pionieristico nel suo essere internazionale, già quasi pronto nel ’49 ma licenziato solo nel ’53), e di giudicare con minor parzialità di altri l’evoluzione del cinema italiano (si pensi ai suoi lungimiranti giudizi su Fellini, Antonioni o sul “nuovo cinema italiano” degli anni Sessanta).
5 Dovuta all’incarcerazione di Aristarco e Renzo Renzi per vilipendio dell’esercito a seguito della pubblicazione su «Cinema Nuovo» del soggetto L’armata Sagapò
Riccardo Costantini e Federico Zecca
Kezich non si lascia dunque imbrigliare da rigidi schemi intellettuali e supera le polarizzazioni politiche che contrappongono il cinema hollywoodiano al cinema d’autore, il cinema neorealista al cinema popolare – e di cui anch’egli, all’inizio della sua carriera, era stato vittima6 . Nel far ciò, non rinuncia a ogni forma di impegno critico, ma ne sviluppa uno suo proprio, di ascendenza in un certo senso più deontologica che politica, poiché basato più sulla trasparenza di uno sguardo verso il film al tempo stesso «connivente e spietato» che su un punto di vista precostituito da reimpiegare alla bisogna, guardando il film come un oggetto con cui dialogare, sul quale meditare e trovare il coraggio di «avanzare delle ipotesi» (come egli stesso ha scritto nell’autoironico L’uomo dai cinque volti, pubblicato in questo volume).
Non a caso, la “visione immediata” di cui Kezich è fautore, fisiologicamente poco incline a piegarsi alle mode giornalistiche e alle speculazioni teoriche, reagisce con evidente scetticismo di fronte alla politique des auteurs, di cui non apprezza né la normatività estetica né l’idealismo autorialista, arrivando a sostenere che un giudizio dato senza conoscere il regista e la sua poetica è forse più veritiero di uno steso sulla base di un coeso sapere pregresso. Leggendo gli articoli apparsi su «Sipario» nei primi anni Sessanta, appare chiaro come Kezich non manifesti grande considerazione per la “critica fondatrice” e autoriale dei “giovani turchi” dei «Cahiers du Cinéma», che tende a considerare più come un fenomeno generazionale che come un movimento intellettuale. In un articolo dedicato a Cavalcarono insieme di John Ford e intitolato Il mestiere è in crisi («Sipario», novembre 1961), Kezich sottolinea l’importanza sociale e quasi pedagogica della nozione di “autore” (come ideale a cui il giovane cineasta deve tendere), ma rifiuta recisamente, all’opposto della critica d’oltralpe, di applicarla all’oramai anziano regista, che definisce «un artista che non è mai riuscito a nascondere l’uomo di mestiere». Come già attestato dalla precedente monografia dedicata a John Ford ( John Ford, 1958), Kezich non vuole o può ricostruire una coerenza autoriale nella sua filmografia, uno stile unitario che, sul modello dell’Hitchcock di Chabrol e Rohmer, ne sussuma tutta l’opera. E proprio John Ford è un saggio emblematico della scrittura critica kezichiana, in quanto ne manifesta tutte le principali caratteristiche7. In John Ford, più che la puntigliosa disamina iniziale del milieu hollywoodiano, colpisce anzitutto l’attenzione rivolta al contesto storico e sociale di rice-
6 Cfr. Tullio Kezich, Un uomo che non dimenticherò mai, op. cit., infra.
7 Cfr. Claudio G. Fava, Il “sorriso” del grande tentatore. Kezich e il western, infra
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zione (italiana). Kezich ricostruisce le fruizioni originarie e le confronta a quelle successive, ritrovando nello slittamento interpretativo che le separa il segno della densità significante del film analizzato. Se nel ’40, al momento della sua uscita in Italia, di Ombre rosse vennero apprezzati, in un’ottica “calligrafica”, soprattutto i «notevoli valori stilistici» e il suo «carattere puramente cinematografico», al momento di stendere il saggio, una ventina di anni dopo, Kezich reputa importante dedicarsi in prima istanza alla dimensione tematica (fondata a suo avviso su una dialettica fra biblico misticismo e laica vitalità), poiché del film vuole mettere in risalto la ricchezza concettuale e tentare di nobilitarlo agli occhi di chi, all’epoca, storceva la bocca a sentir parlare di “generi”.
Ma John Ford si fa apprezzare per almeno altre due caratteristiche rilevanti, in parte correlate: l’accurata indagine dei riferimenti culturali presenti nella filmografia del regista e la puntigliosa disamina di tutti gli elementi che compongono i film. «L’ariosità e la naturalezza dei rimandi – afferma Nuccio Lodato in questo volume – mettono in connessione la cultura del film […] a quella della critica delle altre arti». Kezich non è interessato allo sfoggio di cultura fine a se stesso: “marca” stretto il film per carpirne i riferimenti (cinematografici, letterari, teatrali, pittorici ecc.) funzionali alla sua interpretazione. Nell’analisi di Ombre rosse gli elementi più disparati (Western-story e Remington, Horse Opera e Vangelo, ballate country e canti popolari) vengono reperiti e catalogati dal suo attento sguardo entomologico, che a ognuno affida spazio e valore. Sotto il suo occhio, il film diviene uno “snodo culturale”, un luogo in cui materiali eterogenei si condensano per dare forma a un oggetto comunicativo complesso ma coeso: sceneggiatura, fotografia, scenografia, costumi e recitazione, ricevono da Kezich un’attenta valutazione che ne mette in risalto il ruolo specifico nella costruzione del film.
Un approccio diremmo filmologico, dove il testo filmico è sempre l’oggetto principe da cui partire, per arrivare a una critica che è però frutto anche di una costante mediazione con la memoria, con il vissuto personale del recensore: il gusto per l’aneddoto, per il ricordo “colorato”, per la testimonianza, figli di un sapere unico perché vissuto direttamente sul campo, fanno della trasversale produzione critica kezichiana un modello unico e inimitato, cosa che probabilmente ne ha garantito il successo e la conseguente longevità culturale. Per il lettore, scorrendo le pagine di Kezich, anche quando gli capita di non condividere le sue opinioni, c’è sempre la sensazione di trovarsi in sala seduto al suo fianco, in una lettura che è piana, scorrevole, che ha la rarissima qualità di essere sempre semplice ma mai scontata, e che proprio
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nel suo essere diretta sorprende non appena apre all’enciclopedia kezichiana, al sapere sterminato che è tratto distintivo del critico triestino. Da un singolo elemento presente nel film, Kezich può accedere al suo densissimo archivio di esperienze, citando ora una particolare avventura avvenuta sul set, ora qualche retroscena produttivo sconosciuto, o ancora qualcosa che possono cogliere solo gli occhi del critico che ha una «conoscenza diretta del cinema», costruita sul campo vivendo fianco a fianco coi registi, come ricorda Francesco Rosi nel suo contributo a questo volume.
Tutta la sua carriera in ambito cinematografico è stata del resto intessuta su grandi amicizie e rapporti creativi/artistici costanti, sui quali lo stesso Kezich ha influito o da essi è stato a sua volta influenzato. La sezione Maestri e Amici di questo volume è testimonianza di alcuni di questi rapporti – selezionati in base alla loro significatività nell’evoluzione della carriera di Kezich – , ma anche se facessimo un elenco a essa complementare, faremmo di sicuro qualche torto, dimenticando nomi importanti e necessari. Senza ombra di dubbio però alcuni rapporti in particolare vanno ricordati, se non altro per il lungo arco temporale che hanno ricoperto: in primis e più di tutti Fellini (di cui parla Marcello Monaldi in questo volume), non solo per quanto rappresentava in sé per sé, ma per la quantità di persone che gli gravitavano attorno e per il fatto quindi di aver costituito una sorta di tramite costante per l’ampliamento di conoscenze significative per Kezich, ma non si possono trascurare Rosi, in particolare per aver condiviso con il critico un approccio “socialmente etico” al cinema, e ovviamente Ermanno Olmi, compagno di viaggio nell’avventura produttiva, ma anche punto fermo di un dialogo costante sulla qualità del cinema, senza dimenticare Suso Cecchi d’Amico, musa italiana della scrittura per il cinema e amica stretta del nostro. Le pagine di Kezich, le sue storie, la sua critica, passano attraverso il filtro difficilmente analizzabile di conversazioni e confronti costanti, talvolta anche accesi, con questi maestri (e amici) assoluti, che si riverberano insieme al dato autobiografico-esperienziale in molta della sua produzione.
L’approccio critico di Kezich, pur intriso di “sale” personale e biografico, tende comunque a coniugare “costruttivismo” e culturalismo. Di fronte a un’opera cinematografica concepita come un complesso mosaico di tasselli dissimili, è il contesto che fornisce al critico la giusta prospettiva d’analisi e giudizio. Al riguardo, ci sembra di particolare rilevanza il riferimento a Jakob Burchkardt (padre della storia culturale classica) nell’Introduzione a Una giornata particolare, scritta da Kezich insieme ad Alessandra Levantesi: «La considerazione approfondita di un fatto d’arte dovrebbe comportare,
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come operazione preliminare al giudizio di valore, lo studio di quella che Jakob Burchkardt chiamava l’historia altera. Ovvero l’insieme delle situazioni ambientali, concrete e pratiche in cui nasce, matura e si precisa l’opera».
L’attenzione di Kezich per il contesto non è determinante solo nell’ambito specifico della recensione critica ma si ravvisa anche in altri generi giornalistici, come l’intervista, il reportage o l’articolo di costume. Nel “viaggio” nel cinema italiano compiuto fra il ’59 e il ’61 per il settimanale «Settimo Giorno» di Pietro Bianchi (e poi raccolto nel volume Primavera a Cinecittà. Il cinema italiano alla svolta della “Dolce vita” ), Kezich ricostruisce la fisionomia dell’industria cinematografica dell’epoca, ne incontra i protagonisti principali ( Visconti, Lattuada, Fellini ecc.) e ne mette in luce non solo le peculiarità estetiche, ma anche le problematiche strutturali: quadro legale, finanziamenti pubblici, influenze politiche, censura 8 Questi articoli di «Settimo Giorno» ci paiono interessanti anche perché mettono in luce il dinamismo giornalistico di Kezich. La sua scrittura, così appassionatamente severa in altri casi, si fa qui affettuosa e ammiccante, tesa a volte a ipotecare la dimensione più strettamente informativa, per far risaltare l’appartenenza al gruppo, la comune identità all’ambiente. L’immagine che ne deriva non è quella dell’inviato pronto a carpire, dall’esterno, qualunque informazione, ma quella del rappresentante “eletto” dalla comunità dei cineasti, consapevole sia di quale corda pizzicare per sollecitare una risposta dall’illustre intervistato sia di cosa passare sotto silenzio. Come scrive Valentina Re a proposito del Kezich prefatore allografo, «l’io di Kezich è un “io” che […] tende costantemente a farsi “noi”, a mettersi in relazione con […] un clima, una passione, un’idea di cinema»; un “noi” che è nello stesso tempo “esclusivo”, in quanto «fondato su un’appartenenza che ha un fondamento e dei vincoli storici», e “inclusivo”, poiché fa del lettore un osservatore privilegiato di quanto va esplorando. Dicevamo sopra che Kezich è sempre rifuggito da una concezione “fondatrice” della critica, intenta a indicare al cinema la via di un ideale estetico che essa stessa ha posto in essere, preferendole di gran lunga una visione personale e accorata, scevra da qualsiasi preinvestimento ideologico o metodologico. A ben vedere, potremmo dire che la tensione “fondatrice” di Kezich si è declinata in altre (e meno velleitarie) forme: nel suo lavoro di produttore (e autore) cinematografico e televisivo. Con la “22 dicembre”, “società editoriale cinematografica” fondata sul finire
8 Cfr. Roy Menarini, Il “filmkezich”. Riflessioni sul metodo e sulla scrittura critica di Tullio Kezich infra.
Riccardo Costantini e Federico Zecca
del 1961 insieme a Ermanno Olmi, Kezich ha modo di manifestare le sue capacità di talent scout (è sua la “scoperta” di Lina Wertmüller e dei suoi Basilischi, come racconta lei stessa in questo volume) e di impegnarsi per la realizzazione di un cinema diverso, fuori dagli schemi produttivi dell’epoca (Il terrorista, esordio cinematografico di Gianfranco De Bosio), crudo e a momenti crudele, disincantato nel rappresentare, senza alcuna mediazione di genere, la societ à italiana del dopo boom, spigolosa nei tratti e angosciosa negli umori (La rimpatriata di Damiano Damiani, Una storia milanese di Eriprando Visconti). Come scrive Simone Venturini nel suo contributo a questo volume, nei film prodotti dalla “22 dicembre” si intravede «una forte tensione verso un’elaborazione critica e in un certo modo disillusa della realtà a partire da un substrato realista».
Affermavamo prima che Kezich ha proiettato sulla televisione un punto di vista attento e competente, lontano dalle “infiammazioni apocalittiche” di molti suoi colleghi. In realtà, parallelamente all’interesse critico, Kezich ha allacciato con il medium televisivo una lunghissima collaborazione, cominciata nel 1962 e durata quasi trent’anni. Lanciare uno sguardo a questa produzione, significa incappare ancora una volta nella flessibilità “intermediale” del suo ingegno e nella varietà delle sue posizioni intellettuali. Nel suo lavoro di autore televisivo, non sempre accreditato, Kezich accorda il suo interesse per il “prodotto di qualità”, dai robusti valori estetici e culturali, alla vocazione “educativa” della RAI dell’epoca, ancora legata a quella che Fausto Colombo ha definito la “strategia pedagogizzante”9 , intenta a proporre a tutti i ceti sociali prodotti di “alta cultura” riservata in genere alle élite intellettuali. Ciò è evidente se si considerano le importanti trasposizioni sveviane di Una burla riuscita (1962) e de La coscienza di Zeno (1966), capaci di regalare allo scrittore triestino una popolarit à che mai aveva avuto; oppure se si guarda al teatro-inchiesta de Il caso Fuchs. Una spia del nostro tempo (1966), teso a esplorare in modo molto personale un fatto di scottante attualit à geopolitica attraverso un genere molto innovativo per la televisione dell’epoca; o ancora se ci si interessa a film per il piccolo schermo quali Il bracconiere (1968) o I recuperanti (1969), scritti da Kezich insieme a Mario Rigoni Stern e girati l’uno da Eriprando Visconti, l’altro da Olmi. Come produttore televisivo, incarico svolto dal ’67 al ’69 nella sede milanese della RAI e dal 1970 al 1985 in quella romana, la posizione di Kezich è più sfaccettata, in quanto tende a coniugare opere di squisita ascendenza artistica – San Michele aveva un gallo di Paolo e Vittorio Taviani (1972), La
9 Cfr. Fausto Colombo, La cultura sottile, Bompiani, Milano, 1998.
Tullio Kezich, il mestiere della scrittura
rosa rossa di Franco Giraldi (1974) – a produzioni di più ampio intrattenimento “nazional-popolare”, come la serie Processi a porte aperte (1968), di cui scrive anche alcuni episodi (Il barone dei diamanti, Io difendo Elvira Sharney, Un delitto d’amore) con lo pseudonimo di Giovanni Vallon, basata sulla fusione di cronaca e giallo investigativo e capostipite di un genere di grande successo commerciale. A ben vedere, la sfaccettata posizione kezichiana riceve la sua migliore illustrazione nel 1976, quando la seconda rete trasmette due miniserie in cui Kezich ha svolto il ruolo (non accreditato) di delegato alla produzione: Il lungo viaggio di Giraldi, da tre racconti dostoevskijani, e Sandokan di Sergio Sollima, dai romanzi di Salgari. Tanto misconosciuta la prima, quanto acclamata la seconda, possiamo considerale come le perfette rappresentanti del duplice spirito della produzione kezichiana, interessata, da un lato, a dotare Dostoevskij di valore intrattenitivo e, dall’altro, a fornire a Salgari uno statuto culturale, restituendogli televisivamente la popolarità che aveva su carta.
Ben più che il cinema o la televisione, i campi in cui Kezich ha potuto mettere in luce il suo spessore di artista sono il teatro e la letteratura. Tanto più se si considera che i “Nastri d’argento” conquistati per le sceneggiature di Venga a prendere il caff è da noi di Albero Lattuada e de La leggenda del Santo bevitore di Olmi, sono rubricati da Kezich a vittorie “veniali” che, considerate le radicali modifiche apportate dai registi durante le riprese, non rendono conto della sua personalità di autore, come invece fanno i suoi lavori teatrali o letterari. Il teatro kezichiano, pur nella sua estrema varietà10 , colpisce anzitutto per la sua compattezza stilistica. A partire dagli esordi genovesi degli anni Sessanta11, l’attività di Kezich ha declinato una serie di costanti drammaturgiche, ravvisabili sia nelle trasposizioni di ipotesti letterari (come La coscienza di Zeno, Bouvard e Pécuchet, Il fu Mattia Pascal ) che nelle opere originali (come W Bresci, Il Vittoriale degli italiani, Il sosia). A titolo informativo si ricorda come in una produzione vasta ed eterogenea vi siano anche alcuni progetti ideati, scritti, ma non realizzati, e che meriterebbero forse un recupero: Lo stanzone, pubblicato su «Sipario» ma mai portato in palcoscenico12 , un Picasso scritto per Anthony Quinn e un Ritorno di Casanova su commissione di Marcello Mastroianni (poi realizzato in altra versione per Giorgio Albertazzi).
Tornando agli spettacoli realizzati, per ciò che concerne le modalità di
10 Cfr. Maria Pia Pagani, Arlecchino, cantine & Co. Pagine teatrali di Tullio Kezich, infra.
11 Cfr. Maurizio Giammusso, Kezich a Genova, i romanzi in palcoscenico, infra
12 Cfr. Giovanni Vallon (a cura di), Dai settimanali alla televisione. Intervista a Tullio Kezich, infra
Riccardo Costantini e Federico Zecca
trasposizione teatrale, ci sembra interessante sottolineare il fatto che Kezich importi dal cinema alcuni procedimenti espressivi. In Una burla riuscita, per esempio, l’utilizzo di “tecniche cinematografiche” rende possibile attualizzare la dimensione psicologica del racconto sveviano. Kezich riesce a tradurre con fluidità e leggerezza un testo a prima vista molto lontano da qualsiasi allure teatrale, poiché quasi scevro di dialogo, robustamente ancorato al discorso indiretto e a una voce introspettiva conchiusa in sé o tesa a brevi “estroversioni” di carattere descrittivo. Come nel caso della trasposizione de La coscienza di Zeno (1964)13, è la dimensione ironica a essere magnificata in rapporto all’ipotesto narrativo. In entrambi i casi, la struttura drammaturgica duplica gli spazi e moltiplica i tempi, secondo un meccanismo assimilabile a quello del montaggio parallelo o del flashback sovraimposto di ascendenza filmica. Queste tecniche cinematografiche, ampiamente utilizzate dall’autore nelle prove successive (si pensi per esempio a Bouvard e Pécuchet, interamente articolato in un unico flashback), derivano in parte anche dalle esperienze televisive kezichiane, a partire da quella iniziale del ’62 (proprio con Una burla riuscita). La doppia trasposizione che si è trovato a dover operare (dal racconto alla scena e dalla scena allo schermo) ha senza dubbio arricchito le sue possibilità di scrittura. Il percorso teatrale di Kezich è fondato tout court su quattro opposizioni tematiche, strettamente connesse le une alle altre da un gioco di continue rifrazioni interne: biografismo/autobiografismo, realt à/finzione, passato/ presente, memoria/invenzione. L’ultimo carnevàl (2002) o Il sosia (2006), fra le opere più complesse del teatro kezichiano, sono in questo senso emblematiche: L’ultimo carnevàl mette in scena uno stralcio di un’ipotetica “biografia apocrifa” sveviana, Il sosia è invece una “commedia nera” dedicata a Michail Gelovani, l’attore georgiano scelto da Stalin come suo sosia, proiettato da Kezich in uno scenario spionistico. In entrambi i casi, l’incapsulamento di invenzione biografica e finzione scenica produce l’implosione dell’effetto di realtà della rappresentazione, poiché la biografia è già finzione, come la rappresentazione si premura di sottolineare. In altri casi, come Mémoires da Carlo Goldoni (2004), scritto insieme a Maurizio Scaparro e sul quale aveva lavorato per molti anni con Giorgio Strehler, la dissezione del nodo realt à/ finzione associa la riflessione metateatrale all’elegia esistenziale: la messa in scena si concentra su un soggetto afflitto dalla propria memoria e incapace di saturare lo scollamento fra passato e presente.
W Bresci (1971), prima opera teatrale kezichiana originale, è interpre-
13 Cfr. Cecilia Serradimigni, Cinque tecniche di “degustazione” sveviana, infra.
Tullio Kezich, il mestiere della scrittura
tabile come la messa in scena di una “ detection al contrario”: l’omicidio di Umberto I a opera dell’anarchico Bresci non pone in essere un tentativo di scoprire il passato dell’uomo e di ricostruire la sua biografia, per spiegarne l’operato presente, bensì quello di cancellare il suo passato e di reinventare la sua biografia, per mistificarne l’azione compiuta. W Bresci contrappone l’immobilismo dei giornali, che non si preoccupano di ricercare la verità accontentandosi di scrivere sotto dettatura politica, al dinamismo dei teatri, che ricostruiscono invece la “finzione della verità”, quella più acconcia a diventare pubblica (e dunque “reale”).
Nella trilogia triestina (L’americano di San Giacomo, Un nido di memorie, I ragazzi di Trieste), queste tematiche, a partire da quella della memoria, si legano strettamente all’esperienza autobiografica dell’autore, ripercorrendo gli avvenimenti accaduti a Trieste tra il 1940 e il 194914. In queste opere, Kezich trasforma in finzione scenica il proprio vissuto personale e utilizza la propria memoria come strumento per scandagliare il passato storico della città, attraverso un procedimento che ritroviamo anche nella sua produzione letteraria (a partire da Il Campeggio di Duttogliano).
Kezich si è sempre schermito di fronte alla possibilità di essere considerato uno scrittore tout court, definendosi piuttosto «uno scrivente», lasciando a questo termine la capacità suggestiva di far pensare a un mestiere fatto sì con la stessa penna di un romanziere, ma con la dedizione meticolosa e organizzata propria di un artigiano, più che di un artista che mette in campo la sua poetica. Con il suo tipico understatement – «Mi sono limitato a sfiorare la superficie degli eventi e a manipolare i ricordi infiorettandoli con un po’ di fantasia. Non dico che me ne pento, ma non posso neanche menarne un vanto particolare»15 – ha minimizzato forse eccessivamente riguardo alle sue reali capacit à letterarie.
Al contrario, molta critica ha riscontrato come la vocazione kezichiana più pura sia proprio la pagina romanzesca, quasi come se il talento innato del nostro fosse proprio quello dello scrittore16 . Questa particolare dote si è infatti trasfusa in ogni ambito di applicazione dell’attività di Kezich: di fronte alla sua più unica che rara, perché ininterrotta, carriera di critico militante su supporti mediali differenti non si può non ravvisare come ogni sua pagina abbia un respiro che supera i confini della gabbia giornalistica che la delimita, mescolando un enciclopedico e artisticamente trasversale sapere (cinema ovviamente, ma anche letteratura, teatro, musica, pittura...)
14 Cfr. Paolo Quazzolo, Il teatro dialettale di Tullio Kezich, infra.
15 Tullio Kezich, L’uomo dai cinque volti, infra
16 Cfr. Callisto Cosulich, Appunti su un critico scrittore, infra
Riccardo Costantini e Federico Zecca
a un tratto autobiografico che ne è cifra stilistica, costante, come la sua scrittura, in ogni suo testo.
Se la sua prima fatica letteraria, Il campeggio di Duttogliano (1959), e l’ultima, il romanzo epistolare Una notte terribile e confusa (2006), nascono direttamente dal vissuto personale di Kezich, la raccolta di racconti L’uomo di sfiducia (1962) è frutto della rutilante vitalità dell’ambiente cinematografico degli anni Sessanta. I primi due rappresentano un ritorno a Trieste (il famoso “elastico”, che costringe tutti i triestini prima o poi, con la memoria o fisicamente, a tornare alla propria città), alle sue atmosfere letterarie mitteleuropee, intrise di malinconica ma vitale coscienza dell’esistere. Scritti strizzando l’occhio al Bildungsroman di tradizione germanica, raccontati entrambi da narratori coinvolti nella diegesi, rivolgendosi il primo all’adolescenza del giovane Kezich e il secondo alla sua matura giovinezza (pur includendo parti senili, che rimandano a un narratore onnisciente contemporaneo), ci offrono una visione d’insieme della sua vita triestina, cogliendo in particolare nel primo l’esperienza di vivere in un’epoca di forti e rapidi cambiamenti, nel secondo il dinamismo vitalistico, carico di suggestioni bohemién, del “ragazzo di Trieste” immediatamente dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Come scrive Elvio Guagnini nel suo contributo a questo volume, quella di Kezich è un’operazione compiuta per «riappropriarsi del tempo perduto (da poco o da molto) occupando lo spazio della memoria». L’uomo di sfiducia, invece, concretizza per l’autore triestino l’esigenza di «proseguire il diario de La dolce vita senza più l’obbligo di riferire gli eventi con esattezza»17, diventando l’occasione per manifestare letterariamente la sua fantasia. Usciti in successione fra il 1961 e il 1966 su riviste differenti – peraltro accolti freddamente da quegli stessi ambienti cinematografici di cui erano figli –, concretizzati in forma libresca temporaneamente nel 1962 per Bompiani e riuniti sempre per la stessa editrice recentemente, sono una serie di racconti gradevoli, intrisi di ironia, in cui Kezich fa un curioso gioco di sovrapposizione fantastica all’interno della sua memoria: personaggi diversi, da Marcello Mastroianni a Broderick Crawford, da Elio Petri a Renato Salvatori, si fondono in “tipi”, professionisti diversi del mondo cinematografico, protagonisti dei racconti sempre sconfitti esistenzialmente, che appaiono come un concentrato di più volti e stereotipi del cinema vissuto allora da Kezich sul campo, quel cinema che «è come una specie di contagio»18. L’impianto narrativo è così ben strutturato che imme-
17 Tullio Kezich, Un referto fantasticato. Contributo alla critica di me stesso, in Tullio Kezich, L’uomo di sfiducia, Bompiani, Roma, 2005, p. 265.
18 Cfr. una nota del 1963 tratta dal diario di Tullio Kezich, ora in Tullio Kezich, Un referto fantasticato..., op. cit.
Tullio Kezich, il mestiere della scrittura
diatamente si ha la sensazione di trovarsi davanti a un testo che è pronto per essere trasposto sullo schermo, con uno stile di scrittura che sembra essere pensato “per il cinema”, ma non è di per sé squisitamente cinematografico (per esempio non c’è un grande utilizzo del discorso diretto).
Senza la dovuta citazione e il conseguente riconoscimento formale, lo stesso Maestro dell’onirico e della memoria fantasticata, Fellini, ebbe a ispirarsi – cosa ormai acclarata e innegabile – al racconto di Kezich Il divo per girare il suo Toby Dammit, testimoniando, pur nell’ingratitudine del celare i debiti dell’operazione, le qualit à quasi “visive” della parola scritta kezichiana.
L’esercizio di ricostruzione fantasticata della propria memoria e del proprio vissuto si concretizza per Kezich in un’altra opera, fino a oggi inedita e pubblicata per la prima volta in questo volume, quale il “balletto” Fellini. Biografia immaginaria di una coppia di ballerini che forse sono una persona sola. In questa “Azione coreografica in due tempi”, che ha avuto la sua unica concretizzazione nella diretta televisiva su RAI Due nel 1994, Kezich mette in campo, quasi scorrendo la filmografia del regista riminese, un percorso “lunare”, dove i protagonisti, uomo e donna che restano innominati, si muovono a lievi balzi in un territorio distante e onirico, immerso in un’aria rarefatta dove i ballerini si attraggono e respingono come animati da forze pure e oscillatorie. Il risultato è per lo spettatore, e ora anche per il lettore, «Un déjà vu mai visto prima»19, cioè un testo che, come nei desideri dell’autore, fa ritornare alla mente topoi felliniani (lo spettacolo di Luci del varietà, il circo di Zampanò, i balli di Ginger e Fred, la Saraghina e la spiaggia di 8 ½, la Roma de La dolce vita ma anche quella moderna, i gerarchi di Amarcord, le paturnie di Giulietta ecc.) ma senza richiamarli direttamente, evitando la copia e l’imitazione. Si tratta di un’originale operazione in cui vari livelli testuali si sovrappongono dando al tutto quell’atmosfera sognante: c’è Fellini, ci sono i suoi film, ma c’è anche uno spettacolo coreografico coeso e godibile, omaggio retrospettivo post mortem al mondo felliniano ma che da esso può essere in parte indipendente. La veicolazione televisiva del “balletto” ne ha forse rappresentato la collocazione più naturale, offrendosi allo spettatore domestico come un viaggio indiretto fra luoghi visivi frequentati e conosciuti ai più anche grazie al tubo catodico. Giacendo da tempo nelle invisibili memorie degli archivi televisivi pubblici, a distanza di anni, una ripresa teatrale del “balletto” sarebbe ora davvero auspicabile.
19 Tullio Kezich, Fellini. Biografia immaginaria di una coppia di ballerini che forse sono una persona sola, infra.
Riccardo Costantini e Federico Zecca
Già si è detto più sopra del rapporto con Fellini, ma non si possono qui trascurare, attraversando la produzione letteraria di Kezich, le grandi monografie da lui dedicate al regista, anche in virtù del fatto che costituiscono, insieme ai testi dedicati a Salvatore Giuliano e a Dino De Laurentiis (lo stesso Ermanno Olmi, nella sua testimonianza in questo volume, ne ricorda l'importanza), degli autentici “romanzi della memoria”, dove le rigidità della biografia o del diario intesi come generi svaniscono dissolvendosi nella pagina ariosa del racconto godibile e fluido. Invariante della sua produzione, la pagina di Kezich è, come nei libri più propriamente letterari, ritmata, scorrevole, e la lettura si fa entusiasmante e autoalimentante come davanti a un buon romanzo.
I diari La dolce vita (1960) e Salvatore Giuliano (1961), ci appaiono oggi come testi chiave per comprendere il lavoro di Kezich, nonché per avere un articolato affresco del cinema dell’epoca. Di giorno in giorno il critico “lavora” sul set, risolve problemi, aiuta il regista, dà il suo parere, con le sue competenze giornalistiche intesse legami con i media presenti, frequenta gli attori e ne conosce a fondo la psicologia, non trascura alcuna fonte, allargando il proprio campo di indagine e testimonianza al variegato mondo di professionisti e non che si avvicinano al set. Con volitivo spirito d’azione, insomma, Kezich non si tira mai indietro, ma vive l’occasione di documentare la produzione di un film come la chance di una vita per conoscere, farsi conoscere e far conoscere ai suoi futuri lettori. Scrive quotidianamente come se dovesse tenere una corrispondenza costante con un giornale, titolando il contributo e rendendolo un pezzo autonomo. Questa è una sua caratteristica ricorrente, che nella sua interminabile carriera, gli consentirà di riutilizzare sapientemente materiali, sia citandoli direttamente sia sfruttandoli come spunto di partenza per essere ampliati (alcuni passaggi de La dolce vita..., per esempio, erano già comparsi su «Settimo Giorno»). Federico. Fellini, la vita e i film, la biografia felliniana uscita per Feltrinelli nel 2002, ora tradotta e venduta anche in molti paesi all’estero, da una parte raccoglie un miscuglio di grande raccolta documentale, di ricerca storicoanalitica cinematografica (si veda al proposito il testo Il mio Fellini ripubblicato in questo volume e in cui Kezich racconta il suo metodo di lavoro), ma dall’altra contemporaneamente convoca in libro un rapporto di amicizia durato più di quarant’anni. Fra gli altri, i vari Su La dolce vita con Federico Fellini, L’intervista lunga in Giulietta degli Spiriti, Giulietta Masina, Fellini del giorno dopo, Primavera a Cinecittà. Il cinema italiano alla svolta della “Dolce Vita”, oltreché le due precedenti edizioni di Fellini, indicano coi fatti che Kezich è “la memoria” di Fellini. Quella del regista riminese, notoriamente ferrea e dettagliata
pur non essendo basata su alcun documento (il suo impulso distruttivo per il quale annientava qualsiasi suo appunto o abbozzo), si concretizza nell’iter biografico kezichiano destinandosi alla posterità. Fellini avalla la sua stesura, confermando date e fatti, autorizzando Kezich a farsi traduttore e depositario dei ricordi della sua vita, approvando il suo personale stile di scrittura in cui la cronologia degli episodi si lascia narrare, senza tralasciare i momenti di analisi e di proposta di ipotesi interpretative.
La forma matura propria della stesura finale della biografia felliniana, modello collaudato frutto proprio dell’evoluzione negli anni della ricerca sull’autore, è utilizzata in modo compiuto già nel precedente Dino. De Laurentiis, la vita e i film (2001). Scritto insieme alla seconda moglie Alessandra Levantesi, offre una spettacolare (e non poteva essere altrimenti) ricostruzione dell’avventurosa storia del produttore, presentandosi proprio come – così viene definito anche in quarta di copertina – «l’incredibile romanzo della sua vita», denso com’è di aneddoti, nomi illustri e fatti al limite della leggenda. Kezich e Levantesi risolvono la spinosa questione della certezza delle fonti e della necessità di un approccio il più possibile scientifico con un puntigliosissimo lavoro di ricerca di dati e documenti, affiancandovi le testimonianze dirette di De Laurentiis e non mancando di cogliere eventuali discrepanze.
A margine va ricordata anche la sua recente attivit à di autore o collaboratore alla realizzazione di special e materiali extra per Dvd. Costantemente al passo con i tempi, Kezich – seppur in questo caso, al contrario della maggior parte della sua produzione, su impulso di una committenza – ha offerto la sua voce e la sua persona per la registrazione delle sue “memorie” orali, dialogando alle volte con alcuni dei protagonisti, o semplicemente raccontando quanto non ancora esistente su carta, ricostruendo fatti e aggiungendo aneddoti curiosi e conosciuti, da I vitelloni a Il posto, da I pugni in tasca a Salvatore Giuliano, dando ancora una volta prova della sempre sorprendente ricchezza e completezza della sterminata enciclopedia cinematografica kezichiana.
Il rammarico che resta nel dare alla stampa questo testo consiste nel doverlo “chiudere”, consci che non vi troveranno spazio le altre mille cose che da oggi in poi il vulcanico Tullio farà.
Saggi
Nuccio Lodato
«Cinema», «Cinema Nuovo», «Sipario» 1
Il western maggiorenne, il primo libro ideato, curato e assemblato nel corso della sua carriera da Kezich – che ancor oggi costituisce un passaggio ineludibile per chi voglia misurarsi davvero a fondo con le problematiche del genere – era già pronto nel 1949, quattro anni prima della sua effettiva pubblicazione, per un numero speciale della parmense «Sequenze» mai uscito per la sopravvenuta cessazione della testata di Malerba e Marchi2
Ma l’attenzione sul tema era già stata focalizzata dal curatore nella sua qualità di ultra-giovanissimo collaboratore (introdottovi da Francesco Pasinetti 3 ) di «Cinema», prima e poi seconda serie, utilizzando la medesima, fortunata formula, destinata a stabilizzarsi nell’uso, in un quadro complessivo di interessi denotante una pronunciata attenzione, in chiave demistificatoria, per la storia e la cultura statunitensi. Ne è un esempio da manuale il saggio, tuttora vivo, attuale e invogliante alla discussione, dedicato al razzismo reazionario palese od occulto in una serie di classici americani, spazianti da Nascita di una nazione a Via col vento, da I pascoli dell’odio di Curtiz a La rosa del Sud di King Vidor, con riferimenti di passaggio persino all’amatissimo Ford del Il prigioniero dell’isola degli squali e di Rio Bravo4 . D’altra parte sarà peculiare dell’intero percorso critico in questione la forte attitudine alla “lealtà” critica nei duplici confronti dell’autore e dei lettori, di volta in volta esprimendosi a favore o contro l’ultima opera dei cineasti più amati, senza alcun “rispetto umano”, libero da condizionamenti di qualsivoglia specie 5 .
1 L’autore ringrazia vivamente la sua allieva dott.sa Michela Campanella per la generosa collaborazione documentaria.
2 Sergio Toffetti, ’Ndemo in cine. Tullio Kezich tra pagina e set, Lindau, Torino, 1998, p. 17.
3 Ivi, pp. 18-19.
4 Tullio Kezich, I nostalgici del “Dixie” e la difesa della razza, «Cinema», n. s. 87, 1° giugno 1952, pp. 285-287.
5 Per apprezzare la lealtà della persona basterebbe questo passo: «Tante volte penso che abbiamo passato una vita a parlare male della Mostra di Venezia, ma se non ci fosse stata, la nostra vita sarebbe stata completamente diversa, perché lì ho conosciuto, ad esempio, Giulio Cesare Castello che mi ha pubblicato il primo articolo su «Sipario», Fernaldo Di Giammatteo che mi ha invitato a collaborare alla «Rassegna del film ». Ho
«Cinema», «Cinema Nuovo», «Sipario»
Dovrebbe essere ovvio per chiunque, si dirà: dica però chi ne ha voglia se è sempre davvero così… Ma la nettezza del taglio “politico” e metodologico di un simile scritto, come di altri del periodo, preannuncia con solare evidenza il fatto che, da lì a pochi mesi, Kezich avrebbe seguito il suo redattore capo, Guido Aristarco, nella controversa e convulsa fase di abbandono della rivista per passare alla fondazione della, per così dire,“erede contrapposta” «Cinema Nuovo», che riuscirà a debuttare in edicola già nell’ultima data utile, il 15 dicembre, di quello stesso 19526 .
Se è vero come è vero, secondo quanto è stato scritto di recente in merito, che «Cinema Nuovo» non è una rivista: è un’idea, è qualcosa che investe, oltre il cinema, la politica, l’ideologia, la cultura, il costume, la cronaca, la fotografia, i lettori»7, è troppo facile, col senno di poi, escludere che Kezich potesse – al pari di altri “spiriti liberi”, orientati in senso progressista ma non disponibili a fare una religione delle bandiere del marxismo 8 , come Luciano Bianciardi o Corrado Terzi – resistervi a lungo.
Il lavoro redazionale, per definizione, nel suo forzoso anonimato è oscuro e difficilmente definibile: tanto meno ricostruibile a posteriori. Sulle colonne della rivista, a firma o sigla, il nome di Kezich si affaccia direttamente solo in veste di recensore di libri e riviste, ma la relativa rassegna è già sufficiente a proseguire nella coerente connotazione complessiva di un punto di vista.
conosciuto Guido Aristarco che mi chiamò a Milano a «Cinema Nuovo», ho conosciuto Ezio Colombo che diventò mio direttore a «Settimo Giorno» nel ’54; Pietro Bianchi, Lamberto Sechi che mi chiamò alla «Settimana Incom» e a «Panorama» e poi grandissimi amici come Oreste Del Buono, Enzo Biagi e il gruppo dei bolognesi, Renzo Renzi, Massimo Dursi e altri. A Venezia dovrei davvero andarci in pellegrinaggio tutti gli anni a ringraziare San Marco» ( Sergio Toffetti, op. cit., p. 18).
6 Per il punto di vista dell’interessato sui propri rapporti con Aristarco, cfr. Sergio Toffetti, op. cit., pp. 23-24.
7 Lorenzo Pellizzari, Guido, di nome e di fatto, in id. (a cura di), Guido Aristarco. Il mestiere del critico. Quando il cinema era nuovo: recensioni dagli anni Cinquanta, Falsopiano, Alessandria, 2007, p. 369. Precisando ulteriormente che: «I lettori che la seguono fedeli, fin dal primo numero, costituiscono un gruppo, una fazione se può essere ammesso il termine: un qualcosa di diverso da tutte le altre esperienze. «Cinema Nuovo» si identifica in Aristarco, che è l’anima assoluta della rivista. Ma «Cinema Nuovo» è anche, e forse soprattutto, un’équipe di critici, forzatamente anonimi, perché questo vuole la regola del gioco, che costituiscono un punto di riferimento preciso per i lettori che vogliono affidarsi» (pp. 369-370).
8 «Non ho mai avuto la minima tentazione comunista nella mia vita, ma ho avuto una formazione politica antifascista e, diciamo, “acomunista”, che però non si è mai confusa con l’anticomunismo corrente» (Tullio Kezich in Sergio Toffetti, op. cit., p. 11).
Nuccio Lodato
Fin dal numero inaugurale, il ventiquattrenne critico sottoscrive la rubrica Il libro del giorno per la quale, in un periodo in cui l’uscita di ogni volume sul cinema è un avvenimento, e pochi editori forniscono agli assetati (e presumibilmente squattrinati…) lettori del primo dopoguerra nuovi tasselli di biblioteche ancora forzatamente povere e rudimentali, può permettersi una rassegna pressoché integrale delle novità disponibili.
L’esordio riguarda il Lewis Jacobs de L’avventurosa storia del cinema americano (l’edizione originale einaudiana del ’52 costa ben 3200 lire, non poco all’epoca). L’articolo mette innanzitutto in luce come il classico volume giunga ai lettori italiani a ben tredici anni di distanza dall’edizione originale statunitense del ’39: ulteriore esempio dello iato sensibilissimo fatto intercorrere nei rapporti culturali col nord-America dal culmine del fascismo e dai sei anni di guerra. Per cui, pur riconoscendogli lo statuto di «testo quasi unico nella letteratura cinematografica, per larghezza d’informazione e obiettività» 9 , non può fare a meno di osservare che «per taluni versi quello del Jacobs appare oggi un testo invecchiato»10 , motivandone a seguire le ragioni remote e prossime. Parole di elogio non siglate11, invece, nella stessa pagina, per l’antologia curata da Mario Verdone12 , che raccoglie i punti di vista sul cinema del meglio dell’intellettualità italiana ed europea tra Ottocento e Novecento.
Sul numero successivo13 , il primo del ’53, largamente dedicato alla proverbiale visita romana di Chaplin nei giorni pre-natalizi del ’52, in occasione della prima nazionale di Limelight del 22 dicembre, il “libro del giorno” è davvero più che mai l’edizione originale francese della Vie de Charlot di Georges Sadoul14 (preferita per recensirla alla versione italiana Einaudi curata da Bruno Fonzi15 , pur seguita pressoché simultaneamente).
L’articolo privilegia, rispetto all’esame del nuovo testo dello storico francese, uno spaccato di attualità nel supremo momento, politico ed
9 Tullio Kezich, L’avventurosa storia del cinema americano, «Cinema Nuovo», n. 1, 15 dicembre 1952, p. 29.
10 Ibidem.
11 «È un peccato che il Verdone non abbia voluto scrivere questa storia, limitandosi a presentarne le pezze d’appoggio, d’altra parte interessantissime […]. Si poteva pretendere un inquadramento storico-critico più preciso e impegnato» (ibidem).
12 Mario Verdone, Gli intellettuali e il cinema. Saggi e documenti, Bianco e Nero, Roma, 1952.
13 Tullio Kezich, Vita di Charlot, «Cinema Nuovo», n. 2, 1° gennaio 1953, p. 29.
14 Georges Sadoul, Vie de Charlot. Charles Spencer Chaplin, ses films et son temps, Les Editeurs Français Réunis, Parigi, 1952.
15 Georges Sadoul, Vita di Charlot, Einaudi, Torino, 1952.
«Cinema», «Cinema Nuovo», «Sipario»
emotivo, dell’inizio dell’“esilio” europeo di Chaplin dopo l’abbandono degli Stati Uniti tre mesi prima, demistificando la campagna di calunnie posta in atto a suo danno dall’America reazionaria, peraltro non raccolta, in Europa, neanche dal potere e dall’opinione pubblica conservatrice, nel prodigarsi di capi di Stato e folle anonime nell’onorare e osannare solidalmente l’illustre fuoriuscito. Al veloce – quasi un “istant book” avant la lettre – lavoro di Sadoul vengono riservati solo schietti riconoscimenti e qualche obiezione nella parte conclusiva della scheda. Al Kezich futuro toccheranno invece, come si vedrà, dalle pagine di «Sipario», le stroncature invero piuttosto arcigne di Un re a New York e de La contessa di Hong Kong, rispettivamente cinque e quindici anni più tardi.
All’edizione originale di un’altra monografia di successiva versione italiana dedicata a un titano, “Eisenstein”16 (come si traslitterava allora, e non soltanto in Italia…) di Marie Seton, viene consacrata una puntata della rubrica di poco successiva. Al di la del curioso sessismo del titolo (Una donna giudica…), redazionale ma non necessariamente kezichiano, e di una peraltro non indebita piccola riserva mentale in apertura («Marie Seton è la nota compilatrice di Time in the Sun, volonterosa e inadeguata sinossi dell’incompiuto ¡Que viva Mexico! »17), il riconoscimento di meriti è immediato, schietto e frontale: «Il volume rappresenta il frutto di un’esistenza dedicata al culto di Eisenstein: ed è unico nel suo genere, per la quantità e precisione delle testimonianze, per lo scrupolo e l’obiettività dell’informazione»18 , nonostante l’insufficienza del libro stia «nella sua impostazione romanticopsicologica, anziché storico-critica, come avremmo preferito e come dovrebbe essere ogni serio profilo biografico»19 . Auspicandone l’edizione italiana poi sopravvenuta, il pezzo conferma indirettamente l’importante funzione di stimolo che, grazie anche all’autorevolezza all’epoca riconosciuta alla testata, oltre che a quella precocemente acquisita dall’estensore a livello individuale, simili recensioni dovevano probabilmente esercitare rispetto agli indirizzi editoriali di traduzione. È anche il momento della ripresa delle versioni dei capisaldi teorici, e dell’apparizione dei primi volumi di documentazione dedicati
16 Marie Seton, S. M. Eisenstein. A Biography, The Bodley Head, Londra, 1952 (successiva versione italiana di Paolo Jacchia e John Francis Lane, Eisenstein, Bocca, MilanoRoma, 1954).
17 Tullio Kezich, Una donna giudica S. M. Eisenstein, «Cinema Nuovo», n. 4, 1° febbraio 1953, pp. 93-94.
18 Ibidem
19 Ibidem.
Nuccio Lodato
monograficamente a importanti film in uscita. Gli uni e gli altri trovano il lettore-referente puntuale all’appuntamento: così è per il Balázs di Evoluzione ed essenza di un’arte nuova 20 , così per il libro su Umberto D. curato personalmente da Zavattini 21. Netti i riconoscimenti all’originalità e all’essenzialità dell’apporto dello studioso ungherese, posto in discussione soltanto per aver definito Griffith «un progressista, un radicaldemocratico» 22 , ma dimenticandosi The Birth of a Nation, oltre che per aver ritenuto «ottimisticamente che gli eroi interpretati da Douglas Fairbanks spaventavano i “borghesucci”» 23 e, assai peggio, per aver definito Il giuramento di Č iaureli «grandiosa epopea cinematografica» 24 (Stalin, neanche a farlo apposta, sarebbe morto da lì a tre settimane!).
La funzione di stimolo e di promozione culturale della rubrica viene ulteriormente incrementata dedicandosi alle anticipazioni delle uscite in preparazione, o anche soltanto in progetto. Così, un mese dopo, ecco una rassegna di quanto bolliva (o sembrava bollire) in pentola presso i principali editori impegnati all’epoca nel settore: Einaudi e Mondadori, Laterza e Bocca, Guanda 25 . O le rassegne sistematiche della pubblicistica periodica straniera, ricche di dettagli informativi ma non scevre da messe a punto polemiche26 . La rubrica talora si ridimensiona, nei numeri successivi, in una serie di schede siglate dal titolo Copertine, ripetutamente inclini a stroncature nello stile della rivista. Ma la firma del redattore può estendersi finalmente anche a materia diversa dalle recensioni librarie, come accade in occasione del numero speciale dedicato a Il cinema e i negri (sic) dove il contributo di Kezich si affianca a quelli di Demby, Terzi, Del Buono, Grieco, Titta Rosa, Granich, Leydi e Berger. Ed è un’impegnativa disamina sul razzismo nel cinema hollywoodiano, che si riconnette direttamente a quello per «Cinema» già esaminato, che fa riferimento iniziale alla nota indagine in
20 Béla Balàzs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino, 1952.
21 Cesare Zavattini, Umberto D., Bocca, Milano-Roma, 1953; Tullio Kezich, Zavattini coniuga il presente, «Cinema Nuovo», n. 6, 1° marzo 1953, p. 157.
22 Tullio Kezich, Gli eroi di Douglas spaventavano i borghesi, «Cinema Nuovo», n. 5, 15 febbraio 1953, p. 125.
23 Ibidem.
24 Ibidem
25 Tullio Kezich, I libri che leggerete, «Cinema Nuovo», n. 7, 15 marzo 1953, p. 189. Si dà anticipazione tanto di volumi che usciranno effettivamente (dal Caligari di Kracauer alla “Biblioteca dello Spettacolo” laterziana diretta da Chiarini come la collana di Bocca da affiancarsi alla sua «Rivista del Cinema Italiano», alla “Piccola Biblioteca del Cinema” Guanda affidata ad Aristarco) come di altri, decisamente interessanti quanto a buone intenzioni, ma che non avrebbero mai visto la luce.
26 Tullio Kezich, Le riviste, «Cinema Nuovo», n. 16, 1° agosto 1953, p. 94.
«Cinema», «Cinema Nuovo», «Sipario»
materia di Peter Noble, e si appunta in particolare sulla situazione, allora non così estesamente indagata e patente, dei soldati Usa di colore impegnati in Europa nella seconda guerra mondiale, che hanno coscienza di lottare contro le discriminazioni all’estero, ma sapendo benissimo di continuare a esserne vittima essi stessi in patria 27. Affrontando 28 anche più approfondite analisi di testi non solo cinematografici, come nel caso della magnifica, documentata e argomentata apologia dello Spettacolo del secolo di Vito Pandolfi 29 . O profili tanto sintetici quanto incisivi di attori, come quello dedicato a Montgomery Clift, che contiene oltretutto un’acuta disamina indiretta di Fiume rosso di Hawks e così si conclude: «Pochi attori meglio di Montgomery Clift riescono a dare il tono di un’epoca» 30 . Ma l’intensificarsi della diretta presenza, e il contributo certo non secondario nel “fare” materialmente la rivista, si bruciano nel giro di pochi mesi. Ancora qualche fascicolo, e il nome di Kezich scomparirà dall’elenco dei redattori e dai sommari. La rottura con la testata, ovvero con Guido Aristarco, sopravverrà tuttavia per complesse ragioni, anche di carattere, si potrebbe azzardare, metodologico-esistenziale:
Ci sono delle persone fatte, in fin dei conti, per giudicare l’esistente, ma che non hanno nessun parametro per accettare le sorprese che ti dà la vita, che ti dà l’arte. Tutte le volte che usciva un film Aristarco aveva paura che mettesse in crisi il suo sistema, e quindi ci furono degli scontri duri. Per esempio, lui era un difensore del neorealismo rigoroso, che in quel momento era già cadavere, mentre stavano venendo su Fellini e Antonioni, personaggi che io ho sposato subito, e ne vado molto fiero. Pur andando a naso ho sempre visto dove c’era la luce. Nel ’52, su un catalogo di Locarno, dicevo già che Fellini e Antonioni erano le due figure che ci avrebbero accompagnato nel prossimo decennio. Una delle grandi liti che mi ricordo di aver avuto con Aristarco fu in occasione della presentazione a Venezia del Cinemascope. Lui la prese come un’offesa personale, e voleva farci contro un numero speciale della rivista, mentre con Michele Gandin, che era anche un documentarista, cercavamo di convincerlo che la
27 Tullio Kezich, Jim Crow si è fermato a Pearl Harbour, «Cinema Nuovo», n. 11, 15 maggio 1953, pp. 298-301.
28 Tullio Kezich, Spettacolo del secolo, «Cinema Nuovo», n. 14, 1° luglio 1953, p. 30.
29 Vito Pandolfi, Spettacolo del secolo, Nistri-Lischi, Pisa, 1953.
30 Tullio Kezich, Montgomery Clift, «Cinema Nuovo», n. 15, 15 luglio 1953, p. 56.
Nuccio Lodato
larghezza di campo era una possibilità in più offerta agli autori. Se penso, tuttavia, che allora si litigava ancora su queste cose, mi viene quasi un po’ di nostalgia 31 .
E il caso, le circostanze, la cronologia vogliono che una tra le prime recensioni davvero impegnative che Kezich si trova ad affrontare nella nuova titolarità di rubrica a «Sipario» 32 sia proprio quella dedicata a Senso di Visconti, allora al centro della proverbiale polemica, incentrata in parallelo anche sul contemporaneo Metello di Pratolini, che coinvolse segnatamente Aristarco e Chiarini, ma non solo loro 33 .
Il rapporto di Kezich con l’opera di Visconti non sarà sempre così pacifico. Pur riconoscendo frontalmente i meriti de Il lavoro di Boccaccio 70 34 , Kezich sarà tra quanti delimiteranno Il Gattopardo al rango di pur straordinaria prova illustrativa 35 . Ma i disappunti saranno ben altri: nel ’73, allorché si diffonde la notizia che Gruppo di famiglia in un interno verrà prodotto dalla neonata Rusconi Film (come, in parallelo, Anno uno di Rossellini), non saranno soltanto «Avanguardia operaia» e altre testate della sinistra dichiarata ad attaccarne preventivamente la scelta, ma anche lui, con la sopraggiunta, ulteriore autorevolezza di direttore di «Sipario» 36
Tornando alla prima accoglienza riservata a Senso, ancora in un’epoca di recensioni non destinate a successive raccolte in volume, coglie nel segno l’osservazione che, pur nella lamentata mancanza di “un discorso serio sullo stile”, «è il film in cui Visconti si consegna per intero, con tutti i suoi interessi di storico e di polemista, i suoi compiacimenti di arredatore raffinato, la sua implacabile ricerca di una dura verità psicologica nei rapporti fra l’uomo e la donna. Nessuno ha notato, inoltre, che il regista narra qui per la prima volta una storia della classe sociale alla quale appartiene: egli è preparato a conoscere Franz e la contessa Serpieri per nascita ed educazione, mentre
31 Tullio Kezich in Sergio Toffetti, op. cit., p. 24.
32 Cfr Nuccio Lodato, «Sipario», ad vocem, in Le riviste di teatro, «Bollettino per Biblioteche», n. 15-18, marzo 1978, pp. 69-70.
33 Al riguardo si vedano le ben note pagine satiriche di Luciano Bianciardi ne La vita agra, ora ritrovabili anche in id., L’antimeridiano. Tutte le opere, vol. I, Saggi e romanzi, racconti giovanili, diari giovanili, Isbn, Milano, 2005, pp. 598-600.
34 Tullio Kezich, Boccaccio le italiane e gli angeli, «Sipario», n. 191, marzo 1962, pp. 2223.
35 Tullio Kezich, Il Gattopardo illustrato, «Sipario», n. 205, maggio 1963, pp. 35-36.
36 Tullio Kezich, Ammainiamo Visconti uomo-bandiera, «Sipario», n. 329, ottobre 1973, ora in id., Cari centenari. Rossellini Visconti Soldati 1906-2006, Falsopiano, Alessandria, 2006, pp. 93-94.
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i vagabondi, i pescatori e i popolani dei suoi film precedenti derivavano anche da un’esperienza mediata, libresca» 37. Registrando l’oramai palese insofferenza di Visconti per le durate tradizionali delle forme di spettacolo, osserva quindi che «per svolgere fino in fondo la sua variazione sulla novella di Camillo Boito, il regista avrebbe avuto bisogno di fare un film lungo il doppio e anche di più […], ed è per questo che il film, com’è stato girato, può far pensare a una serie di “cartoni” per un’opera più vasta» 38
Su Senso naturalmente il critico avrà agio di ritornare reiteratamente e fino a oggi, in particolare allorché a Locarno, nel ’95, assisterà alla proiezione, pur disturbata dalla pioggia, sul megaschermo di Piazza Grande, della copia restaurata a cura di Giuseppe Rotunno per la Cineteca Nazionale. Le riserve restano sostanzialmente le stesse, come la sensazione di estraneità del contributo dei dialoghisti inusuali Williams e Bowles; emerge un giudizio estremamente limitativo sull’apporto recitante dei due protagonisti, ma si conclude che «l’incanto vero del film […] nasce dai quadri che si succedono incessantemente […]. Finché Senso si decide ad abitare la battaglia: ed è una sequenza degna di un vero e grande artista, di uno scrittore appassionato e a tutto tondo. La più bella sequenza del genere mai vista al cinema e forse, fino a prova contraria, che mai si vedrà. Più imponente, gloriosa e immortale delle riflessioni che il suo creatore avrebbe voluto ricamarci su» 39 .
Si possono talora, com’è inevitabile a distanza di oltre mezzo secolo, registrare stroncature che potrebbero magari, oggi, essere riviste se non addirittura ribaltate (ma sarebbe un gioco facile quanto sterile: è il caso, da lì a poco, di Lola Montès di Ophuls, piuttosto che non del coevo Gli implacabili di Walsh40 ).
Denominatori comuni della scrittura critica di Kezich, nelle più disparate occasioni, sono anche l’ariosità e la naturalezza dei rimandi, che mettono quotidianamente in connessione la cultura del film, aspirante al riconoscimento di una propria autonoma dignità, secondo un’istanza molto avvertita in quegli anni, a quella della critica delle altre arti41. Ne è un esempio tra i molti possibili questa bellissima chiusa della recensione per Guerra e pace di Vidor e Soldati: «Nel riprendere in mano il libro, dopo aver
37 Tullio Kezich, I film del mese, «Sipario», n. 108, aprile 1955, p. 29.
38 Ibidem.
39 Tullio Kezich, Senso: le ambizioni di Luchino, «Corriere della Sera», 5 agosto 1995, ora in id., Cari centenari..., op. cit., pp. 129-130.
40 Tullio Kezich, I film del mese, «Sipario», n. 121, maggio 1956, p. 34.
41 «Quando vengono dei ragazzi a chiedermi come si fa a diventare critico cinemato -
Nuccio Lodato
visto il film, ci sentiamo nello stato d’animo di Čechov quando scriveva: “Ogni notte mi sveglio e mi metto a leggere Guerra e pace. Leggo con tanta curiosità e con tanto stupore come se non l’avessi mai letto prima”»42 . Talvolta un’osservazione apparentemente marginale “giudica e manda” in realtà, un intero importante periodo, come nel caso di questa derivata dall’Anastasia di Litvak: «La gran parte di Anastasia è stata scelta accortamente per la rentrée hollywoodiana di Ingrid Bergman, i cui mezzi straordinari di interprete s’inseriscono meglio in queste atmosfere convenzionali che nelle variazioni neorealistiche di Rossellini»43 .
Ma al di là di Rossellini, con cui i rapporti complessi ma vivi e vitali potranno svariare ancora dal minimo della stroncatura senza appello di Viva l’Italia! 44 al massimo della calda e umanissima avventura, rivelata in pubblico solo quarant’anni dopo, della “missione impossibile” a Parigi che regalò immeritatamente a Chiarini la folgorante chiusura di Venezia ’66 con La presa del potere di Luigi XIV 45 , col passare del tempo il lavoro del critico di «Sipario» s’indirizza soprattutto in due direzioni: da una parte, il fare lealmente, ma senza peli sulla lingua, i conti col passato e il presente dei miti, dei maestri, e dall’altra l’appuntare un’attenzione convinta e interessata sui grandi flussi artistici che segnano, attorno al ’60, la ripresa profonda del cinema italiano. Nella prima cartella va riposto ad esempio il risentito reagire a Un re a New York, che pure in più di un passaggio può apparire scritto più a fini di polemica interna, quasi preventiva, che di presa di posizione generale46 . Ma il punto di vista è netto e radicale, senza possibilità di appello: «Diciamo pure, e con rammarico: è l’unico film sbagliato di tutta la carriera di Charlot. grafico, io spiego che per giudicare il cinema serve tutto, serve il teatro che spesso è ignorato, serve la musica, serve la letteratura in massimo grado, servirebbe la pittura […]. Uno per fare questo mestiere, secondo me, deve essere spinto da molteplici interessi e curiosità, che devono in qualche modo sommarsi come succede nel cinema, che somma il teatro, la pittura, la letteratura, la fotografia eccetera. Componenti che alla fine contribuiscono a formarti un gusto, un certo tipo di competenza tecnica. Anche se il cinema si impara soprattutto col cinema» (Tullio Kezich in Sergio Toffetti, op. cit., p. 17).
42 Tullio Kezich, Il cinema a Borodino, «Sipario», n. 128, dicembre 1956, p. 48.
43 Tullio Kezich, I film del mese, «Sipario», n. 132, aprile 1957, p. 36.
44 Tullio Kezich, Una ragazza che sembra vera, «Sipario», n. 179, marzo 1961, p. 20.
45 Tullio Kezich, Cari centenari..., op. cit., pp. 49-51. Si tratta di un appunto – fino alla pubblicazione in quel volume – inedito e che, sotto il titolo un po’ sviante di Vignette rosselliniane, nasconde una delle pagine più belle di tutto Kezich, almeno a conoscenza di chi scrive (n. d. a.).
46 Cfr. la recensione di Guido Aristarco, «Cinema Nuovo», n. 117, 1° novembre 1957 (ora in Lorenzo Pellizzari [a cura di], Guido Aristarco. Il mestiere del critico, op. cit., pp. 305-
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È un film girato in economia, con una sceneggiatura sciatta, un dialogo assai di rado vivace, uno svolgimento impreciso e disordinato. Dal punto di vista delle battute non esce dalla banalità: l’ambientazione americana è sbagliata, nelle scene girate per le strade di Londra la gente guarda in macchina, le sovrimpressioni del volto di Chaplin sulle inquadrature di New York sono tecnicamente orripilanti»47 Non riuscirà a migliorare il quadro, dieci anni dopo, l’ultima prestazione registica chapliniana , La contessa di Hong Kong : «Con buona pace dei “chaplinologi” esasperati, è un film stanco e opaco»48 . Di opposto livello le valutazioni delle uscite in differita di due capolavori postumi di Ejzenštejn, quella seconda parte di Ivan il terribile che poi circuiterà in Italia col titolo La congiura dei boiardi, e i frammenti residuali del distrutto Prato di Bežin. Il primo lo visiona a Bruxelles, al sempre citato “Confronto dei migliori film di tutti i tempi”, che Jacques Ledoux organizza nell’ambito dell’Esposizione Universale del ’58; il secondo, quando Francesco Corti lo importa in Italia, con un’enorme emozione e mobilitazione del circuito culturale, dopo la sua tardiva pubblicazione in Unione Sovietica nel ’67. È interessantissimo come i due pezzi si ricolleghino, in una sorta di fluente heri dicebamus, alle considerazioni del ’53 nel recensire la biografia della Seton. «Perfino i sovietici, dopo la svolta antistaliniana, hanno ammesso che l’autore de La corazzata Potemkin [film che il “Confronto” designò come vincitore assoluto, detto per inciso, n. d. a.] ebbe in vita molti nemici e subì persecuzioni immeritate. Boris Schumiyatsky, il gerarca che avversò violentemente Il prato di Bežin nel ’37, venne condannato l’anno dopo per sabotaggio: ciò non toglie che quel film di Ejzenštejn non arrivò mai al pubblico ed è tuttora inedito. La stessa sorte subì, qualche anno dopo, la seconda parte di Ivan il terribile ». L’analisi di quest’ultimo si dispiega sintetica ma sicura, cogliendo i nuclei centrali di un discorso che il tempo s’incaricherà di far approfondire (curiosamente, il recensore nota come, nelle due ore e un quarto di durata dell’edizione proposta da Ledoux, «non vi sia traccia, tra l’altro, delle sequenze a colori annunciate da Ejzenštejn in certe sue lettere ad amici occidentali: e tutto fa supporre che l’edizione finale sia stata alquanto rimaneggiata, anche perché il regista si era probabilmente riservato di girare ancora
316: il film sarà l’unico a ottenere da lui, in tutto il periodo quindicinale della rivista, le cinque fatidiche stellette identificanti il “capolavoro”, laddove persino Ossessione, Luci della ribalta e Senso si dovranno accontentare, con All’Ovest niente di nuovo, Riccardo III e Orizzonti di gloria, delle quattro di “eccellente”…).
47 Tullio Kezich, Chaplin è infallibile?, «Sipario», n. 139, novembre 1957, pp. 23-32.
48 Tullio Kezich, Naufragio a Hong Kong, «Sipario», n. 250, febbraio 1967, p. 42.
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qualche sequenza»49 ). E proprio da Schumiyatsky, “piccolo dittatore della cinematografia sovietica”, prende le mosse dieci anni dopo l’analisi della “cattedrale distrutta” bezhniana, che a sua volta si ricollega al secondo Ivan : «quando la sua meditazione sul tema della dittatura sanguinaria si fece esplicita, la mano dell’artista fu fermata per sempre». E a proposito dei 32 minuti frammentari assemblati da Jutkevic e Klejman in ragione della perdita del negativo scrive: «La tensione a un cinema classico, come espressione completa e risoluzione stilistica dei problemi dell’artista e della società in cui opera, è più che mai forte nell’Ejzenštejn del film incompiuto. […] Anche chi non ama i monumenti può sostare in meditazione nel riquadro luminoso del prato di Ejzenštejn e accogliere la complessa lezione di arte e di vita di un maestro incomparabile» 50
In altre occasioni il crescere e formarsi dei grandi maestri viene colto nel suo farsi: come nel caso di Bergman, che viene già inquadrato con sicurezza in un’impeccabile analisi de Il posto delle fragole, dove si conclude che egli «va riportando una tradizione cinematografica al livello dell’epoca d’oro» 51 .
Ma il grande tema che costituisce il massimo livello di coinvolgimento e passione, attenzione critica e cura “etica”, si direbbe quasi, in questo lungo periodo di militanza, è naturalmente quello della rinascita del cinema italiano a partire dalla conclusione degli anni Cinquanta. «È proprio vero che il momento più nero della notte è il più vicino all’alba» 52 , esordisce una sorta di articolo idealmente introduttivo che coglie in film quali Un maledetto imbroglio di Germi, La notte brava di Bolognini, Estate violenta di Zurlini, e, soprattutto, giustamente Il tempo si è fermato, il debutto di Olmi nel lungometraggio, a proposito del quale conclude: «Non c’è una nota stonata né un segno fuori posto: è un piccolo film perfetto, che sarebbe piaciuto al Flaherty di Louisiana Story. Forse il primo passo per la riscoperta, ormai controcorrente, di un’epica del quotidiano».
I grandi passi della rinascita sono naturalmente quelli ben noti, da La dolce vita a L’avventura a Rocco e i suoi fratelli. «È un anno di grazia per il nostro cinema, lo ricorderemo per un pezzo. La dolce vita, L’avventura, Rocco e i suoi fratelli sono le più alte espressioni del film italiano dopo il neorealismo. Come contorno alle opere di Fellini, Antonioni e Visconti sono apparsi sugli schermi, in numero
49 Tullio Kezich, Un Ejzenštejn inedito fra i film più belli del mondo, «Sipario», n. 151, novembre 1958, pp. 16-17.
50 Tullio Kezich, Il dubbio di Ejzenštejn, «Sipario», 265, maggio 1968, pp. 18-19.
51 Tullio Kezich, Coscienza di Bergman, «Sipario», n. 158, giugno 1959, p. 58.
52 Tullio Kezich, Risveglio italiano, «Sipario», n. 165, gennaio 1960, pp. 23-24.
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notevole, film di buon livello artistico e spettacolare»53 . Al di là del caso Fellini54 , e anche ovviamente di quello dello stesso Olmi, che in tutta l’attività pubblicistica di Kezich rivestono una centralità assoluta che dispensa da ulteriori esemplificazioni, qui l’attenzione sistematica si sofferma soprattutto su di ogni nuova uscita di Antonioni, da L’avventura55 appunto a La notte56 a L’eclisse57 (non dissimulando però invece la successiva disillusione per Deserto rosso58 : da Blow up il maestro ferrarese verrà giustamente considerato una sorta di cittadino del cinema internazionale59 ) investigandone con passione e in profondità le radici e le motivazioni. E sul fluire dell’onda, puntualissimamente, con nitore e coerenza di direttrici e di richiami, vengono di volta in volta annoverati nella disamina del favorevole flusso Zurlini (La ragazza con la valigia60 ); Petri e Damiani61; con particolare e meritata rilevanza De Seta62 ; Germi, Risi e Caprioli – i primi due sulla cresta della loro onda creativa e il terzo al debutto63 ; ancora Petri e il rivalutato Bolognini di Senilità (da parte di un esegeta che se ne intendeva…) 64 ; di nuovo Germi con Ferreri65 , o da solo66 ; il folgorante esordio di Tinto Brass67, oltre che naturalmente Pasolini68 , senza sottrarsi dall’affrontare un Rosi
53 Tullio Kezich, L’ombra di Fellini, «Sipario», n. 175, novembre 1960, p. 25.
54 Eccezionale comunque l’intervista che il maestro gli concede, all’epoca di Giulietta degli spiriti: Tullio Kezich, Per un autoritratto parlato di Fellini, «Sipario», n. 227, marzo 1965, pp. 8-11. La recensione del film è tra le più dense e sentite di Tullio Kezich: Giulietta degli spiriti, «Sipario», 232-233, agosto-settembre 1965, pp. 75-76.
55 Tullio Kezich, Antonioni sull’isola nuda, «Sipario», n. 171, luglio 1960, pp. 21-22.
56 Tullio Kezich, L’avventura si compie nella notte, «Sipario», n. 178, febbraio 1961, pp. 23-24.
57 Tullio Kezich, L’eclisse della pace debole, «Sipario», n. 193, maggio 1962, pp. 26-27.
58 Tullio Kezich, Dalla storia di Cristo alla crisi della coppia, «Sipario», n. 222, ottobre 1964, pp. 11-12.
59 Tullio Kezich, C’era una volta il cinema italiano, «Sipario», n. 261-262, gennaio-febbraio 1968, p. 54.
60 Tullio Kezich, Una ragazza che sembra vera, «Sipario», n. 179, marzo 1961, pp. 19-20; id., Il cinema tra l’inespresso e la letteratura, «Sipario», n. 198, ottobre 1962, pp. 10-12; id., Successi e problemi del cinema miracolato, «Sipario», n. 199, novembre 1962, pp. 29-30.
61 Tullio Kezich, Il sicario e l’assassino, «Sipario», n. 181, maggio 1961, pp. 32-33.
62 Tullio Kezich, Il coraggio si è fermato a Orgosolo, «Sipario», n. 186, ottobre 1961, pp. 22-24.
63 Tullio Kezich, Il barone, il giornalista e i leoni, «Sipario», n. 190, febbraio 1962, pp. 29-30.
64 Tullio Kezich, Le ambizioni e il disordine, «Sipario», n. 192, aprile 1962, pp. 28-29.
65 Tullio Kezich, La donna scimmia e la donna-oggetto, «Sipario», n. 215, marzo 1964, pp. 18-19.
66 Tullio Kezich, Germi e il marchio dell’impegno, «Sipario», n. 239, marzo 1966, pp. 32-35.
67 Tullio Kezich, Due esordienti arrabbiati, «Sipario», n. 216, aprile 1964, p. 28.
68 Tullio Kezich, Comizi d’amore tra La ricotta e Il Vangelo, «Sipario», nn. 220-221, agosto-settembre 1964, pp. 79-80; id., Dalla storia di Cristo alla crisi della coppia, op. cit.; id.,
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quand’anche problematico69 . Estraendo con estrema sicurezza – tra i non molti del momento iniziale di contatto… – dal mazzo nella sua assoluta eccezionalità ed eccellenza l’esordio di Bellocchio70 , e non lasciandosi sfuggire l’eccezionale, modernissima ancor che dai più inosservata o trascurata, performance parigina di De Sica con Un mondo nuovo71 .
Si fanno avanti segni del mutare dei tempi. Dopo Orizzonti di gloria, Kubrick viene seguito e messo a fuoco nel suo inesorabile, magistrale progredire, in apparenza attraverso il genere fantascientifico, da Stranamore 72 a 200173 : e Truffaut viene letto globalmente in occasione di una lunga recensione esclusiva dedicata a Baci rubati74 .
Nulla era stato perso di vista, lungo l’itinerario: anche il vecchio John Ford era stato sempre sfogliato, dall’elegia “minore” di Cavalcarono insieme al simpatico divertimento de I tre della croce del Sud, alla più corposa elegia del Grande sentiero, al definitivo Missione in Manciuria
Ma era sopravvenuto e trascorso il ’68. Cambiando, in modo non inavvertito, un mucchio di cose. Kezich lo attesta indirettamente con un magistrale colpo giornalistico: l’intervista “senza domande”, che gli rilascia a Portofino Giorgio Strehler il giorno stesso – 22 luglio dell’anno fatidico – in cui i giornali annunciano le sue dimissioni dalla co-direzione de «il Piccolo»75 . Cambia anche il cinema, e cambia anche la condizione, il modo di operare, l’orizzonte stesso della critica, il suo orientamento. Tracciando un bilancio complessivo della problematica edizione della XXX Mostra veneziana, che nel ’69 Ernesto Laura, subentrato a Chiarini, ha tentato di pilotare perigliosamente, Kezich, che non si occupa dei film lasciandone il compito a Italo Moscati, ma facendogli precedere una sorta di editoriale, parla soprattutto di questo:
Chi ha seguito la stampa sul festival sarà rimasto colpito dal numero impressionante di lamentazioni riguardanti la difficoltà di lettura dei film programmati. I critici hanno continuato a ripetere che non capivano. La protesta ha assunto spesso il tono acerbamente Sotto il segno di Edipo, «Sipario», n. 258, ottobre 1967, pp. 18-19.
69 Tullio Kezich, Il momento della verità, «Sipario», n. 228, aprile 1965, p. 24.
70 Tullio Kezich, La Mostra dei vecchi, «Sipario», n. 234, ottobre 1965, p. 9.
71 Tullio Kezich, Un mondo nuovo, ««Sipario», n. 240, aprile 1966, p. 33.
72 Tullio Kezich, Nasce la fantapolitica, «Sipario», n. 217, maggio 1964, pp. 23-24.
73 Tullio Kezich, America oggi: odissea e apocalisse, «Sipario», n. 273, gennaio 1969, pp. 20-21.
74 Tullio Kezich, Tra Balzac e Charles Trenet, «Sipario», n. 276, aprile 1969, pp. 40-41.
75 Tullio Kezich, Il diritto di sbagliare, «Sipario», nn. 268-269, agosto-settembre 1968, pp. 27-28.
qualunquista di certa opposizione alla pittura moderna o alla musica contemporanea. Arriva un film “dopo Godard”, e giù tutti, o quasi, a rimpiangere le narrazioni semplici, le opere che schiudevano i loro pochi segreti alla prima lettura: e giù tutti, o quasi, a ripetere la domanda provocatrice: è cinema questo? Si tratta, appunto, del cinema che ha “dinamitato” le strutture del romanzo, che ha rifiutato le leggi tradizionali dell’ottica: in piena sintonia, finalmente, con le esperienze parallele dell’arte d’oggi. […]. « Stand up! Stand up! » scrisse anni fa Lindsay Anderson in un suo articolo rivolto alla critica inglese. Dopo Venezia si potrebbe avvertire, alla romanesca: critici, in campana! 76
Dal ’71 al ’74, dopo la cessione della testata di «Sipario» da parte di Valentino Bompiani e il trasferimento della rivista a Roma, Kezich ne diverrà, come si è accennato parlando di Visconti a proposito di Senso, anche direttore, contando sulla valida collaborazione dell’estroso Giorgio Polacco. Ma questa è già un’altra storia: delle tante, tantissime che si possono annoverare nel suo instancabile tragitto di critico e di giornalista.
76 Tullio Kezich, La crisi della critica, «Sipario», n. 282, ottobre 1969, p. 18.
Alberto Pezzotta
L’arte della recensione breve
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta molte generazioni di cinefili, quando sentivano il bisogno di dare basi più solide alla propria passione, prima di immergersi nel mare magnum (o palude) delle riviste, passavano obbligatoriamente attraverso due sillogi che spiccavano negli scaffali relativamente sguarniti delle librerie, dove si trovavano ardui saggi di semiologia, ma poche guide per i neofiti. I dizionari dovevano ancora nascere, e il loro ruolo veniva assolto dalle raccolte di Giovanni Grazzini per Laterza e da quelle di Tullio Kezich per il Formichiere prima, e per gli Oscar Mondadori poi. Con una differenza: Grazzini raccoglieva lunghi articoli pubblicati sul «Corriere della Sera», spesso reintegrati dei tagli redazionali, e privilegiando, almeno all’inizio (Gli anni Settanta in cento film, 1976; Gli anni Sessanta in cento film, 1977) una forma antologica e fortemente selettiva, con l’ambizione di costituire un canone. Il tomo bipartito (A-L e M-Z) con cui Kezich nel 1977 inaugurò la raccolta delle sue recensioni apparse su «Panorama», Il MilleFilm. Dieci anni al cinema (1967-1977), aveva invece un taglio più democratico, e offriva un panorama molto più variegato, pieno di film commerciali e minori, e di stroncature. Nell’epoca nascente delle televisioni private, l’offerta di cinema sul piccolo schermo richiedeva strumenti di consultazione più ampi, anche se Il MilleFilm non poteva soddisfare un’esigenza catalogatoria ed enciclopedica. E mentre le recensioni di Grazzini erano veri e propri saggi ponderati, scritti con la rotunditas e la facondia dell’italianista strappato alla filologia (che poi spesso esprimesse opinioni tutt’altro che impolverate è altro discorso), le schedine di Kezich erano maneggevoli e sintetiche: «corte ma brevi», come scrive nell’introduzione al volume. La formula, comunque ebbe un notevole successo editoriale: e mentre Grazzini cominciò a raccogliere le sue recensioni annualmente, Kezich, dopo un retrospettivo FilmSessanta. Il cinema degli anni 1962-1966 e tre Centofilm annuali per Il Formichiere dal 1977 al 1979, preferì le sillogi: Il nuovissimo MilleFilm. Cinque anni al cinema (1977-1982), Il Film ’80Cinque anni al cinema (1982-1986) e Il Film ’90 Cinque anni al cinema (1986-1990)1
1 Queste le raccolte di Kezich analizzate: Il MilleFilm, Il Formichiere, Milano, 1977; Il
L’arte della recensione breve
Quest’ultimo volume concluse la serie in coincidenza con la fine dell’impegno settimanale su «Panorama», dove a Kezich succedette Lietta Tornabuoni2. Oggi chi scrive di cinema (chissà se è il caso anche di chi legge) rimpiange lo spazio concesso a critici come Grazzini o Casiraghi, che su un quotidiano potevano sforare le 10.000 battute (ma anche il primo, col tempo, sperimentò una drastica riduzione di spazi). Mentre la schedina alla Kezich sembra diventata la norma, o meglio ha aperto la strada a una concisione ancora maggiore: dalle 1500-1800 battute di «Panorama» oggi si scende facilmente sotto le 800. Ma è stata anche un modello formale e un punto di partenza per le generazioni di critici successive, da Tatti Sanguineti, che recensiva i film in TV sullo stesso «Panorama», ai milanesi che si affermavano sulle pagine locali dei quotidiani all’inizio degli anni Ottanta, come Paolo Mereghetti e Roberto Nepoti. Proprio sulla brevitas la critica accademica ha giocato la sua differenza, liquidando spocchiosamente la schedina come rozza attribuzione di giudizio, anticamera dei pallini o dei voti (che Kezich comunque non usava, avendoli sempre avuti in antipatia). Non ha compreso che la critica moderna nasce anche qui.
Nella prefazione al primo MilleFilm, Kezich racconta la genesi della recensione sintetica. Lamberto Sechi deve rilanciare «Panorama», e studia formule giornalistiche nuove. Per quanto riguarda le recensioni cinematografiche, concorda con Kezich nell’evitare «le lunghe spatafiate, le articolesse, i saggi con note a piè di pagina». E rispetto alle già agili recensioni pubblicate su «La Settimana Incom Illustrata», «Sipario» e «Bianco e Nero», spesso le misure si accorciano ulteriormente.
Nella prefazione al Film ’80, Kezich aggiunge: «Se D’Annunzio battezzò il cinema l’“arte veloce”, queste schede sono un esempio di “critica veloce”». Il richiamo alla modernità futurista viene spontaneo: e in anni recenti Kezich ha indicato (sul supplemento «Magazine» del «Corriere della Sera») un precedente del suo metodo nelle Misurazioni di Marinetti3. Si tratta di un’affinità elettiva impensata e scoperta a posteriori, ma su cui vale FilmSessanta, Il Formichiere, Milano, 1979; Il nuovissimo MilleFilm. Cinque anni al cinema (1977-1982), Mondadori, Milano, 1983); Il Film ’80. Cinque anni al cinema (1982-1986), Mondadori, Milano, 1986); Il Film ’ 90. Cinque anni al cinema (1986-1990), Mondadori, Milano, 1990. Nelle tre raccolte degli anni ’ 80, le schede di «Panorama» sono integrate da «ritagli di “la Repubblica” e “Corriere della Sera” (dal marzo ‘89)» (Tullio Kezich, Il Film ’ 90..., op. cit.).
2 Per completezza di informazione bibliografica, vanno segnalati anche i quattro Cento Film (dal 1994 al 1997) scritti con la collaborazione di Alessandra Levantesi, e pubblicati da Laterza, Roma-Bari, dal 1995 al 1998.
3 Un ringraziamento a Fabio Francione per la segnalazione marinettiana.
Alberto Pezzotta
la pena di soffermarsi. In un articolo edito su «La Fiera letteraria» nel 1927 e a lungo mai ripubblicato, il padre del futurismo scriveva un prontuario per una critica adatta «ai bisogni dello spirito moderno innamorato di esattezza semplicità velocità e simultaneità» 4. E lo mise in pratica in ambito teatrale. Le caratteristiche della misurazione sintetica marinettiana possono venire così riassunte:
a) La brevità, ottenuta con l’eliminazione di sproloqui, ripetizioni ecc.
b) La sincerità: costretti alla brevità, non si può “menare il can per l’aia” e si deve andare al sodo.
c) L’analiticità: il critico (il «misuratore», per Marinetti) isola le varie componenti dell’opera, dall’autore all’interpretazione degli attori.
d) La complessità contraddittoria: il giudizio sui singoli elementi può essere diverso, sia in senso per così dire diacronico («il misuratore può esaltare il valore sociale letterario passato o presente d’un autore, pur condannando il suo ultimo lavoro»), sia sincronico («il misuratore può condannare l’esecuzione di un lavoro teatrale pur esaltando il lavoro stesso»).
e) L’accento sulla novità come metro privilegiato di giudizio estetico.
Marinetti scrisse recensioni divise in categorie (Autore – Concezione –Trovate – Esecuzioni – Scenografia e luci – Pubblico), in grado di soddisfare un «lettore dinamico e spesso distratto». Il suo prontuario non è mai stato ripreso espressamente, ma al di là dell’enfasi sulla novità (che non è certo prerogativa futurista), i princìpi che lo ispirano restano condivisibili, e un sano antidoto contro i pregiudizi, a partire dal culto dell’autore intangibile. Ed è probabile che Marinetti avrebbe giudicato futuriste le recensioni kezichiane. Quali precedenti effettivi aveva Kezich nel suo mestiere? Certamente sui quotidiani si è spesso praticata la misura breve, a partire da quando, nel 1929, Filippo Sacchi divenne detentore di una rubrica di critica cinematografica sul «Corriere della Sera». Ma sul quotidiano come sulla rivista, la brevità, quando non è dovuta a motivi contingenti, spesso rispecchia una gerarchia di valori; e l’assenza della firma è indicativa in tal senso. La novità delle schedine di «Panorama» non è tanto la brevità in sé, quanto il fatto
di applicare la medesima misura all’opera del grande autore e al filmetto commerciale e alimentare, rinunciando a ogni gerarchia. La democrazia kezichiana presuppone una visione del cinema meno cinefila e autorialista, più vicina agli interessi del largo pubblico, anche se non necessariamente ai suoi gusti.
Della recensione, Kezich delinea «la struttura tripartita: l’argomento del film, qualche notizia, un sintetico giudizio», aggiungendo che «i fattori sono rimasti sempre gli stessi, magari invertiti nell’ordine, cucinati in salse varie con allegria»5. Poco incline all’autoanalisi, il critico qui si sminuisce un po’ per posa. In realtà, a leggere con attenzione le schede kezichiane, è facile vedere come i tre elementi giornalisticamente irrinunciabili si fondano senza soluzione di continuità, e in modo complesso. Ecco uno stralcio della scheda di L’Argent di Robert Bresson (1983):
Il suo racconto non pretende di essere avvincente, e neppure plausibile: il carico di disgrazie che si rovesciano addosso al malcapitato Yvon, innocente spacciatore di un biglietto falso da 500 franchi, ha qualcosa di incredibile nella sua biblica tragicità. Per sostenere la famigliola Yvon diventa rapinatore, torna in carcere, tenta inutilmente il suicidio e nel corso di una breve licenza perpetra addirittura una strage. Bresson racconta l’odissea del suo antieroe con lucida spietatezza, facendo muovere i suoi “modelli” come automi o sonnambuli. Più che descritti, gli eventi sono accennati senza il minimo tentativo di spettacolarizzazione6
Prima di “raccontare la trama”, Kezich inquadra lo stile narrativo del regista («non pretende di essere avvincente, e neppure plausibile»); e quando parla di «biblica tragicità», lo connota con precisione, fornendo un elemento pertinente per comprenderne la poetica e i riferimenti culturali, dopo che nella prima parte della scheda (qui non riportata) erano stati citati i riferimenti letterari, da Petronio a Tolstoj. Il resoconto degli eventi («Per sostenere la famigliola Yvon diventa rapinatore…») allinea paratatticamente una serie di frasi: ed è già un modo per dare il sapore della «lucida spietatezza» con cui Bresson «accenna» più che descrivere.
A questo punto non c’è più nemmeno bisogno di un giudizio esplicito,
5 Tullio Kezich, Il MilleFilm, Il Formichiere, Milano, 1977.
6 Tullio Kezich, Il Film ’80. Cinque anni al cinema (1982-1986), Mondadori, Milano, 1986.
Alberto Pezzotta
di tipo semaforico. Che il film sia riuscito, forte, importante, anche se magari non per tutti i gusti o le circostanze di visione, emerge da un’analisi tanto stringata quanto esatta – si veda nel prosieguo come Kezich caratterizza il doppio atteggiamento di Bresson, «entomologo» e «moralista». Nella stessa schedina c’è spazio invece per qualcosa di meno prevedibile, di più ampio respiro e sicuramente di non richiesto da un giornalismo piattamente informativo: Kezich tratta della ricezione di un regista che «stenta a trovar credito e suscitare plauso nella società dei consumi», e che ai festival «ottiene sempre consensi ipocriti e generiche lodi». E qui emerge la vis polemica e la critica culturale della società dello spettacolo. Non è poco.
Non fa parte delle intenzioni di questo intervento ricostruire una storia del gusto e del giudizio kezichiano, documentandone previsioni lungimiranti e inevitabili abbagli. D’altra parte Kezich sottolinea per primo la relatività e storicità dei giudizi. Nella prefazione al Film ’90, scrive che «per ogni film archiviato con un segno negativo, c’è sempre un’ulteriore sede di giudizio o addirittura un’infinità di giudizi possibili». A ogni revisione, aggiunge, non solo si rigiudica il film, ma anche il critico.
Consapevole di esercitare un mestiere non privo di pubblica utilità ma legato a un ambito sempre più minoritario, il pragmatico e disincantato Kezich non rinuncia comunque a riflettere al ruolo della critica. E nella prefazione al MilleFilm, prendendo il largo con un certo sarcasmo dai dubbi e delle polemiche dei suoi colleghi (alla cui frequentazione non deve tenere molto), affida il proprio programma a una citazione dell’americana Pauline Kael: «Un critico è un buon critico se aiuta lo spettatore a capire il film meglio di quanto non potrebbe fare da solo… Se sbaglia i giudizi, non è necessariamente un cattivo critico. È un cattivo critico se non risveglia la curiosità».
In termini retorici, la funzione che la Kael (e Kezich) assegnano alla critica è più pedagogica che giudiziaria. È un programma più che condivisibile, e che ha teorizzato la critica migliore, da André Bazin in giù.
La citazione si conclude dicendo che «l’arte del critico è nel trasfondere negli altri la propria competenza ed entusiasmo». E qui vengono chiamate in causa le due classiche categorie dell’ethos e del pathos, che la retorica classica definisce prove psicologiche. È solo la competenza, conquistata con un lungo tirocinio, che permette a Kezich di essere credibile quando parla in uno spazio ristretto di film complessi come Il fantasma della libertà, o di tracciare riferimenti culturali pertinenti quando analizza Bresson. Ma perché la critica sia persuasiva, occorre anche l’entusiasmo, che comprende anche l’umoralità e la faziosità. E ciò evita che testi così brevi siano anonimi bollettini o aridi referti.
Grazie alla sua esperienza, Kezich, in quasi ogni scheda, svolge una
L’arte della recensione breve
delle funzioni care a Marinetti: accenna e sintetizza la carriera dell’autore, dello sceneggiatore (giustamente risarcito), degli interpreti (a volte più “autori” del regista). La competenza è aggiornata (vedi il profilo del giovane Brian De Palma nella scheda de Il fantasma del palcoscenico7, nel 1974). Ma non mostra alcuna riverenza obbligatoria nei confronti degli anziani, che spesso anzi vengono bacchettati. Nel 1967 El Dorado di Howard Hawks viene giudicato «senile e deludente» 8 – con grave scandalo, si immagina, di tutta la critica cinefila e francesizzante. E a proposito de L’altra metà del cielo (1977) si legge: «Dirige Franco Rossi, che supponiamo sia un omonimo del cineasta di Giovinezza, giovinezza »9.
A rileggere certe schede degli anni Sessanta e Settanta, si resta basiti per la durezza. De Le castagne sono buone di Pietro Germi (1970), Kezich scrive: «Sembra di sfogliare un giornale femminile rimasto indietro sui tempi, ammesso che ne esistano ancora: l’ultimo Germi, nella sua candida e ostentata ottusità, fa quasi rimpiangere gli accenti rusticani e pecorecci di Serafino»10. E vi furono casi in cui il disappunto del regista divenne pubblico11. A innescare la cattiveria, comunque, è sempre la delusione: Kezich in fondo chiede molto, e soprattutto chiede a chi ha girato film importanti di non adagiarsi nel compromesso o nelle soluzioni facili. Anche se va notato come il suo atteggiamento si sia molto ammorbidito nel corso degli anni, soprattutto dopo la fine della rubrica su «Panorama». Come se tornare alla misura lunga del quotidiano, e a più ampie possibilità nella scelta dei film recensiti, lo abbia reso più incline alla divagazione olimpica che all’analisi puntigliosa e spietata. L’auctoritas di cui è forte a volte autorizza Kezich a chiamare per nome i registi, per consigliarli amichevolmente. Nella scheda de Il deserto rosso (1964), ad Antonioni viene suggerito, in pratica, di rinunciare ai dialoghi (o di trovare un altro sceneggiatore!) per ritrovare la sua vena più autentica di poeta dell’immagine:
Temperamento di astrattista, Michelangelo è sempre a disagio con i residui letterari o drammatici. E quasi si vorrebbe che i suoi personag-
7 Tullio Kezich, Il MilleFilm, op. cit.
8 Ibidem
9 Tullio Kezich, Il nuovissimo MilleFilm. Cinque anni al cinema (1977-1982), Mondadori, Milano, 1983
10 Tullio Kezich, Il MilleFilm, op. cit.
11 Si veda lo scambio epistolare con Damiano Damiani a proposito di Perché si uccide un magistrato, pubblicato su «Panorama» nel 1975 e riprodotto in Alberto Pezzotta, Regia Damiano Damiani, Cinemazero, Pordenone, 2004.
Alberto Pezzotta
gi, anziché pronunciare battute contestabili o irritanti, parlassero in turco, come il marinaio che Giuliana accosta nel finale del film. Non a caso a Venezia, dove era presentato senza didascalie, gli stranieri hanno amato Deserto rosso più di molti italiani12.
L’idea è tutt’altro che peregrina, e da questo momento diventa una costante nelle recensioni ai film del regista ferrarese. Ed è motivata, nelle righe che precedono lo stralcio, da un’analisi puntuale del film. L’uso del nome proprio, comunque, addolcisce la rampogna. Il critico si fa suggeritore che esorta l’artista a dare il meglio di sé; e al tempo stesso non dimentica la pedagogia, e fa capire al lettore come in un film si scontrino sceneggiatura e stile visivo, intenzioni e risultati.
Una stroncatura, per altro, non diventa mai una condanna inappellabile prolungata nel tempo. Non avendo il culto cinefilo dell’autore, Kezich non ha pregiudizi o fanatismi. Nelle sue schede un giudizio negativo nei confronti del film di un regista non innesca preconcetti nei confronti dei suoi altri film. Diabolik (1967) di Mario Bava è inserito nello «stupidario degli anni Sessanta»13, ma Il rosso segno della follia (1970), dello stesso regista, è apprezzato «per la qualità figurativa e l’eleganza di certe soluzioni quasi surrealiste»14. Il che dimostra, tra l’altro, come la sottovalutazione della cosiddetta serie B non fosse la norma, come vogliono certi revisionisti odierni; anche se è innegabile come tra un film medio americano e un equivalente italiano, Kezich preferisca recensire il secondo: come è teorizzato nella scheda di Donna… cosa si fa per te di Giuliano Biagetti15 del 1976. Ne consegue la scarsa presenza, tra i film recensiti, di registi prolifici come Fernando di Leo, Enzo G. Castellari, Umberto Lenzi e Pasquale Festa Campanile, oggi a volte rivalutati, a volte giustamente e a volte meno, e comunque fondamentali per ricostruire il quadro della produzione dell’epoca. Anche se, andando avanti negli anni, c’è spazio per una proposta di rivalutazione di Antonio Margheriti16 a proposito di Fuga dall’arcipelago maledetto (1983).
Al di là delle varianti del gusto, il tratto forse più distintivo del metodo kezichiano si trova nella natura interlocutoria del suo discorso: la sinteticità non va mai a scapito della complessità. Il suo giudizio a volte è sospeso, e i
12 Tullio Kezich, Il FilmSessanta, Il Formichiere, Milano, 1979.
13 Ibidem.
14 Ibidem
15 Ibidem
16 Tullio Kezich, Il Film ’80. Cinque anni al cinema (1982-1986), Mondadori, Milano, 1986
vari elementi si contraddicono marinettianamente, senza arrivare per forza alla sintesi. Le recensioni diventano discorsi dove il critico ragiona in diretta e senza trucchi, allineando con onestà i motivi di fascino e di riserva, senza l’obbligo della formuletta semplificatrice.
Spesso Kezich riconosce la bellezza e la forza di un film, ma non riesce a tacere i dubbi: apprezza Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah per tanti motivi, ma ne depreca «l’insistenza sui particolari, spesso grandguignoleschi alla maniera di Leone»17. In tanti altri casi, riconosce l’originalità dell’ispirazione, salvo rimarcare l’inadeguatezza della realizzazione (si veda per esempio Dal nostro inviato a Copenaghen di Alberto Cavallone18).
In un breve arco di tempo, tuttavia, può cambiare tutto: i contesti, le persone le valutazioni. Nella recensione di Cane di paglia (1971) di Peckinpah si sente una passione critica che ragiona, si interroga, ma sa vedere e ascoltare il film: e alla fine si convince, e persuade il lettore. Kezich parte da un dubbio: «emigrato dal western», il regista «conferma la sua filosofia fondata sul diritto-dovere dell’individuo solo a difendersi da tutti nel cuore di una società selvaggia»; e questo «mito costante» del cinema americano, Kezich non lo nasconde, spesso ha avuto venature «criptofasciste». Dai tempi della celebre stroncatura di Per un pugno di dollari di Leone19, il giudizio morale e pedagogico di Kezich ha sempre fatto i conti con la rappresentazione della violenza, in modi che possono apparire anche moralisitici. Ma nel caso di Cane di paglia c’è un “ma”:
Ma Peckinpah è un grande cineasta e la sua visione, fosca e delirante, ci conquista per la forza delle immagini, la tensione del racconto, la “crudeltà” (nel senso di Artaud) dei momenti più accesi. Si pensa a Stroheim di fronte alla scena in cui l’intrepida Susan George subisce, con un misto d’orrore e partecipazione, l’offesa dei due manigoldi. E l’onda violenta del film si rifrange, con effetto stupendamente grottesco, sul gioco sofisticato di un Hoffman in stato di grazia20.
Oggi questa lettura rimane appropriata e persuasiva; e nel 1971, nel pieno della polemiche, era anche coraggiosa e anticonformista.
17 Tullio Kezich, Il MilleFilm..., op. cit.
18 Ibidem
19 Tullio Kezich, Il FilmSessanta, Il Formichiere, Milano, 1979.
20 Tullio Kezich, Il MilleFilm..., op. cit.
Roy Menarini Il “filmkezich”.
Riflessioni sul metodo e sulla scrittura critica di Tullio Kezich
Fin troppo facile affermare che stili di scrittura e categorie interpretative, nella critica cinematografica, vanno considerate in relazione reciproca. Esistono recensori che enfatizzano l’aspetto espressivo ai danni di quello metodologico e fini analisti del film poco propensi alla cura dello stile. Tullio Kezich, nella lunga attività di critico, ha costruito un mirabile esempio di pertinenza e solidarietà tra le due fasi del rapporto con i film: la scrittura e l’analisi, l’espressione e la comprensione, come si legge un film e in che modo si dà forma a queste letture.
Qualche dato anagrafico sull’attività che prendiamo in esame. Kezich ha scritto su «La Settimana Incom Illustrata», «Sipario», «Bianco e Nero», «Cinema», «Panorama», solo per citare i periodici più rinomati. Firma titolare delle recensioni su «la Repubblica» dalla nascita del quotidiano fino al 1989, si trasferisce nello stesso anno al «Corriere della Sera», dove opera tuttora. Vi sono poi diverse raccolte che, nel corso degli anni, hanno sottratto dal flusso quotidiano gli articoli di Kezich e costituito repertori preziosi dei suoi lavori. In ordine di pubblicazione, si tratta di Il MilleFilm. Dieci anni al cinema (1967-1977 ), 2 voll., Il Formichiere, Milano, 1977 (contiene le schede scritte per «Panorama»); Il Centofilm. Un anno al cinema (1977-1978), Il Formichiere, Milano, 1978 (contiene le schede scritte per «Panorama» e per «la Repubblica»); Il Centofilm 2. Un anno al cinema (1978-1979), Il Formichiere, Milano, 1979 (contiene le schede scritte per «Panorama» e per «la Repubblica»); Il FilmSessanta. Il cinema degli anni 1962-1966, Il Formichiere, Milano, 1979 (contiene recensioni tratte da «La Settimana Incom Illustrata», «Sipario», «Bianco e Nero», «Cinema»); Il Centofilm 3. Un anno al cinema (1979-1980), Il Formichiere, Milano, 1980 (contiene le schede scritte per «Panorama» e per «la Repubblica»); Il Nuovissimo MilleFilm. Cinque anni al cinema (1977-1982), Mondadori, Milano, 1982 (contiene le schede scritte per «Panorama» e per «la Repubblica» e si sovrappone in parte alle raccolte pubblicate da Il Formichiere); Il Film ’80. Cinque
Il “filmkezich”. Riflessioni sul metodo e sulla scrittura critica di Tullio Kezich
anni al cinema (1982-1986), Mondadori, Milano, 1986 (contiene le schede scritte per «Panorama» e per «la Repubblica»); Il Film ’90. Cinque anni al cinema (1986-1990), Mondadori, Milano, 1990 (contiene le schede scritte per «Panorama» per «la Repubblica» e, dal marzo 1989, per il «Corriere della Sera»); Cento Film 1994, Laterza, Roma-Bari, 1994 (contiene recensioni dal «Corriere della Sera» con integrazioni di Alessandra Levantesi, tratte da «La Stampa»); Cento Film 1995, Laterza, Roma-Bari, 1995 (contiene recensioni dal «Corriere della Sera» con integrazioni di Alessandra Levantesi, tratte da «La Stampa»); Cento Film 1996, Laterza, Roma-Bari, 1996 (contiene recensioni dal «Corriere della Sera» con integrazioni di Alessandra Levantesi, tratte da «La Stampa»). Si ricorda inoltre che di queste opere sono state fatte frequenti ristampe e che in ciascuna antologia le critiche brevi hanno non di rado costituito una nuova versione riveduta e corretta di quelle comparse su periodici e quotidiani.
A fronte di un’attività così puntuale e incredibilmente continua nel tempo, non è semplice individuare tratti generali, se non incorrendo nel rischio di qualche semplificazione. Va da sé che nelle recensioni di Kezich si avverte un mutamento di stile e consapevolezza critica nel corso degli anni, ma sarebbe vano (e francamente presuntuoso) ragionare in termini di apprendistato, maturazione, conferma, messa a punto degli strumenti. La critica di Kezich, infatti, sfugge a questo tipo di logica, non foss’altro che per la sua identità riconoscibile, per l’autorevolezza conquistata assai precocemente, per la ricerca di un’espressione da subito limpida, argomentata, riconoscibile.
Kezich, insieme ai compagni di strada Callisto Cosulich, Franco Giraldi e pochi altri, sembra avere individuato una forma di scrittura personale e originale fin dai primi tempi della propria attività. In che cosa consiste questo stile? Nell’accettazione mai passiva dei codici giornalistici della recensione da quotidiano o da settimanale (la famigerata griglia: introduzione/sinossi/giudizio), spesso sotterraneamente riformati, modificati, superati; nella ricerca di un rapporto fiduciario con il lettore che tenga conto di una comunità di spettatori cui ci si indirizza senza infingimenti e senza false modestie; nella valorizzazione di un linguaggio e di una sintassi penetranti e complessi, dove la semplicità non diventa mai condizionamento interpretativo; nella ricerca di un lessico colto, culturalmente appropriato, che – laddove contenga (di rado) tecnicismi e termini specialistici – utilizza il contesto comunicativo per svelarne significati o funzioni.
Non è un mistero che Kezich, come molti altri della sua generazione o di quelle limitrofe, sia stato per un certo periodo anche indicato come
Roy Menarini
avversario della “nuova critica” o della critica cinematografica specializzata, in forza del raro accoglimento che nel suo bagaglio da recensore si fa delle discipline umanistiche più all’avanguardia (semiotica, strutturalismo, post-strutturalismo, studi culturali, sociosemiotica ecc.). Più in generale, questa era un’accusa portata a tutta la categoria della critica quotidianista. Oggi che le distinzioni e i contrasti sembrano di gran lunga ridimensionati, Kezich si trova circondato da giusto rispetto e letto da diverse generazioni di cinefili: le sue recensioni di trenta, quarant’anni fa sono tuttora valide, mentre lo stesso non si può dire delle “folate” ideologiche di volta in volta nate sull’entusiasmo della critica militante, teorica, politica, metacinematografica.
A questa solidità e affidabilità culturale non è estraneo – anzi, ne è probabilmente architrave – il metodo di scrittura. Non è questa la sede per una scelta antologica abbondante né per esercizi di analisi della recensione che necessiterebbero di interi volumi, tuttavia facciamo qualche esempio. Mettiamo a confronto, per cominciare, una recensione del “primo” Kezich e una dell’“ultimo” Kezich.
Su «Bianco e Nero», dove si è dedicato per alcuni anni al genere western diventandone uno dei maggiori conoscitori italiani, nel 1963 Kezich recensisce Cleopatra di Manckiewicz1. La struttura del pezzo è tipica del “metodo-Kezich”: una prima parte storica (le “Cleopatre” dello schermo), la prima valutazione del film («Quella che vediamo sullo schermo è una piccola borghese americana, scollatissima e traccagnotta, che stuzzica un Marcantonio con il bicchiere sempre in mano e subisce il fascino di un Giulio Cesare che sembra sempre sul punto di mettersi a cantare un song di My Fair Lady » 2 ), una seconda digressione sulle disavventure produttive del film, e infine un giudizio, piuttosto lungimirante, sull’opera: «Cleopatra è un film importante, nonostante i suoi difetti evidenti anche da un punto di vista strettamente spettacolare, perché vi si può leggere in filigrana l’analisi involontariamente spietata della crisi di un sistema, di un certo modo di fare cinema che risale ai tempi di Griffith» 3 . A parte la precisione dell’analisi – poi dimostrata dai fatti: ancora oggi Cleopatra viene indicato dagli storiografi come film-simbolo dell’incipiente crisi di Hollywood – interessa la metodologia critica. Kezich passa dall’ironia verso le forme espressive del film alla valutazione generale dell’opera, dimostrando l’intima connessione
1 Tullio Kezich, Cleopatra, « Bianco e Nero», n. 12, dicembre 1963, pp. 52-55.
2 Ivi, p. 53.
3 Ivi, p. 54.
Il “filmkezich”. Riflessioni sul metodo e sulla scrittura critica di Tullio Kezich
tra gli aspetti produttivi e quelli realizzativi. Nella recensione specialistica, Kezich non si comporta in maniera troppo differente da quella quotidianista. Durante la sua attività su «Bianco e Nero» lavora di fino – con occhio sempre distante, a suo modo indipendente – su opere che la rivista sceglie tra tante (come noto, si tratta di una rivista che non ha mai individuato nella recensione di stampo tradizionale il suo compito primario di diffusione del sapere cinematografico).
In una recensione molto recente, Kezich opera in maniera non dissimile. Il film è La 25ª ora (2002) di Spike Lee. Incipit : «Tra il romanzo La 25ª ora di David Benioff e il film di Spike Lee c’è una differenza non da poco: il libro è stato scritto prima dell’11 settembre e il film è stato realizzato dopo la data fatidica. Vale a dire che l’angoscia personale del protagonista, spacciatore che vive la sua ultima giornata di libertà prima di entrare in carcere per sette anni, è immersa nell’ansia collettiva di una New York frastornata e tragica, che contempla le voragini delle Twin Towers. La domanda su quale potrà essere il futuro di Edward Norton, vulnerato protagonista, si allarga al problema dell’avvenire di un’intera comunità»4 . In poche righe, troviamo informazioni sul romanzo, sulla trasposizione, sugli autori, sui significati prodotti dal film e sulle interpretazioni che se ne possono trarre (Monty, protagonista del film, come portavoce di una comunità “frastornata”).
Ancora, poco oltre: «Pregi e difetti sono i soliti dell’autore, tanto che è ormai difficile disgiungerli: felicità nel cogliere la cosa vista e logorrea, folgorazione grottesca e divagazione superflua. Il risultato, stavolta, sembra testimoniare una raggiunta maturità. Anche perché Spike si è staccato dalla tematica razziale, ha capito che neri o bianchi siamo ormai tutti sulla stessa barca».
Un altro esempio. Nella recensione di Guerre stellari (1977) 5 , Kezich – nell’apprezzare con riserva il lavoro di sintesi spettacolare di Lucas – conclude con un accenno ai valori simbolici che l’opera rischia di suggerire: «Spiace, in tutto questo, una certa propensione a rimettere in circolo la leggenda elitaria di una setta destinata a guidare l’universo, i cavalieri Jedi. Slogan come “la forza sia con voi” ricordano i miti del Santo Graal investigati da Julius Evola, il filosofo che Almirante ha definito il Marcuse del fascismo. Torniamo dodicenni, e va bene: ma non in divisa di balilla»6 .
Dal punto di vista argomentativo, il riferimento ai testi politici e ai miti
4 Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 19 aprile 2003.
5 Ora in Tullio Kezich, Il Nuovissimo Millefilm, Mondadori, Milano, 1983, p. 188.
6 Ibidem.
Roy Menarini
del post-fascismo torna utile a Kezich per guardare il film di Lucas da un punto di osservazione inedito (successivamente divenuto un vero e proprio tormentone interpretativo della saga). Ma il passaggio dallo «spiace» della prima parte, al «torniamo dodicenni, e va bene» della seconda mostra una strategia tipica di Kezich. Il processo di avvicinamento retorico al lettore viene gestito grazie a un sapiente dosaggio di espressioni impersonali e personali, che si concludono con una prima persona plurale in grado di chiudere l’articolo con una perentorietà, come dire, “negoziata”. A chi parla Kezich quando dice: «Torniamo dodicenni […] ma non in divisa da balilla»? Al potere produttivo del film, alla pressione massmediatica che lo circonda, alle parole d’ordine con cui il fenomeno viene assorbito dall’industria culturale. I dodicenni, sembra affermare Kezich, non sono tutti uguali: dipende dal contesto, dalla società, dalla cultura. Che tipo di dodicenni ci vogliono far ridiventare? Con pochi accenni, in questa recensione Kezich sta dunque lavorando su piani (raffinati) di critica al rapporto tra forme produttive, forme estetiche e forme simboliche. Ecco un esempio di semplificazione e pertinenza offerte al lettore, dove pure la conoscenza della storia delle idee (il confronto Marcuse/ Evola mediato dall’accenno ad Almirante) funge da rafforzamento della bontà argomentativa. In Kezich, ci si imbatte spesso nel preambolo storico-letterario. L’enciclopedia del critico è in questo caso ampia. Capita (ma di rado) che nelle recensioni del critico triestino l’aspetto trascenda nello sfoggio. In verità, lo sfoggio – di per sé – rappresenta un’operazione di allontanamento dal lettore, poiché il recensore fonda la propria autorevolezza sulla “distanza” intellettuale nei confronti del destinatario, sulla mediazione culturale, e sulla dimostrazione – saperi alla mano – che si merita di stare lì, al posto di chiunque volesse giudicare il film su basi empiriche. Kezich, a ben vedere, è invece un caso unico di erudizione capace di fidelizzare il lettore e di costruire un rapporto intimo che – diverso da quello instaurato da critici più autobiografici – fa convivere nel lettore il sentimento di “timore reverenziale” e quello di legame affettivo.
Leggiamo per esempio la recensione che Kezich dedica a Querelle de Brest (1982) di Rainer Werner Fassbinder7: « Kultfilm nei Paesi di lingua tedesca e ormai in ogni parte del mondo, da noi è stato oggetto di una deprimente polemica moralistico-censoria conclusa con un taglio di 48 metri e un cambiamento di titolo (possibile che i protagonisti di questa vicenda non ne abbiano sentito il ridicolo?)» 8 . Va sottolineata, di questo incipit, la
7 Ora in Tullio Kezich, Il Film ’80. Cinque anni al cinema (1982-1986), Mondadori, Milano, 1986, pp. 197-198.
8 Ivi, p. 197.
Il “filmkezich”. Riflessioni sul metodo e sulla scrittura critica di Tullio Kezich
netta presa di posizione riguardo all’integrità dell’opera d’arte, e l’ironica domanda retorica che si chiede se mai i censori di turno vengano sfiorati dal senso del grottesco. Il riferimento agli altri paesi europei è teso a dimostrare l’ennesima occasione di arretratezza nazionale ogni qual volta si potrebbe offrire un segnale di laicità e indipendenza culturale. Le altre informazioni circa le difficoltà del progetto di trasposizione dell’opera di Genet vengono esposte subito dopo. E dopo aver ricordato la solidarietà di Carné e Wenders, l’ostracismo dei giurati della Mostra del Cinema di Venezia e altre disavventure occorse alla pellicola, il critico chiosa nel finale: «Un racconto emblematico, figurativamente morbido quanto violento di fondo, privo di qualsiasi volgarità. Un congedo alla Pasolini, di cui si parlerà per anni» 9 . Quando il recensore osa vaticinare il futuro di un’opera cinematografica – dimostrandosi sicuro del suo valore o, al contrario, del ridimensionamento che il tempo metterà in atto – esprime un parere rischioso. Con tutta evidenza. Kezich aveva ragione. Così come l’apprezzamento nei confronti dell’ultimo film di Fassbinder si carica di importanza per l’analogia con Pasolini e per l’affermazione sull’assenza di volgarità di un’opera attaccata da tutte le parti per la resa esplicita della passione omoerotica.
A proposito di scommesse critiche. Recensione di Fargo10 (1995), diretto da Joel Coen. Questo l’excipit : « Fargo è la conferma della statura di una premiata coppia registica (“Palma d’Oro” con Barton Fink nel ’91) e insieme un racconto esemplare dell’America di fine secolo, accolto qui con grande favore per i suoi valori di intrattenimento e la sbalorditiva economia dello stile. Vorrei concludere, profetizzando: è un film che resterà»11 Tornando al passato, scopriamo che a Kezich capita di collocarsi criticamente attraverso il confronto con le altre scuole critiche. Ciò che egli scrive – per esempio – da Il corridoio della paura (1963) è emblematico: «Ci sono registi americani che la critica francese ha pressoché rovinato, montando loro la testa e trasformandoli da onesti artigiani in falsi “padreterni”. Ad altri, invece, l’interessamento entusiastico dei «Cahiers du Cinéma» ha giovato: tra questi mettiamo senz’altro Samuel Fuller. […] De Il corridoio della paura, per esempio, non si può dire che sia un film banale. È vero che sul tema del giornalismo a sensazione Billy Wilder ha detto una parola
9 Ivi, p. 198.
10 Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 15 maggio 1996, ora in Tullio Kezich, Alessandra Levantesi (con la collaborazione di), Cento Film 1996, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 90-91.
11 Ivi, p. 91.
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definitiva con L’asso nella manica: tuttavia anche in questo film, dove un reporter senza scrupoli si fa passare per matto e rinchiudere in manicomio, c’è grinta e passione civile. Il difetto maggiore è che la conclusione appare prevedibile fin dalle prime battute: il finto pazzo, attraverso la convivenza con i malati e le cure che gli vengono praticate nella clinica, diventerà un pazzo vero. Vincerà il Premio Pulitzer, ma non sarà più capace di ritrovare se stesso. Un altro difetto del film è il turgore eccessivo dell’espressione, la decisione di puntare sugli effetti più emozionanti e senza esclusione di colpi. Si tratta di un apologo trasparentissimo sull’inutilità della corsa al successo in un mondo dove la nevrosi sta facendo più vittime di una guerra mondiale. Fuller ci è più simpatico mentre tira questo campanello d’allarme di quando esaltava le spie pseudopatriottiche o i marines ammazzasette»12 . Anche la recensione di Jules e Jim13 (1962) esprime chiaramente l’indubbia personalità del Kezich critico fin dall’inizio: «[Il protagonista Jules] segue lacrimando i due feretri al cimitero, come Gérard Philippe in Il diavolo in corpo ; e come nel film dell’anziano Autant-Lara, disprezzatissimo dalla Nouvelle Vague, anche qui sulla storia dei tre innamorati scende la cappa conformistica del giudizio comune, una specie di castigo divino per i peccatori. Mezza intelligenza francese, da Salacrou a Cocteau, da Jean Renoir a Françoise Giroud e al magnate Lazareff, si è impegnata a parlare di capolavoro a proposito di Jules e Jim, confondendo il talento con il genio e scambiando il romanticismo per spregiudicatezza».
Kezich sembra non avere intenzione di delegare all’industria dell’intrattenimento e al giornalismo pubblicitario la dimensione informativa riguardo alla genesi del film. L’attacco delle recensioni è infatti non di rado dedicato alla ricostruzione delle fatiche realizzative. In esse, peraltro, si legge l’interesse per la dimensione produttiva del fare film e la costituzione di un terreno di “negoziazione” dei valori del cinema con il lettore. Un cinema – quello che Kezich commenta per cinquant’anni – in cui si muovono scuole, correnti, autori, generi, cattivi maestri, false speranze, fenomeni effimeri e altro ancora. Kezich, che a volte può apparire come un “moderatore” di entusiasmi e in ciò risulta inviso alla critica di “imitazione Cahiers”, in verità è perentorio di fronte a quelli che individua come capolavori e più tiepido di fronte ai culti di massa. Peraltro – e questa è qualità ineccepibile – non milita per alcun tipo di cinema, non sta col cinema europeo contro
12 Tullio Kezich, Il FilmSessanta. Il cinema degli anni 1962-1966, Il Formichiere, Milano, 1979, p. 88.
13 Tullio Kezich, «Sipario», n. 194, giugno 1962, ora in Tullio Kezich, Il FilmSessanta..., op. cit., p. 137.
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quello americano, né con quello americano contro l’italiano o altro ancora, e nemmeno indica in uno dei modi di intendere il cinema quello giusto nei confronti di altri meno amati. Le qualità dello storico e dell’osservatore troppo spesso vengono barattate dalla critica in cambio della spericolatezza cinefila o della furia interpretativa.
La recensione di Sotto gli ulivi14 (1994) di Abbas Kiarostami la dice lunga sul rispetto attribuito da Kezich alla funzione maieutica della critica. Ecco l’incipit : «Per invitarvi caldamente a vedere Sotto gli ulivi vorrei trovare il tono delle grandi occasioni, ma so per esperienza che può essere controproducente: se il cinema si configura come un adempimento culturale, la sala resta vuota. Non mi rivolgo perciò agli appassionati, che attendono da due anni l’arrivo sui nostri schermi di questo capolavoro ammirato e snobbato (dalla giuria) a Cannes nel ’94: mi rivolgo a tutti indistintamente perché qui il maestro iraniano Abbas Kiarostami mette in scena una storia tanto vicina alla comune esperienza quanto in grado di commuovere chiunque. Non occorrono particolari patenti di intellettualismo o cinefilia, il film lo può capire (meglio sarebbe scrivere “sentire”) anche un analfabeta come il muratore protagonista»15 . Si tratta di una recensione programmatica, e non solo per la comparsa di termini deittici. Kezich mostra a che cosa aspira la critica e a che cosa servono i capolavori.
La conclusione migliore per questa sia pur breve disamina è rappresentata dalla recensione del film Centochiodi (2006). Il film di Olmi, che rappresenta l’ultimo lungometraggio di finzione dell’autore a detta dello stesso interessato, ha costituito un campo di esercizio critico molto controverso16 . Inoltre, a fronte di un autore che dà in certo qual modo l’addio al cinema “ufficiale”, e a un compagno di strada molto stimato, Kezich sembra riservare la recensione più sentita della sua recente produzione.
Leggiamola:
Se qualcuno mi chiede “chi vorresti essere?”, da quando ho letto che è il felice possessore di 130 mila volumi rispondo: lo stilista Karl Lagerfeld! Mi ha sempre stupito, invece, vedere pochissimi libri nel rifugio asiaghese del mio amico Ermanno Olmi. La verità è che l’autore di
14 Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 1° giugno 1996, ora in Tullio Kezich, Alessandra Levantesi (con la collaborazione di), Cento Film 1996, op. cit., pp. 219-221.
15 Ivi, pp. 219-220.
16 E non è un caso che il massimo storico del cinema italiano, Gian Piero Brunetta, lo ponga come terminus ad quem nel titolo del suo recente libro, Il cinema contemporaneo italiano. Da La dolce vita a Centochiodi, Laterza, Roma-Bari, 2007.
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Centochiodi diffida del libro come se provenisse dal lato oscuro della Forza; e fa quindi entrare in casa un titolo alla volta, lo soppesa guardingo e nei rari casi in cui gli capita di innamorarsene lo considera un motivo in più per tenere lontani gli altri. Ricordo come si impadronì de La leggenda del Santo bevitore prima di ricavarne il famoso film “Leone d’oro”: lo lesse, lo rilesse, ne assimilò ogni frase. Provai allora a mettergli sotto il naso altre opere di Joseph Roth, lo scrittore in cui si stava compenetrando; ma lui eluse l’offerta, indugiando nelle sue fertili meditazioni sul Bevitore. Poiché sono un libro-dipendente alla Lagerfeld, figuratevi il mio disagio quando capii che Olmi stava progettando la beatificazione di un Erostrato 2000, il distruggitore di una biblioteca. Paventai la fine di una bella amicizia, nel corso della quale le nostre diversità non sono mai diventate divergenze; ma di fronte all’apologia di un assassino dei libri... Se Dio vuole, non è proprio così. […] Olmi si conferma lo spregiudicato teologo ruspante che esaltando i pastori condannò i Re Magi nel sottovalutato Camminacammina, un uomo di fede più scomodo di un miscredente. Attiene ai segreti della poesia il suo dono di fondere neorealismo e cinema dell’anima in un connubio tanto contagioso che dopo questa ispirata e ispirante rigenerazione rusticana balena per un attimo la tentazione di buttar fuori dalla porta tutti i libri che ci ingombrano la casa17
Kezich sa di potersi permettere l’autobiografismo e la memoria delle fonti, poggia sul sapere di un critico che ha conosciuto e frequentato gli autori e non fa mistero che dalla consuetudine con essi si possa trarre giovamento interpretativo. Fatto sta che, da esperto, la sua recensione di Centochiodi è la migliore finora pubblicata sul film.
Bene. Ci dobbiamo fermare. Non si è potuto che procedere a campione, in questa straordinaria vastità di scritti. Una decina di esempi su migliaia di recensioni pubblicate non possono ambire, non dico all’esaustività, ma nemmeno lontanamente a una minima campitura della critica kezichana. Quel che si può affermare, però, di fronte a un così vasto territorio letterario è che le conclusioni analitiche sono invece poche, chiare, evidenti: prendete una qualsiasi recensione di Kezich degli anni Sessanta o di oggi, e vi accorgerete in poche righe di chi ne è l’autore. Che la coerenza di procedimenti interpretativi, i metodi di lettura del film e le forme di scrittura sono rimasti molto simili a quelli degli esordi, e che le recensioni di Kezich
17 Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 30 marzo 2007.
possiedono il dono del tutto spontaneo di saper costruire un rapporto con il lettore dove l’erudizione del sapiente e l’orizzonte d’attesa dell’interlocutore si incontrano in un territorio condiviso, rispettoso e fondato.
La fama assunta da Kezich, e confermata per decenni – tanto da diventare in qualche modo l’emblema assoluto del critico («Ma chi ti credi di essere… Kezich?» è il refrain ascoltato da centinaia di giovani recensori alle prese con direttori arrabbiati, parenti poco fiduciosi, amici d’osteria o maestri di vita) – intimidisce lo studioso. Rivedere oggi, tutte insieme, quelle recensioni – nei confronti di un critico che è stato più volte “antologizzato” nel corso della sua carriera – offre sensazioni disparate. Le metodologie interpretative, che risentono evidentemente di una formazione umanistica e delle griglie di valore della critica letteraria, appaiono in verità meno tradizionaliste di quel che per lungo tempo la “giovane critica” ha voluto far credere. Ma è soprattutto nell’inverarsi della scrittura, nella pertinenza dei riferimenti (altro caso unico, Kezich non compie quasi mai errori storiografici, tecnici, enciclopedici) che si rafforza la scrittura kezichana. Poi ci sono i giudizi, certo, o meglio il gusto: Kezich prende posizione, fa arrabbiare (anche l’estensore del presente saggio), compie operazioni di valorizzazione cinematografica o di ridimensionamento culturale che non di rado urtano le suscettibilità. Viene da dire: per fortuna. La critica, come il lavoro intellettuale nel suo complesso, fa appunto questo: distingue. E Kezich è uno scrittore che distingue.
Callisto Cosulich
Appunti su un critico scrittore
Tanto il critico si trova a proprio agio parlando di un regista o di un attore, di uno sceneggiatore, di chi, insomma, il cinema lo fa, quanto gli è arduo scrivere di un collega. Figurarsi, poi, se col collega ha condiviso gli inizi, ha abitato la stessa città, ha frequentato gli stessi amici, ha fatto parte della stessa “clapa”, per usare il termine triestino, che Tullio Kezich impiega al posto dell’italiano “compagnia” in Una notte terribile e confusa, a tutt’oggi la più straordinaria delle sue escursioni in campo letterario. Si rischia di cadere nell’aneddotica, che nella fattispecie potrebbe risultare anche divertente; ma non è questa la sua sede. Proverò, quindi, a trattare Kezich come se fosse un critico ugandese o azerbaigiano, incontrato a qualche festival, di cui, chissà perché, ho seguito la carriera. Con una sola licenza: non userò il plurale come si conviene in questi casi, perché nel caso di Tullio la consueta presa di distanza dall’oggetto del discorso parrebbe una soluzione gesuitica.
Giorni fa, prima d’iniziare a scrivere questi appunti, ho chiesto a Tullio quale fosse la prima immagine, vista al cinema, che si è portata appresso per tutta la vita: «La sparatoria finale in un western anonimo con Tom Mix, visto da bambino con mio padre», mi ha risposto. In base alla mia esperienza lo immaginavo. La mia prima immagine riguarda la scena di una Manon, vista nel 1927 a bordo del transatlantico “Vulcania”. La cinepresa inquadrava la coperta di una galea, in particolare la grata, dalla quale sbucavano le mani di alcuni galeotti che si agitavano freneticamente nel tentativo di aprirsi una via di uscita. Arrivavano guardie armate di forconi, che con compiaciuta violenza ricacciavano i prigionieri nella stiva. Andando per esclusione, ho dedotto trattarsi di When a Man Loves, un film di Alan Crosland, uscito nel 1927, quindi ancora muto, che in Italia sarebbe stato visto col titolo Gli amori di Manon Lescaut. La scena mi terrorizzò. Per reazione elessi a livre de chevet il Nuovissimo Melzi, affascinato dalla pagina dei supplizi, occupata tutta da piccoli riquadri, in ciascuno dei quali era disegnata una tortura nell’atto di essere eseguita. Non importa quale fosse il genere cui apparteneva il film; importa l’effetto terrifico che ebbe su di me, bambino, quella scena, probabilmente esaltata dalla gestualità tipica del
Appunti su un critico scrittore
cinema muto; un effetto che in seguito mi portò a frequentare assiduamente le sale dove si proiettavano gli horror, genere per cui provo ancora un interesse che esula totalmente dalle mie facoltà critiche. Lo stesso interesse, immagino, che prova Kezich di fronte ai western, il genere che gli ha fatto scoprire e amare John Ford, al quale ha dedicato un congruo numero di libri e di interventi. Detto per inciso, anche io venero John Ford, come la maggior parte dei critici della nostra generazione; ma, a farmelo amare non è stato Ombre rosse come successe per Kezich, bensì La pattuglia sperduta, che sono corso a vedere attratto – guarda caso – dalla presenza nel cast di Boris Karloff, lì impiegato in un ruolo collaterale.
Sarebbe interessante fare un’inchiesta a tutto campo sull’importanza rivestita dalla prima immagine, e questo sia per i critici, ma ancor più per i registi. Bisognerebbe portare avanti uno studio dettagliato sugli indizi percettivi e situazionali che si sono depositati nella memoria – non su quelli cognitivi, già consolidati, che la memoria cataloga – per indicare quale regista e quale film le siano serviti per scoprire la bellezza del cinema, inteso come opera d’arte. L’idea di rintracciare la prima immagine mi perseguita dal 1987, cioè da quando, in occasione del Festival di Cannes, «Libération» uscì con uno speciale supplemento dal titolo Pourquai filmez-vous?, in cui si chiedeva a 700 cineasti del mondo intero i motivi del loro filmare. Ritenevo che la prima immagine avrebbe offerto un ottimo complemento a quella inchiesta. Per la verità, un’idea simile, l’ha avuta poi l’Accademia Europea del Cinema, ma ristretta a sole undici personalità del nostro continente, scelte fra registi, attori e produttori.
Come si diventa critici cinematografici? Naturalmente la prima immagine non obbliga a divenirlo, così come non obbliga a divenire registi, attori, o produttori. La prima immagine è un patrimonio che appartiene a tutti, cioè anche al comune spettatore. A Kezich nella sua vita è capitato di recitare parecchie parti in commedia, come lui stesso confessa. Oltre che critico, è stato redattore, inviato, produttore, commediografo, scrittore. «Eppure il mio variegato curriculum – ha scritto nell’introduzione a una raccolta di sue recensioni – mi apparirebbe scialbo, vacuo e confuso, se non avessi tenuto fede a quella prima misteriosa vocazione di spettatore […] che mi induceva ancora ragazzino a raccogliere e a mettere su carta le impressioni, le emozioni e i risentimenti appena rientrato dal quotidiano pellegrinaggio al cinema». Truffaut ha scritto che ogni spettatore è in embrione un critico cinematografico. Già, ma pochi entrano in sala, se mai lo fanno, muniti di notes e matita. Nella stessa introduzione egli cita qualche brano della lettera di risposta data a un aspirante critico, che gli
Callisto Cosulich
aveva inviato per posta alcuni suoi articoli e gli chiedeva un giudizio. È un testo interessante, rivelatore anche per chi il mestiere del critico lo esercita da una vita. Tra i vari consigli che gli dà spicca quello in cui raccomanda di analizzare «l’aspetto artistico» piuttosto che «gli spessori ideologici o sociologici». E aggiunge: «Capisco che è la cosa più inafferrabile e indimostrabile, dipendente com’è quasi per intero dalla sensibilità e dal talento di chi scrive. È proprio come correre dietro a un fantasma; ma se non si fa così a che serve scrivere?». Più avanti in un altro paragrafo ripete lo stesso concetto, approfondendolo: «Il rapporto con la pellicola è personale, in nessun caso si può attingere all’oggettività: non esistono un giudizio giusto e uno sbagliato, tutto va bene purché il film attraverso l’articolo che ne deriva metta in moto idee e provochi riflessioni». Santa verità, verificabile anche attraverso i voti e le palline delle “pagelle della critica” pubblicate da quotidiani, settimanali e riviste specializzate, consuetudine che, a dire il vero, Kezich aborre, ma che è utile a sfatare il luogo comune, secondo il quale i film si dividono in due categorie, quelli che piacciono al pubblico e quelli che piacciono alla critica, come se spettatori e critici parlassero rispettivamente con una voce sola. Pasolini, il giorno in cui apprese il mestiere di regista, ebbe un’intuizione illuminante sulla natura del linguaggio filmico. Scrisse che il cinema, a differenza della letteratura, si avvale di un alfabeto infinito. Se accettiamo questa riflessione come un assioma, si comprende perché ciascuno vede il film e lo interpreta a modo suo; vi scorge cose che altri non avvertono. Da qui, penso, dipende la sua ambiguità, e anche il suo fascino. Kezich, che tra le varie parti in commedia non impersona quella del teorico, arriva però alle stesse conclusioni quando scrive che il rapporto con la pellicola è personale. È una verità questa che è divenuta più tangibile da quando sono cadute quelle barriere ideologiche che semplificavano il giudizio, almeno fin quando era rimasto in piedi il Muro di Berlino.
Aggiungerei a questo punto alcune considerazioni sullo stile delle recensioni e dei libri di cinema scritti da Kezich. È lo stile dello scrittore, più che di uno specialista del settore. Direte che non rappresenta una novità, che molti sono gli scrittori i quali, a tempo perso, o per abitudine, hanno tenuto anche delle rubriche cinematografiche. Basti pensare ad Alvaro, Moravia, Marotta, Pratolini, Bernari, Flaiano. Un tempo i settimanali ritenevano che l’affidare la critica cinematografica a uno scrittore di fama accrescesse il loro prestigio. Lo specialista subentrava allo scrittore in qualità di titolare solo quando costui si stancava di tenere la rubrica, o era totalmente assorbito dal romanzo che stava scrivendo. Ora la moda è passata. Di recente lo ha fatto
solo Marco Lodoli, che ha tenuto una rubrica di critica cinematografica su «Diario», fino a che il settimanale diretto da Enrico Deaglio non ha smesso di uscire. C’è stato pure chi ha compiuto il percorso inverso, come Ettore Maria Margadonna, giornalista a partire dal 1924, critico cinematografico dal 1928 al 1935 su «Commedia», autore nel 1932 della prima storia del cinema (Cinema di ieri e di oggi ) scritta da un italiano, dal 1937 brillante e fortunato sceneggiatore, primo passo per divenire infine narratore tout court, cosa che gli valse nel 1952 il “Premio Valdagno opera prima” per il volume di racconti intitolato Dio semina gli uomini. Ma nessuno, per quanto mi risulta, ha perseverato come Kezich nel mestiere del critico militante, pur scrivendo una quantità rilevante di commedie e di libri di narrativa non attinenti, tranne qualche eccezione, al cinema.
Né sarebbe esatto dire che la pratica dello scrittore di commedie, racconti e romanzi, ha via via influenzato e impreziosito lo stile delle sue recensioni e dei suoi libri sui film e su chi li dirige, li interpreta, li produce. Kezich è nato col talento dello scrittore. Lo era in pectore prima ancora del 1959, anno in cui comparve per I tipi de Lo Zibaldone di Anita Pittoni il suo primo racconto, Il campeggio di Duttogliano. A differenza degli altri critici della sua generazione, gran parte dei quali, lui e me compresi, furono degli animatori dei circoli del cinema (oggi si chiamerebbero “operatori culturali”), Kezich non si preoccupò mai di “alfabetizzare” il lettore, di spiegargli il linguaggio e di raccontargli per sommi capi la storia del cinema, anzi. Non solo è nato col talento dello scrittore, ma – cosa rara a Trieste – con uno stile quanto mai brillante e disinvolto; per capirci, più vicino a Quarantotti Gambini che a Svevo. Quest’ultimo sembrava dominare a fatica la lingua italiana: gli stessi concittadini lo avevano accusato di non sapere l’italiano, addirittura di non sapere scrivere, ignorando, o facendo finta di ignorare, che Svevo rappresentava la regola, mentre Quarantotti Gambini l’eccezione, o, meglio, l’eccezione che conferma la regola. Mi è sempre parso, infatti, che il triestino, quando evita il dialetto, traduca in italiano una lingua sconosciuta, una lingua scomparsa insieme all’etnia che la parlava. Una caratteristica della “triestinità”, insomma, come con spiegazioni dettagliate e approfondite, riferendosi alla storia e alla cultura della città, ha spiegato lo stesso Tullio nella lectio doctoralis1 da lui tenuta in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Trieste il 7 giugno del 2001. Lui, però, fa parte dell’eccezione, eccezione che, trasferita nello stretto ambito della critica militante, rende ancora più unico il suo caso.
1 Cfr., Tullio Kezich, Sulla triestinità, infra (n. d. r.).
Claudio Bisoni
Tullio Kezich e la forma lunga: monografie, diari, ri-scritture di un critico appassionato
Si dice che la critica sia l’unica forma decente di autobiografia. Di certo la critica della propria passione per il cinema a volte ha bisogno di un po’ di onestà intellettuale. Da qui la necessità di una precisazione, senz’altro non richiesta. Sarebbe reticente girarci attorno: per alcuni di noi Tullio Kezich è stato a lungo un idolo polemico, non un modello imitabile. Per “noi” intendo la generazione di quelli che avevano circa vent’anni nel passaggio tra anni Ottanta e Novanta e che, poco prima, erano riusciti a farsi un po’ le ossa nei lacerti dei cineclub, ad accumulare un numero impressionante di videocassette e a cercare di scrivere sulle riviste specializzate: quelle “serie”, pensavamo dalle aule dei corsi universitari di storia del cinema. Le videocassette non erano un fattore discriminante secondario ( Tarantino ce lo avrebbe fatto capire di lì a poco): come alcuni cominciavano a dire, esisteva un prima e un dopo il video-registratore, un prima e un dopo la divulgazione del patrimonio cinefilo in televisione. Un prima caratterizzato da una critica della memoria, e un dopo sostanziato da riscontri e valutazioni che si volevano più puntuali1. Da qui discendevano velleità di distinzione non sempre dotate di senso. Sta di fatto che guardavamo altrove. Lui mi sembrava lontano. Le sue raccolte di recensioni erano state tra i primi tomi ad accumularsi nella mia biblioteca cinematografica. Eppure sentivo una distanza incolmabile da quei giudizi. Semplicemente esisteva una diversità generazionale che si traduceva in differenti aspirazioni, gusti, sensibilità, generi e autori da difendere.
Se la diversità di gusti è rimasta, su altre cose bisognerebbe rifare il punto. Ecco perché le considerazioni seguenti non possono non prendere la forma di un’ interrogazione su ciò che, complici un’idea “secca e storta” della critica e una scarsa attitudine a riconoscere valori e funzioni dell’erudizione altrui, non avevo visto, né riconosciuto.
1 Cfr. Lino Micciché, La cultura cinematografica a una svolta, in Paolo Pulina, Angela Gramegna, Mario Risso (a cura di), Dieci anni di libri 1979-1988, Bibliografica, Milano, 1989.
Tullio Kezich e la forma lunga...
Non dico erudizione a caso: parlo proprio del gusto per il pelo nell’uovo. Già, i peli: sin dall’inizio è stata una questione di peli. I peli interessano quello che dobbiamo immaginare come un ancora imberbe Kezich da un’età scandalosamente precoce. Vediamo una delle prime attestazioni di tale interesse: «Ecco un pelo da addebitarsi certo ai riduttori del Castigo della spia, che hanno dovuto tradurre in immagini visive un particolare su cui la penna di Wallace non aveva dato schiarimenti: infatti Franco Sutton […] scrive le sue delazioni con la macchina che tiene sullo scrittoio del suo studio, e che naturalmente, al minimo sospetto della polizia, potrebbe benissimo venire controllata».
La segnalazione (in seguito ce ne saranno altre), firmata “Tullio Kezich. Trieste, via Palestrina 3”, è pubblicata in data 19 gennaio, 1941 sul numero 3 di «Film», il settimanale di Mino Doletti, una delle riviste di cinema più interessanti tra anni Trenta e Quaranta: fascistissima nella linea editoriale, ammiccante verso i gusti popolari del pubblico nell’impaginazione del materiale fotografico, eppure ricca di voci e registri di scrittura discordanti, impreziosita dalle firme di collaboratori illustri come Alberto Consiglio, Eugenio Giovannetti, Umberto Barbaro.
Il nostro ha 12 anni e questo esempio prematuro della sua prosa racconta già qualcosa. In primo luogo, suggerisce, quanto meno retro-attivamente, una vaga sensazione di ritrosia da parte di una generazione quando si tratta di ricordare con completezza i primi anni di formazione intellettuale sotto il fascismo. Su tale ritrosia, che in altre occasioni – anche se mai riguardanti Kezich – ha preso anche i contorni più certi della smemoratezza se non della rimozione, la storiografia ha cominciato a fare luce nel corso degli ultimi due decenni: non è il momento di soffermarcisi ora. Certo è che lo stesso Kezich sembra confermare tale impressione, o quanto meno esserne ben consapevole, quando, nell’introduzione al volume di Savio su Cinecittà negli anni Trenta, constata che intorno al cinema fascista «si è svolta negli ultimi anni una curiosa polemica, che ha spesso visto i critici più giovani attestati su posizioni revivalistiche. Qualcuno ha addirittura definito quel cinema l’“oggetto misterioso”, quasi per stigmatizzare come una colpa il silenzio che la nostra generazione gli aveva fatto intorno»2. Ma la prima citazione ci dice anche che il gusto per il dettaglio, l’attenzione alle fonti letterarie del cinema, al patrimonio della cultura in cui esso è calato, sono già lì, anche se non hanno ancora preso la forma di
2 Tullio Kezich, Prefazione, in Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta. Parlano 116 protagonisti del secondo cinema italiano (1930-1943), vol. I (AB-DEF), Bulzoni, Roma, 1979, pp. VIII-IX.
Claudio Bisoni
una prassi di scrittura compiuta. Kezich cresce assieme a una generazione di spettatori-critici che ha avuto modo di familiarizzare – in tempo reale o con qualche anno di ritardo – con gli standard offerti dagli esempi di «Cinema» (prima e seconda serie), e dalla saggistica para-accademica ospitata sulle pagine di «Bianco e Nero» ( Luigi Chiarini è di nuovo saldamente in sella, previa repentina conversione-purificazione ideologica, dall’ultima parte degli anni Quaranta). Si tratta in ogni caso di un patrimonio a disposizione di pochi. L’attenzione che Kezich dimostra nei suoi libri verso la compilazione delle bibliografie, la precisione nella ricostruzione dei fatti biografici e nelle filmografie, in Italia è condivisa da un numero ancora esiguo di studiosi.
Del resto anche il mondo editoriale del dopoguerra non è del tutto effervescente per quanto concerne la pubblicazione di monografie ad argomento cinematografico. In genere, per il passaggio tra anni Quaranta e Cinquanta, si parla di una fase di forte irrigidimento ideologico del fronte culturale anti-fascista legato al cinema, in particolare di quello vicino in modo organico alla politica culturale del PCI. Sono gli anni in cui – come ricordano gli storici e come ha brillantemente parodiato Luciano Bianciardi in La vita agra – si vive sotto l’imperativo culturale dettato da slogan più o meno celebri, agitati in altrettanto più o meno celebri dibattiti: su tutti “il passaggio dal neorealismo al realismo” a proposito di Senso, nella polemica che vede contrapposti sulle pagine di «Cinema Nuovo» Guido Aristarco e Chiarini. Con i fatti del ’56 il periodo più zdanovista della critica cinematografica italiana termina a favore di un lavoro di autocritica (bisognerà precisare: piuttosto pallidina nella maggior parte dei casi…) che porta alcuni esponenti della cultura di sinistra a rivedere le proprie posizioni e a sviluppare un modello di lavoro culturale più libero e aperto agli stimoli dei cambiamenti attivi nel mondo dello stesso cinema italiano. Per esempio, l’ipotesi di Gian Piero Brunetta è che in questo periodo emergano una serie di esperienze e personalità che fino ad allora avevano agito sotto-traccia, esperienze che non si contrappongono in modo diretto al modello di intervento critico rappresentato da Guido Aristarco e da «Cinema Nuovo», ma che agiscono nei confronti del cinema con uno spirito di servizio sostanzialmente indifferente ai diktat ideologici, mosse dalla curiosità pragmatica, sottraendo l’analisi dei film al grande e ingombrante dibattito politico-intellettuale3. È la generazione di chi, come Renzi, si sente sciolto dal giura-
3 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal neorealismo al miracolo economico, 19451959, Editori Riuniti, Roma, 1993, pp. 290 e seguenti.
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mento, o di chi non ha mai giurato. È la generazione che si incontra intorno a una rivista come «Rassegna del film» e che prova a portare qualcosa di nuovo anche nel campo dell’editoria. Critici come Renzi, Kezich, Callisto Cosulich, Tino Ranieri, Fernaldo Di Giammatteo, Oreste Del Buono, tentano di lavorare affianco al modello tipico di biblioteca ideale del critico neorealista, cercando, quando ne hanno l’occasione, di allargare gli orizzonti della progettazione editoriale.
Cosa fosse la biblioteca del critico neorealista sulla soglia degli anni Cinquanta è stato ricostruito con acume e precisione da Lorenzo Pellizzari4 : alla ristampa dei saggi migliori dell’ante-guerra si affianca l’antologizzazione e traduzione, spesso presso Einaudi, dei principali testi di Sadoul, Grierson, Balázs, Kracauer, Eisner. Nel complesso i nomi degli autori e dei curatori di collana riflettono una certa continuità con il periodo precedente alla guerra, sia nei nomi maggiori ( Chiarini, Barbaro, Aristarco), sia in quelli ora in secondo piano ( Barenson, Consiglio, Doletti). Oltre ai volumi nella collana di «Bianco e Nero» vi sono ora quelli della Biblioteca cinematografica di Poligono e della Cineteca Domus.
La monografia “leggera” su film, attori o registi diventa presto una costante editoriale degli anni Cinquanta. È soprattutto in questo campo infatti che si registrano le tre maggiori novità, rispetto alle quali l’unica eccezione è rappresentata dal formato tradizionale della celebre collana Cappelli Dal soggetto al film ideata da Renzo Renzi (cui collabora anche il nostro). Le altre due collane editoriali sono infatti di piccolo formato. La prima in ordine cronologico è la “Piccola biblioteca del cinema”: edita da Guanda, prima curata da Luigi Malerba, Giuseppe Calzolari e Attilio Bertolucci, e in seguito da Aristarco, ospita oltre a un Ford di Kezich anche altri brevi saggi su Bogart, Fellini, Wilder e altri. La seconda è la collana di monografie su attori curata da Giuseppe Calzolari e lo stesso Kezich.
Come è facile constatare, Kezich, con diverso titolo, partecipa a tutte queste iniziative editoriali. Anche se in questa fase i debiti di linguaggio e gusto verso la generazione neorealista sono ancora percepibili, i suoi livres de chevet non sono più i saggi di Pudovkin ed Ejzenštejn, o gli scritti di Barbaro e Chiarini. La prima pubblicazione monografica è un’antologia: Il western maggiorenne raccoglie qualche scritto straniero (di Donald Wayne, Herbert L. Jacobson) e contributi di alcuni dei più stretti sodali del curatore, tra i
4 Lorenzo Pellizzari, Critica alla critica. Contributi a una storia della critica cinematografica italiana, Bulzoni, Roma, 1999, pp. 71-93.
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quali Cosulich, Granich, Renzi, Turconi, Ranieri, Leydi. L’intento, indicato dallo stesso titolo, è quello di abbandonare una concezione “minorenne” del western, vedere come esso si sia evoluto fino a superare le contrapposizioni schematiche buono-cattivo o la figura del cow boy puro di cuore, che ancora sostanziavano la mitologia della house opera, e diventare l’esempio migliore di film storico specificamente americano (con radici nelle cronache tradizionali e nel folklore). A Kezich quindi interessano soprattutto due cose: il percorso di rielaborazione mitologica della storia di una nazione, attraverso la letteratura e le forme della cultura popolare, e il processo attraverso il quale si passa da una forma primitiva di racconto a qualcosa di nuovo, adulto, caratterizzato da uno scarto rispetto alla tradizione di provenienza (un interesse che, se ci si fa caso, è lo stesso che, più avanti e sotto altre forme, incuriosirà il Nostro in Fellini e nel suo rapporto con i lacci e i vincoli della cultura neorealista).
Intorno a questi due focus principali ruotano anche le altre monografie che Kezich dedica al western. Per esempio, il lavoro sull’epopea e la dimensione mitica del racconto delle praterie starà al centro de I cavalieri del west, libro del 1965, quindi appartenente a un momento editoriale della cultura cinematografica italiana abbastanza mutevole, libro nel quale si propone qualcosa che pochi anni dopo la critica più politicizzata avrebbe potuto accusare di atteggiamento mistificante e “mitizzante”, qualcosa che in realtà prova a riscrivere la storia dei protagonisti dell’epos del west dal di dentro, lasciando la parola ai vari “io” letterari di Davy Crockett, Kit Karson, Lewis e Clark, fino a Tom Mix (in cui l’epica del west incontra l’epica delle origini del cinema e del genere western stesso). Del testo pubblicato dall’editore milanese Della Volpe colpiscono soprattutto la ricchezza e la precisione della bibliografia (che rappresenta, capitolo per capitolo, una sorta di contraltare scientifico al côté narrativo-romanzesco dell’antologia), nonché la consistenza fisica stessa del volume (384 pagine a formato 230x170 mm con 32 pagine di illustrazioni fuori testo).
Più leggero il volume che Kezich licenzia tre anni dopo, interamente dedicato a Ombre rosse. L’analisi del film compare nella collana “I radar – enciclopedia del tempo libero” per l’editrice R.A.D.A.R. di Padova, sotto la direzione di Orio Caldiron. Il contributo di Kezich rispetta lo schema imposto dai criteri editoriali, e quindi fa seguire a un racconto assai particolareggiato della trama un profilo del regista, un glossario di termini tecnici e una filmografia dell’autore. La parte centrale del volume è occupata da un’analisi che ripercorre le componenti stilistiche del testo, si sofferma sul lavoro degli attori, sulle fonti letterarie, sulla tradizione cinematografica
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precedente, sulla ricezione critica, senza trascurare qualche frecciata agli epigoni italiani del genere (un argomento che comincia a impegnare il nostro dall’apparire dei film di Sergio Leone in avanti).
L’interesse per Ford del resto risale almeno alla seconda parte degli anni Cinquanta. Nel 1958, nella collana di Guanda, Kezich pubblica un volume sul regista americano, in cui lo descrive come uno degli ultimi grandi registi classici che si possono permettere di vivere «lontano dai sussulti della cronaca»5, in un universo interamente nutrito di riferimenti interni («il carattere puramente cinematografico dell’esperienza di Ford»6 ). Di fatto il libro trascura la prima produzione fordiana (sulla quale all’epoca la ricerca storiografica scontava molte lacune) per considerare proprio Ombre rosse come film emblema del nuovo western e della maturità del suo autore.
C’è da dire che Ford negli anni Cinquanta era stato oggetto di processi di autorializzazione proprio nel lavoro di quegli studiosi che si erano per primi interessati al western maggiorenne. Lo stesso Aristarco, raccogliendo nel 1965 le sue riflessioni degli anni precedenti in Il dissolvimento della ragione, ha parole molto misurate sul rapporto tra Ford e la “letteratura della crisi”. E per quanto egli rifiuti proprio la tesi kezichiana riguardo a Ombre rosse come “miglior biglietto da visita” di Ford a favore della ben più malevola ipotesi del “film alimentare”, di fatto, nell’essere molto attento a non «confondere la qualità dell’arte con l’abilità della confezione»7 riconosce uno statuto alto alla produzione di Ford nell’ambito del cinema americano (il regista sta a fianco di Chaplin e Vidor). Per lo stesso Kezich il modo in cui Ford è autore, non ha nulla a che vedere con le rivendicazioni che provengono, per esempio, dalla critica d’oltralpe: da essa Kezich e Aristarco sono distanti più di quanto non lo siano tra loro. Si tratta piuttosto di una versione specifica dell’opposizione, familiare alla cultura cinematografica italiana (e nello specifico, riferibile, notoriamente, a Chiarini), tra arte e industria: «John Ford ci sembra un tipico prodotto di Hollywood, il fenomeno insolito di un autentico talento sviluppatosi in un ambiente grossolano e mercantile» 8 . In generale questa breve monografia da un lato mostra ancora una forte connessione con le urgenze, i temi e la sensibilità della critica cresciuta all’ombra del dibattito sul neorealismo-realismo (il fenomeno è osservabile anche a livello di scelte lessicali: si pensi, solo per fare due esempi, all’utiliz-
5 Tullio Kezich, John Ford, Guanda, Parma, 1958, p. 5.
6 Ivi, p. 10.
7 Guido Aristarco, Il dissolvimento della ragione. Discorso sul cinema, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 168.
8 Tullio Kezich, John Ford, op. cit., pp. 26-27.
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zo di espressioni come «autentico contenuto» e «personaggi colti nel vivo della loro umanità» e simili, già ricorrenti nelle prose dei collaboratori di «Cinema»), dall’altro apre a qualcosa di diverso. E così, accanto all’analisi delle influenze figurative fordiane, troviamo l’affermazione che Ombre rosse non ha contato per una generazione di spettatori (la generazione di «chi teorizzava per non essere costretto a parlare di politica»9 ) solo in termini di precisione-innovazione formale, ma soprattutto perché appariva come una possibilità di inserire «un importante dibattito morale entro una cornice epica»10 : «Al tempo in cui apparve sui nostri schermi, l’epopea ufficiale era quella di Scipione l’Africano e delle “Panzerdivisionen” per le vie di Parigi; quanto alla solidarietà fra gli uomini, parlavano i bollettini di guerra e La difesa della razza. L’evangelismo anarchico di Ombre rosse fu per noi una valida alternativa alle parate mortuarie del nazionalfascismo»11. Conta poco in questa sede appurare quanto una tale ricostruzione sia attendibile12 Importa piuttosto registrare che qui si passa dal piano dell’analisi a quello della narrazione autobiografica e generazionale. Si mette in gioco un contenuto di verità che non riguarda più gli attrezzi del mestiere del critico, quanto piuttosto la sua esperienza di vita, secondo una pratica di scrittura che, come vedremo, apparterrà pienamente anche ai libri kezichiani più maturi.
Intanto, l’attenzione al ruolo degli attori già presente nella monografia su Ford aveva avuto occasione di sostanziarsi in modo più preciso nella collana co-diretta assieme a Giuseppe Calzolari per la collana “Tascabili del
9 Ivi, p. 10.
10 Ivi, p. 19.
11 Ibidem
12 Probabilmente lo è poco. L’idea di una cinematografia americana oggetto di una ricezione contro-culturale occulta nell’ambito del tardo fascismo, per quanto sia stata al centro di molte ricostruzioni canoniche della generazione antifascista post-bellica, continua a sembrarmi poco credibile, o quanto meno parziale. Altri resoconti ci possono aiutare a evidenziare come la fruizione del cinema americano nella cultura cinematografica dei così detti frondisti avesse una valenza strategica più complessa, e al contempo più circoscrivibile all’interno dei valori condivisi dalla politica culturale del regime. Propongo quantomeno di bilanciare il tipo di narrazione presente nella citazione con il seguente contributo (a opera non certo di qualche tirapiedi di Freddi): « Hollywood non poteva creare un film. E non lo poteva fare, un film che fosse degno di questo nome, perché Hollywood come fenomeno collettivo, come immenso trust, […] aveva nel suo stesso organismo industriale, […] la formula dell’anticreazione, la negazione della creatività seria e spontanea, la neutralizzazione d’ogni buon intendimento», Ugo Casiraghi, Glauco Viazzi, Il traditore, «Bianco e Nero», nn. 11-12, novembre-dicembre, 1942, p. 30.
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cinema”. Il lavoro attoriale resterà tra gli interessi di Kezich anche più avanti, e lascerà anche tracce nella partecipazione ad alcuni volumi per Laterza a metà degli anni Ottanta (Le dive e I divi ). Nella collana Sedit ogni volume è composto da un breve saggio introduttivo sul percorso dell’attore/attrice, corredato di una serie di fotografie, una filmografia una nota biografica abbastanza particolareggiata. Si vuole andare oltre un atteggiamento di derivazione neorealista per il quale il privilegio concesso a un cinema senza attori si trasforma spesso in indifferenza critica: «Per molti critici, occuparsi degli interpreti di un film è segno di frivolezza. […] Tutto il merito o il demerito di un film viene fatto risalire alla personalità del regista, applicando con tetra ortodossia da Cineguf alcune affermazioni teoriche che accolte con giudizio conserverebbero senza dubbio il loro valore»13. Al contrario, si fa avanti l’esigenza di valutare correttamente l’apporto di tutte le componenti di un film, e il film stesso come testo plurale. Così troviamo i vari autori dei volumi che riflettono senza pregiudizio sulla natura popolare del successo di attori come Marilyn Monroe e Amedeo Nazzari. Tino Ranieri segue l’evoluzione della carriera di Alberto Sordi tra doppiaggio, esperienza radiofonica e l’eredità del varietà. Renzo Renzi guarda alla diva dietro l’attrice in Gina Lollobrigida, soffermandosi su quel sistema di prestiti e scambi tra il cinema, altri media e varie occasioni spettacolari (passerelle, concorsi di bellezza ecc.) che, almeno da Riso amaro in poi, costituiscono l’asse portante di un divismo all’italiana indagato qui con una notevole curiosità sociologica (la stessa che sta alla base anche di un bel documentario dedicato da Renzi stesso al fenomeno delle pin-up girl : Le fidanzate di carta, 1951). Kezich affronta Marlon Brando, collocandone la figura all’incrocio tra l’apporto dei nuovi modelli di recitazione derivati dalla divulgazione del metodo Stanislavskij, la mutazione della figura dell’eroe nel cinema americano coevo e la lezione del teatro sociale. Il tratto immediatamente percepibile del volume è la capacità di disancorare il percorso recitativo dell’attore dalle questioni di merito riguardanti i film in cui l’attore stesso compare: la valutazione piuttosto positiva della tecnica di Brando si alterna a giudizi spesso severi sui risultati raggiunti dalle pellicole della sua filmografia. La passione per il cinema americano continua a essere testimoniata in testi successivi. Ne sia prova la monografia su John Huston pubblicata a Torino come numero monografico di «Centrofilm», espressione dell’Istituto Universitario del Cinema (la cui collana di “Quaderni di Documentazione cinematografica” è diretta da Gianni Rondolino). Come nei libri preceden-
13 Tullio Kezich, Marlon Brando, Sedit, Milano, 1955, p. 32.
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ti, Kezich si ferma sulle fonti di formazione del regista, ne analizza il temperamento hemingwayano, ne ricostruisce il profilo di grande adattatore sulla linea della scuola di Wyler e quindi ne considera le influenze letterarie («da Hammett a Traven, da Anderson a Burnett, da Crane a Melville»14 ).
Ciò che conta maggiormente però è il fatto che anche questa monografia contiene un affresco di una generazione di fronte al cinema d’oltreoceano.
Huston è trattato come un vecchio conoscente che ha contribuito a un clima di effervescenza e grande attesa nel corso degli anni Quaranta, in particolare con Il mistero del falco: «non vogliamo affermare che l’incontro con Huston fu un incontro importantissimo, necessario, determinante. Molto più modestamente, ed efficacemente, fu un incontro giusto. The right man in the right place : il regista John Huston nel cuore del ’45, diciassette anni fa, un secolo fa»15. Il libro inoltre contiene una polemica costante rivolta alla critica francese, ben visibile fin dall’incipit: «Qualcuno ha definito John Huston un grande regista che non ha mai fatto un bel film. La formula si attaglia più esattamente a certi feticci hollywoodiani della critica francese, da Nicholas Ray a Joseph Losey, da Samuel Fuller a Edgar G. Ulmer, con la riserva che questi registi sono grandi solo per i giovani turchi del Mac Mahon»16 . Di citazioni simili se ne possono trarre altre dalla produzione libraria del nostro: basta sfogliare Il mito del Far West per rendersene conto. Insomma, il modello di politica degli autori proveniente d’oltralpe non lo convincerà mai. Del resto, più in generale, Kezich rimarrà lontano, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, dai cambiamenti del gusto e del modo di fare critica tipico delle nuove generazioni di appassionati (e politicizzati) cinefili, rimanendo al contempo fedele a una propria linea di indagine sul cinema. In questi anni è lo stesso mondo dell’editoria cinematografica a evolvere piuttosto rapidamente.
Se gli anni Sessanta rappresentano un primo momento di lavoro di scavo intorno a vari nodi storiografici (il cinema italiano, ma non solo) e di un superamento del dibattito sul realismo in più direzioni (verso i modelli di nuova critica ipotizzati nelle tavole rotonde pesaresi, verso un’analisi dei fenomeni della cultura popolare che comincia a risentire della diffusione delle scienze umane); e se la prima parte degli anni Settanta vede il fiorire di iniziative editoriali legate alle leve cinefile aggregate intorno a club-cinema, rassegne e festival (ancora centrale è il Festival di Pesaro, dove si av-
14 Tullio Kezich, John Huston, Istituto del cinema, Torino, 1962, p. 20.
15 Ivi, p. 5.
16 Ibidem
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via la revisione storiografica dell’esperienza neorealista e del cinema degli anni Trenta), sono soprattutto gli ultimi anni Settanta e primi Ottanta a costituire il momento di maggiore espansione del mercato editoriale, con un netto incremento delle pubblicazioni di collane a carattere soprattutto autoriale-monografico e, poco dopo, con il così detto “boom della teoria”. L’effervescenza editoriale di quegli anni oggi viene ridimensionata a partire dalla constatazione della breve durata del fenomeno (nel 1981 la recessione è già in atto e a metà del decennio la contrazione del mercato evidenzia già gli inesorabili trend futuri) e dal fatto che si tratta in gran parte di pubblicazioni sommerse o semi-invisibili, perché legate alla così detta “editoria assistita” (cioè sono il prodotto dell’espansione abnorme delle attività degli enti locali a cui si legano edizioni a tiratura limitata e a minima diffusione sul territorio nazionale). È comunque questo il periodo in cui, come ha rilevato Lino Micciché, più forte è la frattura tra due tipi di critica, una legata a un tipo di produzione libraria di derivazione giornalistica, spesso affidata a quotidianisti o studiosi di mezza età, e un’altra affidata alle penne dei trentenni cinefili post-sessantottini17. Rispetto al quadro tratteggiato, Kezich procede sempre più indisturbato, in solitaria. Da un lato non rinuncia a dirigere progetti editoriali i cui standard di rigore appaiono poco discutibili. È il caso, per esempio, della direzione della collana degli studi di Bulzoni, fondata da Luigi Chiarini. Nel corso degli anni Settanta Kezich stesso cura l’edizione dei tre volumi dell’opera postuma di Francesco Savio sugli anni Trenta (che si inserisce nel clima di revival storico-critico sul cinema del ventennio), e poi una serie saggistica caratterizzata da un certo eclettismo nelle scelte. Tra i titoli una storia del cinema italiano ( Pietro Pintus, Storia e film. Trent’anni di cinema italiano, 1945-1975 ), una raccolta di scritti di De Santis curata dall’amico Cosulich (Giuseppe De Santis, verso il neorealismo. Un critico cinematografico degli anni Quaranta), Cinema film regia, un saggio in cui lo studio dei termini tecnici e teorici del cinema in Italia viene condotto attraverso le competenze specificamente linguistiche e di storia della lingua da Sergio Raffaelli.
D’altra parte Kezich, anche al di là di queste direzioni editoriali, si dimostra indifferente alla moda del recupero di opere del passato assai lontano dalla sua sensibilità, e punta più che altro a un lavoro di ricostruzione di momenti particolari della storia del cinema a partire dal punto di vista privilegiato offerto dalla propria memoria di spettatore partecipe. Il mo -
17 La migliore analisi e ricostruzione di questo periodo della storia dell’editoria cinematografica italiana è ancora Paolo Pulina, Angela Gramegna, Mario Risso (a cura di) Dieci anni di libri 1979-1988 ; op. cit.
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dello di questo metodo personale trova il suo punto di maggiore espressione nelle monografie biografiche dedicate a Fellini, a partire dalla fine degli anni Ottanta (prima per Camunia e poi per Rizzoli, e infine, in edizione riscritta, aggiornata e definitiva, per Feltrinelli, con il nuovo titolo Federico. Fellini la vita e i film). Ma il tutto è già anticipato dalla monografia su La dolce vita, edita nella collana di Cappelli a ridosso dell’uscita del film. Questo libro di grande successo, è esemplare di un metodo di lavoro che procede per frammenti, come una sorta di cronaca-diario di lavorazione che incorpora materiali eterogenei ed è narrato da una voce il cui statuto discorsivo è ambiguo, strategico: in alcuni momenti si mantiene focalizzato sul sapere disponibile a un narratore legato allo svolgersi degli eventi giorno per giorno, in altri sviluppa osservazioni possibili solo a una conoscenza aggiornata sui risultati estetici conseguiti dall’opera finita.
Ci saranno altri libri fatti in presa diretta, anche se non esattamente come questo. Il testo su Salvatore Giuliano privilegia la raccolta di documenti, mentre quello su Giulietta degli spiriti si sorregge quasi integralmente su una lunga intervista all’autore. Ma il peso di Fellini nella carriera critica e nella vicenda editoriale di Kezich è centrale. Ciò che mi interessa evidenziare qui non è tanto quel che il critico ha da dire sul regista-amico (oggetto di altri contributi nel presente volume), ma come questa amicizia abbia pesato sulla ridefinizione dell’attività di scrittura e riflessione sul cinema. Dal primo incontro sulla terrazza dell’“Hotel Des Bains” (raccontato nella biografia felliniana) e attraverso la partecipazione alla realizzazione de La dolce vita, sembra che Kezich entri in un clima culturale capace di spingerlo a riconsiderare contemporaneamente il rapporto con il cinema e quello con la critica. Pare quasi che la presa di coscienza del fatto che rinunciare a Fellini è impossibile (anche se alcuni rappresentanti autorevoli della critica post-neorealista lo avevano fatto) porti con sé anche la consapevolezza che qualcosa di sbagliato covava nel clima intellettuale impegnato dei primi vent’anni del dopo guerra. L’incontro con Fellini è quindi un elemento che aumenta l’allontanamento del critico dalle questioni più pesanti e seriose agitate nei dibattiti dell’epoca, lo dispone in modo più ricettivo se non verso la Hollywood sul Tevere, quantomeno verso le nuove esperienze del cinema moderno (Olmi, Antonioni ecc.), lo mette nella condizione di farsi attento osservatore e narratore di una fase di passaggio essenziale della cinematografia nazionale. La rilevanza del periodo 1959-1964 – un lustro nel quale cambia molto nel cinema come nel gusto critico, nei suoi strumenti, e nell’apertura alla cultura popolare e al cinema d’autore – è ricordata anche in Il dolce cinema, Fellini & altri, un libro dove il racconto e il diario si mescolano
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continuamente. Bene: quel clima, per essere raccontato e vissuto, richiedeva un passaggio da «birichini del neorealismo a fellinisti», aveva bisogno di nuovi compagni di strada. E alcuni dei vecchi, con i quali magari si era sempre convissuto a stento, andavano abbandonati. Giunge probabilmente a consapevolezza allora ciò che il nostro dirà in modo chiarissimo molti anni dopo: «Mi resi conto che questa rivista si intitolava “Cinema Nuovo” proprio nel momento in cui Aristarco aveva perso di vista dove andava il cinema, aveva perso di vista il nuovo»18 . Inoltre anche l’esercizio critico concreto prende la forma di un lavoro in fieri che non si esaurisce con la recensione del prodotto finito e non inizia certo nella sala cinematografica: il cinema diventa un fatto di vita e non solo di visione, il film un organismo vivente (con una gestazione precisa) e non solo il testo astratto per una battaglia di idee.
Negli anni successivi le monografie di Kezich inseguono sempre più l’ideale del diario, dell’istantanea, del taccuino, della cronaca sul filo della memoria, tendono alla forma ideale della summa di confessioni, ricordi e indagini di vario tipo. La fase della scrittura si completa solo nel momento dell’edizione (nel senso di montaggio vero e proprio dei materiali, riordino, pubblicazione). Da qui la difficoltà a identificare la forma della monografia pura nella produzione libraria del Kezich maturo. Il tono della riflessione nelle monografie più compiute a volte è identico a quello di una cronaca fatta “al volo” sul set di Rocco e i suoi fratelli (poi raccolta in Cari Centenari19 ). E così Primavera a Cinecittà è composto da diverse inchieste realizzate originariamente per «Settimo Giorno» ma vi si respira lo stesso clima della prima parte della monografia felliniana e di certe pagine di quella dedicata a Dino De Laurentiis. Anche i libri più “montati” come il volume su Giulietta Masina nell’edizione ad ampio formato per Cappelli, e soprattutto il “diario (in pubblico) di un’amicizia” con Olmi20 , suggeriscono una sensazione di unità ottenuta soprattutto grazie a una gestione molto attenta del proprio archivio personale (dal quale si propongono articoli semi-sconosciuti, recensioni radiofoniche, versioni non censurate di scritti precedenti, rielaborazione del già pubblicato ecc.).
Un discorso simile può essere fatto anche per Il mito del Far West : il libro
18 Tullio Kezich, in Sergio Toffetti (a cura di), ’Ndemo in cine. Tullio Kezich, tra pagina e set, Lindau, Torino, 1998, p. 24.
20 Tullio Kezich, Ermanno Olmi, il mestiere delle immagini. Diario (in pubblico) di un’amicizia, Falsopiano, Alessandria, 2004.
Claudio Bisoni
è una raccolta di articoli che funziona da messa a punto di un discorso più che ventennale sul western e al contempo pare attraversato da altre narrazioni, più segrete ma non meno unitarie del tema principale. Lo stesso Kezich nella premessa della seconda edizione per Il formichiere, nel 1980, parla di “eventuali retroscena”. Dubito che sia così, ma mi piace pensare che uno di questi racconti di retroscena riguardi il rapporto tormentato con il western all’italiana di Leone: genere da un certo momento in poi definito “la mia bestia nera”, occasione intorno a cui la severità di giudizio inconciliabile in seguito con l’opinione di molti (incluso, per esempio, chi scrive), non deve fare passare in secondo piano alcune intuizioni interpretative degne di ulteriore approfondimento e di fatto in seguito, in altri contesti e con altre chiavi, riprese dalla letteratura critica 21: penso alla caratterizzazione del genere in termini di “falsificazione” del modello americano ma al contempo di rapporto con alcuni elementi della tradizione neorealista autoctona, ai paragoni con alcuni testi sacri del cinema moderno (Fino all’ultimo respiro), al richiamo alla lezione di Blasetti a proposito di C’era una volta il West. Ma l’aspetto più rilevante nei libri kezichiani sul cinema dell’ultimo periodo credo che sia qualcosa ben presente anche nella recente attività critica su rivista. Se in una prima fase l’occhio distaccato, esterno (nordico, triestino) sulle cose romane degli anni Sessanta si trasforma quasi subito in una osservazione partecipe, in una fase più recente l’io narrante si inscrive direttamente nel paesaggio descritto. Arriva un momento in cui la biografia personale ti trasforma in un narratore autorevole, cioè in un osservatore che ha il privilegio di inscriversi nel campo d’osservazione stesso. E così diventa legittimo commissionare al critico non un ritratto su Visconti ma sul tema “Io e Visconti”. Kezich gestisce con grande attenzione questo “io”. La capacità di non perdere il senso delle proporzioni fa sì che la figura del narratore stia in bilico tra due istanze: non è un co-protagonista, ma non è più nemmeno un semplice osservatore. Senz’altro è soggetto-oggetto di una narrazione condivisa. In questo modo un percorso di scrittura critica diventa anche e soprattutto (ed è per questo che principalmente ci interessa) una contro-storia laterale, un contributo di riscrittura di un momento dell’esperienza cinematografica, un tassello nella composizione della memoria culturale di una generazione.
21 Si veda, per esempio, la sezione intitolata Il caso Leone: artigianato, originalità, distinzione in Guglielmo Pescatore, L’ombra dell’autore. Teoria e storia dell’autore cinematografico, Carocci, Roma, 2006.
Claudio G. Fava
Il “sorriso” del grande tentatore. Kezich e il western
Tutto, o quasi tutto, cominciò di lì. Dalla Mostra di Venezia del 1959. Su indicazione di Claudio Bertieri, alloggiavo in un albergo modesto ma a suo modo efficiente. Si chiama “Sorriso” ed è situato a notevole distanza dal Palazzo del Cinema, proprio a fianco dell’utile capolinea della filovia e subito di fronte al Galoppatoio. Questo, durante la Mostra si mutava annualmente per diversi giorni, non so perché e a causa di quale misteriosa e furibonda competizione, in un rumorosissimo tiro a segno, che contagiava i nostri pomeriggi di lavoro – in genere trascorsi in camera a battere furiosamente a macchina – con una rabbiosa colonna sonora da film di guerra di “serie B”.
Il “Sorriso” della fine degli anni ’50, era un piccolo, periferico mondo veneto di Mestre traslocato al Lido agli ordini ferrei della proprietaria, fattivo personaggio post-goldoniano che aveva anche un nome parateatrale. Si chiamava infatti Genesia e regnava con indiscussa autorità su un trepido gruppuscolo di disciplinate inservienti-cameriere-cuoche, genericamente indicate come “ le fie ” (in veneto, come filles in francese, significa sia le figlie che le ragazze). Su di esse ovviamente incombeva, durante le due settimane della Mostra, l’obbligo di occuparsi a fondo di quelli che la signora Genesia, per distinguerci dalla plebe, chiamava con rispetto sanitario “ i dotori ”, vale a dire i giornalisti convenuti al Lido per la Mostra. Giusto per separarli socialmente dalla clientela plebea che modestamente vi si adunava in luglio e agosto per fare i bagni nella spiaggia dell’albergo, defilata in estrema prosecuzione di quelle importanti, a cominciar dalla più prestigiosa di tutte: quella dell’“Excelsior”.
Nel corso degli anni e delle Mostre il nucleo trainante dei “dotori” si impose, dando vita a una sorta di club di soci fondatori: c’erano naturalmente, oltre a me e mia moglie Elena, Bertieri, Tullio Kezich e Callisto Cosulich, accompagnati dalle loro famiglie. C’era naturalmente il già autorevole e sempre sagace Morando Morandini. Ne facevano più pallidamente parte anche altri: ad esempio Edoardo Bruno, già allora alle prese con «Filmcritica». Poi il favoloso oriundo genovese José Maria Podestà, per
decenni addetto culturale dell’Ambasciata dell’Uruguay a Roma, intrepido cinéphile, e, ancora, il sottile amico francese da tempo scomparso, Marcel Tariol, professore universitario a Tolosa e fondatore delle “Rencontres Cinématographiques de Prades”. E Maurizio Del Ministro, arrivato da giovanissimo studente universitario, che a tavola parlava contemporaneamente con tutti, proiettando intorno a sé una toccante felicità cinematografica.
Ma in fondo eravamo noi, i primi che ho citato, a dare il tono all’istituzione. Fra gli altri, Tullio e io – pur consapevoli delle quiete ma divaricanti impronte ideologiche palesi in ciascuno dei due – eravamo uniti da una gran passione comune per quel che non si chiamava ancora correntemente “cinema di genere”, ma che splendidamente esisteva da decenni. E in particolare dal western che aveva segnato la nostra adolescenza – un anno di distanza nelle date di nascita ci rendeva di fatto coetanei – lasciandoci, secondo le caratteristiche di ognuno, indelebili tracce sentimentali. Una volta parlavamo appunto del “nostro” genere e Tullio mi disse – probabilmente lo avrà subito dimenticato ma io lo ricordo invece con la nitidezza bizzarra delle memorie d’antan – che nella sua casa di Milano aveva un grande armadio «dedicato solo a Ford, e tutto quel che comprava e che riguardava il regista lo gettava lì dentro».
Di quell’armadio – lo avrà poi portato di peso a Roma ? – non solo non mi sono mai dimenticato ma queste righe nascono proprio dalla robusta presenza romanzesca di quel ricordo.
Rispetto alla nutrita bibliografia western di Kezich, mi limiterò a citarne direttamente una parte, riallacciandomi qui subito, giusto per restare in argomento Ford, a due pubblicazioni tipiche di Tullio: la monografia sul regista, apparsa nel 1958 per la parmense Guanda, e la circostanziata analisi di Ombre rosse pubblicata dieci anni dopo, nel dicembre 1968, nell’ottima collana padovana “I Radar”.
Il primo testo fa parte della collana “Piccola Biblioteca del cinema” diretta da Guido Aristarco e risale presumibilmente al periodo milanese in cui Tullio fu caporedattore di «Cinema Nuovo» prima di liberarsi dalla presenza assorbente proprio di Aristarco. Il quale, come è noto, esercitò, per molti anni, una sorta di intransigente protettorato ideologico su quell’ampia selezione della critica cinematografica italiana che si collocava quasi automaticamente a sinistra (dallo stesso Tullio a Guido Fink ad Adelio Ferrero furono in tanti gli autori di talento a uscire man mano dalla sua esigente curatela). In effetti va detto che il fordismo istintivo di Kezich è qui apertamente temperato da una serie di riser-
Il “sorriso” del grande tentatore. Kezich e il western
ve che testimoniano di una perplessità tipica del momento storico ma anche del personale cammino, umano e critico, di Tullio. Il libricino inizia addirittura con un brano quasi addolorato:
Nel cinema non c’è forse, in questo momento, un regista più vecchio di John Ford. Non parliamo, s’intende, in termini di anagrafe: la vecchiaia di Ford è quella degli autori che sono arrivati lentamente a vivere fuori del proprio tempo, o almeno lontani dai sussulti della cronaca. Dobbiamo aggiungere che la nostra simpatia va per istinto agli altri, agli autori che vivono da contemporanei, che avvertono e sottolineano per noi le vibrazioni più segrete del costume attuale, che sanno addirittura farsi anticipatori di una realtà destinata a realizzarsi storicamente nel futuro. Ford, invece, appartiene a una razza diversa. È fra quelli che lavorano appartati, chiusi in una solitudine senza finestre, martellando incessantemente i propri temi e verificandone la consistenza con un metro tutto personale. Vede soltanto ciò che desidera vedere: per lui un romanzo non sarà mai lo specchio fedele della realtà di cui parlava Stendhal.[...] Per misurare la distanza che separa l’autore di Sentieri selvaggi dai suoi contemporanei basta pensare alle opere recenti dei maggiori registi di Hollywood. Molti veterani, da Wyler a Stevens, da Cukor a Hawks, hanno sentito la necessità di una revisione della propria “poetica”: ciascuno in una direzione particolare, ma tutti insieme partecipi di una atmosfera rinnovata. Hollywood, cinta d’assedio dai mille diavoli del maccartismo e della televisione, si è venuta lentamente orientando, con molte contraddizioni e infiniti dietrofront, verso una produzione più meditata e intelligente, che accetta la misura della realtà”. [...] Da almeno 10 anni [...] pur non avendo uno sviluppo né lineare né costante la storia del cinema americano porta i nomi di Huston, di Zinnemann, di Rossen, di Mankiewicz, di Wise, di Robson, di Brooks, di Dmytryk: tutti più o meno debitori del vulcanico, e troppo presto giubilato, Orson Welles.
Seguono altre considerazioni, come dire, d’epoca. Sarebbe interessante ricopiare ancora molte pagine del testo di Tullio ma non vorrei dilungarmi troppo di fronte alla massa delle cose da dire (e non è detto che io riesca a dirle tutte). Egli aggiunge poi nomi, “ancor più interessanti”, come Robert Aldrich, Elia Kazan, Nicholas Ray… tipico risvolto dell’appassionato che teme sempre di essere disilluso dal suo idolo, e cerca di dimenticare. In realtà a quasi cinquanta anni di distanza ci rendiamo conto che i valori su cui
Claudio G. Fava
era costruito il composto mondo poetico, umano, sociale e in certo modo politico, di Ford erano meno precari di quanto Tullio non avesse allora la sensazione, credo fuggevole, di proclamare. E che ognuno degli autori da lui citati ha poi finito con l’atteggiarsi al suo fianco come in uno stemma nobiliare, in qualche modo completando e integrando, ma non smentendo, la sua grande lezione narrativa.
Non è possibile analizzare qui minutamente il testo in cui, comunque, di fronte alle numerose riserve su questa o quella parte del grande corpus fordiano, si avverte la passione di Kezich per un’opera che ha comunque profondamente influenzato alcune generazioni e ha modellato il loro intero atteggiamento verso il western. E non solo.
L’analisi della trama di Ombre rosse costituisce la parte iniziale (20 pagine effettive) dell’utile volumetto, prima ricordato, della padovana R.A.D.A.R. dedicata al film e al regista, mentre la seconda parte (21 pagine) è costituita da un altrettanto utile capitoletto intitolato Capire il film e seguito infine da 11 pagine dedicate al regista. Oltre che da finali dati filmografici, bibliografici eccetera. Direi che si tratta di un’operetta, quasi dimenticata e tuttavia utilissima per valutare esattamente Ford e insieme a lui Tullio Kezich come appassionato di cinema e di western. Chi è del mestiere e sa che una delle cose più difficili della critica cinematografica è in realtà l’esatto, minuzioso (e insieme il più possibile stringato) riassunto della trama di un film, troverà nella parte iniziale un’utile lezione di tecnica. C’è tutto l’utile e l’indispensabile. E di più, anche. Si pensi allo scrupolo di Tullio che indica nella colonna sonora anche i prevalenti momenti musicali. All’inizio quando compare la diligenza – precisa Tullio: «È del tipo “Concord” della Overland Stage Lines gestita dalla famosa Wells Fargo – la canzone che l’accompagna, e per tutto il viaggio, è Trail to Mexico Quando Doc e Dallas ( Thomas Mitchell e Claire Trevor) vengono pubblicamente scacciati dal paese la musica li accompagna ironicamente al suono dell’inno religioso Shall We Gather at the River? (Ci riuniremo sul fiume?). Ad Apache Wells, dove la diligenza fa tappa – i soldati se ne sono andati – il capo stabbio Chris (Chris Pin Martin) ha una moglie Chiricaua, Yakima (Elvira Rios), che canterà una canzone messicana. Nella parte finale, sotto l’attacco dei pellerosse, quando l’ex-gentiluomo sudista Hatfield (l’impeccabile John Carradine), per impedirle di cadere viva nelle mani degli “indiani”, sta per uccidere Lucy Mallory ( Louise Platt), figlia del suo ex-comandante di reggimento, ecco udirsi un lontano clangore... Sentite, è la tromba dei soldati che suona la carica…» e da quel momento la colonna sonora darà largo spazio al «vecchio inno nordista
The Battle Cry of Freedom (Il grido di battaglia della Libertà ) di George Frederick Root». Ovviamente la parte più sottile è la seconda, Capire il film, ove Stagecoach
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viene scomposto e analizzato nella sue componenti stilistiche e narrative (sia detto incidentalmente, nessuno fa mai cenno della tradizionale, quieta povertà dei titoli originali americani: confrontate questo, estremamente riduttivo, del film di Ford con la drammaticità cromatico-etnica di quello italiano o la retorica approssimazione del titolo francese, La chevauchée fantastique, e il raffronto diventa esplosivo). Fra le mille notazioni del testo vi è, a riprova delle inquieta curiosità di Tullio, un richiamo del famoso romanzo di Budd Schulberg Dove corri Sammy? (1941) ove un tipico personaggio hollywoodiano dice: «Conosco un tale che, solo pochi giorni fa, ha ricavato una bella sommetta di denaro da una novella di Maupassant. E tutto il disturbo che ha dovuto prendersi è stato di trasformare un cocchio francese in una diligenza del Far West». Come si vede l’antica teoria che lo sceneggiatore Ernest Haycox avesse preso ispirazione e personaggi da Boule de suif di Maupassant si ripresenta puntuale.
Lasciamo stare Stagecoach e lo stesso Ford – da cui, in fondo, né Tullio né io riusciamo mai completamente a prescindere – e passiamo al tema più ampio del western. Anzi del “western maggiorenne” come si intitolava un suo libro pubblicato verso la fine del 1953 dall’editore triestino Floriano Zigiotti. Il titolo – tratto da un articolo premonitore dello stesso Tullio, apparso in «Cinema», nuova serie, del 15 luglio 1950 – è diventato rapidamente il simbolo stesso di un nuovo modo postbellico di considerare all’epoca il western; più sottile, articolato, storiograficamente e sociologicamente consapevole quale si affacciò allora nel cammino della critica italiana più attenta e che in quegli stessi anni ’50 trovò eco mondiale grazie alla critica francese, da André Bazin a Jean Mitry. In realtà è una antologia, dove il curatore Kezich firma un brano (ovviamente su John Ford) e ne sigla un altro, Parata d’eroi, divertito riassunto di tutte le grandi e semi-grandi figure che abbiamo imparato a conoscere nei film, da Buffalo Bill a Billy the Kid, dal generale Custer a Calamity Jane, da Wild Bill Hicock a Wyatt Earp e via variando; personaggi rutilanti, spesso strappati al mito e ricollocati nella storia. Ma ove tutto il resto è opera di collaboratori, sovente di gran valore, da Renzo Renzi al fedele Callisto, da Giulio Cesare Castello a Oreste Del Buono e Roberto Leydi sino al prezioso e ormai dimenticatissimo Tino Ranieri, il terzo triestino del gruppo. Libro d’epoca in molte parti assai utile anche oggi, così come lo è Il mito del Far West inizialmente apparso per Bulzoni nel 1975 (prefazione del 22 settembre 1974) all’interno di una collana diretta da un grande nome d’epoca, Luigi Chiarini “affettuoso promotore del libro”. Costituito da un’antologia di scritti di Kezich in buona parte editi, di cui naturalmente è indicata
Claudio G. Fava
l’origine, – il capitolo L’epopea e la pietà è addirittura l’ampliamento del libretto di Guanda su Ford di cui ho parlato prima – e in piccola parte inediti, è stato poi ripubblicato dal Formichiere nel 1980, con una prefazione da Asiago del 3 gennaio. È un’edizione ovviamente ampliata con materiale tratto dalla «Settimana Incom», da «la Repubblica» e da quello preparato per l’Ufficio Stampa RAI in occasione di cicli di film western trasmessi a cura di Kezich su RAI Due sino al 1980
Per concludere l’amplissimo discorso su Kezich e il western – che esigerebbe un libro intero – ancora due notazioni. L’una che riguarda il complesso rapporto quasi doloroso con lo “spaghetti” western: tutta la nostra generazione fu, almeno inizialmente, ulcerata dall’idea che il genere prediletto venisse traumaticamente strappato alla sua nativa matrice e ferocemente trapiantato in un mercenario utero germanico-italo-spagnolo. Costretto pertanto a scegliere, cosa praticamente impossibile, fra analisi e recensioni sul tema disseminate da Tullio nel corso di una sessantennale carriera professionale, mi limiterò a citare due piccoli frammenti. Un pezzo mirabile del 31 agosto 2007, La faccia americana di Sergio Leone («Corriere della Sera» – “Il Lido di Kezich”) in cui vien fuori un affettuoso ritratto del regista e una ferma condanna del cinema che questi aveva generato («Devo confessare che i suoi film non mi sono mai piaciuti in quanto prevedevo che tagliando il cordone ombelicale con la storia della Frontiera, enfatizzando il manierismo, e aumentando la violenza avrebbero ammazzato un filone glorioso. Il che accadde puntualmente»). E la divertente intervista a Tullio pubblicata il 24 settembre 2007 in internet da Grandi e associati in cui si ricorda la scelta dei 28 film della sua vita, elencati in ’Ndemo in cine, a cura di Sergio Toffetti per Lindau. Fra molti titoli famosissimi ve ne è anche uno inatteso e cioè L’ispiratrice (1942) di un regista che tutti abbiamo amato, William A. Wellman, ma che qui figura perché è il primo film recensito da Tullio, il 2 agosto 1946, ai microfoni di Radio Trieste. Si svolge, è vero, nel West ma involontariamente ribadisce la fedeltà ai miti di Kezich, uomo di confini tornato alle radici della sua triestinità diventando commediografo dialettale in età adulta.
Un destino complesso che ci sembra quasi di indovinare, sotto un fez d’epoca, nella faccia volitiva del riluttante balilla Kezich pubblicata nella copertina de Il campeggio di Duttogliano. È “Tullietto” che da una Frontiera guarda un’altra Frontiera...
Marcello Monaldi
Kezich, Fellini e le conseguenze dell’amicizia
«Caro Tullio, quanti anni di chiacchiere, di balle… ma di vera amicizia! Con amore Federico». È una dedica di Fellini a Kezich, riprodotta sulla prima pagina della nuova versione della biografia felliniana (Federico), che l’amico critico ha voluto recentemente aggiornare, in parte completare, in parte snellire, rispetto alla sua prima, fortunata edizione (Fellini )1. Nel nuovo testo i messaggi liminari sono tutti all’insegna dell’intimità: una dedica piena d’amicizia, un titolo confidenziale, Federico, che prende il posto del precedente Fellini…
Se non che i rimandi amichevoli sembrano andare (involontariamente?) oltre, quasi attivando un loop straniante: si ha come l’impressione, a un certo punto, che quella vecchia dedica, presa da un libro (Fare un film2 ) che Fellini donò a Kezich nel 1980, diventi, nella sua nuova collocazione, più che un esergo, più che un attestato di familiarità con il biografato, una sorta di nuova dedica autografa del maestro al suo critico preferito, come se anche l’ultima versione della biografia felliniana fosse opera dello stesso Fellini (in un certo senso lo è davvero) e lui fosse tornato apposta per firmarla di suo pugno e donarla a un “vero amico”. Il bello è, ovviamente, che la biografia l’ha scritta Kezich ma, al posto di una dedica convenzionale alla memoria del maestro, il bello è anche che tutte le copie in circolazione del volume Federico hanno, di fatto, una specie di dedica al contrario: da Federico a Tullio…
Non conosco personalmente Kezich e non ho conosciuto personalmente Fellini. Non so nulla della loro amicizia privata. Può sembrare improprio, ancor prima che indiscreto, che un perfetto estraneo decida di parlare di una cosa del genere: certo, in chiave letteraria, sarebbe del tutto plausibile farlo; almeno fino a un certo punto, lo si potrebbe fare anche in termini storicobiografici ma qui lo spunto è diverso ed è stato proprio Kezich, durante
1 La prima versione del testo di Tullio Kezich uscì per Camunia, Milano, nel 1987, con il titolo Fellini, che si conservò anche nella seconda edizione, per Supersaggi BUR di Rizzoli, Milano, 1988. La sua ultima versione ha invece un titolo diverso: Federico Fellini, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2002.
2 Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980.
una cortese telefonata (la prima!) che mi ha concesso in vista di questo mio breve intervento, a fornirmelo. Il tono dominante della chiacchierata lo condenserei così: «Fellini per me è stato un grande amico, mi manca soprattutto come amico. Avrei voglia di chiamarlo ogni tanto e, visto che non c’è più, non so bene chi altro chiamare. Del resto, anche se non avesse fatto alcun film, Fellini resterebbe una persona straordinaria per il modo che aveva di esserti amico».
L’amicizia che torna sempre fuori, prima ancora del rimpianto per la scomparsa di un testimone, di un artista, di un genio. In questo mi è sembrato di cogliere una nota dominante, tanto dominante da suggerire qualche divagazione più generale e meno privata sul tema: come una vibrazione di sottofondo, quella nota l’avevo già sentita negli scritti di Kezich dedicati al cinema di Fellini. Non mi riferisco tanto agli interventi a favore, alle polemiche sostenute al fianco del riminese nel primo decennio della sua attività di regista, quando venne attaccato prima da certa critica marxisteggiante e poi da molti ambienti cattolici e reazionari, e nemmeno agli scritti in morte di Fellini, quando Kezich sentì il bisogno di bacchettare i falsi pentiti, gli opportunisti dell’ultima ora, le finte vedove: qui si vede l’amicizia come difesa leale, come fedeltà, come testimonianza. Invece, della loro amicizia mi interessa di più l’aspetto interpretativo, quel tanto di comunicativo e di fiducioso, se vogliamo di maieutico, che è alla base delle pagine più limpide e preziose dell’approccio critico di Kezich al cinema di Fellini, alla sua arte. Si possono cogliere delle movenze, delle figure per così dire amicali nella scrittura, nello stile interpretativo del critico quando si accosta all’opera dell’autore? E se queste figure esistono, quale forma di amicizia vi traspare e quali strade essa ha sapientemente indicato per rendere più intelligibile, meno sconosciuto un discorso per immagini arduo e fascinoso come quello felliniano? Anche qui, non ho in mente ellissi, eufemismi, litoti, che qua e là affiorano negli scritti di Kezich, né penso a omissioni, addomesticamenti, dissimulazioni, che invece non vi compaiono mai: sono queste delle formule retoriche o delle strategie espositive che nel migliore dei casi appartengono al versante protettivo dell’amicizia e nel peggiore alla censura a fin di bene (?). In questa amicizia mi pare ci sia qualcosa di ben più sostanziale e proverò a dirlo in breve per la parte che compete a Kezich.
Anzitutto, la franca ammissione che il primo incontro con l’uomo Fellini sulla terrazza dell’“Hotel des Bains” nel 1952, durante la Mostra del Cinema di Venezia, fu una sorta di abbandono e di accettazione di qualcosa di nuovo, avvertito, più che nelle argomentazioni, nella tonalità emotiva del
Kezich, Fellini e le conseguenze dell’amicizia
dialogo: in mezzo all’“allegra confraternita” felliniana, confessa Kezich, «sentii nascermi dentro l’illusione che la mia idea secca e storta del cinema fosse un ramo capace, un giorno o l’altro, di mettere fronde; e in sintonia con quei nuovi compagni traboccanti di buonumore e disponibilità mi parve di essere sulla via di un respiro più giusto»3. In effetti, il respiro di quel primo incontro, in cui Fellini si avventurò ad anticipare il racconto de La strada, conteneva già uno sguardo antropologico nuovo, che attraverso il registro della favola gli avrebbe permesso di portare alla luce «realtà antichissime: l’Italia povera, i campi fangosi e freddi attraversati dai sottoproletari dello spettacolo, il rapporto brutale e primitivo fra l’uomo e la donna, ovvero il mondo contadino sopravvissuto ai margini delle vie consolari, i linguaggi perduti, i riti magici, i ricordi infantili e ancestrali» 4 L’ampliamento degli orizzonti del critico è un esempio di disponibilità: consiste nell’aprire la porta a qualcosa di profondo e di misteriosamente familiare, è un cambio di prospettiva, un gesto di fiducia gravido di conseguenze ma non corrispondente subito a un atteggiamento univoco nei confronti di Fellini; e di sicuro, è ancora lontano l’approdo a quel punto di vista calibratissimo che molti anni dopo permetterà a Kezich di scrivere una biografia del regista. In altri termini, l’amicizia nascente non si traduce ancora in una movenza unitaria della scrittura. Stando alla nomenclatura giocosa che alcuni convegnisti fissarono nel 1985 (fellinizzante, felliniano, fellinista, fellinologo), per sua stessa ammissione il ruolo di Kezich è stato sin dall’inizio quello di un fellinizzante (sostenitore di Fellini) che a un certo punto, ai tempi della mai decollata casa di produzione Federiz, ha rischiato di diventare un felliniano, cioè un appartenente alla cerchia di lavoro del maestro, e che poi si è deciso a fare il fellinologo, cioè lo studioso della sua opera 5 .
Ma in fondo un po’ fellinologo, o parafellinologo, Kezich lo è sempre stato. Solo per stare agli scritti maggiori, due momenti del suo esercizio interpretativo mi sembrano tradurre ben presto e chiaramente il privilegio di quell’amicizia nella forma di altrettante figure comunicative specifiche: il lungo, bellissimo diario dedicato al resoconto delle riprese de La dolce vita 6 tra
3 Tullio Kezich, Federico Fellini, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 8.
4 Ivi, p. 10.
5 Cfr. Tullio Kezich, Fellini, Camunia, Milano, 1987, p. 6.
6 Il diario della lavorazione de La dolce vita, pubblicato nel 1960, ha avuto vari titoli e varie edizioni: io ho utilizzato la versione del 1978, Fellini e altri. Bloc-notes per La dolce vita, che figura come il primo saggio della raccolta di scritti e racconti in Tullio Kezich, Il dolce cinema. Fellini & altri, Bompiani, Milano, 1978.
Marcello Monaldi
l’estate del 1958 e l’autunno del 1959, e la cosiddetta Intervista lunga, premessa al testo della sceneggiatura originaria di Giulietta degli spiriti (1965)7. Cosa c’entra l’amicizia in tutto questo? C’entra come atto mentale e come forma di ascolto, e si potrebbe parlare di amicizia anche se i due personaggi, l’io narrante e l’io narrato, non fossero amici nella vita. Certo, il fatto che lo fossero ha permesso a Kezich di farci entrare ancor più nel vivo dell’officina felliniana ma la sua disposizione d’animo e di scrittura potrebbe valere come l’atteggiamento più appropriato nella fruizione di ogni opera d’arte, passata o presente. Nelle due forme altrimenti generiche o inflazionate del diario e dell’intervista, si concretizza così la precisa volontà di aderire alle pieghe di due fasi evolutive da tenere distinte. Il diario de La dolce vita, con il suo «ritmo frammentario e occasionale» 8 proprio come la forma erratica del film, è allo stesso tempo il più adatto a restituire «l’aspetto del regista-mago, la sua capacità evocatrice»9, il suo desiderio di produrre uno «scorrere veloce di immagini limpide o terribili»10. Viceversa, quando in Giulietta degli spiriti Kezich scorge un «Fellini ormai lontano dai golosi e ansiosi vagabondaggi di Marcello Rubini», la forma della conversazione gli sembra «la più adatta a fissare qualche argomento, a puntualizzare qualche nucleo», per cercare di «individuare, rispettando le regole affettuose di una chiacchierata, le linee di una poetica, le costanti di un metodo di lavoro»11
Diario e intervista diventano dei vestiti su misura, cuciti addosso con maestria e discrezione. Sono, in definitiva, due riti di presentazione di un amico a una cerchia più vasta di persone, dove il movimento è duplice: avvicinare qualcuno ma attraverso un viaggio al suo interno. Kezich ci fa conoscere Fellini diventando lui stesso la guida del viaggio all’interno del suo mondo, perché il paesaggio è tale da non poter essere contemplato a distanza: bisogna abbandonarsi con fiducia, cercando però di schizzare qualche mappa e di trovare dei punti di riferimento. C’è un’etica amichevole della ricezione artistica in Kezich che ricorda, per certi aspetti, alcune pagine del grande critico letterario George Steiner (quello de La dolce vita era solo Steiner), quando in un libro di qualche anno fa12 cercava di
7 Cfr. Tullio Kezich (a cura di), Giulietta degli spiriti di Federico Fellini, Cappelli, San Casciano, 1965.
8 Tullio Kezich, Fellini & altri, op. cit., p. 5.
9 Tullio Kezich (a cura di), Giulietta degli spiriti..., op. cit., p. 17.
10 Ibidem
11 Ivi, p. 18.
12 Cfr. George Steiner, Real Presences, University of Chicago, Chicago, 1989 (tr. it. Vere presenze, Garzanti, Milano, 1998).
Kezich, Fellini e le conseguenze dell’amicizia
descrivere l’incontro con l’arte come una forma derivata degli antichissimi riti di ospitalità al cospetto dello straniero che bussa alla nostra porta.
Incontrare l’arte richiede attitudini e disposizioni tutte particolari, che affondano in un sostrato morale: l’opera dotata di una forma significante chiede di entrare «negli stretti della nostra esistenza individuale»13 e quando l’ingresso e il contatto sono reali siamo attraversati dagli stessi stati d’animo provati da chi fa entrare uno straniero in casa. Per accostarsi al «sapore interiore delle cose»14 bisogna farsi toccare dalla presenza viva dell’altro: è difficile riassumere in una sola parola questo complesso emotivo e rituale ma possono darne un’idea approssimata espressioni come «“cortesia della mente”, “scrupolo di percezione”, “riguardi nella comprensione”»15.
Tutto questo, che non è di per sé amicizia, può diventarne però quel tratto di profonda civiltà che la rende speciale.
Quando tra due libertà c’è cortesia, viene mantenuta una distanza vitale. Un certo riserbo persiste. La comprensione viene pazientemente conquistata e rimane sempre provvisoria. Ci sono domande che non poniamo al visitatore che bussa alla nostra porta, alla presenza nella poesia o nella musica che ci convoca, perché temiamo che sminuiscano sia l’oggetto della nostra interrogazione che noi stessi. Ci sono discrezioni cardinali in ogni incontro fertile con l’offerta di forma e di senso. Nei loro momenti più espressivi, la lingua, l’arte, la musica ci rendono sensibili alla radice di segretezza che sta al loro centro16 .
Di queste “discrezioni cardinali” dovevano essere certi entrambi, ad esempio, quando Kezich comunica a Fellini di vederlo più risolto e maturo all’indomani di Giulietta degli spiriti, quando gli fa notare che il matrimonio è stato sino ad allora un suo tema ricorrente, soprattutto quando Fellini accetta le razionalizzazioni partecipi dell’amico, sempre però schermendosi un po’: «C’è stata una maturazione ed era anche tempo che ci fosse. So difendermi di più, credo. Ma non vorrei fare dichiarazioni troppo serafiche o compiaciute. Tanto più che questa maturazione apparente può essere contraddetta all’improvviso» 17. Neanche a farlo apposta, dopo Giulietta degli spiriti si mette in moto la vicenda del Mastorna.
13 Ivi, p. 144.
14 Ivi, p. 145.
15 Ivi, p. 146.
16 Ivi, p. 170.
17 Tullio Kezich (a cura di), Giulietta degli spiriti..., op. cit., p. 31.
Marcello Monaldi
Kezich non tende a caricare l’aspetto rischioso dell’impegno creativo, sempre rilanciato da Fellini, ma non si nega mai all’incontro con la sua problematicità: magari lo attenua ma lo accetta e lo vive. Alla fine, sembra prevalere in lui l’immagine di un Fellini come saggio stoico, alla Marc’Aurelio, che è forse un po’ rassicurante. Ma nella sostanza resta vera la limpida conclusione della prima versione della biografia dell’amico:
L’opera felliniana esercita uno dei diritti dell’arte che è quello di non insegnare niente, ma può rendere più amichevole il grande mistero che ci circonda e nel quale i nostri piccoli misteri individuali si immergono, si confondono e si placano18 .
18 Tullio Kezich, Fellini, op. cit., p. 538.
Elvio Guagnini
“Referti fantasticati”. Su Kezich narratore
Un discorso complessivo su Kezich scrittore non dovrebbe prescindere dall’attività del critico e del saggista né da quella del giornalista. E dovrebbe ricordare il Kezich “narratore” de La dolce vita di Fellini, osservatore acuto del mondo e del costume del cinema, dei suoi riti, dei suoi personaggi e delle loro relazioni, psicologia e linguaggio: una sorta di “giornale” tenuto da uno scrittore con la vista acuta e la penna duttile e sottile. E dovrebbe rievocare tutto un arco di libri importanti, nei quali Kezich “racconta” il cinema, fino alle poderose biografie di Dino De Laurentiis (del 2001, in collaborazione con Alessandra Levantesi) e di Fellini (del 2002). Lo stesso discorso non dovrebbe trascurare il lavoro costante e prezioso svolto da Kezich attraverso note e recensioni giornalistiche nelle quali l’autore impegna un gusto di osservazione acuta, critica, sempre partecipata, che si intreccia con qualità narrative eccezionali e, spesso, con un racconto di sé che coinvolge il critico nel suo rapporto anche autobiografico con il cinema, con il fatto e il linguaggio cinematografico; e – insieme – si intreccia anche con la storia e il costume legati al film visto (o rivisto) e commentato. Un’attività, questa di Kezich, che è il risultato rigoglioso e vivo di una formazione precoce iniziata a Trieste e narrata splendidamente in quell’importante libro-intervista che è ’Ndemo in cine. Tulio Kezich tra pagina e set, a cura di Sergio Toffetti (Lindau, Torino, 1998), che ricostruisce la storia di un’attività professionale ma anche di una ininterrotta passione personale. Che del resto si avverte anche leggendo schede, note, recensioni che, per altri, sarebbero di routine. Accanto al saggista, al critico, al giornalista, all’autore di teatro, al lettore attento dell’opera di Svevo, c’è anche un Kezich scrittore, autore di alcuni libri di narrativa in senso più stretto: Il campeggio di Duttogliano (1959), L’uomo di sfiducia (1962), Una notte terribile e confusa (2006). Prove di anni diversi, eppure collegate da un gusto e da un’intelligenza, oltreché da interessi comuni.
Pagine scritte con un interesse volto a capire e a definire se stesso, il rapporto con il mondo in cui è vissuto, il senso e le modalità della propria formazione. Scritte con la leggerezza conquistata nell’atto della traduzione o trasposizione di vicende personali nella conduzione più libera (“creativa”,
come si usa dire) del racconto. Con la procedura descritta da Kezich per esempio a proposito del suo secondo libro di narrativa: «Per me scrivere L’uomo di sfiducia significò proseguire il diario de La dolce vita senza più l’obbligo di riferire gli eventi con esattezza, anzi con l’impegno di mescolare le carte ovvero cambiare il più possibile dati e connotati». Ciò che non autorizza il lettore a dimenticare il valore anche, non solo (si capisce), documentario – di referto – di libri che hanno come base fatti reali “romanzati”.
Non è un caso che Kezich, al proposito, nella stessa nota di postfazione (Un referto fantasticato. Contributo alla critica di me stesso) alla nuova edizione (Bompiani, Milano, 2005) di L’uomo di sfiducia (contenente un sesto racconto scritto subito dopo la pubblicazione del libro, Il dare e l’avere), citi un passo di Pancrazi – nel quale si dice che molti «romanzi del nostri tempo vogliono esser letti, e infatti li leggiamo, con una curiosità e uno stimolo piuttosto documentari e sperimentali che estetici; così come un tempo si leggevano, non già i romanzi, ma le confessioni, le autobiografie, gli epistolari privati, i memoriali intimi magari i referti clinici».
Un’operazione, quella di Kezich, per riappropriarsi del tempo perduto (da poco o da molto) occupando lo spazio della memoria, e cercando di farlo cogliendo il colore e l’espressione (il linguaggio) delle presenze da restituire a sé e ai propri lettori. «Il tempo perduto – ha scritto Kezich – quando lo ritroviamo dentro di noi, non va contemplato con il distacco dello spettatore. Pretende di essere abitato, pretende che in un lampo (e rispondendo magari a una sollecitazione minima) noi torniamo a essere quella cosa là. A sentire in quel modo, a nutrirci di pensieri e sentimenti che consideravamo obliterati, a esprimerci con la voce di allora».
Un’operazione talvolta complessa, come quella che – a proposito della propria commedia Un nido di memorie – Kezich avrebbe messo a fuoco, sottolineando il peso e il ruolo dell’autobiografismo del testo; ma anche aggiungendo che, poi,
nel contesto si inseriscono anche i ricordi degli altri, sempre fondendo l’iperrealistica precisione dei particolari tipica dei sogni con l’arbitrarietà altrettanto tipica delle libere associazioni. Non sono solo i grandi momenti a restare nella mente. A volte il flusso e il riflusso dei pensieri ripropone fatti apparentemente irrilevanti, battute sospese in aria, intonazioni che chissà perché hanno messo radici nella nostra coscienza, frammenti musicali appena accennati e subito interrotti, moti dell’anima di cui conserviamo solo il sentimento e non la spiegazione. Tutte insieme queste cose formano una trama che costituisce
“Referti fantasticati”. Su Kezich narratore
la nostra coscienza, l’eterna storia del personaggio “io” intessuta con quella degli altri.
Operazione, questa, compiuta con piena consapevolezza di metodo, cura filologica, attenzione ai dettagli d’ambiente, linguistici, di costume. E sempre con una passione che non impedisce il distacco, la capacità di prendere le distanze e leggere i fatti con lucidità implacabile e – insieme – con ironia sottile.
Lo si avverte bene, per esempio, nello splendido Il campeggio di Duttogliano, pubblicato la prima volta nel 1959 (Lo Zibaldone, Trieste) da Anita Pittoni (con ristampe successive fino a quella del 2001, Sellerio, Palermo). Un libro nel quale Kezich narra l’esperienza di un fanciullo, partecipante come balilla a un campeggio sul Carso, che avverte progressivamente un senso di insofferenza per quell’esperienza (da cui cerca di fuggire per tornare a casa) della quale lo respingono l’arroganza, la prepotenza, la volgarità, la retorica della propaganda militare e nazionalistica del fascismo. Un libro, questo Campeggio, in cui eventi drammatici della storia di quegli anni, densi di esiti anche tragici, vengono raccontati con gli occhi di un bambino che vive quell’esperienza tra illusioni e delusioni, stupore e risentimento raccontati in pagine a volte sospese (quasi da favola), a volte crude, a tratti comiche e con un ritmo di scrittura certo debitore a suggestioni del linguaggio cinematografico.
Di quel cinema che, del resto, sarebbe divenuto punto di riferimento delle storie de L’uomo di sfiducia (Bompiani, Milano, 1962). Dove personaggi, situazioni, storie, illusioni, miserie, vanità, debolezze, sotterfugi legati al mondo del cinema sottendono vicende che offrono al lettore il quadro mosso di un gioco di contraddizioni tra regole del mercato e sensibilità individuale, passioni e vocazioni professionali da un lato e – da un altro lato – compromessi ai quali la pratica quotidiana vorrebbero piegare, tensioni alla realizzazione di sé e frustrazioni cocenti. Testi, questi dell’Uomo di sfiducia, di notevoli qualità narrative, ricchi di dialoghi (che rivelano la pratica notevole di contatto e di confronto con l’agilità delle sceneggiature), e di capacità di penetrazione di figure e situazioni psicologicamente complesse, difficili da rappresentare.
Nel primo racconto di questo libro, che è anche quello eponimo (L’uomo di sfiducia) si fa riferimento più volte a lettere giovanili, che si riferiscono a una vicenda sentimentale passata, delle quali il giovane regista esordiente protagonista del racconto stesso, Gino Alessandri, va alla ricerca – a Milano – nel giorno della prima del suo primo film, chiedendone la restituzione alla
Elvio Guagnini
sua donna di un tempo. Lettere che – dice Alessandri – gli servirebbero per un film che ha una «mezza idea» di girare, sul periodo giovanile trascorso a Milano:
Aveva sempre pensato che fare un buon film, come scrivere un buon romanzo, significava prima di tutto ritrovare il sentimento preciso di una situazione storica o privata: e l’opera importante poteva nascere quando queste due situazioni coincidevano, quando la storia di uno si poteva dilatare senza fatica nella storia di molti. Era proprio il sentimento del dopoguerra che lui cercava in quelle vecchie lettere, difeso dalla solitudine dell’albergo, sull’eco un po’ narcisistica di un ricordo sentimentale.
Qualcosa di simile, o di affine (la ricerca, il ritrovamento e l’uso di lettere di un tempo passato) è alla base anche del libro più recente di Kezich narratore, Una notte terribile e confusa (Sellerio, Palermo, 2006). Anche qui, il problema del “tempo perduto” e della “memoria”, al centro. Il problema della coscienza dei fatti e della distanza, del rapporto che si stabilisce, e che si vuole instaurare con essi, per ritrovare il passato. Si riferisce a ciò anche il titolo, tratto da un’espressione di Jean Cocteau («il fantasista culturale che ne ha sempre una [di citazioni] buona per tutte le occasioni», scrive l’autore): « La mémoire est une nuit terrible et confuse », come recita l’epigrafe; anzi, «La memoria è una notte terribile e confusa», come recita la frase appiccicata su una vecchia scatola da scarpe recuperata da uno dei personaggi di questo libro sul fondo di un armadio. Una scatola che contiene le lettere scambiatesi da un gruppo di amici (quattro i corrispondenti più un quinto che non scrive né riceve lettere ma di cui si parla molto «in questo carteggio triestino di tanto tempo fa») e che diventa l’editore-ordinatore di questi manoscritti ritrovati.
Vecchio espediente letterario (questo del manoscritto ritrovato) e genere letterario di lontane origini (questo del romanzo epistolare, sul quale ora fervono i lavori degli storici, dei critici e dei teorici della letteratura italiani e stranieri). Nuovo e originale l’uso che ne fa Kezich in un’opera ricca di verve, di piccoli colpi di scena, di accadimenti, di equivoci, di eventi minuti che si ritrovano nella vita di una compagnia di giovani (una “clapa ”, in dialetto triestino) di famiglia borghese, impegnati nelle consuete occupazioni dell’età e della condizione sociale (gli studi, la vita mondana, l’amicizia, le relazioni sentimentali talvolta complesse, i rapporti con le famiglie) che si prospettano – pur nella loro inevitabile transitorietà – come eventi che
“Referti fantasticati”. Su Kezich narratore
pesano e che si presentano spesso con la drammaticità delle soluzioni definitive.
La “clapa ” è composta dagli scriventi Isa, Leonora, Daniele, Matteo, e dal cosiddetto Maestro Raro (una citazione da Schumann). Il quale è stato – all’epoca dei fatti narrati – un musicista, un pianista venerato dal gruppo come una guida spirituale (nonostante la sua condizione di coetaneo), poi divenuto, in seguito a circostanze di vita e di salute, critico musicale di spicco. L’epoca dei fatti narrati nelle lettere è l’anno 1947, un anno difficile e cruciale per la città di Trieste, per l’Italia (c’è stato da poco il referendum monarchia-repubblica) e per il contesto internazionale in cui la città e l’area si collocano. E, se questo sembra quasi uno sfondo di precarietà alle storie individuali e ai rapporti interpersonali dei giovani personaggi del libro di Kezich, gran parte di questa incertezza e indeterminatezza degli sviluppi delle loro storie dipendono dall’età, dalla ricerca che questi personaggi fanno di sé, per conoscersi e per definirsi in quel contesto e di fronte a un ignoto futuro.
Una volta, per indicare ciò che è necessario «per giudicare il cinema», Kezich aveva scritto che – a tal fine – «serve tutto, serve il teatro che è spesso ignorato, serve la musica, serve la letteratura al massimo grado, servirebbe la pittura…». Tutti ingredienti, questi, che si ritrovano nella cultura dei giovani corrispondenti di Una notte terribile e confusa e nelle continue citazioni presenti nelle loro lettere: da Rilke, Cocteau, Thomas Mann, Steinbeck, la Bibbia, i fratelli Grimm, Hemingway, Svevo, Alfieri, Slataper, Saba, Soldati, Fucini, Pascoli, Dante (cito un po’ alla rinfusa alcuni dei riferimenti presenti nel libro), a Shakespeare, Anouilh, Feydeau, Tennessee Williams, Čechov, Strehler, Schumann, Mozart, Stravinskij, Mussorsgkij, Brahms, Paganini, Verdi, Beethoven, Wagner, Cole Porter, Armstrong. E poi Billy Wilder, Rossellini, Chaplin, Jack Conway, René Clair… Anche il testo di questo romanzo ha un che di musicale. Un testo a più voci. Con il cambio degli scriventi ai quali corrisponde come una variazione di registri, di timbro, di qualità della voce (qui realizzata attraverso la scrittura). Non un romanzo epistolare a una o due voci (epistolario o carteggio semplice), ma un intreccio di lettere da uno agli altri, con il destinatario che – talvolta – legge e commenta agli amici il testo ricevuto; e magari – poi – con un confronto dei rispettivi testi ricevuti. Il Maestro Raro, infine, tira le somme e chiude il discorso. In un vero crescendo di osservazioni, riflessioni, massime, ragionamenti, tratti di discorso quasi aforistico: «L’esistenza è un vero Bildungsroman che non finisce mai. Finché c’è vita si cresce, si crede di imparare, si spera un giorno di diventare grandi,
Elvio Guagnini
maturi, corazzati contro dolori e sfortune. E invece…»; «…la notte, dopo una certa età, non è più quella beata isola di pace che frequentavamo da giovani. La paragonerei piuttosto a un arcipelago, tanti isolotti separati da bracci di mare ora brevi ora più ampi, a volte tranquilli e a volte minacciosi secondo i casi e gli stati d’animo del dormente. Spesso dalla placida condizione dell’oblio sei bruscamente tuffato nel bagno della realtà»; «…mi affiora il dubbio che i giovani hanno ragione a credere nell’amore eterno perché l’amore è eterno. C’è qualcosa di indistruttibile nel calore dei sentimenti, quando non sono ingannevoli o simulati; proprio qualcosa che scavalca il tempo e ignora la morte, come accade nell’oggettività dei prodotti dell’arte, riuscendo a conservare intatto il suo diritto a esistere»; «…andando avanti nel tempo anziché avvicinarci al cuore delle cose ce ne allontaniamo sempre più. Il che conferma l’impossibilità di scrivere l’ultimo capitolo di un Bildungsroman ». Splendide riflessioni sulle quali meditare. Ma anche un prezioso documento sul tempo e sul contesto nel quale sono collocati i fatti narrati (anche, per esempio, sul costume di vita e sull’educazione sentimentale di quei giovani; anche per esempio, sulla stessa loro vita pure dal punto di vista del sesso): un documento presentato con garbo, levità, ironia, punte di umorismo.
È un libro, questo recente di Kezich, che conclude – come si è visto – su note di grande profondità, un po’ malinconica e di grande saggezza, dopo avere tenuto il rendiconto epistolare dei rapporti tra i giovani amici in toni spesso scherzosi, attraverso note divertite, battute di sdrammatizzazione dei fatti (senza ignorare peraltro la serietà dell’apparente futilità di certe crisi e impennate giovanili), piccole cronache di eventi minuti in apparenza senza importanza (soprattutto se visti a distanza), a volte attraverso un umorismo o un’ironia che mai riescono a occultare una pietas che emerge sempre più quanto più il racconto procede verso la sua conclusione. Quasi un gioco, costituito dal prendere le distanze e, subito, annullarle; un gioco di osservazione fuori-dentro, un’ossimorica combinazione di passione e distacco, partecipazione e necessità di guardarsi dall’esterno, a distanza. Con un interesse e una curiosità per i meccanismi psicologici umani che sono pari alla necessità di guardarsi dentro. L’altro come specchio di sé. Se stesso come specchio del mondo. E lo specchio della storia che si riflette nello specchio dell’individuo, dei gruppi, di una generazione, di generazioni diverse a confronto.
Fabio Francione
Tullio Kezich, uno scrittore
Nella premessa a un rapido libretto d’occasione Tullio Kezich scrive: «Nel corso dell’esistenza mi è capitato di fare molte parti in commedia, tant’è vero che in prospettiva può risultare difficile scoprire un minimo di coerenza in attività diverse e in apparenza lontane l’una dall’altra. Dovendo mettere un titolo… ho pensato che la definizione migliore fosse Professione: spettatore »1 Dunque, non si può comprendere nelle sue sfumature più evidenti e segrete l’intera “operosità” intellettuale di Tullio Kezich se questa non è ricondotta al suo evidente – ed è esplicita dichiarazione dell’autore – stato di spettatore. Di colui che per ragioni soggettive e anche oggettive trova uno scranno privilegiato dal quale osservare il proprio tempo. Solo che in Kezich questo tempo coincide con lo spettacolo: cinematografico, teatrale, letterario. Questo tempo parallelo è preso non solo da un’angolazione critica, ma – ed è questa la novità – anche creativa. Detto questo, considero in tutto e per tutto Kezich uno scrittore – aldilà del collocamento nei mestieri, esercitati da più di cinquant’anni, della critica cinematografica – che sa dare del tu come pochi nel Novecento alla “Letteratura” di ogni tempo e paese. Proprio il colloquio intrattenuto e ininterrotto con l’arte letteraria gli consente di avere una sponda in più, esclusiva per capire il rapporto che ha con il cinema:
È una sponda importantissima del cinema. Qualcuno dice che il cinema è nato dalla letteratura. Trascurata dai cinefili è stata, al contrario, il grande bacino al quale l’intero immaginario visivo, quindi anche il cinema, ha attinto. Dedichiamo molto più tempo a vedere che a leggere, ciò inaridisce, a mio avviso, la capacità di approfondire gli argomenti2.
1 Fabio Francione (a cura di), Tullio Kezich, Professione: spettatore, Falsopiano, Alessandria, 2003, p. 6
2 Tullio Kezich, Letteratura, ad vocem, in Fabio Francione (a cura di), Tullio Kezich..., op. cit., p. 18
Ancora:
La letteratura come repertorio di conoscenze ci sta scappando di mano.
Personalmente non mi considero un narratore, maneggiando la forma narrativa non vado lontano mentre trattando lo spettacolo mi reinvento. La letteratura è stata ed è una “compagna di vita”, considero lo scadimento d’interesse verso la letteratura di questo periodo come una fase: la letteratura è immortale3.
In quest’ultimo stralcio s’accende una spia. Fa capolino un’intenzione di metodo di lavoro. In tempi recenti la figura illuminata («trattando lo spettacolo mi reinvento») poteva essere assimilata a quella del Dramaturg4 , ma per l’argomento che questo saggio s’impone, la figura che più s’attaglia a Tullio Kezich è quella del librettista d’opera otto-novecentesco, naturalmente inteso in chiave assolutamente moderna e da lui aggiornata. Antecedenti e a lui affini possono essere Tullio Pinelli e Cesare Vico Lodovici, noti a posteriori il primo per essere uno degli sceneggiatori di Federico Fellini, il secondo per aver tradotto Shakespeare e il teatro elisabettiano. Sono queste deviazioni che aprono squarci importanti nella biografia kezichiana. “In carreggiata”, s’aggiunge che al nostro manca solo, per scelta personale, la “messa in scena”. Insomma è la regia stessa che è ritenuta di poco interesse5 .
3 Ivi, p. 18.
4 Il Dramaturg è una specie di impiegato addetto alla riproduzione, una specie di soggetto di seconda mano, privo di risorse creative. Mentre, così come l’attore non è solo mediatore ma anche creatore del suo lavoro teatrale, anche il Dramaturg, se non è costretto in un mansionario solo specialistico può diventare un vero e proprio artista con le sue risorse e materie. Ogni creatore, in primo luogo, deve conoscere la “materia” con cui vuole creare, e deve conoscerla con amore. I1 poeta deve conoscere e amare la lingua, ma non essere necessariamente un linguista. Allo stesso modo un Dramaturg non sarà necessariamente un “uomo di teatro”, ma deve avere il teatro nel sangue e considerarlo con devozione, in modo da individuare di volta in volta le sue esigenze. E, almeno preliminarmente, deve aver studiato come si sono storicamente costituite le tendenze dell’arte teatrale per poter attingere a esse in ogni istante. Il Dramaturg di Max Herrmann-Neisse è reperibile all’indirizzo internet www.muspe.unibo.it/period/pdd/ num04/4_draml.htm.
5 «[La regia] non mi ha mai interessato. Non ho il temperamento adatto, essendo un impaziente per natura e le infinite ripetizioni di una scena mi annoiano da morire» (Tullio Kezich, Regia, ad vocem, in Fabio Francione (a cura di), Tullio Kezich..., op. cit., p. 21). Cfr. Luciano Chailly, Buzzati in musica, Eda, Milano-Torino, 1987, pp. 49-71, per una panoramica sui librettisti del Novecento. La retrodatazione all’Ottocento è intesa
Tullio Kezich, uno scrittore
In questa prospettiva foriera di spunti originali, per l’appunto e come fosse un lungo carrello, si può percorrere un buon numero di opere che hanno a che fare con la letteratura italiana e straniera. Zeno, Mattia Pascal, il signor G. però mettono da parte Bouvard e Pécuchet, infatti la fermata sarà solo alla prima stazione 6 . Sono questi personaggi che aprono per Kezich un’altra e inedita “parte in commedia”, quella che si spinge oltre, propria del profondo conoscitore di vari linguaggi artistici, del finisseur di letteratura che tratta al medesimo modo con opere e persone, le cui relazioni fittissime intrecciano talento e artigianato, passione e rigore, avventure e quotidianità. Mettere insieme due professioni come quella dello spettatore e quella del librettista, nella declinazione contemporanea data, è esercizio sì complicato e affascinante che rende in modo specifico e ampio la possibilità di essere creatore e critico nell’istante in cui si “inventa” o si “assiste” a uno spettacolo: è l’introduzione del cosiddetto “spettatore ragionante e scrivente”. Naturalmente quest’esercizio, altrimenti irrealizzabile, deve necessariamente avere una mediazione linguistica che per Tullio Kezich, curiosamente, è data più dal teatro e dalla televisione che dal cinema, e per travasi e in rapida successione distributiva da tutti e tre i mezzi7. Per
come fioritura massima del melodramma e della sua assimilazione per traslato al cinema come anticipazione di spettacolo totale. Sempre saltando il secolo, un’affinità ideale con Kezich si può individuare nell’estrema produzione dapontiana, quando il librettista di Mozart, affascinava gli americani con i suoi “pastiche”.
6 La letteratura straniera non è argomento di questo saggio al pari delle tante traduzioni di testi teatrali che pure per certi versi potrebbero da un lato contenere argomentazioni utili per questa dissertazione, dall’altro però aprire una voragine di buone intenzioni alla quale si preferisce non affacciarsi con il rischio di cadere.
7 «In fondo quello che ho continuato a fare dall’età della ragione ai nostri giorni si può riportare all’atteggiamento di chi, attratto da ciò che si svolge sullo schermo o sul palcoscenico, si trasforma poco a poco in un osservatore, testimone e analizzatore dello spettacolo della vita. Il che è un’operazione appassionante, spesso divertente, ma destinata a sicuro fallimento quando se ne volessero tirare le somme. Perché una spiegazione univoca e soddisfacente di tutto ciò che vediamo e viviamo non c’è; o, per lo meno, è al di fuori della nostra portata. A me è capitato spesso di confondere lo spettacolo con la realtà, o viceversa, tanto da non resistere saltuariamente alla tentazione di partecipare. Ovvero di alzarmi dalla mia poltrona di spettatore per entrare nello schermo o in palcoscenico e voltarmi a buttare un’occhiata sul mondo com’è visto dall’altra parte. In tale modo mi lusingo di essere riuscito a capire meglio le ragioni di chi fa le cose anziché limitarsi a guardarle e a giudicarle. Se c’è un consiglio, uno solo, che mi sento di impartire con certezza ai giovani avviati al mestiere (oggi in grande crisi, fuori moda e altamente sconsigliabile sul piano pratico) di spettatore ragionante e scrivente è proprio questo: evitate di pensare che tra scena e platea ci sia una barriera, sia pure di cristallo. Spettatori e attori, siamo tutti sulla stessa barca» (Tullio Kezich in Fabio Francione [a cura di], Tullio Kezich..., op. cit., p. 6).
Fabio Francione
meglio entrare nel mondo letterario di “spettatore ragionante e scrivente” dell’autore si effettua un prelievo dal copione dell’originale televisivo, da Italo Svevo, Una burla riuscita 8 :
Mario (f.c.) – Davvero vuoi che ti legga qualcosa anche stasera? Non sei stanco?
Giulio – Sapessi quanto mi piace sentirti leggere. La lettura mi concilia il sonno.
Mario (f.c.) – Allora vuol dire che ti annoio. Giulio – No, cosa dici? È che al suono della tua voce, io mi distendo, il mio cuore assume un ritmo regolare, il polmone s’allarga… Insomma ho la sensazione di star bene.
Mario asciugandosi le mani con uno strofinaccio. Passa in rassegna i libri dello scaffale.
Mario – Cosa leggiamo stasera? De Amicis, Fogazzaro? Giulio – S’era detto di leggere un moderno. Pirandello.
Mario – Ah, già. Pirandello. Il fu Mattia Pascal
Ah già, se qui si sobbalza, ancor più si salta proseguendo nella lettura dello scambio di battute tra Mario e Giulio. Mario è Mario Samigli, scrittore fallito, uno dei travestimenti di Svevo che si sa è già un altro travestimento. Sul rapporto tra Ettore Schmitz e Italo Svevo ha scritto cose fondamentali il critico Mario Lavagetto: meglio dunque concentrare la nostra attenzione sul terzo e incomodo vertice del dialogo: Luigi Pirandello. Ricapitolando: c’è
Mario Samigli alias Svevo alias Ettore Schimtz, c’è Luigi Pirandello (c’è però anche Mattia Pascal alias Adriano Meis), infine c’è Tullio Kezich che scrive. A conti fatti gli scrittori sono quattro, gli eteronomi pure. Ma chi fa cosa e cosa è fatto da chi? Una delle soluzioni alla domanda la dà proprio Kezich, che in questa ideale filiera creativa sopravanza e in anticipo sul tempo la linea SvevoPirandello, gemellaggio condotto dal critico Renato Barilli, fiancheggiatore allora della neovanguardia, tutto a beneficio di una riconsiderazione in chiave europea del romanzo novecentesco italiano e dei suoi sviluppi9. C’è di più:
8 Una burla riuscita. Originale televisivo di Tullio Kezich dal racconto di Italo Svevo. Il copione è stato pubblicato in «Sipario», n. 192, aprile 1962.
9 Cfr Renato Barilli, La linea Svevo-Pirandello, Mondadori, Milano, 2003. La prima edizione di questo importante volume è datata 1972. La prima riduzione de La coscienza di Zeno è del 1963-64. Una burla riuscita è del 1963 e Il fu Mattia Pascal è del 1974.
Tullio Kezich, uno scrittore
Kezich riprenderà qualche anno dopo il romanzo pirandelliano e svilupperà con Luigi Squarzina una riduzione de Il fu Mattia Pascal10 , che ha come esergo una citazione dall’incompiuto ed estremo dramma pirandelliano I giganti della montagna: «A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita».
Ecco un’altra indicazione di metodo da collazionare. Insomma, i materiali devono essere “vivi” per poter essere collaudati e il collaudo deve avvenire per gradi fino a far salire la temperatura dalla lettura fino al calco della scena teatrale. Di volta in volta le professioni dell’autore si sdoppiano, addirittura si triplicano. L’identificazione – in definitiva la cosiddetta “autobiografia per procura” – è sempre attiva e funzionante. Sto lasciando indietro e di proposito tutto il lavoro compiuto su La coscienza di Zeno (la prima stesura, i tanti allestimenti, i copioni derivati, i libri ecc.), i cui motivi kezichiani saranno sviluppati altrove e con più acribia critica. Per questo ho inteso effettuare un sondaggio solo su Una burla riuscita per dimostrare, a verifica di date, come Kezich fosse già sintonizzato su linee e tendenze ancora in nuce, più tardi egemoni nelle istituzioni letterarie nazionali. Proseguendo su questa linea Svevo-Pirandello che chiama alla memoria l’analisi di Giancarlo Mazzacurati sui romanzi “dell’apocalisse” novecenteschi, può essere incluso anche Un amore di Dino Buzzati11. Kezich sonda il romanzo di Buzzati – il suo più smaccatamente biografico, in cui l’amore per la città di Milano si trasfigura nella passione per Laide –consegnando allo spettatore (lui e gli altri, naturalmente) un nuovo capitolo della sua appassionante avventura intellettuale:
Tonino – Quando si scrive un libro i nomi, i fatti bisogna un po’ cambiarli, no?
Eusebio – Sai che potrebbe essere forte questo tuo romanzo? C’è passione, partecipazione.
Tarantola – Scommetto che ci siamo dentro tutti.
Mi ripeto dicendo che ritornano a distanza di anni – la riduzione di
10 Tullio Kezich, Il fu Mattia Pascal, dal romanzo di Luigi Pirandello, Einaudi, Torino, 1975.
11 Il romanzo di Buzzati uscì nel 1963. Numerose vicende distributive e personali allontanarono Kezich dal copione commissionatogli da Giulio Bosetti. In occasione del centenario di Buzzati, Kezich lo ha rispolverato a beneficio di chi scrive.
Fabio Francione
Un amore risale al 1997 – tutti i personaggi di Kezich. Tutti gli espedienti scenici che danno forma viva a un romanzo da mettere in scena e in cui l’autore, non diventa un ri-autore, ma un lettore, critico, inventore e infine spettatore.
Posso ritenere di aver concluso, ma l’occasione della pubblicazione direttamente in DVD del film di Maurizio Scaparro Mémoires offre l’opportunità di un ultimo sondaggio, pur retrocedendo di due secoli il discorso letterario (dal Novecento a fine Settecento). Il film fa parte di una trilogia teatrale-cinematografica che comprende, oltre all’adattamento goldoniano, Don Chisciotte da Cervantes e Amerika da Kafka (notare il “da” e non il “di”). Curiosamente per le due ali della trilogia Scaparro ha tra gli altri Kezich come adattatore e sceneggiatore. Aldilà di questa notazione (ce ne sono molte altre che riprendono motivi già affrontati) è invece rilevante come le “memorie” goldoniane rappresentino o possano rappresentare per il nostro autore un ulteriore passo d’avvicinamento all’ideale condizione di “spettatore ragionante e scrivente” che riesce allo stesso tempo a “circuitare” codici e lingue della letteratura e dello spettacolo altrimenti inconciliabili12
12 L’adattamento dei Mémoires da Carlo Goldoni è pubblicato da Ubulibri, Milano, 2005, con un ampio corredo di recensioni e un’intervista a Maurizio Scaparro. I Dvd di Don Chisciotte, Amerika e Mémoires sono pubblicati dall’Istituto Luce. Infine Kezich ha terminato di scrivere e sta allestendo con il regista Piero Maccarinelli un adattamento da Il romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani.
Valentina Re
La
critica al secondo grado: le prefazioni di
Tullio Kezich
Accanto, intorno, negli interstizi della sterminata produzione critica di Tullio Kezich esiste un’altrettanto consistente, rigorosa e appassionata attività liminare, di introduzione e commento, di glossa e presentazione, che sperimenta i territori paratestuali, li attraversa, li costruisce come luogo unitario di riflessione critica, memoria generazionale, rimessa in gioco e in prospettiva. Dell’intensa attività paratestuale di Kezich non prenderemo qui in considerazione che una singola componente, forse la più insidiosa: quella della prefazione allografa1, vale a dire la prefazione affidata a persona reale (quanto meno, riconosciuta come tale dal lettore) diversa dall’autore del testo oggetto di prefazione. Persona (anche, personalità) che interviene a presentare il testo ai lettori in virtù di una certa notorietà, di una riconosciuta competenza, di un particolare rapporto di amicizia, fiducia o stima con l’autore (spesso, di tutte e tre le cose insieme).
E delle prefazioni allografe firmate “TK” considereremo solo quelle destinate ad accompagnare monografie o antologie di taglio critico – e neppure tutte: ignorando così, pur a malincuore, le pagine prefative che ci introducono, sotto la guida sempre vigile di Kezich, a romanzi, sceneggiature, raccolte di poesie, biografie, autobiografie.
Perché abbiamo definito la prefazione allografa insidiosa ? Perché c’è il rischio che la (onorevole) funzione ausiliaria e di servizio del paratesto sconfini nel (meno onorevole) servilismo e/o nella raccomandazione.
Genette a questo proposito è piuttosto chiaro:
“Il sottoscritto, X, vi comunica che Y ha del talento e che bisogna leggere il suo libro”. Con questa formula esplicita, e a dire il vero piuttosto rara e caratteristica dei settori più ingenui dell’istituzione letteraria, il discorso prefativo rischia di produrre un doppio effetto di ridicolo: l’effetto sorpresa associato all’elogio indiscreto, e l’effetto
1 La nozione di “prefazione allografa” deriva da Gérard Genette, Soglie, Einaudi, Torino, 1989.
di ritorno che colpisce il prefatore così presuntuoso dal voler decidere del genio altrui2
Fortuna, aggiunge poco oltre Genette, che in genere la presenza stessa di una prefazione allografa valga di per sé da raccomandazione, senza bisogno di cadere nel ridicolo e nella presunzione dell’elogio indiscreto. Eppure, la prefazione a un testo altrui rimane operazione delicata e controversa. Certo, ci sono dei percorsi tutto sommato codificati e convenzionali, ma valgono per lo più per le edizioni postume ed erudite, e si limitano ad articolarsi intorno ad alcuni snodi essenziali: la genesi dell’opera, la biografia del suo autore, la collocazione dell’opera in un corpus più vasto. Nessuno ci impedisce, d’altro canto, di cercare anche nella prassi della prefazione allografa quei “temi del perché” e quei “temi del come” che Genette individua in relazione alla prefazione autografa (scritta dall’autore). Da una parte, la valorizzazione dell’opera che passa attraverso la valorizzazione del suo argomento, ovvero: della sua utilità (documentaria, sociale, politica, intellettuale, morale), della sua novità, della sua veridicità. Dall’altra, le “istruzioni per l’uso” (del testo): genesi e fonti, commento del titolo, fisionomia del lettore modello, indicazioni di genere, rimandi intertestuali, dichiarazioni (divenute con il passare del tempo sempre meno frequenti, più sospette e più controverse, a dire il vero) di poetica e di stile. Evidentemente, alcune possibilità precluse all’autore-prefatore rimangono invece disponibili al “semplice” prefatore. Come si è visto, la valorizzazione del testo a opera del suo stesso autore deve procedere necessariamente per via indiretta: si sottolinea il valore del “che cosa” viene affrontato piuttosto che del “come” viene affrontato, e ci si può anzi scusare, con abile mossa preventiva, dell’inadeguatezza di tale trattamento (rispetto a sì alto argomento). Il prefatore può anche fare a meno di tale cautela, e valorizzare a giusto titolo il trattamento proposto dall’autore di un dato argomento: ma attenzione, il rischio dell’elogio indiscreto rimane dietro l’angolo. La prefazione allografa rimane insidiosa.
Ne è assolutamente consapevole Jorge Luis Borges quando scrive il suo Prologo ai prologhi:
Che io sappia, nessuno finora ha formulato una teoria del prologo.
L’omissione non deve affliggerci, poiché tutti sappiamo di cosa si tratta. Il prologo, nella triste maggioranza dei casi, confina con l’oratoria
2 Ivi, pp. 263-264.
La critica al secondo grado: le prefazioni di Tullio Kezich
da dopopranzo o con i panegirici funebri e abbonda di iperboli irresponsabili, che la lettura incredula accetta come convenzioni del genere3.
Eppure, c’è una via di fuga, un’alternativa luminosa all’elogio funebre: «Il prologo, quando gli astri sono propizi, non è una forma subalterna del brindisi: è una specie laterale della critica»4 . La stessa dichiarazione borgesiana riportata nelle pagine di Soglie suona, curiosamente, un po’ diversa: «Una prefazione, quando è riuscita, [...] non è una specie di brindisi; è una forma laterale della critica» 5 .
Quale che sia la versione filologicamente più corretta, ci piace pensare che gli astri siano stati propizi a Tullio Kezich prefatore, che ha effettivamente interpretato la prefazione nella sua forma più limpida, più utile e coraggiosa, e l’ha praticata con la stessa lucidità, lo stesso rigore, la stessa passione con cui ha praticato il discorso critico nelle sue varie declinazioni.
Con una precisazione: la prospettiva critica mette in salvo dalla trappola della raccomandazione ma non impedisce affatto la valorizzazione, anzi, perché il commento critico argomenta e giustifica il valore del testo in maniera di gran lunga più efficace (e rispettabile) dell’elogio gratuito e indiscreto.
Dunque, prefazione come forma laterale della critica, come luogo in cui paratesto e metatesto si avvicinano al punto da divenire quasi indistinguibili. Per Kezich, in moltissimi casi, prefazione come forma di critica laterale e alla seconda : in che senso? Nel senso che il taglio critico delle pagine prefative di Kezich introduce spesso a un discorso critico altrui, che viene rapportato al proprio discorso e, più ampiamente, al discorso che ha coinvolto un’intera generazione di «pellegrini» o «catecumeni» della «religione del film» o «cinereligione» 6 .
La consapevolezza di un discorso e di un sentimento generazionale, pur frastagliato e articolato al proprio interno, in cui collocare l’autore che si va a presentare, è sempre molto evidente. Nella presentazione alla raccolta
3 Jorge Luis Borges, Prologhi con un prologo ai prologhi, Adelphi, Milano, 2005, p. 12. Il Prologo ai prologhi è datato 26 novembre 1974.
4 Ivi, p. 13.
5 Gérard Genette, op. cit., p. 266.
6 Espressioni di Tullio Kezich in I cavalieri del Leone d’oro, in Nereo Ivaldi (a cura di), La prima volta a Venezia. Mezzo secolo di cinema nei ricordi della critica, Studio Tesi, Pordenone, 1982.
Re
delle critiche di Flaiano apparse (sotto lo pseudonimo di Patrizio Rossi) su «Cine Illustrato» tra il 1939 e il 1940, mentre racconta della scoperta di una recensione di Alba tragica particolarmente penetrante, Kezich sottolinea la presenza di «un accento che oggi si rivela, agli occhi di un lettore d’annata, fraterno»7. Usa proprio questa parola: fraterno. È il riconoscimento di una comunanza che va ben oltre la condivisione di gusti e interessi. E poco oltre continua: «Mi stupivo sempre di più [...] che di Patrizio Rossi si fossero perse le tracce, che non fosse diventato dopo la guerra un critico militante, uno di noi» 8 .
L’io di Kezich è un “io” che, nelle pagine delle sue prefazioni, tende costantemente a farsi “noi”, a mettersi in relazione con l’autore del libro e, più ampiamente, con un clima, una passione, un’idea di cinema, un’idea di critica. Ma attenzione: il “noi” di Kezich occupa una posizione almeno duplice. Da una parte è un “noi” generazionale, fortemente esclusivo (sebbene non estrometta mai il lettore attraverso un “voi” oppositivo), fondato su un’appartenenza che ha un fondamento e dei vincoli storici, sebbene li trascenda. Dall’altra è più moderatamente inclusivo, è un “noi” più “prefativo” e meno “generazionale” che convoca anche il lettore, insieme al critico, in quanto osservatore privilegiato di un “oggi” tutto sommato sbiadito, deludente, a cui contrapporre la testimonianza viva di un passato palpitante.
A volte, nel “noi” del testo sembrano sovrapporsi i due livelli; come quando Kezich propone di leggere la raccolta delle recensioni di Flaiano come
un prezioso documento generazionale. Perché a distanza di mezzo secolo siamo ancora là. A ripetere le stesse cose, a rimproverarci le stesse contraddizioni, a riproporre gli stessi insolubili problemi. Ma con minore finezza, con l’usura della ripetitività, con il cipiglio della filmologia divenuta scienza che s’insegna all’università: e di fronte al cinema delle sale vuote, non più sostenuto dal calore del consenso popolare.
Leggendo Flaiano sembra invece di essere all’angolo di una via notturna di Roma, fermi a una tappa dialettica tra il cinema e il caffè,
7 Tullio Kezich, Quando Flaiano si chiamava Patrizio Rossi, in Ennio Flaiano, Un film alla settimana: 55 critiche da «Cine Illustrato» (1939-1940), Bulzoni, Roma, 1988, p. 7.
8 Ivi, p. 8.
Valentina
La critica al secondo grado: le prefazioni di Tullio Kezich
con le voci degli amici che nel fervore della discussione si alzano a livelli di litigi sotto i lampioni azzurrati dell’oscuramento. In un momento desolato della nostra storia [...] ma con la speranza di qualcosa che doveva pur arrivare, per i sopravvissuti, dopo la catastrofe9.
Dicevamo di un presente sbiadito, deludente. Kezich sceglie un’espressione sicuramente più efficace quando parla «dei nostri decaffeinati anni Novanta, totalmente scevri di palpiti e ideologie»10 . Di nuovo, un “noi” testuale che convoca di fronte al critico e al lettore un modello dal passato, da quel “noi” generazionale11 (come già Flaiano) che può riaprirsi come esperienza (pur storicamente conclusa) attraverso la riscoperta e la rilettura. «Rivisitato dalla prospettiva dei nostri decaffeinati anni Novanta» scrive dunque Kezich:
Pasolini che guarda i film, si entusiasma o si infuria, si esalta o si deprime, e soprattutto ci invita a discuterne tutti insieme appassionatamente come di fatti reali, magari litigando ma sempre con l’ansia di andare in fondo alle cose, si conferma uno di quegli insostituibili “professori di energia” di cui s’è perso lo stampo12
Ecco emergere un altro elemento ricorrente e importante nell’approccio di Kezich alla prefazione: la presentazione di un autore, di un’opera, non è mai rievocazione nostalgica, commemorazione malinconica. È sempre rimessa in gioco, rimessa in prospettiva, rilancio nel presente, stimolo attivo, punto di vista ancora attuale.
Ma la prefazione a Pasolini critico ci dice almeno altre due cose. Fin dalle prime righe Kezich confessa senza alcuna reticenza quella «irritazione che ci prende tutti quando sentiamo esprimere con perentorietà un giudizio nettamente contrario al nostro»13 . Kezich dissente da Pasolini su Pietro
9 Ivi, pp. 12-13.
10 Tullio Kezich, Sotto la maschera cretina, in id., Pier Paolo Pasolini, I film degli altri, Guanda, Parma, 1996, p. 14.
11 Un “noi” che peraltro Kezich ha modo di ribadire esplicitamente nella prefazione alla raccolta delle recensioni di Pasolini, quando scrive: «Chi ha vissuto quegli anni ricorda bene (e a chi non li ha vissuti consiglio vivamente di leggersi il libro Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte a cura di Laura Betti) le insistenti e pericolose aggressioni verbali e fisiche subite dal poeta a opera dei teppisti neri e della stampa di destra» (ivi, p. 9).
12 Ivi, p. 14.
13 Ivi, p. 7.
Germi, Stanley Kramer, Alberto Sordi, e anche su François Truffaut14 Ma la questione Truffaut è più complicata. Quando Kezich lo incontra nel 1966, si trova davanti un «personaggio sussiegoso e reticente»15 che, successivamente, gli sembrerà di ritrovare nelle riserve espresse da Pasolini in merito a Effetto notte (e non nel film):
Donde l’allarmato sospetto che lo sguardo di Pasolini fosse in grado di perforare idealmente la pellicola per scoprirvi dietro dell’altro: finzioni, calcoli, sottintesi; ma anche cose positive, allusioni importanti, fugaci frammenti di bellezza [...]. Insomma il grande critico non è quello con cui si va d’accordo, l’esperto che ti solleva benignamente al suo livello lasciandoti intendere che la pensi come lui, ma piuttosto un guastafeste, un seminatore di dubbi, un avanzatore; e soprattutto una specie di rabdomante, un notomizzatore infaticabile, uno psicanalista selvaggio16 .
Dall’esplicita ammissione dei disaccordi, e in particolare dall’aneddoto su Truffaut, emerge in primo luogo una franchezza di metodo rispetto ai dissensi interpersonali, che vengono riletti in funzione delle esigenze di una critica che deve “guastare le feste”, insinuare dubbi, minare certezze17. È chiaro che la valorizzazione del dissenso corrisponde a una precisa consapevolezza delle strategie retoriche. Ma qui, la militanza come valore in sé sembra giocare un ruolo di pari importanza: la presa di posizione, il conflitto, sono comunque positivi rispetto alla generale compiacenza dell’oggi. Insomma: in quell’«uno per cento, che distingue un fedele di Ombre rosse da un patito di Sfida infernale, c’è spazio per un immenso ideale campo di battaglia»18
14 Si noti che la marcatura dei dissensi corrisponde anche a una strategia di richiamo indiretto di alcuni dei temi dell’antologia critica. I dissensi sono così sempre osservabili e verificabili nei testi.
15 Ivi, p. 8.
16 Ibidem. 17 Emblematico, a questo proposito, anche un passaggio della prefazione alla raccolta di scritti di Tino Ranieri, Nostro cinema quotidiano. Qui, Kezich racconta senza reticenze la fine della sua amicizia con Ranieri. Ma, come in altri casi, sottolinea la produttività del conflitto e i frutti (cinematografici) del dialogo che animò il lavoro comune durante l’esperienza produttiva della “22 dicembre”. La citazione di Gertrude Stein spiega il titolo della prefazione: «Prima che svaniscano i fiori dell’amicizia svanisce l’amicizia» [Tullio Kezich, Fiori di celluloide, in Tino Ranieri, Nostro cinema quotidiano. Da spettatore di provincia a critico militante (1952-1976), Bulzoni, Roma, 1986, p. 12].
18 Tullio Kezich, Il primato di Amleto, in Lindsay Anderson, John Ford, Milano, Ubulibri, 1985, p. 9.
La critica al secondo grado: le prefazioni di Tullio Kezich
In secondo luogo, si svela la funzionalità dell’aneddoto. Che non è mai fine a se stesso, al ricordo celebrativo. Anzi: l’aneddoto è la dimensione in cui il sodalizio tra vita vissuta e attività critica (il cinema come «fatto di vita e non solo di visione») 19 si dà nella sua forma più compiuta.
Alcuni aneddoti emblematici animano la prefazione alla raccolta di scritti di Tino Ranieri Nostro cinema quotidiano. L’aneddoto riguarda, da un lato, la vita dell’autore, ma non è mai disgiunto dal suo percorso critico. Ad esempio Ranieri, subito dopo la guerra, finito chissà come in Bulgaria, che vede Scors di Dovzhenko. La rievocazione non è accessoria: proprio la rievocazione di tale episodio costituisce, nel 1952, l’esordio nella critica nazionale di Ranieri. Ancora: Ranieri spinto dagli amici a collaborare con «Bianco e Nero» e altre riviste. Kezich ricorda in particolare un saggio su Simenon, «uno di quei saggi che per scriverli bisogna aver speso una vita intera sull’argomento»20 . Il riferimento non è pretestuoso: in quel saggio Kezich ritrova infatti uno dei tratti più interessanti e originali dell’approccio di Ranieri, «il rifiuto di dividere film e libri fra fenomeni importanti e no»21.
Altri aneddoti vedono protagonista, insieme all’autore, il prefatore. Il senso rimane lo stesso: i fatti del cinema sono i fatti della vita. La passione è la stessa. I film, gli attori, i registi, s’incontrano, nel senso più pieno del termine. Così, a proposito della monografia su Gabin dell’amico André Brunelin, Kezich può dire che «quando l’hai finito [...] non hai l’impressione di aver letto un libro di cinema. Hai piuttosto la sensazione di aver incontrato qualcuno che valeva la pena conoscere» 22 . E ancora: «Non siamo di fronte a un saggio critico, né a una vera biografia. È il diario di un’amicizia durata un quarto di secolo» 23
Ma affidiamoci un’ultima volta, per concludere, proprio alla conclusione della prefazione a Nostro cinema quotidiano. L’imbarazzo nel riflettere sul significato della figura di Ranieri, ammette Kezich nelle ultime righe, deriva dal fatto che questa figura «assomiglia per tanti aspetti alla nostra». Quella porosità del confine tra il cinema e la vita, come valutarla?
La cinefilia è stata una perversione, una fuga, una distorsione della realtà, una “finestra spalancata sul mondo”, o tutte queste cose?
19 Cfr Claudio Bisoni, Tullio Kezich e la forma lunga: monografie, diari, ri-scritture di un critico appassionato, infra.
20 Tullio Kezich, Fiori di celluloide, op. cit., p. 10. Si noti come qui l’aneddoto costituisca un’altra strategia di riferimento indiretto ai contenuti del volume.
21 Ibidem.
22 Tullio Kezich, Prefazione, in André Brunelin, Gabin, Arsenale, Venezia, 1988, p. 7.
23 Ibidem.
Re
È stata giusta la scelta di leggere il XX secolo attraverso il cinema? [...] Vivere al buio è stato meglio che vivere alla luce?
A queste domande per ora non so rispondere. Non so che giudizio dare della vita di Tino Ranieri e di noi tutti che abbiamo scelto il culto catacombale delle ombre24
O forse sì? Forse, vivere al buio ha permesso di vivere più responsabilmente e lucidamente alla luce? E se così fosse, vivere alla luce ha permesso di vivere più appassionatamente al buio? Ci piace intuirlo in questa epigrafe conclusiva:
Parafrasando l’avvocato dei gangsters di Giungla d’asfalto (l’ineffabile Louis Calhern, quello che si tiene, accoccolata sul divano, l’amichetta Marilyn Monroe) ci siamo tante volte ripetuti ridendo: «il cinema (lui dice: il crimine) non è che un aspetto bizzarro (lui dice: sinistro) della lotta per la vita»25.
24 Tullio Kezich, Fiori di celluloide, op. cit., p. 14.
25 Ivi, p. 15.
Valentina
Maurizio Giammusso
Kezich a Genova, i romanzi in palcoscenico
Nel teatro italiano del Novecento ci sono pochi esempi di una collaborazione così intensa e riuscita fra un drammaturgo, un regista e un teatro, come quella che ha legato per un decennio Tullio Kezich a Luigi Squarzina e al “suo” Teatro di Genova. Per trovare qualcosa di simile si deve pensare al patto artistico fra Giuseppe Patroni Griffi e la Compagnia dei giovani ( De LulloValli-Falk-Albani) o al Giovanni Testori che ha ispirato le stagioni più belle di Franco Parenti al “Salone Pierlombardo”. Da quella collaborazione genovese uscì un filone di drammaturgia derivata da romanzi, che diede vita a tre spettacoli importanti: La coscienza di Zeno, Bouvard e Pécuchet e Il Fu Mattia Pascal; nell’insieme un capitolo significativo della grande storia del Teatro di Genova, al quale chi scrive ha dedicato già un ampio studio1. Di quella collaborazione lo stesso Kezich è stato poi il memorialista più acuto e preciso, raccontando in varie occasioni quel lavorio intenso fra la pagina e il palcoscenico.
Tutto ebbe inizio nel 1964. Kezich, già affermato come critico sceneggiatore, da tempo era convinto delle qualità teatrali del suo concittadino Italo Svevo e del suo romanzo La coscienza di Zeno
Quando lessi a lui e a Ivo Chiesa le prime scene, pur rivelandosi incoraggiante Luigi notò che l’episodio iniziale, con Zeno Cosini che si presenta dallo psicoanalista dottor S., così com’era scritto risultava “da siparietto”, cioè “leggerino” e troppo palesemente introduttivo.
Mi suggerì di conferire maggior spessore alla situazione, magari attingendo alla biografia freudiana di Ernst Jones. Sicché tornato a casa mi addentrai nella selva oscura della letteratura psicoanalitica (un’abitudine che non ho più smesso, acquisita grazie a Luigi) e scoprii il saggio di Freud sul Mosè di Michelangelo. Ne venne fuori il punto di partenza e addirittura il contrassegno forte dello spettacolo, con quel Mosè che al centro della scena di Gianfranco Padovani incombeva sul povero Zeno come simbolo schiacciante della patria potestà: ed è
1 Maurizio Giammusso, Il Teatro di Genova. Una biografia, Leonardo arte, Milano, 2001.
l’immagine che molti spettatori considerarono come la più tipicamente sveviana, anche se nel romanzo non c’è.
Il cambio di marcia nella preparazione dello spettacolo avvenne in pieno agosto 1965, quando giunse l’invito della Biennale Teatro diretta da Wladimiro Dorigo a presentare La coscienza di Zeno in prima assoluta a Venezia, nell’ottobre. In una Genova ferragostana e di spettrale solitudine il regista e il suo scrittore si misero al lavoro, passando varie ore a rivedere il testo, discutere i punti controversi, tagliare e modificare. In quei giorni Kezich ebbe modo di studiare il metodo di Squarzina, che era il più colto e riflessivo dei registi italiani e spesso anche il più pragmatico. Racconterà Kezich:
Non bisogna pensare che i consigli del regista fossero ispirati solo a preoccupazioni culturali: già avanti nelle prove, per esempio, mi invitò perentoriamente a concedere una battuta di congedo al vecchio Malfenti nel collocarlo su un immaginario letto di morte, insegnandomi il principio che nessun personaggio deve mai uscire dalla commedia insalutato. Scrissi la battuta, con il risultato che l’attore ogni sera si prendeva la risata o addirittura l’applauso.
Il metodo Squarzina raggiunse i suoi risultati più memorabili nel rapporto con Alberto Lionello:
Luigi mi invitò a tenere nella massima considerazione le istanze, i dubbi e perfino certe altalenanti smanie perfezionistiche del nostro mattatore; e così la lunga battuta finale di Zeno, quella che dalle considerazioni sul vizio del fumo approda alla visione dell’Apocalisse, fu da me riscritta infinite volte nel corso di uno spietato testa a testa con Alberto, che soppesando e analizzando ogni sillaba, continuava a ripetere: “Devo capirla io, se non la capisco io come posso farla capire al pubblico?”. Il tutto mentre Squarzina, patrono occulto del confronto fra autore e protagonista, fingeva sullo sfondo di occuparsi d’altro.
Con assoluta dedizione all’autore e piena padronanza della sua opera, Kezich utilizzò assai bene lo schema del libro, che è una confessione scritta da Zeno per lo psicoanalista, che lo ha in cura; chiude così il dramma nell’arco di un dialogo continuamente interrotto dalle rievocazioni delle vicende, fra il protagonista e colui che nel romanzo è il fantomatico dottor
Kezich a Genova, i romanzi in palcoscenico
S. Si raccontano così i “tormenti” di questo “uomo senza qualità”, che passa la vita fumando la sua “ultima sigaretta”; che si risolve a sposare la sorella brutta della bella ragazza che desiderava, arrivando poi a considerare i guasti del tempo su quel bel volto amato; e tutte le altre vicende un po’ malinconiche, un po’ umoristiche (Zeno come Charlot, dicono alcuni esegeti) di questo che – osserva Kezich – più che un romanzo è un sasso nella coscienza più o meno stagnante di tutti.
Spettacolo e testo qui sono davvero meravigliosamente fusi. La critica unanime riconosce che si tratta di una delle migliori interpretazioni di Squarzina («per precisione, cura dei particolari, unità del gusto e ritmo» dice Giorgio Prosperi 2 ) e insieme una delle migliori interpretazioni di Lionello: valga, uno fra tanti, il giudizio di Aggeo Savioli, che parla di «rara esattezza e sottigliezza di toni, di timbri, di atteggiamenti» 3 nel trascorrere fra il passato e il presente, ora protagonista dell’azione, ora disincantato osservatore del mondo e della sua stessa vita.
Visto l’esito eccellente dell’intesa con Kezich, quattro anni dopo (1968) Squarzina gli propone di unire le forze per un progetto che gli bruciava di aver fallito ai tempi giovanili dell’Accademia: mettere in scena Bouvard e Pécuchet. Allora aveva già buttato giù quella che doveva essere la prima scena (e che poi non lo fu): l’incontro dei protagonisti ai giardini del Lussemburgo.
Poi si era fermato, spaventato forse dalla mole del capolavoro incompiuto di Flaubert, dalle sue complesse implicazioni, dalla folla dei personaggi.
Come imbrigliare un fluviale romanzo di avventure e pensieri, che è la summa parodistica di tutti i saperi letterari e scientifici visti con gli occhi di due sorprendenti donchisciotte della cultura, che alla fine approdano al nulla, nella socratica consapevolezza di «sapere soltanto di non sapere» e nella delusione di dover riprendere il noioso mestiere di copisti?
Kezich, al quale lasciamo ancora una volta la parola, accolse volentieri l’invito di Squarzina:
Da quel momento fu tutto un leggere e compulsare, scambiarsi telefonate, combinare fuggevoli incontri, ai quali arrivavamo con libri, fotocopie e quaderni di appunti. In tali frangenti, oltre a imparare moltissimo, apprezzai l’ordine, la razionalità e la precisione del mio socio. I1 quale, con la sua predilezione per i mobili d’epoca, aveva
2 Giorgio Prosperi, «Il tempo», 9 ottobre 1965.
3 Aggeo Savioli, «L’Unità», 9 ottobre 1965.
Maurizio Giammusso
adocchiato da un antiquario e si era portato a casa uno di quegli archivi con tanti cassetti, su ciascuno dei quali aveva appiccicato l’etichetta di uno dei molteplici lavori in corso. Quando scoccava l’ora di Flaubert, Luigi non faceva altro che aprire il relativo cassetto e tirar fuori gli incartamenti; e io mi formai la convinzione che quel mobile rispecchiasse in qualche modo la struttura della sua mente, suddivisa in scomparti bene ordinati. Appena scelto il cassetto, metaforicamente e no, Luigi riusciva a cancellare tutto il resto, a non confondere i suoi super-pensieri e super-impegni, a darsi intero a quella cosa là. Tutto si complicò, quando si arrivò a dover scegliere i due attori: occorrevano interpreti eccellenti e sembrava che non si potesse assolutamente fare a meno di Tino Buazzelli. Ma Buazzelli era in guerra da un paio d’anni con gli Stabili e soprattutto con Genova, dove del resto quella parte gli era stata promessa già nella primavera del 1965, quando si pensava addirittura di trarre un musical dal romanzo di Flaubert, e di coinvolgervi Paolo Panelli4. Chiesa proclamò dunque che mai dopo i passati litigi sarebbe stato lui a fare il primo passo. Squarzina fu meno drastico, precisando tuttavia di non volerci andare neppure lui. E così toccatagli la parte dell’ambasciatore, chiese udienza a Tino durante un intervallo di prova del Nero Wolfe televisivo. Per fortuna il frascatano si sentiva talmente Bouvard che prese l’offerta come la cosa più naturale del mondo, ringraziò e si mise a disposizione.
Nella cornice scenica ideata da Pier Luigi Pizzi ispirandosi a Rousseau “le Douanier”, il duetto Buazzelli-Mauri si rivelò talmente intonato che sarebbe piaciuto anche a Flaubert. Lo spettacolo venne apprezzato ovunque per gli interpreti straordinari e per le scene fatte di pannelli mobili disegnati da Pier Luigi Pizzi. Ma non ripeté l’exploit de La coscienza di Zeno. Forse è il destino di questo discusso romanzo, forse i tempi non erano più giusti per sciogliere un inno al fallimento dell’Utopia, mentre si scatenava l’ondata giovanilistica del 1968, che in qualche occasione entrò direttamente in rotta di collisione con lo spettacolo, come per il debutto romano al “Sistina”, la sera del contestatissimo passaggio a Roma del presidente USA, Richard Nixon, i cui cori e clamori giunsero fin dentro il teatro.
Il terzo capitolo della collaborazione di Tullio Kezich con lo Stabile
4 Cfr Ivo Chiesa, lettera a Tino Buazzelli, Genova, 28 maggio 1965.
Kezich a Genova, i romanzi in palcoscenico
creò un testo teatrale, che è probabilmente la commedia di Pirandello più rappresentata in Italia negli ultimi trenta anni, anche se Pirandello non la scrisse. La trasposizione del romanzo Il Fu Mattia Pascal ha avuto infatti altre edizioni, dopo quella genovese con Albertazzi: Maurizio Scaparro la riprese con Pino Micol; quindi, è stata la volta di Flavio Bucci per molte stagioni consecutive.
Il merito originario, per la verità, fu di Maria Luisa Aguirre d’Amico, nipote di Pirandello e comune amica di Squarzina e Kezich. «Il lavoro si rivelò il più professionale, ci coinvolse meno profondamente» dice Kezich.
Squarzina sorvegliò comunque la mia riscrittura del romanzo con l’abituale attenzione; e per un risultato la cui funzionalità è stata confermata da frequenti riprese. Ebbi nuovamente modo di sperimentare il fecondo rapporto fra il regista e il protagonista, un Giorgio Albertazzi in provvisorio calo di fortuna presso la critica, benché in forma smagliante, molto attento ai significati e alle espressioni, notomizzatore e trascinatore, oculatissimo direttore della compagnia durante la tournée
A Squarzina piaceva l’atmosfera magica della biblioteca di Santa Maria Liberale, dove si decise di far svolgere tutta l’azione rievocata, nella cornice scenica firmata da Padovani. Ma lo appassionava anche il recupero della Roma inizio di secolo fatta rivivere con la dovizia di figurazioni che le ricche distribuzioni degli anni ’70 ancora consentivano. «Dello spettacolo – dirà Kezich – non posso dimenticare il fulgore delle luci capitoline in contrasto con le ombre inquietanti della pensione, la scena irresistibile dello spiritismo così stranamente simile all’analoga situazione di Zeno, e la partecipazione della cara Lina Volonghi nella parte della medium signorina Caporale». Lo spettacolo riesce benissimo. La riduzione di Kezich resta assai fedele al romanzo, che narra la storia sorprendente d’un pover’uomo che fugge da casa, vince al casinò, viene creduto morto e cerca così di crearsi una nuova vita; senza pensare che nessuna vera vita (né amore, né matrimonio) potrà avere, non avendo più uno stato civile. L’uso del flashback è quasi scontato, ma molto efficace e consente ad Albertazzi di lasciarsi andare (con estremo autocontrollo) alla sua foga monologante, al ricordare e riflettere, al tentare di sistemare quel magma di fatti e pensieri, che Pirandello stesso aveva voluto lasciare un po’ confusi.
Roberto De Monticelli sul «Corriere della Sera» approva lo spettacolo, ma aggiunge che «l’operazione nobile e acuta poteva essere spinta assai più
Maurizio Giammusso
in là, con più coraggio critico e maggiore autonomia fantastica» 5 . Senza riserve il giudizio di altri, come Gerardo Guerrieri su «Il Giorno», per il quale «l’eleganza dell’operazione è manifesta nel suo brio, nelle invenzioni dialogiche, nella sintesi drammaturgica, per cui una lunga serie di scene viene sintetizzata in una battuta» 6 .
5 Roberto De Monticelli, «Corriere della Sera», 16 novembre 1974.
6 Gerardo Guerrieri, «Il Giorno», 15 novembre 1974.
Maria Pia Pagani
Arlecchino, cantine & Co. Pagine teatrali di Tullio Kezich
«Sai che un più vario, un più movimentato porto di questo è solo il nostro cuore»
Umberto Saba1
Il secondo Novecento teatrale italiano deve molto a Tullio Kezich. Il suo è un percorso artistico in cui la scrittura assume diverse gamme e tonalità espressive: creazione, traduzione, adattamento, critica, saggistica, ricordi 2 . Nelle sue pagine teatrali affiora la consapevolezza di chi sa di affrontare una sfida, appassionante quanto non semplice, come quella di scrivere, tradurre, adattare e trasporre per la scena 3 . Prima della “svolta triestina” della fine degli Anni Novanta, che lo porta a realizzare una serie di opere originali4 , Kezich si interessa soprattutto alle trasposizioni teatrali di testi letterari 5 , quali La coscienza di Zeno da Svevo, Bouvard e Pécuchet da Flaubert, Il fu Mattia Pascal da Pirandello o i Mémoires da Carlo Goldoni 6 . La coscienza di Zeno è stato rappresentato per la prima volta a Venezia nel 1964 7, approdando due anni dopo anche in televisione 8 . Nel 1965 Einaudi
1 Umberto Saba, Il molo, in id., Poesie scelte, Milano, 1992, p. 55.
2 Tullio Kezich, Ricordi, ad vocem, in Felice Cappa, Piero Gelli (a cura di), Dizionario dello Spettacolo del ’900, Baldini&Castoldi, Milano, 1998, p. 579.
3 Per rendere conto dell’ampiezza della sua attività, facciamo alcuni nomi di autori tradotti e/o adattati da Kezich: George Bernard Shaw (Candida), Jean Anouilh ( Monsieur Ornifle), Neil Simon ( A piedi nudi nel parco, Il prigioniero della seconda strada, Plaza Suite), Graham Greene (L’amante compiacente ), Anthony Shaffer ( Duello), Botho Strauss (Grande e piccolo), Victorien Sardou (Divorziamo!! ), John Boynton Priestley (Un ispettore in casa Birling), Arthur Kopit (Indians), Miguel de Cervantes ( Don Chisciotte).
4 Cfr. Paolo Quazzolo, Il teatro dialettale di Tullio Kezich, infra
5 Tullio Kezich, Teatro da e teatro di, in Franca Angelini (a cura di ), Scrivere il teatro, Roma, 1990, pp. 73-79.
6 A cui sono da sommare almeno Una burla riuscita, sempre da Svevo, Il gallo dal Bell’Antonio di Brancati, Il ritorno di Casanova da Schnitzler, Un amore da Buzzati, Si gira! da Pirandello.
7 Lamberto Trezzini, Una storia della Biennale teatro 1934-1995, Marsilio, Venezia, 1999, p. 72.
8 Cfr. Giorgio Tabanelli, Il teatro in televisione, 2 voll., RAI-Eri, Roma, 2004.
pubblica l’adattamento di Kezich, che si apre con una sua lucida riflessione sulle riduzioni drammatiche e sui relativi pro et contra. Nel caso del romanzo sveviano, si tratta di
un tentativo di allargare la conoscenza di un libro ancora relativamente poco noto: una proposta fatta al pubblico nuovo, quello che vanno scoprendo i migliori Teatri Stabili, per una lettura critica e collegiale di un capolavoro letterario. Se non siamo ancora abbastanza bravi per inventare parole nuove, portiamo sulla scena parole di altri: l’importante è che il discorso sia vivo e attuale. E che una comunità possa meditare sul proprio destino attraverso ciò che vede rappresentato sul palcoscenico9
La coscienza di Zeno è seguito dall’uscita nel 1970 del volume Svevo e Zeno: vite parallele :
La cronologia comparata di Ettore Schmitz (Italo Svevo) e Zeno Cosini, che si offre al curioso di cose sveviane, è nata dalla pratica esigenza di stabilire i tempi storici di una narrazione e di una biografia in vista della trascrizione teatrale del romanzo10
Questo suo confronto tra autore e personaggio approda in scena passando, non senza una certa mesta ironia, attraverso la storia:
Siamo autorizzati a considerare la biografia di Ettore Schmitz e quella di Zeno Cosini come vite parallele, che coincidono perfettamente solo nei momenti della verità: quando scoppia la guerra mondiale, e il personaggio libresco va sottobraccio con quello dell’anagrafe nella brusca conquista di una salutare autonomia, ma anche nella conferma dell’esattezza universale di un irrefrenabile umore tragico; e nel momento della morte, quando il vecchione e il signor Schmitz tacciono stroncati dalla malattia “sempre mortale” che avevano così ben diagnosticato divertendosi insieme11
9 Tullio Kezich, La coscienza di Zeno. Dal romanzo di Italo Svevo, Einaudi, Torino, 1965, p. 6.
10 Tullio Kezich, Svevo e Zeno: vite parallele, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1970, p. 9.
11 Ivi, p. 11.
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Per Kezich la scelta di Svevo non è casuale12 :
quando si nasce fra i refoli di bora La coscienza di Zeno non è soltanto un libro: è un sasso nella coscienza più o meno stagnante, più o meno morta, di tutti. Ecco perché trascrivendo il libro non ci è parso di fare un adattamento teatrale; piuttosto un’autobiografia per procura13
L’efficacia di questa proposta è ben evidenziata da Roberto Tessari che, parlando del confronto tra letteratura e teatro, scrive:
Pensiamo, per esempio, all’esperienza complessiva d’un Tullio Kezich: al suo costante operare attraverso “adattamenti” di testi narrativi per la scena, che realizza il proprio culmine (nel 1964) con La coscienza di Zeno, subito elevata a livello di spettacolo evento destinato a innumerevoli repliche e riprese dalla regia di Luigi Squarzina. Un caso, quest’ultimo, per cui verrebbe da domandarsi – tra l’altro – se non sia stata proprio la versione teatrale a promuovere presso più vaste cerchie di pubblico interesse e apprezzamento per un grande romanzo di non facile lettura…14
Tappa fondamentale del lavoro di adattamento teatrale di Kezich, in collaborazione con Luigi Squarzina15 , è il flaubertiano Bouvard e Pécuchet, rappresentato per la prima volta a Genova nel 1968. Già un anno prima «Sipario» presenta due scene provvisorie inaugurando la nuova sezione “Laboratorio”, creata «con l’intento di raccogliere di volta in volta e proporre all’attenzione dei nostri lettori materiale di documentazione e esercitazioni di lavoro colte nel loro farsi»16
Alle due scene provvisorie – L’incontro e Il 1848 (cioè dalle giornate di febbraio 1848 al “18 brumaio di Luigi Napoleone” 1851) – fa da premessa un’interessante nota in cui Kezich e Squarzina spiegano i criteri guida del loro
12 Cfr. Mario Brandolin (a cura di), Svevo per noi oggi. 1928-1978: cinquantenario della morte di Italo Svevo, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Trieste, 1978.
13 Tullio Kezich, La coscienza di Zeno, op. cit., pp. 6-7.
14 Roberto Tessari, Teatro e letteratura: confusioni, distinzioni, intersezioni, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, vol. III “Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento”, Einaudi, Torino, 2001, p. 1064.
15 Cfr. Tullio Kezich, La coscienza di Luigi, in Claudio Meldolesi, Arnaldo Picchi, Paolo Puppa (a cura di), Passione e dialettica della scena: studi in onore di Luigi Squarzina, Bulzoni, Roma, 1994, pp. 69-80.
16 Tullio Kezich, Bouvard e Pécuchet. Dal romanzo di Flaubert alla scena nella rielaborazione di Tullio Kezich e Luigi Squarzina, in «Sipario», n. 253, maggio 1967, p. 34.
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lavoro di adattamento, finalizzato a uno spettacolo che sia «un’alta e grottesca meditazione sull’inutilità dell’umano arrabattarsi»17. Le avventure dei due protagonisti devono suscitare l’interesse del pubblico, la loro amicizia non deve risultare statica, deve esserci ironia e parodia del sapere:
Il “donchisciottismo” li pone di volta in volta in antitesi con lo scetticismo vissuto degli altri personaggi. Due anticonformisti sempre in partenza verso l’assoluto. Sempre in contrasto con gli altri perché non accettano una visione comune delle cose; perché gloriosamente privi di pregiudizi, sciaguratamente superiori, eroicamente stolti18 .
Secondo Kezich e Squarzina, la soluzione più efficace è quella di presentare i protagonisti come due clown in scena:
Quando Bouvard e Pécuchet prendono una decisione, è là il teatro. Il momento stesso che si mettono a fare una cosa. Come nelle comiche: c’è il buco perché tutti ci corrano dentro. Ma solo il pubblico sa che ogni volta i personaggi finiranno nel buco, gli interessati non se ne rendono conto19
Questa clownerie si riflette in una partitura scenica di illusioni ed esperienze nella quale
il risultato è il disastro completo. Unico finale possibile un non-finale, il ritorno a un “grado zero” dell’ufficio, l’approdo al deserto di Beckett dove faticosamente si possono ricostruire solo le condizioni fondamentali dell’operosità-esistenza: i due leggii. Ironia dell’accettazione di un tipo di esistenza aborrito20.
Una delle più vivaci novità della stagione 1970-71 fu W Bresci . Una storia italiana in due tempi 21 , che rappresenta il primo esempio di scrittura teatrale kezichiana libera da un riferimento letterario precedente. W Bresci «è il tentativo di mettere in scena una bestemmia illustrata prendendo a prestito i martelliani di Giacosa e gli endecasillabi benelliani,
17 Ivi, p. 34.
18 Ibidem
19 Ivi, p. 35.
20 Ibidem
21 Tullio Kezich, W Bresci. Storia italiana in due tempi, Bulzoni, Roma, 1971.
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i toni foschi del melodramma e la scansione ritmica di un Bonaventura arrabbiato» 22 . Per questo lavoro Kezich ritiene inadatte le definizioni di «teatro documento» e di «teatro politico» 23 . Egli infatti spiega che
la matrice originaria di questo psicodramma grottesco, in cui dovrebbero specchiarsi molte preoccupazioni attuali, è un’emozione infantile: la scoperta, a quattro o cinque anni d’età e in piena era fascista, di una scritta scolorita sul muro di una chiesa, “W Bresci”24
Un’altra grande sfida che Kezich affronta, nel 1974, è quella dell’adattamento teatrale di uno dei romanzi pirandelliani più famosi: Il fu Mattia Pascal, allestito per la prima volta a Genova con regia di Luigi Squarzina, e pubblicato da Einaudi nel 1975 25 . Di questo e degli altri spettacoli realizzati da Squarzina sulla base degli adattamenti di Kezich (La coscienza di Zeno, Bouvard e Pécuchet) Paolo Puppa sottolinea che
la contaminazione dei piani temporali tra monologhi e trances rievocate, le accelerazioni e decelerazioni improvvise, in particolare nel caso del testo pirandelliano, costituiscono un gioco sapiente ed esperto per passare la “rampa”26
Kezich riprende Il fu Mattia Pascal nel 1986 per l’allestimento romano di Maurizio Scaparro27, con cui aveva già collaborato tre anni prima per Don Chisciotte. Frammenti di un discorso teatrale, complessa operazione artistica a tre teste che affiancava allo spettacolo teatrale una serie televisiva di cinque episodi e un film per il grande schermo28 . In merito alla collaborazione fra Kezich e
22 Ivi, p. 134.
23 Ibidem.
24 Ibidem. Un capitolo tutto da scrivere è quello sulla collaborazione che Emanuele Luzzati, recentemente scomparso, offrì a Kezich per la realizzazione delle scenografie di W Bresci, e de La coscienza di Zeno della Compagnia di Giulio Bosetti del 1988, con regia di Egisto Marcucci. Disegnò pure i costumi per gli allestimenti di Don Chisciotte: frammenti di un discorso teatrale del 1984 (con Beppe e Concetta Barra), ripreso anche nel 2005 e del 2006 (con i pupi di Filippo Verna Cuticchio), sempre per la regia di Maurizio Scaparro.
25 Tullio Kezich, Il fu Mattia Pascal. Dal romanzo di Luigi Pirandello, Einaudi, Torino, 1975.
26 Paolo Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 85.
27 Cfr. Enzo Lauretta (a cura di), Il fu Mattia Pascal: romanzo teatro film, Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, Agrigento, 2005.
28 Il Don Chisciotte avrà una seconda, acclamata, edizione nel 2005.
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Scaparro per la nuova edizione del Fu Mattia Pascal scrive Edo Bellingeri:
Il testo elaborato da Tullio Kezich e l’impostazione data alla regia da Maurizio Scaparro sembrano escludere che il motivo principale di questa scelta sia da rinvenire nell’esigenza di un legame con una tradizione più che consolidata. Lo stesso Kezich – cui si deve una prima elaborazione drammaturgica del romanzo andata in scena, più di dieci anni fa, con la regia di Luigi Squarzina – riterrebbe sicuramente limitativo che si intendesse questo suo lavoro d’oggi come una “variante” e parla decisamente di una “nuova versione” 29 .
In scena Mattia Pascal, personaggio notoriamente “morto per la vita e vivo per la morte”, grazie a Kezich scopre gli ambienti della capitale che furono determinanti per la vita del suo autore:
Nella necessità di contenere l’ampia materia del romanzo in una misura teatrale, la scelta di Kezich si è orientata su di un luogo e su di un tempo – Roma – dove la “disponibilità” del personaggio, interpretato da Pino Micol, è massima. La vicenda romana di Mattia Pascal diventa così la parte significante di un tutto dove passato, presente e futuro interagiscono e si dissolvono nella evidenza più piena e più allusiva di luce e di ombra, in un mondo di immagini sceniche30.
La collaborazione fra Kezich e Scaparro continua nel 2004, quando va in scena Mémoires da Carlo Goldoni, adattato per la scena 31 da Kezich insieme a Maurizio Scaparro, che ne cura anche la regia. Stavolta, come sottolinea Maria Grazia Gregori, Kezich si misura «con una materia tumultuosa come l’autobiografia di un uomo di teatro» 32 , sulla quale aveva già lavorato con Giorgio Strehler. Nasce così la
sceneggiatura di un vero e proprio road movie tratto dai Mémoires pensato per la televisione e poi anche per il teatro, vissuto dal regista triestino in chiave
29 Edo Bellingeri, Mattia Pascal. Un’avventura dell’io, in Tullio Kezich, Il fu Mattia Pascal di Tullio Kezich da Luigi Pirandello, Officina, Roma, 1986, p. 7.
30 Ivi, p. 10.
31 Mémoires. Frammenti di vita teatrale dai Mémoires, le opere e le lettere di Carlo Goldoni, Ubulibri, Milano, 2005.
32 Ivi, p. 12.
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certamente goldoniana ma anche dichiaratamente autobiografica33
Questi Mémoires, per Enrico Groppali riprendono
quella scommessa – tramutare in spettacolo i ricordi di una vita come quella di Goldoni – che Giorgio Strehler tentò nei momenti cruciali della sua carriera di far coincidere con la grandezza e il tormento della professione teatrante prima abbozzando un film televisivo, e infine, alla vigilia della morte, dedicandolo a canto conclusivo di un itinerario che idealmente chiamava a raccolta i grandi della scena italiana34.
L’anziano Goldoni che ha lasciato Venezia per trasferirsi a Parigi, duetta con il giovane tessitore di stoffe in partenza per la Moscovia: secondo Gian Antonio Cibotto basilare è stata «l’invenzione di Tullio Kezich che ha chiamato in causa il giovane Anzoleto, “per indicare la possibile forza soprannaturale del teatro, e la sua capacità di superare con la sua fantasia anche l’età”» 35 . In questo lavoro di adattamento, che Flavia Bruni definisce «un’opera di rara cesellatura» 36 , Franco Cordelli sente spirare il «vento dell’Adriatico» 37 cui Kezich è stato sempre fedele nel ricordo delle sue origini. Lo percepisce pure Enrico Fiore, che in quella brezza di mare «che mai smise di cullare i sogni e la nostalgia di Goldoni» 38 individua il segnale dell’avvenuta realizzazione di quel «progetto che non riuscì a concretizzare Strehler»39 .
Kezich fu anche un attento osservatore e critico teatrale per «Settimo Giorno» e «L’Europeo». Proprio dalle pagine di quest’ultima rivista, nella seconda metà degli anni Sessanta, egli segue “la rivolta degli attori”, che ha dato origine all’omonimo libro edito da Gremese nel 2005:
33 Ivi, p. 12.
34 Enrico Groppali, «L’Avanti!», 25 gennaio 2004, ora in Mémoires. Frammenti di..., op. cit., p. 55.
35 Gian Antonio Cibotto, «Il Gazzettino», 18 gennaio 2004, ora in Mémoires. Frammenti di vita..., op. cit., p. 55.
36 Flavia Bruni, «Secolo d’Italia», 23 gennaio 2004, ora in Mémoires. Frammenti di vita..., op. cit., p. 57.
37 Franco Cordelli, «Corriere della Sera», 23 gennaio 2004, ora in Mémoires. Frammenti di vita..., op. cit., p. 59.
38 Enrico Fiore, «Il Mattino», 23 febbraio 2004, ora in Mémoires. Frammenti di vita..., op. cit., p. 81.
39 Ibidem
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In queste pagine si ritrovano gli echi di un’epoca in cui ancora il teatro palpitava di vitalità, proponendosi come specchio della società e traducendo l’impegno politico nei termini ideologici e operativi dell’attività artistica. C’è da aggiungere che dalla sensibilizzazione nata dalla “rivolta”, oltre che dal modello innovativo degli spettacoli di Carmelo Bene, fiorì poco dopo la grande stagione dell’avanguardia, detta anche “l’era delle cantine” (o dei teatrini, o dei “luoghi non teatrali”) 40
L’«organica inchiesta giornalistica fra la gente del mestiere»41 di Kezich si snoda attraverso le voci autorevoli di Tino Buazzelli, Sergio Fantoni, Luca Ronconi, Romolo Valli, Luigi Squarzina, Giorgio Strehler, Gianfranco De Bosio, Vittorio Gassman, Franco Enriquez. Nel volume del 2005 Kezich aggiunge pure alcuni suoi appunti inediti, intitolati Sulla centralità dell’attore, che si legano alla partecipazione a due convegni, a Napoli nel 1986 e a Modena nel 1987. E, non senza una certa ironia, egli offre un quadro che nasce dalla sua personale esperienza in teatro:
Puoi affannarti a scrivere, disegnare e costruire le scene, inventare i costumi, comporre la musica, illuminare o dirigere, però colui che il pubblico vede e ricorda è solo l’attore. Primo viene l’attore. Al centro della scena, al centro del teatro e delle sue varianti (cinema, TV), al centro del risultato estetico, al centro delle filosofie inerenti, al centro del fatto economico. È l’attore che muove l’affare e con il proprio valore di mercato ne determina le dimensioni42
Sulla centralità dell’attore è organizzato in «14 riflessioni e commenti» che abbracciano la storia del teatro del XX secolo. Il ricordo del provino fatto a Carlo Bagno, che da attore di teatro in tale occasione si trovò per la prima volta davanti alla macchina da presa, diventa un modo per tracciare un rimando alla recitazione cinematografica. Il lavoro sul set è profondamente diverso da quello sul palcoscenico, e Kezich – critico cinematografico per le maggiori testate nazionali – non ha dubbi nell’affermare che in teatro sarebbe impossibile utilizzare uno pseudo-attore ruspante senza scuola né tecnica: la voce non arriverebbe in seconda fila, gli
40 Tullio Kezich, La rivolta degli attori. Il “prologo in teatro” del Sessantotto, Gremese, Roma, 2005, p. 8.
41 Ivi, p. 8
42 Ivi, p. 103.
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atteggiamenti non selezionati o evidenziati dal montaggio risulterebbero scomposti e inefficaci. Perciò la prova vera della professionalità attoriale resta il teatro. L’unica bilancia del peso specifico di un interprete è il palcoscenico e se il peso è insufficiente manca qualcosa che il successo e il denaro non possono comprare43.
Un’opinione, questa, ulteriormente confermata dal vissuto di Kezich come attore:
E vogliamo sostenere che recitare al cinema è la stessa cosa che recitare in teatro? Ma io al cinema, se mi dirige un regista di talento e se Tino Carraro mi presta la voce, mi sentirei di impersonare Re Lear, mentre nelle mie poche apparizioni amatoriali in teatro ho sempre fatto una modesta figura. Ci sono generici di Cinecittà che nei film di Fellini dicono i numeri al posto delle battute (“uno, due tre, quattro…” eccetera) e doppiati sembrano dei caratteristi americani44.
In questi appunti, alla fine degli anni Ottanta, Kezich riflette sull’attore nei termini (non a caso) pirandelliani:
L’incubo dell’attore è di non avere una propria identità. Non è esagerato definirlo un problema pirandelliano, tanto è vero che ne Il fu Mattia Pascal c’è un’allusione all’abitudine degli attori al principio del secolo (siamo nel 1904) di non portare barba né baffi per comodità di trucco. Ovvero per ribadire la propria disponibilità a essere chiunque altro. Mattia, il “forestiero della vita”, è glabro, sì è tagliata la barba, ha la faccia come un ginocchio e la congiunta sensazione di “non essere”. Che è una malattia professionale dell’attore. In tale senso la possibilità di diventare un attore riprodotto dovrebbe essere, per chi fa questo mestiere, un approdo tranquillizzante45
Il libro edito da Gremese termina con uno scritto di Kezich del 2004 intitolato Rivolta sul palco, rivoluzione in cantina con il quale, con gli occhi di poi, torna a rivedere l’accaduto:
Qual è la morale della favola? Con la sollevazione contro taluni aspetti
43 Ivi, p. 116.
44 Ivi, pp. 111-112.
45 Ivi, pp. 107-108.
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autoritari e burocratico-politici della realtà in cui operavano, gli attori si illusero di avviare una trasformazione del mondo dello spettacolo; ma in realtà restarono immersi nella concezione del teatro in cui erano cresciuti, tributari degli insegnamenti di Silvio d’Amico, dell’Accademia e dei grandi registi. La loro fu tutt’al più una sommossa, non una rivoluzione. E i più non si resero conto che la vera rivoluzione del teatro, ignorata o sottovalutata, era in corso da una decina d’anni sotto i loro piedi ovvero (più o meno metaforicamente) nelle cantine46
Indicando Carmelo Bene come autentico iniziatore – con il Caligola di Camus nel 1959 – di tale «terremoto sotterraneo»47, Kezich vede nelle cantine la realtà artistica in cui «fu definitivamente rifiutato il primato del testo in omaggio a ogni sorta di manipolazioni e deformazioni, ma la tendenza generale fu soprattutto orientata alla visione, alla mimica e all’invenzione estemporanea. I testi diventarono una partitura per le immagini, con imbarazzo dei critici ancora fedeli al vecchio rito di poter leggere il copione in anticipo»48 . Forse anche da questo clima nacque in Kezich il desiderio di vivere quella sfida che fu il portare i romanzi in scena.
Ma l’attenzione di Kezich per un teatro diverso è ravvisabile anche nella varietà dei suoi interessi, che spaziano da Giorgio De Lullo, a cui dedica in tempi recenti un’accurata monografia 49 , a personalità molto diverse come Leopoldo Trieste o Marcello Moretti.
Cronaca di Trieste, per esempio, definito da Kezich «il copione più apprezzato dai critici dell’immediato dopoguerra e insieme il più dimenticato» 50 , gli permette di riflettere sulla drammaturgia italiana del secondo dopoguerra:
È un Kammerspiel piuttosto rarefatto, dove su sfondi fantasmatici tra le grigie case di Prati e l’Aventino, cinque personaggi si muovono pro -
46 Ivi, p. 122.
47 Ibidem.
48 Ivi, p. 123.
49 Tullio Kezich, De Lullo o il teatro empirico: ricordando un maestro dello spettacolo italiano, Marsilio, Venezia, 1996. Dell’anno precedente è l’introduzione al libro sulla Compagnia dei Giovani di Antonio Audino pubblicato da Editalia.
50 Tullio Kezich, L’olocausto come metafora, in Leopoldo Trieste, Cronaca, «Ridotto», nn. 2-3, febbraio-marzo 1982, p. 33. Da Cronaca fu tratto, nel 1951, il film Febbre di vivere di Claudio Gora, con Marcello Mastroianni.
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vocandosi e torturandosi in un furore analitico e autoanalitico che pretende la spiegazione dell’apocalisse appena avvenuta. Si potrebbe fare il nome di Strindberg se quel modello fosse stato presente nella nostra cultura del dopoguerra. Più modestamente Trieste, come tutti noi che allora ci occupavamo di drammaturgia, aveva davanti il teatro di Betti e lo rispecchiava in certi nodi angosciosi, nella coalizione dei personaggi a straziarsi e a confessarsi a vicenda. Al posto dell’astrazione bettiana, di quell’intellettualismo spiritualistico algido e fragile, Cronaca mette il calore della cosa vera, del problema concreto, della storia vissuta come attualità 51 .
Sull’acclamato lavoro di attore di Moretti, Kezich invece scrive:
Dal ’47 a oggi si è esibito in quasi quattrocento repliche del goldoniano Arlecchino servo di due padroni, suscitando in tutta Europa e nell’America Latina un entusiasmo senza precedenti. Moretti […] non segue una speciale preparazione atletica per mantenere la forma necessaria agli sgambetti e alle cascade della maschera. Anni or sono, mentre lavorava nel Corvo di Gozzi, si ruppe la gamba sinistra e dovette subire l’asportazione del menisco. […] Nella vita l’Arlecchino dei nostri giorni è un uomo semplice e spiritoso, un ottimo compagno di lavoro. L’unico suo dispiacere è quello di esser più conosciuto con la maschera che senza 52 .
Ma gli interessi di Kezich non si fermano qui e toccano anche il teatro vernacolare triestino: si pensi al suo legame con Carpinteri e Faraguna 53 e al suo interesse per la figura di Angelo Cecchelin, a cui dedica Un ortodosso dell’anticonformismo, un intenso ritratto pubblicato da Sellerio nel 200154 . A questo attore si legano i primi ricordi teatrali di Kezich:
Cecchelin non l’ho soltanto visto sui palcoscenici del “Fenice”, del “Regina” e del “Filodrammatico”, l’ho conosciuto bene di persona.
51 Ivi, p. 33.
52 Ivi, p. 34.
53 Cfr. Lino Carpinteri, Il ragazzo di Trieste, e Francesco Macedonio, Come diventammo amici, infra (n. d. r.).
54 Tullio Kezich, Un ortodosso dell’anticonformismo, in id., Il campeggio di Duttogliano e altri ricordi-racconti, Sellerio, Palermo, 2001, pp. 115-121. Precedentemente Kezich aveva scritto la presentazione del volume di Livio Grassi, Il teatro di Angelo Cecchelin, Lint, Trieste, 1975.
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Mio padre era il suo avvocato e lo difese nel ’38 presso il Tribunale Speciale di Milano in un famoso processo dov’era accusato di “offese al Duce”. Ricordo ancora le risate che mi feci, a dieci anni, leggendo di soppiatto il fascicolo trovato sulla scrivania paterna, con la notarile elencazione di tutte le parolaze che il comico aveva lanciato contro il dittatore in presenza degli scritturati. I quali, con tale Nino D’Artena in testa, l’avevano denunciato più che altro per vendicarsi di certe sue tirchierie come capocomico55
L’episodio giuridico per il quale Cecchelin si rivolse all’avvocato Giovanni Kezich, mette anche in luce il rapporto degli artisti con la censura dell’epoca: Angelo non sapeva frenarsi. La sua chiacchera galoppava davanti a lui, l’invenzione a getto continuo delle battute travolgeva non solo il comune sentimento del pudore, ma anche quella prudenza che in tempo fascista rappresentava il cardine delle virtù. […] Cecchelin aveva il dono di suscitare un’allegra attesa al solo comparire alla ribalta: l’imprevedibilità dei suoi ad libitum, ovvero delle sortite a rischio fuori dal copione approvato dalla questura, erano il segreto del suo successo, il motivo per cui la gente andava a vedere anche due o tre volte lo stesso varietà 56
Nell’attore non ancora cinquantenne, l’adolescente Tullio vide «lo sguardo malinconico» 57 che avrebbe poi ritrovato nel Chaplin di Luci della ribalta. Nella sua ultima lettera a Giovanni Kezich, Cecchelin ormai capocomico a scartamento ridotto, inveiva contro “quel mona de CinemaScope ”58 . Eravamo dunque nel ’54, era uscita sugli schermi La tunica e i cinema dovettero rinunciare al varietà per l’impossibilità di rimuovere il grande schermo. Fu il colpo di grazia inferto all’avanspettacolo già in grave crisi; e su questo panorama da viale del tramonto Cecchelin continuò a strappare le risate con le unghie e coi denti a pubblici che non parlavano il suo dialetto e che ormai non sapevano più chi fosse quel vecchietto spiritato59
55 Ivi, p. 115.
56 Ivi, p. 116.
57 Ivi, p. 118.
58 Frase dialettale triestina che significa “quello stupido di Cinemascope ”, (n. d. r.).
59 Ivi, p. 121.
Forse, nella lunga e feconda carriera teatrale di Kezich, c’è un unico rimpianto legato al grande concittadino Umberto Saba, del quale si conservano le carte a Pavia presso il Centro di Ricerca sulla Tradizione Manoscritta di Autori Moderni e Contemporanei, e il cui dramma Il letterato Vincenzo è uscito a stampa per la prima volta nel 1989 grazie a Maria Corti 60
Da ragazzo [ricorda Kezich ne Il libraio che non sapeva fare i pacchetti 61] frequentava la Libreria Antica e Moderna in via San Nicolò 30 e ogni tanto, come molti altri avventori, faceva arrabbiare il celebre proprietario. A Trieste le stramberie del personaggio non impressionavano più nessuno, facevano parte della sua tragicommedia quotidiana proprio come gli eterni battibecchi, da lui più volte riportati nei suoi scritti, con il famoso impiegato Carletto Cerne. Peccato non averli registrati o almeno trascritti a caldo, erano dialoghi spesso surrealisti e molto divertenti. Sempre improntati alla più paradossale provocazione da parte di Saba, che godeva a stimolare le reazioni indignate di Carletto sfortunato paladino del senso comune: “Ma cossa la disi eresie, sior Saba! ”62
Tullio Kezich non ha trascritto quei dialoghi e quelle battute, è vero, ma ci ha offerto uno dei ritratti teatrali più belli dell’insigne cantore della “poesia onesta”.
60 Umberto Saba, Il letterato Vincenzo: dramma inedito in un atto, Piero Manni, Lecce, 1989.
61 Tullio Kezich, Il libraio che non sapeva fare i pacchetti, in Il campeggio di Duttogliano e altri ricordi-racconti, op. cit., pp. 126-130.
62 Ivi, p. 127.
Cecilia Serradimigni
Cinque tecniche di “degustazione” sveviana
«Così, proprio così era fatto il miglior critico del mondo. E pensare che valeva la pena di scrivere, solo perché a questo mondo esisteva un nostro simile!»
Italo Svevo, Una burla riuscita
Congenialità e passione sono forse concetti ormai insufficienti per spiegare la lunga e fruttuosa attitudine che ha fatto di Tullio Kezich uno dei maggiori critici e scrittori sveviani: l’unico, a dire il vero, che abbia fatto di Svevo la fonte diretta e inesauribile da cui far scaturire molteplici forme d’invenzione letteraria vera e propria. Affermazioni, queste, che non dovrebbero stupire i critici letterari di professione: anche Svevo, lo sappiamo, non era uno scrittore di professione…
La cronologia di questo peculiare rapporto si sostanzia di un intrico di date e aneddoti che coprono un arco di oltre cinquant’anni, scorrendo il quale il dato preminente rimane quello dell’affezione costante, dapprima timida e reverenziale, via via più sicura e “sperimentale”, infine salda e rilassata, quasi inevitabile, talmente acquisita da farsi ironica e sorniona. Come in un rapporto d’amore, insomma: «un blend definibile solo a una degustazione protratta, attenta, disponibile»1. Ma andiamo con ordine.
Gli anni Cinquanta vedevano Tullio, ex-studente di lettere e critico alle prime armi di cinema e teatro poco più che ventenne, prelevare dalla biblioteca paterna i volumi di quello che, ai tempi, altri non era se non un interessante scrittore locale, da abbandonare al termine di una “etnografi -
1 Tullio Kezich, Zeno torna a casa, in Svevo (per noi) oggi, in «Quaderni del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia», n. 12, nuova serie, Udine, 1978, ora in Fabio Francione (a cura di), Tullio Kezich. Professione: spettatore, Falsopiano, Alessandria, 2003, p. 118.
Cinque tecniche di “degustazione” sveviana
ca” ed ebraica lettura: «questo momento – dichiara Kezich – non è ancora arrivato» 2 . Svevo e la lettura infinita 3 , d’altronde, è proprio il titolo che lo stesso Kezich dava all’introduzione anteposta a Una burla riuscita, il primo grande testo sveviano da lui affrontato nel 1962, sotto la forma sofferta dell’adattamento teatrale.
L’adattamento teatrale di un racconto: Una burla riuscita Fu dunque questo il primo vero approccio creativo alla scrittura di Svevo, non più solo meditata ma resa essa stessa fonte di una scrittura seconda, di una forma nuova. Forma sofferta, si diceva sopra: è lo stesso Kezich a parlarcene in diverse occasioni. La massima preoccupazione riguardava l’annosa questione se sia legittimo o meno mutare di forma un’opera d’ingegno: se questa sia intraducibile o se «la sua organicità, piuttosto che all'andamento letterale ed esteriore, vada riferita alla sua intrinseca ideazione». Non c’è bisogno di dire che Kezich si schierò decisamente da questa parte del dilemma; in quegli anni però, in effetti, i pregiudizi nei confronti di un’operazione del genere erano ancora piuttosto forti. Eppure nessuno potrebbe negare l’apporto essenziale dato dal romanzo e dal racconto alla drammaturgia novecentesca, «antidoto al progressivo svuotamento semantico che ha caratterizzato l’evoluzione della scrittura scenica del nostro secolo»4 . Le esitazioni dello stesso autore, che si riproporranno anche due anni più tardi per l’adattamento de La coscienza di Zeno, risultano finalmente superate solo nel 1978, quando scriverà: «A guardare indietro […] mi pare che la preoccupazione maggiore […] fosse di giustificare, presso la critica, la derivazione dello spettacolo da un romanzo. Francamente non lo capisco oggi, ma allora sembrava molto importante, tanto da avere la precedenza
2 Tullio Kezich, Zeno, du roman à la scène, in «Théâtre en Europe», n. 8, 1985, pp. 126-128 (traduzione nostra).
3 Tullio Kezich, Svevo e la scrittura infinita, in Una burla riuscita, ATER Emilia Romagna Teatro, Modena, 1985, p. 5.
4 Luca Ronconi, Prefazione, in Claudio Longhi, La drammaturgia del Novecento tra romanzo e montaggio, Pacini, Pisa, 1999, p. 8. Il noto regista, a questo proposito, aggiunge: «In molte capitali esperienze del teatro novecentesco l’incontro con la pagina romanzesca è stato vissuto da drammaturghi e registi come stimolo al rinnovamento delle proprie forme espressive: nel nostro secolo il confronto col romanzo ha infatti spesso facilitato – se non addirittura reso possibile – la ridefinizione della classica struttura delle dramatis personae, dell’articolazione temporale dell’azione scenica o dell’organizzazione dialogica del racconto drammaturgico». Ronconi ha più volte messo in scena trasposizioni teatrali di opere narrative, tra cui ricordiamo almeno Orlando Furioso. Un travestimento ariostesco e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.
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su un qualsiasi altro aspetto dell’impresa» 5 . E finalmente, ma solo nel 1985, ancora una volta in occasione della nuova versione teatrale di Una burla riuscita :
Insisto a credere che il palcoscenico, inteso come luogo deputato alla pubblica contemplazione, è uno dei laboratori più appassionati e sofisticati della critica letteraria. Gli addetti ai lavori lo negano, gli accademici non tengono conto della ricerca dei teatranti […]. Ma cos’è la messinscena di un testo se non il tentativo di leggerlo a livelli più profondi, collettivamente, a trasferirne gli umori, le mutevolezze e i significati nella complessità dei linguaggi artistici che formano l’insieme di uno spettacolo? 6
Sarà questa, da ora in poi, una costante del pensiero di Kezich relativamente al fare teatro, e, più nel dettaglio della sua speciale attitudine, al fare teatro a partire da testi letterari complessi e di non semplice interpretazione:
Per conto mio sono convinto da tempo che una rappresentazione teatrale, un film, un adattamento televisivo, quando hanno a monte un precedente letterario, ne costituiscono un’interpretazione che vale almeno quanto una monografia scritta, un saggio e un articolo. Un esercizio di critica che non è meno degno d’attenzione per essere scritto, con le luci, i suoni, i colori e la mimica, anziché mettendo il foglio in macchina7
Una burla riuscita è un racconto redatto da Svevo nel ’25, negli anni che stanno fra il successo improvviso de La coscienza di Zeno (1923) e l’altrettanto improvvisa dipartita dello scrittore triestino (1928). Il lavorio intorno a Una burla riuscita comincia con la pubblicazione su «Sipario», nell’aprile del 1962, di questo adattamento per le scene, che avrà poi una storia molto particolare: solo nel 1985 Mario Samigli (il protagonista del racconto, nome ricalcato su uno pseudonimo di cui Svevo si servì sul «Il Piccolo», E. Samigli) approderà sulle tavole del palcoscenico, nella versione di Egisto Marcucci con Corrado Pani. A differenza de La coscienza di Zeno, dove la piccola rivoluzione dovuta
5 Tullio Kezich, Zeno torna a casa, op. cit., ora in Fabio Francione, op. cit., p. 116.
6 Tullio Kezich, Svevo e la lettura infinita, in Una burla riuscita, op. cit., p. 5.
7 Tullio Kezich, Zeno torna a casa, op. cit., ora in Fabio Francione, op. cit., p. 118.
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all’utilizzo della prima persona 8 agevolerà non poco il trattamento drammatico, Una burla riuscita si presenta come un racconto classico, avvolto da un’aura di fiaba, di apologo, dove il narrare in terza persona contribuisce alla caratterizzazione del protagonista: un burattino nelle mani esperte del suo truffatore, persino del narratore. La vicenda racconta della burla ordita ai danni di un ingenuo scrittore triestino impiegato in un ufficio commerciale, ormai avanti con l’età e miseramente fallito nei suoi sogni di gloria. Un sedicente amico gli fa credere di avere incontrato il rappresentante di un importante editore interessato al suo primo e unico romanzo di gioventù, Una giovinezza (chiaramente allusivo a Una vita), e di volerlo aiutare a realizzare l’affare. Inscena quindi una vera e propria commedia, con l’aiuto di un complice, ai danni del povero Samigli, che per mesi aspetta, assieme al fratello malato con cui divide un misero ma sereno ménage, i frutti della farsa a cui ha inconsapevolmente preso parte. La scoperta della truffa non è però completamente negativa, anzi porta con sé anche una sorta di happy end dimezzato e amaro, simile a quello de La coscienza di Zeno. È il motivo dell’imprevedibilità della vita, che non è né bella né brutta ma sicuramente “originale”, un gioco assurdo e privo di regole fisse. Un racconto fortemente autobiografico (con cui Svevo diede «forma a una possibilità autobiografica evitata di un soffio» 9 ), dunque, forse più di ogni altro testo sveviano, costellato com’è di riferimenti alle personali e note vicende dello scrittore con gli editori, alla consapevolezza del dislivello esistente fra le proprie potenzialità e la propria realtà. Inizia così il gioco di specchi perenne fra la vita dello scrittore Italo Svevo e le vicende biografiche dell’industriale triestino Ettore Schmitz, gioco inesauribile e coniugato da Kezich in tutte le sue possibili declinazioni. Quelli che in Svevo sono riferimenti impliciti, in Kezich si esplicitano completamente: autobiografismo, umorismo, rifiuto dei toni eccessivamente gridati, delle scelte drammaticamente esclusive, dei finali che si ricavano sommando algebricamente fra loro le componenti di un racconto. Kezich ha già scelto il suo Svevo.
Da un punto di vista formale, ottima è l’intuizione di sostituire la narrazione, spesso in forma di discorso indiretto libero o di improvviso cambio di tono, delle favolette sui passeri con cui il buon Samigli si diletta (traduzione evidente delle piccole “perle” di cui Svevo inanellò il suo cosiddetto “silenzio” fra 1899 e 1920 e veri e propri «cardini di questa storia»10 ), con il loro immediato quanto suggestivo concretizzarsi sul telo bianco di un
8 Cfr. il paragrafo L’adattamento teatrale di un romanzo: La coscienza di Zeno, infra.
9 Mario Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Einaudi, Torino, 1975.
10 Ibidem
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teatro d’ombre. Straordinariamente azzeccato appare poi il tono di Kezich, che opera un esperto collage fra parti fisicamente distanti del testo originario e di altri testi, e ancora più ardua, ma perfettamente resa, la voce dei diversi personaggi. Kezich riesce a dotare di un tono, di una fisicità credibili tutti i personaggi, cogliendo in particolar modo, a mio avviso, la dolcezza condita di buonsenso pratico del capoufficio di Mario, il Brauer, e la condiscendenza in parte interessata del fratello malato, Giulio, che vorrebbe scrupolosamente “assumere” ogni sera una dose di letteratura come fa con i suoi farmaci contro la gotta. Fulminante poi la scena clou della burla, al caffè Tommaseo, dove alla meschina commedia del malmostoso Gaia fa da contraltare la pacchiana grettezza del comprimario Strudelkopf, nome che Kezich inventa di sana pianta, così come gran parte dell’incontenibile scena che si svolge fra i tre. La suddivisione originaria in otto capitoli dà vita a cinque giornate non consecutive, suddivise a loro volta in dodici scene, precedute e seguite da un prologo e da un epilogo. La scena, che rappresenta la coscienza o l’inconscio di Mario, è chiamata a evocare i sei ambienti fondamentali che si alternano nei diversi momenti che costituiscono il racconto. Questa concentrazione di tempi e di spazi, tuttavia, non dà vita allo spettro del compendio, che tante volte aleggia intorno alle riduzioni (queste sì!) drammatiche di maniera; al contrario, è funzionale a una restituzione critica del testo, ora chiarito ora arricchito dalla drammaturgia. Sul finale di pura invenzione, in cui, come nel resto del testo, Kezich utilizza anche materiali tratti dai Diari di Svevo, il coro si fa incomprensibile e minaccioso, mentre i passeri sul telo bianco assumono le sembianze di famelici sparvieri: «qualcosa che annuncia tempi ancora più difficili, persecuzioni ancora più crudeli, burle ancora più riuscite»11. Ma questa è già un’altra storia12
L’adattamento teatrale di un romanzo: La coscienza di Zeno13 Il 12 ottobre del 1964 andava in scena alla “Fenice” di Venezia, per la regia di Luigi Squarzina, protagonista Alberto Lionello, la prima de La coscienza di Zeno. Due tempi dal romanzo di Italo Svevo. Kezich si cimentava dunque con
11 Tullio Kezich, Una burla riuscita, op. cit., p. 59
12 Cfr. il paragrafo La lezione-spettacolo da suggestioni biografiche: Italo Svevo, genero letterario, infra
13 Questo paragrafo riprende e amplia il discorso iniziato con il mio breve saggio La Coscienza di Kezich, in Tullio Kezich, L’ultimo carnevàl, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, 2002, a sua volta originato dalla mia tesi di laurea Novità della voce nel terzo romanzo di Svevo. Un adattamento teatrale de La coscienza di Zeno, Università degli Studi di Bologna.
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il masterpiece del grande scrittore concittadino, che ancora in quegli anni era vittima di notevoli incomprensioni e “amnesie” diffuse («quando Ivo Chiesa telefonava ai teatri per offrire La coscienza di Zeno di Italo Svevo – ricorda Kezich – i vari direttori rispondevano:“di chi?”»14 ). E proprio il merito della diffusione verticale, della straordinaria azione di marketing per le commedie sveviane che tale spettacolo, con le sue tante repliche, le sue numerose traduzioni, le sue continue riprese, i suoi indimenticabili interpreti e, non ultima, la sua versione televisiva, può arrogarsi, è vero motivo d’orgoglio per il suo artefice primario, autore e ideatore. Questa commedia, però, ha anche il grande merito, insieme agli altri ma più degli altri testi sveviani di Kezich, di riconoscere implicitamente allo scrittore triestino una dimensione in cui sempre visse ma che, forse più di ogni altra, gli fu disconosciuta: quella della teatralità, addirittura dilagante nel terzo romanzo. L’emanciparsi di Svevo da una costruzione romanzesca tradizionale riceve infatti un apporto decisivo dalla voce, ovvero dalla parola del personaggio/attore Zeno che, secondo l’indicazione fondamentale di Giacomo Debenedetti, «scorre sulla favola»15. Solo Zeno possiede infatti quella doppia identità di attore/narratore che l’eclissarsi dell’autore gli ha regalato, e che dà alla scrittura romanzesca la possibilità di “farsi teatro”. È la stessa parola di Zeno, subdola, ironica e ambigua, a farsi spettacolo, a tenere il pubblico avvinto alla lettura o allo spettacolo. Kezich ha individuato questa alterità di Zeno, e di altri soggetti, operando una netta distinzione tra romanzi “seduti” e “in piedi”16 : romanzi cioè che “chiedono” ad alta voce di essere letti, declamati, portati sulle scene e romanzi nati per una lettura intima, assorta, isolata. Estremamente perspicua e penetrante è infatti in Kezich la comprensione critica delle dominanti sveviane, che lo porta nel ’79 a tracciarne un ritratto in controtendenza secondo cui «Svevo in quanto uomo di teatro anticipa il narratore nell’approdare a una concezione dell’esistenza lontana dal tormento suicida di Alfonso Nitti o dall’erotismo autopunitivo di Emilio Brentani»17, scardinando così la categoria stereotipa della cosiddetta “trilogia” sveviana, frutto obsoleto del più trito appiattimento critico. Giulio Bosetti, l’attore che impersonò Zeno per la regia di Egisto Marcucci, nel 1987, dichiarava nel programma di sala:
14 Citazione da un’intervista a Tullio Kezich comparsa nella mia tesi di laurea, op. cit.
15 Giacomo Debenedetti, Svevo e Schmitz, in Saggi critici. Seconda serie, Il Saggiatore, Milano, 1971, p. 212.
16 Tullio Kezich, Zeno, du roman à la scène, op. cit., pp. 126-128 (traduzione nostra).
17 Tullio Kezich, Sfortune e fortune del teatro di Svevo, in Marco Marchi (a cura di), Italo Svevo oggi, Atti del Convegno, Firenze, 3-4 febbraio 1979, Firenze, 1980.
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Ecco che il palcoscenico può aiutarci a capire, meglio di una lettura approfondita. A capire non solo i significati e i valori de La coscienza di Zeno, ma anche di quel piccolo capolavoro che è il testo di Kezich [...]). Zeno sembra nato per il teatro, e aveva solo bisogno di qualcuno che gli dicesse “alzati e cammina”18 .
«La diversa voce – scrive Ezio Raimondi – è un altro occhio della lettura […] Identificare la voce, o le voci di un testo, nella loro tonalità, può consentire un’interpretazione diversa del testo [...] L’interpretazione di un testo non è un’operazione solo intellettuale, è alla lettera, un’interpretazione materiale come quella di un attore »19.
Il lavoro di Kezich si basa su di una rilettura attentissima del romanzo, che si traduce poi in una sua ri-scrittura volta a salvaguardare il più possibile un tono originale, reinserendolo in un contesto mutato. Lo sforzo non è mai evidente, e fin dalla prima impressione di lettura il testo scorre agile e “coerente”, alieno da qualsiasi residuo o sensazione di inautenticità. Nel testo, suddiviso in due tempi, per un totale di ventiquattro scene che seguono nella maggior parte dei casi la struttura “a temi” del romanzo (Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio ecc.), gli episodi si allacciano con tempi esatti e un dialogo asciutto, stringente, filtrato dal libro. Molto interessante è l’uso frequente di un particolare tipo di monologo: si tratta di finestre in cui Zeno comunica con lo psicoanalista anche quando la scena non è ambientata nel suo studio, veri e propri “perni” della drammaturgia (quello che in Una burla riuscita erano le favole sui passeri) che assolvono anche ad altre molteplici funzioni. Sono la vera “voce” di Zeno, liberata dall’immanenza dei dialoghi con gli altri personaggi, e nello stesso tempo permettono a Kezich di ricostruire ricordi e situazioni che sarebbe stato impossibile o pesante drammatizzare; la funzione è dunque insieme tecnica, di raccordo-summa, e lirico-teatrale.
Tutti i personaggi, compresi quelli minori, sembrano uscire intatti dal libro, primo tra tutti naturalmente Zeno, nella sua duplice veste di giovane protagonista/vecchio narratore (che il grande Lionello interpretava senza nemmeno un’ombra di trucco), perfettamente calibrato tra umorismo scanzonato, lucido pessimismo e ambiguità di fondo. Intorno gli si costruiscono
18 Giulio Bosetti in “Conferenza Stampa”, aprile 1987 (documento originale in Appendice 3, tesi di laurea cit.).
allusive le scene triestine, come stanze della memoria in cui si chiariscono, senza venire meno, anche le linee aggrovigliate della «destrutturata temporalità sveviana»20.
Uno spettacolo affascinante fino all’ultima battuta, dove uno Zeno invecchiato e disincantato, che ha ormai capito che in fondo è la vita stessa a essere una malattia, e non da poco perché «è sempre mortale», pronuncia la sua celeberrima “profezia”, fumando, senza più rimpianti o rituali, l’ennesima sigaretta, tra i rumori della guerra in lontananza.
La coscienza di Zeno rientra nella categoria dei cosiddetti “romanzi di montaggio”, ove ossia la giustapposizione diegetica diventa principio costruttivo, come accade per tutta la letteratura (e l’arte) autenticamente novecentesche. La fenomenologia della “romanzizzazione di montaggio”21, ossia dell’applicazione del noto concetto bachtiniano alla «continua dispositio del linguaggio cinematografico fondata sull’abolizione dei nessi coordinanti e subordinanti e sulla semplice giustapposizione delle sequenze frastiche»22 , impregna di sé tutto il teatro del Novecento, anche quello apparentemente più “tradizionale” e tanto più, naturalmente, quello tratto e sollecitato dai romanzi stessi.
«Il nodo di rapporti intrecciatisi nel corso del Novecento tra montaggio cinematografico, frantumazione narrativa e disgregazione della sintassi drammaturgica è praticamente inestricabile»23. E non dimentichiamo che Tullio Kezich in fondo è, ed è sempre stato, principalmente uomo di cinema24.
La coscienza di Zeno ha anche il merito di avere iniziato il critico triestino al mondo del teatro vissuto dall’interno: «Ho seguito da vicino la realizzazione del primo Zeno e anche vari debutti. Oggi seguo i miei spettacoli molto meno, ma allora mi sentivo come Goldoni sulla barca dei comici e avevo tutto da imparare». E alla prima risata liberatoria del pubblico, la sera del debutto veneziano, Tullio sentì di essere a una svolta della sua esistenza: «Mi dissi: ci sono, sono entrato dentro il teatro…»25.
20 Giorgio Luti, L’ora di Mefistofele. Studi sveviani vecchi e nuovi (1960-1987), La Nuova Italia, Firenze, 1990.
21 Concetto elaborato da Claudio Longhi, La drammaturgia del Novecento..., op. cit.
22 Luca Ronconi, Prefazione, in Claudio Longhi, La drammaturgia del Novecento…, op. cit., p. 8.
23 Ivi, p.237.
24 Egli stesso, infatti, riferendosi alla sua attività di drammaturgo, scrive: «In realtà mi sono sempre servito molto di tecniche “cinematografiche”» [Tullio Kezich in Sergio Toffetti (a cura di), ’Ndemo in cine. Tullio Kezich fra pagina e set, Lindau, Torino, 1998].
25 Tullio Kezich, in Intervista a Tullio Kezich apparsa nella tesi di laurea di chi scrive, op. cit.
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Questa seconda “tecnica di degustazione” sveviana porta il critico all’incontro decisivo con Zeno: un personaggio che non abbandonerà più, nelle sue invenzioni come nelle sue meditazioni. Kezich ammetterà, anni dopo, di aver sofferto per anni di una fortissima forma di identificazione con il personaggio, in cui vedeva rispecchiata la propria esistenza. Zeno come «compagno di viaggio, talismano contro il fanatismo, le nevrosi, l’aggressività, la depressione, il desiderio di morte»26 . È l’inizio di un percorso, iniziato con Una burla riuscita : ne La c oscienza si percepisce intera questa passione straripante per il personaggio, sentito come fratello, come «sasso nella coscienza»27, con in più la zavorra delle dispute sugli adattamenti drammatici a fare da freno alla libera invenzione. Lo spettro dello scrittore e del suo personaggio sono troppo immanenti e, pur intersecandosi di continuo con le vicende biografiche di Ettore Schmitz e con le proprie, in un gioco che rende difficile l’esegesi, prevalgono su tutto, sono pietre inamovibili che lo stesso drammaturgo deve prima assimilare e poi divulgare, diventandone profeta ufficiale e “multimediale”. Gli anni però passano, le regie e le interpretazioni si succedono e vanno a chiarire sempre più il laboratorio della critica in fieri sul palco, sullo schermo, nei saggi e negli interventi. Kezich si sta affrancando da Svevo nel modo più salutare possibile per uno scrittore: scrivendone ancora.
La commedia originata da una parte di romanzo: Zeno e la cura del fumo
Nel 1994 Kezich pubblica Zeno e la cura del fumo, che viene rappresentato per la prima volta al “Teatro Veneto” di Venezia per la regia di Marco Sciaccaluga, protagonista ancora una volta Giulio Bosetti. «Mi pare di soffrire della sindrome di Geppetto – scrive il drammaturgo – intagliando il legno pregiato della Coscienza sveviana, ho fabbricato un burattino che a un certo punto è filato via sulle sue gambe»28 . La tecnica utilizzata qui è infatti decisamente diversa: l’autore prende le mosse da un originale in gran parte ipotetico. Ragionando sulla data della morte dello scrittore, il 13 settembre 1928, Kezich si chiede cosa sarebbe stato di lui, ovvero l’ebreo Ettore Schmitz, se fosse stato colto dalle leggi razziali. In una sorta di singolare rivisitazione del mito di Faust, ove il diavolo ha le fattezze del suo
26 Tullio Kezich, Zeno torna a casa, op. cit.
27 Tullio Kezich, Introduzione a La coscienza di Zeno, Due tempi dal romanzo di Italo Svevo, in «Sipario», n. 223, Milano, novembre 1964.
28 Tullio Kezich, Introduzione a Zeno e la cura del fumo, in “Programma dello spettacolo del Teatro Stabile del Veneto”, Venezia, 1994.
Cinque tecniche di “degustazione” sveviana
vecchio professore di tedesco, Zeno ottiene il dono di una morte tempestiva, che lo salva da persecuzioni e campi di sterminio. Il tutto prende le mosse da un episodio del primo capitolo de La c oscienza di Zeno, quello della cura antifumo intrapresa da Zeno nella clinica del dottor Muli, (che nel primo adattamento Kezich non aveva potuto includere, ma che «gli era rimasto nella penna»29 ), da cui il protagonista rivive una lunga serie di ricordi, in un caleidoscopico «teatro della memoria»30. Un insieme di materiali eterogenei provenienti soprattutto dal cosiddetto “quarto romanzo” di Svevo, ma anche da altri punti de La coscienza, dai motti, «ma anche dagli incidenti biografici, dalle riflessioni e dai sogni del drammaturgo»31. Stralci, echi, singole battute fulminanti da Kezich intelligentemente reinventati e fatti interagire fra loro in un’opera perfettamente autonoma. Anche in questo caso la lingua è comunque improntata al rispetto, non senza libera interpretazione, dell’inafferrabile verbalità sveviana, con un efficacissimo finale in cui Zeno fuma finalmente, davanti a tutti i personaggi della sua vita e della sua arte, la sospirata ultima sigaretta. Il nodo è ormai davvero inestricabile, a tal punto che a volte è difficile capire quali delle «cose più sveviane»32 del testo appartengano a Svevo e quali a Kezich, e viceversa: l’affrancarsi del drammaturgo dal suo auctor, l’aver capito definitivamente di “non essere Zeno”, lo porta a sentirsi libero di inventare, di osare di più. Avendo smitizzato lo scrittore e il suo personaggio – in un senso buono, direi quasi salutare – Kezich si contamina vieppiù con l’uomo Schmitz, ma in modo assai più disincantato. E giunge così ad affrontare i suoi scritti senili, che hanno tutti come tema centrale la vecchiaia, la paura della morte e la scrittura: il vegliardo protagonista del quarto romanzo, infatti, si augura che tutti passino il tempo a leggere la vita scritta dagli altri o la propria, come fa lui, per sottrarsi alle brutture di quella vera. È un po’ come se i due autori fossero invecchiati assieme, e potessero ormai guardarsi indietro «ridendo della vita e di ogni suo contenuto [...]: guardo a questo personaggio come a qualcosa fuori di me, che tuttavia appartiene alla mia storia personale»33. È in fondo simile al processo che porta lo stesso Svevo dalla drammatica sovrapposizione con i personaggi dei primi due romanzi alla scanzonata proiezione di se stesso in Zeno, ormai libera da ansie giovanilistiche, da smanie di “riuscita” personale: su tutto il ribollente materiale della vita passata, Ettore e Tullio si affacciano con uno
29 Ibidem
30 Ibidem
31 Ibidem
32 Ibidem.
33 Ibidem.
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sguardo ormai sornione, pacificato. E solo a questo punto Kezich, sostituito il fervore con l’ironia, può permettersi di essere meno “filologo”: «meglio lasciare allo spettatore l’esegesi delle innumerevoli fonti […]. La vera buona raccomandazione sarebbe quella di non prendere troppo sul serio niente»34 .
Di queste innumerevoli fonti voglio qui almeno ricordare la presenza forte, insieme al primo, dell’ultimo capitolo de La coscienza di Zeno, contrassegnato da un improvviso precipitare della forma da autobiografica a scarnamente diaristica. Mentre «il sistema narrativo precipita nell’informe»35, siamo catapultati nel presente della scrittura di Zeno narrante, che a questo punto ha abbandonato la stesura del suo atipico racconto e dà conto dei sei mesi di assidua cura psicoanalitica (Psico-Analisi è infatti il titolo di questa “sezione”), della sua insoddisfazione e dell’intenzione di interromperla, nonché dello scoppio della guerra e della sua improvvisa, “commerciale” e “filosofica”, guarigione.
Temi, questi, centrali ne La cura del fumo di Kezich, dove continuamente si alternano ricordi appartenenti alla “vita originale” di Zeno rimasto solo e gaudente a Trieste nel pieno della guerra: l’avventura sentimentale nata sul tram di Sèrvola (presa dalla novella Il buon vecchio e la bella fanciulla), i momenti esilaranti legati alla fuga dalla prigione della cura che si era autoimposto, complice l’infermiera Giovanna in preda ai fumi dell’alcol, il ritiro forzato dagli affari. Tornano qui anche alcune costanti del teatro sveviano di Kezich: la concezione dello spazio scenico come spazio mentale della memoria e del sogno, l’insistere su alcuni momenti peculiari della storia di Trieste (lo “scoppio” di patriottismo del 18 novembre), la previsione catastrofica del futuro imminente. Compaiono, però, anche piccoli segnali di novità, a testimonianza di come, a partire da questo testo, lo scrittore prenda più decisamente una strada autonoma o, per dirla con lui più modestamente, di come «Zeno inizi a muoversi con le sue gambe». Ogni scena è contraddistinta, ad esempio, da un titoletto che ne indica da subito toni e umori, tecnica che ritroveremo anche ne L’ultimo carnevàl. Inestricabile, poi, la selva di rimandi tutti triestini di cui è intessuto il testo: il cognac con cui Zeno scioglie l’infermiera riottosa, in Kezich diventa slivovitz; le espressioni di “puro dialetto triestino” della stessa, in bocca al personaggio della commedia, suonano in tutta la loro vivacità.
La lezione di Svevo è ancora presente anche nella tecnica del procedere per (apparente) associazione di idee: la sezione sul fumo del romanzo,
34 Ibidem.
35 Ibidem
Cinque tecniche di “degustazione” sveviana
infatti, tema sulla cui originalità è noto il lusinghiero e precoce giudizio di Joyce, costituisce il vero inizio del romanzo, anche proprio in quanto dissemina alcuni elementi che poi verranno spesso ripresi, come per l’appunto il tipico procedimento pseudo-casuale. Senza volermi addentrare nei meandri dell’indovinello che Kezich stesso non risolve, ossia quanto sia suo e quanto di Schmitz in questo testo, c’è sicuramente una dimensione che innegabilmente lo può fare proprio: quella dell’umorismo. Anche in questo caso il teatro ci è stato utile, con il rimarcare la vera natura del personaggio Zeno, collocandolo al di là di categorie “seriose” di scolastica memoria: come ebbe a dire Giulio Bosetti, «le sue menzogne potevano e dovevano essere pronunciate attraverso una corda allegra, divertita». 36 Interessante, a questo proposito, è anche il collegamento istituito da Moloney37, tra la figura di Zeno e quella di un personaggio stereotipico della letteratura ebraica e yddish, lo “Schlemiel”, tipo di inetto comico che ha venduto l’anima al diavolo (e questo ci ricorda il Mefistofele presente nel testo di Kezich) e che inaspettatamente spesso risulta vincente: le sue storie «ci sono raccontate da un narratore ironico che serba una consapevolezza della realtà anche quando il suo personaggio l’ha perduta»38
La commedia dialettale da suggestioni sveviane: L’ultimo carnevàl39 Nell’introdurre Zeno e la cura del fumo, Kezich si era lasciato sfuggire, forse volutamente, una piccola anticipazione: «Non posso escludere neanche in futuro ulteriori resurrezioni e peregrinazioni di Zeno sui palcoscenici. È sempre così curioso di se stesso, come la maggior parte di noi; e quando comincia non la finisce più» 40. Al di là dell’evidente e ironico riferimento a se stesso e alla propria “scrittura infinita” su Zeno, era in realtà da più di vent’anni che il soggetto de L’ultimo carnevàl prendeva forma fra i pensieri del critico-scrittore triestino. Abbandonata l’idea di farne un romanzo, nel 2002, grazie alla collaborazione dello Stabile triestino “La Contrada” di Francesco Macedonio, Kezich torna a un soggetto sveviano per il teatro. Questa volta, però, le grandi novità sono almeno due: il protagonista
36 Giulio Bosetti, Introduzione, in Tullio Kezich, Zeno e la cura del fumo, due tempi da Italo Svevo, op. cit.
37 Brian Moloney, Italo Svevo narratore. Lezioni triestine, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 1998, p. 41.
38 Ibidem
39 Per una trattazione completa sul teatro in lingua triestina di Kezich (e per ulteriori ragguagli su questa commedia) si rimanda al saggio di Paolo Quazzolo, infra
40 Tullio Kezich, in Tullio Kezich, Zeno e la cura del fumo, due tempi da Italo Svevo, op. cit.
Cecilia Serradimigni
non è più Zeno, ma l’industriale-scrittore Aaron Hector Schmitz, e la lingua che i personaggi parlano è un bellissimo triestino della fine dell’Ottocento, di cui ancora Kezich si sente fortunato depositario. Un’operazione che non ha nulla di nostalgico o bozzettistico, ma che al contrario va a scavare ancor più in profondità nell’intrico di collisioni esistenti fra vita e opera dello scrittore. In questa commedia, ambientata nel 1899, il grande romanzo protagonista è però Senilità, la seconda opera che tanto aveva fatto penare il suo autore per l’ennesima mancanza di attenzione da parte della critica e del pubblico. Kezich prende spunto dal titolo che dapprima Svevo aveva ipotizzato per questo romanzo, Il carnevale di Emilio, dal nome del protagonista Emilio Brentani, alle prese con una travolgente storia d’amore vissuta come l’ultima occasione per vivere una vita non del tutto senile. Il carnevale, inoltre, assume grande rilievo all’interno dell’opera nella sua duplice accezione di festa popolare vera e propria e di categoria bachtiniana dell’animo e del comportamento umano, in cui i ruoli si ribaltano e l’ordine costituito viene meno, in cui verità e menzogna sono perfettamente intercambiabili. E così, tra finzione e biografia41, si dipana la trama di questa commedia, in parte continuazione del romanzo (ove si immagina un casuale incontro a posteriori fra i due amanti), in parte indagine sui motivi che portarono Ettore alla forte crisi che lo spinse ad abbandonare la letteratura e a diventare il “tirapiedi” della suocera Olga nella ditta di famiglia.
I protagonisti sono dunque lo stesso Ettore, Pina Zergòl, il pittore amico di Ettore Beto Veruda (che nel romanzo, estremamente autobiografico, vestivano rispettivamente i panni di Emilio, Angiolina e dello scultore Stefano Balli); dall’altra parte della barricata, con Ettore in mezzo, la famiglia della moglie, Livia Veneziani. Ancora una volta giochi di specchi, e, come in Svevo, l’ambiguità di fondo che si fa parte costitutiva dell’opera. Kezich, sempre più avviato sulla strada dell’emancipazione dal fantasma di Zeno, si immerge anima e corpo nella vita dello scrittore, dell’uomo Svevo e della sua vicenda così intrisa di triestinità. Così come i personaggi di questa commedia si ritrovano in un clima di sospensione a cavallo fra due secoli, due scelte di vita e di carriera, due epoche, il ruolo di Senilità nell’evoluzione della poetica di Svevo è quello di essere stato ambasciatore di latenti novità, a livello sia strutturale che linguistico, che troveranno poi completa espressione con Zeno. Si sente già in questo romanzo (e Kezich la riporta nella sua commedia) un’altra parola, come quella di un sugge-
41 Si rimanda al proposito al saggio di Giuseppe Antonio Camerino, Senilità e oltre. Tra finzione e biografia, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, 2002, pp. 21-24.
Cinque tecniche di “degustazione” sveviana
ritore che dalle sagge profondità della sua postazione onnisciente non si accontenti di dare le imbeccate agli attori, ma voglia anche arrivare lui stesso al pubblico, consapevole di non poter cambiare il corso del dramma, ma desideroso di dire comunque la sua. C’è pertanto a volte in Senilità una fortissima vicinanza tra narratore e personaggio42 , tant’è vero che talora non è molto facile distinguere con certezza, nel discorso indiretto libero, se sia la voce dell’uno o dell’altro quella che sentiamo. Siamo agli esordi, insomma, di quel fenomeno di dissoluzione della trama che porterà all’assoluto prevalere della parola di Zeno sugli eventi narrati, con effetti di conseguente teatralità. Un romanzo di passaggio, dunque, punto di non ritorno dell’evoluzione sveviana e della sveviana educazione di Kezich, da sempre affascinato dai suoi personaggi intriganti e giocosi, malinconici e popolari. La bellissima e bionda Ange del romanzo, letterariamente angelicata da Emilio (e volutamente “mascherata” da Schmitz), ritrova nella commedia la sua identità anagrafica e fisiognomica: se nel ’62 il critico aveva storto il naso davanti alla scelta di Bolognini che aveva voluto la Cardinale come protagonista del suo film tratto da Senilità, ora Angiolina è la bella “moracciona” Giuseppina, detta Pina, Zergòl.
A livello strutturale, la commedia è suddivisa, ancora una volta, in due tempi, ritmati in tredici brevi scene dai titoli ora allusivi, ora esplicativi (La Walkiria del 1899, Il Fregoli triestino, Bandiera rossa e pittura verde, Olga, Sissi…). Fra queste, straordinaria l’invenzione della scena omonima intitolata Senilità, in cui Ettore e Pina rinverdiscono i loro ricordi d’amore dandosi appuntamento nella stanzetta a ore ove erano usi incontrarsi: a Pina discinta sul letto, Ettore si presenta baldanzoso col suo regalo, una copia di Senilità, per l’appunto, il romanzo dove ha riversato tutti i tormenti d’amore per la sua Musa. La reazione della donna è a dir poco deludente: lungi dal sentirsi lusingata dal fatto di ritrovarsi a essere la protagonista di un romanzo, come Ettore aveva pensato, lo assale con una serie infinita di critiche, lamentele e correzioni sulla veridicità dei fatti narrati. Ettore ha un bel spiegare e fare discorsi sulla finzione artistica: Pina non ha orecchi per discorsi di questo tipo, così come ai tempi dei loro amori non era mai stata la povera ragazza ingenua che lui aveva sognato di educare al pensie-
42 Ecco come Giancarlo Mazzacurati parla dell’atteggiamento di Svevo in Senilità, in Giancarlo Mazzacurati, Scritti su Joyce, Pratiche, Parma, 1986, p. 201: «quel doppio gemellare di Emilio che è sempre più imbarazzante dover chiamare autore, senza sottolineare in che senso ormai egli sia autore, senza dover aggiungere cioè che il livello da cui guarda è tutt’altro che un livello di sicurezza o di distanza, tanto meno una postazione di governo e di dominio».
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ro e alla bellezza. E così, nella stanza che aveva assistito alla sua giovanile passione, egli si ritrova a rileggere sconsolato ma fiero il finale del suo libro, mentre Pina, dopo essersi rivestita, gli consiglia di farsi una dormita e se ne va. Su tutto questo aleggia sì un clima di sottile disincanto, di nostalgia, ma mai di disperazione, di disillusione: sono lontani i tempi in cui Ange poteva sconvolgere l’universo di Emilio: ora egli pensa più concretamente a darle una mano a trovare un lavoro migliore, e si addormenta fumando «un spagnoleto in pase» 43. Un sorriso costante permane sulle labbra del lettore, o dello spettatore: Kezich è andato a lezione da Zeno, e si vede.
La lezione, però, non poteva non comprendere anche l’amarezza più cupa nel guardare al futuro: a fronte di un finale tutto sommato consolatorio, in un fermo immagine che vede le due componenti, Ettore ed Emilio, la vita e la letteratura, gli amici e la famiglia, finalmente pacificate nella quiete della casa di campagna del suocero dove anche Pina ha trovato una sistemazione soddisfacente, si insinua la lucida visione del futuro di guerra e violenza che attende il piccolo Verci, suo figlio. La fine dell’età dell’innocenza per tutti; la fine di un’epoca per lo scrittore.
La lezione-spettacolo da suggestioni biografiche: Italo Svevo, genero letterario
Nelle intenzioni di Macedonio L’ultimo carnevàl doveva costituire la prima parte di una trilogia dedicata allo studio della figura di Italo Svevo. La “seconda puntata” di questo progetto è un testo scritto da Kezich nel 2004, Italo Svevo, genero letterario (raccontato da sua suocera), che vede in questo volume la sua prima pubblicazione.
Pensato e scritto in esclusiva per la voce di Ariella Reggio, questo testo non fu in realtà mai rappresentato, perché l’8 agosto, sera in cui era prevista l’unica rappresentazione, il maltempo non lo consentì (gli spettacoli si tenevano tradizionalmente in Piazza Hortis, sede della Biblioteca Civica e del Museo Sveviano). Il monologo di Kezich, una peculiare forma di conferenza-spettacolo, può essere definito, fin dal titolo, come un divertissement : è infatti lo sfogo immaginario (ma come sempre documentatissimo e pieno di riferimenti reali) della suocera di Svevo, Olga Veneziani, che l’autore immagina venga chiamata in una qualche cittadina del Veneto o del Friuli, nei primi anni Trenta, a tenere un discorso ufficiale sul genero divenuto improvvisamente famoso e morto in un incidente da pochi anni. Come Kezich tiene a precisare, il «parto della sua fantasia» nasce però «da una
43 Espressione dialettale triestina che significa “una sigaretta in pace” (n. d. r.).
Cinque tecniche di “degustazione” sveviana
lunga consuetudine con la vita e l’opera dello scrittore, nonché da una frequentazione della famiglia iniziata a Villa Veneziani nel 1940 e proseguita nel tempo». In diverse occasioni, infatti, Kezich aveva avuto modo di conoscere e collaborare con la figlia dello scrittore, Letizia Fonda Savio, da sempre impegnata nella diffusione e catalogazione del materiale riguardante la vita e l’opera del padre.
Quello che ne esce è un ritratto irresistibilmente comico e impietoso, tutto colorito dai continui riferimenti alla suocera “letteraria” di Zeno (la signora Malfenti) , che è a sua volta di chiara derivazione biografica, e che ritroviamo infatti anche in quella commistione di verità e finzione che è L’ultimo carnevàl : qui Kezich ne riutilizza vari riferimenti, anche linguistici, e alcuni episodi.
Nella scena semplice e spoglia, il classico allestimento da conferenza, irrompe dunque questa donna “dal forte sentire”, fondamentalmente ignorante e piena di sé, da sempre avversa al genero per le sue velleità letterarie per lei assolutamente incomprensibili. Un violino fra le quinte, nei punti salienti del monologo, sottolinea la presenza del grande assente, di cui in realtà Olga inizia a parlare solo da metà del testo. Da grande egocentrica, infatti, non fa che parlare di se stessa, prima giustificandosi per la scarsa dimestichezza con l’italiano (e qui cade il primo riferimento al genero, «Noi triestini con ogni parola italiana mentiamo»), poi iniziando un lungo e trionfalistico apologo su se stessa e la propria più cara creatura, la Ditta di vernici sottomarine “Gioachino Veneziani”.
Al di là della tematica e dell’invenzione, sono la lingua e il ritmo i due grandi punti di forza di questo monologo, tutto giocato sul filo dell’ironia e dell’umorismo, se non a volte del più duro sarcasmo. Olga fa di tutto per esprimersi correttamente, come è tipico delle persone poco istruite che considerano il parlare in dialetto «una bruttissima abitudine», ma proprio a causa di quella abitudine non riesce a evitare continui errori. Sgorgano così dalla sua spontanea parlata espressioni gergali, soppressioni del congiuntivo, dialettismi che la donna si sforza di spiegare all’uditorio, anacoluti, frasi sospese, continue esortazioni al pubblico, espressioni ingenue e proverbi o, al contrario, sbotti di vera e propria crudeltà. Eccone alcuni gustosi esempi: grazie che avete voluto venire in tanti; una comandona; sbrisserò, dal verbo sbrissare ; un lole ; uno specialista in affari sbusi; dico io; el se gà distrigà ; ditemi voi se ho torto; quell’aria di remenela ; modo maniera che; con rispetto parlando ecc. Kezich ricostruisce perfettamente quello che poteva essere il linguaggio di una donna triestina di modeste origini, che poi aveva elevato la sua condizione lavorando sodo per la ditta di famiglia, legandosi a essa
Cecilia Serradimigni
in maniera spasmodica: «Allora cominciamo dalla ditta, che poi è sempre il fatto più importante, quello che ci tiene sani e allegri e ci dà da mangiare a tutti».
Questo testo è insomma lo sproloquio, il j’accuse, di una donna dispotica e piena di risentimento verso il genero, dovuto senz’altro anche a un complesso di inferiorità; l’incarnazione della “lottatrice” il cui stile di vita è assolutamente inconciliabile con quello di un uomo come Ettore, che al contrario nei suoi scritti dimostrò di averla sempre ben capita, e in fondo anche rispettata. “Rabbia” è la parola chiave di questo lungo monologo, che scorre via con la facilità dei testi ben riusciti e calibrati su un interprete ben noto al Dramaturg : rabbia che Olga non riesce a trattenere per aver dovuto sposare la figlia a «un impiegato povero in canna che viene ad attaccare il cappello da noi arrivando diritto da una famiglia a ramengo».
La terribile suocera rappresenta in fondo tutta la città di Trieste e l’ambiente famigliare, che avevano sempre disconosciuto il talento letterario di Svevo. Simbolo di una società gretta e tutta riversa sul denaro, sulla concretezza di ciò che si può toccare con mano, Olga è un trionfo di arroganza, cecità e comune buonsenso, che si traduce anche nell’attesa di una visita di «sua eccellenza Mussolini» a Trieste, e in pesanti bordate da padrona contro gli operai (e qui Kezich riprende, fra gli altri, l’episodio esilarante della formula segreta delle vernici, con la suocera che istiga Ettore alla dedizione al lavoro e lui che esclama, facendole il verso: «giù la bandiera rossa e su la pittura verde!»).
Dopo aver toccato veri e propri picchi di odio e cattiveria, arrivando a dire di non aver mai avuto nemmeno la tentazione di aprire i libri di Ettore, Olga finalmente si lascia sfuggire qualche complimento, rivedendo comunque ogni pregio del genero (la buona educazione, l’intelligenza, la cultura) alla luce del suo utilizzo nel campo degli affari.
Come per Pina ne L’ultimo carnevàl, per una donna come Olga è impossibile tollerare di essere al centro di pettegolezzi originati dal romanzetto di un fallito, sentirlo suonare il violino in fabbrica, o consumare la carta da lettere intestata della ditta per scrivere inutili sciocchezze («con quello che costa!»). E ancora, vederlo frequentare un strazzon bevandèlo44 come James Joyce o un altro pazzo che dipinge «porcherie», come Beto Veruda. Per non parlare dei sospetti di tradimento ai danni della figlia, quando Ettore si trovava da solo a Trieste durante la guerra (e qui Kezich torna ai temi di Zeno e la cura del fumo).
44 Espressione dialettale triestina che significa “straccione ubriacone” (n. d. r.).
Il solo momento di commozione e comprensione Olga lo dimostra parlando del proprio unico figlio maschio, Bruno Veneziani, giovane con tendenze artistiche e con problemi di nervi, che era stato messo alla porta da Freud in persona (episodio forse all’origine della svalutazione della psicoanalisi ne La Coscienza di Zeno). Anche la più terribile delle matrone triestine si scioglie se parla dell’erede che ha abbandonato il tetto natio: Ettore lo capiva, quel figlio, con lui ci parlava, e Olga finalmente ammette di aver perso ancora di più suo figlio, con la scomparsa del proprio «genero letterato». Vero e proprio concentrato di temi sveviani, ma ancor più summa di motivi dei precedenti testi di Kezich, grazie anche al recupero sempre più forte della dimensione triestina, questo monologo fissa in modo definitivo la convergenza delle tre oramai inscindibili prospettive: quella di Ettore, quella di Italo, quella di Tullio. Che a scriverlo deve essersi davvero divertito.
Paolo Quazzolo
Il teatro dialettale di Tullio Kezich
In una carriera dedicata prevalentemente al cinema, Tullio Kezich ha riservato un posto particolare al teatro, che lo ha visto più volte operativo non solo nelle vesti di critico, ma soprattutto di adattatore, traduttore e autore.
La passione dello studioso triestino per il palcoscenico inizia in anni lontani e, forse, precede quella per il cinema: bambino, nella sua stessa casa, ha occasione di conoscere l’attore-autore Angelo Cecchelin, uno dei maggiori protagonisti della scena vernacolare triestina, celebre negli anni Trenta soprattutto per la vis polemica sfoderata contro la dittatura fascista. Proprio a seguito delle battute provocatorie, il comico aveva dovuto ricorrere più volte all’aiuto del padre di Tullio, l’avvocato Giovanni Kezich, per difendersi dalle continue denunce. Ma sono anche gli anni in cui il giovane Tullio allestisce, nell’abitazione paterna di via Palestrina 3, un teatrino per le marionette che egli stesso anima, inventando situazioni e storie. Più tardi, nell’immediato dopoguerra, entra a far parte del “TAU”, il “Teatro d’Arte dell’Università di Trieste”, con cui matura alcune esperienze quale attore. In verità la sua carriera artistica in questo campo è di breve durata e non eccessivamente brillante: sostiene fra gli altri un ruolo di invitato nelle Nozze di sangue di Federico Garcia Lorca, un inopportunorisultato d’ilarità.
Il crescente amore per il cinema e le non brillanti prospettive quale attore, spingono Kezich ad allontanarsi dal teatro, per abbracciare una carriera – quella di critico cinematografico – che lo porta, lontano dalla sua città, ai massimi livelli nazionali e internazionali. Raggiunte le mete più prestigiose e, assieme a esse, la piena maturità intellettuale, il critico decide di ritornare alla sua prima passione, il teatro, dedicandosi soprattutto alla stesura di adattamenti e traduzioni, ma anche di alcuni testi originali. Come drammaturgo esordisce nel 1964 con la celebre riduzione del romanzo sveviano La coscienza di Zeno, interpretata allora da un indimenticabile Alberto Lionello1 e ripresa in 1 Dello spettacolo, presentato al Festival della prosa della Biennale di Venezia, ne furono interpreti, oltre ad Alberto Lionello, Lucilla Morlacchi, Olga Villi e Camillo Milli; regia di Luigi Squarzina.
Il teatro dialettale di Tullio Kezich
seguito da altri attori2. Scrive poi Bouvard e Pécuchet, W Bresci. Storia italiana in due tempi, Il fu Mattia Pascal, con cui vince il “Premio Pirandello Maschere Nude”, cui fanno seguito una trentina di altri testi3 . Ma è alla soglia del settantesimo compleanno, che Kezich si avvicina a quella che, sicuramente, costituisce la sua esperienza più compiuta in ambito teatrale: la stesura di quattro testi drammatici in lingua triestina, a lui commissionati da “La Contrada Teatro Stabile di Trieste”4. È l’occasione per ritornare alla propria città, ma soprattutto per riavvicinarsi a quella parlata dialettale, mai dimenticata, che gli apre la porta al mondo dei ricordi, rendendo così possibile la stesura di storie rimaste per tanti anni nella penna dello scrittore.
Demiurgo dell’operazione è il regista Francesco Macedonio, direttore artistico de “La Contrada” e autore di numerosi spettacoli realizzati dallo Stabile privato triestino. Alla ricerca di un nuovo autore cui affidare la stesura di un testo in dialetto, Macedonio contatta Kezich: l’occasione è offerta da un saluto telefonico5 , nel corso del quale il regista propone al critico di scrivere una commedia dialettale. A un primo rifiuto dell’autore («Sono andato via da Trieste nel ’53, ho dimenticato tutto»6 ), fa seguito l’incitamento del regista («non si dimentica il dialetto, è come andare in bicicletta»7): tanto basta per far riannodare a Kezich il dialogo con il passato e con una serie di interlocutori che da tempo premevano nell’animo dello scrittore. Nasce così la prima commedia vernacolare, L’americano di San Giacomo (1998), cui fanno seguito, a cadenza biennale, altri tre lavori, tutti messi in scena a Trieste, al “Teatro Cristallo”8 , dalla com-
2 Nel 1978 fu ripresa dal “Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia” con Renzo Montagnani, per la regia di Franco Giraldi. Nel 1988 fu la volta di Giulio Bosetti, per la regia di Egisto Marcucci. Nel 2002/2003, infine, è stata interpretata da Massimo Dapporto, per la regia di Piero Maccarinelli, coproduzione “Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia”– “Teatro Tre”.
3 Ultimo, in ordine di tempo, è Il sosia, presentato a Trieste, al “Teatro Cristallo” nell’ottobre del 2006, con Antonio Salines e Ariella Reggio, dall’Associazione Amici della Contrada, per la regia di Francesco Macedonio. Il testo è dedicato alla figura di Michail Gelovani, attore russo che a lungo fu controfigura di Stalin.
4 Sorto nel 1976, “La Contrada Teatro Stabile di Trieste” si impegna, tra le altre cose, nella promozione del patrimonio teatrale della propria città. In assenza di una tradizione drammaturgica locale, la compagnia ha più volte dato spazio ad autori contemporanei, stimolando così la scrittura di testi in lingua triestina.
5 L’episodio è narrato in Tullio Kezich, Il diletto del dialetto, in id., L’americano di San Giacomo, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, 1998, pp. 9-12 e in Francesco Macedonio, La poesia della realtà in Tullio Kezich, L’americano di San Giacomo, op. cit., pp. 13-15.
6 Tullio Kezich, Il diletto del dialetto, op. cit. p. 9 (traduzione nostra).
7 Ibidem (traduzione nostra).
8 Ora “Teatro Orazio Bobbio”.
Paolo Quazzolo
pagnia de “La Contrada Teatro Stabile di Trieste”, per la regia di Francesco Macedonio.
Di questi quattro testi, tre – Un nido di memorie, I ragazzi di Trieste e L’americano di San Giacomo – costituiscono la cosiddetta “Trilogia triestina”; il quarto lavoro drammatico, L’ultimo carnevàl, probabilmente costituisce la prima parte di una seconda “Trilogia”, al momento non ancora compiuta, dedicata allo studio della figura di Italo Svevo. In verità i quattro testi non sono stati composti nell’esatto ordine cronologico degli eventi da essi narrati: il primo dramma a vedere la luce è, come detto, L’americano di San Giacomo (1998) che tuttavia costituisce l’atto finale della “Trilogia” triestina; fa seguito, nel 2000, Un nido di memorie, che è la prima parte di questo trittico drammatico, e infine, nel 2004, I ragazzi di Trieste, che ne costituisce l’atto intermedio. La stesura della “Trilogia” è interrotta nel 2002, quando l’autore si dedica alla composizione de L’ultimo carnevàl
Con la “Trilogia triestina” Tullio Kezich dà vita a quello che lui stesso ha definito un «teatro della memoria» 9 , ossia una serie di testi drammatici che prendono spunto dall’esperienza biografica dell’autore, riportando alla luce fatti e personaggi triestini tra il 1940 e il 1949. In verità, gli eventi narrati nelle tre commedie, pur prendendo spunto dal vissuto personale, tendono a trasfigurare la realtà per offrire un articolato affresco della vita triestina negli anni della Seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra. Un ritratto in cui lo spettatore non esita a riconoscere personaggi pubblici, persone appartenenti alla sfera della vita privata dell’autore ma, soprattutto, situazioni e sentimenti nei quali l’intera platea triestina ha potuto, senza difficoltà, identificarsi. E, senza dubbio, le vicende esposte, per quanto legate a un preciso contesto geografico, suggeriscono tuttavia sentimenti che travalicano la dimensione cittadina o regionale.
Giunti a compimento sotto forma drammatica, in verità vicende e personaggi contenuti nella “Trilogia triestina” sono affiorati più volte nell’opera dello scrittore sotto forma narrativa e in lingua italiana, in pagine che, tuttavia, non sono mai riuscite a soddisfare l’autore. Spiega infatti Kezich, a proposito de L’americano di San Giacomo:
Scrissi la commedia in un tempo incredibilmente breve, come sotto dettatura, per accorgermi poi (grazie al fortuito ritrovamento di un vecchio manoscritto) che questa storia quasi vera avevo già tentato di
9 Tullio Kezich, Questo dramma è un ricordo, in id., Un nido di memorie, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, 2000, p. 9.
Il teatro dialettale di Tullio Kezich
rievocarla ai tempi in cui scrissi Il campeggio di Duttogliano10. In lingua, ovviamente, e in forma narrativa, cioè commettendo due errori fatali; ma il tentativo mi era apparso subito insoddisfacente sicché lo piantai lì e lo dimenticai11.
La forma drammatica e il linguaggio vernacolare sono dunque i mezzi che consentono all’autore, tanti anni dopo, di dare finalmente vita ai contenuti della “ Trilogia”, creando personaggi che potevano venire alla luce solo facendoli esprimere nella loro lingua d’origine e ponendoli in azione su un palcoscenico. In altre parole, l’autore sentiva il bisogno, più che di narrare delle vicende, di far vivere i propri personaggi, di vederli muovere e dialogare, di sentirli materializzati attraverso un corpo imprestato loro dagli attori. Un procedimento quasi pirandelliano, dove personaggi in origine veri, una volta evocati
si sono mossi per conto loro, si sono incontrati e scontrati da veri “personaggi in cerca d’autore”. Non ho fatto che pedinarli, ascoltarli, e prendere nota come il Capocomico pirandelliano. La “commedia da fare” è nata da sé. Proprio come se i personaggi si fossero reinventati, avessero imbastito altri rapporti, scatenato altri sentimenti, affrontato destini differenti. Sono andati dove volevano. E delle loro verità anagrafiche o cronachistiche è rimasto il dieci per cento12.
Ed effettivamente, se innegabile è la base biografica da cui scaturiscono le storie narrate nella “Trilogia”, tuttavia i personaggi assumono nomi fittizi, le situazioni tratte dalla realtà non seguono più l’originario andamento cronologico, i ricordi si sovrappongono tra loro, la fantasia mescola ogni cosa, ricomponendo un quadro totalmente nuovo ma capace di rimandare con immediatezza a un momento storico che fa parte della memoria comune. Delle tre commedie che compongono la “Trilogia”, Un nido di memorie13
10 Tullio Kezich, Il campeggio di Duttogliano, Lo Zibaldone, Trieste, 1959.
11 Tullio Kezich, Il diletto del dialetto, op. cit., p. 9.
12 Ivi, p. 11.
13 Un nido di memorie va in scena al “Teatro Cristallo di Trieste” il 6 ottobre 2000, con la compagnia de “La Contrada Teatro Stabile di Trieste”, per la regia di Francesco Macedonio. Ne sono interpreti Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Maria Grazia Plos, Maurizio Repetto, Alberto Ricca, Adriano Girali, Riccardo Canali, Marzia Postogna e Rainer Reinberbacher. Scene di Lauro Crisman. Costumi di Remigio Gabellini. Il testo della commedia è pubblicato in Tullio Kezich, Un nido di memorie, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, 2000.
Paolo Quazzolo
è forse quella che conserva il maggior numero di relazioni con i fatti che l’hanno ispirata. Scrive infatti l’autore: «Un nido di memorie è un intreccio di eventi e discorsi del passato il cui reperto batte di gran lunga la fantasia. Di molte situazioni potrei dire esattamente il giorno e l’ora, di molte battute ricordo il quando e il come furono pronunciate»14 . In realtà, a differenza delle altre due, in questa commedia non vi sono personaggi o fatti direttamente trasferiti dalla realtà: le memorie autobiografiche si intrecciano, il ricordo viene trasfigurato, la fantasia dell’autore plasma tutta la materia, dando luogo a una commedia che non intende essere – e di fatto non lo è – un teatro-verità. Ne emerge una sorta di mosaico in cui nitidezza e vaghezza, ricordi precisi e immagini sfumate si coniugano tra di loro a comporre una trama «che costituisce la nostra coscienza, l’eterna storia del personaggio “io” intessuta con quella degli altri»15 . E lo stesso titolo, ispirato a un verso del Prologo de I pagliacci di Leoncavallo16 , sembra voler sottolineare lo spirito con cui la commedia è stata concepita.
La vicenda si ambienta a Trieste fra il giugno del 1940 e il maggio del 1945. Attorno alla famiglia dell’avvocato Ivo Sklebez si muovono una serie di personaggi – dall’ebreo Aron Volpati alla squadrista Calpurnia Pasetti, dall’orefice Alfredo Donner alla serva carsolina Milka, dal vecchio istriano Barba Marko all’io narrante Nineto – che rappresentano le varie anime di una città multietnica e multireligiosa qual è Trieste. Attraverso una serie di sequenze che si dispongono cronologicamente nell’arco di cinque anni, l’autore ripercorre la difficile storia della sua città che, nel corso della seconda guerra mondiale conosce, dopo la dittatura fascista, la repressione tedesca, la dominazione titina e il governo anglo-americano. Una storia dolorosa che vede, alternativamente, la salita o la caduta dei diversi personaggi: la fervente fascista Calpurnia Pasetti, dopo i fasti del regime, riesce a stento a sottrarsi al processo dei titini; la serva Milka, malvista dai fascisti, conosce il suo momento di gloria durante la dominazione jugoslava; Aron Volpati diviene una delle tante vittime della follia nazista, mentre Barba Marko “l’orbo veggente” che si proclama cieco ma forse non lo è, assiste dolorosamente agli inquietanti eventi storici che spazzano via il mondo della sua giovinezza, quell’Impero Austro-ungarico ormai idealizzato, che per decenni aveva dominato su Trieste.
Una vicenda di dolori, in cui tuttavia trovano spazio anche momenti divertenti, come la baruffa in famiglia tra Ivo e la moglie Giorgina, o la descrizione della maestra Calpurnia, caricatura di se stessa nell’incrollabile
14 Tullio Kezich, Questo dramma è un ricordo, in id., Un nido di memorie, op. cit., p. 9.
15 Tullio Kezich, Un nido di memorie, op. cit., p. 49.
16 «Un nido di memorie / in fondo all’anima / cantava un giorno…».
Il teatro dialettale di Tullio Kezich
fede al credo fascista. Il finale liberatorio della commedia vede la conclusione della guerra, un ideale ricomporsi dei conflitti e, soprattutto, la volontà di trovare una strada di convivenza capace di rimarginare ferite profonde. « Femo finta che gavemo imparà qualcossa. Se no, dovessimo dir che tuto ’sto bordel no ga servido gnente »17 fa dire Kezich a Ivo, verso il finale dell’opera. Un finale melanconico e trasognato, su cui si posa lo sguardo affettuoso dell’autore, che fa riapparire magicamente, quasi evocandoli, i personaggi del suo racconto, riuniti in una ideale fotografia, simbolo di speranza e rappacificazione, scattata proprio da quel Fritz von Kleist, comandante nazista, ora in visita turistica a Trieste.
Il secondo atto della “Trilogia”, I ragazzi di Trieste18 presenta un carattere più spensierato: la vicenda è collocata nella città giuliana tra il 1946 e il 1947 ed ha per protagonista la “clapa” ossia una compagnia di ragazzi tra i 17 e i 20 anni, che si apprestano a vivere gli ultimi momenti di spensieratezza prima di fare il loro ingresso nel mondo adulto. Anche in questa commedia, dal carattere corale, la componente autobiografica costituisce la base di partenza: dietro certi personaggi, infatti, l’osservatore più attento non esita a riconoscere alcuni protagonisti della realtà, a partire da Matteo Vallon, ancora una volta l’io narrante, dietro cui l’autore adombra se stesso.
Collocata nel periodo in cui Trieste era retta dal Governo Militare Alleato anglo-americano, la commedia fa respirare allo spettatore quel clima di rinascita e speranza che aveva invaso la città al termine degli eventi bellici. Un clima, tuttavia, dai risvolti negativi, caratterizzati da una costante incertezza per il futuro, dalle tensioni tra le opposte etnie, da accese battaglie politiche. Furono anni densi di avvenimenti, spesso vissuti con una infuocata partecipazione, in cui la volontà di costruire una nuova esistenza costituiva la preoccupazione dominante per tutti. Eppure nella commedia di Kezich quegli eventi storici – spesso drammatici – costituiscono una sorta di sfondo ovattato, che solo di rado entra prepotentemente in scena. «Alla ribalta – ha scritto il regista Francesco Macedonio – vedia-
17 «Facciamo finta che abbiamo imparato qualcosa. Altrimenti dovremmo dire che tutto questo disastro non è servito a nulla» (ivi, p. 90).
18 I ragazzi di Trieste va in scena al “Teatro Cristallo” di Trieste il primo ottobre 2004, con la compagnia de “La Contrada Teatro Stabile di Trieste”, per la regia di Francesco Macedonio. Ne sono interpreti Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Maurizio Repetto, Paola Di Meglio, Manuel Fanni Canelles, Paola Camper, Sara Cechet, Vesna Hrovatin, Lara Komar, Fulvio Koren, Jason Richard Lonie, Gianmaria Martini e Julian Sgherla. Scene di Sergio D’Osmo e Federico Cautero. Costumi di Fabio Bergamo. Il testo della commedia è pubblicato in Tullio Kezich, I ragazzi di Trieste, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, 2004.
Paolo Quazzolo
mo solamente la “clapa ” il gruppo di ragazzi intenti a vivere l’ultima stagione della loro spensierata giovinezza, chiusi dentro i salotti delle loro case, intenti ad ascoltare musica, a parlare di cinema, a corteggiare le ragazze e a sognare il futuro»19 . Un futuro che tuttavia irrompe drammaticamente nelle loro vite: la seconda parte della commedia vede questi giovani strappati ai loro sogni e messi drasticamente dinnanzi alle difficoltà della vita. Giovanin diverrà involontario complice di un delitto e sarà costretto a fuggire; Paganini, pur innocente, sarà coinvolto nell’orrida vicenda; Cate dovrà abortire clandestinamente per evitare una gravidanza indesiderata; Mita, abbagliata dal “sogno americano”, sposerà il tenente Backwall, facendo la melanconica fine di molte ragazze italiane, condannate per il resto della loro vita a una modesta esistenza in anonimi paesini nord americani. E lo stesso Matteo-Tullio, alla fine della commedia, deciderà – come molti suoi conterranei – di abbandonare la propria città alla ricerca di lidi migliori nei quali dare corso alle proprie aspirazioni.
Una commedia dal carattere dolce-amaro, che offre uno studio d’ambiente e una sottile analisi di psicologie in formazione, colte nel difficile passaggio alla vita adulta. Si tratta di una sorta di percorso iniziatico, dove i protagonisti sono posti di fronte a quesiti di ordine morale che li costringono a riflettere e a scoprire, ciascuno, il proprio valore. Solo affrontando situazioni talora drammatiche, i ragazzi della commedia potranno entrare nella vita, compiendo delle svolte che ne segneranno il destino futuro. Accanto ai ragazzi, Kezich colloca due ruoli in età, quello della zia Serena e quello dell’avvocato Ottaviano Cortini: figure che in qualche modo rappresentano il passato e la maturità, ma che hanno la funzione di divenire la prova morale che la vita pone al protagonista Matteo. Per lui si tratterà di scoprire la verità sulla sua nascita (la presunta zia e il pressoché estraneo avvocato sono i suoi veri genitori), che lo condurrà a ripensare profondamente i rapporti e gli affetti familiari.
L’atto conclusivo della “Trilogia” è costituito da L’americano di San Giacomo 20 , forse l’opera dalla tensione drammatica più forte e unitaria. La
19 Francesco Macedonio, Un dramma della formazione, in I ragazzi di Trieste, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, 2004, p. 9.
20 L’americano di San Giacomo va in scena al “Teatro Cristallo” di Trieste il 9 ottobre 1998, con la compagnia de La Contrada Teatro Stabile di Trieste, per la regia di Francesco Macedonio. Ne sono interpreti Mario Valgoi, Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Maurizio Repetto, Lidia Kozlovich e Marzia Postogna. Scene di Sergio D’Osmo. Costumi di Fabio Bergamo. Il testo della commedia è pubblicato in Tullio Kezich, L’americano di San Giacomo, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, 1998.
Il teatro dialettale di Tullio Kezich
vicenda si svolge ancora una volta a Trieste, nell’estate del 1949, e narra la storia di Giusto Bressan, pittore di camere originario del rione di San Giacomo, emigrato vent’anni prima, per motivi politici, negli Stati Uniti e ora tornato nella sua città. Si tratta dell’affettuoso e commosso omaggio che Tullio Kezich rivolge a proprio zio, Umberto Sussan, narrando, ancora una volta, una vicenda familiare che tuttavia affonda profondamente le radici non solo nella storia giuliana, ma anche nella memoria comune. Rievocando la vicenda dello zio tornato dall’America, Kezich in verità affronta temi difficili e dolorosi quali l’emigrazione, la delicata dinamica dei rapporti familiari, lo scontro tra ideali politici opposti. Il tutto filtrato dall’occhio del consueto io narrante, Sergio, il ragazzino innamorato del cinema, in cui l’autore, questa volta, proietta in modo vigoroso se stesso. L’improvviso rientro a Trieste di Giusto provoca le reazioni più diverse: curiosità nel nipote Sergio, che trova nello zio una sorta di complice; smarrimento nella cognata Mafalda, che rivive improvvisamente il dolore per la perdita della sorella emigrata e morta in una terra lontana; confusione nella vecchia nonna Vize, che non riesce più a distinguere tra presente e passato. Il tentativo di Giusto di reinserirsi nella vita della sua città e della sua famiglia è tuttavia vano: i tempi sono cambiati, Trieste è irriconoscibile, le cicatrici familiari non possono essere cancellate: alla fine della commedia, a lui non resterà che tornare in America, abbandonando, deluso, di nuovo e per sempre la sua Trieste.
Storia familiare ma, si diceva, anche vicenda che affronta la realtà giuliana del secondo dopoguerra. Non solo il triste capitolo delle migrazioni giuliane è presente in questa commedia di Kezich, ma anche gli scontri e le divisioni politiche che arroventarono la vita di allora. Le diverse ideologie sono rappresentate sulla scena dalla contrapposizione tra Giusto Bressan e il suo amico-nemico Tojo Goriani, personaggio quest’ultimo dietro cui l’autore ha adombrato la figura storica di Vittorio Vidali e, con esso, le contrapposizioni tra socialisti e comunisti. Pagina storica difficile, su cui Kezich ha voluto meditare, dimostrando una volta in più che il palcoscenico è luogo dove non solo si raccontano storie, ma anche dove lo spettatore è invitato a riflettere su temi talora difficili e scomodi.
Ne L’americano di San Giacomo Kezich ha dato vita a una interessante operazione di carattere linguistico sul dialetto triestino: il disagio del protagonista e la sua diversità di fronte un contesto sociale che è profondamente cambiato, vengono amplificati dal suo diverso modo di esprimersi. Il linguaggio di Giusto non solo è infarcito di americanismi e di frasi fatte, ma presenta una serie di arcaismi linguistici – sia nella costruzione della frase, sia nell’uso
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di vocaboli ormai desueti – che lo rendono marcatamente diverso dagli altri personaggi. Una ricerca linguistica che, per taluni versi, riflette la posizione dell’autore alla sua prima esperienza di scrittura dialettale, dopo tanti anni di assenza dalla propria città: come avviene per gli emigrati, che conservano inalterato il lessico della terra di provenienza, così l’autore, all’atto di scrivere nel dialetto della sua città, si è rivolto al proprio ricordo, in cui erano rimasti fissati espressioni e vocaboli ormai non più in uso.
Il quarto testo drammatico che Tullio Kezich ha scritto per “La Contrada” è L’ultimo carnevàl 21. Di tutti i lavori sinora scritti in dialetto triestino, questo offre le maggiori implicazioni culturali, essendo costruito su un complesso gioco di specchi che rinviano all’opera e alla biografia di Italo Svevo. E ciò sin dal titolo, che è una sorta di parafrasi di quello che il celebre romanziere aveva in un primo momento pensato per Senilità, ossia Il carnevale di Emilio.
La scelta di scrivere una commedia che avesse per protagonista Italo Svevo affonda le radici, ancora una volta, nella biografia di Kezich. Triestino, studioso di Ettore Schmitz, di cui ha adattato per il teatro il suo romanzo più celebre, Kezich ha voluto raccontare, attraverso la scena, la sua passione per il grande romanziere, dimostrando al contempo che il teatro può essere utilizzato quale acuto strumento di indagine critica in ambito letterario. Ed effettivamente il senso ultimo di questa operazione è quello di indagare su uno dei momenti più oscuri e controversi della biografia sveviana, il tormentato e doloroso distacco dalla letteratura e l’ingresso di Ettore Schmitz nella ditta Veneziani. La commedia si snoda attorno alla composizione di Senilità, opera ampiamente autobiografica, in cui Svevo aveva posto, oltre che se stesso (Emilio), anche Giuseppina Zergol, giovane con cui aveva avuto un’avventura sentimentale (Angiolina nel romanzo) e l’amico pittore Umberto Veruda (che diviene Stefano Balli). Attraverso un articolato sistema di citazioni, Kezich pone a confronto la realtà biografica di Svevo con la finzione narrativa di Senilità. E, a loro volta, nella commedia, questi due piani vengono trasfigurati attraverso una serie di ipotesi che cercano di spiegare i possibili motivi che indussero Svevo ad allontanarsi – seppure temporaneamente – dalla letteratura. In questo modo L’ultimo
21 L’ultimo carnevàl va in scena al “Teatro Cristallo” di Trieste il 4 ottobre 2002, con la compagnia de La Contrada Teatro Stabile di Trieste, per la regia di Francesco Macedonio. Ne sono interpreti Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Paola Bonesi, Riccardo Canali, Maria Grazia Plos, Marzia Postogna e Maurizio Zacchigna. Scene di Lauro Crisman. Costumi di Fabio Bergamo. Il testo della commedia è pubblicato in Tullio Kezich, L’ultimo carnevàl, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, 2002.
Il teatro dialettale di Tullio Kezich
carnevàl tende a prolungare nel tempo la vicenda narrata in Senilità, immaginando un possibile protrarsi della scappatella sentimentale con PinaAngiolina e rintracciando in essa l’origine del conflitto moglie-amante che il romanziere visse nella realtà e che divenne una delle tematiche portanti de La coscienza di Zeno.
Ma uno degli elementi più affascinanti della commedia di Kezich – splendidamente colto dalla messinscena di Macedonio – è l’atmosfera di sospensione in cui i personaggi sono immersi: l’azione, collocata nel 1899, vede i protagonisti festeggiare l’ultimo carnevale del secolo e prepararsi ad affrontare l’incerto trapasso tra Otto e Novecento. Trapasso che «gli uomini del tempo vissero» con «una sorta di malessere e insicurezza determinati dalla situazione sociale e politica e dal senso di incertezza che derivava da un mondo in rapido cambiamento»22. Quella che Ettore, Pina e Beto vivono sulla scena è quindi una sorta di “ultima carnevalata” prima che si aprano le porte verso una avvenire incerto. Ma anche «l’estremo congedo di un Erlebnis umano e artistico irripetibile»23 . E così, sul Molo San Carlo, all’alba, ancora in maschera, Pina e Beto apprendono esterrefatti da Ettore la sua drammatica decisione di rinunciare all’arte per andare a lavorare in fabbrica dalla suocera.
L’atmosfera melanconica e a tratti quasi angosciante, riemerge prepotente alla fine della commedia, quando l’intera compagnia è riunita a casa di Gioachino, il suocero di Svevo. Qui Ettore sembra quasi pronunciare una sinistra profezia:
Co vedo un picio zogar, come Verci ’desso, no posso far de meno de pensarlo che ’l cressi ’ndando drento ’sto maledetto secolo che scominzia. Pensa che scherzo de la fantasia, me li imagino in montura, ’sti fioi che ’desso xe pici, mezi de qua e mezi de là come capita a noi triestini, che no semo né de Dio né del diavolo. E la guera, co la dovessi cascarghe ’dosso, no sarà più un zogo. I se sparerà fra lori, poveri muli nostri24 .
22 Francesco Macedonio, Nel labirinto dei personaggi, in Tullio Kezich, L’ultimo carnevàl, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, 2002, p. 15.
23 Giuseppe Antonio Camerino, Senilità e oltre: tra finzione e biografia, in Tullio Kezich, L’ultimo carnevàl, op. cit., p. 23.
24 «Quando vedo un bambino giocare, come ora Verci, non posso fare a meno di pensare che cresce, mentre entra in questo maledetto secolo che sta cominciando. Pensa che scherzo della fantasia, me li immagino in divisa, questi ragazzi che ora sono piccoli, mezzi di qua e mezzi di là, come capita a noi triestini, che non siamo né di Dio né del diavolo. E la guerra, quando dovesse cascargli addosso, non sarà più un gioco. Si spareranno tra di loro, poveri ragazzi nostri» (Tullio Kezich, L’ultimo carnevàl, op. cit., p. 93, traduzione nostra).
Paolo Quazzolo
Sorta di parafrasi della celebre profezia di Zeno, in cui si paventa, per l’essere umano, un futuro terribile e distruttivo. Ma la commedia non è ancora terminata: più tardi, la compagnia gioca spensierata a mosca cieca.
Bendato, Ettore afferra due dame e, alla richiesta di indovinare chi esse siano, crede di riconoscere in Pina la moglie Livia e, viceversa nella moglie la propria amante: ancora una volta un inquietante gioco di specchi in cui continua e si moltiplica la tematica moglie-amante. E mentre la festa si avvia a conclusione tra risa e balli, il piccolo Verci «prende un bastone e lo adopera come fosse un fucile, imitando un’esercitazione militare. Un gioco che inconsciamente anticipa quello che sarà il suo destino nel nuovo secolo, quando avrà l’età» 25 . Immagine questa amplificata sulla scena da Macedonio in un finale imprevisto e durissimo, ove il gioco di Verci si trasforma in crudele realtà.
25 Ivi, p. 95.
Simone Venturini
L’avventura della “22 dicembre” (1961-1966)
Il 22 dicembre 1961 viene fondata a Milano la Società Editoriale Cinematografica Italiana “22 dicembre”. La Società si «costituisce con un capitale per il 51 per cento Edison e per il 49 per cento legato alle quote di […] 5-6 fondatori»1. Da un lato una delle più importanti espressioni del capitale milanese e dell’industria italiana (la Edison Volta), dall’altra un gruppo di giovani, tra cui in prima fila Tullio Kezich, Ermanno Olmi e Alberto Soffientini.
In particolare, Olmi ha un rapporto privilegiato con una delle “anime” della Edison, Bruno Janni, cui si deve l’adesione ideale, intellettuale e il concreto appoggio finanziario da parte della Edison alla costituzione della “22 dicembre”; Kezich ha già quindici anni di attività di scrittura e organizzazione alle spalle. Allo stesso tempo, Kezich non ha grande esperienza nella produzione e Olmi, nonostante la pluriennale attività documentaristica per e attraverso la sezione cinematografica della Edison e il grande successo de Il posto, risulta essere «solo uno dei tanti che a Milano tentano di inventare un’apertura verso il cinema vero»2
A partire da queste premesse, l’intelligenza del gruppo della “22 dicembre” e l’intuizione di Janni prevalgono e sembrano concretizzarsi e svilupparsi oltre le migliori aspettative. Nel corso di due o poco più stagioni di attività la “22 dicembre” produce sei lungometraggi a soggetto e il primo film televisivo di Rossellini: Una storia milanese di Eriprando Visconti (1962), La rimpatriata di Damiano Damiani (1963), Il terrorista di Gianfranco De Bosio (1963), I basilischi di Lina Wertmü ller (1963), I ragazzi che si amano di Alberto Caldana (1963), I fidanzati di Ermanno Olmi (1963), L’età del ferro di Roberto Rossellini (1965).
Tale intervallo riassume e in un certo modo esaurisce l’intero periodo
1 Tullio Kezich, La “22 dicembre”; ovvero un capitolo di storia minore della Titanus, in Vito Zagarrio (a cura di), Dietro lo schermo. Ragionamenti sui modi di produzione cinematografici in Italia, Marsilio, Venezia, 1988, p. 74.
2 Ivi, p. 76.
di attività della “22 dicembre”. Fatto che per statistica potrebbe relegarla assieme alle decine e decine di società di produzione cinematografica che tra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Sessanta (per fornire una periodizzazione del modello in cui hanno vissuto) sono state fondate, hanno realizzato uno, due film o poco più e nel giro di qualche anno –per debolezza, per impreparazione, per fini speculativi, perché coinvolte nelle incontrollate oscillazioni e nelle periodiche crisi – sono entrate in fallimento. Fatto che è anche stato descritto come un fenomeno e un effetto proprio della cosiddetta “polverizzazione” produttiva dell’industria italiana del cinema 3 .
Ma la “22 dicembre” non nacque e non operò emulando e sognando il cinema “romano”, semmai lavorò per un cinema diverso: eccentrico (a livello geografico, intellettuale, in parte produttivo); avanzato nelle idee (la differenziazione dei servizi, qualità propria dell’editoria ricordata nella denominazione sociale, e dei prodotti – cinema documentario, industriale, a soggetto, televisivo); punto di riferimento per molti giovani autori ed esperienze innovative.
Di fatto – come ricordava Tullio Kezich, a conclusione del suo scritto dedicato alla S.E.C.I. “22 dicembre”, non senza una lieve e ironica nota di rammarico – l’esperienza che voleva «cambiare il modo di fare il cinema in Italia» divenne lo «strumento di un’operazione finanziaria» che avrebbe unito il «capitale milanese e il cinema romano»4 . La “22 dicembre” fu assorbita nell’agosto del 1966 dalla Titanus distribuzione5 , a sua volta acquisita dalla Edison.
La “22 dicembre” era stata fondata in un momento di grande successo e fortuna per il cinema italiano d’autore. Sul piano delle iniziative e dei cambiamenti di rotta nella produzione, basta ricordare la Federiz che unisce Rizzoli, Fracassi e Fellini, la svolta della Titanus di Lombardo nel congresso di luglio del 1961, cui segue in parallelo quella della Galatea, la svolta impressa alla tipologia di film acquisiti da celebri importatori statunitensi come Joseph Levine (dal cinema di genere – il peplum – principalmente, al cinema d’autore). Tuttavia, l’entusiasmo generale si esaurirà attorno al biennio 1964-1965. La crisi della Titanus, della Galatea e di altre compagnie di produzione e di distribuzione che avevano appoggiato e finanziato il
3 Cfr Libero Bizzarri, Luigi Solaroli, L’industria cinematografica italiana, Parenti, Firenze, 1958, p. 43.
4 Tullio Kezich, La “22 dicembre”; ovvero..., op. cit., pp. 78-79.
5 Pubblico Registro Cinematografico – SIAE: Il terrorista, citazione e riporto dell’atto del 29.8.66 di Milano, registrato il 3.9.66 vol. 173, n. 2099.
L’avventura della “22 dicembre” (1961-1966)
cinema d’autore rappresenterà un ridimensionamento traumatico delle aspirazioni dell’industria italiana del cinema e ricadrà su esperienze minori ma altamente significative come la “22 dicembre”.
Ciò che è stato scritto e testimoniato su quest’esperienza è in massima parte proveniente dagli stessi animatori e soci, nonché da autori, produttori e professionisti che a fianco, per conto o grazie a loro hanno realizzato alcuni dei più interessanti esempi di “nuovo cinema italiano” del periodo.
Le memorie e le ricostruzioni critiche della genesi e del modo di produzione della “22 dicembre”, operate ad esempio da Kezich, indicano la presenza di una dimensione mitica, di una tensione alla spontaneità, di una capacità di porsi come punto di convergenza e di concretizzazione di energie creative e di rapporti personali e professionali, cresciuti tanto attraverso la particolare situazione milanese quanto creati grazie e attraverso nomadismi produttivi e felici incontri. Citando un paio di esempi: Lina Wertmü ller, Kezich e Franca Santi tra la Puglia protagonista de I basilischi e la Sicilia di Salvatore Giuliano di Rosi, reiterata e accompagnata dalla Sicilia di Olmi e Kezich dei documentari Edison che sarà infine unita e contrapposta a Milano ne I fidanzati ; Nello Santi e la sua Galatea tra la pace dell’Elba, le tensioni ideali per il “meridionalismo”, la quotidiana attività di produzione e di distribuzione estera a Roma, le profonde radici milanesi, sia finanziarie e organizzative che personali (dalla Resistenza alla “Galassia Invernizzi”, dalla Carlo Erba che lo ricollega a Eriprando Visconti all’amicizia stretta con Chiari) 6 .
Sempre Kezich ha testimoniato come la genesi della “22 dicembre”, coincidente con il primo incontro e con il raggiungimento di un accordo di massima con Janni, fosse paragonabile, nel ricordo, a «un disegno del Dorè»:
Quando arrivammo sulle sponde di questo lago, di notte, vedemmo spuntare dalla tenebre una barca a remi su cui c’era appunto Janni, che remigando a poppa come Caron demonio, ci traghettò sull’isolino
6 Oltre al saggio di Kezich già citato si rimanda per una comprensione più ampia e approfondita dei legami personali e professionali, nonché delle vicende e del contesto della “22 dicembre” a Sergio Toffetti (a cura di), ’Ndemo in cine. Tullio Kezich tra pagina e set, Lindau, Torino, 1998; Franca Santi Invernizzi, Cinema, Oh cinema! , Fuoridallerotte, Como, 2007; Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Feltrinelli, Milano, 1979. Si veda anche il contributo di Lina Wertmüller contenuto nel presente volume e Simone Venturini, Galatea s.p.a. (1952-1965). Storia di una casa di produzione cinematografica, AIRSC, Roma, 2002.
Simone Venturini
[…] C’era un clima magico, il buio fondo e questo signore anziano molto bello che ci guidava da gran navigatore con un remo solo7
Il «disegno» ritrae due dei futuri protagonisti assoluti del cinema italiano (Kezich e Olmi), guidati e traghettati da Janni in quella modernità che sapranno ampiamente cogliere, criticare, rappresentare. Ciò che emerge tra le righe delle memorie, soprattutto quelle di Kezich, è appunto una questione sottintesa: chi guidava la “22 dicembre”? Quali sono state le strategie produttive – meglio, di edizione – della casa milanese? Olmi, dopo l’entusiasmo iniziale, appare in parte coinvolto e in parte sembra allontanarsi sempre più dalla società. Kezich, in linea del resto con le idee olmiane di libertà e fiducia nei confronti degli autori, nelle strutture innovative e nelle idee originali, guida con Soffientini la produzione, seguendo in particolare modo la pre-produzione e la post-produzione. Sappiamo da Kezich che fin dalla prima produzione, Una storia milanese,
Olmi non è del tutto d’accordo. […] Insiste nel ripetere che non dobbiamo diventare una società di produzione come le altre. Dobbiamo inventare nuovi modi di fare il cinema per realizzare film migliori a prezzi di concorrenza. In primo luogo non dobbiamo accettare film di cui non siamo assolutamente convinti, in secondo luogo dobbiamo legare la fase della sceneggiatura a quella dei sopralluoghi. Dobbiamo aiutare i giovani autori a formarsi una loro professionalità, ma nello stesso tempo rispettare la loro originalità. Nel frattempo il programma globale (quello della casa editrice di immagini) non va oltre certi interminabili consigli di amministrazione […] Si parla anche di costruire teatri di posa e dar vita a un circuito di sale8 .
L’idea di diversificazione della produzione (documentari, industriali, a soggetto, prodotti per la televisione) e dell’offerta (i film, i servizi, l’esercizio) appare in prima battuta come proveniente da Janni, ma sostanzialmente accettata dal resto dei soci, salvo le indicazioni di Kezich sulle ripetute discussioni tra Janni stesso e Olmi. Vi sono poi le divergenze tra i delegati Edison e la parte esecutiva della “22 dicembre”, cui Kezich accenna solamente. Viene da chiedersi se Kezich e Olmi avessero nei fatti due idee e
7 Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia..., op. cit.
8 Tullio Kezich, La “22 dicembre”; ovvero..., op. cit., p. 77.
L’avventura della “22 dicembre” (1961-1966)
visioni differenti, in gran parte inconciliabili o, quantomeno, difficilmente applicabili collegialmente nel breve periodo di esistenza della “22 dicembre”. Olmi, a quanto sembra, forse era più interessato a trovare strade autonome per la propria produzione e progressivamente «si stancò, ebbe delle divergenze e andò via» 9 . Kezich fu – come ha osservato Sergio Toffetti – sui set come critico, ma non come produttore10 . In linea con l’idea che l’unica autorità al momento delle riprese dovesse essere rappresentata dal regista, dall’autore.
Più in generale, la “22 dicembre” accumulò esperienze, realizzò grandi esordi e ottimi film, incamerò premi e riconoscimenti, ma nessuno dei film prodotti, a esclusione di Una storia milanese, risultò in attivo. Si intravede la difficoltà a conciliare una prospettiva societaria di medio e lungo termine con una produzione immediatamente consistente. Vi è il coinvolgimento d’altra parte di professionisti e tecnici di grande spessore e la capacità di fidarsi e scommettere sulle persone giuste al momento giusto (Wertmüller, Morricone, De Bosio, Di Venanzo, De Concini, Santi). Ma, soprattutto, la società subì la dipendenza da produzioni esecutive e da collaborazioni in grado di garantire, in ultima analisi e sulla carta, l’accesso ai circuiti distributivi.
Riguardo a questo ultimo punto e contrariamente a quanto ha scritto Kezich, non vediamo la “22 dicembre” come un «capitolo minore della Titanus»11, semmai la casa di Lombardo rappresenta bene il prologo e l’epilogo dell’attività della società milanese (da una parte la presa in carico de Il posto, dall’altra l’accorpamento del 1966).
Più pertinente vediamo l’incontro con la Galatea di Nello Santi, il produttore che più di ogni altro comprendeva il contesto milanese. Tale incontro appare tanto come naturale proseguimento delle conoscenze personali quanto l’approdo più ovvio verso la società di produzione che, tra le maggiori, più si avvicinava ai modi produttivi – la produzione senza i mezzi di produzione – propri della Lux di Gualino. Del resto, la filmografia parla chiaro: quattro lungometraggi su sette sono prodotti con la Galatea e con i suoi partner.
Nell’ambito di questo saggio, ci limiteremo a proporre qualche ulteriore
9 Sergio Toffetti (a cura di), ’Ndemo in cine..., op. cit., p. 31.
10 Ivi, p. 45: «Io poi avevo l’abitudine, come anche Franco Cristalli, di lavorare molto al film prima, vedevo i materiali, seguivo l’edizione, ma alle riprese non assistevo praticamente mai, perché il produttore sul set impiccia, crea problemi».
11 Il riferimento va ovviamente al titolo del saggio di Kezich più volte citato in precedenza.
Simone Venturini
spunto di riflessione a partire dai lungometraggi prodotti. All’inizio del 1962 la “22 dicembre” ha l’occasione di realizzare il suo primo film: la Galatea di Santi, nata a Milano, ma profondamente romana nello spirito produttivo, torna alle origini. Sta diversificando la produzione, ma non sa in quel momento come produrre esecutivamente il film d’esordio di Eriprando Visconti. Ha così, attraverso l’incontro con la “22 dicembre”, l’occasione di sperimentare modalità produttive e finalità espressive in parte sganciate dalle dinamiche della capitale del cinema. Tullio Kezich racconta dell’esperienza di collaborazione con la casa di Santi:
Nasce un primo rapporto operativo con il mondo del cinema. Il presidente della Galatea Film, Lionello Santi, che ha in preparazione il film d’esordio di Eriprando Visconti, Una storia milanese ci dice: fatemelo voi, come avete fatto Il posto. A poche settimane dalla fondazione della società, nei primi mesi del ’62, stiamo girando il film di Visconti nipote: 180 milioni da amministrare per conto di un socio molto disponibile, un giovane autore da gestire al meglio e un film vero da fare12
Una volta avuto l’assenso dalla “22 dicembre”, la Galatea coinvolge la S.C. Lyre per una coproduzione. In Francia si rende inoltre disponibile la Procinex per dividere la quota francese. In Italia la Galatea firma un contratto di distribuzione con la Lux. Il costo del film è preventivato intorno ai 129 milioni, cifra che la produttrice esecutiva rispetta pienamente13 . Il film va a Venezia dove ottiene una discreta accoglienza. Visconti nipote, che in seguito non avrà grande successo, con Una storia milanese offre invece una schietta e amara rappresentazione dell’insoddisfazione e della disillusione di una coppia di giovani dell’alta borghesia milanese del tempo. La “22 dicembre” si mette al servizio del giovane autore e riesce a corredare e completare l’ottimo film d’esordio sotto molti aspetti e in particolare con alcuni elementi di rilievo come «il commento musicale di John Lewis e una interpretazione in sei pose di Romolo Valli che per questa si guadagnò il Nastro d’Argento»14 . La scommessa iniziale sembra essere così vinta e la “22 dicembre” e la Galatea tornano a collaborare quasi immediatamente per il film d’esordio
12 Tullio Kezich , La “22 dicembre”, ovvero..., op. cit., p. 76.
13 Archivio Centrale di Stato – Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Divisione Cinema (Fascicoli), bb 328 CF 3837.
14 Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia..., op. cit., p. 80.
L’avventura della “22 dicembre” (1961-1966)
di Lina Wertmüller, I basilischi. Il film è inaspettatamente premiato a Locarno, in Italia il film è proiettato per la prima volta il 2 settembre del 1963 al “Cinema Astra” di Portoferraio, città natale di Santi.
I Basilischi, “Ragazzi del Sud” in fase di lavorazione, viene realizzato con un piano di lavorazione che – a differenza dei 58 giorni ufficialmente preventivati, tra esterni e interni pugliesi e milanesi – risultò, a detta di Kezich, infinitamente più veloce ed economico (circa 18 giorni) 15. Il film d’esordio della Wertmüller nasce tra la Puglia della regista, la Sicilia di Salvatore Giuliano di Rosi (e di Santi, che da lì a poco produrrà in solitaria Le mani sulla città) e la Milano di Kezich, rientrato anch’esso dalla Sicilia e pronto a offrire alla Wertmüller una possibilità produttiva. Gli stretti rapporti che si andavano stabilendo tra Kezich, Wertmüller e Franca Santi, moglie di Nello, faranno il resto.
La “22 dicembre” si trova così immediatamente a dialogare con alcuni protagonisti del “grande” cinema romano (Titanus, Galatea) e ben presto ne incontra i “modi”, tanto che si potrebbe dire che le collaborazioni della “22 dicembre” con la Galatea, l’hanno attirata in direzione dell’attività finanziaria, produttiva e commerciale di quest’ultima. In altre parole, forse è più la casa di Santi che cerca di avvicinare la “22 dicembre” ai “modi di produzione romani” che di aprire per sé stessa delle occasioni al di fuori dei circuiti tradizionali.
Così, ancora Kezich racconta che si trovano coinvolti: «in una nuova produzione esecutiva per la Galatea: stavolta c’è un regista esperto come Damiano Damiani e c’è un protagonista simpaticamente difficoltoso, come Walter Chiari. Su La rimpatriata tocchiamo con mano le differenze fra il cinema alla nostra maniera e il cinema romano»16
In occasione de La rimpatriata, un’occhiata al consuntivo ci restituisce il quadro di una “22 dicembre” al servizio della Galatea. La Galatea invia a Milano i propri responsabili di produzione17. La produzione si svolge anche a Roma (a Cinecittà). Anche la fase di post-produzione si svolge a Roma: la Galatea la affida a tecnici ( Serandrei, Vari) e laboratori abituali, con ogni probabilità è il film che Kezich segue meno da vicino. Il costo finale, comprensivo di spese di edizione e “lanciamento” si attesta sui 235 milioni di lire. Il salto è effettivamente notevole: solo per gli attori ( Walter Chiari:
15 Cfr. Sergio Toffetti (a cura di), ’Ndemo in cine..., op., cit., p. 43 e cfr. Archivio Centrale di Stato – Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Divisione Cinema (Fascicoli), bb 366 CF 4083.
16 Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), op cit., p. 77.
17 Archivio Centrale di Stato – Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Divisione Cinema (Fascicoli), bb 369 CF 4099.
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12 milioni) viene speso quanto è costato I basilischi. Il film esce nelle sale il 19 settembre del 1963, è reduce dal successo ottenuto al Festival di Berlino e viene contemporaneamente doppiato per il mercato tedesco.
In cambio della produzione de La rimpatriata, la giovane casa milanese ottiene il 25% della proprietà del film e una partecipazione al 50% della Galatea alla realizzazione de Il terrorista De Bosio era quel tempo direttore dello “Stabile di Torino” e regista teatrale oramai di fama; con Il terrorista, suo esordio alla regia cinematografica, “sbarca” a Venezia nel 1963 ottenendo il Premio della critica. Ricorda De Bosio stesso:
Mai avevo pensato di fare del cinema – il teatro prendeva tutto il mio tempo – sino a quando non abbiamo realizzato, per la prima volta in Italia La resistibile ascesa di Arturo Ui. Lo spettacolo ebbe un grosso successo e piacque molto al gruppo della “22 dicembre”. Olmi e Kezich mi dissero: “Bisogna assolutamente che tu faccia un film”. Mi presi un mese di vacanza per pensare a quel che gli avrei potuto proporre. Avevo anche qualcosa in mente, qualcosa che sarebbe potuto andar bene sia per un film che per un articolo di giornale. Volevo scrivere certe mie esperienze degli anni della Resistenza, che rischiavano di non funzionare per il teatro18
Il film di De Bosio è forse il film maggiormente voluto dalla “22 dicembre”. Forse anche il film – considerati anche i progetti della società milanese mai realizzati – più vicino alla sensibilità produttiva di Kezich e alla sua capacità di coniugare energie e forme della scrittura provenienti da più ambiti (cinema, teatro, letteratura). È inoltre il film che più degli altri, attraverso la figura di De Bosio, sembra accogliere il desiderio di pragmatismo, innovazione, attenzione alla scrittura, ai luoghi, proprio del gruppo della “22 dicembre”19 :
Il film l’ho preparato con molta cura per più di un anno, il soggetto lo scrissi nel ’61, poi due mesi li passai a stendere con Squarzina la sceneggiatura, di un tipo particolare. Siamo andati a Venezia,
18 Jean-Louis Comolli, Entretien avec Gianfranco De Bosio, «Cahiers du Cinéma», n. 164, 1965, pp. 38-39.
19 Il montatore Carla Colombo e il direttore della fotografia, Lamberto Caimi, sono gli stessi de Il posto, segno di una piccola équipe che ricorre, offrendo e costituendosi come un imprescindibile fattore di continuità, dall’esordio di Olmi a quello di De Bosio passando per Una storia milanese.
L’avventura della “22 dicembre” (1961-1966)
abbiamo abitato nella città e abbiamo scritto il treatment, scegliendo contemporaneamente i luoghi di ripresa: decisa una certa azione prima trovavamo la casa dove si svolgeva e poi si scriveva. In seguito ho passato un periodo con Olmi in Sicilia mentre girava I fidanzati per riportare certe mie idee a una tecnica specifica e alla vita di una troupe, e poi ho discusso con gli amici del gruppo di produzione tutto il film, scena per scena 20
Il terrorista, che avrà poi sfortuna commerciale e difficoltà in Italia (che Kezich attribuisce in massima parte agli ostacoli posti da esercenti e distributori nei confronti dei film politici in quegli anni), deve essere distribuito dalla Warner grazie a un accordo intercorso tra la società americana e la Galatea per il mercato nazionale (in gran parte saltato per l’entrata in crisi della Galatea nel 1963-64). Tuttavia, l’unico film a finire nei listini Warner è La rimpatriata. La “22 dicembre” deve distribuirsi il film di De Bosio attraverso i Regionali e un altro film, acquisito quando già praticamente terminato – I ragazzi che si amano di Alberto Caldana – «come distribuzione, non lo vuole nessuno»21
Storia a parte la farà I fidanzati di Olmi, nato sotto l’ala protettiva della Titanus Sicilia e della Titanus tutta. A parte ancora L’età del ferro, primo film televisivo di Rossellini, coprodotto e lasciato pressoché libero nel suo farsi da una “22 dicembre” con un Kezich in disparte e un Olmi già andato via.
In sostanza, quattro esordi (Wertmüller, Visconti nipote, Caldana, De Bosio) e tre film dovuti, alla Galatea, a Rossellini, a Olmi. Detto in altro modo, quattro film coprodotti con la Galatea – tra cui due esordi, entrambi a metà tra produzione esecutiva e azione produttiva originale e innovativa (Una storia milanese, I basilischi ), un film su commissione (La rimpatriata) e uno infine che forse è, più di altri, il film che la “22 dicembre” e Kezich in particolare hanno fortemente voluto (Il terrorista); un film di Olmi (I fidanzati ), il primo film televisivo di Rossellini e un film – un documentario riconducibile alla corrente del cinema-verità – comprato già fatto.
In conclusione, due le questioni: chi guidava la “22 dicembre” (Kezich? Olmi? La Edison? La Titanus? La Galatea?) e quali erano i suoi principi operativi di fondo? A questa seconda questione si può in parte rispondere prendendo in considerazione da una parte l’anima da sezione documentaria della Edison Volta che avrebbe dovuto dare alla “22 dicembre” una struttura
20 Walter Pagliero, De Bosio dal teatro al cinema, «Sipario», n. 207, 1963, p. 12.
21 Tullio Kezich, La “22 dicembre”, ovvero..., op cit., p. 77.
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flessibile, da società editoriale. Dall’altra occorre prendere in considerazione la precisa articolazione produttiva che ne è alla base, ovvero la via alla nouvelle vague di stampo olmiano. Diventa allora significativo il ricordo di Kezich a proposito dell’affidamento della produzione di Una storia milanese : «fatemelo voi, come avete fatto Il posto». Ma, Il posto, come fu realizzato? Kezich ricorda che fu
finanziato da un gruppo di amici con quote modeste [costo totale circa 18 milioni, n. d. r.] il film è girato alla brava: niente attori, le scene di strada tutte “rubate”, gli interni filmati senza pagare. […] Ufficialmente la ditta ignora che Olmi usa i mezzi tecnici della Sezione cinema per un progetto privato22
In sintesi, l’“abc” di una certa parte del nuovo corso: interni ed esterni dal vero, mezzi leggeri, attori non professionisti o quasi, basso budget, idee originali 23 . La “22 dicembre” realizzerà allo stesso modo i propri film? I costi più bassi, anzi, gli unici in linea con tale approccio, saranno quelli de I basilischi, gli altri film, a esclusione del film di Caldana, rappresentano, visti anche dalla parte dei soci finanziatori e coproduttori, costi medi o mediobassi – tra i 150 milioni circa di Una storia milanese ai 235 milioni de La rimpatriata – in grado di porsi come prodotti destinati a occupare la fascia di mercato del cinema giovane o cinema d’autore, intuita da Lombardo e altri.
Vi è allora in conclusione un’originalità, un marchio di fabbrica della “22 dicembre”?
Osservando i film nel loro complesso vi si intravede una forte tensione verso un’elaborazione critica e in un certo modo disillusa della realtà a partire da un substrato realista – i “vitelloni”, i “ragazzi del sud” de I basilischi, il gruppo di amici e il Cesare tanto voluto da Damiani ne La rimpatriata, la visione critica, lucidissima e densa di una Venezia sconosciuta, marginale e “resistente” de Il terrorista ; l’affresco e l’istantanea sfumata della giovane alta borghesia milanese nel film di Visconti nipote; il cinemaverità di Caldana. Vi si intravedono i lasciti della libertà avuta dagli autori durante la produzione e L’età del ferro, con la libertà per merito acquisita da Rossellini, ne replica a fondo la prassi.
La “22 dicembre” è così anche una storia di libertà, di produzione
22 Ivi, p. 76 e p. 74.
23 Cfr. nota 19.
L’avventura della “22 dicembre” (1961-1966)
cinematografica libera, che lancia esordienti ( Visconti, Wertmüller), invita ed esalta personalità già in via di affermazione come De Bosio, realizza un prodotto su commissione come La rimpatriata, garantendo comunque una profondità della storia e conservando anche in questo film una certa durezza nel descrivere le vicende.
La crudezza e l’asprezza dei contenuti e della scrittura – dei dialoghi, delle voci, dei modi di comunicare – sembrano essere un altro tratto dei film della “22 dicembre”.
Si pensi ai modi del personaggio di Chiari, che trovano echi nei rilievi avanzanti dalla censura sullo script de La rimpatriata 24 , si pensi ai silenzi e al dialetto impossibile de I basilischi, si pensi al rigore e alla schiettezza nell’esposizione delle strategie politiche particolari della Resistenza offerti dai colloqui de Il terrorista
Infine, possiamo supporre e immaginare un altro finale per la “22 dicembre”: quella continuità produttiva che a Milano non si è potuta realizzare25 , nonostante che la “22 dicembre” di miracoli, a Milano, ne avesse già compiuto più di uno. Bisogna considerare infatti che il primo e principale punto debole della società era la distribuzione, il non avere nessuna, o quasi, possibilità di potere controllare o spingere in direzione della collocazione ideale del proprio prodotto sul mercato.
Per immaginare un futuro alternativo bisogna tenere a mente: i progetti ricordati da Kezich (con Bianciardi, Ottieri, Del Buono, Biagi 26 ) e la sua successiva attività di produttore televisivo27; la “22 dicembre” che aveva,
24 Archivio Centrale di Stato – Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Divisione Cinema (Fascicoli), bb 369 CF 4099: “Appunto al Direttore Generale della Divisione VII sulla sceneggiatura del film”: «sono in dovere di prospettare vari rilievi di ordine morale che, a mio avviso, escludono che un film, ricavato fedelmente da una tale sceneggiatura, possa ottenere, allo stato attuale, il nulla osta di proiezione in pubblico. I rilievi – più che per la parte visiva – riguardano il dialogo, oltremodo pesante e talora, a mio giudizio, osceno». La sceneggiatura, su soggetto di Damiani, non convinceva Chiari e la “22 dicembre”. Fu De Concini, come ricorda Kezich, sottovalutato e grande «chirurgo» e «meccanico» della sceneggiatura a raddrizzarla, anche se Damiani preferì poi seguire le sue intuizioni. I nodi irrisoli e i difetti del film di Damiani sono così da attribuire in gran parte alla fase di scrittura. Da una parte i rilievi della censura, dall’altra la necessità di darle maggiore equilibrio (il compito di De Concini). Tra i due interventi non risulta esserci un rapporto di causa-effetto, tuttavia rimane interessante come il film conservi ampiamente i contrasti che ne sono derivati.
25 Cfr. Tullio Kezich, La “22 dicembre”, ovvero..., op cit.
26 Ivi, p. 78.
27 Si veda al proposito l’intervista di Giovanni Vallon (sic) in questo volume (n. d. r.).
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come ultimo atto, prodotto cinema per la televisione; il profilo dell’attività di Olmi, prima e dopo la “22 dicembre”. Tutto ciò avrebbe potuto costituire la base per tradurre la differenziazione inizialmente postulata in una specializzazione che avrebbe fatto approdare – a metà anni Sessanta – la “22 dicembre” al lido forse più adatto, proficuo e in un certo modo sicuro di quegli anni: la televisione.
Occorre infatti riflettere sul sogno di costituire stabilimenti propri, ma anche sulla presenza di importanti stabilimenti come quelli della ICET, cui la stessa società milanese e altre ancora, come la Galatea, stavano riempiendo di contenuti in quel periodo. Occorre altresì ricordare che la Galatea, prima del tracollo, a conoscenza di ciò che stava accadendo sui mercati internazionali, fu tra le primissime a dirigersi verso la produzione televisiva, a inviare direttori di produzione a Londra per studiare la produzione televisiva di fiction, e con l’idea non tanto utopica di utilizzare l’ICET e il contesto intellettuale e culturale milanese per questo motivo.
Avremmo voluto vedere – a fianco del futuro televisivo di Kezich, Olmi e altri ancora –un futuro in quest’ambito realizzato dalla “22 dicembre”, capace di resistere alle tentazioni romane, capace di non passare come elemento ai margini del matrimonio tra Titanus ed Edison, capace di continuare a coagulare e attrarre attorno a sé una parte considerevole e significativa della cultura cinematografica, teatrale, letteraria del periodo.
Intervista a Tullio Kezich
Giovanni Vallon (a cura di)
Dai settimanali alla televisione
Sette anni a «Settimo Giorno»
G.V. Ci sono due periodi della tua attività sui quali un ricercatore stenta a orientarsi in base alla bibliografia ed emerografia disponibili. Sono i 7 anni che hai trascorso…
T.K. …dì pure “scontato”…
…nella redazione milanese dell’ebdomadario «Settimo Giorno»; e i vent’anni e più trascorsi prima come collaboratore e poi come dipendente della RAI. Cosa suggeriresti a qualcuno che volesse ritrovare le tracce di questi tuoi passaggi?
Si dà il caso che ispirate dalla redazione di «Settimo Giorno» esistano ben due commedie: Una montagna di carta, reperibile nella raccolta del teatro di Guido Rocca, e il mio Lo stanzone. Se il copione di Rocca, rappresentato al Piccolo Teatro, fece un buco nell’acqua, il mio non fece nemmeno quello. Scritto su commissione del Teatro di Torino, fu respinto all’unanimità dal consiglio di amministrazione: i democristiani lo trovarono blasfemo, i comunisti poco costruttivo. Lo pubblicai su «Sipario» e là giace intombato da quasi mezzo secolo.
È curiosa questa coincidenza di due scrittori di teatro che convivono nella stessa redazione e ne scrivono.
In realtà solo Guido era un commediografo affermato, figlio del Gino Rocca di Se no i xe mati no li volemo, nipote di Puccini, virtuale erede del «Corriere della Sera» per la parentela con donna Fosca Crespi. In più (e lo dico avendoci litigato fino alla rottura del rapporto) era simpatico, atletico tennista e amato dalle donne. Purtroppo morì di un’atroce malattia a trent’anni. Io la commedia la scrissi più tardi, guardando indietro con rabbia, e credo di avervi fatto trapelare qualche verità: la bella confusione della vita redazionale, i rapporti sbagliati all’interno, i tradimenti, i condizionamenti della proprietà, il vuoto culturale che c’era dietro la fabbrica del giornale… Non fui capito e neppure apprezzato. Neanche il successo de La coscienza di Zeno mi aiutò a trovare lo sbocco in palcoscenico che an-
Dai settimanali alla televisione
davo furiosamente cercando per Lo stanzone. Interessò Luca Ronconi, che lo mise nel programma della compagnia di Sergio Fantoni, ma il tutto si bloccò per difficoltà varie tra le quali il numero dei personaggi.
Ma qui stiamo parlando di teatro, mentre io intendevo parlare di giornali. Quando e in che modo approdasti a «Settimo Giorno»?
Per caso, come la maggior parte delle cose che mi sono capitate. Eravamo alla vigilia del Natale ’53, ero uscito sbattendo non tanto metaforicamente la porta dal deludente «Cinema Nuovo» dove avevo resistito pochi mesi. All’annuncio delle dimissioni il direttore Guido Aristarco prima pianse poi mi giurò odio eterno e mantenne il giuramento. Al collega redattore Tom Granich, mio fraterno amico, andava chiedendo con insistenza cosa sarei andato a fare. A Tom suggerii di dirgli che mi avevano scritturato come cantante dei Rocky Mountains al “Santa Tecla”. Non possedendo il minimo senso dell’umorismo, Guido prese la notizia sul serio e commentò: «Lo sapevo che sarebbe finito così…». In realtà stavo tornando a Trieste con le pive nel sacco quando incontrai in Piazza del Duomo Franco Berutti, un giornalista che lavorava a «Settimo Giorno». Mi disse: «Ho parlato di te a Ezio» (ovvero Colombo, il direttore) «e lui mi ha detto: che venga a trovarmi…». Ci andai e fui assunto in cinque minuti.
Descrivimi la scena.
Arrivai in via Ripamonti, una plaga sperduta di Milano sud che nei lunghi anni successivi non ho mai visto se non velata di nebbia. Entrando nel famoso stanzone, dove era assiepata tutta la redazione, vidi Rocca a quel tempo redattore capo che aveva in mano le cianografiche bluastre, la prova della copertina con Umberto di Savoia e la famiglia reale in esilio. Avevo sempre odiato la monarchia e i giornali che la rimpiangevano. Provai una stretta al cuore e mi chiesi: dove sono capitato? La tentazione immediata fu di fare dietrofront, ma sopravvennero rapide ulteriori considerazioni: «In fondo cosa mi costa?
Vedrò dall’interno come funziona un grande settimanale… Resterò un due o tre mesi». Insomma accettai e ci rimasi sette anni.
Te ne sei pentito?
Sì e no. Quasi subito mi accorsi che il grande settimanale era piccolo piccolo, fatto con due lire. L’editrice Ottavia Vitagliano, chiamata da tutti “la Signora”, l’aveva ereditata da qualcuno che era in debito con lei. In rapporto alle forti tirature di «Eva», che la Signora dirigeva personalmente firmandosi Sonia, «Settimo Giorno» era il parente povero sempre in perdita. Per cui strigliate a
Giovanni Vallon (a cura di)
non finire al meschino direttore che ne soffriva atrocemente. Finché poche settimane dopo il mio ingaggio arrivando nel corridoio degli uffici vidi Colombo seduto su una panca e l’emergente fotografo Mario Dondero che gridando «Direttore! Direttore!» gli tirava dei tremendi schiaffoni… Non era una litigata, era un volonteroso tentativo di rianimare il poveretto, svenuto dopo l’ennesima diatriba con “la Signora”… Quando Ezio riuscì a tirarsi su, lo portarono in clinica e al giornale non tornò più. Per merito di san Enzo Biagi, protettore di tutti i colleghi sfortunati, trovò poi un posto di redattore a «Epoca» e spero che abbia vissuto meglio perché era una brava persona. Direttore fu nominato Rocca, che durò qualche anno e se ne andò in seguito a un drammatico confronto con la redazione nel quale io (sono parole sue) eguagliai il Marc’Antonio di Shakespeare rovesciando la situazione e inducendo la Signora a licenziare il direttore e sostituirlo con il mai abbastanza elogiato Pietro Bianchi.
A sentirti raccontare queste vecchie storie, viene spontaneo dirti: perché non le scrivi? Lo sto facendo. Scrivo un libro sui miei anni a Milano, titolo Fiori chiari e fiori oscuri ; oppure Milano, l’odio e l’amore.
Va bene, per sapere tutto aspettiamo il libro se mai arriverà. Qui però dovresti dirmi in sintesi il bene e il male della tua esperienza a «Settimo Giorno». Era una redazione di sei o sette persone (non come oggi, che sono in metà di mille), inclusa la segretaria Marcella e l’archivista Alfredo Novarini, padre di una bimba che poi sarebbe diventata Rosa Fumetto. Oltre al Berutti che mi aveva tirato a bordo, un archivio vivente di nozioni cinefile e americane in genere, c’erano tra gli altri Emilio de’ Rossignoli, poligrafo infaticabile, il futuro poeta Raffaello Baldini, Pierpaolo De Monticelli poi storico segretario di redazione de «Il Giorno». In prospettiva, rispetto all’ignoranza e all’ignavia che regna oggi in molte roccaforti della carta stampata, devo riconoscere che la pattuglia sperduta di via Ripamonti era formata da grandi giornalisti.
Cosa hai imparato a «Settimo Giorno»?
Ho imparato che duro pane è quello da conquistare giorno per giorno rispettando l’orario. Ho imparato che i padroni ti imbrogliano quanto possono, a diventare professionista ci ho messo anni. Ho imparato che anche i buoni e bravi possono rivelarsi meno buoni e perfino cannibali quando si sconta insieme la stessa pena. Però ho imparato subito a passare gli articoli, leggendo e all’occasione correggendo (soprattutto dopo l’arrivo liberatorio di Pietrino) gli articoli di firme anche importanti: Arbasino,
Dai settimanali alla televisione
Parise, Soldati, Testori, Italo Pietra e via enumerando. Ho imparato a fare i titoli, un’arte che non tutti i giornalisti possiedono. Ho imparato ad affrontare le situazioni di emergenza (la morte di Coppi, i colpi di scena del processo Montesi, le alterne vicende di Lascia o raddoppia ). Ho fatto il negro, scrivendo per altri che firmavano. Ogni tanto mi sono anche firmato (non ti offendere) Giovanni Vallon. Ho subito il divieto a occuparmi di cinema, spiegabile solo con verminose rivalità interne. Ho fatto l’errore, per ripicca, di rifiutare la rubrica di critica televisiva che sarebbe stata la prima in Italia (la fece poi, molto bene, il romano Franco Rispoli). In cambio mi sono fatto un nomino come critico teatrale, irrompendo da guastatore nella consorteria degli scribi togati.
E i rapporti con Sonia?
Mi sfruttò, negò sistematicamente i miei diritti, non pagò i contributi, ma quando tornai guarito dopo un intervento chirurgico offrì a tutta la redazione una cena al ristorante Giannino per festeggiarmi. E seppi, senza che lei me lo dicesse, che aveva scritto ai medici per raccomandare di trattarmi bene. Apprezzai molto la sua finezza al termine della cena, quando al momento dello champagne disse: «Non possiamo brindare dopo quello che è successo oggi… (era affondata l’“Andrea Doria”). Salutiamoci con un sorso di vino».
Conclusione?
Quando ne uscii, nel ’61, per seguire Olmi nell’avventura della “22 dicembre” Pietrino mi rimproverò: «Non si lasciano i giornali!» Feci tesoro di quell’appello e non smisi mai di fare il critico. In seguito ho sempre pensato al periodo di «Settimo Giorno» come a un tempo perduto… Ma Proust ci insegna, non è vero?, che il tempo perduto diventa con il trascorrere degli anni un tempo ritrovato.
Giovanni Vallon (a cura di)
Venti anni in RAI
Vogliamo ora tentar di ripercorrere le tappe principali e magari cogliere qualche significato complessivo della tua collaborazione alla TV? Impresa pressoché impossibile basandosi sulla documentazione giornalistica… …anche perché, soprattutto da un certo momento in poi, non ho firmato i programmi che facevo come delegato alla produzione.
E per quale ragione?
Stupido snobismo. Sull’onda del ’68 tutti pretendevano il nome sui titoli, anche (si fa per dire) quelli che facevano le pulizie negli studi. Per reazione, a un certo punto ho deciso di non firmare più.
Si segnala la tua presenza nel ’62, dopo l’inaugurazione del Secondo Programma avvenuta il 4 novembre ’61. Vedo trasmesso il 3 maggio il tuo adattamento del racconto di Svevo Una burla riuscita ...
La direzione RAI era ancora nell’ex (e futuro) “Hotel de Russie” in via del Babuino. Mi chiamarono perché si era sparsa la voce che stavo preparando l’adattamento teatrale de La coscienza di Zeno, da principio destinato a Romolo Valli che doveva collaborare al copione. Nacque il progetto di allestire una Serata per Svevo, con Valli che nella prima parte intervistava nella sua casa triestina di via Montfort Letizia Fonda Savio, la figlia dello scrittore, e nella seconda interpretava Mario Samigli. Ovvero l’autoritratto ironico che Svevo fa di sé in Una burla. Figurati che questo tipo di programma andava tranquillamente in onda, allora, in prima serata. La regia fu affidata a Edmo Fenoglio e la realizzazione risultò accettabile; oggi, credo, il video non esiste più, l’hanno buttato via. Molto migliori furono comunque il rifacimento a colori che ne realizzò nel ’78 Mario Missiroli (protagonista Sergio Fantoni) e i susseguenti adattamenti teatrali promossi dal regista Egisto Marcucci, prima con Corrado Pani (che vinse un premio) e poi con Marcello Bartoli.
In ogni caso fu un inizio…
Al “Babuino” erano rimasti contenti e mi richiamarono proponendomi di sceneggiare un romanzo russo classico. In un primo momento si parlò di scegliere fra A nna Karenina e Delitto e castigo, poi cancellarono Tolstoj quando gli dimostrai che non si poteva togliere il suicidio finale. La RAI di allora era così, aperta alla cultura e perfino alle sperimentazioni, ma condizionata nelle scelte da impacci di natura confessionale. Decidemmo di fare Dostoevskij, ma io posi come con-
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dizione di avere nel ruolo di Raskolnikov l’emergente Gian Maria Volonté. Pur considerandolo un rompiscatole, e per di più comunista, a denti stretti lo accettarono. Il mio copione fu approvato, tranne per l’ultima puntata che avevo deciso di chiudere sulla confessione dell’assassino. Dovetti allungare il brodo con lo smorto capitolo della “redenzione” in Siberia, che avevo scartato anche per l’impossibilità di creare in studio un’ambientazione plausibile. L’abbinamento sbagliato di Volonté con il regista, il pur esperto Anton Giulio Majano, si rivelò subito fonte di scontri incandescenti. Ricordo con grande rimpianto una prova filata del primo episodio negli studi di Napoli, in cui Gian Maria si annunciava come il più straordinario Raskolnikov mai visto. Purtroppo il pubblico era destinato a non vederlo perché scoppiò una lite più accesa delle altre e Volonté, avendo malmenato un dirigente RAI che si era interposto come pacificatore, fu ghermito dagli uscieri e messo alla porta. Me lo raccontò al telefono, ancora tutto sconvolto, e tanto bastò perché decidessi di togliere il nome dalla trasmissione, sostituendolo con uno pseudonimo che a te dovrebbe suonare familiare…
E come andò a finire?
Nel frattempo, vista l’aria che tirava, Salvo Randone ovvero Porfirij si era chiamato fuori producendo certificato medico. Convocarono d’urgenza Ivo Garrani per affiancare Luigi Vannucchi, che aveva sostituito Volonté. In mezzo a tante traversie, Delitto e castigo ne uscì malconcio e la RAI lo cancellò d’urgenza dopo una sola messa in onda (nel maggio e giugno ’63) per evitare repliche che avrebbero risvegliato altre polemiche. In seguito alle repliche mancate ci rimisi un bel po’ di soldi che all’epoca mi avrebbero fatto comodo.
Poi niente fino al ’66...
Subii senza batter ciglio la quarantena imposta dalla RAI agli indisciplinati, tre anni alla fine dei quali si ricordò di me un giovane dirigente di sicuro avvenire, Angelo Guglielmi. Mi incaricò di scrivere il pilota di una nuova serie da lui inventata, Teatro Inchiesta , con un copione dedicato alla spia nucleare Klaus Fuchs. Lavorammo in sintonia con un regista pressoché esordiente, Piero Schivazappa, non senza suscitare malumori nei piani alti perché la tesi del mio copione (non so quanto condivisibile, non so neppure se oggi la sottoscriverei) piaceva poco. Sostenevo infatti che Fuchs era passato nel campo sovietico per assicurare la parità delle conoscenze nucleari fra i due grandi antagonisti dell’epoca e allontanare il rischio di un conflitto mondiale. Klaus lo incarnò molto bene Franco Graziosi e anche l’investigatore Tino Carraro recitò da par suo, pur stentando a memo -
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rizzare le battute. Anche in questo caso, una messa in onda e via, niente repliche. La formula della serie (scene ricostruite con gli attori, documenti, fotografie e quant’altro) ebbe successo e di “Teatro Inchiesta ” furono fatte molte puntate. Ebbi l’incarico di scrivere Il processo di Verona , accumulai una montagna di documentazione e poi il progetto si perse per strada.
Nello stesso 1966, in marzo, erano andate in onda le tre puntate dell’adattamento TV dello spettacolo teatrale da La coscienza di Zeno con la regia di Daniele D’Anza…
Un regista competentissimo e un amico che rimpiango, ma il risultato fu approssimativo perché non ci furono abbastanza prove per attenuare l’impronta teatrale nella recitazione dell’impareggiabile Alberto Lionello e dei suoi compagni, tutti ereditati dallo spettacolo creato da Luigi Squarzina. Per la versione TV scrissi qualche scena aggiuntiva.
Molti anni dopo, nel 1988, Sandro Bolchi rifece La coscienza di Zeno in forma cinetelevisiva e a colori… ...con Johnny Dorelli, bravissimo anche lui. Il mio copione fu adattato da Dante Guardamagna.
Per qualche anno hai presentato in TV alcuni cicli di film, soprattutto western… Era consuetudine articolare la programmazione cinematografica in cicli monografici presentati da critici, che trasformò la RAI nel più vasto cineclub d’Italia. La prassi si perse nel corso degli anni in quanto, come assicura non so su quali basi la Garzantina, faceva precipitare gli indici di ascolto che pian piano stavano imponendosi come l’unico criterio di giudizio sui programmi. Io continuo a pensare che 4 o 5 minuti di introduzione ai film non facessero un gran danno, ma la citata autorevole pubblicazione ha l’aria di deprecarli e sfotte noi presentatori d’epoca come “sacerdoti della spiega”. È uno dei casi, non infrequenti purtroppo, in cui l’odierno “culturame” vola in soccorso dell’ignorantismo dominante.
Nel ’67 inizia la tua attività di produttore televisivo… Mi arruolò a Milano il mercuriale Sergio Silva, futuro creatore di La piovra e di altre memorabili imprese televisive. Accadde perché andavamo dallo stesso barbiere…
Ti sei mai chiesto che cosa sarebbe stato della tua vita se ti fossi servito da un altro barbiere?
Dai settimanali alla televisione
Me lo chiedo tuttora. Diciamo che il caso gioca nel nostro destino un ruolo imprevedibile. Con Sergio, dopo esserci incrociati due o tre volte, ci presentammo e ci mettemmo a conversare. Lui ricordava i film di esordienti che avevo prodotto con Olmi alla “22 dicembre” e mi disse: “Perché non viene a farlo da noi?”. Da noi voleva dire là a due passi, nel palazzo di corso Sempione dove benché avessi solo un contratto di collaboratore mi assegnarono un ufficio e poteri quasi pieni sulle produzioni da mettere in cantiere. Lavorai benissimo sotto l’egida di Silva e di Angelo Romanò, saggista e poeta di squisita finezza, ma anche risoluto direttore di sede, tant’è vero che il comune amico Piero Chiara lo aveva battezzato “lo Sgherro brianzolo”. Il progetto era di trasformare il centro di Milano in un vero organismo produttore di spettacoli, autonomo dai condizionamenti di Roma. E per un paio d’anni fu davvero così. Ideavamo i programmi, li facevamo scrivere, sceglievamo il regista e i cast e seguivamo giorno per giorno gli allestimenti che si realizzavano negli studi al pianoterra sotto i nostri piedi. Dalla direzione generale ogni tanto recriminavano, ma in sostanza ci lasciarono fare.
Scorriamo la lista delle produzioni milanesi alle quali hai messo mano. Processi a porte aperte , una decina di puntate in onda dal marzo ’67. La formula era quella di far svolgere un famoso processo entrato nella cronaca in presenza di un pubblico che alla fine votava “colpevole o innocente”. Fu un successo… Merito soprattutto di Lyda Carla Ripandelli, una regista abile e inventiva che era stata assistente di De Sica. La formula fu in massima parte una creazione di Silva, i primi copioni li scrissero Fruttero e Lucentini, poi subentrarono altri sceneggiatori. Per ragioni di urgenza realizzativa scrissi anch’io, sempre coperto dalla firma Giovanni Vallon (il nome di mio padre e il cognome di mia madre), alcuni testi tra i quali Il barone dei diamanti (dove feci debuttare in TV Claudio Cassinelli, che iniziò così una bella carriera fino alla sua tragica morte sul set di un film), Io difendo Elvira Sharney (splendida apparizione di Valentina Cortese, mie liti impiccate con il nevrotico e geniale regista Silverio Blasi), Un delitto d’amore (grande numero di Valeria Valeri, che con mia grande vergogna fece assolvere fra gli applausi una gelosa uxoricida). Sulle esperienze di questa serie, quasi dal vivo, potrei raccontare molte cose; ma sull’esperienza TV in generale potrei addirittura scrivere un nutrito capitolo nel libro su Milano.
È una promessa o una minaccia? Sarà comunque per un’altra volta, dobbiamo stringere. Ti leggo alcuni titoli delle trasmissioni milanesi. L’ospite segreto da Conrad Per l’occasione costruimmo nello studio un’intera nave. Da un copione
Giovanni Vallon (a cura di)
di Oreste Del Buono, Eriprando Visconti (che avevo tenuto a battesimo sul grande schermo con Una storia milanese ) fece una realizzazione stilisticamente elegante, con una coppia di attori bene assortita, Giulio Brogi e Nino Castelnuovo.
Castelnuovo è anche il protagonista de Il mestiere di vincere , la storia di un pugile in tre puntate, regia di Gianfranco Bettetini. Avevo saputo per caso che Giorgio Cesarano, un poeta mandatomi da Romanò, aveva fatto il pugile dilettante. Proponeva un adattamento di Madame Bovary da scrivere in coppia con il suo amico Giovanni Raboni (vedi un po’ che bella frequentazione avevamo in corso Sempione…). Io dissi, invece: perché non racconti quello che sai sulla boxe? Ne uscì un copione eccellente che ebbe l’avallo di Duilio Loi, il quale si assunse l’incarico di preparare atleticamente Castelnuovo; e Nino, fra parentesi, si prese senza protestare dei gran cazzotti dai veri pugili che gli mettemmo di fronte. Per qualche settimana, arrivando in ufficio, mi capitava di trovare seduto in attesa alla mia scrivania il grande Duilio, che saltava in piedi, si metteva in posizione di combattimento e mi invitava: «Dottore, venga che le mostro. Mi porti il sinistro…». Ciò che intendeva mostrarmi erano i trucchi dei pugili per far male all’avversario senza che l’arbitro se ne accorga. Il bello del cinema è che ti può portare a incrociare i guantoni con Duilio Loi; o entrare nella gabbia della tigre, come mi capitò anni dopo in India con Sandokan. Per Il mestiere di vincere ci fu un’interpellanza neofascista in Parlamento contro una trasmissione che “disonorava lo sport”; e di conseguenza in RAI mi fecero tagliare una battuta chiave («Stavolta è proprio sporca, il manager ha venduto il match…»). A nulla valse contro quei cattolici intermittenti la mia protesta in nome di Pio XII che ex cattedra aveva condannato il pugilato.
Fruttero e Lucentini, Del Buono, Cesarano… E poi Mario Rigoni Stern, Raffaello Baldini, Carla Ravaioli. Noto che nella tua produzione in TV hai valorizzato parecchi scrittori...
Se i teatri stabili avessero praticato questa politica negli ultimi sessant’anni, oggi avremmo una drammaturgia al posto del quasi niente di cui ci lamentiamo. I miei modesti tentativi “telemilanesi” dimostrano che gli scrittori c’erano (come probabilmente ci sono anche oggi) e bastava offrirgli l’occasione, metterli alla prova, incoraggiarli nel loro lavoro. Del resto Cesarano ha fatto in TV altre ottime cose prima della morte che si diede volontariamente. Anche Baldini, autore di un curioso La macchinite sull’insana
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passione per l’automobile (protagonista incantevole Mario Carotenuto), ha scritto anni dopo dei preziosi monologhi in lingua romagnola.
E Rigoni Stern?
Il suo fu un caso particolare. Frequentandolo in quel di Asiago avevo scoperto che era un affascinante narratore orale e che molte delle sue storie non le aveva mai messe su carta. Progettai di scrivere a quattro mani con lui (che provvedeva alla sostanza, lasciando a me la forma) una serie intitolata Storie di guerra e di caccia, che per le solite cautele RAI diventò “ di montagna e di caccia ”. Ne scrivemmo tre o quattro e ne abbozzammo un altro paio. Il bracconiere, girato da Prandino Visconti, andò benissimo, fu lodato perfino dall’incontentabile critico de «L’Espresso» Sergio Saviane. Quanto a I recuperanti, alla revisione del quale mise mano il regista, ebbe la fortuna di diventare uno dei più bei film di Olmi. Chissà perché dopo tanti consensi non andammo avanti, ma in RAI succedeva così: le cose ti morivano fra le mani per il disinteresse della dirigenza.
Come e quando finì la tua esperienza televisiva milanese?
Con l’ordine di servizio dell’estate ’69 che trasferiva a Roma Romanò e Silva, una promozione intesa a smantellare il progetto dell’indipendenza produttiva della sede. Nel contempo arrivò la notizia che i contratti di collaborazione, incluso il mio, non sarebbero stati rinnovati. In pratica, la parola fine messa a una bella stagione creativa. Quasi contestualmente mi offrirono di trasferirmi a Roma con un incarico presso la Direzione generale. Per telefono Pio De Berti Gambini mi annunciò la nomina a direttore di non so quale settore, ma quando fui convocato per concludere mi offrirono invece un contratto per non meglio specificati “incarichi speciali”. Al momento non capii che era un modo per non mettermi in carriera e non concedermi alcun margine deliberativo, ma come amante della libertà la cosa mi andò benissimo. Soprattutto da principio, quando riuscii a promuovere contro le resistenze del sistema RAI San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani; e a illustrare, chiamando Franco Giraldi, un paio di piccoli classici della letteratura triestina, da La rosa rossa di Quarantotti Gambini a Un anno di scuola di Stuparich, ma anche Il lungo viaggio dai racconti di Dostoevskij e La giacca verde dal romanzo di Mario Soldati che quando lo vide disse: «Il mio film migliore lo ha diretto Giraldi». Con Franco ho fatto nel ’78 anche un ampio documentario intitolato La città di Zeno, programmato come prologo a una serie di trasmissioni a cura mia e di Claudio Magris intitolate Mezzo secolo da Svevo. Eravamo nel ’78, cin-
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quantenario della morte dello scrittore, e questi erano i programmi che si potevano fare allora alla RAI.
Altri momenti importanti?
Indimenticabile, veramente una svolta nella vita, fu la produzione di Sandokan, con ripetute trasferte in India e Malesia a fianco del regista Sergio Sollima e dello scenografo due volte premio Oscar Vittorio Nino Novarese. Anche grazie alla fortunata scoperta di Kabir Bedi, affrontammo fiduciosi le avventure e disavventure di una produzione destinata a un enorme successo. Ma queste sono vicende rievocate altre volte e che forse racconterò più distesamente quando ne avrò l’occasione.
Come ti sei trovato nell’ambiente RAI a Roma?
Ricorderò solo che negli uffici intorno al mio lavoravano personaggi come Andrea Camilleri che non aveva ancora inventato Montalbano, Alessandro d’Amico grande storico del teatro, Roberta Carlotto che poi accompagnò la parabola registica di Ronconi, lo studioso di simbologie e praticante di scienze occulte Lorenzo Ostuni, Claudio G. Fava, la simpatica Ivanka Veltroni madre di Walter e altre singolari figure. C’erano anche delle segretarie molto efficienti e altre molto carine… Il comune sentimento era quello di una vaga scontentezza per il modo avaro e distratto con cui l’azienda utilizzava le risorse umane, ma c’era anche il piacere di incontrarsi quotidianamente, di salire al bar dell’ultimo piano per prendere il caffè insieme, di informarsi reciprocamente sullo stato delle cose, di discutere… E poi c’era un passaggio ininterrotto di gente interessante, attori, registi, scrittori.
E la dirigenza?
Ettore Bernabei sarà stato un cane da guardia della DC, ma era un vero dirigente in grado di gestire l’azienda con mano di ferro e guanto di velluto. Fra i direttori di rete, Romanò fu all’altezza della sua reputazione, De Berti Gambini si mostrò sempre volonteroso e leale, ma quello con cui trovai una perfetta sintonia fu Massimo Fichera. A maggior gloria della RAI fece moltissimo, fra l’altro portandola a vincere la “Palma d’oro” a Cannes con Padre padrone. Per tutto ringraziamento la stessa RAI nel 2007 distribuì al Festival un libro celebrativo dei quarant’anni del film dei Taviani dove Fichera (vivissimo e operante in altro settore) viene allegramente dato per morto. Un lapsus indicativo di come considera il proprio passato l’irriconoscente e irriconoscibile RAI del terzo millennio.
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Anche a te ti hanno dato per morto?
Si sono limitati a lasciarmi andar via volentieri e dimenticarmi completamente dopo le mie dimissioni avvenute nel 1985, quando mi accorsi che il prodotto per cui mi avevano assunto, cioè inventare e promuovere film d’autore, non interessava più. Mi fa ridere l’attuale tardiva scoperta dell’esistenza di una quinta colonna berlusconiana dentro il palazzone del Cavallo, io ne ho constatato le losche trame fin dall’apparizione della TV commerciale difesa a spada tratta dai sedicenti socialisti craxiani. In pochi anni, scendendo in una finta competizione con le private che in realtà fu un asservimento imitativo dei loro aspetti peggiori, la RAI ha sofferto una caduta d’immagine e di stile che chissà se e quando potrà recuperare. Per quanto concerne la mia storia personale, ricordo gli oltre vent’anni trascorsi prima in margine e poi dentro l’azienda come un periodo ricco di incontri, viaggi ed esperienze. Tante volte ho pensato che invece di lucrare uno stipendio (sia pure modesto) per questo avrei dovuto pagare io!
Testimonianze
Morando Morandini
Storia di un critico in avanscoperta
Conosco Tullio Kezich da mezzo secolo, da quando, su invito di Guido Aristarco, nell’aprile del ’52 si trasferisce dalla natia Trieste a Milano con l’incarico di redattore-capo di «Cinema Nuovo». Nel settembre del ’53 assume l’interim della direzione della rivista e l’organizzazione del comitato di difesa di Aristarco e Renzo Renzi, arrestati su denuncia dell’autorità militare e tradotti al carcere di Peschiera con l’accusa di vilipendio dell’esercito per aver pubblicato il soggetto cinematografico L’armata Sagapò.
Su «La Notte», quotidiano pomeridiano milanese dov’ero stato assunto nel dicembre del ’52 come redattore unico degli spettacoli, dedicai al vergognoso e anticostituzionale evento mezza pagina di testimonianze, caso raro se non unico nella stampa quotidiana di allora. Probabilmente in quell’anno non ci si conosceva ancora, se non per telefono. Nell’ottobre del ’53 il venticinquenne Kezich pubblica a Trieste il suo primo libro Il western maggiorenne, che lessi subito. Ero anch’io un appassionato (ma incompetente) del “cinema dei cappelloni”, come allora si diceva.
Nel gennaio del ’54 Tullio dà le dimissioni da «Cinema Nuovo»: è, credo, il primo dei molti fuoriusciti dall’“Aristarchiano” quindicinale di cui era stato uno dei fondatori in qualità di consigliere redazionale accanto a Renzi. Passa così al settimanale «Settimo Giorno» della Vitagliano.
Nell’aprile del ’55 si sposa a Trieste con Laura de Manzolini Vidali detta “Lalla” (1924-1987) che diventerà presto una cara amica di mia moglie Laura. Insieme si divertirono per qualche tempo a scrivere sotto pseudonimo novellette per un settimanale femminile. Per Lalla è lo scherzoso e amichevole apprendistato di un’attività narrativa che si manifesterà con libri di racconti come Marina indiana (1977), Gruppo concentrico, (1985), il romanzo La preparazione (1982) e, uscito postumo, La nave di Jean (1987). Jean corrisponde a Giovanni, il figlio suo e di Tullio, nato a Milano nel 1956, che negli ultimi anni fu compagno di giochi dei miei figli sulle spiagge del Lido di Venezia1. Quando nell’ottobre del
1 «E lì si mescolano il rispetto dei meccanismi tradizionali della fiaba e visibili frammenti di memoria privata. [...] Che si liricizzi, che s’usi lo zucchero è fatale e inevitabile al “genere”,
’69 la famiglia Kezich si trasferisce a Roma, inevitabilmente i nostri rapporti si allentano. Nutrita dalla stima e dai ricordi comuni, l’amicizia rimane, ma a poco a poco si affioca. Quando nel 1987, stroncata da un aneurisma, improvvisamente Lalla ci lascia, la notizia ci stordisce come un’imprevedibile frustata e, specialmente per Laura, è faticoso il lavoro del lutto. Nel settembre del 1988 a Venezia La leggenda del santo bevitore, sceneggiato da Tullio Kezich col regista, vince il “Leone d’oro”. Porta la dedica «Ricordando Lalla». Era stata lei che aveva suggerito a Olmi di leggere l’omonimo racconto di Joseph Roth, sicura che gli sarebbe piaciuto. Nel 1989 esce postumo Il silenzio abitato, un’altra raccolta di racconti di Lalla Kezich. Tolto il primo, i libri di Lalla vengono pubblicati dall’editrice milanese Camunia di Raffaele Crovi nella stessa collana dove esce Ragazzo della Bovisa di Ermanno Olmi. La ricordo come una donna di classe, fatta di tenerezza pudica, di sommessa discrezione nell’attenzione ai problemi altrui, di una semplicità aristocratica con cui celava profonda cultura e intelligenza sottile e perspicace, non priva di leggerezza ironica ma intransigente. «Come un attore dai molti volti, l’invidia talvolta cerca di spacciarsi per il suo esatto contrario, l’ammirazione», scrive Leslie H. Farber. Nel mio caso, però, l’invidia per Tullio sconfina e si dissolve nell’ammirazione. L’invidia è un sentimento dolorosamente inutile, suggerisce Umberto Galimberti: non soltanto rabbuia, impoverisce, fa soffrire; per giunta è qualcosa che bisogna tenere nascosto, senza neppure il conforto che può venire dalla comunicazione. Ho sempre ammirato/invidiato Tullio per molte ragioni: anzitutto per la precocità, la disinvolta capacità di esprimersi anche oralmente, la sapiente organizzazione del proprio lavoro, ma soprattutto per il multiforme ingegno, la poliedrica attività. Tutte qualità che non possiedo: non sono che un critico, io, un recensore.
Precocità? Kezich ha 17 anni appena compiuti quando nel 1945 si guadagna come privatista, saltata la terza liceo, la maturità classica, e, nello stesso anno, all’ente Radio Trieste trasmettono una sua conversazione culturale sui drammi marini di Eugene O’Neill. L’anno dopo, sempre in quella radio triestina, esordisce come recensore cinematografico e vi lavora come sceneggiatore, intrattenitore attore e rumorista. A vent’anni è segretario di produzione per il film Cuori senza frontiere di Zampa con Gina Lollobrigida dove, con l’amico Callisto Cosulich, fa anche una parte in divisa militare2.
per perversi che si sia. Ma c’è anche un massimo di libertà. [...] La lirica di Lalla Kezich mi sembra quella del grande Palazzeschi di Perelà. Mica male» ( Folco Portinari).
2 Negli anni Cinquanta a Milano si scherzava sul terzetto dei critici targati CH; il terzo era Tom Granich che, presto passò, beato lui, a fare il pubblicitario.
Morando Morandini
Ha ventun anni quando su «Sipario» pubblica il suo primo articolo su una rivista di diffusione nazionale e comincia a collaborare al quindicinale «Cinema». Nel 1959 va in libreria il suo secondo libro – Il campeggio di Duttogliano, un racconto lungo pubblicato da Lo Zibaldone, più volte riedito. Sul set de La dolce vita tiene un diario di lavorazione che nel 1960 esce in una collana, curata da Renzo Renzi, dell’editore Bolognese Cappelli, inizio di una lunga collaborazione con Federico Fellini che si trasformò in una complice amicizia. Nello stesso 1960 segue le riprese in Sicilia di Salvatore Giuliano di Rosi e ne tiene il diario di lavorazione, pubblicato alla fine dell’anno, che arriva alla terza edizione.
Quando registi, sceneggiatori, produttori rimproverano ai critici di non tenere conto o di non conoscere la genesi di un film, cioè la fatica, i contrattempi, gli inconvenienti, gli ostacoli della sua lavorazione, hanno spesso ragione. Non possono farlo con Kezich. Ha lavorato con vari incarichi produttivi in Il terrorista (1963) di De Bosio e in I recuperanti (1970) di Olmi e per la RAI si è occupato della preproduzione della miniserie Sandokan (1976) di Sollima (con vari viaggi in India) e, senza firmare, di alcuni film-TV come San Michele aveva un gallo (1973-1975) dei fratelli Taviani, La rosa rossa (1973, da Quarantotti Gambini), Il lungo viaggio (1975) da Dostoevskij, La giacca verde (1981) – da Soldati, tutti diretti dal goriziano Franco Giraldi. «What a pity! » si dice con enfasi in inglese, mentre nella cattolica Italia si ricorre a «che peccato!». È una disgrazia, nel senso di perdita, che, fra i tanti, anche Kezich si sia dato inutilmente da fare, tra la fine del 1969 e i due anni seguenti, a convincere Giorgio Strehler a realizzare una miniserie TV dai Mémories da Carlo Goldoni. Ma quella dell’accanita riluttanza di Strehler (un altro triestino…) a cimentarsi con la regia audiovisiva è una storia che un giorno o l’altro qualcuno dovrebbe raccontare3 . Soprattutto negli ultimi vent’anni non gli sono mancati i riconoscimenti pubblici: una volta tanto la fortuna ha coinciso col merito. Mi limito a segnalare i due “Nastri d’argento” come uno degli sceneggiatori di Venga a prendere il caffè da noi (1970) di Lattuada e de La leggenda del Santo bevitore (1988) di Olmi.
Voglio, in chiusura, occuparmi del Kezich scrittore, anzi narratore (secondo me, tolte rare eccezioni, un giornalista è uno scrivente, non uno scrittore). Kezich lo era già, giovanissimo, nell’esordio de Il campeggio di Duttogliano (1959) che il suo editore Anita Pittoni definisce «la storia di un
3 Cfr. Tullio Kezich, A Portofino con G. Giorgio Strehler (1921-1997), infra.
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fallimento infantile» e «il primo capitolo di una difficile educazione sentimentale». Nel protagonista, il balilla Paolo Rancovich, che racconta in prima persona le sue disavventure in un campeggio della C.G.L.(in una zona che oggi si trova in Slovenia), non è difficile vedere un alter ego dell’autore. La stoffa del narratore è già evidente nell’esperta mistura di memoria soggettiva (persino familiare) e documento d’epoca, di gusto per l’avventura e precoce esigenza di giustizia, nella vivace concisione con cui schizza in poche parole i personaggi, nell’efficacia già teatrale dei dialoghi, perfino nelle forzature di un patetismo un po’ demagogico nella truce descrizione dell’ambiente, probabilmente frutto di un antifascismo proiettato all’indietro, dal presente al passato prossimo, ma anche di quella betise necessaria a un narratore di razza. Sono qualità che si ritrovano nei cinque racconti di ambiente cinematografico raccolti ne L’uomo di sfiducia (1962) e ripresi ne Il dolce cinema. Fellini & altri (1978). Escluso L’uomo di sfiducia, i racconti sono narrati in prima persona. A me interessano in modo particolare L’età che si dimostra e Le vite parallele. Nel primo prende la parola un’attrice famosa sul viale del tramonto; il secondo è la storia dei fratelli Giacomo e Renato Passi, l’uno divo del cinema a livello internazionale e l’altro, colui che racconta, un emerito sconosciuto. Il cinema italiano è ricco di storie di fratelli, e, dato il successo recente di alcuni film del genere, a qualcuno potrebbe venire in mente di farne la base di una commedia agrodolce. «La commedia italiana è la compiuta forma espressiva di un cinema narrato in prima persona e messo in scena in terza persona» scrive Aldo Viganò nell’introduzione a Commedia italiana in cento film4. Continua Viganò:
Erede della tradizione etica del realismo, ma sempre attenta ai meccanismi comunicativi del linguaggio popolare, la commedia italiana costruisce un mondo inevitabilmente caratterizzato dalla contraddizione e dall’ambiguità. Quello che propone è sempre, insieme un cinema “linguisticamente povero” (almeno in apparenza), e molto elaborato stilisticamente; soggettivamente descrittivo (al limite del cinismo) per impostazione programmatica e moralmente indignato negli esiti ideologici; originale nella struttura e nel tono narrativo e convenzionale nell’uso degli stereotipi della comunicazione.
Fatte le differenze tra letteratura e cinema, il discorso di Viganò si addice a Kezich soprattutto sulla capacità di sintesi e di coabitazione degli
4 Aldo Viganò, Commedia italiana in cento film, Le Mani, Recco, 1995.
Morando Morandini
opposti: uno sguardo esterno nel testimoniare, trasfigurandola, una certa realtà romana con un occhio triestino e mitteleuropeo, e uno sguardo interno che cede alla tentazione un po’ cinica di calarsi in quella realtà e di condividerla in una sorta di mimesi compiaciuta. Lo si legge, e quasi lo si vede, in L’età che si dimostra in cui, coniugando la spiccia bruschezza trasandata di un bravo giornalista con la sottigliezza psicologica di un narratore scafato, Kezich si identifica in una donna/attrice che va incontro alla vecchiaia come se fosse la cosa più inaspettata che possa capitarle. Motus in fine velocior. Badate alla costruzione narrativa, così l’incipit : «Lo devo ammettere: siamo molto amici, tutti, proprio tutti. Ci vogliamo bene, è la verità». La conclusione: «Io darei la testa nel muro, non sono mai stata tanto giù. Sono una debole, una deficiente, non mangio, non dormo, non ce la faccio a continuare così basta, basta, basta».
Non ho dubbi: nella misura del racconto breve, Tullio è un narratore di razza.
Lina Job Wertmüller
Per cravatta un papillon
Trieste riserva sempre sorprese. Sarà per quel suo essere cerniera fra Italia, imperi austroungarici e paesi slavi, per quel suo essere contemporaneamente, il sud di Vienna e il nord di Venezia per il particolare fascino di quella sua lingua piena di musicalità e accenti, per l’aria di mar d’oriente, per gli intrecci di storia cultura e poesia, insomma, Trieste genera ogni tanto personaggi sorprendenti. È la più italiana delle città del minicontinente Italia, ancora “mantello di Arlecchino”, come ci insegnavano alle elementari tanti anni fa, piena di “staterelli”, in quanto nessuna città ha mai voluto essere italiana tanto quanto Trieste. Personalmente ho sempre avuto una particolare attrazione e simpatia per i Triestini, e con loro i vari annessi e connessi. Mi basta pensare a Massimiliano d’Asburgo, il principe bello e sfortunato, e alla sua struggente storia d’amore e follia: l’infelice Maria Sofia riempiva le sale di Miramare di ululati di dolore mentre davanti al castello passava la nave con le spoglie del suo amatissimo principe dirette alla Cripta dei Cappuccini. O ancora a James Joyce, punta di diamante della letteratura del Novecento, che da Dublino approdò a Trieste, a prendere il tè da Italo Svevo. E i poeti... «Lina la cucitrice dalla veste rossa [...] a cercarla ancor m’aggiro solo pel porto come un levantino. [...] Padre che muori ogni giorno un poco...». Ebreo e ariano, scampato agli orrori della omonima Risiera di San Sabba, il poeta Saba riuniva nella sua malinconia «due razze in antica tenzone». Inoltre, per quel porto hanno risuonato i lastrici sonori della notte sotto i passi di poeti, scrittori, uomini di teatro, tra i quali il grande Giorgio Strelher... Insomma è da questa particolare cucina d’arte, d’umori e di sapori particolari che un bel giorno è arrivato Tullio Kezich. Conobbi Tullio a Milano. Dove? Ma è ovvio, nel camerino di un teatro. Fu da quello di Romolo Valli che mi arrivarono le risate allegre dei due. M’infilai curiosa e vidi Romolo che, struccandosi, rideva con un ragazzo. Com’era allora Tullio? Per tentarne un ritratto così, di prima impressione, devo confessare che sembrava uno arrivato in bicicletta, fischiettando, come avesse per cravatta un papillon. Intendo dire che lo ammantava un’aria gio -
Lina Job Wertmüller
vane, semplice e simpatica, di grande allegria. Seppi poi che era un critico. Non mi pareva possibile, con quella sua aria da studente! Ascoltare i suoi discorsi con Romolo era un vero piacere: quella grazia del loro italiano profumato di Reggio Emilia e di Trieste, quei discorsi ironici e brillanti, pieni di cultura e di amore per il teatro... In quei tempi anche un modesto aiuto regista poteva permettersi la cena dopo lo spettacolo e così, dopo aver mangiato, si tirava fino all’alba fra racconti e battute... Ore indimenticabili: li stavo a sentire a occhi spalancati. L’amicizia nacque allora, a prima vista, come l’amore.
Poi Francesco Rosi fece Salvatore Giuliano e Tullio era lì, in quella Sicilia fatta di gelsomini e di briganti. A Portella della Ginestra io e Tullio finimmo insieme dentro una buca con una terza macchina da ripresa che girava un’inquadratura della fuga dei contadini, con i cavalli che ci volavano sopra la testa. E anche lì, poi, dopo cena, dall’alto del monte Pellegrino, guardando le luci di Palermo, si passarono le notti a parlare di teatro, di cinema, e a ridere.
Quando lavorai con Fellini per 8 ½ e Giulietta degli spiriti Tullio era di nuovo là, per scrivere della lavorazione di quel set. Federico, infatti, si fidava solo di lui. Diventammo grandi amici, con lui e anche con Lalla, la sua adorabile prima moglie dagli occhi verdi e dal piccolo viso triangolare molto aristocratico, che smise di fare l’attrice per scrivere romanzi bellissimi. Più tardi nacque anche una grande amicizia fra Lalla e Job. Avevano un mondo letterario e una sensibilità che li accomunava, forse anche perché il padre di Enrico aveva una forte radice nella terza Venezia, quella Tridentina. Quando Lalla veniva a cena con Tullio, spesso si metteva a parlare fitto fitto con Enrico. Ecco allora che Tullio mi faceva il fatidico gesto delle corna, e giù a riderci sopra...
Tullio è stato quindi amico e grande critico, che però ha il torto di avermi levato per sempre il piacere di parlare male della categoria. Come faccio a parlare male dei critici, quando proprio un critico è stato il mio primo produttore?
Sissignore, esattamente in quella buca di Portella della Ginestra, parlai a Tullio del piccolo paese tra Puglia e Basilicata dal quale veniva mio padre: Palazzo San Gervasio. Era la prima volta che ci mettevo piede, e gli raccontai tutto d’un fiato cosa mi aveva colpito: l’oblomovismo; la diffidenza; la volontà di difendersi dai complessi nascondendosi dietro un’aria di supponenza; la melanconica grazia di quei paesi tagliati fuori dalle strade dove passa la storia; le donne pazienti dai grandi occhi neri e dall’inutile andare avanti e indietro per il corso a passeggiare, lasciando cosi passare la vita... Tullio mi ascoltò e poi mi disse: «Scrivi». E io tornai a Roma e scrissi.
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A Milano Tullio, insieme a Ermanno Olmi e Alberto Soffientini, avevano dato vita in partecipazione con la Edison a una piccola casa di produzione, nata dalla brillante attività documentaristica della sezione cinema Edison Volta. Tutto era cominciato con Il posto, il capolavoro di Olmi. Poi riuscirono a mettere in cantiere alcuni film di debuttanti, tra i quali Eriprando Visconti e Gianfranco De Bosio, un film di Damiani e altro ancora, fino a produrre L’età del ferro di Roberto Rossellini. Insomma, per un debutto era l’ideale, anche se quella società del “Nord” aveva poco a che fare con i problemi e i racconti del “Sud”.
Scrissi il soggetto in così poco tempo che mi vergognai di portarlo a Tullio tanto presto: aspettai dunque una decina di giorni prima di consegnarglielo. Ecco come cominciò la grande avventura. La mia piccola storia piacque, ma, malgrado fosse un film a basso costo, i soldi a disposizione erano troppo pochi. Se non ci fosse stata un’altra miracolosa combinazione non ce l’avrei fatta. In quel famoso viaggio in Sicilia, a veder girare Salvatore Giuliano, c’era con me Franca, la moglie di Nello Santi, il grande produttore della Galatea e mio meraviglioso amico. Andai a rompergli le scatole a Venezia durante il Festival e lo convinsi a entrare nell’avventura. Così, con l’associazione produttiva Galatea e “22 dicembre”, finalmente potei girare il mio film.
I primi produttori, come il primo amore, non si scordano mai: per questo Tullio, Nello, Ermanno e Alberto sono parte indissolubile della mia vita. Tutto questo potrebbe rimanere una cosa strettamente personale e basta, ma invece è importante sapere quanti giovani Tullio ha aiutato a debuttare, mostrando sempre un istinto da talent scout, oltre a una straordinaria generosità.
Tullio è un intellettuale abbastanza insolito in Italia: come pochi altri critici non ha mai perso il senso dell’umorismo, non si è mai fatto prendere prigioniero da gruppi o partiti, ha sempre messo la sua libertà al di sopra di tutto, pur essendo amico di tutto l’ambiente del cinema. Posso assicurare che la cosa non è facile. Anche se, in questi nostri tempi involgariti e ignoranti, i giornali danno allo sport cinque o sei pagine e alla critica di cinema e teatro a volte solo poche colonne (che si allargano solamente quando arrivano – per puri scopi pubblicitari – le famose star hollywoodiane), nell’ambiente la critica è sempre il primo temutissimo esame di un autore. Tullio, pur essendo sempre un uomo attento che valuta lo sforzo umano e finanziario che c’è dietro un film, dice sempre quel che pensa, con grazia, ma con lucidità.
Ama il teatro quasi quanto il cinema. Da vero appassionato sa valutare attori, sceneggiatori, registi, scenografi e musicisti. Qualcuno potrebbe dire
Lina Job Wertmüller
che è così per tanti critici, ma secondo me è una virtù di pochi. Secondo una vecchia leggenda il critico lo faceva in particolare chi aveva fallito come regista o come attore. Non ci ho mai creduto. Nel caso di Tullio poi sarebbe proprio assurdo. Si è sempre messo in discussione: ha sempre scritto libri, romanzi, biografie, commedie. Un’attività letteraria che non si è mai fermata, e questo intrecciandola con le mille avventure e disavventure della sua vita, fra le quali quella di perdere tutti i soldi che aveva messo come socio fondatore a causa del fallimento della “22 dicembre”. Per un paio d’anni dovette fare il giornalista free lance, e fortunatamente il lavoro non gli mancò mai: non ha mai chiesto lavoro a nessuno e se ne fa una gloria.
Poi, della serie: “Non bisogna mai sbagliare barbiere”, gli accadde di farsi la barba in un piccolo saloon dove un signore gli chiese: «Ma lei è Tullio Kezich?». E cosi per caso inizio la più straordinaria delle sue tante carriere, quella del produttore: Tullio in questa veste è infatti bravissimo. Per la televisione, l’azienda statale nella quale entrò grazie a quell’incontro, ha dato vita a moltissime produzioni di qualità fra le quali La rosa rossa, La giacca verde, Sandokan e tante altre... Magari facesse ancora il produttore!
Tullio era poi molto amato da Fellini, del quale ha scritto una bellissima biografia. Federico viveva circondato da migliaia di fotografie che distruggeva con rapidità. Ricordo che io stessa gli chiedevo di non annientarle e di restituirle a quei poveretti che, probabilmente, avevano speso un capitale dai fotografi per farsele scattare. Ma lui era implacabile: stracciava e buttava via nel tentativo di mettere ordine nella sua ricerca. Fu proprio Tullio, vivendogli per molto tempo a fianco, a identificare in Federico, mettendo in evidenza la sua natura di entomologo, il “complesso dell’assassino”, cogliendo il senso riposto di quella mania: per Fellini era fondamentale inseguire la corsa delle sue idee, prendendo appunti su pezzettini di carta che poi infilava in tasca. Che fossero appunti, fotografie o disegnini era indifferente: bastava che, appena girata la scena, quell’inquadratura o il primo piano di quel personaggio scomparissero nella loro versione cartacea. Faceva pezzettini di carta piccolissimi, come fanno i cani per seppellire i propri escrementi, o come fanno appunto gli assassini, con le loro vittime per far perdere le proprie tracce.
Kezich si è poi occupato di altre biografie. Ha scritto di Giorgio De Lullo e della Compagnia dei Giovani, e sta scrivendo da tempo con Alessandra, la sua seconda moglie, una storia congiunta di due grandi clan fra letteratura, teatro e cinema, L’arcipelago Cecchi d’Amico. Anche il grande vecchio Dino De Laurentiis si è rivolto a Sandrina e Tullio quando decise di far raccontare la sua strabiliante vita.
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Insomma Tullio ne ha fatte tantissime, e per tornare alle piccole cose, mi piace ricordare che per amicizia con Rosi, al quale è legatissimo, fece una apparizione come attore in Salvatore Giuliano, nei panni di un pretino di paese. Avrei tanto voluto averlo anch’io fra i clienti della mia casa di tolleranza in Film d’amore e d’anarchia, ma si limitò a regalarmi la sua voce per un cliente che entrando saluta le ragazze dicendo: «Buongiorno prostitute!».
È allegro, simpatico, e ha anche scelto benissimo le sue mogli. Lalla e Sandrina, due donne di grande grazia, dolcezza, ironia intelligenza e cultura. Ogni tanto riesce a strappare un po’ di tempo alle sue tante e febbrili attività di giornalista, critico e scrittore, tornando a scrivere per il teatro; qualche volta, con Sandrina riesce a venire a cena da noi, e, spessissimo di domenica sera, da Suso, dove Silvia d’Amico prepara delle cene deliziose.
Certo, gli anni passano, ma ogni volta che lo rivedo – che ci posso fare – non riesco a vederlo come un “vecio mascalzon”, ma mi ritorna in testa il ragazzo che arriva in bicicletta, fischiettando, con la cravatta a papillon.
Francesco Rosi
Francesco Rosi
Amico e complice
Conosco Tullio Kezich dall’aprile del 1961, quando cioè ci raggiunse sul set del mio film Salvatore Giuliano in Sicilia. Tullio lavorava a « Settimo Giorno» e aveva scritto un bellissimo diario di lavorazione de La dolce vita di Fellini, di cui era anche molto amico. Fabio Rinaudo, il capo ufficio stampa della Vides di Franco Cristaldi, il produttore del film, me lo spedì in Sicilia, per fare la stessa operazione sul film che stavo per iniziare. « Ma non lo conosco», azzardai io, forse un po’ preoccupato di avere un critico fra i piedi durante le riprese. « E che conta? Vedrai che vi piacerete». E ci siamo piaciuti subito. Il perché io, il mio modo di fare film, gli sia piaciuto lui ha avuto modo di scriverlo più volte, e gliene sono molto grato. Il perché lui sia piaciuto subito a me non ho mai avuto modo di scriverlo: questa è l’occasione. Sin dal primo incontro Tullio non mi ha dato mai l’impressione di essere il critico, lo scrittore che stava lì, solo per raccontare in un libro quello che facevo e come lo facevo. La lavorazione quotidiana su di un set è cosa tenuta di solito fuori da occhi curiosi che possano indagare e poi riferire, ma Tullio si presentò piuttosto come un collaboratore, come un complice, e tale fu fino alla fine del film. In particolare fu prezioso per la sua pratica di giornalista, che seppe utilizzare gestendo il rapporto con quei personaggi che tentavano approcci non sempre prevedibili. Conosceva perfettamente in cosa consistesse la lavorazione di un film e così fu utilissimo di fronte a qualsiasi questione si presentasse: insomma, un valido aiuto in più. I problemi, del resto, non mancavano, anche perché giravo il film nei luoghi dove si erano svolti veramente gli avvenimenti, e per giunta con molta della gente che li aveva vissuti nella realtà. Il libro che ha scritto sulla lavorazione del film, e quello che ha ampliato e integrato con la collaborazione di Alessandra Levantesi in occasione della presentazione del film restaurato al festival di Locarno del 1999, ne è buona testimonianza: un appassionante diario di una appassionante lavorazione di un film. Ma anche una indispensabile fonte di informazioni e di notizie da consultare per la necessità di un controllo storico. Tullio sa su Salvatore Giuliano tutto quello che la sua inesauribile voglia di sapere ha potuto sapere secondo le
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verità storiche accertate giudiziariamente e secondo le varie ipotesi che via via vengono fatte a partire dalle desegretizzazioni (ancora incomplete) dei documenti ufficiali a distanza di sessant’anni, per accertare la verità sulla strage di Portella della Ginestra, ma che non modificano, quali che siano, il senso del mio film.
Tullio ama il cinema profondamente e ne ha una cultura enciclopedica. Ha cominciato a scriverne da molto giovane, ha fatto il produttore con registi giovani e promettenti, la sua conoscenza del cinema è diretta, e ciò non guasta per un critico quando nelle sue critiche si fa interlocutore dell’autore. Ama il teatro, scrive belle commedie, libri, molti libri, quello su Fellini non l’ho invidiato solo perché questo sentimento non mi appartiene.
La singolarità di Tullio come critico, e che me lo fa sentire molto vicino, è che dal cinema si attende quel rapporto fra gli esseri umani che corrisponde alla mia ricerca come autore. In Sicilia diventammo amici, uniti dalla passione di capire come era successo e perché era successo. La sera, morto di stanchezza, allungavo i piedi sul tavolo del bar di Villa Igiea e piombavo nel sonno cullato dal parlottare di collaboratori e amici, mentre mia moglie Giancarla voleva sapere, penetrare negli intrighi impenetrabili della storia di Giuliano, e mi teneva sveglio intanto che Tullio mi proteggeva perché la mattina dovevo girare.
A Tullio mi unisce quell’avventura meravigliosa, vissuta per tentare di portare qualche luce nelle oscurità di cinquant’anni di storia; ma ci unisce, al di là dell’affetto, un rispetto e una stima reciproci, e un’ansia di essere all’altezza di un mezzo che racconta la storia assieme alla vita, e che, quando ci riesce, è insuperabile nel rappresentare in modo veritiero la realtà.
Ermanno Olmi
E rmanno Olmi
Tullio, “ Tullietto”, “ Tulliaccio”
Tullio, “Tullietto”, “Tulliaccio” (alla toscana!). Ma se ne potrebbero inventare altre di affettuose varianti intorno al nome di Tullio Kezich: e tutte sicuramente appropriate per via dei suoi poliedrici talenti insieme alla colorita vivezza del suo carattere.
Tullio Kezich in un disegno di Ermanno Olmi (anni Settanta).
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Infatti, la prima cosa da dire sull’uomo Tullio Kezich è che si sta sempre ben volentieri in sua compagnia. Perché, appunto, è una continua sorpresa e felice combinazione di attività professionale, di affettività e di mirabile divertimento ironico.
Comincio a dire la mia sulla mia prima “variabile”: il Tullio professionale. Lo conosco oramai da cinquant’anni: era l’autunno del 1959. Posso affermare con certezza che quello che fa lo fa perché in grado di farlo. Intendo dire che ha piena consapevolezza delle sue possibilità e non si avventura mai dove non ha una ragionata convinzione di riuscire a portare a termine le sue intraprese. Oggi, nella consuetudine del linguaggio corrente, si dice che è uno affidabile. E i risultati del suo lavoro, in tutto quello che ha fatto e ancora fa, sono lì dimostrarlo. Una volta, ma molti anni or sono, ragionando proprio su queste sue molteplici attività, mi disse perentoriamente: «Io però mi sento prima di tutto un critico cinematografico...» (Capisco, caro Tullio: «Variety» ti include tra i dieci migliori critici del mondo). Eppure i suoi testi teatrali, e tutti di grande successo, dimostrano senza la minima riserva che il suo estro nel fare drammaturgia dà esiti così solidi ed eleganti da confermarlo a pieno titolo drammaturgo di riconosciuta efficacia. E così è stato quando ci è capitato di lavorare insieme a un paio di sceneggiature per il cinema. E poi, sempre col nome Tullio – per l’ufficialità della circostanza – ha affrontato anche la scrittura di narrativa. Chi non ricorda il suo primo, quasi timido, esordio con il godibilissimo racconto Il campeggio di Duttogliano ?
E ricordo anche che mentre curavo la messinscena di Sonnambula alla “Scala”, nominando per non so quale motivo Tullio Kezich, il Maestro Gianandrea Gavazzeni precisò: «Quello de Il campeggio di Duttogliano ?». E qui, caro “Tullietto”, ora mi rivolgo direttamente a te e lascio ad altri il compito di dire dei tuoi meriti circa la tua attività di biografo. Infatti, il tuo Fellini è un libro fondamentale e memorabile sul grande Maestro. Come lo sono il “De Laurentiis ”1 e altri ancora.
Ma ecco che intanto ho introdotto la seconda “variabile” del tuo nome.
Chi è il “Tullietto”?
Era il 1960 quando ho sentito per la prima volta questo appellativo gentile. Sono a Genova e Padre Arpa (il gesuita del cinema) mi presenta a Federico Fellini che deve raggiungere Milano in macchina per la pre-
1 Tullio Kezich, Alessandra Levantesi, Dino. De Laurentiis, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2001 (n. d. r.).
Ermanno Olmi
sentazione de La dolce vita. C’è aria di capolavoro in odore di scandalo. Il Maestro mi offre un posto in auto così posso fargli da guida, arrivati in città, dove è atteso da un tale “Tullietto” per il pranzo. Durante il viaggio, nelle chiacchere tra Fellini e il suo collaboratore Fracassi ricorre spesso questo nome; ma io non oso chiedere chi è mai questo “Tullietto” che viene continuamente nominato.
Poi, come ben ricordi, giunti a destinazione (al “Savini” in galleria, quand’era ancora il “Savini”!), ho scoperto finalmente che quel “Tullietto” eri proprio tu. E anche a me, come ad altri vecchi amici, nei momenti particolari dove si rinnovano i legami d’affetto, viene naturale di chiamarti “Tullietto”: amico leale e sempre soccorrevole di premure appena ce n’è bisogno.
E infine ecco il “Tulliaccio”. Che di proposito ho voluto tenere come ultima nota perché si riferisce a una “variabile” che ne contiene due. Due facce della medesima connotazione caratteriale: il gusto irresistibile dell’ironia fino alla trasgressione e allo stesso modo il rigore del comportamento in tutto quello che fai. Per dirla alla buona: non hai mai ceduto a lusinghe o convenienze che avrebbero compromesso la tua dignità. E aggiungo, per dirla ancora più chiara: non ti sei mai venduto.
Caro Tullio, “Tullietto”, “Tulliaccio”, è stata davvero una fortuna conoscerti. E so anche che da questo momento mi capiterà sicuramente, incrociando i nostri comuni ricordi, di soffermarmi a pensare divertito per trovare ancora nuove “variabili” di appellativi per dirti la mia amicizia e il mio affetto...
Franco Giraldi
Tullio, Trieste e il cinema
Negli anni del liceo, a Trieste, cominciai a interessarmi di cinema. Eravamo alla fine degli anni Quaranta (conseguii la maturità classica nel 1950) e Trieste, la mia città, era amministrata da un governo militare alleato, in attesa dalla sistemazione definitiva dei confini fra Italia e Jugoslavia. Con i miei compagni di classe frequentavamo assiduamente i concerti sinfonici (in quegli anni vedemmo sfilare sul podio del nostro teatro il Gotha della direzione d’orchestra europea), leggevamo avidamente di tutto, passando da Hemingway a André Gide, ma il cinema era al centro dei nostri interessi. Eravamo discretamente competenti e informati, anche perché seguivamo le recensioni, sempre stimolanti, che Callisto Cosulich scriveva per il giornale cittadino. Il livello della cultura cinematografica a Trieste era alto anche perché Cosulich dirigeva la sezione cinema del Circolo della Cultura e delle Arti, caratterizzata da un programma sempre ricco e assortito. Per quel che mi riguarda, ascoltavo avidamente le recensioni cinematografiche di Tullio Kezich che venivano lette alla Radio Trieste. Mi interessava non solo l’analisi, originale e quasi sempre sorprendente, che Tullio faceva dei film, ma anche la quantità di informazioni e di notizie con le quali arricchiva la sua lettura dell’opera e che, a loro volta, mi spingevano a saperne di più.
Di Tullio la prima immagine che mi viene alla mente (siamo nel ’49) è di lui, attorniato da una piccola corte di amici, che passeggia nel Corso vestito con un Montgomery bianco. Non conoscevo ancora Tullio di persona, ma pensavo avesse ragione a vestirsi in modo originale perché faceva ormai parte del mondo del cinema: era stato assunto infatti come segretario di produzione nella troupe che stava realizzando sul nostro altipiano il film Cuori senza frontiere, diretto da Luigi Zampa. Gli interpreti erano Raf Vallone e Gina Lollobrigida. Alla stima insomma, da parte mia, si era aggiunta anche l’invidia.
L’anno dopo, mentre frequentavo la terza liceo, cominciai a fare il critico cinematografico sulla pagina triestina de «l’Unità». Conobbi Callisto e attraverso di lui, Tullio. Callisto mi invitò a collaborare con lui nell’attività
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Franco Giraldi
del cineclub, dato che spesso veniva chiamato a Roma come dirigente della Federazione Italiana dei Circoli del Cinema. Da quel momento cominciai a frequentare Callisto e Tullio: erano amicissimi e spesso andavano a vedere i film insieme. Trieste infatti era un osservatorio privilegiato per un critico cinematografico. In uno dei maggiori cinema cittadini venivano proiettati in lingua originale i nuovi film americani. Erano proiezioni riservate ai militari americani o al personale del G.M.A. ( Allied Military Governement), ma, grazie anche ai buoni uffici di Herbert L. Jacobson, persona molto colta e molto “liberal”, che dirigeva Radio Trieste, e che era amico e grande estimatore di Tullio, i due critici riuscivano ad assistere alla proiezioni.
C’era poi, nella sede dal partito comunista della Venezia Giulia, una sala cinematografica pubblica, il “Cinema del mare”, che proiettava con regolarità i film sovietici, sia i classici del passato ( Ejzenštejn, Donskoj, Pudovkin) che i film della produzione più recente. Trieste era dunque un osservatorio privilegiato che permetteva a Tullio e Callisto di essere molto più aggiornati dei loro colleghi del resto d’Italia sulle ultime tendenze del cinema sovietico o di quello americano
Imparai molto da una serie di saggi di Tullio su John Ford (“un sudista del nord”), su John Wayne, e sul “Western maggiorenne”1. Tullio scriveva inoltre per Radio Trieste dei radiodrammi gustosissimi sull’epopea del west attraverso i quali venni a conoscenza di personaggi quali Jesse James, o Wyatt Earp, o Billy the Kid. Mi ricordo anche le ballate in stile country che Tullio faceva cantare agli attori nella versione italiana. E siccome aveva una voce intonata ce le faceva sentire in versione originale a casa sua accompagnandosi al pianoforte, alternandole a volte con brani della tetralogia wagneriana (il suo cavallo di battaglia era ed è tuttora, nelle serate in cui si cimenta con Citto Maselli in esibizioni canore, Loge, hör! , in cui interpretava, in tedesco naturalmente, il dio Wotan nel finale della Walchiria).
Gli interessi culturali di Tullio erano onnivori e le sue giornate mi apparivano ricche e affascinanti. Anche se Tullio aveva solo tre anni più di me lo consideravo oltre che un maestro un fratello maggiore. Callisto e lui mi avevano in qualche modo adottato e fu per questo che cominciai a frequentare un gruppo di giovani intellettuali appartenenti alla borghesia colta della città. Era composto da ragazzi e ragazze brillanti, anticonformisti, sofisticati. Alcuni di loro erano anche artisti (pianisti, violinisti, pittori, scrittori) e fra loro la figura che più emergeva per intelligenza e “verve” era
1 Secondo la nota definizione data da Tullio Kezich nel 1953 e che fa da titolo al volume omonimo.
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quella di Giorgio Vidusso, pianista di grande talento e musicologo, al quale mi lega tuttora una grande amicizia.
Nel giugno del ’52, partii per Roma ed ebbi la fortuna si coabitare con Gillo Pontecorvo e Callisto nell’appartamento di via Massaciuccoli. Tullio, qualche anno dopo, si trasferì a Milano dove occupò un ruolo di prestigio nella redazione di «Settimo Giorno» e di «Cinema Nuovo». Per più di un decennio gli incontri con Tullio furono rarissimi (ricordo però una sua divertita visita al “covo” di via Massaciuccoli). Nel frattempo il mio tirocinio era proseguito con Gillo Pontecorvo, con Giuseppe De Santis soprattutto, e con Carlo Lizzani.
All’inizio degli anni anni Sessanta fui chiamato a collaborare, come regista della seconda unità, con Sergio Leone in Per un pugno di dollari. Dopo l’uscita del film, e dopo il suo grande successo, Tullio capitò a Roma e mi chiese di presentargli Sergio Leone. Immaginavo che Tullio, che aveva studiato e amato il western classico americano, avesse qualche riserva sul film e sulla prevedibile nascita di un genere similare in Italia. Ma l’incontro, che avvenne da Rosati in via Veneto, fu piacevole perché si creò fra i due una corrente di reciproca stima e curiosità.
Debuttai anch’io, sull’onda del successo del film di Leone, con un western, 7 pistole per i Mac Gregor. Tullio lo recensì con divertita indulgenza, ma non negativamente. In anni successivi capitò a Tullio (come del resto a Callisto) di essere molto severo nei confronti di un mio film che non gli era piaciuto. E questo mi rassicurava molto: i giudizi non erano condizionati dall’amicizia.
Nel frattempo Tullio era diventato produttore per conto della “22 dicembre”, della quale era stato uno dei fondatori, che produceva film come Il posto di Ermanno Olmi, Una storia milanese di Eriprando Visconti, Il terrorista di Gianfranco De Bosio.
Col 1967 era entrato alla RAI, all’interno della quale avrebbe svolto un ruolo preziosissimo come produttore di film d’autore. Fino a quel momento io avevo diretto quattro western di fila e mi accingevo a fare quattro commedie all’italiana. Tullio, quando avevamo occasione di incontrarci, mi proponeva, nella sua nuova veste di produttore, di abbandonare il cinema commerciale e di fare qualcosa per la RAI (quella di allora, che tutti ricordiamo con nostalgia, e che permise agli autori italiani di realizzare film fuori dalle leggi di mercato). Tullio, dunque mi suggeriva di dedicarmi a qualcosa che fosse legato al mondo e alla cultura delle mie origini. Io ero assillato dagli impegni, ma la proposta di Tullio mi attraeva perché riportava alla luce progetti che io consideravo chimere. Parlando di questa pro -
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spettiva Tullio si divertiva a prendermi in giro: «Smettila di guadagnare», mi diceva (sopravvalutando, credo, l’entità dei miei introiti), «voglio vederti povero e felice!».
Eravamo all’inizio degli anni Settanta e per tutto quel decennio Tullio sarebbe stato all’origine e all’interno (tranne un’eccezione) di tutti i film da me realizzati: come produttore, come ispiratore, come interlocutore.
Incontrando i miei colleghi dicevo spesso: «Pensate che lusso, avere come controparte Tullio Kezich!».
Io avrei voluto cominciare il nuovo corso con Un anno di scuola, dal racconto di Giani Stuparich, che avevo sognato di fare fin da quando ero partito da Trieste; invece, c’era già pronta, nella struttura della RAI diretta da Angelo Romanò, una sceneggiatura, della quale per un periodo si era occupato Sandro Bolchi, La rosa rossa, un romanzo breve di Pier Antonio Quarantotti Gambini e forse il suo capolavoro. Tullio mi propose di dirigerlo. Accettai con entusiasmo anche perché sentivo che quel mondo, quelle atmosfere e quei personaggi mi riguardavano da vicino.
Proposi a Tullio e a Pio De Berti Gambini di affidare la produzione esecutiva del film a un mio amico, Arturo La Pegna, che avevo conosciuto come produttore di pubblicità e che era un uomo intelligente, appassionato di cinema, di carattere allegro e spiritoso. Con Tullio diventarono immediatamente amici e partecipò ad altre nostre imprese Formammo un cast bellissimo con Alain Cuny, Antonio Battistella, Elisa Cegani, Margherita
Sala, Susanna Martinkova e una mia “scoperta”: il musicista e paroliere
Sergio Bardotti, fraterno amico di Luis Bacalov autore della colonna sonora del film. Ben presto si raccolse intorno a noi un gruppo di persone felici di stare insieme e di lavorare a un progetto che piaceva a tutti: ci sentivamo come in vacanza. L’euforia che provavo e quella del produttore La Pegna erano dovute, chissà per quali misteriose regioni psicoanalitiche, oltre all’entusiasmo per il lavoro, al fatto che in quella impresa, per noi due, era matematicamente esclusa qualsiasi possibilità di guadagno. Prendeva corpo il disegno mefistofelico di Tullio: renderci squattrinati e felici!
Durante la preparazione di un film il momento più gratificante è quello dei sopralluoghi che si fanno per trovare gli ambienti adatti alla storia che si vuol raccontare. È un momento in cui si è totalmente liberi di vagabondare seguendo il proprio istinto o la curiosità: si sa qual è l’obiettivo della ricerca ma non vi sono né itinerari obbligati, né una durata predeterminata, visto che si finisce solo quando si è trovato tutto ciò che serve. È un momento di incontri imprevisti, di sorprese, di prefigurazione di come sarà il film e, in molti casi, di nuove idee, nate dal contatto con la realtà concreta. Il piacere
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del sopralluogo, o dell’inchiesta, è tale che dopo non hai più voglia di viaggiare da turista.
Tullio condivideva con me l’entusiasmo per questa fase della preparazione di un film e tutti e due la vivevamo con un’allegria quasi adolescenziale. I momenti più intensi della mia amicizia con Tullio li ho vissuti proprio durante queste peregrinazioni durante le quali mi rendevo conto di come in Tullio convivessero con estrema naturalezza l’inflessibile rigore intellettuale e il gusto del gioco, dell’ironia e dello scherzo.
Ricordo il viaggio che facemmo per La rosa rossa nella primavera del ’72 in Istria, nelle terre in cui le tragedie del “secolo breve” avevano cambiato il destino di intere popolazioni. Eravamo divisi fra il piacere delle scoperte nel presente e i ricordi infantili che quei paesaggi risvegliavano in noi.
I sopralluoghi che facemmo in Polonia (lungo il confine con l’Unione Sovietica) e in Ungheria per Il lungo viaggio (tre racconti di Dostoevskij sceneggiati da Luciano Codignola) furono una scoperta diretta e non “guidata” (come avveniva, invece, essendo in una delegacija ufficiale) di lati nascosti e imprevedibili del mondo del socialismo reale; quando andammo a Trieste per preparare Un anno di scuola, riscoprimmo amicizie preziose degli anni giovanili, e ritrovammo anche il gusto di stare insieme come una volta.
Un giorno della primavera del 1978 durante la lavorazione de La giacca verde, mentre stavamo girando una scena in una chiesetta dell’Abruzzo, piombarono sul nostro set Tullio con lo scenografo triestino Sergio D’Osmo e con il direttore del teatro stabile di Trieste Nuccio Messina. In un’atmosfera di grande allegria, durante l’ora di pausa, fu proposto a Renzo Montagnani e a me di essere rispettivamente l’interprete e il regista della riduzione teatrale che Tullio aveva tratto da La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Fu un “blitz” inaspettato. Il gioco di Tullio riprendeva: disse a Renzo, che in quegli anni guadagnava molto interpretando commedie brillanti: «Quest’anno ti ho proprio sistemato, finanziariamente: prima pochi soldi per La giacca verde, adesso quattro lire per il lavoro in teatro…». In realtà Renzo viveva con grande felicità queste due esperienze nelle quali ebbe un grande successo personale (un premio a Taormina per La giacca verde e teatri esauriti per La coscienza di Zeno).
Arriviamo al 1978, anno in cui ricorre il cinquantenario della morte di Italo Svevo. Tullio con Claudio Magris allestisce per la RAI un programma monografico sullo scrittore triestino. Viene affidato a me l’incarico di fare un documentario-inchiesta sulla “Città di Zeno”. Per tutti e due è un viaggio nel passato di Trieste, nel nostro passato, e anche un po’ nel “sottosuolo” di questa città che potrebbe essere definita (come Dostoevskij
Franco Giraldi
definiva Pietroburgo) “astratta e premeditata”. Interroghiamo alcuni parenti di Svevo: la figlia Letizia, la cognata, altri parenti e un nipote, Fulvio Anzellotti, che ci racconta un vero e proprio romanzo, cioè quello che ha per protagonista Olga Veneziani e suo marito Gioacchino, inventore di una vernice sottomarina prodigiosa che non fa attaccare le alghe alle chiglie delle navi. In questa famiglia entra Svevo che sposa una delle figlie di Olga e Gioacchino Veneziani. Come scrisse Gillo Dorfles, la famiglia Veneziani fu “la reggia e la prigione” di Italo Svevo. Il racconto di Fulvio Anzellotti, sobrio, ma colto e pieno di umorismo, ci entusiasmò talmente che Tullio e io lo convincemmo a scrivere le cose che ci aveva raccontato. Qualche anno dopo, Anzellotti pubblicò un libro affascinante Il segreto di Svevo che racconta questa storia. Era nato un nuovo scrittore triestino...
Caro Tullio, ne succedevano di cose durante i nostri vagabondaggi!
Lino Carpinteri
Il ragazzo di Trieste
C’era una volta il “Nano Meraviglioso”. Così potrebbe cominciare la cronaca di una stagione ormai tanto lontana da appartenere al mondo delle favole triestine, con e senza morale, paurose o consolatorie, ma tali da sembrarci oggi quasi tutte inverosimili. Il titolare di quel curioso nomignolo da gnomo era allora Tullio Kezich, poi divenuto maestro della critica cinematografica nazionale, affermato drammaturgo, dottore honoris causa, autore d’una lunga schiera di libri nonché, a sorpresa, di quattro applaudite commedie nel dialetto natio. La sua multiforme vicenda artistica e professionale prese le mosse da una delle tante pubblicazioni nate nella Trieste dell’immediato dopoguerra: «Caleidoscopio», i cui ideatori, consapevoli di quanto effimera si sarebbe potuta rivelare la sua esistenza, avevano pensato bene di sottotitolarne la testata con le parole «Quindicinale student e sco (fin che la va) ».
Quelle quattro pagine erano uscite per la prima volta, con la data del 31 luglio 1945, dalla macchina piana della Tipografia Nazionale di via Giotto, il cui posto, quasi a ricordarci la vocazione di Kezich, qualche anno fa è stato occupato da un cinematografo. Dopo un avvio piuttosto in sordina, il favore del pubblico, consentì a «Caleidoscopio» di uscire, già dal numero 9 del 20 novembre, con cadenza settimanale. Il giro dei suoi collaboratori assidui si allargò a Mariano Faraguna e a me, futuri responsabili per più di cinquant’anni, de «La Cittadella», cui si aggiunse Kezich, che il 15 gennaio 1946 avrebbe inaugurato la rubrica Il Nano Meraviglioso racconta. Il bizzarro pseudonimo si richiamava alla parodia di un romanzo d’appendice pubblicata in un’altra pagina del giornale, ma non è da escludere che alludesse alla sua condizione di “muleto”, cioè di unico minorenne del gruppo, al tempo in cui la maggiore età si raggiungeva appena a 21 anni.
La precocità dei suoi molteplici talenti gli fu propria sin dall’infanzia. Nella commedia in dialetto Un nido di memorie, egli si specchia nel personaggio di un bambino portato dalla maestra in tournée dall’una all’altra Casa Balilla a recitare un discorso del Duce, accompagnandosi con la tipica gestualità mussoliniana, allora ben nota a grandi e piccini grazie ai
Lino Carpinteri
cinegiornali Luce. Forse, più che un omaggio, dev’essere stata un’esilarante caricatura, della quale erano inconsapevoli sia gli adulti plaudenti, sia il piccolo attore.
I “ragazzi di Trieste” approdati a «Caleidoscopio» (parenti stretti di quelli cui s’intitola un’ altra commedia di Kezich) erano stati pronti sin dai tempi della scuola a cogliere gli aspetti farseschi del regime, il che li incoraggiava a considerarsi veterani d’un rigoroso antifascismo. Ma, a conti fatti, s’erano limitati a considerare i fascisti dei grandi rompiscatole, spesso buffi, a volte pericolosi che, il sabato, li defraudavano del tempo libero imponendo loro di dedicarlo all’“adunata”.
Per me l’insofferenza e l’ironia si erano mutati in rabbia solo nel 1938, quando avevo 14 anni e la mia famiglia, qualificata “mista” cominciò a subire le conseguenze delle leggi “razziali” di cui sarebbero rimasti vittime quattro nostri cari deportati ad Auschwitz. I giorni dell’angoscia continua vennero con l’occupazione tedesca, quando un inatteso squillo del campanello o il rumore di un’auto ferma sotto casa con il motore acceso ci facevano gelare il sangue. Quali siano state, in quegli orrendi venti mesi, le esperienze degli altri giovani di «Caleidoscopio» non so con precisione: di Faraguna mi risulta che fuggì fortunosamente da un campo di lavoro sul Carso e di Kezich soltanto quanto traspare dal testo della commedia Un nido di memorie : l’incubo della grandinata di bombe a pochi passi da casa sua e una lunga, incancellabile pena che lo fece maturare anzitempo. (Qualche anno dopo avrebbe espresso un giudizio spietato sulla Trieste in cui «non c’era stato un maestro che avesse la voglia o la possibilità di farsi ascoltare, una guida alla quale affidarsi»)
Vingt ans après «Caleidoscopio», nell’affettuosa prefazione a un libro in versi triestini di Faraguna e mio, il terzo moschettiere Kezich così rievocava il tempo trascorso con noi nell’immediato dopoguerra: «Avevamo imprecise aspirazioni di giustizia, tutti insieme la pensavamo (o credevamo di pensarla) in modo diverso dagli altri; e anche fra noi, in fin dei conti, non eravamo d’accordo su molte cose, il nostro schieramento ideologico andava dal liberalismo ortodosso a una sorta di impegno socialisteggiante, protonenniano di tinta sentimentale. Quello che ci unì, sia pure per lo spazio di poche stagioni, fu il rifiuto deciso della retorica, la spregiudicatezza eletta a metro per saggiare la consistenza di qualsiasi fenomeno, il culto dell’ironia come schermo da ogni intemperanza fanatica»1.
1 Tullio Kezich, Introduzione, in Lino Carpinteri, Mariano Faraguna, Serbidiola, La Cittadella, Trieste, 1964.
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Diagnosi ineccepibile cui, a marcare la distanza tra noi e lui, seguiva la precisazione, poi puntualmente riconfermata in ogni altro suo scritto che ci riguardasse: «Da allora ho condiviso raramente i loro punti di vista». Vero anche questo, ma nella Trieste del 1946 non c’era stato spazio per distinzioni troppo sottili e il “Nano Meraviglioso”, nel suo pezzo di bravura L’ultimo tram datato 12 febbraio, che strappò ai lettori più d’una lacrima, prefigurava, senza saperlo, la tragedia di Pola di molti mesi dopo: «La nostra patria è qui. È facile qualche volta dire: se verranno “loro” noi andremo via, lontano… Ma che ne sarà intanto della mia patria? [...] Giù dalla camionabile di Opicina scenderanno autocarri carichi di truppa che verrà a prendere la città. Sui pennoni di piazza Unità la bandiera jugoslava e il tricolore con la stella rossa: la bandiera delle minoranze. Ma sventolerà per poco».
Dopo una ventina di puntate, la rubrica del Nano Meraviglioso, seguita con crescente simpatia dalla cittadinanza, fu pubblicata per l’ultima volta il 19 giugno, ma dal 31 agosto l’oramai popolare nome d’arte di Kezich ricomparve sotto diversi articoli, per lo più di critica a qualche manifestazione musicale o di prosa. Non di cinema, perché egli riservava le recensioni dei film a Radio Trieste, come a quel tempo facevo anch’io, e all’uno o l’altro dei numerosi giornali di vario colore cui il Governo militare alleato, all’insegna di un’ostentata quanto dubbia imparzialità, concedeva il permesso di uscire. Un ampio servizio intitolato Mostra e mostri del cinema a Venezia con molte fotografie attinte all’ufficio stampa della prima (e non ancora ufficiale) rassegna internazionale del dopoguerra, uscì nel «Caleidoscopio» del 21 settembre 1946 firmato – e fu l’unica volta in vita nostra – con il suo e il mio pseudonimo affiancati.
La passione per il cinema, non l’unica di Kezich, attratto sin da bambino dai concerti, dall’opera lirica e da ogni altra forma di spettacolo (l’avevo visto, quando ancora non ci conoscevamo, recitare nel Lungo pranzo di Natale messo in scena da una compagnia di universitari) era fondata su basi più solide delle mie, che si riducevano alla consultazione d’una copia di seconda mano della Storia di Pasinetti 2 . Perciò le mie recensioni erano spesso bersaglio delle sue frecciate.
Trieste aveva allora il privilegio di ospitare molti più film stranieri di altre città italiane, ma quelli inglesi e americani erano visibili solo nei cinema requisiti dagli Alleati. Di notevole interesse per la cittadinanza che, peraltro, anche nel caso di capolavori come Alexandr Nevskij di Ejzenštejn, se ne teneva lontana, era invece una nutrita serie di film sovietici, fatti arriva-
2 Francesco Pasinetti, Storia del cinema dalle origini a oggi, Bianco e Nero, Roma, 1939.
Lino Carpinteri
re in esclusiva per Trieste, dalla Jugoslavia. Li proiettavano al “Cinema del Mare” (ora al suo posto c’è il “Teatro Miela”) frequentato assiduamente da Kezich, da Callisto Cosulich, da me e da pochi altri.
A riempire lo schermo era spesso la figura imponente del georgiano Michail Gelovani, che, in una ventina di film preferibilmente diretti dall’altrettanto georgiano Čiaureli, impersonò il più famoso georgiano di tutti i tempi: Stalin, al quale – si diceva – somigliava così perfettamente da sostituirlo spesso anche nelle pubbliche cerimonie. A questo inquietante personaggio Kezich avrebbe dedicato più di mezzo secolo dopo la commedia Il sosia il cui testo, con la prefazione di Sergio Romano, l’articolista del «Corriere della Sera», già ambasciatore a Mosca, è stato pubblicato da “La Contrada Teatro Stabile di Trieste”, che ne ha proposto una lettura in palcoscenico accolta con molto favore dal pubblico e auspicabile premessa a una lunga serie di recite non solo a Trieste.
La vicenda del sosia che si identifica con il defunto “Padre dei popoli” sino a diventare la vittima sacrificale dell’inesorabile sistema incarnato da entrambi e, in definitiva di se stesso, è in buona lingua come gli altri lavori teatrali creati da Kezich prima di scoprire, alle soglie del terzo millennio e della sua quarta età, l’occasione di sfruttare il proprio talento scrivendo e, soprattutto, pensando in dialetto. Stranamente, ai tempi di «Caleidoscopio» nessuno di noi aveva particolare simpatia per il triestino: naturalmente lo parlavamo a casa e fuori, sia fra amici, sia con gli estranei appena conosciuti, ma vederlo stampato con le parole senza le doppie, il condizionale in luogo del congiuntivo e le frasi costellate dalle ics di “xe” ci infastidiva, sembrandoci roba da «Marameo», il giornale umoristico di quando c’era ancora l’Austria, o da avanspettacolo di periferia con i lazzi sugli ubriachi e le suocere. Difatti, sotto le vignette satiriche del nostro giornale c’erano soltanto battute in italiano. Non avevamo letto o forse non era ancora stato pubblicato il famoso elzeviro di Pietro Pancrazi con la fondamentale distinzione tra poesia “dialettale” e poesia “in dialetto” (ma il discorso vale anche per la prosa) e ogni scritto in triestino ci pareva non superare il livello delle scenette in vernacolo che comparivano nelle cronache giudiziarie delle “Ultime Notizie”. Per la verità, la nostra diffidenza era stata alimentata fra le due guerre dal proliferare di libri e libercoli di versi non “in dialetto” come le splendide poesie di Virgilio Giotti, purtroppo tuttora colpevolmente trascurate dai suoi concittadini, ma “dialettali” nel peggior senso del termine.
Non so quando né dove, ma probabilmente durante i lunghi anni in cui, lontano dalla sua città, veniva sopraffatto, dall’ondata del romanesco
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che erompeva dagli schermi, Kezich deve aver sentito la nostalgia del patrio idioma e ideato una dopo l’altra le sue quattro commedie da recitare in triestino, a cominciare, nel 1998, da L’americano di San Giacomo, che forse più ancora di Un nido di memorie, I ragazzi di Trieste e L’ultimo carnevàl esprime la triestinità dell’autore. A ispirargli quella commedia è stato un personaggio, che non poco ha in comune con l’habitat de Il sosia. Però quello, come suole avvertire Kezich, è il frutto d’una rielaborazione fantastica del divo sovietico che impersonò Stalin sugli schermi, mentre il deuteragonista de L’americano di San Giacomo, è il “sovietico di San Giacomo” Vittorio Vidali, riproposto con la sua autentica fisionomia di nato e ideologicamente maturato in quello che, ai tempi degli scontri con il fascismo dilagante, fu il più rosso dei rioni di Trieste.
Se Michail Gelovani fu la controfigura di Stalin, Vidali ne è stato, nella realtà storica, il fedelissimo “apostolo delle genti”, dalla Spagna della guerra civile al Messico, ultimo rifugio di Trotskij. Nel volume Il grande terrore 3 l’inglese Robert Conquest lo definisce «uno dei più formidabili killer», ma a Trieste – per quanto se ne sa – Vidali non ammazzò nessuno. Chi lo conobbe lo ricorda come un uomo alla mano, abilissimo nell’accattivarsi anche gli avversari politici. Dopo la scomunica di Tito decretata da Stalin, fu inviato dal Kominform nella nostra città per liquidare la corrente filojugoslava del partito comunista ed egli alla vigilia delle prime elezioni amministrative del 1949, ebbe il colpo di genio di far precedere i suoi comizi, dalla canzone Vola colomba, nota per i versi «… fa che il mio amore torni, ma torni presto», scopertamente allusivi al ritorno di Trieste all’Italia. Di lui, per la simpatia umana che riusciva a suscitare negli ambienti più disparati, si sentiva spesso dire: «Trieste gà solo che due òmini: el Vescovo Santin e Vidali», frase divenuta un luogo comune non meno diffuso di quello sulla scomparsa delle mezze stagioni. (La realtà fu meno romantica: giunto a Trieste per non dar tregua ai seguaci di Tito, quando i successori di Stalin si riconciliarono con la Jugoslavia, Vidali, in quella stessa Trieste, andò alla stazione ad accogliere con tutti gli onori un inviato di Belgrado).
Ne L’americano di San Giacomo Vidali incarna una figura di rilievo del comunismo internazionale ma, anzitutto, un triestino di razza, in contrasto, vivace quanto inconfessatamente affettuoso, con un concittadino ed ex compagno che in America, anzi “nella ’Merica ”, si è americanizzato, anche nel modo di esprimersi. I dialoghi fra i due sono sono un capolavoro di ge-
3 Robert Conquest, Il grande terrore: le “purghe” di Stalin negli anni Trenta, Rizzoli, Milano, 1970.
Lino Carpinteri
nuinità, naturalezza del linguaggio e ironia aliena dagli ammiccamenti al folclore. Non voglio rubare il mestiere di critico all’autore, ma ringraziarlo d’aver attinto a piene mani al nostro antico “lessico amicale” che, al pari di quello “famigliare” della Ginzburg, «ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro come fratelli, nel buio d’una grotta fra milioni di persone». Al termine di un nostro fugace incontro a Roma, dopo che Tullio, nel congedarsi, aveva riesumato una delle formule di saluto di quand’eravamo ragazzi, cui era seguita la mia automatica replica con la controparola di rito, rimanemmo per un po’ a guardarci in silenzio. Avrei ritrovato quella e altre insostituibili malinconie nella sua ultima appassionata opera Una notte terribile e confusa 4 , di cui è ancora una volta protagonista l’eterno “ragazzo di Trieste”.
4 Tullio Kezich, Una notte terribile e confusa, Sellerio, Palermo, 2006.
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Francesco Macedonio
Come diventammo amici
Per i cinefili goriziani, Tullio Kezich, che aveva dato dignità al western con il suo bellissimo libro Il western maggiorenne, era un mito. Tino Ranieri, il primo critico cinematografico triestino che conobbi e frequentai, mi parlava spesso di lui.
Il mio primo incontro con Kezich avviene sulla scena teatrale. Stavo provando Chi va col negro, un atto unico di Vittorio Franceschi, all’Unione
Ginnastica Goriziana. Maria Pia Bellizzi, protagonista di Hello di fuori di Saroyan, l’altro atto unico che avevo abbinato a quello di Franceschi, arrivò senza preavviso con Tullio Kezich. A causa della mia timidezza, preferivo che nessuno fosse presente alle prove. Figuratevi la mia emozione quando seppi che in platea c’era il famoso critico! Non interruppi le prove nemmeno una volta e lasciai che gli attori arrivassero alla fine dei due atti. Kezich si complimentò con tutti noi. Pensai che forse non voleva deluderci.
Qualche tempo dopo, quando il Teatro Stabile di Trieste portò a Roma
Le maldobrie, spettacolo teatrale tratto dai celebri racconti in triestino-istrodalmato-veneto di Carpinteri e Faraguna, i due autori mi portarono a casa sua. Parlai poco. Ascoltai, invece, i tre amici ricordare il tempo passato, quando tutti e tre facevano teatro: « Magnime el cul ! 1» era la tipica espressione triestina che ricorreva spesso nella conversazione.
In seguito, rividi Kezich all’aeroporto di Roma. S’era fatto crescere una folta barba nera, che gli dava un’aria professorale, un’aria severa. Ci siamo scambiati un cortese saluto e nulla più, come avviene con le persone che incontri di tanto in tanto e con le quali non ti ricordi se ti davi del lei o del tu.
La nostra amicizia ebbe inizio un’estate, quando gli telefonai per chiedergli qualcosa su un film che non conoscevo bene. Prima di salutarlo, non so come, gli chiesi se per caso avesse scritto o pensasse di scrivere un testo teatrale in dialetto triestino. «Noi de “La Contrada” – gli dissi – abbiamo
1 Espressione dialettale triestina utilizzata come intercalare ed esprimente meraviglia, divertito entusiasmo (n. d. r.).
Francesco Macedonio
assolutamente bisogno di un bel testo per inaugurare la stagione». Con mia grande sorpresa mi rispose che proprio in quei giorni aveva riletto degli appunti, anzi l’inizio di un racconto mai portato a termine, che pensava potesse diventare un testo teatrale. Era la storia di un suo zio antifascista di San Giacomo 2 , amico di Vittorio Vidali, che era dovuto scappare negli Stati Uniti. Mi disse anche che parlava in dialetto solo saltuariamente, con qualche amico, e che dunque aveva timore di non scriverlo correttamente. Tullio racconta che allora gli risposi: « Scriver in dialetto xé come andar in bicicletta, no te se lo dimentichi più! ». Scrisse L’americano di San Giacomo in poco tempo: « Perché te vedi, Cesco, Eduardo me diceva che una comedia te pol pensarla per anni e anni, ma poi te la scrivi in una settimana ».
Orazio Bobbio, da acuto amministratore e presidente del teatro fece un contratto con Tullio a scatola chiusa per una trilogia. Oltre a L’americano di San Giacomo, Kezich scrisse per noi Un nido di memorie e I ragazzi di Trieste I tre lavori abbracciano un periodo che va dal ’38 al ’54 e oltre. La trilogia è un ritorno di Kezich al dialetto, a certe parole, a certi modi di dire che sembravano dimenticati e che invece riaffiorano improvvisamente per restituirci la freschezza di un tempo che credevamo perduto. Un ritorno all’ingenuità dei nostri sentimenti che ci restituisce intatto il ricordo della nostra adolescenza e della nostra giovinezza. Un ricordo anche buffo, teneramente comico talvolta, delle persone che abbiamo amato e semplicemente conosciuto.
Tullio scrisse per noi anche L’ultimo carnevàl, che è praticamente il seguito di Senilità e in cui il personaggio principale è Italo Svevo. Si immagina nel testo che Angiolina, cavallerizza in un circo, sia ritornata a Trieste e Svevo l’abbia saputo. Kezich descrive così un loro immaginario ma credibile incontro.
Per Ariella Reggio preparò un atto unico, Italo Svevo, genero letterario raccontato da sua suocera un lungo monologo, nel quale si racconta che la suocera di Svevo sia stata invitata in una cittadina del Friuli Venezia Giulia o del Veneto per tenere una conferenza sul suo famoso genero. E invece di parlare di letteratura, con passionalità tutta triestina si lascia andare ai più banali pettegolezzi.
Dopo tutti questi incontri teatrali io e Tullio diventammo amici. Quando gli telefono, mi annuncio sempre dicendo: «Sono Macedonio». E lui esclama: «Oh, caro Cesco !».
2 San Giacomo è un quartiere di Trieste (n. d. r.).
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Lorenzo Codelli
If...
(Un ricordo fantasioso di Tullio)
Già da studente avevo iniziato a raccogliere dati sulla vita e la personalità di Tullio Kezich, sia dai giornali che attraverso conoscenze comuni quali Tino Ranieri, Callisto Cosulich e altri. Le notizie che fornisco qui di seguito potranno forse stupire il lettore abituato a teorie alquanto diverse sulla sua carriera. Ma posso garantire che nel mio archivio gemonese conservo, in 136 faldoni annotati, le schede, le testimonianze e i documenti d’epoca che comprovano tutto quanto mi accingo a scrivere. Ecco una breve sintesi cronologica, in attesa d’una trattazione in extenso di là da venire.
Tullio Kezich, dopo l’intenso periodo radiofonico e le prime esperienze come inviato alla Mostra di Venezia, pur tentato d’emigrare verso le capitali dei mass media sulla scia dell’amico Callisto e di molti altri intellettuali triestini, venne convinto invece da Tino Ranieri a mettere radici nella città giuliana. In quei primi anni Cinquanta, vi erano ancora scarsissimi spazi professionali per la critica e la storiografia nel campo del cinema, e ancora più ardua era la produzione cinematografica a livello non amatoriale. Ma grazie ad agganci con cineasti “ foresti ” come il promettente Michelangelo Antonioni, Kezich riuscì a fondare a Muggia, nel 1954, una compagnia di produzione denominata “1 maggio” (dalla data di fondazione).
Sulla scelta di Muggia come sede abbiamo appreso che fu dovuta al fatto che una cooperativa locale di pescatori engagés aveva proposto a Kezich di produrre un remake in dialetto istroveneto de La terra trema. Alla redazione della sceneggiatura Kezich coinvolse persino Umberto Saba, il quale però si limitò a fornire un titolo provvisorio al progetto: Sardòn spelà Quel film non entrò mai in produzione, in quanto la Cassa di Risparmio di Trieste, più volte sollecitata, negò i fondi.
Comunque, un anno dopo, Kezich con la sua “3 maggio” – aveva cambiato nome perché quello originario suonava un po’ filocomunista ai potenziali finanziatori – riuscì a varare il primo film di coproduzione italo-jugoslavo, La ragazza della salina, un mélo girato interamente sull’isola di Veglia e diretto da Veliko Bulajic, per l’interpretazione di Marcello Mastroianni,
Lorenzo Codelli
Irina Ramussova e Giovanna Ralli. Kezich però si dimise dalla compagnia prima della fine delle riprese. Tino Ranieri lo aveva coinvolto infatti nella fondazione, presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Trieste, del corso di laurea – primo in assoluto in Italia – di Scienze del Cinema.
Kezich passò quindi, in meno d’un anno, dal ruolo di assistente e coordinatore generale del corso quadriennale, a quello di docente incaricato degli insegnamenti sul western, il neorealismo, Hollywood, i cartoni animati, Louise Brooks. Dato il primato incontestato dell’ateneo triestino, nell’anno accademico ’57-’58 gli studenti italiani e stranieri iscritti al corso di Scienze del Cinema erano 574.
Nel frattempo Kezich non aveva affatto abbandonato l’attività giornalistica né quella cineclubistica. Fondò tra il 1957 e il 1959 due periodici, «Cine Novissimo» e «Critica Studentesca». Il primo era un mensile che venne pubblicato regolarmente per oltre un ventennio e che raccolse le migliori firme della critica nazionale e internazionale. Il secondo invece, attualmente edito sul web, costituì un trampolino di lancio per intere generazioni di giovani scrittori, sceneggiatori, registi. Io stesso vi pubblicai un elogio di Stanley Kramer, il mio primo articolo.
Nel 1963 finalmente Tullio Kezich riuscì a fondere i suoi molteplici interessi – scrittura, insegnamento e produzione attiva - in un unicum: il “Tergesteum Film Campus”. Grazie a notevoli finanziamenti – circa 38 miliardi di lire dell’epoca –, non solo di provenienza universitaria e di enti pubblici, ma anche di un pool di industriali illuminati della Venezia Giulia, Kezich lanciò un futuristico centro produttivo, didattico-sperimentale. I dieci ettari del “TFC”, siti a ridosso del parco di Miramare, attirarono centinaia e centinaia di cineasti, sia affermati che in erba.
Una vera Babele del cinema e delle arti che produsse inizialmente una media di 12 lungometraggi e 58 cortometraggi ogni anno. Kezich ingaggiò Giacomo Gentilomo per i corsi di regia e Sergio Amidei per quelli di sceneggiatura. A Callisto Cosulich affidò i seminari di teoria cinematografica e a Franco Giraldi gli stage di regia televisiva. Richiamò in patria da Hollywood il veterano Paul Henreid per fargli coordinare i corsi di recitazione. A Nino Crisman diede la cattedra di economia produttiva, a Leo Castelli quella di storia dell’arte contemporanea, a Lelio Luttazzi quella di swing e a Teddy Reno quella di sing. Si rivolse all’amico Giorgio Strehler, colonna del “Piccolo Teatro” milanese, affidandogli il laboratorio teatrale del “TFC”. Sulla scia degli altri docenti, Strehler colse l’occasione per ristabilirsi in permanenza nella sua città d’origine. Dall’autunno 1962 Strehler
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e Kezich presero in mano le redini del “Teatro Stabile di Prosa del Friuli Venezia Giulia” e lo lanciarono a straordinari livelli di eccellenza.
Kezich aveva inoltre creato al Castello di San Giusto nell’agosto 1961 il Festival Internazionale del Cinema d’Autore, una rassegna di grande successo che in poco tempo riuscì a surclassare festival rinomati quali Venezia, Cannes e Berlino.
A metà degli anni Sessanta, quando il sottoscritto iniziò a frequentare cineclub locali e ambienti universitari, le infinite attività cittadine di Kezich erano già entrate nella leggenda. I miei coetanei, interessati o meno al cinema, affermavano giustamente: « El gà salvà Trieste! El ne gà lancià in tuto el mondo! ». Per mia disgrazia, non riuscii a iscrivermi, ahimè, al “TFC”. Al durissimo esame d’ammissione – a capo della commissione ricordo il bonario Tino Ranieri, affiancato dai vispi Kezich, Cosulich, Granich, Fink, Tinazzi, Aristarco ecc. – fallii ben tre volte la prova. Dovetti così lasciare la mia città, abbandonando nel fiore degli anni quella wonderful cinelandia che l’universo intero c’invidiava.
Scritti di Tullio Kezich
Italo Svevo, genero letterario raccontato da sua suocera 1
Per Ariella Reggio
Questa conferenza non è mai avvenuta, ma avrebbe potuto avvenire qualche anno dopo la scomparsa di Ettore Schmitz, più noto come Italo Svevo, morto il 14 settembre 1928 in seguito a un incidente automobilistico presso Motta di Livenza. In quel momento Svevo – Schmitz aveva 67 anni non compiuti, sua suocera Olga Moravia in Veneziani ne aveva 76 (si spense a 84 anni nel 1936). Pur non essendo del tutto casuali i riferimenti con la suocera realmente esistita, il personaggio “io” del monologo è un parto della fantasia dell’autore e nasce da una lunga consuetudine con la vita e l’opera dello scrittore, nonché da una frequentazione della famiglia iniziata a Villa Veneziani nel 1940 e proseguita nel tempo.
Concediamoci di inventare che nei primi anni Trenta il circolo culturale di una città fuori Trieste, in Friuli o nel Veneto, abbia invitato Olga a parlare di un genero la cui fama letteraria si stava ormai espandendo. La scena semplicissima è quella classica delle conferenze: un tavolino con una sedia, su cui Olga potrà sedere o alternativamente alzarsi, una boccia d’acqua e un bicchiere. Un violino fra le quinte servirà a sottolineare, di tanto in tanto, la presenza (incuriosita, ironica, irritata?) del personaggio continuamente chiamato in causa, Italo Svevo.
Signore e signori, buonasera e grazie che avete voluto venire in tanti. È una cosa che fa piacere, non dico di no. Se non viene nessuno, penso che il conferenziere (guardate che faccio fatica a chiamarmi così) ci resta male. Ma anche la presenza di molta gente mette in imbarazzo. Perché se una signora deve parlare in pubblico e non è abituata, veniamo a dire il merito, insomma potrebbe non sapere da che parte cominciare. E per giunta noi triestini abbiamo la brutta, bruttissima abitudine di parlare in dialetto. Sicché tante volte succede che ci capiamo solo fra noi. Il fatto è che se parliamo in lingua ci sembra di darci delle arie. O di non dire la verità, di non essere sinceri. Questo l’ha scritto una volta anche Ettore, mio genero:
1 Questo monologo teatrale, prodotto da “La Contrada Teatro Stabile di Trieste”, doveva andare in scena per la regia di Francesco Macedonio, con l’interpretazione di Ariella Reggio, all’aperto a Trieste in piazza Attilio Hortis l’8 agosto 2004, ma la pioggia interruppe la performance e non ci furono repliche. Il testo è inedito.
Italo Svevo, genero letterario raccontato da sua suocera
«Noi triestini con ogni parola italiana mentiamo». E una volta tanto aveva proprio ragione. Due “meloni” – come li chiamiamo perché il “melon” con l’alabarda piantata sopra è il simbolo di Trieste –, quando si incontrano, questi due triestini, fosse pure a New York, fosse pure in Australia o in tanta malorsiga, attaccano subito a parlare dialetto. E fanno così non dico i nobili, che a Trieste non esistono, ma gli armatori, i padroni di casa, tutti, incluso il popolino. La signora in ghingheri e la portinaia. Per cui spero che mi perdonerete se ogni tanto sbrisserò sul dialetto. Sbrisserò, dal verbo sbrissare, che vuol dire scivolare… A proposito, quando sbrisso e qualcuno non capisce, che alzi pure la mano, senza complimenti, e mi sforzerò di spiegare la parola in puro toscano.
Non vorrei però che con questo preambolo vi foste fatti l’idea che sono timida. No, tutto sì, ma non timida. Una donna che manda avanti un’industria come potrebbe permettersi di essere timida? Anzi nella mia famiglia, e anche in fabbrica perché famiglia e fabbrica sono per me una cosa sola – quando mi alzo la mattina devo fare solo cento metri per passare dal caldo del letto al freddo dell’ufficio – per dire, no?, sul lavoro molti mi considerano una comandona. Questa parola l’avete capita, comandona si dice anche qui, no? Vuol dire una donna che così come parla, comanda. Dicono che è il mio difetto. Ma io mi domando se senza questo difetto sarei riuscita a tenere in piedi la baracca di questa benedetta ditta “Gioachino Veneziani” della quale vi parlerò. Perché merita, eh?, è qualcosa di speciale ed è la regina dei sette mari.
Veramente l’argomento della serata, come ho visto stampato sugli avvisi, sarebbe: “ Italo Svevo, genero letterario”. Chi ha tirato fuori questo titolo l’ha messo forse per divertirsi, per cior pal fioco. Si sa che esistono i generi letterari (lo so perfino io, che di queste cose non me ne intendo), ma a me è capitato invece un genero letterario. O meglio un genero letterato. Insomma, uno che gli piaceva scrivere, che appena poteva si metteva in un canton con la penna, il calamaio e i fogli di carta davanti. «Com’è nato questo matrimonio?» si domanderanno molti di voi. E chi può dirlo? È successo e basta.
Quello che vi garantisco è che Ettore come marito di mia figlia Livia non sono certo andata a cercarlo. Sappiamo che l’amore è cieco e poi, all’uso dei giovani moderni, hanno fatto tutto loro. Non certo come ai tempi di quando ero ragazza e andavo sempre da mamma a domandare: «Mamma, posso? Mamma, non posso?». Quando Livia – una delle mie quattro figlie perché così come mi vedete di figlie ne ho messe al mondo ben quattro, Fausta, Nella, Dora e Livia, più un maschio, Bruno, croce e
Tullio Kezich
delizia della vita mia; e non conto i due primi, maschi anche quelli, che sono morti subito, poveri angioletti. Sette gravidanze e scusate se è poco per una donna che ha sempre lavorato. Dicevo che quando Livia accettò la corte di Ettore Schmitz, io la misi in guardia. «Ha tredici anni più di te, tredici, non uno; tant’è vero che ha solo nove anni meno di me. Sta attenta poi che è tuo cugino, sia pure di secondo grado, e i medici sconsigliano. Ma soprattutto è un impiegato povero in canna e viene ad attaccare il cappello da noi arrivando diritto da una famiglia a remengo ». Il papà, sior Francesco, brava persona non dico, ma in affari un lole. Vedo là una mano alzata… Richiesta di spiegazione? Sì, d’accordo, un lole è un incapace, uno specialista in affari sbusi. Afari de chebe, diciamo noi. Affari, insomma, di quelli che finiscono col fante del tribunale che viene a sequestrarti i mobili di casa.
Figuratevi che questo povero Francesco Schmitz non andava neanche male in commercio, ma si era rovinato comprando una vetreria in Austria. Insomma, dico io, sei un commerciante che lavora in tutt’altro ramo, cosa vai a metterti nei vetri? E poi tutti sanno che i vetri si rompono. Porta anche disgrazia, no? E disgrazie quei poveri Schmitz ne hanno avute tante. In quella casa di corso Stadion, poca salute e lutti a ripetizione. Ogni momento i paramenti neri e il mezzo portone chiuso. Anche quello, un segno del destino. Il fratello Elio, un morto in piedi, ma in piedi proprio per miracolo fino al momento che è diventato un regolare morto sdraiato e pace all’anima sua. A ventitré anni, roba che stringe il cuore, el se gà distrigà, come diciamo noi. Voi dite “si è districato”? O non va bene detto così? Insomma, ha reso l’anima. E figuratevi il dolore in famiglia. E lui, Ettore, Tajé come lo chiamava questo suo caro fratello che lo ammirava in maniera addirittura esagerata, ne parlava sempre e si aspettava da lui chissà che cosa. E invece Ettore era un kìbiz – giusto, mi spiego subito – un tirapiedi, un impiegatuzzo alla Banca Union, Unionbank, quella in piazza della Borsa. Otto ore al giorno alla scrivania a tradurre la corrispondenza dal tedesco e la sera, ubriaco di sonno, di corsa a dar lezioni alla scuola di commercio di Revoltella. Per mia figlia avevo o no il diritto di sperare in qualcosa di meglio? Ditemi voi se ho torto.
Gentile, educato, quello sì. Da bambino ha avuto la Kinderstube alla tedesca, l’hanno tirato su bene. «Buongiorno, signora», «la scusi signora», «i miei rispetti, signora». Ma dietro tutti questi indoramenti, sempre con quell’aria di remenela, quel modo di chi sotto sotto di te se la ride. Quell’aria che ha continuato ad avere per tutta la vita e vi giuro che gliel’ho vista in faccia perfino quando stava morendo. Quell’aria che a me, per dire la veri-
Italo Svevo, genero letterario raccontato da sua suocera
tà, mi ha sempre fatto tanta rabbia. È stato lui che ha messo in giro la storia che io facevo, con rispetto parlando, i miei bisogni nelle caldaie e che quello sarebbe stato il segreto della pittura verde.
Adesso non vi posso raccontare tutto per filo e per segno perché il segreto è segreto; e se mi scappasse di dare troppi particolari, la concorrenza mangerebbe la foglia e addio esclusiva della pittura sottomarina per la ditta Veneziani. Ma qui salto di palo in frasca, se non riuscite a starmi dietro ditemelo. Allora cominciamo dalla ditta, che poi è sempre il fatto più importante, quello che ci tiene sani e allegri e ci dà da mangiare a tutti. E fra genitori, figli, nipoti, dipendenti, impiegati, operai, serve, giardinieri siamo un esercito. In fabbrica mi hanno fatto una festa, giorni fa, per un certo mio compleanno, non dico quanti. L’operaio incaricato del brindisi ha alzato la coppa chiamandomi «mamma, maestra e padrona». Belle parole. E tutti a gridare: «Viva siora Olga». Bravi furbi, però a me non mi comperate con quattro complimenti, volevo ben dirgli: «Vi conosco, mascherine». Ma ho tenuto la lingua a freno e mi sono goduta i battimani, anche se so che tanti di quelli, se potessero, se non ci fosse un governo che ci difende, le mani le tirerebbero su col pugno. Ve la raccomando, la classe operaia. Però alla fine, per dirmi che non mostro l’età che ho, mi hanno cantato Giovinezza Tutti in coro. Speriamo che facciano il bis quando verrà a Trieste, come ha tante volte promesso, sua eccellenza Mussolini. Ma devo parlarvi della ditta, che ha vissuto e continua a prosperare sul segreto della pittura sottomarina. Il vero inventore della pittura verde è stato Pepi Moravia, mio padre. Lui trafficava in smir, sapete che cos’è, quel grasso orrendo per le ruote. Una materia povera, che non fruttava niente. Poi andando in caffè Pepi sentì certi capitani del Lloyd che mugugnavano contro le alghe, i crostacei e tutta quella fauna marina che si attacca alla carena della nave e fa perdere velocità, modo maniera che il viaggio di un giorno finisce per durare un giorno e mezzo; e ogni cinque o sei mesi bisogna andare in dock a far grattare lo scafo. Dicevano quei marittimi: «Ci vorrebbe qualcosa da spennellare sulla carena, ma di così schifoso da mettere in fuga i molluschi e fargli passare la voglia di tornare». A Pepi gli scattò l’ispirazione, mollò lo smir e cominciò a studiare questa nuova vernice. Era ingegnoso, bisogna dire, e masticava qualcosa di chimica. Provando e riprovando tirò fuori questa pittura verde che poi mio marito Gioachino perfezionò quando morto mio padre con qualche baruffa in famiglia ereditammo il segreto. E adesso la trovi dappertutto. Tutte le navi del Lloyd Triestino sono carenate con il nostro intonaco. Pitturiamo le navi dell’Ammiragliato Britannico, dove per la verità fu Ettore a concludere un gran bel
Tullio Kezich
contratto, pitturiamo gli yacht del re d’Italia e di non so quanti miliardari americani. Questa nostra fortuna si basa, come ho detto, sulla formula segreta. E il segreto lo so io e pochissimi altri nella cerchia ristretta della famiglia. Mi parve giusto confidarlo anche a Ettore Schmitz, che avendo sposato mia figlia ed essendo papà della mia cara nipote Titina, scalpitava per lasciare la Unionbank e venire a lavorare alla Veneziani. Sì, è vero che l’ho tenuto un po’ in sospeso, l’ho fatto sospirare un paio di annetti, ma poi, cosa volete, ho pensato che sarebbe stato anche interesse mio avere in ditta una persona sveglia come lui. Perché intelligente lo era, con tutti i suoi difetti, e con una cultura. Che quella magari in affari non serve, ma è meglio se uno non si presenta come un ignorante qualsiasi, no? Trovi magari il cliente intenditore di musica, o appassionato (cosa so?) dei romanzi russi, e allora lo inzìngani parlandogli delle orchestre, degli scrittori e alla fine gli ficchi meglio quello che sei venuto a vendergli. Oltre che intelligente e sveglio, Ettore era di quelli che avendo sentito il vento freddo della miseria sul didietro quando il destino gli mandava finalmente qualche buona carta sapeva come giocarsele.
Insomma una sera che eravamo a cena, tutta la sacra famiglia, dissi: «Ettore, vieni un po’ di là, in salotto, che parliamo». E quando siamo stati soli gli ho detto: «Ascolta la parola magica: ichitileia ». Lui sgranò tanto d’occhi, già li aveva grandi, basedowiani come li chiamano (lo avete presente nelle fotografie, no? due occhioni così) e ripeté con la voce bassa del congiurato: «Ichitileia?». E io mi misi a ridere e gli dissi: «Adesso che hai imparato questa parola, sai che cosa vuol dire? No? E lo credo bene, perché non vuol dire niente. È una parola che ho inventato per insempiar la gente. Sarebbe solo soda caustica Solvay, mescolata con acqua del rubinetto». I fusti della soda arrivavano di notte, senza etichetta, e venivano scaricati nella camera segreta. E poi aggiungevamo questa, che chiamavamo ichitileia, nelle caldaie dove avevamo messo a bollire le colofonie e la stearina. Bisognava che la temperatura fosse quella giusta, né un grado di più né uno di meno. E nei primi anni, adesso posso dirlo, i termometri erano truccati. Insomma mostravano una temperatura differente da quella vera. Bisognava saperli leggere. Eravamo in pochissimi a conoscere la differenza e fra quelli entrò a far parte Schmitz. Quando glielo spiegai, quella sera, gli dissi: «Guarda, caro Ettore, hai voluto sposare mia figlia, stupido non sei e spero proprio che tu sia onesto. Se il segreto lo racconti in caffè, andiamo tutti per rane. Te compreso, non so se mi spiego. Perché il vero segreto è…». Ma qui mi fermai perché mi era tornata in mente quella famosa ciàcola che mi aveva fatto tanta rabbia, ma anche un po’ ridere per dir la verità. Sicché gli dis-
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si: «Sai, Ettore, cos’è arrivato a dire in giro qualche spiritoso? (E sapeva, badate, che parlavo di lui…) Che io, quando mi chiudo tutta sola nella camera segreta, mi arrampico sopra la caldaia e faccio i miei bisogni…».
E lui, con il musorotto più incredibile: «Perché? Non è vero?» «Allora hai sentito anche tu questa voce che circola? E dove?» «In Caffè Specchi». «Ma non ti vergogni? Bei discorsi fate voi uomini in Caffè Specchi su dove pisciano o non pisciano le signore! No, caro, il vero segreto se vuoi proprio saperlo è detto in due parole…». E gliele sussurrai nell’orecchio. E lui, incredulo: «Ma è l’uovo di Colombo!» «E adesso che lo sai anche tu – gli dissi – dammi una mano e riempiremo il mondo di caldaie. Abbiamo filiali a Murano, Toulon, Marsiglia, Londra, Colonia. Non viaggerà più una nave sull’intero globo senza la nostra pittura verde al bordo dell’acqua. Ma zitto, eh? Zitto!». Approfittai del momento per fargli una ramanzina: «Sta attento, Ettore, che lavorando alla Veneziani non bisogna pensare ad altro. Mai distrarsi, aver sempre la testa là. E sta particolarmente attento, tu che hai passione di socialista, che ti farò lavorare anche il primo maggio». Mi disse commosso: «Macché socialista. Quello che vuole lei, mamma, e tante grazie». Per la prima volta (e forse ultima) mi chiamò mamma anziché signora. E poi, visto che non poteva fare a meno di buttare tutto in ridere, concluse: «Vuol dire che il prossimo primo maggio griderò: giù la bandiera rossa e su la pittura verde».
Come si comportò Ettore una volta entrato in fabbrica, in quell’ultimo anno del secolo, 1899? Mah, sembrava intento a fare del suo meglio, preciso, puntale, niente capricci né reclami. Ma una mattina sono là che faccio i conti con il ragioniere e cosa sento? Un violino. A me la musica non mi dispiace, ma in teatro, non in fabbrica per l’amor di Dio. Salto in piedi, vado in corridoio e grido: «Ma chi è che suona il violino? E anche stonazzando, mi pare. Stiamo diventando matti?». Vado dietro alla musica e arrivo davanti alla porta dell’ufficio di Ettore, la spalanco di un botto e me lo vedo là in piedi che suona. Mi guarda e dice: «È la Ciaccona di Bach». Capito? La Ciaccona, là in ufficio. Lui si comportava così, bisognava prenderlo com’era. Figuratevi che una volta trovai Livia in lacrime, «cos’è successo, figlia mia?». Era successo che Ettore le aveva appena detto: «Se uno di noi due muore, io vado a stare a Parigi». Ridete, ridete pure. Ma la vita non è un witz.
Vengo ora al motivo per cui penso che mi avete chiamato qua a parlarvi. Ovvero la cosa che mi interessa meno, cioè i romanzi che ha scritto mio genero sotto il falso nome di Italo Svevo (Italo perché si sentiva italiano, Svevo perché discendeva da un ceppo germanico e aveva studia-
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to a Segnitz). Bene, vi confesso (proprio perché «son triestina, son bona e sincera» come dice la canzonetta) che prima della sua morte non ho mai avuto la tentazione non dico di leggerli, ma neanche di aprirne uno. Questo insistere a scrivere, magari consumandomi la carta intestata della ditta e perfino le buste (con quello che costa la roba) mi pareva una debolezza di Ettore, una tentazione dalla quale un uomo serio avrebbe dovuto liberarsi. Per un po’ di anni mi diede tuttavia l’impressione di aver vinto questa sua mania. Poi scoprii che se non scriveva più romanzi, come aveva promesso e giurato a me e a sua moglie, scriveva di nascosto delle commedie. Peggio che andar di notte. Lui non disse mai niente, ma mi risulta che a qualche attore di passaggio al nostro “Teatro Verdi” il povero Ettore portò queste sue commedie o drammi che fossero. E se non gli risero in faccia fu perché era vestito a modo, gentile, insomma un signore che si presentava bene. Perché sono stata sempre contraria al fatto che Ettore scrivesse? Un po’ perché rubava tempo al lavoro, certo. Ma anche per un altro motivo. Pensate un po’. Il primo libro, stampato a spese proprie, quello che si chiama mi pare Una vita : neanche una copia venduta. La storia, come me l’ha accennata mia figlia Livia che i libri di suo marito gli toccava leggerli, è quella di un povero impiegato che si innamora di un’ereditiera ricca, spera di combinare un buon matrimonio, ma non ce la fa e si suicida. Non credo che Ettore si sarebbe suicidato se non avessi permesso a Livia di sposarlo, comunque gli è andata meglio che al suo personaggio. Del resto, stranamente, questa storia che somiglia tanto alla sua, lui la scrisse prima di incontrare Livia. Perciò a me, e a tanti altri credo, è venuto il sospetto che Ettore avesse proprio questo programma in testa. Trovare una ricca, sposarsela e mettersi a posto. E allora dico: perché raccontare i propri segreti pensieri, i fatti propri e anche un po’ le faccende private della gente che ti sta intorno? In quella che chiamano letteratura lasciatemi dire che c’è qualcosa di scostumato, di indecente.
Qualche anno dopo, nel ’98, pubblicò sempre a sue spese un altro libro, quello intitolato Senilità, idem con patate. Né lettori né articoli sui giornali, silenzio assoluto. La critica non uscì neanche su «L’Indipendente», che aveva pubblicato il romanzo in appendice. E a lui, naturalmente, gli calarono le ali. Voglio dire che per un po’ fu depresso, umiliato. Tranne che con questo secondo libro, peggio di quello che era successo col primo, vennero fuori tante ciàcole perché raccontava la sua infatuazione (prima del matrimonio, eh, per quanto anche dopo non deve essere stato un casto Giuseppe, ma lasciamo stare) per una poco di buono, una frufrù, una “mula de svolo” come diciamo noi a Trieste. Questa Angiolina Zarri (che nella realtà si chiama-
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va pare Giuseppina o Pina Zergol) l’aveva abbindolato come fanno quelle donne là, che ne sanno una più del diavolo, e dopo averlo bellamente preso per il naso, lo riempì di corna pur continuando a maltrattarlo. Proprio una bella storia di cui vantarsi, tirandola fuori e mettendola in piazza per fomentare le cattiverie della gente. E questo quando Ettore era già marito, padre e nel gruppo dirigente di una ditta seria come la Veneziani. Meno male che il libro non lo lesse quasi nessuno.
Tranne Beto Veruda, si capisce, il pittore amico di Ettore che pare viene rappresentato nel romanzo come uno scultore. Dio li fa e li accompagna, Veruda è un altro artista incompreso e capisco bene perché adesso che è morto da un pezzo, giovane anche lui poveretto, ho la casa piena dei suoi quadri recuperati da Ettore di qua e di là. Che non li posso vedere quei quadri, donne con tutto di fuori, uomini ributtanti, paesaggi tristi. Li avrei già fatti sbolognare se qualcuno non mi avesse raccomandato: «Signora, se li tenga stretti i quadri di Umberto Veruda perché fra qualche anno potrebbero valere un mucchio di soldi». Un mucchio di soldi per dei quadri dipinti da quel barabba? «Ben, signora, e Caravaggio allora?» «Caravaggio cosa?» «Non era forse un barabba peggio di Veruda? Caravaggio ammazzò uno perché l’aveva vinto in una partita a carte e dovette tagliare la corda; fino a Malta arrivò. Un assassino ricercato, ma questo non impedisce che oggi un suo quadro abbia un valore incalcolabile. E Beto Veruda, ammettiamolo, non ha ammazzato nessuno». Va bene, vuol dire che questi quadri me li terrò ancora un poco. Fino a che varrà la pena di venderli. Ma sapete cosa? Magari li faccio portare in cantina, così non mi urtano la vista con quelle modelle nude e altre porcherie.
Del resto Ettore fece trasportare tutte le copie dei suoi libri invenduti in soffitta, col rischio di un crollo perché erano tanti, per non farli mandare al macero come voleva il libraio Vram e forse era meglio. Credo che i libri siano ancora là. Magari anche quelli, chissà, acquisteranno valore. O, se mai, serviranno per fare un bel fuoco se dovesse arrivare un altro inverno freddo come quello del ’29. Ai primi due libri si aggiunse il terzo, La coscienza di Zeno, scritto dopo la guerra. Quello mi seccò ancora di più perché il cosiddetto Italo Svevo racconta di questo Zeno Cosini che va in visita a una famiglia dove ci sono quattro ragazze da marito e in una sola sera passa dall’una all’altra facendo a tutte la proposta di matrimonio. Figuratevi che qualcuno mi domandò: «Ma andò veramente in quel modo ridicolo, signora Olga, il fidanzamento di sua figlia Livia?». Questo ho dovuto sentire. E poi ci sono nel libro altre cose che mi hanno urtato, anche quel presentare la suocera, cioè io perché mi si riconosce benissimo, come
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una politicona, una maneggiona che pilotava figlie e cognati facendogli fare tutto quello che voleva lei. C’è poi un’allusione addirittura scandalosa, per fortuna sono due righe in un romanzo di cinquecento pagine, su Zeno che mi vede, insomma che vede sua suocera, in giro per le sconte, e lancia il sospetto che anche lei, come sta facendo lui, si dedichi ad amori fuori di pignatta. Ma come si è permesso? Che chi mi conosce sa com’è assurdo solo pensare… Dai, dai, lasciamo perdere. Se questa è letteratura, meglio l’analfabetismo. Giuro che fa meno danni, ve lo dico io. Senza contare che l’operaio più ignorante è, meno pretese mette fuori. E poi a me piacevano gli operai stupidi, erano una garanzia in più che il segreto restasse segreto.
Ora, a proposito di Barabba, dovrei parlare di quell’altro bel tipo, il professore di inglese, ma in realtà era irlandese, James Joyce. Vestito che pareva un strazzon, veniva in villa Veneziani a dar lezioni a Ettore, che poi l’inglese l’ha imparato da poter farsi obbedire dagli operai londinesi della nostra filiale di Chatam. Ma la lingua penso che l’abbia tirata su per conto suo (era un cattivo violinista, ma aveva orecchio) perché quelle lezioni erano più una chiassata che altro. Dietro la porta dello studio sentivo quei due che ridevano, si insegnavano l’uno con l’altro canzonette nostrane e irlandesi. Joyce aveva una bella voce e ogni tanto con una scusa portava la chitarra.
(canta) «When Irish eyes are smiling…».
E Ettore gli rispondeva con quella canzonetta che poi ha messo nella “Coscienza ”.
(canta) « Fazzo l’amor xe vero cossa ghe xe de mal?
Son giovine e son bela
E po semo in carneval! »
Lo so io cosa c’è di male a far l’amore fuori della famiglia; e pagherei per sapere quello che combinò Ettore quando rimase addirittura solo a Trieste durante la guerra perché era l’unico cittadino austriaco di tutti noi costretti a scappare in Italia. Ha tenuto in piedi la ditta, ha fatto buoni affari vendendo la pittura alla marina militare tedesca (cosa sulla quale poi, arrivando l’Italia, abbiamo cercato di sorvolare, da buoni patrioti). Ma c’è un racconto di Italo Svevo, intitolato La novella del buon vecchio e della bella
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fanciulla, dove un signore di una certa età, diciamo pure un vecio sporcaccion, approfittando di poterle offrire delle buone cenette se la spassa con una giovane tranviera. La quale, poveretta, muore di fame come mezza Trieste, la Trieste dei poveri. Un bel modo di fare conquiste, no? Ettore assicurava che era «tutta roba di fantasia», ma per inventare storie come questa (o i pasticci con Carla, l’amante di Zeno nella “Coscienza ”) scommetto che non ha dovuto sforzarsi molto.
Non nego che Joyce quando cantava mi piaceva, ma aveva una moglie Nora, impresentabile, vestita come una zingara, bevandèla anche lei. Bevandèla, insomma attaccata al bicchiere. In seguito l’illustre professore ha scritto anche lui dei romanzi che mi dicono pieni di porcherie. Ha avuto perfino dei processi, credo. Io in casa questi libri non li ho fatti entrare, eh, abbiamo anche dei ragazzi, dei nipoti che avranno tempo per imparare certo brutture. Joyce era il re di tutte le bettole di san Giacomo e dintorni, sempre a far bisboccia con gli imbriagoni, un bianchino dietro l’altro, una grappa sull’altra. Non so se lui riuscì a insegnare qualcosa d’inglese a Ettore, certo Ettore gli insegnò il triestino così bene che da un certo momento in poi questo illustre professore dei miei stivali parlava e scriveva solo in dialetto, roba da farli ridere tutti e due come matti. Il che non impedì che quando Ettore morì in seguito all’incidente di macchina, nessuno tolse dalla testa a Joyce che si fosse suicidato. Mah.
Mi dispiace, vedo dai vostri visi che vi ho deluso parlando così di Ettore come scrittore, ma non mi riesce di non essere sincera. E poi di letteratura non me ne intendo, forse qualcosa vale. Altrimenti il dottor Montale, che è un famoso critico, non sarebbe venuto fino a Trieste per riverirlo; e i francesi a Parigi, gli italianisants come li chiamano, non lo avrebbero messo sugli altari. Mi ricordo quando arrivò la lettera di uno di questi intelligentoni, che cominciava «Egregio signore e maestro…». Eravamo a tavola, un paio d’anni prima che Ettore morisse, e continuo a meravigliarmi che non sia morto in quel momento. Di gioia, si capisce. Ma anche di rabbia perché in un rigurgito gli tornò su tutto l’aglio che gli avevamo fatto mangiare, i triestini, noi di famiglia inclusi, trattandolo come un illuso, un povero dilettante. «Visto? – disse – Visto cosa mi succede, alla mia età?».
Sarà ricordando queste cose che qualche giorno fa ho buttato fuori di casa Bobi Bazlen, un giovane intelligente e anche a suo modo amico, fu lui che mandò i libri di Svevo a Montale. Ma non ho sopportato che dicesse in mia presenza due cose contrastanti, che tutte e due mi hanno urtato. Disse, guardandomi negli occhi come per contestarmi la mia responsabilità di ignorante incredula: «Svevo era un genio…». E poi aggiunse: «…e anche
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un gran mona». No, sul genio non sono d’accordo; ma nemmeno quell’altra cosa, quella parolazza che in casa mia non ho mai permesso si pronunciasse. Per cui ho detto: «Bobi (che nome de can, no? La mia cagnetta si chiama Bibi, roba da confonderli)… Bobi, lei la xe una linguazza. La vadi fora de casa mia e no la stia tornar ». Mezz’ora dopo era in Caffè Tommaseo che raccontava l’incidente come se fosse reduce da un’impresa gloriosa. Contento lui… No, vi dico la verità. Anche per finire questa specie di conferenza perché ho parlato troppo, più di quello che dovevo. Ettore mi ha fatto bazilar, è stato sempre (come dire?) imprendibile, incontrollabile. Ma alla ditta, alla famiglia ha dato tanto. E poi c’è la storia del rapporto che aveva con Bruno, quel mio figliolo maschio al quale vi ho accennato. Un ragazzo bellissimo, dotato per il pianoforte, dotato per la letteratura e perfino per la chimica. Dotato per tutto. Quand’era una specie di bambino prodigio, ricordo che Ettore diceva: «Eh, dentro quella testina rossa ci sono tante di quelle cose che ci faranno meravigliare…». Speravo, vi confesso che speravo, noi genitori siamo stupidi. Speravo che diventasse un grande concertista. Magari uno scrittore, se proprio voleva. Meglio un industriale capace di prendere in mano la ditta, sollevandomi da questo peso, e portandola a successi ancora più grandi. L’unico figlio maschio, capirete. E invece… Sbandato, incerto, comincia una cosa e non la finisce. Malato. Oh, Dio, non malato, ma con sortite strane, tendenze confuse, sempre vicino a una di quelle cose di nervi che a Vienna cura il professor Sigmund Freud. L’ho accompagnato io la prima volta nel suo famoso studio di Berggasse 19. Ma Freud non ha saputo fargli niente. L’ha mandato a Baden Baden dal professor Groddeck. Si sono perfino litigati, Freud e Groddeck, divisi sul modo di affrontare questo impossibile caso del dottor Bruno Veneziani. Che se la rideva contento, proprio come avrebbe fatto Ettore, in mezzo a quei due luminari che discutevano delle sue nevrosi senza concludere niente. Adesso Bruno è in giro per il mondo, chissà dove, e non mi scrive quasi mai. O solo per chiedere soldi. Prima, quando c’era Ettore, si faceva vivo più spesso. Loro si parlavano. Se volevo capire qualcosa di Bruno, dovevo passare per Ettore. Che si addolorò molto quando scoprì che Freud dopo tante sedute e tanti soldi che ci ha fatto spendere non aveva saputo tirar fuori niente da Bruno e l’aveva abbandonato nella sua disperazione. Io penso che da quell’esperienza venne al nostro Svevo la tentazione di prendere in giro la psicoanalisi nella Coscienza di Zeno. Non mi pareva tanto tragico il fatto di perdere Ettore, là all’ospedale di Motta di Livenza, non me ne rendevo conto. Ma poi ho capito che perdendo il mio genero letterato avevo perso un po’ di più anche mio figlio. Scusatemi, mi viene da piangere.
E questo va contro la mia regola: mai commuoversi in pubblico, mai dare segno di debolezza. E ora vi saluto perché a Trieste le caldaie della pittura verde mi aspettano. Sapete che se non ci sono io il segreto non si realizza… E grazie di essermi stati a sentire.
Fellini.
Biografia immaginaria di una coppia di ballerini che forse sono una persona sola1
Azione coreografica in due tempi
Avvertenza
Il sottotitolo di questo balletto, Biografia immaginaria di una coppia di ballerini che forse sono una persona sola, significa che Lui e Lei (li conosceremo presto) potrebbero essere (come da sviluppo dell’azione) una coppia destinata a incontrarsi e a condividere da un certo punto in poi le esperienze della vita; ma potrebbero anche essere le due anime (maschile e femminile) di un’unica individualità. L’evocazione delle loro avventure passa attraverso un immaginario fin troppo noto (quello del titolo), ma si avrà cura che la sua messinscena (scenografia, costumi, coreografia, musiche) non sia mai copia, imitazione, parafrasi o peggio caricatura degli evidenti riferimenti. Su tali suggestioni gli artisti che daranno vita all’azione (musicista, scenografo, coreografo, danzatori e mimi) dovranno muoversi nella piena libertà della loro vena creativa, reinventarsi in termini di poetica personale un mondo poetico altrui. Sicché il risultato dovrebbe essere uno spettacolo che assomiglia più o meno vagamente a qualcosa di conosciuto, che ne prende spunto, che lo ricorda ogni tanto e lo riflette a capricciose intermittenze. Un déjà vu mai visto prima.
Primo tempo
Preludio lunare
Ad apertura di sipario un nudo paesaggio suburbano sotto la luce argentata della luna, come nel terz’atto del Ballo in maschera. Lucciole, grilli, richiami di uccelli notturni. Brevissimo preludio musicale, i suoni incantati della notte, la magia che si mette all’opera...
Lo show televisivo All’improvviso squilli gioiosi, luci rutilanti e come se scendessero dalla luna (le indicazioni di scenografia e coreografia sono qui evidentemente sommarie, 1 Questo balletto andò in scena a Roma a Villa Borghese, Piazza di Siena, il 20 agosto 1994, prodotto dal “Teatro dell’Opera” di Roma (da un’idea del sovrintendente Giorgio Vidusso), per la regia di Micha Von Hoecke, con scenografie di Milo Manara e musiche di Nicola Piovani, per l’interpretazione di Jean Babilée, Natalia Markova, Valeria Marini. Il balletto venne ripreso in diretta da RAI Due. Il testo è inedito.
Fellini. Biografia immaginaria di una coppia di ballerini
solo propedeutiche a ciò che si potrà e vorrà fare...) ecco una doppia fila di danzatrici agghindate da esseri di un altro pianeta, una specie di rozzo e fastoso balletto selenitico, la versione ultramercificata e aggiornata al cattivo gusto televisivo dei grandi shows americani anni ’30. Gambe che vanno su e giù in perfetto sincrono e composizioni da caleidoscopio: il tutto, ostentato e volgarotto, culmina in un gesto di presentazione delle due “stars” della serata.
Mentre la musica cambia, appaiono ai lati opposti del fondo della scena due ballerini già piuttosto anziani: Lui in frac e cappello a cilindro, Lei con l’abito lungo delle grandi occasioni. Sono evidentemente due ex, una coppia di vecchie glorie dello spettacolo; e rappresentano insieme la memoria di se stessi e quella di un secolo di ballo tra il varietà e il cinema.
Si vanno incontro e vengono avanti insieme verso la ribalta con uno smagliante sorriso che non nasconde del tutto l’ansia di ripresentarsi al pubblico dopo una lunga assenza. Lui si appoggia misuratamente a un bastone, di cui appena arrivato in posizione si sbarazza con gesto noncurante consegnandolo a qualcuno, Lei sembra appena un po’ più sicura di sé. Le ballerine si collocano in un largo semicerchio intorno ai due solisti e li applaudono. Dopo i sobri inchini di ringraziamento, la coppia prende a esibirsi nei balli dei loro successi di una volta. Dapprima con cautela, poi con sempre maggiore disinvoltura man mano che le musiche trascorrono in ritmi progressivamente accelerati.
Il valzer. Il tango. Lo slow. Il tiptap. L’acrobatico. Cresce il compiacimento degli astanti, le ballerine battono ritmicamente le mani e festeggiano la fine del numero con entusiasmo ben simulato. Ancora inchini dei solisti, poi ubriacato dai consensi Lui commette l’errore di lanciarsi in un bis di esagerata difficoltà... Per qualche secondo sembra che ce la faccia, che superi se stesso e gli acciacchi dell’età, ma all’improvviso fa un cascatone tremendo. Di colpo la luce si azzera, l’occhio di bue di un riflettore centra implacabilmente l’anziano ballerino lì per terra sottolineando crudelmente la sua sconfitta e la conseguente repentina solitudine. Infatti tutti intorno sono svaniti, inclusa Lei, al modo dei fantasmi all’alba.
La spiaggia dell’adolescenza
Ed è veramente un’alba quella che sta nascendo sul palcoscenico, dopo l’argentatura lunare e le luci eccessive e abbaglianti dello show. Lui si alza a fatica, si guarda intorno ed è come se respirasse a sorpresa un aria diversa, che conosce benissimo e tuttavia non riesce a identificare così subito. Scalcia via il cappello a cilindro rimasto a terra, si toglie la giacca con le code e il cravattino e lancia
Tullio Kezich
ogni cosa fra le quinte. Intanto sul fondo è apparsa la linea inconfondibile dell’orizzonte sul mare risplendente: siamo sull’arenile di una spiaggia in una bella giornata solare di primavera inoltrata. Come colto dall’improvvisa tentazione di fare un bagno, Lui comincia a sbottonarsi i pantaloni ed è facilitato nell’operazione da un gruppo di scolaretti che irrompono in scena e lo nascondono. Quando riappare alla vista è anche Lui un monello di tanti anni fa, magari con un berrettuccio a visiera alla Jackie Coogan. C’è nel gruppo una gran voglia di divertirsi, correre, giocare e lasciar esplodere l’esuberanza dell’età. Si susseguono i giochi abituali sulle spiagge dell’infanzia. Le rincorse ad acchiapparsi, le staffette, i saltelli su una gamba sola, il cavalluccio, la moscacieca, la corsa nei sacchi, la sfida a nascondino. Nella conta si è stabilito che sarà Lui a cercare gli altri: lo mettono faccia al muro (alla ribalta?) con gli occhi chiusi e le mani che li coprono a contare fino a dieci. In questi pochi secondi si scatena la frenesia dei ragazzini, impegnati a inventarsi un anfratto lontano dalla vista del cacciatore; poi Lui ritiene di avere ormai il diritto di muoversi, tira giù le mani, apre gli occhi e comincia a cercare cautamente di qua e di là: prima a passettini silenziosi, poi a piccole corsette, tentando invano di scoprire dove si sono nascosti i compagni.
L’accenno di una musica diversa, un po’ insinuante, orientaleggiante, misteriosa sembra attirare la sua attenzione verso una zona del palcoscenico dove uno scoglio potrebbe celare qualcuno. Grande è la sorpresa quando al posto di uno dei giocatori infrattati ne spunta una figura femminile maestosa, imponente e discinta, quasi mitologica, che si abbandona pigramente a un ballo lascivo di tipo orientaleggiante, quasi una danza del ventre. Più che una donna vera sembra un sogno carico di pulsioni erotiche, la dilatazione fantastica di un’immagine vista al cinematografo e intorno a Lui che, subito ammaliato dalla nuova presenza, non riesce a distaccarne lo sguardo, ricompaiono uno a uno i monelli che si erano nascosti di qua e di là, tutti presi dal fascino della danzatrice solitaria. Stiamo assistendo a un improvviso quanto inevitabile rito di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, che prolunga il suo incantesimo finché la donna lo vuol mantenere vivo, divertita a tenere sulla corda quei ragazzini ancora così ingenui. Qualcuno, tra i quali il nostro eroe, si fa sotto alla danzatrice, tenta invano di acchiapparla e finiscono irretiti in una specie di coreografia dell’infatuazione e del desiderio di cui solo la Donna conosce tempi e regole. È come un lungo sogno, tenero e allarmante, ardito e inconcluso. Perché a un certo punto la bella sembra ormai voler sfuggire e comincia a sottrarsi ai suoi ammiratori, ad allontanarsi lungo la spiaggia seguita dai ragazzini in fila indiana... E se li porta dietro così, facendoli uscire di scena sulla destra, come se fosse un nuovo Pifferaio magico.
Fellini. Biografia immaginaria di una coppia di ballerini
Il piccolo circo
Sull’uscita dei ragazzini dietro all’incantatrice, dalla quinta in proscenio a sinistra è riapparsa Lei. Ha ancora il vestito lungo della prima apparizione, ma se lo sfila e ridiventa la ragazzina che è stata, con una maglietta a righe e un vecchio paio di pantalonacci tenuti su con lo spago. Dalla quinta qualcuno le passa una bombetta ammaccata e una lurida mantellina militare e intanto dal fondo entra in scena uno scassatissimo motocamioncino che sul tendone reca la scritta scolorita “Zirkus”. Lo guida lo Zingaro che ha una mezza calza in testa, un giaccone di pelle sdrucito e dei bracciali di cuoio con le borchie. Fermatosi al centro della scena, il tipaccio si accinge a scaricare ciò che serve per la sua esibizione: un tappetino bisunto, le catene, i mattoni, la bottiglia e lo stoppaccio per il numero del mangiafuoco. Seccato di dover fare tutto da solo, si guarda in giro cercando qualcuno e quando vede Lei le va addosso con violenza, la prende a scappellotti, le allenta un paio di calcioni; e Lei si affretta a continuare il lavoro, iniziato dal padrone, di preparare ciò che serve al loro miserabile spettacolo. Dal motofurgoncino lo Zingaro tira fuori il tamburo con i due bastoncini e se lo mette a tracolla. Nel tentativo di insegnare a Lei come si fa, accenna dimostrativamente a un rullo di richiamo; e poi passa il tamburo alla riluttante collaboratrice. Lei ne ricava un rullo stentato e flebile, beccandosi immediatamente uno scappellotto.
Lo Zingaro impartisce l’ordine di prolungare il rullo di richiamo finché i paesani via via accorsi non gli sembrano sufficienti. A quel punto, liberatosi della giacca, il forzuto si pavoneggia a torso nudo in un goffo giro d’onore, gonfiando i muscoli e riscuotendo qualche sporadico applauso. Subito dopo lo Zingaro si esibisce in una serie di prodezze che (secondo le capacità e la disponibilità dell’interprete) possono andare dal sollevamento di pesi o di due spettatori l’uno da una parte e l’altro dall’altra alla rottura dell’elenco dei telefoni, dal mattone spaccato con la mano piatta alla prodezza del mangiatore di fuoco. Tutte le bravate sono contrassegnate dal rullo del tamburo di Lei e dagli applausi del pubblico. Arrivato all’ultimo numero, l’atleta con estremo sussiego ostenta una grossa catena, la scuote facendola tintinnare, ne fa provare la resistenza e quindi se la stringe intorno al petto e si inginocchia sul tappetino al centro dell’uditorio. Segnale a Lei per un rullo che sottolinei enfaticamente lo sforzo spasmodico ed esagerato dell’atleta (magari il trucco c’è...) e al culmine della tensione la catena finalmente si spezza provocando l’entusiasmo degli astanti e i compunti ringraziamenti dell’artista. C’è perfino un lancio di monetine che, su pronto comando del padrone, Lei si precipita a raccogliere nella sua bombetta. In mezzo ai soldini è apparsa a sorpresa una moneta più grande, lanciata da
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un Cicisbeo in frac che figura nel gruppetto degli accompagnatori di una Ricca Signora mescolatasi alla plebe, forse una donna senza figli improvvisamente animata da un capriccioso interesse per la ragazzina. Applausi al massimo, ringraziamenti e inchini, lo spettacolo è finito. La gente si disperde, la Ricca Signora e i suoi cavalieri vanno in fondo alla scena ad ammirare il tramonto sul mare e lo Zingaro, dopo aver messo su il treppiede per la cucina, sollecita con la solita malagrazia la sua schiava a cucinargli la minestra. Il rosso del fuocherello sotto la pentola spicca ormai nell’avanzare della sera; e intanto Lei, evidentemente poco convinta delle proprie qualità come cuoca, prepara la zuppa buttandoci dentro di soppiatto ciò che capita, incluse le foglie e i fiorellini che raccoglie qua e là da terra. Ma all’assaggio lo Zingaro sputa disgustato, butta via il contenuto della gamella e la scaglia contro la cuciniera improvvisata. Ancora una volta infuriato, si avventa sulla poverina a pugni e calci; ma ecco che s’interpone la Ricca Signora spalleggiata dai suoi cicisbei. Ovviamente lo Zingaro è intimorito da quell’intromissione di gente per bene, che potrebbe fargli passare un guaio, e all’improvviso si rivela strisciante. La Ricca Signora fa capire che vorrebbe portarsi via Lei, spaurita e tremante; l’omaccione rifiuta decisamente, poi alla vista di alcuni biglietti di banca che il primo Cicisbeo tira fuori, uno alla volta, dal portafoglio, diventa progressivamente più malleabile. A un certo punto l’oblatore fa capire che non andrà oltre e lo Zingaro acchiappa le banconote e dà il sospirato assenso. Diventa addirittura gentile con la sua ex-vittima che gli ha permesso un guadagno insperato e goffamente premuroso vorrebbe coprirla con la mantellina, ma la Ricca Signora fa capire che non è il caso e un altro dei suoi accompagnatori prende l’indumento con due dita e lo getta via schifato; lo Zingaro si precipita a raccattare il cencio, come chi è abituato a non disfarsi di niente, e a buttarlo frettolosamente sul camioncino insieme con tutta la roba rimasta in giro. Poi si mette a cavallo della motocicletta e se ne va senza un saluto. Nel veder partire il furgoncino del “Zirkus”, che fino a quel momento è stato il suo mondo, Lei rimane interdetta e fa perfino qualche passo per corrergli dietro. La Ricca Signora la trattiene con fermezza, come per farle capire che ormai appartiene a una cerchia ben diversa; e la invita a seguirla. Incipit vita nova : ma che vita sarà?
Al caffè del Borgo Sulla destra della scena è apparso il caffè del Borgo, dove fanno flanella gli sfaccendati locali, tra i quali c’è Lui ormai giovanotto, vestito da “fighetta” col cappelluccio. Sorseggiano l’aperitivo, giocano a carte, sfogliano giorna-
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letti, si fanno scherzi scemi. Come quello di mettere sotto uno, spalle alla compagnia, e fargli indovinare chi gli ha dato lo schiaffetto o lo schiaffone o l’inatteso calcio nel sedere. Nel bel mezzo di queste stupidaggini appare il Federale, un gerarcone fascista in sahariana con l’aquila sul berretto, tallonato da un piccolo seguito di sicofanti in camicia nera; e agli inviti perentori di questi ultimi, che vanno dall’occhiataccia allo strattonamento, i giovani clienti del caffè si alzano svogliatamente e obbligatoriamente in piedi; e chi per viltà, chi per sfottere si mettono più o meno sull’attenti apprestandosi a venir passati in rassegna. Il Federale si accinge al rito con grande solennità: sfila lentamente davanti ai ragazzi, correggendone le posizioni, guardando uno per uno fisso negli occhi, salutando romanamente con battuta di tacchi e pretendendo un’altrettanto scattante risposta al saluto. A un giovane sferra una botta sulla pancia e raddrizza le spalle secondo il comandamento: «Pancia in dentro e petto in fuori». A un altro strappa gli occhiali, poco marziali, e glieli infila nel taschino della giacca. A un terzo sfila la cravatta, imprudentemente rossa, e dopo averla mostrata con sdegno agli astanti, la appallottola e la butta via. Quando si ferma davanti a Lui, gli dà un paio di strattoni ai cappelli troppo lunghi sul collo e gli fa perentorio cenno di andarseli a tagliare. Finita la rassegna, si congeda con un saluto a braccio teso al quale i giovani rispondono stancamente e già ridacchiando. All’uscita dell’importuno tutti si sbragano un’altra volta sulle sedie del caffè e riprendono le vacue occupazioni di prima; ma Lui, acchiappato al volo un blocco da disegno, schizza in un attimo una perfetta caricatura del Federale che fa subito vedere in giro con gran successo di ilarità. Poi, imitando la mimica e il cipiglio del gerarca, mette tutti in riga per passarli in rassegna. Divertitissimi gli amici si prestano a una replica buffonesca della scenetta, con un paio di burloni che si affiancano subito al finto Federale per fargli da tirapiedi. Finché, esaurito il numero, Lui si congeda con un perfetto saluto; ma intanto uno è andato a metterglisi carponi dietro le spalle, un altro gli dà uno spintone e la recita finisce con un bel capitombolo fra matte risate.
Sulla graticola
Mentre i giovanotti tornano ai tavoli del caffè, dove riprendono Lui a disegnare, gli altri a giocare, a bere, a sfogliare i giornali illustrati o a spettegolare, tutti un po’ frastornati e meditabondi (in margine all’inedia della vita provinciale si infila ogni tanto nella loro giornata una vaga nota di malinconia), sulla sinistra del proscenio è tornata la Ricca Signora che scortata dal solito Cicisbeo dà gli ultimi tocchi alla nuova sobria tenuta di Lei, non più vestita di stracci; e pretenderebbe anche di assestarle il portamento, forse non proprio manu militari come
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il Federale ma quasi. Intanto sul fondo è apparso un convento con le suore nere, velate e ingobbite per l’abitudine di stare a capo chino, tutte in fila dietro alla Reverenda Madre. La Ricca Signora, che evidentemente si è stancata presto di giocare alla mamma adottiva, si dispone ad affidare la trovatella ripulita e triste alle cure delle religiose. Sulla presentazione, la Reverenda Madre saluta la nuova allieva con un abbraccio d’obbligo, mentre la Ricca Signora se ne distacca con un finto residuo di titubanza; e il Cicisbeo, ben contento di veder sparire la ragazza, le fa ciao ciao con la mano. Rimasta in ostaggio alle suore, Lei viene rivestita con un camice bianco e messa in fila a cantare con le altre convittrici.
Si è fatta sera e i giovanotti, abbandonato il caffè, passeggiano con aria strafottente e ingenuamente ribalda per le vie del borgo prendendo a calci i barattoli, spaventando i gatti, intonando canzonacce, facendo risuonare a botte le serrande dei negozi. A un certo punto (folgorazione!) è come se Lui sentisse il canto di Lei, distinguendo da un momento all’altro la sua voce dalle altre. Si stacca dagli amici e attratto da un richiamo di destino prende ad aggirarsi intorno alle invisibili mura del convento per afferrare il senso di quel messaggio musicale che misteriosamente gli è destinato.
Mentre i giovanotti giocando a calcetto con il barattolo si stanno perdendo in lontananza a eccezione di Lui che non riesce a staccarsi dal convento, le suore sono tutte affaccendate a preparare una specie di recita, adornando un teatrino che può magari essere un semplice soppalco. È prevista la rappresentazione del martirio di una Santa sotto i romani.
Circolano bambine acconciate da angioletti con le aureole e i grandi camicioni bianchi simili a quello di Lei; è in corso la distribuzione di lance, scudi, elmi e mantelli a quelle che impersoneranno i crudeli soldati, a una ragazza le suore appiccicano la barbaccia nera del cattivissimo Imperatore.
Sono state portate dentro due lunghe panche sulle quali si accomodano gli spettatori, in genere parenti delle allieve. Ci sono anche la Ricca
Signora e qualcuno dei suoi accompagnatori, tra i quali il Cicisbeo principale che siede all’estrema sinistra di una delle panche. Occupando il posto all’estrema destra, Lui provoca una catena di spintoni che fanno cascare dalla panca il Cicisbeo. Allora quest’ultimo, seccato per l’indecoroso incidente, si rimette di forza al proprio posto provocando l’effetto contrario e facendo cadere Lui. Il giochetto si ripete un paio di volte, in un “crescendo di tigna” da una parte e dall’altra, intanto che suore e converse finiscono di preparare la sacra rappresentazione.
La scena è pronta, lo spettacolino va a incominciare. L’Imperatore, seduto con gran sussieguo sul suo trono, dà ordine ai pretoriani di condur-
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gli la prigioniera. Appena ce l’ha di fronte, turbata e titubante, le impone con grandi gesti di abiurare la fede e adorare un mostruoso idolo accanto a lui. Apertamente incitata dalle suore, Lei scuote il capo, rifiuta, dice di no. Sempre più contrariato, addirittura furioso, l’Imperatore ordina infine agli sgherri di mettere a morte la Santa testarda. A un suo gesto cala dall’alto, manovrata da un paio di suore con un argano a vista, una graticola adornata di svolazzanti e minacciose lingue di fuoco fatte con la carta colorata. I soldati afferrano Lei e la legano adagiata sul letto rovente che poi provvedono a issare a mezz’aria perché tutto il popolo possa vedere l’esemplare punizione della vergine cristiana. Su petulante suggerimento della Reverenda Madre, Lei congiunge le mani in preghiera, alza gli occhi al cielo e simula un gran fervore religioso; ma scoprendo di trovarsi lassù per aria comincia a guardarsi intorno preoccupata, dimentica la Santa e la nobiltà del martirio e comincia ad agitare disperata le braccia perché qualcuno si affretti a tirarla giù. Scompiglio fra i torturatori, indignazione e imbarazzo delle monache. E Lui, che già da qualche minuto non riusciva a starsene seduto tranquillo sulla panca, si alza di scatto e facendo frettolosi gesti di rassicurazione alla malcapitata si precipita ad azionare l’argano in modo da far scendere la graticola. Poi, spaventando con gesti e smorfiacce le suore che vorrebbero contrastargli il passo, corre da Lei, la scioglie dai legami, la rimette in piedi e la induce a fuggire via insieme. Per l’emozione, la Ricca Signora, delusissima, ha un mezzo svenimento fra le braccia del suo Cicisbeo.
La fuga
Lui e Lei scappano inseguiti dalle suore, dai soldati, dal pubblico dello spettacolino, ai quali si sono uniti anche i ragazzi del caffè che vogliono recuperare il loro compagno. Il palcoscenico si anima attraverso le varie situazioni della fuga, che si immagina come un gioco a rimpiattino per le vie notturne del Borgo, con i due che si sentono il fiato degli inseguitori sul collo, certi improvvisi incontri faccia a faccia e i relativi rapidissimi dietrofront, l’inutile messa in opera di strategie varie per bloccare i fuggiaschi. Nella massa si distinguono in qualità di strateghi la Reverenda Madre, il Cicisbeo e perfino il Federale improvvisamente tornato in ballo con i suoi satelliti.
Si direbbe, a un certo punto, che Lui e Lei siano riusciti a mettere una bella distanza tra loro e gli inseguitori. Ormai fuori dal Borgo, in mezzo ai prati, c’è finalmente il tempo di tirare il fiato, guardarsi negli occhi, prendersi le mani in una spinta irrefrenabile di reciproca attrazione. Il loro ballo solitario, all’alba, è un riconoscersi per la vita, in un magico momento che
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rimanda ai grandi duetti sentimentali dei più famosi musical americani celebrando poeticamente un’unione destinata a rivelarsi indissolubile.
È solo un breve intermezzo, dopo il quale riprende l’affannosa caccia alla coppia colpevole. Mentre si ridisegnano sul fondo le nere figure degli inseguitori, Lui e Lei alla disperata ricerca di una via di fuga sono investiti dallo sferragliare improvviso di un treno senza dubbio vicinissimo e dai lampi di luce che si susseguono per il veloce passaggio del lungo convoglio. Sembra il segnale tanto atteso, l’occasione per sottrarsi a una realtà che da oppressiva si è rivelata ostile, minacciosa addirittura. Saltare su quel treno, che intanto ha fatto la prevista fermata al Borgo con gran stridore di freni, sarà come varcare la soglia dell’età adulta, trasferirsi in un mondo di libertà assoluta e inebriante disponibilità. Lei sembra subito più determinata, lo tira affettuosamente per la manica, lo sollecita; Lui ha un attimo di perplessità (come l’ha avuto prima Lei al momento della sparizione del “Zirkus”) di fronte all’insegna del vecchio caffè carico di ricordi, di amicizia e di risate... In pochi secondi (nella vita a volte capita proprio questo) bisogna scegliere fra due cose assolutamente opposte: da una parte l’esistenza in provincia, pigra e in fondo rassicurante anche se avvelenata; dall’altra l’incognita attraente e allarmante della metropoli. Il fischio ripetuto del treno pronto a ripartire ci suggerisce che Lui e Lei, quando si avviano di corsa a saltare sull’ultima carrozza del convoglio in movimento hanno fatto la loro scelta. Sulla scena del Borgo continuano a correre, sgranandosi in fila indiana, sempre impegnati in un grottesco inseguimento senza scopo, i personaggi e “personaggini” che ormai appartengono al passato dei nostri eroi: lo Zingaro, la Ricca Signora, il Federale, la Reverenda Madre, 1’Incantatrice solitaria, gli amici del caffè e tantissimi altri indelebili spettri che saranno per sempre ricordati ora con tenerezza, ora con rabbia, mai con indifferenza.
Secondo tempo
Roma
Come mettere in scena l’arrivo a Roma dei nostri eroi? Non resta che affidarsi alla fantasia e alla creatività di coloro che inventeranno lo spettacolo. L’ideale sarebbe riuscire a presentare un panorama della Città Eterna nella contemporaneità delle stratificazioni dei suoi millenni di storia. Per cui sulla scena si dovrebbero incrociare, come in un metafisico ballo di carnevale o nella fantasticheria di un grande sognatore, gli antichi Romani e il Papa con i suoi cardinali, i garibaldini e Giolitti col palamidone, il posteggiatore trasteverino e
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quelli che mangiano la pajata e bevono il bianco dei Castelli sui tavoli all’aperto dell’osteria, i “gagà” di via Veneto e le falene notturne della Passeggiata Archeologica. Dopo i quadretti semplici della vita provinciale, è il panorama di una metropoli sospesa tra passato e futuro, affollato, svariante, tutto da godere. E forse, in certe zone buie, addirittura da temere.
Sulle prime Lei e Lui si arrangiano. Lei si adatta a dare una mano a servire in tavola nell’osteria, agli ordini di un trucido principale che sembra piuttosto un “Pappa”. Lui si è procurato un blocco da disegno e per poca moneta fa le caricature ai clienti. A Lei un avventore spericolato dà un pizzicotto nel sedere, con immediata reazione violenta dell’intrepida ragazza: uno schiaffone e via. A lui un caricaturato in vena di sopraffazioni contesta la somiglianza: «Io quello? Così grasso?»; ed è un Grassone che protesta, non vuol pagare e chiama un Vigile, il quale non vuol sentir ragioni e sequestra il blocco da disegno.
Ormai senza risorse, Lui viene avvicinato da un paio di gaglioffi che vanno in giro a far danni (li abbiamo già visti sfilare qualche portafoglio, scippare qualche borsetta ad apertura di sipario) e indotto a partecipare ai loro imbrogli. Detto fatto i tre imbroglioni si travestono da frati e vanno in giro a far la questua, ma proprio quando la faccenda sembra funzionare Lui ha la sfacciataggine di chiedere l’elemosina al Grassone che lo riconosce, chiama un’altra volta il Vigile e lo costringe di nuovo a darsela a gambe.
Intanto Lei nell’osteria è sopraffatta dalle sue faticose incombenze, fra le quali lavare una montagna di piatti: e quando per stanchezza ne fa cadere un bel po’, il “Pappa” arriva di corsa e pretende di venir subito risarcito. Visto che Lei di soldi non ne ha, viene rapidamente acconciata da prostituta e trascinata dal mascalzone a battere fra le pollastrelle della Passeggiata Archeologica che la accolgono con diffidenza. Una sola, la Grande Mignotta, cerca invano di insegnarle i passi, i gesti e i richiami del mestiere; ma si vede benissimo che Lei è di un’altra pasta e non imparerà mai.
I cattivi compagni di Lui ne hanno pensata un’altra: vendere una collana falsa a qualcuna delle elegantissime signore che transitano in Via Veneto. Il nostro giovanotto scuote la testa, non crede ai due compari che gli vantano il gioiello come se fosse vero e soprattuto non crede di riuscire a farcela. Ma tant’è, ci prova. E sulle prime sembra quasi che riesca a incantare, simpatico com’è, una bella dama forse disponibile per un’avventura; ma quando lei scopre che le attenzioni di Lui tendono soltanto ad ammollarle una patacca si mette a strillare, fa intervenire nuovamente il Vigile e stavolta è proprio il caso di scappare a tutta velocità in un clima
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da si salvi chi può. Nel corso della fuga, inseguito dal Vigile e dagli altri, Lui arriva sulla Passeggiata Archeologica appena in tempo per salvare Lei dai maltrattamenti del “Pappa” che vuol punirla di non aver concluso con il suo primo Cliente. Ancora una volta, come al paese, i nostri eroi fuggono inseguiti da tutti, a perdifiato, finché li attira un’insegna luminosa con le parole GRAN VARIETÀ.
Gran Varietà
Una schiera di ballerine ben diverse da quelle viste all’inizio dello spettacolo, scalcinate, “sgallettate”, scoordinate nei movimenti, discinte fino all’immagine pornografica: c’è quella che ammicca, quella che “puttaneggia”, quella sempre fuori tempo. E al centro c’è il Comico, che mima a suon di musica battute, barzellette e couplets evidentemente scollacciati; egli pretenderebbe che le ballerine gli creassero un corteggio adeguato, ma la materia prima è quella che è e non si cava sangue dalle rape. Assistito da un patetico Tirapiedi che cerca di imitarlo, di rabbonirlo, di farsi tramite tra lui e le ballerine, il Comico si affanna a correggere le sciagurate, mostra i passi e gli atteggiamenti come sembrano giusti a lui, se li fa ripetere nella disperata tensione a qualcosa di presentabile, si arrabbia, inveisce, butta per terra il “cappelluccio” e lo calpesta finché l’assistente non si precipita a raccoglierlo, spolverarlo e rimetterglielo in testa. Braccati dagli inseguitori, Lui e Lei arrivano di corsa dal fondo e per salvarsi non trovano di meglio che inserirsi nella fila delle ballerine imitandone gesti e movimenti e guardando nel vuoto con aria professionale e innocentissima. In tale modo gli inseguitori passano e ripassano davanti alla chorus line senza minimamente accorgersi che i due si sono mimetizzati nel corpo di ballo. Sulle prime non se ne accorgono neppure il Comico e il Tirapiedi, tutti presi dall’impegno senza speranza di istruire le loro indecenti girls. Ma succede un miracolo: improvvisamente, e da subito, Lui e Lei si rivelano i più bravi di tutti, copiando i movimenti ed eseguendoli con imprevedibile tempismo, esattezza e grazia naturale. Tanto che dopo aver diligentemente imitato i passi prescritti, e ormai spariti lontano gli inseguitori, i nostri eroi sembrano catturati dal demone della danza, come chi ha finalmente trovato la propria strada, il proprio ritmo vitale, il passo che ti accompagnerà per tutta la vita. Insomma la vocazione. Il Tirapiedi li ha appena adocchiati e tira per la manica il Comico, indicandoglieli: sentendosi osservati dai due coreografi ruspanti, Lui e Lei prorompono dai ranghi per il primo grande assolo della loro carriera. Sbalordito dall’intromissione, il Tirapiedi si precipiterebbe a bloccare ed espellere i due intrusi, ma il Comico che se ne intende, folgorato dalla loro bravura, fa cenno di lasciarli fare. Alla fine del numero le ballerine stesse applaudono i due improvvisati solisti, il Comico si
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precipita a congratularsi con Lui e a baciare la mano a Lei. A questo punto, lieti di essersela cavata, loro sarebbero anche disposti ad andarsene, ma il Comico li blocca, fa capire che li vuole assolutamente con lui, tira loro fuori il portafoglio e insiste per dar loro subito un anticipo e assicurarsene l’esclusività. L’argomento è decisivo e i due, scambiatasi un’occhiata d’intesa, decidono di restare. Il reciproco piacere dell’incontro fa nascere un’istantanea amicizia fra il Comico e il nostro protagonista, che si lanciano insieme in un duetto egocentrico dove Lui fa di buon grado la spalla dell’esperto fucinatore d’ilarità.
Il successo
Nel mondo dello spettacolo, come nella vita in generale, vige tuttavia una legge della domanda e dell’offerta per cui sulle amicizie vecchie e nuove, sui sentimenti e non di rado perfino sulla lealtà reciproca, prevalgono la crescita naturale di un artista, il suo bisogno di cambiare, la possibilità di guadagnare di più. Mentre Lui e Lei provano un nuovo ballo ci accorgiamo che tutto sta cambiano intorno a loro sotto i nostri occhi. La misera scenografia del varietà sparisce per dar luogo a una cornice sofisticata da grande revue, le squallide chorus girls sono sostituite da altre ben vestite, abili e sofisticate, i costumi dei due solisti vengono rapidamente sostituiti fino a trasformarli in una coppia reale di ballerini. E senza tanti complimenti Tirapiedi e Comico vengono fatti sloggiare dal loro angolo, sostituiti da un coreografo di gran classe, pretenzioso e che in un delirio di mani sventaglianti, gridolini e invocazioni inventa passi nuovi e figurazioni imprevedibili. Lui e Lei si adattano alla nuova situazione di buon grado, cogliendone i vantaggi, e sono immediatamente promossi nella categoria extra. Scacciato dal palcoscenico, il Comico fa qualche passo verso di Lui come a chiedere giustizia, a ricordare la passata amicizia, la primogenitura della sua scoperta. Ma a volte nella vita si è vigliacchi, lo fu anche Enrico V appena incoronato re quando girò le spalle al vecchio compagnone Sir John Falstaff. Dapprima lui volteggia davanti al Comico facendo finta di non vederlo, poi quando i loro sguardi fatalmente s’incontrano allarga le braccia come per dire: «Che ci vuoi fare?». E così al Comico non resta che allontanarsi, con il Tirapiedi che lo segue affettuosamente come un cagnolino, sul triste sentiero della vecchiaia.
Perdersi e ritrovarsi
Ora Lui e Lei sono veramente sulla vetta del mondo dello spettacolo. Sarebbe il momento di godersi il successo, ma qualcosa è andato perduto della freschezza dei loro sentimenti giovanili, dell’amore fiammeggiante che li ha uniti nell’avversa fortuna. La progressiva caduta di ogni difficoltà ha forse allentato il loro
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legame per cui Lui e Lei, ormai indissolubilmente uniti sulla scena, lo sono molto meno nella vita reale. Hanno avuto l’amore, l’avventura e il trionfo, ma non gli basta. Ciascuno dei due cerca qualcos’altro.
Lui cerca emozioni diverse in una girandola di femmine che lo sottraggono al rapporto con la sua compagna e gli appaiono come illusioni tentatrici, promesse tutt’altro che durevoli, divagazioni provvisorie. Sono balli a due, qualche volta a tre, con donne di ogni forma e di ogni età: ispiratrici intellettuali, ragazzine del collegio, vampire avidissime, acrobate da circo... C’è n’è perfino una (ma possibile che sia proprio la stessa?) molto simile alla donna che lo folgorò sulla spiaggia dell’infanzia... E intanto i fotografi di via Veneto scattano instancabili i loro flash.
In parallelo Lei è attirata dalla scoperta di una verità profonda dell’esistenza che le offrono volta a volta un santone indiano, un mago cinese e altri veggenti di varia estrazione. Finché la attira un anziano illusionista in frac con le sue svarianti carte da gioco e una incredibile capacità di trasferire gli oggetti e le persone da un luogo all’altro. Lei stessa si sente trasportata in un mondo diverso e cade addirittura in trance, sicché l’illusionista può farle rievocare il passato, i giorni del collegio, la graticola delle suore...
Così la riscopre Lui, arrivato per sottrarsi ai fotografi in mezzo al piccolo pubblico raccoltosi a seguire l’esibizione, e, spinto quasi dalla coazione a ripetere il proprio passato, la libera un’altra volta dalla graticola immaginaria e la porta via con sé. È il ballo del ritrovamento finale, dell’abbraccio dopo tante divagazioni e incomprensioni. E se avremo sdoppiato i personaggi, con la coppia dei veterani che guardano i giovani rivivere la propria vita e ogni tanto intervengono, questo sarebbe il momento di fondere le due coppie in un unico ballo. Alla fine del quale i giovani sono spariti dalla nostra vista per sempre.
La nave
È il palcoscenico il luogo in cui Lui e Lei si sono ritrovati e hanno rinsaldato la loro loro unione. Ma è già sera, siamo di nuovo sul palco dell’ultimo show che è diventato una spiaggia. In fondo, sul mare, appare qualcosa visibile in questo momento solo a chi sta sulla scena. Un assistente (il Tirapiedi del varietà? Il Vigile pentito?) porta di corsa a Lui il blocco dei disegni, sul quale il protagonista disegna ciò che sta vedendo. Finito rapidamente lo schizzo, restituisce il blocco all’assistente che lo fa vedere in giro e al pubblico: è il profilo di una nave, un grande transatlantico, lo stesso che ora vediamo anche noi transitare lentamente sullo sfondo. Mentre la nave sta avvicinandosi al centro della scena, Lui si avvia irresistibilmente verso quella meta, mentre Lei rimane qualche
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passo indietro. Al nostro personaggio, fisso a guardare il mare, due appetitose subrettine spogliatissime recano in punta di piedi un mantello nero in cui si avvolge con tutta naturalezza come Prospero il Mago. A quel punto si volge a guardare la sua Ariel e la invita con un cenno a raggiungerlo. Lei si affretta a “rincantucciarsi” sotto il mantello sorridendo grata e felice. Intanto le due assistenti, prima di scomparire, posano sulla testa di Lui un cappello nero a larghe tese e gli mettono al collo una lunga sciarpa rossa. Nella sua trasformazione definitiva, che ingloba anche Lei, Lui rimane solo in mezzo alla scena e guarda sereno verso la nave che avanza.
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Cinema e architettura1
Premessa
Vi prego di accogliere questa relazione come la testimonianza di un incompetente o quasi, poiché tale mi considero nell’ambito di un convegno scientifico. Ho due soli titoli per prendere la parola. In primo luogo, sono un critico cinematografico di lungo corso e pertanto ho visto, recensito e non di rado rivisto migliaia di film. In secondo luogo sono uno scriba anomalo, o un anomalo cineasta come preferite, che avendo anche lavorato sul set, seguito come cronachista alcuni film importanti (tra i quali La dolce vita e Salvatore Giuliano) e avendone poi prodotti un certo numero ha dovuto fare i conti con i problemi concreti delle riprese fra i quali, principalissimo, quello dell’ambientazione: quando con il copione alla mano si decide dove si girerà e come. Il tutto nel contesto delle abitudini di un cinema come il nostro, che da sempre per una scelta di gusto, rafforzata a volte da esigenze di economia, si orienta volentieri sull’utilizzazione di ciò che si trova bello e fatto. Ovvero di quelle che in prima battuta chiameremo “scenografie preesistenti”, vale a dire la realtà edilizia che ci circonda: classica o moderna, nobile o degradata. Volta per volta, a seconda delle esigenze, il cinema utilizza tutto.
L’architettura ancella del cinema
Antica quanto l’homo sapiens, nel XX secolo l’architettura si è fatta umile ancella della cosiddetta Settima arte, quella più giovane e fino a un certo momento neppure riconosciuta tale. L’architettura si è adattata alle esigenze della Decima musa come una sorta di prestaservizi, lasciando notorietà e vantaggi ai titolari delle realizzazioni filmiche. Quando poi alle soglie degli anni Sessanta la critica francese escogita e impone l’“autorismo”, ovvero la teoria per cui la paternità assoluta di un film è da attribuire esclusivamente al regista, si tende a sminuire o addirittura cancellare gli indispensabili contributi accessori. Nei vari resoconti si marginalizzano apporti fondamentali quali l’ispirazione letteraria (quando c’è), la scrittura del copione, l’organizzazione produttiva, gli interpreti, la fotografia, la musica e via enumerando; e, ovviamente, anche i costumi e la scenografia, incluso quel particolare tipo di scenografia di cui ci occuperemo qui, pre-esistente al film e destinata a sopravvivergli. Ovvero il patrimonio architettonico e urbanisti-
1 Relazione al Convegno sull’Architettura all’Università di Firenze, 30 giugno 2006. Il testo è inedito.
Cinema e architettura
co. Ma vale la pena di ricordare che per i cinefili autoristi perfino la Stazione Termini, nel momento in cui diventa il titolo di un film, è considerato opera di Vittorio De Sica, proprio come se l’avesse fabbricata lui.
Dottore o architetto?
Per contrasto il titolo di “architetto” rappresenta da sempre nell’ambiente della produzione un riferimento d’indiscusso prestigio. Quando si telefonava in casa del compianto Alberto Lattuada, per avere qualche probabilità che venisse all’apparecchio non bisognava chiedere del “dottor Lattuada”, ma dell’architetto. Spiegazione: nel cinema tutti sono dottori, inclusi i registi che magari non hanno mai visto l’università o dato un esame. Il rispetto con cui questi “dottori immaginari” vengono trattati è spesso solo apparente, tanto che la facile attribuzione del titolo di dottore implica in chiave di ironia qualcosa di iperbolico. Dire “architetto”, invece, è indicare con preciso fondamento colui che attraverso un corso di studi seri è riuscito a laurearsi in architettura; e viene perciò considerato nell’ambiente con il dovuto rispetto. Come appunto avveniva per Lattuada, diplomato al Politecnico di Milano; e per Renato Castellani e Luigi Comencini, stesso titolo, stessa prestigiosa alma mater Mauro Bolognini si era invece laureato a Firenze, dove studiò anche Franco Zeffirelli che poi conseguì il diploma alle Belle Arti. Alla lista dei registi architetti si potrebbero aggiungere altri nomi, ma non sono poi tanti. Sono molti di più i cineasti che provengono da Lettere, Giurisprudenza, Economia e commercio e perfino Medicina. Per non parlare dei non laureati, che rappresentano la maggioranza.
Più numerosi sono gli scenografi del cinema italiano laureati in architettura. Senza intraprendere particolari ricerche, andando a memoria, posso ricordare i nomi di Virgilio Marchi, Guido Fiorini, Antonio Valente (che come architetto progettò il Centro Sperimentale di Cinematografia), Alfredo Manzi, Salvo D’Angelo (poi divenuto un grande produttore), Ottavio Scotti, Piero Zuffi. E qui mi fermo per non impantanare il discorso in un elenco di nomi, che messi in fila vogliono dire poco, ma presi uno per uno con le rispettive filmografie fornirebbero le pezze d’appoggio per un’auspicabile storia del cinema italiano sotto il profilo della scienza architettonica. Per concludere la divagazione, c’è appena da ricordare (citando l’Enciclopedia dello Spettacolo di Silvio d’Amico2) che «nella terminologia teatrale dal XV al XVII secolo la parola architetto indica lo scenografo o meglio il costruttore delle scene» (quello che più tardi si chiamerà scenotecnico).
2 Silvio d’Amico, Enciclopedia dello spettacolo, UNEDI, Roma, 1975.
Tullio Kezich
L’occasionale primato dell’architettura in un film In riferimento allo spunto un po’ polemico sulla teoria “autorista” devo precisare che per me il protagonista del film non è il regista. E chi è, allora? È il film stesso, il quale assomma a unità tutti i contributi artistici di cui si è giovato. E succede quasi sempre che se nel corso di un giudizio di valore una delle componenti prende il sopravvento sulle altre (può essere la personalità divistica, la fotografia, la musica…) il film nel suo insieme ne risulta in qualche modo diminuito. I capolavori del cinema sono tali soprattutto quando, ovviamente sotto la guida del regista, si realizza un perfetto grado di omogeneità.
Alla luce di tali riflessioni può apparire contraddittorio prendere in considerazione un aspetto particolare dell’opera filmica in quanto risolutivo e non intercambiabile. Ma è inevitabile emerga di volta in volta, valutando criticamente quella complessa operazione artistica che è un film, l’una o l’altra componente, nel senso esemplificabile nell’espressione “primus inter pares”. È lecito quindi parlare di un saltuario e occasionale primato dell’architettura nel panorama della produzione cinematografica: ed è questo l’ambito in cui cercherò di ritagliare un aspetto particolare: l’utilizzazione scenografica di un manufatto antico o recente non costruito in funzione del film.
Il film legato a un manufatto architettonico
A volte succede, infatti, che il film s’identifica (non voglio dire totalmente, dirò principalmente) nell’ambiente scelto per l’occasione, che lo rappresenta e ne è rappresentato, in una rivitalizzazione dei suoi significati originari o acquisiti nel tempo. Faccio un solo esempio, per capirci, tolto da un classico del cinema moderno, mentre andando avanti mi concentrerò esclusivamente sul cinema italiano. Mi riferisco alla scelta che fece il grande Billy Wilder al momento di realizzare il copione di Viale del tramonto. Molti ricorderanno che questo film, datato 1950, è la storia di una diva del muto che svanita la sua popolarità con l’avvento del sonoro si è reclusa volontariamente in una sontuosa residenza d’epoca. Wilder si orientò subito a cercare un autentico edificio d’epoca (anche se per ragioni sceniche gli aggiunse una piscina e reinventò gli interni in studio) e lo identificò in una sorta di castelletto di stile franco-italiano, costruito sul Wilshire Boulevard nel 1908 da un milionario messicano e finito poi fra le proprietà neglette del miliardario Paul Getty. Ripensando al film, l’immagine che si impone è quella del tetro casamento atto a condensarne la suggestione e il significato. Questo edificio è diventato il riferimento principale. Nel senso che possiamo magari immaginare un’altra attrice al posto della pur straordinaria Gloria Swanson (che infatti fu scelta in una rosa di vecchie glorie), ma senza l’ambiente in cui è stata inserita il film non sarebbe lo stesso.
Cinema e architettura
Dividendo il presente discorsetto in capitoli, ho intitolato questo Il film legato a un manufatto architettonico. Per analogia con il caso di Viale del tramonto, passando al cinema nostrano, la citazione che mi viene spontanea è Una giornata particolare, girato nel 1977 da Ettore Scola. Siamo nel maggio 1937, il giorno della visita di Hitler a Roma, e nel falansterio popolare svuotato di tutti gli inquilini accorsi alla parata sui Fori Imperiali s’incontrano e si amano due estranei, la Loren e Mastroianni. Sophia nella parte della casalinga frustrata e Marcello in quella dell’annunciatore radiofonico omosessuale, licenziato e poi mandato al confino, sono impagabili, ma si può ipotizzare che la vicenda starebbe in piedi ugualmente con altri interpreti. Non si può invece immaginare il film di Scola che dentro il contenitore di quel vasto cortile circondato dalle finestra del falansterio e contrappuntato dalle scale a vista in forma di fascio littorio. Ovvero il cosiddetto “palazzo Federici” (così detto dal nome della ditta che lo costruì fra il ’32 e il ’37) creato dall’architetto Mario De Renzi e ancora esistente in via XXI aprile a Roma, identico tranne per alcune varianti (un supermercato al posto di un cinema) che ne hanno alterato la facciata. Ecco un esempio in cui una significativa e non spregevole architettura del regime racconta se stessa sullo schermo diventando l’emblema del film. Quel casamento diventa il simbolo, nel bene e nel male, dell’Italia del consenso. Aggiungo solo, per curiosità, un paio di notizie utili a intendere la spregiudicatezza del cinema anche quando sembra, come in questo caso, che abbia fatto il nido in una particolare situazione architettonica. Prima di tutto, bisogna sapere che per motivi inerenti alle difficoltà della ripresa nel luogo vero lo scenografo Luciano Ricceri dovette ricostruire fedelmente in studio due pezzi della facciata interna onde permettere ai dirimpettai Sophia e Marcello di vedere ciascuno dentro la casa dell’altro e di parlarsi attraverso il cortile. Altro particolare significativo: la bellissima scena della grande terrazza, dove lui aiuta lei a stendere le lenzuola e finisce per abbracciarla, non è stata girata in viale XXI aprile ma sul vasto tetto dello stabilimento farmaceutico di viale della Regina (sempre a Roma) considerato più adatto in senso spettacolare. Eppure lo spettatore non dubita per un attimo che tutto il film non sia realizzato nell’ambiente per così dire “protagonista”. L’analisi conferma che nella strutturazione del linguaggio cinematografico l’elemento reale, quello “preso dalla vita”, viene quasi sempre integrato da altre componenti trasformandosi così in opera di fantasia. Un’altra scelta significativa legata a un edificio fu quella di un maestro, Michelangelo Antonioni, quando nel 1964 Dino De Laurentiis lo invitò a realizzare uno degli episodi de I tre volti, con il quale ci si proponeva di lan-
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ciare come diva l’ex imperatrice Soraya. Quando la signora gli fu presentata, Antonioni capì prima degli altri che la sua bellezza non era di quelle che irradiano dallo schermo, insomma che Soraya attrice era una causa persa. Studiando il modo di cavarsela senza perdere un’occasione di lavoro, il regista pensò di spostare l’attenzione dalla protagonista sull’ambiente. Era appena stato inaugurato il nuovissimo stabilimento chiamato “Dinocittà”, creato fuori Roma dal nulla al km 23,270 della via Pontina, dove Dino aveva organizzato il provino di Soraya in piena notte per evitare l’assedio dei giornalisti; un cronista di «Paese Sera», scoperto il segreto, realizzò lo scoop. Nel suo episodio, intitolato Il provino, Antonioni ricostruì gli eventi della nottata approfittandone per descrivere le architetture e gli ambienti dell’avveniristico stabilimento. Il quale, ahimè, ebbe in realtà un avvenire molto tormentato. Tanto che oggi il film di Michelangelo resta il piccolo monumento a un sogno che svanì.
Il film con riferimento architettonico importante Qui gli esempi sarebbero davvero infiniti; ne accenno solo qualcuno. Penso alla Fontana di Trevi che prima di diventare un simbolo del turismo internazionale nell’americano Tre soldi nella fontana (con annessa appiccicosa canzone di Frank Sinatra, 1954) appare in una scena di festa popolare del film Il delitto di Giovanni Episcopo, che Lattuada nel 1947 trasse dal romanzo di Gabriele D’Annunzio. Tra gli sceneggiatori c’era Federico Fellini, che nel 1960 tornò a Trevi per la leggendaria scena di Anita Ekberg che entra vestita nella vasca, seguita da Mastroianni. Un brano di cinema che passa ogni momento sulle televisioni, tanto da rendere inutile parlarne più a lungo, tranne per ricordare che Fellini pantografò in seguito il mito della Ekberg nella favola de Le tentazioni del dottor Antonio, episodio di Boccaccio ’70 (1962) dove Anitona si trasforma in una gigantessa scesa miracolosamente da un manifesto pubblicitario al fine di perseguitare un minuscolo e terrorizzato Peppino De Filippo. L’EUR, il moderno quartiere progettato per l’Esposizione Universale 1942 (che poi non si fece) da una équipe diretta da Marcello Piacentini piaceva molto a Fellini, che vi tornò spesso; e viene regolarmente utilizzato dai nostri registi quando si tratta di filmare delle situazioni in un ambiente in qualche modo collocabile nel futuro, come fece Elio Petri nel fantascientifico La decima vittima (1965).
Nell’episodio felliniano Peppino fugge sotto le arcate vere dell’EUR mentre Anita lo insegue muovendosi in un EUR miniaturizzato fedelmente riprodotto (posso attestarlo avendo partecipato alle riprese), in un prataccio a breve distanza dal quartiere, dallo scenografo Piero Zuffi.
Accennerò soltanto alla diversa ma significativa utilizzazione del
Cinema e architettura
Duomo di Milano in due film come Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica, dove nel finale i barboni inforcate le scope volanti decollano proprio dalla piazza verso un avvenire migliore; e il tormentato dialogo, sul tetto della basilica milanese, fra Alain Delon e Annie Girardot in Rocco e i suoi fratelli (1960).
Ci sono poi film che ricavano la loro suggestione dall’essere contestualizzati in una particolare cornice architettonica o urbanistica. Penso a La lupa (1953), dove Lattuada ha ambientato il racconto di Verga fra i Sassi di Matera. Oppure all’impronta che dà a certi thriller di Dario Argento l’ambientazione notturna a Torino, considerata per tradizione città magica, o gli edifici neogotici del quartiere romano Coppedè.
Il film che documenta un fatto architettonico o urbanistico in seguito scomparso (In questo capitoletto potrebbe ritornare l’esempio di Viale del tramonto perché la villa storica del film fu abbattuta dieci anni dopo e al suo posto c’è un parcheggio).
Un caso limite è quello costituito dalla documentazione che due film paralleli del 1948, Germania anno zero di Rossellini e Scandalo internazionale di Billy Wilder, offrono sulle spaventose distruzioni della capitale tedesca uscita dalla Seconda guerra. Trovo che sarebbe interessante (e non credo che nessuno finora l’abbia fatto) considerare le convergenze e le divergenze degli sguardi del regista italiano e di quello austro-americano su uno degli scenari più disastrati della tragedia europea. Passando a un argomento meno tragico, torno a menzionare Antonioni per l’utilizzazione nel film L’avventura del complesso monumentale di Noto, in Sicilia, costituito dalla Chiesa Madre e dai contigui Palazzo Vescovile, Palazzo Nicolarici Villadurata e chiesa del Salvatore tuttora, salvo errore, in corso di restauro dopo le devastazioni prodotte dal terremoto del 1996. Girato 36 o 37 anni prima del sisma, L’avventura ripropone i monumenti nella loro integrità ed è particolarmente significativo per il nostro discorso perché mette a contrasto di questo trionfo sopra le righe del barocco settecentesco un panorama prossimo al grado zero dell’architettura, l’isola nuda di Lisca Bianca. Di fronte ai monumenti di Noto, Gabriele Ferzetti nei panni di un moderno architetto si concede uno sfogo (significativo per quanto un po’ ingenuo) contro i limiti in cui opera un professionista di oggi rispetto alla straordinaria libertà inventiva degli antenati suoi predecessori.
Nel film Il posto (1961) di Ermanno Olmi i due giovani protagonisti attraversano la Milano di quel momento, con Piazza San Babila sconvolta
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dalle scavatrici e dai ponteggi della metropolitana in costruzione. Non esiste, credo, un altro documento altrettanto vivido e acutamente registrato di un momento della trasformazione della metropoli.
Nel 1972 Marco Ferreri ha costruito un intero film di fantastoria del West, Non toccate la donna bianca, intorno alla voragine scavata nel cuore di Parigi dopo l’abbattimento delle Halles; e proprio là sotto fa svolgere la battaglia fra i cavalleggeri di Custer e gli indiani.
Il caso Senilità
Di grande interesse per ricostruire l’immagine scomparsa di Trieste è il film Senilità (1961) di Mauro Bolognini, maestro insuperato nel ritagliare dalle città moderne l’immagine di ciò che erano prima che l’espansione edilizia e il traffico ne alterassero i caratteri (vedi Firenze in Metello). I soci americani nella produzione del film dal romanzo di Svevo insistevano per motivi di attrattiva turistica che fosse girato a Venezia, il che avrebbe facilitato un’ambientazione nel 1893, conforme a quella del libro perché la città lagunare è una delle poche al mondo in cui si può facilmente ricostruire il passato. Io stesso, in qualità di produttore, ho trasferito per questo motivo da Padova a Venezia l’episodio della Resistenza evocato in Il terrorista (1963) di Gianfranco De Bosio. Tagliò corto alle esitazioni della produzione di Senilità Letizia Svevo, la figlia dello scrittore, che minacciò di togliere i diritti se il film veniva trasferito dalla sua naturale sede triestina. Però Bolognini si rese conto ben presto che ritrovare negli anni Sessanta la città di fine secolo non era possibile: troppi cambiamenti erano intervenuti, troppe costruzioni di anni più recenti. Fu deciso perciò di trasferire l’azione dagli anni Novanta del XIX secolo agli anni Venti del XX, ancora recuperabili per la sopravvivenza di scorci d’epoca, vecchi caffè e via ritagliando. Il risultato è che oggi il film, accanto ai suoi indubbi valori artistici, ha il pregio di documentare una Trieste scomparsa subito dopo la realizzazione del lungometraggio. Infatti le riprese avvennero al limite della chiusura o trasformazione di quasi tutti i tradizionali caffè, di nuove alterazioni del profilo urbano e dell’abolizione del caratteristico trenino merci che percorreva tutta la riva, molto importante in una scena risolutiva del film.
L’architettura alla quale il film ricorre per sua comodità Un ultimo capitoletto va dedicato ai luoghi architettonici dove il cinema torna spesso per comodità di ambientazione. Nelle agende dei direttori di produzione figura da sempre come una grande risorsa l’Ospizio romano di San Michele a Ripa, l’enorme fabbricato affacciato sul Tevere la cui costruzione durò un secolo a partire dal 1670 e fu volta a volta ospizio, casa di contenzione per
Cinema e architettura
giovani, carcere femminile, caserma dei doganieri, lanificio e arazzeria, oltre a ospitare due chiese. Tantissime sono le troupes transitate in questi saloni, antri e meandri. Cito nuovamente Il delitto di Giovanni Episcopo di Lattuada, con la ricostruzione dell’archivio dove lavora il travet Aldo Fabrizi; e l’inizio dell’episodio Agenzia matrimoniale girato da Fellini per il film collettivo Amore in città, dove il protagonista Antonio Cifariello si addentra nelle soffitte dell’edificio alla ricerca della famosa agenzia in un clima che la critica definì alla Kafka.
Ultimi esempi e conclusione
A voler citare esempi di architettura utilizzata per il cinema non si finirebbe più. Fra i più singolari mi viene in mente Il tetto (1954) di De Sica, una vera e propria elegia dell’architettura ruspante, che inizia trionfalmente con la bandiera italiana che sventola sulla copertura di una casa vera e si conclude affannosamente su una frettolosa copertura senza bandiere di una costruzione abusiva tirata su volonterosamente nel corso di una notte.
Un caso limite è quello di Francesco Rosi che in Le mani sulla città (1964), coraggiosa denunzia degli scempi operati dalla speculazione edilizia a Napoli, ha preso una fatiscente casa vera e (assicurandosi tutti i permessi) l’ha fatta crollare ai fini del racconto cinematografico.
Ho così sfogliato, a memoria e in disordine, una serie di spunti e assaggi su una materia che richiederebbe una ricognizione approfondita; e magari (perché no?) la convocazione di un apposito convegno dove esperti delle varie realtà geopolitiche e topografiche potessero riferire sui modi in cui sono state utilizzate dal cinema. Segnalo in proposito un libretto divulgativo recentemente stampato dal Touring Club, I luoghi del cinema, che nei suoi chiari limiti può fornire agli studiosi parecchie indicazioni sul rapporti fra i film e gli ambienti dove sono stati girati con implicazioni spesso riguardanti l’architettura.
In via di conclusione provvisoria avevo pensato di azzardare un paragone in chiave di poetica neorealista affermando che l’uso dei manufatti architettonici in un film corrisponde alla pratica degli attori presi dalla vita. Se la scenografia si può definire la realtà “recitata”, la collocazione ambientale in un particolare edificio o in un preciso contesto urbano rappresenta l’innesto della realtà sulla fantasia. Ovvero, la sintesi delle due anime che il cinema ha fin dalle sue origini, quella di Lumière e quella di Méliès.
A questo punto mi pareva di avere fatto una specie di scoperta; e mentre ero in mezzo a tali riflessioni, parlando con il dotto amico professor Massimo Casavola, che insegna progettazione architettonica a “La Sapienza”, mi è venuto in mente di suggerirgli l’allestimento di una breve
Tullio Kezich
antologia visiva per illustrare alcuni fra i riferimenti che intendevo esporre. Volevo infatti sentire l’opinione di un esperto sulla mia definizione dell’architettura come “scenografia presa dalla vita”; e a quel punto Casavola ha tirato fuori un libretto che ignoravo, da lui scritto insieme ai colleghi Luisa Presicce e Salvatore Santuccio, edito nella “Collana Universale di Architettura” fondata da Bruno Zevi. Titolo: L’attore di pietra, che è una metafora parallela alla mia “scenografia presa dalla vita”, ma mi ha battuto sul tempo perché il libro è datato 2001. È proprio vero che niente si inventa che non sia già stato inventato. Ci sono rimasto un po’ male, ma in fondo lieto di trovarmi in sintonia con degli specialisti. E lieto soprattutto del fatto che Casavola ha accettato, unendo le forze del suo Centro di documentazione cinetica della Città e qualche apporto del mio archivio personale, di mettere insieme un collage antologico di luoghi filmici, che vuol essere, come il presente discorso, una raccolta di spunti e nulla più.
Svevo, D’Annunzio e Pirandello
Svevo, D’Annunzio e Pirandello1
Svevo inietta nel romanzo naturalista il rovello innovatore della psicoanalisi; D’Annunzio, cesellatore della parola, schiude il Parnaso nostrano alla modernità; e Pirandello eleva il dubbio a protagonista del gran teatro del mondo. Italo, Gabriele e Luigi, i tre padri fondatori della letteratura italiana del Novecento, sono uomini del pieno Ottocento, nati in un giro di sei anni nel ’61, ’63 e ’67. Quanto alla loro italianità, si fatica un po’ a definirla perché l’imperialregio Svevo diventò “regnicolo2 ” quand’era già 57enne nella Trieste finalmente redenta; e degli altri due, se il pescarese D’Annunzio fosse nato tre anni prima sarebbe stato suddito borbonico e Pirandello vide la luce a Girgenti solo sette anni dopo il plebiscito unitario. Accomunata in un volume della storia di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, la triade ha tuttavia la peculiarità di abbracciare l’intera penisola, dal nord al centro e al sud. Ciascuno a suo modo, si portano dietro con orgoglio il marchio d’origine, il lessico, gli usi e costumi del natio loco; ma anche il senso di appartenenza alla nuova realtà che finirà per accomunare le piccole patrie.
Diversissimi sotto vari aspetti, alcune caratteristiche li avvicinano. Tutti e tre sono borghesi e benestanti: ma se don Paolo Francesco padre di Gabriele non avrà preoccupazioni, Francesco Schmitz padre di Svevo fallisce per l’acquisto di una vetreria e Stefano Pirandello ha un tracollo economico quando l’acqua gli allaga la zolfara. È un dato in comune, ma ce ne sono altri: Svevo e Pirandello studiano ambedue in Germania, il primo a Segnitz e il secondo a Bonn, restando legati alla cultura tedesca; e invece D’Annunzio si innamora della Francia.
Tutti e tre romanzieri (riservando a Gabriele i beati regni della poesia), sono anche drammaturghi. Sulle scene D’Annunzio conosce molta fortuna con un testo inalterabile, La figlia di Jorio, e altri che il tempo non ha risparmiato; Pirandello, dal canto suo, è un autentico sovvertitore del dramma moderno; mentre il percorso di Svevo è virtuale. Delle 13 commedie che scrive, solo un atto unico è rappresentato lui vivente: e il suo amore per il teatro, che considerava «la forma delle forme», è senza speranza. Per giunta Gabriele e Luigi servono di braccio due grandi attrici, Eleonora Duse e Marta Abba; e avere un’amante alla ribalta sarebbe piaciuto anche al povero Italo.
1 Articolo scritto nel 2006 per il «Corriere della Sera», non apparso sul quotidiano. Il testo è inedito.
2 “Regnicoli” erano chiamati a Trieste, Istria e Dalmazia i sudditi del Regno d’Italia (n. d. r.).
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Però fu proprio Ettore Schmitz (l’unico dei tre a usare uno pseudonimo, pur se i nemici di D’Annunzio insistevano a chiamarlo Rapagnetta) che riuscì ad assicurarsi una normale esistenza accanto alla moglie Livia Veneziani, ricca e comprensiva. Per contrasto, gli ardenti rapporti di D’Annunzio con innumerevoli femmine furono tanto scandalosi quanto fugaci e si conclusero in un’amara solitudine; e Pirandello scontò il dramma di Antonietta Portolano, la bella consorte pazza che fra le mura di una clinica gli sopravvisse 23 anni.
Sul fronte del lavoro, finì sotto torchio soprattutto Svevo: prima a lungo impiegato alla Unionbank, poi schiavo a vita nel colorificio della terribile suocera Olga. Pirandello fu per quasi un quarto di secolo professore al Magistero, peso di cui si liberò appena nel 1922 dopo un vano braccio di ferro con il ministro Gentile che gli negava i permessi speciali. Lucrando spropositati compensi giornalistici ed editoriali, Gabriele proseguì a spendere e spandere nel segno del motto «Io ho quel che ho donato...». Qualcuno completò la frase con le parole «...a spese dello stato», quando per sorvegliarlo meglio Mussolini garantì al neo-nominato Principe di Montenevoso gli agi del “Vittoriale”, una reggia sul Garda.
Molto diverso fu il modo dei nostri di affrontare la Guerra mondiale. Ardente interventista, Gabriele (che per paura non andò mai dal dentista) accumulò superbe prove di coraggio dalla beffa di Buccari al volo su Vienna e all’impresa spavaldamente eversiva di Fiume. Pirandello consumò gli stessi anni nell’ansia per la sorte del figlio Stefano prigioniero degli austriaci, ma il suo atteggiamento poco intonato alle esaltazioni patriottiche traspare nel racconto Berecche e la guerra ; e intanto Svevo faceva affari vendendo vernici per le navi della marina austroungarica.
Di fronte al fascismo l’atteggiamento fu vario. Antagonista di Mussolini, il Comandante subì le petulanze degli sgherri di Farinacci e di fronte all’alleanza con Hitler minacciò di far saltare il “Vittoriale” con la dinamite. Pirandello trovò invece la faccia tosta di chiedere l’“alto onore” dell’iscrizione al fascio proprio nei giorni del delitto Matteotti, forse per assicurarsi una benemerenza speciale nella caccia alle sovvenzioni per la sua compagnia. Svevo prese la tessera per obbligo e se non fosse morto prima avrebbe fatto a tempo, come ebreo, a sparire in un lager. Era riuscito a cogliere i primi allori della fama tardiva che gli aveva procurato il suo ex maestro di inglese James Joyce, quando morì nel ’28 in un incidente di macchina. E Pirandello, ormai totalmente immerso nel mondo dello spettacolo, tentò la via del cinema; e fu a Cinecittà, nel ’36, sul freddo set decembrino de Il fu Mattia Pascal che si prese la polmonite fatale. Gabriele si spense
Svevo, D’Annunzio e Pirandello
al “Vittoriale” il 1 marzo 1938, avendo appena letto con un brivido sul «Barbanera» la previsione: morte di un uomo illustre. Alla segregazione semi-volontaria del Vate si era ispirato il siciliano nel suo Enrico IV, ma il modello, lungi dal risentirsi, aveva inventato per il rivale l’epiteto glorioso di “mago penetrante”. Evitandosi il più possibile, Gabriele e Luigi vissero in perpetua competizione per il primato nelle patrie lettere; e Svevo, ignorato da entrambi, sdegnava D’Annunzio e odiava Pirandello al punto di dolersi per la presenza di una sua fotografia funestante, secondo lui, il salotto di un’amica parigina. Ancora una connotazione particolare: Svevo fu a lungo rimpianto come il più spiritoso fra i frequentatori del triestino “Caffè Garibaldi”, D’Annunzio con i suoi sarcasmi sapeva strappare qualche risata e invece Pirandello (proprio lui, autore di un saggio sull’umorismo) non riuscì mai a far sorridere della vita e di ogni suo contenuto.
Tullio Kezich
L’uomo dai cinque volti1
Quando da giovanotto andavo ai festini dove si ballava, le ragazze mi piacevano tutte. Mentre ballavo con una ne adocchiavo un’altra e finito il disco correvo a imbastire il dialogo con una terza. Ma poi, al momento di andar via, scoprivo di non aver combinato niente... E ogni tanto, lo confesso, mi viene il sospetto che questa sindrome da Cherubino di Mozart sia stato il prologo metaforico di una lunga vicenda esistenziale. Temo insomma di aver civettato, e magari a vuoto, con tutte le sirene che mi sono passate davanti: il cinema, il teatro, la televisione, la letteratura... Conosciamo bene i classici eroi dalla doppia personalità: il dottor Jekyll e il signor-Hyde, Superman e il giornalista Clark Kent, Zorro il vendicatore e 1’apparentemente innocuo don Diego. Ma stasera voi avete di fronte una speciale tipo di uomo d’arte schizofrenico che di personalità non ne ha soltanto due, ma almeno cinque. Lo desumo dagli interventi che mi hanno preceduto, dei quali ovviamente ringrazio commosso e un po’ preoccupato: scrittore, commediografo, critico, sceneggiatore e produttore. Vogliamo mettere un po’ di ordine fra queste qualifiche? Togliamo subito di mezzo il produttore, che considero passato a miglior vita dopo un’attività di quasi un quarto di secolo nella società milanese fondata con Ermanno Olmi e poi alla RAI. Sono stato un produttore sui generis e a tempo determinato, senza l’indispensabile fiuto e la concretezza dell’uomo d’affari, spinto dalla curiosità per il “set”, dal caso, dalla smania di passare ogni tanto dall’altra parte. Di un’attività ormai conclusa mi resta l’orgoglio di aver aiutato volta a volta a fare i loro film amici come Olmi, Lina Wertmüller, Gianfranco De Bosio, Franco Giraldi, i fratelli Taviani e altri fra i quali (in un caso) addirittura il grande Rossellini. E proprio qui a due passi da Castellaro de’ Giorgi dove si è spento prematuramente, non posso dimenticare un fraterno amico di cui ho prodotto il primo film, Una storia milanese : Eriprando Visconti. Del cinema sul campo mi resta soprattutto il grato ricordo di aver visto alune parti del mondo metro per metro, così come d’obbligo quando si prepara un film, di aver fatto rivivere la Resistenza nelle calli di Venezia, di aver attraversato nottetempo la Polonia in taxi, di aver cavalcato un elefante in India ai tempi di Sandokan ed essere entrato nella gabbia della tigre. Togliamo di mezzo anche lo sceneggiatore cinematografico. L’ho fatto poche volte e quando i film sono andati in porto ben poco di ciò che ave-
1 Discorso tenuto al “Teatro Fraschini” di Pavia, 22 aprile 2004. Il testo è inedito.
L’uomo dai cinque volti
vo scritto è arrivato sullo schermo. È vero che senza merito ho vinto due “Nastri d’argento”, ma ho troppa stima per l’impeccabile professionalità degli sceneggiatori veri (penso ai miei amici Tullio Pinelli, Suso Cecchi d’Amico, Vincenzo Cerami) per considerarmi uno di loro.
Sullo scrittore (ma preferirei definirmi scrivente) ho i miei dubbi. Un paio di sortite letterarie ormai remote, anche se continuano a venir ristampate, non attestano di una vera vocazione. Lo scrittore è uno che scava dentro di sé e nella realtà che lo circonda, va in fondo, ci rivela la realtà della gente e delle cose sotto un’altra luce. E francamente non mi pare di aver realizzato niente di tutto ciò. Mi sono limitato a sfiorare la superficie degli eventi e a manipolare i ricordi infiorettandoli con un po’ di fantasia. Non dico che me ne pento, ma non posso neanche menarne un vanto particolare. In questo rapido contributo alla critica di me stesso, eliminati o ridotti alle giuste dimensioni il produttore, lo sceneggiatore e lo scrittore, restiamo pur sempre in due: il commediografo e il critico cinematografico. A queste mie residue incarnazioni, più consistenti e durevoli delle altre, un minimo di credito sarei disposto a darlo. Vogliamo far risalire il tutto all’amore per il teatro? Tale espressione ha un suono giusto qui nel “Fraschini” di Pavia, in questo luogo deputato fra i più ammirati e famosi, ma uscite in strada e scoprirete che è del tutto fuori moda soprattutto in Italia. Mi sono nutrito a lungo di tale sentimento, anzi in qualche misura sento di esserci nato e cresciuto dentro fin dai tempi in cui da bambino, inconsapevolmente parodiando Goethe, scrivevo e inscenavo e recitavo per il teatro delle marionette. In seguito ho militato in filodrammatica e a Radio Trieste come attore, rumorista, scribacchino e factotum. Quando ho avuto occasione di muovere il primo passo nel teatro vero, ho scoperto che il rito non era poi tanto diverso dall’epoca delle marionette. Rispetto ad altre attività artistiche di tipo solitario, mettere su uno spettacolo ti costringe a uscire dal chiuso dello studio, ti unisce ad altre persone per un fine comune, ti dà insomma l’illusione di appartenere a un gruppo che ogni volta, finita la tournée, si dissolve. E non trascuriamo il fatto che nel teatro ci sono le attrici, la grande chiamata che attirò sul palcoscenico (e ovviamente nei camerini) Goldoni, Pirandello, Brecht e tanti altri.
Il teatro è una festa mobile che ti dà un’illusione di onnipotenza: quella di copiare la vita, fermarla, modificarla, un po’ eternandola (si fa per dire) e un po’ prendendola in giro, rendendo omaggio ai buoni e castigando i cattivi. È quello che ho fatto con la trilogia triestina formata da Un nido di memorie, I ragazzi di Trieste e L’americano di San Giacomo. Dieci anni di storia di una città, dal ’40 al ’49, rivissuti, meditati, incorniciati. È il mio lavoro di
Tullio Kezich
cui si parla di meno (perché si è svolto in una situazione emarginata e per di più in dialetto), ma al quale tengo di più. Vero è che per il teatro sono nato tardi, ovvero in un momento sbagliato: proprio quando nel nostro paese la domanda di drammaturgia diventava esigua ogni giorno di più fin quasi a sparire del tutto di fronte all’avanzata imperialistica della regia. Per capire quanto poco conta oggi lo scrittore guardate il carattere con cui figura il suo nome sulla locandina, piccolo così rispetto ai nomi degli altri artefici dello spettacolo.
Come critico cinematografico sono invece nato prematuramente (lo facevo già da ragazzino per conto mio, ho cominciato a farlo in pubblico a diciassette anni), ma nel momento giusto. Ero ancora quasi un bambino quando uscì Ossessione di Visconti; ho vissuto il neorealismo idealmente al fianco di Rossellini, De Sica e compagni, poi mi sono trovato più concretamente al seguito di Fellini, Antonioni, Olmi e Francesco Rosi e altri maestri, ammirandoli, frequentandoli, diventandone amico e in qualche caso interlocutore o addirittura biografo. Ho imparato da tutti tante di quelle cose che se cominciassi a raccontarvele finiremmo domani mattina. Credo soprattutto di aver assimilato una facoltà che non si insegna, la capacità di vedere il cinema.
Purtroppo, dopo aver accumulato tanta scienza, mi ritrovo a vivere nel tramonto della critica. Tant’è vero che continuando a fare il mio mestiere, e risoluto a farlo fino all’ultimo, cioè vedere i film e scriverne, mi sento come quel personaggio di un romanzo di Giuseppe Berto che stava al banco di un negozio di cappelli quando tutti cominciavano a girare a capo scoperto. Nei giornali gli spazi sono presi dalla politica, dalla cronaca, dall’economia. Per quanto riguarda la critica, vige la pratica delle stelline, delle pagelline, dei giudizi in pillole. E parlando di scrittura, se una volta per un film ti concedevano magari cento righe, oggi te ne assegnano trenta riducibili. Sempre se c’è posto, se all’ultimo momento l’articolo lampo non viene rosicchiato o inghiottito dalla pubblicità. Nell’arredo del quotidiano postmoderno la critica è diventata un soprammobile, nel senso che può esserci o no. Peccato perché questa è la cosa che credo di aver imparato meglio. Oggi mi è chiaro, più che in passato, che fare critica non è esprimere un giudizio: mi piace, non mi piace, è bello, è brutto, quei discorsi là. Critica è riuscire a guardare il film con l’occhio connivente e insieme spietato del conoscitore. Pensarci su. Avanzare delle ipotesi. Dialogare con il film e al di là del film, con l’autore. Magari senza conoscerlo, anzi meglio senza conoscerlo.
Quando leggo un collega mi importa poco di sapere se siamo o no
L?uomo dai cinque volti
d’accordo sul giudizio di valore, se lui considera il film positivamente e io no o viceversa. Mi importa che la recensione mi apra delle prospettive, mi tiri fuori qualcosa a cui non avevo pensato, mi schiuda una finestra. Il senso di questo lavoro si può ampliare e trasferire sul piano esistenziale. Significa sforzarsi a non far scorrere il film della vita, senza tentare di capire, di fissare ciò che merita di essere fissato, di approfondire la conoscenza di tutto attraverso un rapporto il più stretto e appassionato possibile. Sui giornali sta diventando difficile farlo, ma nulla vieta ai giornalisti se sono anche uomini di continuare l’operazione ciascuno per conto proprio come fosse un compito a casa. Pur essendo consapevoli che sommando valutazioni, emozioni ed esperienze, vale a dire mettendo un mattone sull’altro, non riusciremo a costruire il giornale dei nostri sogni. A migliorare noi stessi, a migliorare il mondo, a capire il senso delle cose. Ma che importa? Potremo sempre dire, giunti al momento degli addii, che ci abbiamo provato.
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Il mio Fellini 1
Caro «Bianco e Nero», mi chiedi come è nato il libro Fellini edito da Camunia, e quali altre ricerche siano da condurre, dopo le mie, sulla vita di Fellini. Posso intanto risponderti dicendo che scriverlo ha significato dedicare all’impresa, sia pure non a tempo pieno, quasi tre anni. In siffatte iniziative è fondamentale la committenza: se non fosse stato per l’entusiasmo contagioso di Raffaele Crovi, editore di mia moglie Lalla, non avrei mai iniziato questo lavoro. Mi pareva di avere già inflitto al lettore troppe pagine sull’argomento, dai lontani libri sulle lavorazioni de La dolce vita e Giulietta degli spiriti a un’infinità di recensioni e interviste sull’arco di 35 anni; e non credevo di dover aggiungere altro. In realtà fu esaminando da vicino gli scritti felliniani miei e altrui (inclusa la recente biografia americana di Hollis Alpert) che mi accorsi di quanto ci fosse ancora da chiarire nell’intrico delle leggende, delle notizie acriticamente riportate da una pubblicazione all’altra, delle genericità. Faccio un esempio. Per l’attività di Fellini alla radio, che si estende dal dicembre ’40 ai primi mesi del ’47, si era parlato solo a proposito delle trasmissioni sulla copia dei fidanzatini «Cico e Pallina», legate all’incontro con Giulietta. Ma il periodo radiofonico è importantissimo per la formazione del nostro drammaturgo poiché segna il passaggio dalle storielle del «Marc’Aurelio» a sceneggiature che sono spesso l’adattamento degli stessi soggetti. L’esame di questi testi consente di stabilire che di fronte al problema della scrittura creativa l’Eiar era molto più aperta della RAI attuale; in una rubrica come “Terziglio” si fecero le ossa, drammaturgicamente parlando, molti futuri sceneggiatori. Per le ricerche sul periodo, dopo inutili tentativi presso gli archivi della RAI, mi stavo accontentando di un esame delle annate del «Radiocorriere» quando telefonò festante l’amico Sergio Raffaelli, che aveva ritrovato un certo numero di copioni originali nei fascicoli della censura all’Archivio di stato.
La collaborazione degli specialisti, assidua e generosa, mi è stata di grandissimo aiuto nel corso del lavoro. Devo per esempio al collezionista Gino Piazza di Milano Marittima, da me consultato personalmente su indicazione dello storico Vittorio Martinelli, la fotocopia dell’articolo di «Cinemagazzino» che sancisce l’avvenuto incontro tra Fellini e Aldo Fabrizi. Si tratta del paginone intitolato Che cos’è l’avanspettacolo? (18 giugno
1 Testo originariamente pubblicato su «Bianco e Nero», n. 1, 1988.
Il mio Fellini
1939), che comprende 11 interviste ad altrettanti divi del varietà. Il paginone è anonimo ma lo stile felliniano si riconosce in molti contributi; e del resto, firmando “Fellas”, il nostro è presente anche con due caricature di Totò e Viviana D’Ari. Per un biografo di Fellini questo è un ritaglio che non si può scavalcare perché senza l’amicizia con il comico romano il giovane giornalista non sarebbe mai arrivato tanto rapidamente al cinema, un’attività che allora lo attirava soprattutto per il livello già alto dei compensi (la vocazione emerse più tardi, cammin facendo). In nessuna delle numerose biblioteche da me frequentate, inclusa quella del Centro sperimentale di cinematografia, esiste la collezione di «Cinemagazzino», che all’epoca evidentemente non veniva considerato materiale degno di conservazione.
Proprio al Centro, invece, sfogliando l’annata ’39 di «Cineillustrato» mi sono imbattuto in una serie di recensioni notevolissime firmate da uno sconosciuto, Patrizio Rossi. Pensavo già a un giovane promettente morto in guerra (purtroppo il fatto non è infrequente) quando addentrandomi nell’annata ’40 ho scoperto che questo Rossi altri non era se non Ennio Flaiano che da un certo momento comincia a firmare con il suo vero nome e del quale nel corso dell’anno, escono oltre 50 articoli. Questo Flaiano “inedito” («Non c’è niente di più inedito della carta stampata» diceva Mario Missiroli) mi preparo a raccoglierlo in un volume della biblioteca cinematografica dell’editore Mario Bulzoni con il titolo della rubrica originaria, Un film alla settimana. Sarà uno dei sottoprodotti che hanno accompagnato la fabbrica dell’opera maggiore; e solo di passaggio accenno ad altri due; il libro intervista Giulietta Masina, pubblicato in lingua spagnola dall’editore Fernando Torres, Valencia, 1985; e il mio ritratto di Marcello Mastroianni incluso nel volume antologico I divi (Laterza, 1986).
Di pari passo con il lavoro in biblioteca è venuta assumendo una notevole importanza la ricerca delle testimonianze dirette. Metodologicamente direi che questa forma d’indagine, molto diffusa nel nostro campo sull’esempio dei disinvolti entretiens delle riviste francesi, è suggestiva e perfino divertente. Però lo strumento della testimonianza va adoperato in sintonia con l’esame dei giornali, dei documenti e dei film (come fece Francesco Savio per Cinecittà anni Trenta) altrimenti il rischio di cadere negli inganni della memoria diventa troppo grande. In linea generale quello che ricorda più cose sulla vita di Fellini, nonostante i suoi ripetuti dinieghi in proposito, è Fellini stesso, che ha attraversato con intelligenza sempre vigile e curiosità perpetua le varie stagioni della sua multiforme operosità. Come un giudice istruttore, il buon biografo deve tuttavia diffidare dei testimoni e includere fra i sospetti anche se stesso; c’è sempre il rischio di fantasticare sui ricor -
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di o di ricordare fantasticherie. Anch’io talvolta, ripercorrendo gli anni di sodalizio col mio personaggio, mi sono reso conto di aver alterato nella prospettiva del ricordo la realtà delle cose.
La connessione fra la soggettività autobiografica e l’oggettività biografica è probabilmente una caratteristica del mio libro ed è stata messa in luce da quasi tutti i numerosissimi recensori (oltre 50), con osservazioni non di rado illuminanti. Molti hanno avuto la bontà di scrivere che Fellini non è solo la storia di un autore, ma un pezzo di “Kulturgeschichte ” italiana; e questo, evidentemente, è l’elogio più ambito. Alcuni hanno contribuito con precisazioni e rettifiche su singoli aspetti ed episodi, e ne terrò conto nelle traduzioni che già si annunciano (sotto l’insegna della Diogens Verlag di Zurigo) e nelle prossime edizioni.
È molto difficile per chi è abituato alla misura dell’articolo o del saggio tener d’occhio un fronte di centinaia di cartelle senza cadere in sviste, errori, contraddizione e ripetizioni. Una notazione interessante è che il libro, per la sua discreta diffusione e per il tipo di riscontri suscitati (fra l’altro un “Premio Selezione Sirmione Catullo”, presidente Giancarlo Vigorelli, e il “Premio Volterra”, assegnato da Enzo Biagi), ha rivelato una tendenza a uscire dall’ambito specialistico. Per una volta nella vita, su sollecitazione dell’amico editore, ho anche accettato di compiere un periglioso cursus honorum di presentazioni varie e interviste radiotelevisive. Con alterno esito e con sorprese alle volte gradite, come l’ampia e bellissima trasmissione monografica che mi ha dedicato Corrado Guerzoni per “RadioDue 3131”. Mi resta l’invidia per i biografi anglosassoni, che possono dedicare ai loro studi un tempo infinitamente maggiore (classico l’esempio di David Robinson per il suo Chaplin, recentemente apparso in italiano), risalendo per secoli l’albero genealogico dei biografati (io non vado oltre i nonni di Federico), operando approfondite ricerche d’archivio, seguendo la logica pragmatica del procedimento day by day. Questo lavoro ampio e approfondito resta ancora da fare, nel caso di Fellini, e io mi lusingo che un futuro studioso possa trovare nel mio lavoro spunti per proseguire la ricerca. Ai docenti universitari suggerirei, per esempio, di assegnare tesi sulla bibliografia giornalistica di Fellini, affrontando il problema non facile della schedatura di tutto l’immenso materiale: migliaia di articoli disseminati su decine di testate fra il ’38 e il ’47.
A me stesso auguro, per eventuali successive messe a fuoco, di poter vedere e rivedere certi filmetti molto rari o addirittura scomparsi di Fellini sceneggiatore: Documento Z 3, Quarta pagina, Chi l’ha visto?. E i materiali del film incompiuto Gli ultimi Tuareg, quelli dell’avventuroso viaggio a Tripoli in
Il mio Fellini
piena guerra, non saranno per caso reperibili negli anfratti di qualche magazzino? Il senso finale del discorso è che alla nostra generazione – quelli diventati membri vitalizi della confraternita del cinema italiano vedendo Ossessione, Roma città aperta o Sciuscià – resta l’impegno di testimoniare, di mettere su carta gli eventi straordinari che abbiamo vissuto prima che l’ala nera del rimbecillimento finisca di confondere i nostri cervelli intasati di immagini.
Tullio Kezich
Sulla triestinità1
Ogni tanto il destino mi riporta a casa. Circostanze tristi, in genere la sparizione di persone care, più di rado circostanze liete come la presente. Ogni volta provo la sensazione che in queste vie e piazze di Trieste, per la durata di un breve soggiorno proprio come mi accade non di rado nei sogni, potrei gustare la rassicurante possibilità di camminare a occhi chiusi sia di notte che di giorno. Sicché trovo conferma che se gli altri luoghi della mia esistenza sono gli scenari intercambiabili, il palcoscenico resta questo. La città portuale con i suoi bianchi palazzi fra il monte e il mare, le navi al largo, le case sulla collina, l’Acquedotto dove sono nato proprio di fronte alla casa dov’è nato Svevo, i vicoli di Rena Vecia e lassù San Giusto che ci protegge tutti.
L’altro giorno mi ha chiamato al telefono un vecchio compagno di scuola. Gli ho detto con mal celato orgoglio che stavo arrivando perché all’Università mi conferivano la laurea ad honorem. E lui, sinceramente stupito: « A ti? ». Assumo questa battuta come un correttivo rispetto alla laudatio, un monito a non esaltarmi troppo e a non montare in cattedra. Eppure, per la prima e credo ultima volta, in cattedra ci sono e qualcosa da quassù devo pur dirvi, anche se in questo momento mi sento una specie di re del carnevale ben consapevole che all’avvento della quaresima dovrò deporre gli illusori simboli del potere.
E partiamo pure da questo « A ti? » che pronunciato con affettuosa insolenza rappresenta una piccola illuminazione in quanto tipica manifestazione della triestinità. Credo proprio che non esiste altro luogo sull’intero pianeta dove qualcuno accoglierebbe in tale modo una bella notizia riguardante un amico. Perciò tra i molti temi che ero libero di scegliere, quello della triestinità mi si è imposto in maniera perentoria. Pur nella consapevolezza che fra mezz’ora, quando avrò finito, né io né voi saremo venuti a capo del problema. Non sarà qui e oggi che riusciremo a definire la formula segreta della triestinità, che batte in segretezza il segreto della pittura sottomarina della ditta Veneziani. Mi rendo conto, insomma, di accingermi a un’impresa disperata, ma la sento come un atto dovuto. Perché se io sono
1 Lectio doctoralis pronunciata da Tullio Kezich in occasione della cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa all’Università degli Studi di Trieste da parte della Facoltà di Lettere e Filosofia il 7 giugno 2001, poi pubblicata in Elvio Guagnini (a cura di), Sulla triestinità. Tullio Kezich all’Università degli Studi di Trieste, Quaderni del Dipartimento di Italianistica Linguistica Comunicazione Spettacolo, Università degli Studi di Trieste, Trieste, 2003.
Sulla triestinità
io, e se mi trovo qui, in tutta questa faccenda la triestinità conta parecchio. Vediamo dunque di abbordarla in qualche suo transito sulla via maestra della letteratura, magari prendendola dalle scorciatoie dell’autobiografia.
Quando ci si attenta a definire in sede letteraria lo specifico della triestinità, il primo riferimento che si profila inevitabile è Il mio Carso di Scipio Slataper. Ispido, lancinante, a tratti ingenuo, ma riscattato da una vibrazione morale che lo fa palpitare al di là della pagina. Da questo libretto il ventottenne Emilio Cecchi prese le distanze in uno scritto del 1912, l’anno stesso della pubblicazione; e al povero Scipio, dall’alto di una cultura ammantata nella consapevolezza del proprio prestigio, affibbiò l’etichetta di “Sigfrido dilettante”. Sentenziò: «Il libro è immobile e perciò falso... È una cosa isolata, aggomitolata...». Si potrebbe in parte consentire con le riserve del futuro grande critico, o almeno intenderne le motivazioni, ma ciò che emerge dall’articolo è soprattutto la conferma della fatale incomprensione fra noi e loro, gli italiani di più antico e indiscusso lignaggio, i regnicoli come si diceva una volta. Quelli che delle nostre faccende non hanno mai capito granché. Che arrivando pellegrini dopo la Prima guerra chiedevano dove fosse il ponte fra Trento e Trieste. O addirittura quelli che ancora oggi non affrontano i centocinquanta chilometri di autostrada da Venezia alla nostra città. Quelli che con il loro disinteresse riescono sempre a ferirci, provocando una reazione a dispetto del tipo: «E a noi che ce ne importa di cosa pensano quelli là?» Quelli ai quali da oltre un secolo ripetiamo, parafrasando
Slataper: «Noi vi amiamo, fratelli, ma noi siamo noi e voi siete voi».
Quanti di loro hanno letto o si propongono di leggere Il mio Carso ? Pochissimi. E invece dalle nostre parti, valga ciò che vale, questo non è un libro come un altro, ma una cosa che abbiamo dentro. Se lo tiro giù dallo scaffale, il che accade a larghi intervalli di vita, mi imbatto in frasi che so a memoria, come quando all’opera ti arriva il motivo musicale o i versi del libretto che conosci da sempre.
«Vorrei dirvi: Sono nato in Carso, in una casupola col tetto di paglia...
Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri...
Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava... Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste...».
« S’ciavo2 vuoi venire con me? Io ti faccio padrone delle grandi campagne sul mare...».
2 Espressione dialettale triestina che significa “slavo” (n. d. r.).
Tullio Kezich
«Nella mia città facevano dimostrazione per l’università italiana a Trieste. Camminavano a braccetto, otto a otto; gridavano: viva l’università italiana a Trieste, e strisciavano i piedi per dar noia alle guardie...».
«Sono tra ladri e assassini: ma se io balzo sul tavolo e Cristo mi infonde la parola io con essi distruggo il mondo e lo riedifico...».
«Cosa fai qui, davanti a questo tavolino, in questa sporca camera d’affitto?... Ora qui anche Shakespeare è una pila di libri che ti ruba un brano d’orizzonte... Sul Secchieta c’è la neve. Andiamo sul Secchieta».
La sensazione che ebbi nel rispondere molto presto e con tutto il cuore a questi e altri appassionati richiami del testo non fu quella di un’acquisizione, piuttosto di un’agnizione. Ovvero il trasalimento di ritrovare sulla pagina qualcosa di ciò che hai assorbito con il latte materno, toni familiari, frammenti dei discorsi uditi nell’infanzia molto prima di afferrarne il significato. Il nostro lessico familiare, come direbbe Natalia Levi Ginzburg, discendente da un ceppo ebreo triestino. Slataper recita il proprio dettato, a volte declama cercando l’effetto, spinge la prosa a tenzone con la poesia di cui non possiede la chiave sublime. Lo affermo senza la velleità di aggiungere ulteriori pagine all’abbondante bibliografia critica sull’argomento, come semplice introduzione alla frammentaria relazione sul lungo viaggio di tutta una vita attraverso il territorio carsico e adriatico che chiamiamo letteratura triestina.
Una vasta regione con bellezze di mare e di contrada che nel confronto con altri panorami emergenti dalle scritture d’ogni parte del pianeta ha una caratteristica particolare. È una copia conforme del mondo reale, assomiglia perfettamente a ciò che possiamo vedere qui in città quando ci affacciamo a una finestra spalancata sull’arco delle colline o a perdita d’occhio sul golfo scintillante. E i nostri uomini di penna (che sono anche uomini di pena) possiamo tranquillamente assimilarli in chiave anti-intellettuale alla gente comune, quella che va in giro occupata negli impegni, scossa dalle passioni e misurandosi con gli accadimenti della quotidianità. Se Carlo Bo lanciò la formula “la letteratura come vita”, quassù a Trieste potremmo rovesciarla e dire: “la vita come letteratura”. Nel tentativo di ribadire la sostanziale uguaglianza fra i due termini; e fra l’uomo che scrive e l’uomo che lavora o, più semplicemente ancora, l’uomo che vive la propria vita.
Sulla triestinità
Perché per noi la vera letteratura non è scoperta di qualcosa che ignoravamo, ma riscoperta, analisi, messa in valore di pensieri e sentimenti che ci appartengono da sempre.
Ipotizzando che il primo baedeker per attraversare l’accidentato territorio della triestinità sia Il mio carso, dobbiamo subito aggiungerne almeno un secondo, La coscienza di Zeno di Italo Svevo, e un terzo, Il Canzoniere di Umberto Saba. E a tale triade mi limiterò per semplificare la mappa, evitando ulteriori riferimenti ai minori che in qualche caso, passato e presente, non sono affatto da considerare tali; e formano tutti insieme un panorama letterario di grande prestigio e originalità. Mi duole non nominare soprattutto il mio carissimo Pier Antonio Quarantotti Gambini, Voghera, Magris, Tomizza del quale sto leggendo l’ultimo libro così denso e importante3 . Se li affrontassi uno per uno questa non sarebbe più una lezione, ma un intero corso.
Gli autori prescelti sono tutti e tre nati nell’Ottocento, ma con le loro opere si sono avventurati molto oltre. La coscienza di Zeno è un romanzo del 1923 che cinquant’anni fa riaffiorò alla grande dall’oblio al quale l’avevano condannato per quasi un quarto di secolo la stolida malevolenza dei concittadini (« Svevo no saveva scriver, no’l saveva l’italian ») e l’obbrobrio della campagna razziale (quando gli antisemiti, nottetempo, buttarono giù l’erma dello scrittore al Giardino pubblico). La mia personale triestinità ha continuato a svilupparsi principalmente secondo questi due modelli divaricati, Slataper e Svevo, in perfetto contrasto fra loro.
Ho sentito dapprima l’attrazione di Scipio, come quella per un compagno di scuola animoso, entusiasta, sempre davanti a tutti, primo della classe e ribelle nello stesso tempo. Italo Svevo si è insediato nella mia vita più tardi e stabilmente. Sommesso, spiritoso e sornione come certi amici di mio padre avvocato. Svevo è un filosofo e ironista, inconsapevole precursore di quello che nel corso degli ultimi decenni è stato consacrato dal cinema americano come l’umorismo ebraico.
«Adesso che sono qui ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter versare su di essa la colpa della mia incapacità?...»
«[Nel matrimonio] si vive... uno accanto all’altro, immutati, salvo che per una nuova antipatia per chi è tanto dissimile da noi o per un’invidia per chi a noi è superiore».
3 Sergio Tomizza, Esilio, Mondadori, Milano, 1998 (n. d. r.).
Tullio Kezich
«La vita non è né bella né brutta, ma è originale».
«Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute... Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie».
Pur avvertendo l’insanabile contraddizione fra il modello Svevo e il modello Slataper, non ho potuto evitare che le opposte pulsioni si scontrassero o confusamente si sovrapponessero nell’animo mio. Da sempre ho pendolato fra le due suggestioni, in quanto triestino mi sono spesso sorpreso a fare due parti in commedia. Mentre ricordo che la cara e intemperante Anita Pittoni mi forzava a scegliere: «O de qua o de là, noi triestini semo dela parte de Slataper, come Giani Stuparich, o de la parte de Svevo, come mi ». Per Anita, Svevo restava pur sempre « quel vecio còcolo» 4 che occhieggiava le sue giovanili grazie al caffè Municipio. In un’ideale erma bifronte dell’“ homo tergestinus ”, i due scrittori di cui stiamo parlando ne rappresentano i differentissimi profili. Slataper nasce nel 1888 e scompare nel 1915 a soli 27 anni. Sulle circostanze di questa morte riferisce Biagio Mann. Nelle trincee del Podgora, ancora in attesa della nomina a sottotenente, Scipio non volle mandare nessuno dei suoi soldati a tagliare i reticolati austriaci con le pinze difettose fornite dall’amministrazione militare; preferì andarci lui e rimase ucciso. E intanto Svevo, nato nel 1861, sbarcava la guerra vendendo con ottimi profitti la pittura per le chiglie delle navi alla marina militare austro-ungarica. Morì a 67 anni il 13 settembre 1928 (quattro giorni prima della mia nascita) all’ospedale di Motta di Livenza, dov’era stato ricoverato dopo un incidente di macchina. Negli estremi aneliti rincuorò i congiunti con una battuta arrivata fino a noi: «Vardè, fioi, no xe gnente morir »5.
Scipio aveva 27 anni meno di Italo, avrebbe potuto essere suo figlio; e un amaro destino lo fa vivere 40 anni di meno. Si potrebbe dire che se Slataper nasce e muore fanciullo, Svevo nasce vecchio e muore “vecchione” (come si auto-definiva). Se si fossero incrociati a passeggio sotto gli alberi dell’Acquedotto, alla vigilia della Prima guerra, che cosa avrebbero potuto
4 Espressione dialettale triestina che significa letteramente “quel vecchio ovetto”, in cui “ovetto” sta per un generico vezzeggiativo, con il significato affettuoso di “caro”, persona preziosa alla quale non si può che voler bene (n. d. r.).
5 Frase in dialetto triestino che significa “Guardate, figliuoli, morire è una cosa da niente” (n. d. r.).
Sulla triestinità
dirsi faccia a faccia l’ardente interventista e il gran borghese che in controtendenza stava elaborando un utopistico progetto di pace universale? Di Slataper, Svevo avrebbe detto scuotendo il capo: « el xe un mulo esaltado»6 ; e l’altro l’avrebbe ricambiato trattandolo da “leccapiattini ” . E poi Svevo non avrebbe potuto impedirsi di pensare che quel giovane collaboratore di importanti giornali del regno non avesse letto, o comunque avesse bellamente ignorato, i suoi grandi romanzi pubblicati negli anni novanta, Una vita e Senilità, destinati a diventare dei classici. Quanto a Slataper, condividendo il pregiudizio corrente, considerava Svevo una figura intellettualmente irrilevante e perfino ridicola: un uomo d’affari vittima della debolezza di credersi uno scrittore.
La tipologia slataperiana è presente a Trieste nella galleria del vitalismo che in un abbraccio panteistico con la natura include figure che ben conosciamo: il rocciatore, lo speleologo, il canottiere, il velista, lo sportivo in genere. E per traslato il volontario, l’uomo di fede. Mentre la tipologia sveviana riguarda il sedentario, quello che al caffè legge i giornali sulla stecca di bambù, il giocatore di scacchi, il gaudente. Insomma il refrattario, l’uomo senza qualità, l’uomo del dubbio. Il primo canta con fierezza: «Non deporrem la spada – fin che sull’alpi Giulie – non splenda il tricolori», l’altro (e fino a poco tempo fa, dirlo sarebbe stato scandaloso) canta « Demoghèla »7 Siamo due città, spartite nell’adorazione del sole e dell’ombra. Però il sole vuol dire anche « piova pesa 8 e violenta » (come la chiama Scipio), bora, fulmini, mareggiate e guerra. E ombra vuol dire un tetto che ti protegge da tutto ciò, i muri che ti riscaldano, l’occasione per concedersi un’ora di “Gemuetlichkeit ” in una vita che aspira solo alla pace. Che cosa aiuta a tirare avanti nel corso dell’esistenza? È più importante battersi o uscire indenni dalle imboscate della storia? Dobbiamo alimentare la fede o praticare il dubbio? È difficile rispondere, ciascuna delle due scelte comporta rischi: ogni fede può degenerare nella follia dell’integralismo, mentre il dubbio è sospeso sul baratro dell’indifferenza.
Varie volte ho sentito qualcuno chiedersi come avrebbe reagito Slataper, se fosse sopravvissuto, all’avvento del fascismo. Magari in un primo momento avrebbe simpatizzato, come Prezzolini e altri “vociani” della cerchia fiorentina; ma in seguito se ne sarebbe sdegnosamente staccato, alla maniera di Giulio Camber Barni; e l’avremmo ritrovato, allo scoccare
6 Frase in dialetto triestino che significa “È un ragazzo esaltato” (n. d. r.).
7 Espressione dialettale triestina che significa “diamogliela” (n. d. r.).
8 Espressione in dialetto triestino che significa “pioggia pesante” (n. d. r.).
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dell’ora, impegnato a combattere un’altra volta contro il tedesco invasore. Posso testimoniare che Il mio carso rappresentò un riferimento alto e rassicurante nei mesi dell’occupazione nazista; e leggendolo nessuno di noi ragazzi d’epoca dubitò per un momento che Scipio vivo in quei fatidici giorni d’aprile sarebbe sceso in strada con le armi in pugno, rischiando di morire sotto il fuoco dei nazisti o magari massacrato subito dopo nelle foibe dell’armata di Tito.
E Svevo come si comportò dopo la marcia su Roma? Accettò la tessera 41009 della Confederazione Generale Fascista dell’Industria Italiana, in qualità di rappresentante della ditta Gioachino Veneziani, ma tutto ciò che veniva scrivendo in quegli anni è all’antitesi della retorica imperante; e se poi fosse pervenuto a diventare anagraficamente il “vecchione” che credeva già di essere, avrebbe avuto serie probabilità di finire ultra-ottantenne a Buchenwald con la stella gialla e un numero tatuato sul polso.
Avevano un bel guardarsi in cagnesco i nostri due triestini, il vecchio e il giovane. Il maledetto secolo ventesimo stava tessendo l’ordito in cui prima o poi soffocarli entrambi. E a chi pensasse che questa è fanta-biografia, ricordo che fu storia vera e dramma vissuto di non pochi coetanei del nostro eroe e del nostro antieroe; e ci aiuta a capire che la distanza fra Slataper e Svevo non fu poi tanto incolmabile. Su entrambi, in modo diverso, alitava infatti quel “vento di libertà” cantato in una sua orecchiabile poesiola da Mario Soldati che sposò una fiumana. Ho perso il libro, cito a memoria: «Dopo tanti anni / torno a Trieste / rivedo Piazza dell’Unità / e come allora / oggi m’investe / un vivo vento / di libertà». Il culto della libertà, in tutte le sue sfumature, si manifesta a Trieste nella seconda metà dell’Ottocento attraverso un’irrefrenabile tensione patriottica. Ma la patria non è la nazione di appartenenza, ovvero l’impero austroungarico, è l’Italia. Diciamolo pure, anche se non è di moda mentre un preclaro opinionista ha decretato la “morte della patria” e in giro si scoprono le tombe e si levano i mortacci dell’Anti-Risorgimento, si inneggia ai briganti e condannati per vilipendio del tricolore si rischia di finire al governo anziché in galera. Nella composita formula della triestinità c’entra quel sentimento fiero e magari un po’ sventato per cui un’intera città sposò contro il proprio interesse l’idea nazionale, proclamandosi disposta a tornare nido di pescatori sotto l’Italia piuttosto che emporio di fiorenti traffici sotto l’aquila bicipite. Fu l’amore per questa patria pressoché immaginaria che indusse Aron, poi Ettore, ad assumere il nome d’arte di Italo e abbagliò Scipio votandolo al sacrificio. La patria della fantasia si paga col sangue. «Per sempre a Italia la sposai col canto» dice, riferendosi al rapporto
Sulla triestinità
con Trieste, il poeta Umberto Saba, che completa l’odierna trinità. Quello che lo riguarda è un discorso a parte per varie ragioni. Intanto perché parlandone posso uscire dalle testimonianze di seconda mano e dalle illazioni rievocando cose viste. Ho infatti incontrato il personaggio prima ancora della sua poesia. L’ho frequentato in qualità di giovane cliente della Libreria Antica e Moderna in via San Nicolò, e sopportato con le sue bizze e le sue stizze, e ammirato a bocca aperta di fronte a certe sortite che avrei dovuto trascrivere per la posterità. Sempre geniale, sovvertitore, illuminante: un prototipo, un ombroso professore d’indomabile indipendenza. Nato nel 1883, ventidue anni dopo Svevo e cinque anni prima di Slataper, alla vigilia della Prima guerra ha familiarità con Mussolini, tanto da diventare poi il corrispondente da Trieste de «Il Popolo d’Italia». Vedi i rischi dell’irredentismo, ai quali il poeta prontamente reagisce attestandosi su un’opposizione rabbiosa; e Benito non lo chiama più per nome, lo battezza “el Cubo” Si destreggia come può fra le tragedie della seconda guerra mondiale, nascondendosi per sfuggire alla deportazione, che per lui figlio di madre ebrea è un tremendo pericolo. Dei tre scrittori è quello che vive più a lungo: nell’agosto 1957 a 74 anni, ricoverato all’ospedale San Giusto di Gorizia, lo trovano morto con in mano pipa e fiammiferi. Anche Saba, come gli altri, gode di scarsa considerazione nell’ambito cittadino. Ritaglio da Storia e cronistoria del Canzoniere la scenetta dei due filosofi che passeggiano per via Domenico Rossetti: «Hai letto – domandò uno di essi, rivolto al compagno – il nuovo libro di Saba?» L’altro accennò di sì col capo. «Non è nulla, vero?» «No, nulla». Altro che nulla. Il poeta di Trieste e una donna è colui che sublimando il nostro io ci esplora, ci racconta e ci fa eterni. Per me, a differenza degli altri due, non ha mai potuto costituirsi come modello. Troppo alto, ispirato, inimitabile. Cercare di assomigliargli, di vedere il mondo attraverso il filtro della sua esasperata e irradiante sensibilità, è come invocare la grazia divina.
«Nulla riposa della vita come la vita».
«Non quello che di te scrivono sotto
Pianse e capì per tutti era il tuo motto».
«Amai tante parole che non uno osava.
Mi incantò la rima fiore
Amore, La più antica e difficile del mondo».
Tullio Kezich
«Né a te dispiaccia, amica mia, se amore Reco pur tanto al luogo ove son nato, Sai che un più vario, un più movimentato
Porto di questo è solo il nostro cuore...»
Tormento è la parola che certamente lega fra loro, e a Trieste, Svevo, Saba e Slataper. L’«anima in tormento» di cui parla Scipio, 1’«aria tormentosa» che respira Saba, le famose «rane» gracidanti dentro il petto di Svevo. Se questi sono i protagonisti tipici, dietro c’è il panorama in movimento della città sul quale dobbiamo pur gettare uno sguardo. Quando di notte si attraversa Piazza dell’Unità vuota e illuminata ci si scopre circondati dalla gabbia neoclassica che imprigiona la realtà triestina. I bianchi palazzi attestano la presenza dell’elemento ex-austriaco, assillante pseudo-grandioso e ormai quasi caricatura di se stesso. In questo senso Trieste, nata sull’onda dei traffici come una città di frontiera del Far West, si è rapidamente ripulita e istituzionalizzata, ha saputo dare di sé un’immagine perfino pretenziosa, ha imposto un tono di rappresentanza. L’amore per l’Italia nasce anche da un bisogno di evadere dalla costrittiva cornice tipo piccola Vienna sul mare, come un’istanza di novità contro il rischio di un’imbalsamazione monumentale.
Di triestinità è intriso il mondo dei sogni, dove una sorta di patto ancestrale ci lega alla psicoanalisi tramite gli studi e l’operosità del pioniere Edoardo Weiss seguace di Freud. In quello che Giorgio Voghera chiama «il ciclone psicoanalitico» dal quale la città si lasciò investire negli anni fra le due guerre, Slataper che ne sarebbe stato il più accanito oppositore non c’è più. Svevo vive la psicoanalisi con precoce interesse, come chi è tanto curioso di se stesso, ma risolve l’impatto in un agro sorriso. Quella che fu chiamata “scienza ebraica” viene invece sofferta in corpore vili e propagandata da Saba, che in qualità di impazientissimo paziente di Weiss mette la psicoanalisi al posto della fede che non possiede (il laicismo è una componente essenziale della triestinità) e ne fa una specie di religione dogmatica.
Guardando alla storia di Trieste, scopriamo il panorama di una città fervida, operosa e dotta. Una città vibrante di iniziative industriali e commerciali, animata da avveniristiche tensioni sociali. La città che incantò James Joyce, nei ripetuti soggiorni tra il 1904 e il 1920, come attesta il bellissimo libro The Years of Bloom9 di John McCourt. Città musicale, che vive appassionatamente la guerriglia canora tra Verdi e Wagner riuscendo ad amarli tutti e due; e che sa alternare alla più raffinata “Kammermusik ” di matrice mitteleuropea il
9 Cfr. la recente edizione italiana John McCourt, James Joyce. Gli anni di Bloom, Mondadori, Milano, 2004.
Sulla triestinità
gusto delle canzoni d’osteria. Una città che entra con piena naturalezza nella “Kulturgeschichte” , con proposte eclettiche che vanno dal giornalismo all’editoria, dalle conferenze alle esposizioni d’arte e valorizzando quella grande novità, altrove misconosciuta, che è il cinematografo, veicolo di americanismo e avvenirismo. Nei confronti della settima arte l’entusiasmo di Joyce è tale da indurlo a un catastrofico tentativo di importare il cinema a Dublino, dove anche su questo fronte sono tanto più indietro rispetto a Trieste.
Però, attenzione: il quadro festoso ed edificante che ci prospetta McCourt fa a pugni con la visione ferocemente critica di Slataper, esordiente nel 1909 su «La Voce» con le celebri e contestate Lettere triestine in cui denuncia la mancanza di istituzioni di cultura, lo stato a suo dire miserando dei musei e delle biblioteche, il predominio del provincialismo e della grettezza mercantile. In breve, per dirla con le sue parole, il travaglio delle due culture opposte: la commerciale e l’italiana. Chi è più vicino alla verità della Trieste di un secolo fa? Il risentito Slataper o l’incantato rivisitatore del soggiorno di Joyce? Leggendo comparativamente i testi si è tentati di dar ragione ora all’uno ora all’altro, ma probabilmente la verità sta di qua e di là nello stesso tempo.
Trieste è proiettata come nessun’altra città oltre gli oceani dalle linee di navigazione dell’Austro-americana, New York, il Sudamerica, l’Oriente. Culla di alcune generazioni di uomini di mare già assuefatti a sentire il mondo come piccolo. Adattatasi all’uso ufficiale della lingua tedesca, se n’è fatta uno strumento di scambio e sospinge i suoi figli alla scoperta dell’Europa. Svevo studia a Segnitz, Slataper insegna ad Amburgo e scrive su Ibsen, Stuparich fa un libro sulla nazione ceca. Anche qui salta agli occhi una contraddizione fra questa aspirazione sovranazionale e l’ostinato rifiuto di apprendere la lingua che si parla ai capolinea dei tram di periferia, la sdegnosa ignoranza della cultura slovena e croata. Per il minimo di rapporti che si stabiliscono con i vicini di casta, basta il dialetto. Due triestini che si incontrano in qualsiasi parte della terra parlano subito in dialetto. Si sa che Joyce lo praticava molto meglio dell’italiano. E ricordo il mio ultimo incontro milanese con Strehler all’“Hotel Milan”. Ci mettemmo come sempre a chiacchierare in dialetto, trascurando il fatto che con lui c’era il francese Jack Lang. Tanto visibilmente sbalordito, che Giorgio si affrettò a spiegargli: «C’est le patois de Trieste ». Il dialetto è la nostra lingua franca, il linguaggio che smussa le asperità e accomoda le cose. Svevo scrisse: «Noi triestini con ogni parola italiana mentiamo». Ma il dialetto, pur prezioso strumento unificante, non può esprimere tutto. Ci fu un esperimento stravagante di Marcello Mascherini, che nell’immediato dopoguerra, al Circolo della Cultura e delle
Tullio Kezich
Arti, volle tenere in dialetto una conferenza sullo scultore Aristide Maillol, da poco scomparso. Scappava da ridere nel sentire Marcello affrontare delicati problemi di storia dell’arte e teoria dell’espressione maneggiando uno strumento linguistico inadeguato. Ma lui tirò avanti fino in fondo, insistendo: «Cossa ghe xe de mal se ve parlo de arte come se fussimo in cafè? ».
Forse anche questo mio ragionare, perché fosse più esplicito e accessibile, avrei dovuto farlo nel “patois” di Trieste. E sempre più mi convinco che è stato presumere troppo tentar di chiarire in breve che cosa sia la triestinità. Diciamo che è un ammasso di contraddizioni, tutto e il contrario di tutto. La formula misteriosa comprende multinazionalità e irredentismo, commercio e velleità artistiche, ebraismo e socialismo... e purtroppo un buon pizzico di fascismo. Ma anche pragmatismo da una parte, idealismo esasperato dall’altra. Eroismo e “panciafichismo”. Orgoglio dell’ascendenza romana antica e orgoglio speculare della barbarie più rozza. Culto dei penati e smania impellente di buttarli giù. Estroversione e introversione a correnti alternate. Aspirazione a farsi cittadini del mondo e tendenza a chiudersi in se stessi. Giocare al ribasso sul proprio io e ricavarne un assurdo senso di superiorità. Idealizzare il sentimento amoroso e farne oggetto di ludibrio. Proclamarsi attaccati ai piaceri dell’esistenza e immergersi totalmente nei sogni. Soffrire o godere il proprio legame con la città come un elastico cordone ombelicale che appena passi l’Isonzo ti tira indietro e ti riporta qui; oppure, al contrario, tagliare decisi il detto cordone e vagare sempre più lontani per le strade del mondo fingendo che Trieste non esista più. Pur sapendo bene che non è così. Amare svisceratamente Trieste e odiarla nello stesso tempo. Amare disperatamente l’Italia e in trasferta a Vienna correre a inginocchiarsi sulla tomba di Francesco Giuseppe al Kapuzinergruf. Avere dietro di sé una grande storia e sentirne la responsabilità e il fastidio.
La triestinità è sdoppiamento perenne. È camminare sulla linea della frontiera con un piede di qua e l’altro di là. È accettarsi con ironia o respingersi con rabbia. È sentire la propria inadeguatezza (proprio come capita a me in questo momento) e nello stesso tempo considerarsi superiori. Eppure saremo forse una città di pazzi, ma non di servi. Qualcuno definì gli Stati Uniti «una vasta repubblica di schiavi fuggiaschi». Trieste, in piccolo, è stata e forse continua a essere qualcosa di simile. La città più americana d’Europa. Nipoti e pronipoti di avventurieri immigrati, non di rado di dubbia reputazione, siamo come un anticipo del mondo futuro che sarà un colossale “mismàs10 ” di razze e nazioni. Assomiglierà perciò a un’immensa
10 Espressione dialettale triestina, ma anche veneta e friulana, derivante dal tedesco, che significa “miscuglio” (n. d. r.).
Trieste; e qualcuno ripercorrendo la nostra storia scoprirà che siamo stati un laboratorio di modernità, una fabbrica imperfetta di cittadini del mondo. Se davvero ci sentiamo «fratelli di tutte le patrie combattute», come affermava Slataper quasi un secolo fa, e se ci mostreremo all’altezza delle situazioni a cominciare da quelle che riguardano la ricomposizione (ma dovrei dire la reinvenzione) dei rapporti con i nostri vicini sloveni e croati, ci sarà tanto da fare per noi nel terzo millennio.
Per concludere, ricevendo con stupefatta gratitudine l’odierno riconoscimento, permettetemi di rivolgere a me stesso, sempre in chiave di triestinità, un paradossale augurio. L’augurio di venir annoverato, secondo la formula anti-accademica degli Scritti politici di Scipio, fra «quelli che rimangono uomini anche dopo la laurea».
Maestri e Amici
Il mio scopritore Giulio Cesare Castello (1921-2003) 1
Se n’è andato senza salutare il 4 luglio scorso, a poco più di un mese dal compiere gli 82 anni, nella sua casa romana dell’Eur, circondato dai ventimila libri e diecimila dischi di una collezione alla quale aveva dedicato l’intera vita. Giulio Cesare Castello era malato da tempo, ma non tanto da non potersi recare il giorno prima a fare un esame medico.
In taxi e da solo, naturalmente, perché quella della solitudine era una sua scelta ormai stabilita da decenni. In sincrono con una progressiva sparizione dai giornali, dai teatri, dalle proiezioni-stampa e dai festival. È stato trovato senza vita alla scrivania dopo qualche giorno e a mia conoscenza nessun quotidiano (inclusi, mi dicono, quelli di Genova, la città dov’era nato il 1° agosto 1921) gli ha dedicato un ricordo. Non è apparso neppure un necrologio a pagamento: non aveva parenti e i rapporti con amici e colleghi, che informati avrebbero potuto provvedere, si erano diradati fino a sparire. Anche Giacomo Gambetti, che con grande affetto e inalterata stima l’aveva “richiamato in servizio” forzandolo a scrivere una serie di ritratti di registi italiani per «Lumière», ha appreso in ritardo della sua scomparsa.
Eppure questo importante uomo di cultura, fra i pochi che hanno operato sui due fronti del teatro e del cinema, poteva vantare già nel 1956 una nutrita “voce” sull’Enciclopedia dello Spettacolo. Dalla quale si apprende che fu laureato in lettere, giornalista dal ’45 al «Secolo liberale», fra gli animatori della rivista «Sipario» e del nascente teatro stabile genovese, redattore dell’enciclopedia stessa e collaboratore di numerose pubblicazioni. Nonché direttore, nel 1954, della prestigiosa rivista «Cinema», e poiché la testata era stata appena ceduta all’On. Egidio Ariosto dall’editrice Ottavia Vitagliano, che licenziando Guido Aristarco era stata demonizzata come strumento della reazione dalla cinefilia di sinistra, qualcuno criticò la decisione di Castello. A queste polemiche lui rispose: «Penso che la mia firma è tale da nobilitare qualsiasi pubblicazione». Non era affatto umile, insomma, ma molto vulnerabile.
Nell’ambiente tutti apprezzavano la sua operosità di critico giornalistico e saggista. Aveva lasciato un segno la sua collaborazione alla Mostra di
1 Articolo pubblicato su «Lumière», nn. 35-36, 2003.
Il
mio scopritore Giulio Cesare Castello (1921-2003)
Venezia soprattutto per alcune impeccabili retrospettive ispirate alla lezione di Francesco Pasinetti; e gli allievi del Centro Sperimentale non hanno dimenticato le sue dotte e appassionate lezioni. Fu inoltre saggista, traduttore attivissimo di commedie e per circa un lustro, nella prima metà degli anni ’50, regista teatrale. Questa particolare attività, nella quale aveva riposto grandi speranze, risultò purtroppo il suo violon d’Ingres. Mise in scena a Genova Leocadia e Il ballo dei ladri di Anouilh, Svolta pericolosa di Priestley, Bobosse di Roussin, Il caso Pinedus di Paolo Levi e un ambizioso Don Giovanni di Mozart al Carlo Felice. La catastrofe della sua carriera registica si delineò molto presto, nell’agosto 1952, con un Saul di Vittorio Alfieri messo in scena sul sagrato di Santa Maria Assunta in Carignano, protagonista Memo Benassi. Il quale di fronte a un regista molto più preparato culturalmente che professionalmente scatenò la sua insofferenza nella maniera pittoresca a lui consueta, con lazzi e beffe che crearono una collana di aneddoti a lungo rimbalzati nelle chiacchiere delle cene dopo teatro.
Non era assolutamente tagliato per la regia (come del resto un nostro comune amico, Francesco Savio alias Chicco Pavolini, passato anche lui alla critica cinematografica) e me ne accorsi quando lo chiamai a Radio Trieste, primi anni ’50, per un paio di allestimenti fra i quali Non si scherza con l’amore di Musset. Seguace rigoroso delle teorie di Silvio d’Amico, si sentiva un militante del teatro registico e considerava gli attori alla stregua di meri strumenti. Nella nostra modesta emittente provinciale si inimicò l’intera compagnia scavalcando i ruoli, promuovendo alle prime parti interpreti generalmente utilizzati come generici, umiliando i simildivi locali. Si comportò, insomma, come avrebbe fatto Luchino Visconti, con una sicurezza che sconfinava nell’arroganza e testimoniava in fin dei conti una toccante ingenuità. Sul conto di tale ingenuità mettemmo anche il suo fulmineo innamoramento per una impiegata di Radio Trieste bella e infedele, che lo trattò come Angiolina tratta Emilio in Senilità di Svevo. Noi divertiti spettatori di quella imprevista commedia dell’amore ci facemmo delle gran risate; ma solo per accorgerci che lui aveva vissuto la buffa faccenda con tragica serietà, tant’è vero che la delusione provata lo indusse a escludere, credo per sempre, il capitolo donne.
Devo tuttavia riconoscere che c’era del senno nella sua follia: dei giovani attori anteposti ai “primi” della compagnia triestina nessuno restò in arte, ma due o tre affermarono in altri campi il talento che Castello gli aveva riconosciuto. Del resto anche come attento osservatore di ciò che accadeva in palcoscenico Castello fu anticipatore: tra i primi a credere fermamente nella stella in ascesa di Giorgio De Lullo e addirittura il primissimo
Tullio Kezich
a lanciare, con un articolo traboccante di entusiasmo, un giovane aspirante scenografo che si chiamava Pier Luigi Pizzi. Gli va anche riconosciuto il merito (se merito fu) di aver messo in carriera, facendogli pubblicare nel 1950 il primo articolo su «Sipario», quello che oggi è il critico del «Corriere della Sera». Questo per citare solo alcuni episodi a caso. Sapeva vedere sia il teatro che il cinema, tranciava con estrema sicurezza i giudizi, giusti o sbagliati che fossero, e scriveva di getto con incredibile velocità. Al tempo in cui i giornali pagavano poco, era capace di mettersi in treno per andare a vedere uno spettacolo, disposto a farne tre o quattro corrispondenze allo scopo di coprire le spese di viaggio; e i pezzi, tutti di prima qualità, erano diversi l’uno dall’altro. Ricordo a tale proposito la stupefazione che si dipingeva sul volto di Aristarco, che invece aveva la scrittura faticosa, di fronte al virtuosistico eclettismo dell’attivissimo collega. Mi è capitato recentemente di andare alla Biblioteca Nazionale per consultare dei giornali d’epoca e mi sono imbattuto nella collezione de «L’elefante», un settimanale di cultura del dopoguerra in cui Castello teneva contemporaneamente la critica teatrale e quella cinematografica. Sicché ho potuto scorrere e leggere qua e là, dopo tanti anni, vari pezzi a sua firma: lucidissimi, intelligenti, stimolanti. E mi è tornato in mente che un quarto di secolo fa, quando dopo la morte di Luigi Chiarini assunsi la direzione della collana cinematografica dell’editore Bulzoni, fra le prime ipotesi che mi erano venute in mente c’era stata quella di invitare Giulio Cesare, già ritirato in un personale Aventino, a mettere insieme un volume antologico dei suoi scritti. Confidavo, per dire la verità, che questo sguardo sul suo glorioso passato l’avrebbe indotto a rientrare nei ranghi. Figuriamoci. Pur lusingato, Castello cominciò ad assillarmi e a tempestare l’editore con telefonate piene di dubbi, a mandare elenchi sempre diversi dei pezzi che avrebbe voluto includere: sembrava aver deciso, poi ci ripensava, si appigliava a dubbi sui termini del contrattino e insomma tergiversò in ogni modo possibile finché il buon Mario Bulzoni mi pregò di salvarlo dall’inutile assedio. Analoga esperienza fece Gian Luigi Rondi, quando resosi libero l’incarico di recensore di balletto su «Il Tempo» pensò di offrirlo a Castello. Ancora ringraziamenti misti a ripensamenti, gran giri di parole per non dire di no non dicendo di sì e infiniti «non me la sento, non ne so abbastanza di balletto» e via cercando scuse e rinvii per cui il quotidiano chiamò un altro.
Nel bellissimo libro di memorie intitolato Giacomino, Antonio Debenedetti racconta come suo padre usci letteralmente distrutto dalla bocciatura al concorso per la libera docenza e morì poco dopo. Rimane come un’onta sull’università italiana questa incredibile umiliazione inflitta
Il
mio scopritore Giulio Cesare Castello (1921-2003)
a Giacomo Debenedetti, uno dei grandi critici del Novecento; ma anche a Castello toccò un’analoga disavventura verso la metà degli anni ’60. Pur essendo un onnisciente specialista su tutto l’arco dello spettacolo, il nostro fu considerato inidoneo dagli accademici della commissione che arrivarono a qualificarlo “giornalista erotomane”. Il tutto perché aveva scritto un libro informato ed elegantissimo come Il divismo, che fa ancora testo; e taccio per carità di patria il nome del professore che lo bollò ex cathedra con il suddetto epiteto. L’episodio rientra nel quadro dell’incomprensione che per anni tenne le scienze dello spettacolo fuori dall’ufficialità universitaria. Oggi, grazie al cielo, la situazione è cambiata, ma all’epoca Giulio Cesare la prese malissimo, come un fatto personale, e amareggiato si determinò a scomparire dalla scena. Peggiorando le cose, negli anni che seguirono l’incidente si convinse di aver sbagliato strada non dedicandosi alla musica, il cui ascolto ormai occupava buona parte della sua giornata di eremita metropolitano. «Una pagina di Mozart – asseriva amaramente – vale tutta la storia del cinema». Su questo tema intrecciammo anche un’amichevole polemica proprio sulle pagine di «Lumière»: io sostenevo che Giulio Cesare aveva avuto torto a tirarsi fuori dalla mischia, lui non voleva ammettere di aver sbagliato.
Inutile aggiungere che di questo singolare, ispido e affascinante personaggio bisognerebbe salvare il ricordo, magari mettendo insieme postuma l’antologia di scritti che non volle fare da vivo. C’è poi il problema della biblioteca che ha lasciato, di cui solo una parte ha trovato asilo, lui vivo, presso l’Università di Roma 3. Permettere che i suoi adorati libri si disperdano sulle bancarelle sarebbe mandare a morte Giulio Cesare una seconda volta.
Tullio Kezich
Caro Comencini
Vita da artigiano di un artista “incompreso”1
Si sa che John Ford includeva i suoi quasi 150 film, tra i quali rifulgono alcuni capolavori, in una sola e semplice parola, «work ». La stessa etichetta, «lavoro», sembra suggerire Luigi Comencini in queste «confessioni di un “cineottuagenario”» a suggello di un’operosità che abbracciando poco meno di mezzo secolo sfiora i 50 titoli. A proposito dei quali il memorialista, che in altre occasioni ha affermato di salvarne sì e no una decina, non perde occasione per ribadire di aver sempre considerato il cinema come un mestiere qualsiasi, uno dei tanti modi per attraversare la vita. Alla figlia Cristina, che gli chiede se facendo Tutti a casa era consapevole di realizzare qualcosa di speciale, risponde scontroso di averlo capito dopo, ma all’epoca «era uguale a tanti altri film».
È chiaro che il cineasta veterano la mette giù facile. E tuttavia non si può dimenticare, pur accettando il gioco al ribasso, che siamo in presenza di un intellettuale con tutte le carte in regola. Avrà magari firmato qualche pellicola “vedi e getta”, ma il nostro (per istituire uno dei possibili paragoni) non ha certo cominciato come Fellini, liceale svogliato per il quale la sala cinematografica era un posto dove andare a far chiasso con gli amici; e che iscritto all’università evitò con cura le lezioni preferendo bazzicare i giornali umoristici e il varietà. Al contrario, fin dall’adolescenza Luigi, da bravo primo della classe, si appassiona al Bauhaus, ricavandone l’aurea regola di “unire il bello all’utile”, poi si laurea brillantemente in architettura al Politecnico milanese. Nel contempo mette in salvo con passione pionieristica e crescente competenza le vecchie pellicole e scrive di cinema dove può. Tanto che in breve si professionalizza, diventa critico del settimanale «Tempo illustrato», quindi del quotidiano «l’Avanti!»; e quando decide di smettere, definitivamente risucchiato dal set, è già una firma prestigiosa, una sorta di Minosse temutissimo da chi gli capita sotto. Sarà un caso, ma proprio di questa sua attività nel libro non dice una parola; e bene ha fatto Cristina, forzandogli la mano, a inserire in appendice alcune sue recensioni d’epoca. Leggetele e capirete perché da ragazzo seguivo con assiduità il giovane critico, ammirandone la stringata acutezza dei giudizi e la spregiudicatezza nello staffilare mostri sacri come Lubitsch o Carné. Di persona lo incontrai mezzo secolo fa, il 19 marzo ’49, al Convegno nazionale dei Circoli del
1 Testo della prefazione di Tullio Kezich in id. (a cura), Luigi Comencini. Infanzia, vocazione, esperienze di un regista, Baldini&Castoldi, Milano, 1999.
Caro Comencini. Vita da artigiano di un artista “incompreso”
cinema d’Italia che si svolse a Bologna ed elevò alla presidenza il torinese Franco Antonicelli. Luigi era presente con il fratello Gianni in qualità di ambasciatore della Cineteca italiana, con la quale in quel momento noi della “Corazzata cineclub” (come qualcuno ci ha burlescamente soprannominati per la nostra fede in Ejzenštejn) avevamo in piedi un contenzioso: scalpitavamo infatti per ottenere il noleggio delle agognate pellicole da proiettare ai nostri soci, mentre i milanesi (con alla testa il temuto e irascibile Luigi Rognoni) mettevano al primo posto il problema della conservazione. In segno di pace, comunque, i dioscuri Comencini avevano voluto fare un regalo ai congressisti portando con loro una rarissima copia di Die Dreigroschenoper (1930) di G. W. Pabst, che ci fece scoprire il genio di Bertolt Brecht. Mi capitò di assistere alla proiezione con altri neofiti accanto al già illustre Luigi, tutti lusingati dal suo approccio ruvido e cameratesco; e ci stupimmo di sentirlo stabilire rapidi e calzanti paragoni fra la versione tedesca e quella francese. Dalle memorie apprendo che il nostro aveva visto L’opéra de quat’sous a Bordeaux nel ’36, per caso, la sera prima dell’esame di maturità, e ne era rimasto folgorato. Fu proprio in quel frangente che si accese la sua vocazione: «Le canzoni dei bassifondi, l’atmosfera di rabbia disperata, la sensualità torbida che mi aggredì, mi convinsero che il cinema era la grande arte totalizzante di questo secolo. Volevo farne parte». A Bologna il regista non accennò minimamente all’episodio, parlò solo di Pabst, da uomo del mestiere, quasi da collega; e mi ricordo come avviandoci sotto i portici, dopo la proiezione, gli facevamo corona tutti intorno, bevendoci i suoi insegnamenti.
Scopro soltanto ora l’intero retroscena dell’infanzia e adolescenza che il piccolo lombardo trascorse in Francia emigrando dalla nativa Salò al seguito del padre ingegnere e impresario di costruzioni. Non si stabilirono a Parigi, ma in una specie di castello a cinque chilometri da Agen: una cittadina del dipartimento Pirenei Aquitania, collocata sul corso della Garonna. Forse è grazie a quest’esperienza che Luigi è diventato uno dei più sensibili evocatori di scene infantili: le pagine che dedica ai dieci anni trascorsi ad Agen sono le più intense e affascinanti del libro, le più personali; e anche quelle dalle quali al di là dell’interesse cronachistico emerge una notevole grazia di narratore. Ne traggono luce gli incidenti di vita, piccoli e grandi, che fatalmente accompagnarono l’inserimento di un bimbo italiano in una piccola comunità francese; e quel tocco di diversità che gli venne dall’avere una madre agiata, svizzera e di religione valdese contrapposta a un papà italiano del Nord e cattolico di modesta radice contadina (nome del borgo d’origine: Orzivecchi). Mentre si parla tanto di Europa, può essere interes -
Tullio Kezich
sante ripercorrere l’iter di un fanciullo sradicato tra gli anni Venti e Trenta che si sarebbe tentati di intitolare la difficoltà (allora? o anche oggi?) di essere europeo. Quando lo conobbi Comencini aveva all’attivo un solo film, Proibito rubare, uscito sei mesi prima; e si preparava a girare l’opera seconda, della quale nel fervido contesto intellettuale dell’assise bolognese si guardò bene dal fare il titolo. «Sì, sto preparando un’altra cosa...» disse senza precisare che si trattava de L’imperatore di Capri, apparso poi sugli schermi natalizi di quel 1949. Non voglio immaginare ciò che sarebbe successo se in coda ai commenti su Die Dreigroschenoper il nostro mentore ci avesse rivelato che stava per iniziare un film con Totò. Ma in questa vignetta d’epoca, tra palpiti e speranze, curiosità e reticenze mi pare di poter cogliere il senso del lungo equivoco che si generò fra cinefili e cinematografari, fra noi e «loro». Dove per «loro» intendo il gruppuscolo di registi di matrice culturale e neorealista che includeva, oltre a Comencini, l’architetto Alberto Lattuada ultra-trentenne decano della schiera, il suo quasi coetaneo Mario Monicelli intellettuale per tradizione di famiglia, il medico Dino Risi, il saggista Carlo Lizzani, il critico (e medico anche lui) Antonio Pietrangeli e altri che, partendo da una formazione analoga alla nostra, a un certo punto erano decollati verso i rischiosi cieli del cinema-cinema. Quello che per noi restava un panorama della fantasia, per loro diventò il terreno di un’esperienza vera sulla quale misurarsi: o la va o la spacca. Tale realtà noi curvi sulla macchina per scrivere non riuscivamo ad afferrarla, pur avendola sotto gli occhi. Qualche esempio fra i tanti? Nel ’50 Fellini per dare una mano a una produzione in difficoltà gira alcune scene di Persiane chiuse, nel ’52 ripeterà l’esperienza filmando Totò nel processo di Dov’è la libertà...? al posto di Rossellini. Francesco Rosi esordisce nella regia chiamato al salvataggio di Camicie rosse (1952) dopo l’uscita dal film di Goffredo Alessandrini. Tra II grido e L’avventura, Michelangelo Antonioni sostituisce Guido Brignone ammalatosi sul set del «peplum» Nel segno di Roma (1958).
Nel superare la barriera invisibile fra teoria e prassi si delineò subito per gli esordienti del dopoguerra un pedaggio da pagare in termini di compromissione commerciale e politica. Dopo la vittoria democristiana del 18 aprile ’48 il neorealismo era al bando e allo sbando: all’estero i suoi classici continuavano a suscitare consensi ritardati per un cinema al quale il patrio governo aveva intanto deciso di cambiare i connotati. Si leggano, nel libro, le significative pagine dedicate all’intervento di don Francesco Angelicchio, con alle spalle il mazarinesco Giulio Andreotti come burattinaio non tanto occulto, sull’edizione definitiva di La finestra sul luna-park (1956), che clero e
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clericali ligi all’estetica benpensante dei “panni sporchi” avrebbero voluto espurgare dai segni imbarazzanti della miseria. Il tutto nello spirito che aveva trovato la più perfetta e sintetica illustrazione nella famigerata lettera dello stesso Andreotti su Umberto D per invocare da De Sica il “raggio di sole”. In guerra come in guerra: oggi chiunque capisce che i giovani registi italiani fecero bene a sposare la simulazione, fingendo di allinearsi alle suscettibilità anti-neorealiste del potere. Mentre in Usa i produttori costringevano i cineasti a collaborare con la Commissione per le attività antiamericane («O vai a a Washington a fare i nomi dei comunisti o non lavori più»), da noi si instaurò una specie blanda di “maccartismo rosa”: per cui dall’alto, con il sostegno della stampa reazionaria, si suggeriva agli autori di privilegiare la commedia sul dramma, di attenuare l’eco dei contrasti che terremotavano la nostra società. Quest’evoluzione forzata viaggiava in sintonia con i desideri del pubblico che, nel guarire dalle ferite della guerra, scopriva di averne abbastanza di tragedie e voleva soprattutto divertirsi; o, almeno, veder rispecchiata negli spettacoli una vita intessuta di eventi lieti e rallegrata da beni di consumo (la macchina, la televisione). L’analisi del libro coglie di prima mano e con rara sincerità l’atmosfera dell’epoca; e lascia capire come Comencini e altri della sua generazione si accorsero a poco a poco che misurarsi nella commedia non costituiva di per sé un delitto di leso realismo e che nella patria di papà Goldoni (del quale era già in corso la rilettura «da sinistra» di Giorgio Strehler) i toni leggeri si prestavano anche a sfiorare problemi gravi.
Il “comencinismo” incarnò tutto questo, nel bene e nel male, e anziché irrigidirsi su posizioni al momento insostenibili e perdenti escogitò l’esercizio di arpeggiare sulle corde del possibilismo. In fin dei conti, non so quanto ragionata e consapevole, fu una scelta di sopravvivenza intinta di realpolitik ; ma noi “birichini del neorealismo”, fiancheggiatori ringhiosetti del cinema di denuncia, la vivemmo come un tradimento. Sicché l’equivoco si protrasse quasi per un decennio, tanto durò la tendenza prima di convertirsi sulla strada aperta dal genio satirico di Alberto Sordi in un nuovo genere indefinibile, tra risata e sberleffo, che eluse i padroni del vapore e spiazzò la critica facendo riaffiorare in nuove forme la lezione della triade De SicaVisconti-Rossellini. Il nostro errore fu quello di vedere nella fase iniziale soltanto l’aspetto compromissorio di un’operazione pilotata dall’alto, che indubbiamente c’era, sottovalutando quella percentuale di verità «difficile» che il cinema «facile» di Comencini e compagni continuò a contrabbandare. Si verificò quindi il fenomeno che si decifra chiaramente nella cronistoria professionale dell’autore di Pane, amore e fantasia: per il suo essere l’arte nuova
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di un secolo contrassegnato dalle grandi lotte sociali, il cinema rappresenta inevitabilmente il momento della novità. Ovvero anche a non volerlo, anche a sforzarsi di pilotarlo in senso contrario, qualsiasi film scivola da solo verso la messa in discussione dei valori costituiti. Per usare una metafora dannunziana, come disse di sé l’“Imaginifico” quando in Parlamento passò alla sinistra, la Decima Musa va sempre «verso la vita».
Nel mestiere Comencini entrò con la fierezza di un artigiano competente e responsabile. Basta vedere come rievoca gli alti e bassi della progettazione e realizzazione del suo maggiore successo, Pane, amore e fantasia: quel suo tenersi attaccato a certi principi (lo schermo deve rispecchiare la verità, sul set comanda uno solo) messi in crisi dalle circostanze; e la tentazione di mollare tutto, che emerge dal braccio di ferro a lieto fine con un De Sica dal carisma debordante. Per non parlare di quell’ammissione intermedia la cui amarezza non scompare del tutto neppure nel momento del successo: «Avevo ceduto su troppi punti. Il film non mi interessava più...». Anche dall’accennato rapporto con il prete Angelicchio vien fuori una strana immagine di autore aperto al suggerimento, ragionevole, pronto alla trattativa e tuttavia graniticamente attestato sui limiti che si è posto: ovvero possibilista finché non si mette in discussione il suo diritto all’ultima parola. Insomma Comencini è il regista che si rifiuta di concepire il film che sta girando come l’opera della sua vita, ma è pronto a difenderlo come se lo fosse.
Mi è capitato qualche volta di vedere il nostro sul set ed era come me l’ero immaginato. Sempre la decisione pronta, la parolina azzeccata, l’ordine tempestivo, la soluzione d’emergenza, il rigore temperato dal buonsenso, la battuta per tenere allegra la comitiva, la strillata quando ci vuole.
Immerso in una ricerca della perfezione condizionata dalle lancette dell’orologio: siamo qui per fare tutto al meglio, ma non possiamo permetterci di sforare. Insomma, l’anti-Kubrick: c’è un punto oltre il quale non si può andare, se non a prezzo di far saltare il budget, e allora bisogna accontentarsi. Questo per quanto riguarda i criteri con cui mandare avanti il cantiere. Per quanto riguarda il prodotto, la sua destinazione, il suo esito finale, l’essenziale è riuscire a parlare a qualcuno. Devi sempre sapere a chi ti rivolgi, trovare volta a volta il tono giusto per interessare, informare, commuovere.
Sembra niente, sembra ovvio. Ma guardando al cinema che si fa in Italia sulla svolta del secolo ci accorgiamo che la maggior parte dei nostri registi hanno perso proprio il dono di comunicare. I loro film, pur vantando aspetti pregevoli, restano al palo, non si tirano dietro il pubblico che in altri tempi affluiva numeroso. Solo alcuni comici riescono a esprimere quel
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che gli preme in maniera diretta, accessibile, allettante; e sanno come suonare il piffero per la massa, che, a riuscire a tirarla fuori di casa, è sempre là pronta, a volte perfino accettando una tematica impervia e sgradevole come ha fatto per il Benigni de La vita è bella. Radicalizzo a rischio di essere ingiusto, trascurando le eccezioni che pure ci sono, ma in generale nel cinema odierno i discorsi seri e impegnati trovano udienza scarsa. Il complesso fenomeno include responsabilità a ogni livello: politico, culturale, opinionistico.
Forse non è vero che «il pubblico non ha mai torto» (come affermavano con assoluta sicurezza i padri fondatori di Hollywood), ma certo gli autori nostrani qualche colpa ce l’hanno. Di presunzione, di indifferenza. È passata di moda l’idea-guida di un’“estetica popolare”, che sorreggeva l’operosità di Comencini e compagni. «Fare dei film belli che possano essere capiti da tanta gente»: chi si adegua più a un simile programma? Nessuno si preoccupa ormai di garantire, tramite la soddisfazione della clientela, il giro del denaro indispensabile perché il film non resti un fatto isolato e si inserisca invece in una sana continuità di produzione. L’autore di Incompreso ci lascia intendere che bisogna dialogare in forma non servile, dimostrandosi capaci di proposte imprevedibili, invenzioni, provocazioni. Mi pare che una simile concezione del cinema emerga chiaramente da queste pagine; ed è curioso che tra i suoi numi Comencini nomini Pabst e René Clair, due grandi oggi dimenticati, e che il suo modello assoluto di linguaggio popolare sia A me la libertà, un film assolutamente elitario.
La contraddizione a ogni livello si conferma il segno vincente della personalità di Comencini, il crisma della sua originalità. Aspirante cittadino del cinema, non arriva nella Capitale viaggiando in terza classe ma sulla Cadillac di un produttore lanciatissimo, Carlo Ponti, avendo come amichevole compagno di viaggio l’onnipotente ingegner Guido M. Gatti della Lux, uno che fa e disfa le carriere; e subito al nostro vien voglia di scappar via. Lo incatena a quella che diventa la sua seconda patria solo l’inaspettata visione di Ladri di biciclette, una panoramica della Terra promessa, una rivelazione. Più o meno come Gillo Pontecorvo folgorato nell’assistere a Parigi alla prima di Paisà. E ne vien fuori un’altra domanda: dove sono oggi i capolavori capaci di illuminare un cammino, di creare vocazioni? Dove sono i modelli? E i maestri? Pur in devota contemplazione di un risultato eccezionale come l’opera di De Sica, trattenuto da quel miraggio dentro un mestiere che stava per abbandonare, Comencini scopre presto che la pratica del cinema quotidiano è tutt’altra faccenda. Fa esperienza di un mondo di anticamere, di anticipi estorti a forza in nome della sopravvivenza, di
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produttori che ti sfruttano e non pagano l’ultima rata, di gente che manca di parola e si fa negare al telefono. Questo è il cinema, dove vorresti tanto fare un certo film e non te lo fanno fare; e dove le circostanze ti consentono magari di farne un altro. Tipica la vicenda incrociata di Persiane chiuse e La città si difende : Comencini vorrebbe realizzare quest’ultimo copione scritto da lui, ma gli offrono sui due piedi l’altra pellicola dalla quale stanno licenziando Gianni Puccini. Prendere o lasciare. L’assurda conclusione? «Puccini non faceva la sua opera prima, io facevo un film non mio e il mio film lo faceva Germi». Come dire che nel cinema non si fa quello che si vuole, si fa quello che si può. Devi scegliere il meno peggio fra ciò che ti offrono e poi accingerti a personalizzarlo come se fosse la cosa che bramavi di fare da sempre.
Altra contraddizione: Comencini garantisce a Cristina di non aver mai messo niente di autobiografico nei film. Per pudore, per non buttare sull’opera il peso della propria personalità. Eppure Tutti a casa rispecchia le vicissitudini del soldatino Luigi dopo l’8 settembre; e in La ragazza di Bube (lo confessa lui) è riflessa la grande storia d’amore della sua vita. Quanto a Incompreso, oltre a imporsi come una rarefatta ed elegantissima evocazione metaforica della sua infanzia difficile, è addirittura l’etichetta che a lungo Comencini si porta addosso. Finché viene compreso in Francia, perfino al di là delle intenzioni, e celebrato come artista fra la sorpresa di molti critici italiani. Ma si tratta di una leggenda che va storicizzata e in parte corretta, alla luce delle informazioni contenute nella monografia 2 di Jean A. Gili (1981). Dalla quale si apprende che per anni il nostro autore fu trattato a Parigi peggio che in patria, con stroncature di La grande pagaille (Tutti a casa) che nessun critico nostrano avrebbe avallato; con una solenne bastonatura nel numero speciale del maggio ’62 dei «Cahiers du Cinéma» intitolato Situation du cinéma italien ; con l’infame linciaggio collettivo al capolavoro Mon fils, cet incompris presentato a Cannes nel ’67 e trattato come un volgare “filmaccio” strappalacrime. Tutto cambia con la personale del ’74 ad Avignone, dove «il celebre sconosciuto di Pane, amore e fantasia » (come lo definisce Jacques Siclier) conquista finalmente nel panorama della critica d’oltralpe il posto che merita; e perfino L’incompris, rieditato con il nuovo titolo nel ’78, suscita tanto clamore a Parigi da indurre Hollywood a realizzarne un «remake».
Incompreso ci conduce al discorso dei bambini, che è fondamentale nel-
2 Jean A. Gili, Luigi Comencini, Éditions Édilig, 1981, ora anche in italiano: Jean A. Gili, Luigi Comencini, Gremese, Roma, 2003 (n. d. r.).
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l’opera di Comencini dal documentario d’esordio Bambini in città alla memorabile inchiesta televisiva I bambini e noi dove il nostro riesce a far parlare i piccoli intervistati come nessun altro né prima né dopo. Per capire questa sintonia non basta dire che Luigi (fedele alla matrice “desichiana”) trova sempre il modo, il tono e le parole per indurre un bimbo a esprimersi o a recitare. Forse il segreto è molto semplice, stabilire un dialogo fra uguali: infatti il regista, che conduce il gioco, è capace di dimenticarsi come uomo maturo e tornare in qualche modo il figlioletto ipersensibilizzato da una madre di debordante amorosità. Un’abitudine infantile che l’ha reso vulnerabile alle imposizioni anche quando al posto dell’autorità materna è subentrata quella del produttore. Incline a subire, il nostro ha fortunatamente degli scatti di ribellione, affermando una volontà che di colpo si rivela caparbia.
Chiunque lo abbia conosciuto vi confermerà che Luigi Comencini ha la testa dura e in genere procede senza dar retta a nessuno. Questo è vero, tanto che si potrebbero evidenziarne parecchie prove; però è verissimo anche il contrario. È facile scoprire Luigi pronto a cambiare idea quando è stato allertato da un avvertimento, un consiglio giusto, uno spunto risolutivo. Posso testimoniarlo avendo assistito nel ’70 alla sua repentina inversione di rotta durante la preparazione de Le avventure di Pinocchio. Come la racconta lui nel libro, la genesi della deliziosa mini-serie televisiva è incompleta. Mi permetto di aggiungere, a beneficio dei posteri, un episodio fondamentale perché alla RAI mi ci trovai in mezzo. E proprio nel momento in cui in viale Mazzini arrivavano con il ritmo di un paio alla settimana i provini del burattino meccanico costruito da Carlo Rambaldi, il mago “oscarizzato” qualche anno dopo per la creazione del gigantesco King Kong.
Nei tentativi Comencini in persona era Geppetto (il personaggio che affidò a Nino Manfredi) e teneva sulle ginocchia il burattino rambaldiano. Gli parlava sommesso, da buon papà, e il finto figliolo rispondeva, reagiva, gesticolava e alla sua maniera animava il dialogo sullo stimolo di impulsi elettronici. Un miracolo di ingegneria robotica, allucinante, pressoché perfetto. E tutti noi, convocati in proiezione, ci sentivamo penetrati dall’apprensione che quel pupazzo teleguidato diventasse sempre più simile a un essere umano. Fiducioso nel buon fine dell’operazione, forse per convincere soprattutto se stesso, Comencini continuava a ripetere che lui aveva accettato di trasporre il libro di Collodi solo quando gli esperti gli avevano garantito la possibilità estrema di far “recitare” un pezzo di legno. Tra gli astanti però cominciava a serpeggiare la sfiducia: ovvero la convinzione che quella non fosse la strada giusta, che i progressi del burattino elettronico fossero in realtà protesi a un risultato in qualche modo inaccettabile,
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sgradevole, disumano. Finché Angelo Romanò, uno dei dirigenti più ispirati che abbia avuto la TV e non a caso delicato poeta in proprio, se ne uscì con la scoperta dell’uovo di Colombo: «...Ma Pinocchio è un bambino!»
La battuta inattesa suscitò un generale disorientamento, in quanti eravamo intorno al tavolo della riunione ci scrutammo interrogativi e gli sguardi di tutti finirono per appuntarsi sul regista. Il quale restò meditabondo per un attimo, poi replicò pronto: «Sicuro, è proprio così: Pinocchio è un bambino. Come mai non ci abbiamo pensato prima? Mi dispiace per i tecnici, che hanno fatto meraviglie, ma la soluzione sta da un’altra parte. Ora quel Pinocchio bambino non ci resta che trovarlo».
L’episodio riassume l’insegnamento d’arte e di vita, pragmatico e possibilista, che si ricava dalla lunga operosità di Comencini e dal consuntivo abbozzato nelle memorie: la verità sta nascosta da qualche parte, a volte a portata di mano e a volte lontana o inaccessibile, ma il cineasta non deve stancarsi di ripartire eternamente alla sua ricerca. E per fare del buon cinema bisogna cercare di immettervi «la maggior quantità di verità possibile». L’immagine del memorialista che esce dalle pagine del libro, anche se le ha scritte «installato nella vecchiaia» per usare un’espressione di Simone de Beauvoir, è quella di un individuo che non ha mai rinunciato al tentativo «di rompere quel muro di verità tradita» che impedisce la visuale del realizzatore di film di consumo. Luigi ha sempre cercato di ascoltare ed essere ascoltato, di allargare la propria conoscenza cominciando dalle mani, di capire e spiegare meglio le cose lavorandoci su. Non si è dato troppa importanza, non ha voluto atteggiarsi a personaggio, non si considera neppure il protagonista assoluto della propria filmografia distribuendone volentieri molti meriti fra i collaboratori. Non si è fatto ubriacare dai successi, né smontare dalle saltuarie ripulse del pubblico di fronte ad alcuni film che avrebbero meritato un’accoglienza più calorosa: A cavallo della tigre, Casanova, Voltati Eugenio e altri. Eppure quando nel 1989 vede affondare Buon Natale – Buon Anno nell’incuria di una distribuzione sciagurata, il regista (caso forse unico) fa stampare a proprie spese sui quotidiani un risentito “flano” civetta: « Buon Natale –Buon Anno – In nessun cinema». È l’ultimo gesto di protesta contro un mondo che va peggiorando, da parte di un artista stanco di lottare, che fra poco si ritirerà. Ed è di qualche conforto ritrovarlo a distanza nell’autobiografia, stoicamente rasserenato e inguaribilmente perplesso. Da maestro non più “incompreso” di un gran bel mestiere, esercitato finché le forze hanno retto con giovanile baldanza, nutrito di nobili palpiti interiori e con alle spalle una lunga vita spesa bene per sé e per gli altri. Caro, grande Comencini.
Un uomo che non dimenticherò mai. Luigi Chiarini (1900-1975)
Un uomo che non dimenticherò mai
Luigi Chiarini (1900-1975) 1
La mattina del giorno in cui morì settantacinquenne, Luigi Chiarini ne fece ancora un paio delle sue. Mi ha raccontato sua figlia, Antonella Laterza, che a un certo punto indusse il bambino dell’infermiera a nascondersi sotto il letto per divertirsi a vedere la madre che lo cercava. Più tardi Antonella gli portò un brodino e lui, che già non parlava più, lo respinse «con la mimica di Totò». Fu il suo bizzarro saluto alla vita. Lo riferisco perché mi pare giusto, ricordando il nostro nel centenario della nascita, accostare quest’immagine stravagante a quella istituzionale: grintosa, intransigente, a volte addirittura arrogante. Parlo dell’idea di Chiarini direttore in orbace che conservano gli ex-allievi del Centro Sperimentale; o del Chiarini in doppio petto che i contestatori della Mostra di Venezia del ’68 demonizzarono come simbolo del potentato borghese. Il Professore era questo ed era quello; ed era tante cose ancora. Per scoprirle tutte, per fare il periplo completo di un personaggio complesso e sconcertante, ci ho messo anni di incontri, riunioni, viaggi in comune, entusiasmi, insofferenze e talvolta dispute vivaci. Ma come raccontare in poche righe un rapporto risultato in fin dei conti molto importante nella mia vicenda personale, uno di quei capitoli che il «Reader’s Digest» di una volta inseriva nella rubrica “Un uomo che non dimenticherò mai”? Ci provo.
La mia conoscenza con Luigi Chiarini risale al dopoguerra e all’inizio non fu caratterizzata da una particolare simpatia. Lo consideravo un fascista riciclato a sinistra, tale da legittimare lo stesso sospetto di sgradevole continuità con il passato regime che trasmettevano certi burocrati ministeriali. E qui mi sbagliavo perché Chiarini era troppo intelligente per farsi difensore dei propri errori e troppo superiore per arroccarsi sulle proprie prerogative. Era il tipo che nasce ogni mattina, sempre pronto a rimettere in discussione se stesso, a contraddirsi, a menare sciabolate polemiche ai danni di questo e quello. Come in un’istantanea d’epoca, ricordo l’occhiataccia che mi lanciò a Venezia nel settembre ’48. In qualità di Presidente della giuria lui stava sul palco del Palazzo del cinema per consegnare i premi della Mostra, io stavo nelle prime file della platea: e quando annunciò la vittoria dì Amleto tirai fuori una trombetta giocattolo e le diedi fiato. Donde quello sguardo, che se avesse potuto folgorarmi... Chiedo scusa a
1 Testo pubblicato in Orio Caldiron (a cura di), Luigi Chiarini, Scuola Nazionale di Cinema, Roma, 2001.
Tullio Kezich
Shakespeare, a Olivier e agli onorevoli giurati, oggi in gran parte defunti, ma avevo vent’anni e come integralista viscontiano pretendevo che si laureasse La terra trema.
Qualche anno dopo mi accadde di venir presentato a Chiarini, che per fortuna non riconobbe in me lo “strombettatore” del Lido e mi offrì anzi di collaborare alla sua «Rivista del cinema italiano»: purtroppo la pubblicazione cessò prima che potessi approfittare dell’invito. Un’altra volta Chiarini imbarcò Cesare Zavattini e me sulla sua utilitaria per riaccompagnarci da Cinecittà in centro. Parlarono solo loro, mentre io me ne stavo rannicchiato sul sedile posteriore. Mi colpì (e in un momento fatidico ci ripensai, dirò dopo perché) il tono affettuoso, direi quasi complice, della conversazione fra i due amici che stavano lavorando insieme alla sceneggiatura di Siamo donne (1953). Ma fui soprattutto impressionato dai giudizi taglienti e irridenti che Chiarini pronunciava su cose e persone, suscitando le divertite proteste di Cesare. E riconobbi lo stile del personaggio quando nel ’55, invitati a casa di amici al Lido, all’imprudente domanda di Franca Baratto Trentin se avesse apprezzato in teatro il mio adattamento de La coscienza di Zeno, Luigi sentenziò: «La mia opinione è che i libri vanno lasciati in biblioteca». Un po’ piccato gli contestai che anche lui per i suoi film migliori aveva utilizzato spunti letterari. A sorpresa mi rispose: «Come regista ero assolutamente negativo». La divergenza di opinioni non gli impedì di telefonarmi a Milano per invitarmi nella commissione di esperti della Mostra, di cui era direttore dal ’63. Colse al volo una mia lieve esitazione, riguardante uno dei componenti del precedente sinedrio con il quale non avevo voglia di ritrovarmi, e mi rassicurò: «Non abbia paura, saremo tutti persone tranquille». Una definizione che proprio a lui calzava fino a un certo punto. Questa capacità di leggere nel pensiero altrui, con un’intuizione che avrebbe potuto farne un abile politico, dovetti riconoscergliela anche in seguito.
Pochi giorni dopo, considerandomi arruolato, il direttore mi convocò d’urgenza chiedendomi di accompagnarlo a Londra per visionare la copia lavoro di Fahrenheit 451 che François Truffaut aveva finito di montare a Pinewood. Partimmo da Fiumicino che ci davamo del lei, scendemmo a Heathrow che eravamo diventati amici. La storia di questo viaggio l’ho raccontata altre volte, incluso l’incontro con un Truffaut in posa da maestro del cinema e la mancata conoscenza con un maestro vero, Charlie Chaplin, che faceva colazione al tavolo accanto al nostro nella caffetteria degli studi.
Chiarini aveva in tasca una lettera del Ministro Corona, che invitava l’autore de La contessa di Hong Kong a Venezia, ma il funzionario della Universal
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che ci accompagnava lo sconsigliò di tirarla fuori. Intorno a quello che alcuni persistevano a chiamare il Grande Mimo Democratico aleggiava una sorta ai barriera invisibile degna di un sovrano: Chaplin rideva e scherzava con chi voleva, mentre nel ristorante stavano facendo colazione i matti in costume dei Marat/Sade, ma nessuno poteva osare di rivolgergli la parola senza essere interpellato. Fu l’unica volta che vidi Chiarini arrendersi di fronte a qualcuno più forte di lui, ma questo rientrava nella sua esperienza di lottatore: mai intraprendere una battaglia se sai di non poterla vincere. Purtroppo Fahrenheit 451, che avevamo preso senza esitazioni, fu accolto al Lido con indifferenza. Commentò serenamente Luigi: «Non abbiamo sbagliato noi, sbagliano loro».
Durò tre anni, sempre più stretta, la mia collaborazione alla Mostra. Alcuni componenti della commissione cambiavano volta per volta: nel ’66 ci furono Giulio Cesare Castello e Leo Pestelli, nel ’67 Fernaldo Di Giammatteo, nel ’68 Pietro Bianchi; fissi restammo Giobatta Cavallaro, Francesco Savio e io. A quei tempi non c’erano le videocassette e per vedere i film si viaggiava molto: accompagnando il direttore andai a Parigi, a Monaco, a Praga, a Bratislava, a Budapest, a Vienna. A volte andavamo da soli, a volte con le mogli. Luigi si disimpegnava con il suo francese pittoresco e immaginario («il n’est pas question de droite ou de sinistrel») e tuttavia in ogni occasione diventava subito il centro della tavolata, capace com’era di tener viva la conversazione, di accendere dibattiti, di strappare le risate. Era infastidito dalle remore politiche dei paesi dell’est il che mi convinse che doveva essere stato un fascista di tipo assai particolare e in perpetuo conflitto con l’ufficialità. A Monaco la nostra guida fu Edgar Reitz, il futuro granfie autore di Heimat della cui statura a dire il vero non ci accorgemmo forse a causa della barriera linguistica. In Ungheria finimmo nelle mani di uno spaventatissimo storico del cinema, Istvàn Nemeskürty, molto preoccupato nel mediare le nostre esigenze con quelle dei magiari; ma c’era anche il misurato e sornione Istvàn Dósai dell’Hungaro Film; e poi Chiarini aveva stabilito un rapporto amichevole con l’allora segretario del partito comunista, György Aczél, che andammo a trovare in un palazzone ministeriale previa accurata perquisizione nel caso recassimo armi nascoste. Ebbi l’impressione che Aczél e Chiarini si piacessero perché si assomigliavano, avevano la stessa natura di “comandoni” pronti tuttavia a buttarla in ridere. Ma quando al Circolo dei cineasti Luigi menzionò il segretario del partito lodandone l’apertura mentale, István Gaál gli ribatté in italiano: «Parla così con lei, venga a sentire come parla con noi!» E Chiarini glissò. Ammiravo sempre la sua prontezza nel capire le situazioni, nel volgerle a proprio favore; ovvero a favore di Venezia perché nel suo pro -
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digarsi non c’era niente di personale, non aspirava a scatti di carriera, a poltrone ministeriali o a prebende. Tant’è vero, cosi mi dicono, che morì povero o quasi. Ci teneva a mettere insieme un programma che tenesse conto solo dei suoi gusti, includendo film invisi all’ufficialità dei Paesi socialisti. Facendo ogni volta un po’ di difficoltà, i gerarchi del socialismo reale questi film ce li facevano vedere (penso al cecoslovacco La festa e gli invitati di Jan Nĕmec), ma non ce li concedevano. A volte ci accoglievano con deferenza (il prestigio della Biennale veneziana era ancora forte), a volte dimostravano di non gradire la visita. Come a Bratislava, dove capitammo a sorpresa una domenica pomeriggio. La ricerca al telefono dei dirigenti del cinema slovacco fu fortunosa e lo sforzo di capirsi risultò immane finché qualcuno pensò di tirar giù dal palcoscenico un “tenorino” che faceva Fiorello nel Barbiere di Siviglia e lo incaricarono di tradurre. Nell’italiano dei libretti d’opera, Fiorello cominciò col dirci che gli slovacchi non avevano film adatti e ci suggerì di andarcene senza perdere altro tempo. Di fronte a tanta freddezza, Chiarini intuì d’istinto il discorso da fare e si lamentò, esagerando a bella posta, di quanto ci fossimo trovati male l’anno precedente a Praga, alle prese con quei cechi impossibili. Immediatamente gli slovacchi ci adottarono, tanto da improvvisare una gita gastronomica fino a un impervio ristorante arrampicato sulle montagne, “Il lupo dei Carpazi”. Arrivò anche quello che i locali chiamavano «il nostro Fellini», il giovane Juraj Jakubisko, autore de I disertori e i nomadi: perché in realtà una carta da giocare ai festival internazionali gli slovacchi pensavano di averla. Nella baita, telefonicamente allertato, l’oste aveva allestito un vero banchetto, dove fra ripetuti brindisi all’Italia, a Venezia, alle nostre signore e alla fratellanza dei popoli, il direttore della cinematografia all’uso locale si produsse in un pot- pourri di canzoni popolari slovacche mentre i suoi funzionari gli facevano il coro. A un certo punto, incitato dalla chiassosa congrega, l’anfitrione invitò Chiarini a imitarlo: «Cantare, professore, cantare Arrivederci, Roma ». In un ringhio, Luigi mi bisbigliò: «Cos’è?» Non lo sapeva, ma quando io informai che era una famosa canzone di Rascel ingiunse deciso: «Canta tu!». Fra le mie prestazioni come esperto della Mostra di Venezia, questa fu una delle più spericolate: cantare Arrivederci, Roma per una comitiva di slovacchi allegramente su di giri.
Di storie ne potrei raccontare cento e in tutte brillerebbero la prontezza, il brio e il vitalismo di Luigi Chiarini. Molte scelte di film furono combattute e travagliate, di qualcuna ho già raccontato altrove come quella del ’66 riguardante La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, che poi vinse il Leone d’oro in serrato duello contro Au hasard Balthazar di Robert Bresson, invano sostenuto dal Presidente della giuria Giorgio Bassani. Feriti nell’onor patrio, i
Un uomo che non dimenticherò mai. Luigi Chiarini (1900-1975)
francesi dichiararono guerra a Venezia; ma Jean-Paul Sartre accettò ugualmente l’invito chiariniano e onorò la manifestazione con la sua presenza. Nello stesso anno, accanto al già citato Fahrenheit 451, spuntò l’astro di La ragazza senza storia arrivato nella valigia di un giovane tedesco, timido ma tenace, di nome Alexander Kluge: sulle prime snobbato, in seguito apprezzato e alla fine sponsorizzato da un Chiarini in perpetua contraddizione con se stesso. Altri momenti memorabili: Giochi di notte di Mai Zetterling per il quale Luigi in un pomeriggio di bufera sul Lido venne quasi alle mani con l’anziano Presidente della Biennale, Mario Marcazzan; l’apparizione de Il primo maestro di Andrej Končalovskij; e, in un gran finale fuori concorso, l’ennesima e definitiva resurrezione di Roberto Rossellini con La prise de pouvoir par Louis XIV, altra meravigliosa avventura a Parigi, altra storia da raccontare. Nel ’67, cambiato il Presidente nella persona del sindaco di Venezia Giovanni Favaretto Fisca, brillarono Belle de jour di Luis Buñuel (che venne a prendersi il Leone d’oro dalle mani del Presidente della giuria Alberto Moravia), La chinoise di Godard, I sovversivi di Paolo e Vittorio Taviani. Nel fortunoso ’68 arrivarono ai premi (sotto la presidenza di Guido Piovene, spaventatissimo per le truculente minacce della contestazione) Artisti sotto la cupola del circo: perplessi di Alexander Kluge (Leone d’oro), Nostra Signora dei turchi di Carmelo Bene (Leone d’argento), Teorema di Pier Paolo Pasolini (Coppa dell’attrice a Laura Betti). Alcune di queste acquisizioni furono tranquille, altre meno. In particolare ci fu la nota diatriba con Pasolini, che prima disse di sì e poi di no, schierandosi volta a volta con la Mostra o con i contestatori.
Di fronte ai film, per la verità spesso visti in versioni provvisorie o magari da indovinare attraverso un paio di rulli, Chiarini ammetteva di non avere prontezza di giudizio. Si considerava un teorico, un docente, non un critico militante. Per questo si appoggiava a quelli fra noi che per consuetudine giornalistica uscivano dalla proiezione con un’idea già formata. Rapidissimo in tutto, lui i film aveva bisogno di digerirli: «Se volete sapere il mio parere, ve lo dirò fra quindici giorni» diceva. Ci fu un momento in cui Chiarini, per motivi di segretezza diplomatica, decise di riservare a se stesso la scelta dei film italiani, ma poi si dichiarò insoddisfatto di come aveva operato e ci rimproverò: «Non dovevate lasciarmi fare da solo». Perché riusciva a essere nello stesso tempo furbo e ingenuo, machiavellico e spietatamente sincero. Noi esperti minacciammo dimissioni in massa quando nel ’67 il direttore, in base a una vaga promessa conviviale fatta all’autore, accennò all’eventualità di programmare «magari marginalmente, lo ficchiamo in un pomeriggio» il documentario propagandistico Vietnam, guerra senza fronte dell’improvvisato regista Alessandro Perrone proprietario del
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«Messaggero». Di fronte alla nostra alzata di scudi, Chiarini si ravvide prontamente e quando Perrone arrivò al Lido per perorare la propria causa lo trattò male, inimicandosi a vita la testata più importante della Capitale. Mercuriale e imprevedibile nella gestione della quotidianità, il Professore fu sempre fermissimo sulle linee generali della sua direzione. Per la Mostra di Venezia, che gli fu affidata in un momento di piena decadenza dell’istituzione anche dal punto di vista dei finanziamenti. Chiarini ideò una cura drastica. Fin dall’inizio il suo proposito fu quello di allineare la manifestazione cinematografica alla Biennale d’arte; e quindi di ignorare, riferendosi alla sua distinzione teorica fra cinema e film, tutto ciò che riguardava il primo termine (affari, mondanità, opportunità di lancio, equilibri diplomatici) e puntando esclusivamente sul secondo. Intendeva fare del Palazzo del cinema un’appendice della mostra d’arti figurative, il padiglione internazionale della produzione d’autore. La scelta radicale gli procurò l’odio delle “contesse”, allora imperanti al Lido, per l’improvviso calo del livello mondano. Lo odiarono osti e albergatori ritenendo che la sua linea avrebbe prodotto una fuga della clientela, tanto che a un certo punto riempirono i muri del Lido di manifesti verdi con la scritta «Via Chiarini!». Lo esecrarono gli operatori economici del cinema, da sempre convinti che la Mostra dovesse essere una vetrina dei loro interessi. Ma ogni attacco dall’esterno, ogni presa di posizione, ogni rimostranza dei politici (inclusi quelli del suo partito, il Psi, che lo coprì sempre meno fino ad avversarlo apertamente) sembravano venire incontro al suo gusto della battaglia. E credo che ben pochi sull’intero pianeta siano stati capaci di rivolgersi a un ministro in carica con i toni insolenti che sentii usare dal Professore in certe telefonate tra Venezia e Roma.
Oggi mi rendo conto che Chiarini poteva fare a meno dei divi perché il grande richiamo massmediologico della Mostra era lui: nei mesi a ridossso dell’inaugurazione, per un motivo o per l’altro, finiva sempre sui giornali e non di rado in prima pagina. Aveva il dono di far notizia con la sortita estemporanea, spesso con la battutaccia. Questa sua caratteristica cominciò a preoccuparlo quando sembrò prendere il sopravvento su altri aspetti della sua personalità. Un giorno arrivò alla nostra riunione un po’ sconcertato e ce ne spiegò il motivo: «Sapete come mi ha accolto l’impiegato della banca. Mi ha detto: “Professore, con chi ha litigato stamattina?”». I detti memorabili di Luigi formerebbero un volume. Ne annoto il primo che mi torna in mente: «Non esistono compromessi onorevoli, solo onorevoli compromessi» (e alludeva a Montecitorio). Al direttore dell’“Hotel Excelsior” che gli mostrava orgoglioso il rifacimento della hall dopo l’alluvione del ’66,
Un uomo che non dimenticherò mai. Luigi Chiarini (1900-1975)
disse: «Ci manca il panettone con la scritta Motta». Nel Palazzo del cinema si comportava come un padrone di casa in attesa degli ospiti. Preoccupato delle macchie d’umidità apparse sui muri dell’atrio, ordinò di ridipingerli; e quando gli fu obiettato che bisognava aspettare l’approvazione del consiglio, bandire una gara d’appalto eccetera, ribadì: «E io dovrei ricevere gli stranieri in mezzo a questo schifo? Procediamo con i lavori e poi discuteremo». A volte l’estremismo pragmatico rischiava di fargli commettere degli errori, come quando porse distrattamente la mano a Kluge dopo la proiezione de La ragazza senza storia e uscendo dalla Sala Volpi proclamò a voce non abbastanza bassa: «E così anche quest’anno, la Germania non c’è».
Dopodiché ci mettemmo qualche giorno a fargli cambiare idea.
Sul ’68 non voglio soffermarmi perché è un capitolo a parte. Di quelle rabbiose giornate ricordo soprattutto il coraggio di Luigi, fatto segno ad attacchi e minacce del tutto sproporzionate all’occasione, linciato in effige come una sorta di genio del male. E mi stupì che a fronteggiarsi al Lido fossero in sostanza gli stessi due grandi vecchi che quindici anni prima avevo sentito ridere e scherzare in perfetta sintonia: Chiarini tutore dell’istituzione e Zavattini animatore della contestazione. Anzi mi ricordo un momento in cui Luigi, avendo sentito al telefono una specie di ultimatum che gli comunicava un emissario di “Za”, ululò «Ma a Zavattini gli sparo!» e sbatté con forza il microfono fracassandolo sulla scrivania.
Ci fu un momento, la domenica pomeriggio, in cui il direttore mi ordinò: «Andiamo in ufficio». Dall’Excelsior al Palazzo ci sono due o trecento metri in tutto e Chiarini stava per intraprenderli come sempre a piedi. Ma gli addetti alla sicurezza si impuntarono perché ci andassimo in macchina; e mentre l’auto blu fendeva faticosamente la folla ostile, tremavo all’idea che fra poco avrei dovuto scendere in mezzo a quegli esaltati. Ovviamente non avevo paura di Zavattini o di Pontecorvo, di Pasolini o di Lino Micciché, ma se fra i dimostranti si aggirava qualche imbecille con la spranga? Valeva la pena di finire all’ospedale per difendere la Mostra di Venezia? Ricordo nei minimi particolari il nostro arrivo a una ventina di metri dall’entrata posteriore del Palazzo: Luigi scende dalla macchina come niente fosse, tranquillo e altezzoso; e alla folla che gli si stringe addosso, ordina perentorio: «Fatemi passare, mi aspettano di sopra». A queste parole si apre come per incanto uno strettissimo varco, lui lo infila deciso e mi fa cenno di seguirlo; e io gli vado dietro aspettandomi da un momento all’altro una botta in testa. E invece non succede niente. Una volta varcata la soglia, Luigi fa cenno a un inserviente di chiudere il portone alle nostre spalle e mi guarda ironico. Ha capito benissimo che ero morto di paura e senza pronunciar parola è come se dicesse: «Visto com’era facile?».
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La mattina del martedì Chiarini si indispettisce, ma neppure tanto, quando Giobatta e io diamo le dimissioni dalla commissione. Dopo i fatti della sera prima, l’assemblea dei contestatori in sala Volpi interrotta dalla polizia, “Za” portato fuori dai celerini come in sedia gestatoria, i fascisti indigeni che protetti dai cordoni della polizia strillano contro Zavattini e Chiarini insieme, non ci stiamo più. La nostra linea, divergente da quella del direttore, era fin dal primo giorno quella di chiudere bottega, cancellare la Mostra: perché rischiare morti e feriti al puro scopo di proiettare dei film? E quale legge può obbligarci a far svolgere una manifestazione culturale in mezzo a gente che non ne vuol sapere? Per la prosecuzione insistono l’ufficialità veneziana, Favaretto Fisca e lo stesso Chiarini, che ha preso a impartire ordini alla Celere con l’autorità di un generale. È chiaro che nella sua simpatia per De Gaulle c’è una punta di identificazione. Però, sotto sotto, lui capisce noi (ovvero le nostre ragioni) come noi comprendiamo lui. Questione di temperamenti. Luigi è pronto a immolarsi, noi no; e poi il Professore non riesce a dare troppa importanza al chiasso che ci arriva da sotto le finestre. La sua valutazione risulta più esatta della nostra: quarantott’ore dopo il mancato inizio della rassegna, la sera di martedì, all’inaugurazione rimandata non c’è più nessuno. Gli annunciati mille operai di Marghera non hanno marciato sul Lido, i cineasti con la coda fra le gambe hanno ripreso la via di Roma. Aleggia se mai un’aria smorta, da dopo sbornia; e il finale si risolve con la premiazione più “di sinistra” mai vista a Venezia né prima né dopo. Trionfa l’avanguardia con Kluge e Carmelo, trionfa Chiarini. Ma il suo regno è finito, l’uomo non può ormai che uscire di scena. I partiti hanno decretato che ha rotto abbastanza le scatole, Venezia non lo vuole più, altri piani e ambizioni emergono nel futuro del Lido ormai affidato alle alchimie della politica. Il seguito della vicenda umana del nostro, fra i malanni suoi e quelli della consorte Olimpia duramente provata dall’altalena di emozioni del ’68, è una successione di acciacchi e amarezze. Il suo libro Un leone e altri animali è uno sberleffo quasi postumo.
In definitiva ci si può chiedere che cosa dirà la storia del nostro eroe? Dirà che da intellettuale spregiudicato, non di rado ispido e discutibile, lascia un’imbarazzante lezione di indipendenza assoluta. Qualcuno continuerà a ripetere, per spiegare tutto, che Chiarini aveva un brutto carattere. Ma a quest’accusa il Professore ha già risposto in vita con una frase famosa: «In Italia quando dicono che hai un brutto carattere, vuol solo dire che hai un carattere».
(Non) ho sposato la Proclemer, ma… Anna Proclemer
(Non) ho sposato la Proclemer, ma…1
Anna Proclemer
«Hai sposato la Proclemer!» Mi torna in mente il grido festante e sorpreso di Soldati, al telefono dal suo eremo di Tellaro. Immerso ormai nelle nebbie dell’età avanzata, Mario aveva fuso e frainteso le due distinte notizie che gli avevo comunicato: quella del mio recente secondo matrimonio e quella della mia imminente partenza, in compagnia di Anna, per una cura dimagrante da tempo prenotata in una beauty farm meranese. Mentre tentavo invano di chiarire l’equivoco con il mercuriale e intransitivo interlocutore, fui colpito dal pensiero che l’evento ipotizzato nella sua follia sarebbe stato, in fin dei conti, non del tutto impossibile: vedova lei, vedovo io; coetanei o quasi; trentina lei, io triestino (Trento e Trieste!, lo storico abbinamento della Prima guerra). E poi tanta simpatia reciproca, interessi in comune, un’amicizia di lunga data… E allora perché no?
Ricordo che messo giù il telefono mi scoprii quasi lusingato per la clamorosa svista di Soldati; e tosto mi abbandonai a una fuggevole riflessione su quella che Svevo chiama «l’incomparabile originalità della vita». Pensai a che cosa avrei detto, quasi mezzo secolo prima, dell’eventualità che un giorno qualcuno (sia pure sbagliando) potesse congratularsi con me per aver sposato la Proclemer. Mi riferisco all’estate del ’48, ovvero alla prima volta che ebbi l’occasione di contemplare Anna fuori scena. Avvenne a Trieste, in casa delle sorelle Gherarducci, Mimma e Vera, che dopo una breve carriera come attrici sposarono rispettivamente Ivo Garrani e il regista Vittorio De Seta. In quell’ospitale attico di via delle Zudecche avevamo l’abitudine, noi ragazzi del Teatro d’Arte dell’Università, di far festa ai commedianti di passaggio, trascorrendo serate indimenticabili ad ascoltare Memo Benassi, Orazio Costa, Tino Carraro e tanti altri. Finché nell’estate del ’48 arrivò il turno del regista Sandro Brissoni con i suoi interpreti del Sogno di una notte di mezza estate messo in scena nel Cortile delle Milizie del Castello di San Giusto. Nel gruppo la sfolgorante Anna (che faceva Elena) era l’indiscussa regina, accompagnata da un consorte adeguato al suo rango e da noi venerato come scrittore, il caustico e geniale Vitaliano Brancati. Ai sovrani si rivolge la parola solo se interpellati; e infatti in presenza della coppia carismatica non credo che osai spiccicar parola. Per timidezza, ma anche perché non ne ebbi il tempo. Infatti da un minuto all’altro accadde
1 Testo scritto per l’ “Anna Proclemer Official Website”, www.annaproclemer.com.
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qualcosa di incredibile. Stavamo facendo, considerata l’ora tarda, un chiasso eccessivo e all’improvviso arrivò la polizia civile del Territorio Libero, quelli che a Trieste per il casco bianco chiamavano “i cerini”. I coniugi Brancati, che casualmente si trovavano vicini all’ingresso, subirono la prima poco riguardosa contestazione. Vitaliano obiettò qualcosa alla brutale malagrazia di quei suscettibili rappresentanti della legge, che stimandosi vilipesi lo arrestarono seduta stante. Anna tentò di interporsi, magari le sfuggì qualche parola irritata in più e i cerini si portarono via anche lei… Mentre noi, passato lo sconcerto, restammo sul posto a fare chiasso come prima, i nostri ospiti di riguardo finirono in guardina: a lui levarono la cintura e le stringhe delle scarpe timorosi che si suicidasse, lei finì tra le prostitute delle retate e così trascorsero la più surreale nottata della loro vita. In seguito la Proclemer ha spesso rievocato pittorescamente l’episodio suscitando nell’uditorio una divertita incredulità.
Questo fu per me il primo incontro con Anna nella vita reale. Sul palcoscenico, negli anni che seguirono, ebbi frequenti occasioni di ammirarla. Non posso ricordare tutti gli spettacoli, per vedere i quali fino al mio trasferimento a Milano nel ’53 prendevo volentieri il treno. E facevo bene perché quello era un momento magico del teatro nostrano, una nuova travolgente ondata di cui personaggi come la Proclemer erano partecipi a pieno titolo. Posso dire, a questo proposito, che chi non ha visto Il gabbiano messo in scena da Giorgio Strehler al “Piccolo” di Milano verso la fine del ’48 non conoscerà mai il vero volto della Nina di Čechov: Anna Proclemer vibrante di passione e dolore precoce nel dividersi tra un ispirato Giorgio De Lullo, che era Costantino, e un Gianni Santuccio affascinate e malinconico Trigorin. Se gli attuali ventenni ci invidiano la nostra giovinezza teatrale, ne hanno ben donde: dove trovare oggi uno spettacolo così intensamente generazionale, così classico e nello stesso tempo moderno e tanto pieno di talenti diversi come quell’irripetibile Čechov strehleriano?
Venne poi la straordinaria maturazione a vista di Anna, che dopo esser stata nel ’52-’53 la dolcissima e nevrotica Ofelia dell’Amleto di Gassman, nella stagione successiva si ripresentò nel ruolo della regina Gertrude. Sempre fuori età, troppo matura come vergine vittima e assurdamente giovane come madre scenica di Vittorio; ma impeccabile in entrambe le situazioni. Più avanti, quando dal ’56 la nostra formò la compagnia coniugale di lunga durata con Giorgio Albertazzi, non mi persi più nemmeno una delle sue apparizioni all’“Odeon” milanese, di cui ricordo soprattutto la Ragazza di campagna di Odets, degna spalla di una leggenda della scena come Renzo Ricci e più convincente dell’Oscarizzata Grace Kelly nell’omonimo film; e
(Non) ho sposato la Proclemer, ma… Anna Proclemer
poi almeno una veemente Mila di Codra magistrale nello scandire i versi di La figlia di Jorio, che segnò l’inizio della mia riconciliazione con D’Annunzio.
Perché Anna, sempre a casa sua nel mondo della letteratura, si affermò ben presto come una di quelle presenze che dal palcoscenico fanno cultura trasmettendo sensazioni e messaggi non effimeri e inserendosi come parti in causa nella battaglia delle idee.
Per qualche anno fui anche critico teatrale di un settimanale e mi incuriosisce riscoprire ciò che scrissi su Anna. Traggo un’autocitazione da «Settimo Giorno» (numero 49, 1960): « Anna dei miracoli di William Gibson va visto soprattutto per Anna Proclemer: ha tutta l’aria di segnare il suo passaggio da bravissima interprete a grande attrice. Che non è un’iperbole, ma un fenomeno quasi medianico che si verifica molto raramente. Questa Annie Sullivan dall’andatura un po’ sbilenca, dai modi quasi sgraziati e dai gesti troppo larghi è un capolavoro di adesione totale al personaggio: in tutti i momenti, senza eccezione, un’apparizione emozionante». Per ringraziare la Signora mi scrisse una letterina, che non posso riportare perché l’ho depositata con altri documenti consimili al Museo dell’Attore di Genova. Dallo scambio nacque un rapporto che poi diventò più personale e amichevole con il mio trasferimento a Roma, fine anni ’60, e qualche simpatico invito nella residenza campagnola di Giorgio e Anna sulla strada per Fiano. Questa bella consuetudine ospitale, che riuniva una festosa compagnia di teatranti con bagni in piscina e colazioni all’aperto, ebbe termine quando si sciolse il sodalizio fra i padroni di casa e la conseguente vendita di una proprietà diventata inutilmente grande e troppo costosa. A tale proposito voglio annotare una reazione caratteristica di Anna, che dopo qualche tempo mi raccontò di essere stata gentilmente invitata a una gran cena dal nuovo proprietario della villa. Alla mia domanda con quale animo fosse rientrata da estranea in una cornice che era stata intimamente sua per alcuni anni felici, mi rispose di non aver provato proprio niente, come quando si va in casa d’altri.
Trovo questa connotazione tipica del carattere schietto e ruvido della nostra, che ha un fondo pedemontano, pragmatico, qualcuno dice duro. È adusa valutare gli accadimenti quotidiani e la gente che la circonda, ma anche le letture e gli eventi artistici, con vigile obiettività, senza nascondere eventuali ostilità e rancori, ma senza mai farsene un problema. Del suo modo di vedere la vita in tutti i suoi aspetti testimonia il bellissimo libro che ha scritto sul suo rapporto con Brancati, schietto e rispettoso senza fare sconti né a se stessa né al compagno di vita. Una narrazione esemplare e stilisticamente notevole perché Anna Proclemer scrive limpida e inequivo -
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cabile, proprio come recita; ed è un peccato che si conceda a questa attività solo saltuariamente.
Se dovessi avvicinare la recitazione di Anna Proclemer a qualche altra forma artistica propenderei per la scultura. I suoi personaggi non fanno pensare a pitture o disegni perché sono tridimensionali. Il suo timbro vocale, quasi da contralto, è una consolazione per lo spettatore duro d’orecchi come mi capita di essere ormai da parecchi anni. Anna “stampa” le battute e le invia a sicura destinazione con elegante sicurezza. Prevalentemente intonata sul registro drammatico, sa conferire al dialogo, quando servono, incisive notazioni ironiche e perfino qualche sfumatura di umorismo. Nel prosieguo di una lunghissima carriera non ha mostrato stanchezze, non ha perso un colpo; e le sue dizioni di prose o di versi risultano più illuminanti di tante chiose professorali. Recitando, insegna. Dietro ogni sua prova si avverte non soltanto il miracolo naturale del talento, ma un instancabile studio, una dedizione assoluta e una buona dose di perfezionismo. Insomma, è vero che non ho sposato la Proclemer: ma tenendola in gran conto come persona, ho continuato e continuo a scoprirmi in sintonia con la sua arte come ai tempi meravigliosi del Gabbiano
Orazio, uomo-città. Orazio Bobbio (1946-2006)
Orazio, uomo-città
Orazio Bobbio (1946-2006) 1
Di Orazio Bobbio potrei parlare a lungo, ma cercherò di essere breve perché vi vedo in piedi, la maggior parte di voi, dal Primo cittadino all’ultimo, tutti qui convenuti per manifestare un sentimento che è anche il mio. È inutile che ci diciamo quanto siamo addolorati, quanto gli volevamo bene, quanto lo abbiamo ammirato e soprattutto quanto ci mancherà. Orazio era un vero triestino, schietto, pragmatista, non amava i discorsi. Semplificava, da perfetto uomo di palcoscenico. In teatro è come in mare. Per portare in porto la nave dello spettacolo le chiacchiere non servono. Occorrono valutazioni rapide e scelte decise per la salvezza di tutti, solo così si arriva in porto. Bobbio sapeva farlo.
Dietro questa semplificazione estrema celava un’estrema complessità. Come uomo, che viveva intensamente spesso fino a bruciare la candela dalle due parti. Come guida e riferimento di un gruppo, di una bella famiglia, di un clan. Sempre presenti nel suo operare la preoccupazione per gli altri, l’assillo di creare lavoro e fare che tutti lavorino volentieri, l’amore per la sua città. Per Ivo Chiesa, il leggendario direttore dello “Stabile” di Genova, Luigi Squarzina coniò a suo tempo l’espressione “Uomo-città”. Anche Orazio era un uomo-città nato, con tutte le implicazioni sociali, culturali, politiche del termine. Prima ancora, però, era un artista, una componente della sua personalità che per lui passava spesso in seconda linea. Diviso fra il palcoscenico e l’ufficio, fra recitare e tenere in pugno le infinite trame che comporta la direzione di un impresa, si era reso indispensabile sui due fronti, simile in questo a un altro mio grande amico scomparso, Romolo Valli, che poco prima di morire in un incidente mi confidò il suo rammarico per aver trascurato la sua arte a vantaggio dell’organizzazione. Non so se Orazio la pensasse allo stesso modo, ma da qualche segno mi pare che solo negli ultimi tempi stesse scoprendo quant’era bravo e avesse ritrovato il piacere di recitare.
E qui non vorrei fare come quelli che utilizzano le occasioni funebri per parlare di se stessi, ma un paio di cose che mi riguardano le devo dire. Regalandomi i dieci anni più ricchi e fecondi del mio lavoro in teatro, Bobbio mi ha sorretto e incoraggiato con la sua fiducia. Quando Francesco Macedonio mi propose di scrivere una commedia in lingua triestina esitai, poi il suo entusiasmo mi spinse a buttar giù qualche scena per poi pre-
1 Orazione funebre per Orazio Bobbio, Trieste, 28 settembre 2006. Il testo è inedito.
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sentarmi a lui e Orazio con le prime cartelle di L’americano di San Giacomo dicendo: «Mi piacerebbe fare una trilogia della memoria, tre commedie triestine sull’arco del decennio a partire dal 1940, guerra e dopoguerra…». Tre commedie addirittura, un impegno lungo e immagino cosa mi avrebbe risposto qualsiasi direttore di teatro, qualsiasi capocomico: «Non saprei, vediamo, magari ne facciamo una e…». Bobbio, scambiata un’occhiata con Macedonio, disse: « Bon, bon, femo, femo…» 2 Il progetto era di fare tre commedie, ne facemmo quattro, includendo L’ultimo carnevàl in cui Bobbio faceva un giovane Italo Svevo.
Di queste commedie accennerò soltanto a Un nido di memorie, dove Bobbio incarnò mio padre, l’avvocato Giovanni Kezich, pauroso e coraggioso insieme, difensore di antifascisti durante la dittatura. Ce l’ho sempre davanti, con la toga sulle spalle, che conclude l’arringa al Tribunale Speciale per la difesa dello stato e si affida poi al giudizio del pubblico con la battuta: « El teatro xe ’l tribunale de le commedie…». Ebbene, mia moglie Alessandra mi ha detto più volte: «Se penso a tuo padre, che non ho conosciuto, vedo Orazio, la sua voce, i suoi gesti…». Queste cose può farle solo un grande attore, che per me è stato volta a volta un ispiratore, un fratello, un’immagine paterna. Tutto questo è stato Orazio Bobbio.
E ora concedetemi uno spunto di amarezza. Scompare una figura di tanto rilievo e sulla stampa nazionale scarso eco, niente telegiornali, niente Televideo. Di fronte a certi strombazzamenti necrologici, che non finiscono mai, il vuoto. All’“Olimpico” di Vicenza venerdì sera, il giorno della morte di Orazio, c’era mezzo teatro italiano per i premi detti gli Oscar del teatro. Nessuno che si sia alzato per dire: «Colleghi, prego un minuto di silenzio. A Trieste oggi è scomparso eccetera eccetera». Un atto dovuto che nessuno si è sentito di compiere. Alla luce di una ragionevole disistima per l’attuale sistema dell’informazione stampata o televisiva, verrebbe da dire: e chi se ne importa? Ma c’è il rischio che qualcuno a Trieste, città che ama cannibalizzare i propri figli, qualcuno dica: «Visto? No’l jera po un granché, no ‘l jera un valor! ». Amici, impegniamoci tutti di fronte a ogni accenno di un simile discorso a rintuzzarlo, ben consapevoli che Orazio è stato un grande artista e un grande concittadino. Ha creato dal niente, con Ariella e Cesco, un teatro d’arte che oggi conta migliaia di fedeli abbonati; è stato promotore e protagonista di spettacoli rimasti nella memoria, presente e attivo su tutti i fronti. Da non sottovalutare nella chiave di quella trascuratezza che i fratelli d’Italia continuano ad avere verso ciò che accade al di qua dell’Isonzo:
2 Frase dialettale triestina che significa “Va bene, va bene, facciamo, facciamo...” (n. d. r.).
Orazio, uomo-città. Orazio Bobbio (1946-2006)
teatro, musica, iniziative culturali, editoria. Se avesse varcato quel fiume, con le sue capacità e il suo talento Orazio sarebbe diventato un divo. Ha scelto di restare qui, ha sentito il dovere di restare a Trieste: una città alla quale ha dato tanto e che gli deve altrettanto. Che fare? Dedicargli subito una strada. Lo so che la regola prevede un attesa di dieci anni dalla morte, ma il qui presente Sindaco potrà proporre una deroga. E la strada, magari, potrebbe essere quella sulla quale apre i battenti La Contrada. E come a Reggio Emilia hanno intitolato il “Comunale” a Romolo Valli, come a Roma il “Quirino” si è aggiunto il nome di Vittorio Gassman e il “Piccolo Eliseo” quello di Giuseppe Patroni Griffi, perché non adottare la dizione “Teatro La Contrada Orazio Bobbio”?
Orazio, se fosse qui… Ma cosa dico? Orazio è qui; e ci raccomanda, facendo un passo indietro com’era suo costume, non preoccupatevi tanto di onorarmi… Se volete sentirvi ancora insieme a me, il luogo dei nostri incontri deve continuare a essere “La Contrada”3 , per altri trent’anni. Rinnovabili.
3 L’attuale denominazione “Teatro Orazio Bobbio” è stata adottata nel primo anniversario della sua scomparsa (n. d. r.).
Tullio Kezich
Siamo illirici
Lettera a Enzo Bettiza1
Roma, 8 luglio 1996
Caro Enzo, ti meraviglierai che io ti scriva una lettera quando per comunicare esiste il telefono. Il fatto è che vorrei dare a ciò che ti devo dire una certa solennità e la presente insolita prassi mi pare la più consona. E poi le cose scritte restano e può darsi che fra cent’anni, frugando fra le carte dell’Archivio Bettiza, qualche studioso trovi questa lettera, una prospettiva che mi lusinga. Dunque, come avrai capito, ho letto il tuo libro. L’ho comperato subito e l’ho messo là, un po’ spaventato dalla mole. Poi mi ha telefonato mio figlio da Bolzano (dirige a San Michele all’Adige il locale Museo della Gente trentina) e mi ha detto: «Hai letto il libro di Bettiza? No? Leggilo subito…». Stupore da parte mia perché Giovanni (classe ’56) legge solo libri di antropologia o al massimo di altra saggistica, non è aggiornato, non segue le novità. Ma forse in questo caso ha agito in lui, esule della terza generazione, una certa curiosità atavica... Perché mio padre avvocato, come credo sai, era nato a Spalato nel 1898, trasmigrato a Trieste verso il 1903 al seguito del padre Frane importatore del vino dalmato e fondatore di tre o quattro osterie nel popolare rione di San Giacomo. Ho passato l’infanzia a sentire mia nonna Vize e Mare (Maria) Andreassevich, una zia cieca di papà che viveva con noi, parlare in dialetto dalmatino dei “tòlomi 2 ”, dei funerai de Baiamonti, delle prepotenze dei croati… Sono stato anche in Dalmazia tutte le estati dal ’31 al ’39, il primo anno a Zara di cui ricordo pochissimo, poi regolarmente a fare i bagni nell’isola di Rab dove c’era zia Palmina sorella di papà sposata al macellaio Duje Vukusich che una volta sui sentieri del Velebit aveva ammazzato un orso col coltello. Le estati si chiudevano sempre con una sosta a Spalato: altri parenti, il palazzo di Diocleziano, le gite a Salona, a Traù… Il senso di una vita più barbara, violenta, pittoresca di quella che conoscevo nel caldo rifugio della borghesia triestina. Ricordo
1 La lettera è inedita.
2 “Tòlomi ” è corruzione dialettale di “Tònomi ”, a sua volta derivante da “Autonomi”, ovvero il partito dalmata che facendo capo al podestà Antonio Baiamonti, a parte un’irrefrenabile simpatia per l’Italia, si dichiarava fedele a Vienna per evitare di cadere sotto il regime croato-ungherese (n. d. r.).
Siamo illirici. Lettera a Enzo Bettiza
un affollato banchetto a Salona, sotto un padiglione per raggiungere il quale bisognava farsi strada attraverso una corte dei miracoli assiepata tutta intorno nella speranza di arraffare qualcosa. C’erano naturalmente i “ridikuli”, ma anche certi mostri macrocefali, spettrali, storti, ghignanti, che poi ho visto solo nei film di Buñuel. E a queste creature i signori che mangiavano cominciarono a buttare i resti del loro cibo, divertendosi a vedere come si accapigliavano per finire una coscia di pollo mastigada o una testina spolpata di agnello… Ricordo ancora l’espressione di orrore di mia madre istriana, figlia di un operaio dei cantieri di Muggia, che doveva sentirsi come precipitata nel medioevo. Insomma se tu sei davanti che corri e svolazzi e indichi percorsi da capogiro sulle quasi cinquecento pagine del tuo labirinto di carta (il tuo personale Palazzo di Diocleziano) io ti sto dietro ad acchiappare i segnali, a confrontarli con i miei personali ricordi, a interrogarmi su quanto sia contata anche per me (quanto conti ancora) quella misteriosa, cupa, ma anche sonora, ridanciana, aggressiva radice balcanica. O quasi. Perché la conclusione del tuo libro e delle nostre vite in transito è che non siamo né turchi né ebrei (e nemmeno nobili ragusei...) né veri slavi né veri veneti. A mio padre (che ai tempi del consenso soffrivo scoprendolo antifascista, isolato, fuori dal coro) chiedevo spesso: «Ma noi cosa siamo?». E lui tranquillo rispondeva: «Siamo illirici». E raccoglieva orgoglioso stampe di Spalato, aveva trovato non so dove un enorme busto nero di Tommaseo che teneva nello studio magnificandone la superiorità su Manzoni e qualsiasi altro intellettuale “regnicolo”... Sosteneva anzi, con un’esagerazione indimostrabile, che i grandi della storia erano stati tutti dalmati.
Caro Enzo il discorso potrebbe continuare per nottate intere e spero che in un prossimo futuro avremo occasione di intrecciarne almeno qualche battuta. Volevo semplicemente farti intravedere cosa avevi smosso dentro di me con questo tuo capolavoro – uso la parola con riluttanza, temendone la genericità, la presumibile occasionalità. Esilio è un grande libro perché è un Bildungsroman che rispecchia un quadro storico, un manniano romanzo di introspezione che diventa un saggio sulla tragedia dell’Europa: perché le vicende spalatine pagano pesanti tributi allo sfascio della struttura imperial-regia, al fascismo, al nazismo e al comunismo russo. Tutta la storia del XX secolo passa sulla nostra città lasciando disastri e ferite. Perciò sono sbalordito e ammirato dalla vastità e dall’impegno della tua impresa: non solo per l’immensa mole della documentazione accumulata in un inaudito sforzo di testimonianza, ma per il sangue e il dolore di cui è impastato quasi ogni capitolo. So che certe ricognizioni si fanno a rischio e si pagano, pro -
Tullio Kezich
prio come i campioni sportivi pagano di persona gli sforzi inumani messi in atto per conseguire i loro record.
In viaggio sulle prime cento pagine, dentro l’episodio che mi pareva troppo dilatato di Consuelo, ho avuto la sensazione che ti si potesse rimproverare un’eccessiva indulgenza alla scrittura lunga. Mi dicevo: se me le avessero date da editare, con qualche potatura queste pagine sarebbero ancora più efficaci, andrebbero dritte allo scopo... Ebbene, man mano che andavo avanti il senso di sazietà si trasformava in una nuova fame. Altro che lungo, il libro non basta, ce ne vorrebbe ancora... Le pagine finali sulla collettiva ubriacatura culturale che segue la liberazione, la successiva delusione e infine l’esilio vanno troppo in fretta. Se ne vorrebbe sapere di più. E si vorrebbe sapere, al di là dei sapienti accenni dell’autore, che fine hanno fatto quegli indelebili personaggi romanzeschi: il padre mortificato nella sua straripante gioia di vivere, la madre stupenda sfinge balcanica, il fratello barabba, la sorella sordomuta... Insomma, Enzo, la presente è anche per dirti che non hai finito e che forse, in chiave di tormento ed estasi, non finirai mai. Qui ci vuole Esilio 2 e magari 3, 4. Non so se sono riuscito a esprimerti almeno una parte di quello che penso e soprattutto l’enorme valore che ha avuto per me la lettura (e avranno le numerose, immancabili future riletture) del tuo libro. Ho sentito, per quel che valgono queste cose, che Esilio concorre al Campiello. Ma dovrebbero recapitarti il premio a casa oggi stesso, senza aspettare le votazioni di fine estate, perché non è pensabile che nessun altro autore abbia compiuto un’impresa altrettanto titanica. Si saprebbe.
Scusa la lunga chiacchierata. Ma il mio rapporto con Esilio andrà ben oltre. Non è che un inizio, come dicevano quelli del maggio francese.
In due si scrive meglio? Mariano Faraguna (1924-2001) Lino Carpinteri
In due si scrive meglio?
Mariano Faraguna (1924-2001)
Lino Carpinteri
Quando due autori lavorano insieme da anni, c’è sempre qualcuno che di fronte ai frutti di tale collaborazione non può fare a meno di porsi le solite domande. Di chi sarà questo? Chi avrà inventato quest’altra cosa? Qual è la personalità dominante nella coppia? Stanco di sentire tali discorsi a proposito della sua presenza fissa accanto a De Sica, Cesare Zavattini inventò la metafora del caffelatte: «Vittorio e io siamo come il caffelatte: e come si fa a distinguere il caffè dal latte?» Personalmente, avendo conosciuto bene “Za” e un pochino anche il suo regista, posso assicurare che fissare la ricetta di quella metaforica bevanda non fu una faccenda facile fra tensioni, risentimenti, rotture e rappacificazioni. Potrei portare altri casi, del tutto diversi, di coppie che ho avuto occasione di osservare al lavoro. Prendiamo, per esempio, i maestri del poliziesco all’italiana Carlo Fruttero e Franco Lucentini. Prima di vederli all’opera avevo sentito mormorare che Fruttero era il braccio, addetto cioè ad affrontare le situazioni esterne, logistiche e contrattuali, mentre Lucentini era la mente, riservandosi il compito di distillare il dettato letterario fra le quattro mura del suo appartamento torinese di piazza Vittorio Veneto. Ma dopo la tragica scomparsa del socio, Carlo ha dimostrato di riuscire a cavarsela da solo firmando un romanzo bello come i precedenti, Donne informate sui fatti. Delle settimane in cui lavorai con F & L a una serie di gialli processuali per la TV ho il ricordo di un equilibratissimo ping pong: ora parlava l’uno, ora l’altro, ed erano Carlo o Franco, alternativamente, a servire il tè alle cinque in punto di quei laboriosi pomeriggi in un sofisticato clima da romanzo inglese. E chi dei due materialmente scrivesse, quando poi mi pervenivano le cartelle con la stesura delle scene concertate insieme, non l’ho mai saputo di preciso. Ho tuttavia buoni motivi per credere che la mano fosse dell’uno o dell’altro, indifferentemente. Veniamo dunque alla coppia formata da Mariano Faraguna e Lino Carpinteri, che ho visto nascere a Trieste nell’autunno 1945, loro ventunenni, io un po’ più giovincello. Approdati da varie sponde a un quarto piano di via Ireneo della Croce, facevamo “clapa” con altri, articolisti, battutisti, vignettisti o semplici visitatori di passaggio, nella redazione del settimanale studentesco «Caleidoscopio». In quelle due stanze sottratte alla vita familiare del compianto direttore Luciano Cossetto mettere insieme il giornale era per noi una specie di gioco, un divertimento collettivo ripagato da un sorprendente successo popolare. Si chiacchierava accavallando i discorsi, si scherzava, si organizzavano
Tullio Kezich
scherzi telefonici, si coniavano strofette e sfottò; e se mi lanciassi nell’evocazione allegra e un po’ malinconica di ciò che succedeva là dentro ne avrei per pagine e pagine. Facevamo vita in comune, di giorno e di notte; e solo il buon Luciano spariva la sera, sfilando rasente i muri con la busta del violino sotto braccio, per andare a rimediare una paghetta in qualche orchestrina di “finti” (come si chiamavano in gergo i musicisti dilettanti).
Anche come giornalisti, ovviamente, eravamo tutti “finti”. In quel dopoguerra triestino, fervido e appassionante proprio perché a rischio, incombeva la minaccia di una nuova invasione balcanica e, più largamente, lo spettro della Terza guerra mondiale. Ma a noi ragazzi, usciti da anni di paure e di orrori, non pareva vero di poter saltabeccare irresponsabili in un clima di libera uscita. Nascevano legami e contrasti, i primi basati sulla scoperta di affinità elettive e i secondi su rivalità e incompatibilità di carattere. Confesso che non ricordo come e perché, dall’abitudine di vedersi quotidianamente per mesi e di collaborare all’invenzione di battute e vignette, emerse dal gruppo il sodalizio fra Mariano e Lino. Sotto vari aspetti erano diversissimi, pur essendo fra i più vispi della compagnia. Oriundo istriano (o addirittura dalmata delle isole?), Mariano era orfano di padre, aveva una madre anziana e un fratello maggiore. O erano due? L’incertezza dei ricordi è la controprova che fra noi non ci fu mai tempo e modo di conoscerci a fondo proprio per la radicata consuetudine a colloquiare in chiave scherzosa senza neppure tentare di parlare una volta tanto sul serio.
L’unica occasione si presentò con uno schianto quando una sera Mariano, mentre usciti dalla redazione passeggiavamo in via Giulia e lui, che procedeva sull’orlo del marciapiedi, fu investito dallo specchietto sporgente di un camion alleato lanciato a velocità proibitiva. Con l’arroganza di chi avendo vinto la guerra non doveva certo preoccuparsi della sorte di un malcapitato civile gli investitori fuggirono via. L’urto aveva sbattuto Faraguna contro il muro, provocandogli una ferita alla tempia il cui segno gli rimase: con Carpinteri ci precipitammo a tirarlo su, a trascinarlo sanguinante fino a una farmacia e poi all’ospedale. In quei momenti percepimmo, ovviamente senza dircelo, quanto fossimo ormai legati l’uno all’altro, così senza parere, e quanto ci sarebbe mancato Mariano se fosse morto là. Per fortuna tutto si risolse senza drammi, ma guardando indietro mi sentirei di dire che proprio in quelle ore di ansia prese consistenza il rapporto che unì per la vita Carpinteri & Faraguna.
Lino era figlio unico di una signora ebrea, Vittoria Mordo, tipica esponente della buona borghesia triestina; e Mariano, inesauribile calembourista, l’aveva battezzata “E Vittoria Mordò” parafrasando il titolo del
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popolare Omnibus mondadoriano “E Vittoria regnò”). Il padre era siciliano, arrivato in divisa nel ’18 a Trieste «a cavallo del cacciatorpediniere Audace» (sempre nella versione di Faraguna). Sia Mariano che Lino erano studenti universitari non so bene a quale facoltà iscritti, ma forse non lo sapevano neanche loro perché in quel momento gli studi erano l’ultima preoccupazione di noi tutti. Credo che nessuno nel clan di «Caleidoscopio» abbia mai trovato il tempo di dare un esame o laurearsi. Mariano era dichiaratamente, intelligentemente ignorante: leggeva pochissimo e soltanto i giornali, però animato da un infallibile istinto che gli faceva cogliere le cose salienti e ogni possibile appiglio parodistico. Lino era più strutturato sul piano culturale, il tipo da primo della classe, amico e un po’ discepolo dell’intellettuale Giorgio Vidusso maestro di noi tutti e rifugio quotidiano (a mezzogiorno in punto, interrompendo i suoi esercizi al pianoforte) dalle nostre colpevoli fatuità. Su Carpinteri, che si piccava di leggere solo opere nella lingua originale, Faraguna inventò che l’osservanza di tale regola l’aveva indotto ad affrontare Ibsen in tedesco per poi scoprire che il drammaturgo aveva scritto in norvegese… Mariano era spensieratamente presenzialista, vitaiolo, frequentava i quattro salti in famiglia, conquistava le ragazze e poi teneva banco in redazione raccontando per nostra delizia le sue donnesche imprese. Carpinteri era più serio, tendenzialmente introverso, meditativo, autoironico. Il primo era una fonte inesauribile di aneddoti, facezie e storielle da ridere; il secondo aveva la dote straordinaria di riuscire a mettere tutto in versi di ogni tipo e misura.
A riunirli fu probabilmente l’attrazione dei contrari, un’istintiva complementarietà per cui ciascuno dei due trovava nell’altro ciò che a lui mancava. Ma l’avvicinamento fu lento e il patto si saldò solo quando la proprietà della testata di «Caleidoscopio» finì scippata da un gruppuscolo dissidente. Non ricordo le circostanze precise, ma da questa tipica secessione all’italiana nacque in Carpinteri e Faraguna la felice decisione di fondare un nuovo giornale; e fu «La Cittadella», così battezzata da Mariano scegliendo per scaramanzia il titolo di un altro romanzo di Cronin. Il resto è storia: un settimanale divenuto per mezzo secolo un’istituzione cittadina, una collaborazione indissolubile che ha prodotto la straordinaria raccolta di poesie Serbidiola, interminabili cicli di trasmissioni radiofoniche, una serie di libri dedicati alle Maldobrìe. Il passaggio dalla radio al teatro aprì nuove prospettive ai due autori e assicurò loro un immensa popolarità regionale. Purtroppo le sortite oltre Isonzo, sempre bene accolte sul piano elitario, furono rare ma questo è da sempre la sorte di tutti o quasi gli scrittori triestini.
Il fatto curioso è che Mariano e Lino al di là del lavoro in comune si
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frequentarono poco, come accade ai componenti dei complessi musicali, trii o quartetti, che evitano di trasformare il rapporto obbligato delle prove e dei concerti in qualcosa che si allarghi alla vita intera. La confezione di un settimanale umoristico a sfondo politico e di costume, nel comune orientamento ideologico che si rivelò sempre più conservatore soprattutto nelle note da loro firmate rispettivamente Padreterno (Faraguna) e Ruben (Carpinteri), attingeva all’esperienza e alle risorse inventive di ciascuno. Esattamente come uno che scopre di possedere un’eredità di famiglia della quale ignorava l’esistenza, Faraguna si scoprì poco a poco il depositario di un enorme eredità storica, antropologica e linguistica rivisitando usi, costumi, aneddoti e linguaggi della civiltà veneta nelle isole dell’Adriatico sotto il segno dell’Aquila bicipite. Di questo materiale Carpinteri fu il selezionatore, il versificatore e l’ideale impaginatore sulla pagina o sulla scena.
E qui torniamo alla solita domanda iniziale, vana e indiscreta quanto inevitabile, sulle attribuzioni della coppia, sul peso del rapporti di ciascuno dei due. Per tutta risposta posso fornire ben poco anche perché della nostra amicizia del ’45 mi rimase presto soltanto l’incancellabile ricordo, spinti come fummo su strade diverse dai temperamenti, dalle scelte di vita, da idee politiche divergenti, da nuove situazioni logistiche e professionali. Quando tornavo a Trieste andavo ogni tanto a trovarli nei luoghi del loro lavoro; e ricordo una triste stanzetta nella redazione de «il Piccolo» in via Silvio Pellico. Ho vivo il ricordo di Faraguna mezzo disteso su un divanetto che parla e divaga, ogni tanto saltando in piedi e percorrendo l’ambiente in lungo e in largo nell’incalzare delle ispirazioni buffonesche; e Carpinteri seduto alla macchina per scrivere, ansiosamente impegnato ad acchiappare al volo gli spunti migliori dando ordine e concretezza a quel turbine di aneddoti, fantasie, divertimenti verbali. A conferma del fatto che l’uno senza l’altro, sul lungo arco esistenziale della loro collaborazione, non avrebbe forse realizzato opere altrettanto brillanti e durevoli. Ho scritto proprio “durevoli”, pur consapevole che i triestini, sempre un po’ scettici per non dire cannibali nei confronti delle glorie cittadine, saranno stupiti nel sentire che qualcuno considera l’opera di Carpinteri & Faraguna destinata a restare.
La dolorosa scomparsa di Mariano seguì di poco la brusca e ingiustificabile chiusura de «La Cittadella»; e c’è da chiedersi in quali modi, privati della loro tribuna per un diktat editoriale, i dioscuri della risata avrebbero proseguito il lavoro comune. Mi rallegra però annotare, a questo punto, che Lino Carpinteri ha saputo riciclarsi come sapiente studioso e divulgatore del dialetto nativo. Da utilizzatore della lingua franca che da sempre
In due si scrive meglio? Mariano Faraguna (1924-2001) Lino Carpinteri
scavalca a Trieste le barriere culturali e sociali, il nostro ne è diventato un amabile analista sulla base di rigorosi apparati storici e filologici. Nei suoi elegantissimi interventi palpita l’uso fresco e spiritoso del lessico familiare, come se in un testo scientifico si infilasse a sorpresa una nota di pittoresca teatralità. In tale processo si insinua l’eco dell’irresistibile rubrica Cosa dirà la gente, che fece sbellicare per decenni i lettori di Lino e Mariano. E chissà che questo rinfrescare la vitalità umoristica della parlata tergestina non sia un modo indiretto per tenere vivo il ricordo dell’amico scomparso? Non credo di sbagliare: leggendo Carpinteri linguista ho ogni tanto l’impressione di risentire (come mi accade spesso nei sogni) il timbro ammiccante e spiritoso delle battute di Faraguna, quasi il suono della sua voce.
Tullio Kezich
A Portofino con G. Giorgio Strehler (1921-1997) 1
Questa “noterella” è un ricordo, che dedico ai futuri biografi di Giorgio Strehler secondo la formula goldoniana «per servire alla storia della sua vita e del suo teatro». L’argomento è il fallito tentativo di realizzare per la RAI una miniserie cinetelevisiva dai Mémoires. Per quanto mi riguarda si va dall’autunno del ’69 all’estate del ’70; e la scena, pressoché fissa, è la Villa San Sebastiano, sporgente sullo sperone del Monte di Portofino in modo che dalla punta estrema del giardino si dominano due mari: a sinistra il golfo di La Spezia, a destra quello di Genova. Fabbricato nel secolo scorso a spese di un industriale tessile svizzero, negli anni Venti l’edificio divenne proprietà di un ex-legionario fiumano che lo trasformò in una specie di Vittoriale in sessantaquattresimo. San Sebastiano è il nome della plaga, dovuto a una cappelletta dedicata al santo trafitto che sorge poco lontano, e ben si intonò a un dannunzianesimo memore del Martyre ispirando all’immaginifico proprietario mosaici religiosi e altre pompose decorazioni in stile. Divenuto affittuario della villa verso la metà degli anni Sessanta, Strehler (che d’ora in avanti chiamerò G. e in seguito capirete perché) cercò subito di attenuare i trionfalistici monumentalismi dell’ambiente con un gioco di tende e tappeti, ma neppure gli dispiaceva il carattere un po’ scenografico della dimora rivisitata attraverso un filtro di ironia. Certo il Maestro si affezionò moltissimo a quel buon ritiro e procurò di trascorrervi il maggior tempo possibile, organizzando in loco le riunioni di lavoro con i collaboratori nella fase di preparazione dei vari spettacoli.
Inviato da «L’Europeo» per un’intervista che in forma più estesa comparve anche sulla rivista «Sipario», la prima volta ero arrivato a Portofino nel cuore del fatidico ’68, lunedì 22 luglio, il giorno dopo le clamorose dimissioni di G. dal “Piccolo Teatro” di Milano. Avevo trovato il nostro grintosamente sereno, fermissimo nella dolorosa decisione che lo estraniava dal suo teatro dopo oltre vent’anni. Nei confronti suoi e di Paolo Grassi le contestazioni allora di moda erano venute assumendo un ingiustificabile carattere oltraggioso, dimenticando l’ostinata difesa delle posizioni di sinistra attuata dai dioscuri di via Rovello nei tempi cupi della democristianeria imperante. Finché G. in un soprassalto d’orgogliosa impazienza aveva deciso di liberarsi da ogni impegno pubblico per dimostrare di poter fare la
1 Testo pubblicato in Carmelo Alberti, Ginette Herry (a cura di), Tra libro e scena. Carlo Goldoni, Il Cardo, Venezia, 1996.
A Portofino con G. Giorgio Strehler (1921-1997)
sua strada anche senza lo scudo istituzionale. Già pensava al gruppo cooperativistico che poi si sarebbe chiamato “Teatro e Azione” e prevedeva la messinscena, in chiave di produzione indipendente, della Cantata di un mostro lusitano di Peter Weiss.
Non avrei mai immaginato, salutando G. alla fine dell’intervista, che sarei tornato a Villa San Sebastiano abbastanza presto e parecchie volte di seguito. E invece di portare avanti il progetto dei Mémoires goldoniani fu il primo degli “incarichi speciali” (il mio contratto li definiva proprio così) che mi affidarono i compianti Angelo Romanò e Pio De Berti Gambini quando, trasferitomi da Milano a Roma nel settembre dell’anno successivo, presi servizio presso la Direzione Generale della RAI. In particolare Romanò era entusiasta del piano presentato da G. e il regista lo ricambiò di pari entusiasmo quando l’ispirato dirigente creò lì per lì lo slogan dell’iniziativa: «Racconteremo la storia di un uomo che, nato in una repubblica morente, andò a morire in una repubblica che nasceva».
Fu così che per un certo periodo, con il ritmo di un paio di visite al mese, fui ospite regolare di G. secondo una routine che non cambiava mai: arrivavo con il treno a Rapallo, proseguivo con un taxi fino all’“Hotel
Splendido” e di là telefonavo all’eremita di San Sebastiano che scendeva a prendermi con la jeep. A quei tempi il regista vestiva quasi sempre di nero, con il maglione bianco a girocollo che sposato ai capelli già argentati lo faceva somigliare alla foto ufficiale di Herbert von Karajan, con il quale ebbe poi un rapporto contrastato a Salisburgo. Si metteva al volante dopo essersi infilato i guanti e risaliva con cautela da guidatore prudentissimo l’erta scoscesa, dove un paio di volte ci capitò di incrociare Rex Harrison nei pressi della sua splendida residenza a metà salita, piuttosto malfermo sulle gambe e con lo sguardo appannato del bevitore. Invece G. si professava astemio e dalla solerte governante si faceva preparare dei cibi a parte, dietetici e sconditi. Tranne che ogni tanto, sull’animazione della chiacchiera conviviale, si sporgeva con la forchetta verso il mio piatto per assaggiare le gradevolissime specialità liguri riservate all’ospite: «Cos’è che ti hanno preparato di buono?». Spesso dall’italiano scivolavamo nel dialetto triestino, abitudine che abbiamo conservato; e che mi fa riflettere su un aspetto curioso della personalità del regista. Infatti, mentre tutti conosciamo molte persone bilingui, non ho mai incontrato un personaggio bidialettale, anzi tridialettale come G.: il quale sul nativo dialetto di Barcola ha sommato una gustosa pratica del linguaggio di El nost Milan (e lo attestano i versi famosi della canzone Ma mi ) e ovviamente una filologica padronanza del veneto settecentesco, chioggiotto incluso.
Tullio Kezich
Di che cosa parlavamo nei pranzi e nelle cene di Portofino? Di tutto, potrei dire: spettacolo, politica, donne, pettegolezzi, storie di vita, triestinità. A ripensarci, tuttavia, ho l’impressione tonificante e assillante al tempo stesso che ogni discorso si riconducesse a Goldoni, ogni evento della giornata o accensione della memoria, ogni fantasticheria e ogni scherzo cercassero un omologo nelle pagine del libro che era nostro compito trasformare in un lunghissimo film a puntate. Posso testimoniare, insomma, che per G. il lavoro drammaturgico è una specie di assorbimento esistenziale tale da non concedere spazi per occuparsi di altro: quand’è concentrato su un problema di rappresentazione, il regista vi aderisce con tutto se stesso, senza riserve né difese. Sicché, mi apparve subito chiaro il segreto di quella G. che compariva a indicare il protagonista “io”, cioè Carlo Goldoni, fin dalle prime cartelle programmatiche buttate giù nel comune rito propiziatorio all’impresa. G. stava per Goldoni, ma anche per Giorgio: e il mio G. si era talmente appropriato della vita, delle esperienze e della psiche di quell’altro G., vissuto due secoli prima, da fondere e addirittura confondere i due discorsi. Per cui era ovvio, ascoltando la lettura del manoscritto continuamente interrotta da esuberanti postille, identificare mutatis mutandis il capocomico Girolamo Medebach in Paolo Grassi, il Truffaldino Sacchi nell’Arlecchino di Marcello Moretti, la primattrice Teodora con le sue crisi e le sue smanie nella radiosa Valentina Cortese a quel tempo compagna di G.
A Portofino mi capitò, un paio di volte, di venir ospitato nella camera, lasciata libera da Valentina, che si trovava altrove (forse in tournée o sul set di qualche film) e fu assente per tutto il periodo delle mie visite: una bomboniera di sete e rasi nella quale mi ritiravo verso mezzanotte (sempre un po’ incredulo di ritrovarmi in un simile contesto di intima teatralità) dopo aver ascoltato e timidamente contrappuntato per tutta la giornata il monologo strehleriano sui Mémoires. Sedotto dall’eloquio del referente, sbalordito dalle sue intuizioni, impressionato dalla sua conoscenza dell’argomento. Il 6 febbraio ’70 (trovo la data in un vecchio appunto) gli portai l’onnisciente goldonista Ludovico Zorzi papabile consulente dell’impresa, che arrivò a Villa San Sebastiano accompagnato dalla moglie Elvira Garbero esperta anche lei di antichità teatrali; e gli ospiti presero a intrattenersi con G. producendo vecchie edizioni e fotocopie di manoscritti della Marciana, oltre a certe fotografie della decrepita e fatiscente Venezia ottocentesca dove pareva che l’autore di Una delle ultime sere di carnovale fosse partito per Parigi il giorno prima. E mentre il trio si addentrava in una serie di dottissimi riferimenti topografici, ambientali e di costume, mi sentii irrimediabilmente tagliato
A Portofino con G. Giorgio Strehler (1921-1997)
fuori: non come l’ignaro che non regge il passo in una discussione di professoroni, piuttosto come un personaggio del secolo presente che si trovasse davanti a dei visitatori del Settecento appena sbarcati da una macchina del tempo. Di quell’incontro posso solo dire che i due studiosi si trovarono subito consenzienti con l’interpretazione che G. dava della vita e del carattere di G.: il rovesciamento totale della figura di “papà Goldoni” bonario e benedicente, immerso nella ciàcola 2 delle calli e dei campielli, a beneficio di una figura di intellettuale già appartenente alla modernità, sensibile ai segnali del mondo popolare, aperto alle istanze della società, istintivamente proiettato prudentemente dalla parte giusta; e soprattutto aperto, pur ancorato ai suoi dialetti nativi, in una dimensione europea. Sul tema nel buon ritiro di G. si susseguirono giorni, sere e talvolta nottate di travolgente dialettica creativa; e da allora quando sento l’espressione “total immersion” non posso non rivedermi fra le antiche mura, sospeso fra il cielo e il mare di Portofino, la via di fuga praticabile solo di giorno, l’affidamento senza riserve nelle mani di un demiurgo incalzante e instancabile. Capitò una volta che mentre pencolavo fra la veglia e il sonno in quelle trine morbide lasciate libere da Valentina, fui scosso da un passo pesante al piano superiore; e subito mi sentii come quel personaggio di un racconto di Buzzati (o è un atto unico?) che trema per la minaccia di un misterioso gigante a passeggio sopra la sua testa e pronto a scendere per annientarlo. Poi i passi marcarono sonoramente i gradini della scala e si fermarono alla mia porta, seguiti da un bussare discreto e dalla sommessa domanda: «Tullio, dormi? Posso entrare?». Se davvero fossi stato addormentato, G. mi avrebbe svegliato senza l’ombra di un rimorso; e così apparve, avvolto in un accappatoio bianco, e venne a sedersi ai piedi del letto, dal quale ostentatamente non mi sollevai nel vano tentativo di ribadire che era ora di dormire. E intanto G. aveva preso a macerarsi ad alta voce con il problema goldoniano che non gli aveva permesso di chiudere occhio. Pronto a recitarmi là, sui due piedi, la scena del Pantalone friulano Cesare d’Arbes che si presenta a Pisa dall’avvocatino G. nell’agosto del 1747 per chiedergli un copione destinato a diventare “Sior Tonin Bellagrazia”; e fu come una grottesca parodia dell’Annunciazione, insomma come se lo spirito stesso del palcoscenico avesse fatto visita all’ex-commediografo che ormai si considerava ritirato fra le pandette a ricordargli l’ineluttabilità di quella che Goethe chiamò la “theatralische Sendung ”. E così, nel bel mezzo della coloritissima perorazione pantalonesca, G. aprì una vasta chiosa meditativa che partendo dal teatro
2 Espressione dialettale veneta ma anche triestina che significa “chiacchera” (n. d. r.).
Tullio Kezich
di marionette di Wilhelm Meister e passando attraverso la sua infanzia triestina all’ombra del nonno Olimpio Lovrich impresario lirico, con lampeggianti reminiscenze di una remota apparizione come Fazio in La cena delle beffe e delle successive prove al teatro universitario, approdava al tentativo di definire il motore, l’armonia e l’aspetto diabolicamente ineluttabile della comune vocazione dei due G. Come trovo meschina, a distanza di tanti anni, l’idea che in quel momento anziché prendere appunti, godere del privilegio e assorbire una lezione incomparabile, io non aspettavo altro che la fine della tirata, insomma di vedere Pantalone uscire dalla comune e abbandonarmi al sonno.
Avrete capito che la mia esperienza sul Tigullio fu una specie di lavaggio del cervello in chiave goldoniana, un’estasi intermittente che una volta tornato a Roma tendevo a rimpiangere e insieme paventavo nell’incombere delle inevitabili ripetizioni. Ci furono, per la verità, anche momenti di spensieratezza. Come il giorno in cui al posto di Valentina arrivo suo figlio Jackie Basehart, ancora molto giovane, affettuosissimo con G. che chiamava Maestro senza ombra di ironia; e che G. invece ricambiava con toni da burbero benefico, ben deciso a non figurare come un papà di complemento. La sera mangiammo all’aperto, Jackie chiacchierava con il vitalismo dell’età, G. ruppe la dieta; e finimmo, mentre la luce se ne andava, a cantare tutto il Mozart che sapevamo a memoria, rilanciandoci gli spunti lietissimi come per una felice agnizione quando l’altro li raccoglieva: Jackie con bella voce baritonale, G. interpretando ed enfaticamente teatralizzando, io arrancandogli dietro come potevo.
Non sempre, però, il clima era così ilare. Spesso G. era esacerbato per le notizie dal mondo di fuori, per le difficoltà che incontrava il gruppo “Teatro e Azione”, per i rigurgiti della Contestazione più becera e i primi segnali di un minaccioso Riflusso, per le ambiguità e i ritardi della RAI; o, più largamente, per lo spettacolo di un’Italia sconvolta e periclitante come non mai. La sera guardavamo a volte la televisione, che allora offriva solo due canali, G. disturbando impietosamente la governante e la sua figlioletta con il continuo trascorrere dall’uno all’altro (e mi domando cosa combina oggi armato di telecomando). Tra l’illustre utente e le immagini del video il dialogo, a una voce sola, era ininterrotto, sempre polemico, intessuto di facezie, rimbrotti e invettive. E la povera camerista intanto protestava: «Signor Giorgio, perché non ci lascia vedere in pace il programma?». Ma ci fu una sera in cui anche il padrone di casa perse per cinque minuti la parola, vale a dire la sua straordinaria reattività. Fu il 12 dicembre ’69, quando sullo schermo arrivarono all’improvviso, incredibili e terrificanti, le immagini della strage con
A Portofino con G. Giorgio Strehler (1921-1997)
morti e feriti alla Banca dell’Agricoltura a Milano. Solo più tardi, dopo una cena silenziosa, G. si abbandonò a una serie di considerazioni desolate sull’impossibilità di prevedere, evitare o anche soltanto analizzare le imboscate della storia nell’ambito della nostra fantomatica e fragile realtà di uomini di spettacolo. Sentiva l’ingenuità di una formula come “Teatro e Azione”: «Ma quale azione? Che cosa possiamo fare noi gente di teatro?»; e insieme la mortificazione di non poter opporre, in momenti simili, quel gesto utile, risanatore e chiarificatore di cui sentiva l’estrema urgenza. E anche qui, imprevedibilmente, G. chiamò in causa l’altro G., parlando del suo probabile sgomento nell’accorgersi che la rivoluzione, di cui era stato sul palcoscenico modestissimo e cauto profeta, stava scivolando verso il bagno di sangue del Terrore. La bomba di Piazza Fontana era una conferma della dolorosa impotenza del teatro, o più ampiamente dell’arte, di fronte alla violenza e alla follia. A questo punto, concludeva G., l’artista può solo sforzarsi di continuare a fare bene il proprio lavoro.
Dopo qualche tempo mi stupì constatare che tra tanto leggere, annotare, progettare e discutere G. stava scrivendo e i copioni dei cinque capitoli poco a poco venivano avanti. Questi testi pare non esistano più: né il trattamento generale, che rappresentò il primo sforzo di G. per condensare la sterminata materia, né le sceneggiature che si succedettero a intervalli pressoché regolari nei primi sei mesi del ’70. Alla RAI amavano tanto poco i Mémoires che nell’archivio non li hanno conservati: sono stati smarriti, rubati o buttati via. E G. stesso non è riuscito a recuperarli e in tempi recenti, in vista di un’auspicata versione teatrale, ha dovuto ricostruirli alla meglio. Avevo l’abitudine di stilare delle note per De Berti e perciò sono in grado di puntualizzare il calendario delle consegne. Il 7 gennaio ’70 G. ha pronta la prima puntata, che riassume gli anni di formazione, il famoso viaggio sulla barca dei comici da Rimini a Chioggia e altri eventi della gioventù. Il 4 febbraio trovo una nota assicurante che la seconda puntata, già spedita da Portofino, «arriverà domani». Il 2 marzo G. mi presenta la terza, che è la più ampia (c’è materia per tre ore di spettacolo) e soprattutto la più sorprendente: nel senso che il drammaturgo abbandona il tono espositivo e cronologicamente ordinato delle prime due per cercare un bizzarro filo conduttore nei “vapori” di G., cioè nel suo nevrotico arrabattarsi fra difficoltà di vita, inimicizie veneziane e teatrali, amori difficoltosi e l’astiosa opposizione politica della nobiltà presa di mira nelle sue commedie. Il cuore della puntata è la stagione tremenda del 1750-1751, quella delle sedici commedie nuove, una sfida vittoriosa che lascerà un segno indelebile sul fisico e sul carattere di G.
Tullio Kezich
Mi apparve subito evidente che il modello del racconto strehleriano diventava, a questo punto, 8 ½ del comune amico Fellini; e parlandone con G. affiorò perfino l’idea che da questo copione si potesse ricavare un film trascurando gli altri episodi. Oppure girare anche il resto, dall’adolescenza alla morte a Parigi, ma estraendo dal corpus dell’opera destinata al video questo terzo episodio come una pellicola che avrebbe potuto trovare una distribuzione nelle sale. Ogni tanto a Portofino usciva il discorso del cinema come appuntamento sempre rimandato nella carriera di G. Il nostro invidiava i grandi autori che avevano saputo tenersi a cavallo dei due mezzi: per esempio Orson Welles, ma soprattutto Ingmar Bergman. Lo scoprii con viva sorpresa spettatore appassionato, intenditore molto informato e addirittura cinefilo, a differenza di molti registi cinematografici coevi che al cinema non ci andavano affatto, a cominciare da Fellini. Un’influenza che emerge spesso dagli spettacoli di G. e che forse la critica non ha messo nel dovuto risalto. Penso ai molti riferimenti felliniani individuabili ne I giganti della montagna del ’66: una concezione derivata dell’amicizia nata tramite Valentina. Ma se G. vedeva e rivedeva tutti i film dell’amico, Federico solo con difficoltà si faceva trascinare a teatro. In lui l’ammirazione per G. era una specie di atto di fede, basato su pochissime prove; tanto che G., sempre ansioso di tornare a recitare e incoraggiato da qualche mezza promessa fantasticò che Federico potesse sceglierlo come protagonista de Il viaggio di G. Mastorna, il film perennemente rinviato che il riminese non riuscì a realizzare. Del cinema G. parlava come di un viaggio sempre sognato e mai intrapreso, di una mancata scelta di vita che a un certo punto avrebbe potuto cambiare tutto. E quando si affacciò l’ipotesi di considerare la terza puntata dei Mémoires un film, il nostro ebbe forse brevemente la sensazione che il miracolo potesse compiersi. Proprio come mi parlò un paio di volte della paternità sempre rimandata e infine mancata. Anche sulla possibilità di avere un figlio, proprio come su quella di girare finalmente un film, G. (allora quarantasettenne) mi confidò enigmatico: «Questa è una cosa che si deve ancora vedere».
Il 21 aprile ’70 G. consegna il quarto copione, più smilzo dei precedenti, che si conclude con l’addio a Venezia: 39 pagine di soggetto e 10 di inquadramento critico; entro poche settimane avviene anche la consegna del quinto episodio, tutto dedicato a Parigi con particolare riguardo alla vita di corte; e concluso con la scena del messo che arriva a casa di G., per annunciare che la Convenzione repubblicana gli ha confermato la pensione reale, ma solo per apprendere dalla portinaia che il commediografo si è spento il giorno prima. A questo punto cominciano a concretarsi i problemi realiz-
A Portofino con G. Giorgio Strehler (1921-1997)
zativi: la scelta degli esterni, la previsione delle costruzioni in studio, i tempi e i costi. Il problema principale di G. è quello di evitare il fastidioso luogo comune dei film biografici, da lui battezzato con orrore «l’uomo che passa nel tempo», cioè il protagonista che trascorre da una situazione all’altra invecchiando a vista. Se si volesse risolvere tutto con un attore solo, la scelta potrebbe cadere su Marcello Mastroianni. Oppure su Alberto Lionello, che ha una maggiore familiarità con il mondo veneto, ha interpretato I due gemelli veneziani ed è stato a lungo il candidato in pectore di G. per la parte di Anzoleto nel mai realizzato Carnovale.
Ma certo né Marcello né Alberto potrebbero impersonare il G. giovanetto della prima puntata, donde la necessità di prendere un secondo attore. E se gli attori fossero tanti, cambiati continuamente nel corso della vicenda come fece Straub per Non riconciliati ?
I discorsi diventano un po’ accademici, le visite a Portofino finiscono anche perché G. devo raggiungerlo di qua e di là dove ha ripreso a fare il teatro. Del resto non ha mai veramente smesso, neanche dopo le dimissioni dal “Piccolo”: Il mostro lusitano è andato in scena il 25 marzo ’69, ora è la volta di Santa Giovanna dei Macelli di Brecht con la Cortese: gli faccio visita nel suo camerino al “Lirico” nel novembre ’70, durante le prove per la ripresa milanese, e discutiamo i soliti problemi. Il 12 novembre è andato in scena a Prato, con il gruppo, Nel fondo di Gorkij, che è poi la nuova versione di L’albergo dei poveri spettacolo inaugurale del “Piccolo” nel ’47: G. ha sempre questo bisogno di rifare le cose già fatte, ridiscutersi, ripartire da zero. Matura intanto l’idea del ritorno al “Piccolo”, come direttore unico, che sarà suggellata il 4 novembre ’72 con un memorabile Re Lear protagonista Tino Carraro. Il teatro sta riprendendo possesso della vita di Strehler e la televisione, impigliata nei suoi indugi, ha perso il momento giusto in cui riuscire ad acchiapparlo. I tentativi di realizzare i Mémoires, mettendo in campo come produttore prima Carlo Ponti e poi Luciano Perugia, continueranno stancamente per un po’ coinvolgendo nei rifacimenti della sceneggiatura Franco Brusati.
Perché il programma goldoniano non si fece è un mistero poco glorioso nella storia della RAI. Neppure oggi G. ha esitazioni a colpevolizzare la committenza, le sue lungaggini burocratiche, i continui inciampi e il finale disinteresse. In cambio la dirigenza di viale Mazzini, che da allora è cambiata varie volte e non in meglio, rimpallò finché possibile sul regista la responsabilità del fallimento: troppe incertezze, troppa propensione alla monumentalità produttiva, troppi impegni distraenti. Di oggettivo, certo, ci fu la mancanza di denaro. Ma pochi anni dopo l’eclissi goldoniana si tro -
Tullio Kezich
varono pure varie centinaia di milioni da investire nell’ambizioso Molière di Arianne Mnouchine, in uno sforzo di coproduzione che per slealtà da parte francese non comportò l’utilizzazione di un solo attore italiano nel “cast”: tant’è vero che les italiens sono assurdamente interpretati da sudamericani con tanto di accento folkloristico. Personalmente ho avuto varie esperienze di programmi filmati vasti e ambiziosi non andati a buon fine, da Lo scialo di Vasco Pratolini che doveva dirigere Valerio Zurlini, a I fatti di Andria che doveva rappresentare il ritorno alla regia di Giuseppe De Santis. Questo per dire che il caso Strehler non è isolato: è sempre stato difficile per la RAI lavorare con registi di forte temperamento artistico, impolitici, non abituati al rapporto fisso con l’azienda. E G. con i suoi alti e bassi, le sue accensioni e i suoi scoramenti, mi ha sempre fatto pensare a quella frase di Walter Pater che dice: «La via alla perfezione è attraverso una serie di disgusti». Ci volle il fraterno appoggio di Grassi per pilotare il nostro uomo da uno spettacolo all’altro in un lavoro che per due decenni fu forsennato quanto la sfida delle sedici commedie nuove di G. (l’analogia me la segnalò l’interessato). Ma alla RAI G. non trovò un Grassi, che sarebbe arrivato solo più tardi alla presidenza dell’ente e a quel punto non risulta abbia mostrato la minima voglia di resuscitare il progetto Mémoires. Diciamo, per concludere, che fu un’insieme di indelicatezze e incomprensioni a impedire che il progetto goldoniano assumesse una reale concretezza.
Ora trascorro a Portofino qualche rara giornata di vacanza e ogni tanto affronto la stradina scoscesa che dallo “Splendido” porta sotto i muri perimetrali di Villa San Sebastiano, dove G. non abita più da molto tempo. Se ci passo verso il tramonto mi pare talvolta di risentire l’eco delle nostre voci ancora pressoché giovanili che si rimandano cantando sotto la pergola Là ci darem la mano. I Mémoires, il capolavoro che non fu, per me è esistito; e non dispero nel miracolo di vederlo finalmente vivere sulla scena dove G. da tempo si è ripromesso di trasferirlo.
Appendice
Fondamentale è capirsi e volersi bene Una lettera di Giorgio Strehler1
Caro Tullio!
È questa una lettera d’amore: magari deluso. Ma amore. Se non la prendi per il verso giusto vuol dire che ho sbagliato tutto tra noi!
Sono secoli che non ci sentiamo e non ci vediamo. Com’è possibile?
Dopo aver vissuto tanto tempo vicini, ci siamo come perduti. Certo, colpa è di questo ignobile ingranaggio nel quale siamo tutti presi. E se c’è un qualcosa che lega deve per forza essere di lavoro, altrimenti cala il silenzio e la solitudine. Così il nostro “Goldoni” ci è servito a fare una bella cosa che ha avuto molta sfortuna (ma forse non è ancora detta l’ultima parola!) e anche a passare qualche ora “umana” tra noi.
Non è “fondamentale” vedersi. Fondamentale è capirsi e volersi bene. A me, per esempio, è bastata qualche parola, al Lear, più ancora del tuo caro pezzo dove in mezzo a tante cose belle e profonde esistono zone un poco “esteriori”; e la “mia storia”, mi pare (ma siamo buoni giudici di noi stessi?), ne esce talvolta troppo semplicizzata. Una cosa è certa, però: per me non è cambiato niente e tu sei sempre per me il “vecchio turco” di sempre. Dopo questa dichiarazione d’amore quasi postuma, le cose concrete, di tutti i giorni. Ho avuto da Pozzi una letterina in cui mi annunci che «Sipario» sta per fare un’inchiesta o altro sui teatri stabili. Mi formula una domanda molto vasta e generica, alla quale non è facile rispondere. E non perché io non sappia rispondere, non perché io non abbia i dati per parlare, per dire quello che penso e quello che è. Ma perché non so “sotto quale profilo” e angolature nasce questa inchiesta. Un tempo, alla nascita di «Sipario», io non avrei avuto dubbi di sorta, su come e perché tale inchiesta veniva fatta. Polacco, oltre a te, mi avrebbe spiegato tutto, si può dire che tutto sarebbe nato “insieme”. Allora mi pareva di avere alle spalle «Sipario» in ogni circostanza, sentivo di poterci contare; e quindi ogni politica, ogni azione reciproca era collegata. Oggi non è più così. E ciò non ha niente a che fare con la nostra lontananza apparente. Il fatto è che «Sipario» è molto cambiato in questo ultimo anno, soprattutto. È cambiato nelle firme. È cambiato quindi nell’impostazione di fondo, nel modulo critico, estetico e direi anche politico. Non è certo la rivista provocatoria che era regno di un gruppo di imbecilli o mascalzoni o mezze
1 La lettera è inedita. Senza data, l’originale reca l’appunto “Arrivata il 9 aprile 1974”.
figure che io disprezzavo un tempo e disprezzo ancora, non è certo la bandiera di un “nuovo teatro”, di una nuova avanguardia, della scuola romana o altro: no, grazie a Dio no, o perlomeno ancora no. Ma non è nemmeno più la rivista di un “altro modo” di pensare il teatro, quello “vecchio”, quello della “ragione”, quello “del passato”, quello insomma, per intenderci, del vecchio, pedante, noioso, impegnato (che barba!) teatro che si fa intorno a un certo pensiero veramente “brechtiano”. In questo spirito largamente “brechtiano” si pensa per esempio al teatro pubblico come una “battaglia permanente” per la struttura di un teatro italiano, in cui si considerano le “cooperative” un fatto molto più rivoluzionario di un “underground ” generico ed esteticamente inesistente (è sempre il mio parere personale, s’intende!) e l’affermazione del teatro non “servizio pubblico”, come i cessi, ma teatro pubblico come un dato insostituibile del panorama del teatro italiano. A parte critiche, difetti, polemiche e altro. In cui un vecchio, come Strehler, non è “proprio del tutto un divino” sfottuto dai “compagni” [...], proprio perché ha i capelli bianchi e perché ha più di cinquant’anni, ma è considerato ancora (ahimé, sì, ancora!) una presenza vivissima, violentemente presente e condizionante ed eversiva nello smorto panorama di un’avanguardia, diventata vecchia prima di diventare adulta. Perché, Tullio, tutto mi potrai raccontare ma non che questa “avanguardia” teatrale è mai vissuta veramente anche se è nata; non che è franata miseramente – se mai è esistita sul serio – sul versante dell’arte, in una specie di conformismo peggiore del conformismo di alcuni vecchi; non che è diventata una vigliacca formuletta e basta. E questo da destra come da sinistra. Quando io leggo – è un esempio – la dimostrazione proprio di superficialità e di malvagità critica nell’apparentemente sottile e obiettiva inchiesta sulla regia de «L’Espresso», con relativa pagella di buoni, cattivi e buonissimi, con gara al regista più bravo; quando io leggo che la nuova lista è quella che hai pubblicato, e in cui lo spettacolo migliore di Strehler è per qualcuno, in tutta una vita, in centosettanta spettacoli (o sono più di duecento?), Platonov, (ora passato al secondo posto), io allora vado a cacare Sì Tullio, vado a cacare. Ma, io dico, com’è possibile affermare queste cose? Come è possibile avallarle, in fondo... [...]. Cos’è successo? Io, Tullio, ho visto nascere il “nuovo” «Sipario», io ho condiviso con te il tuo travaglio se prendere la direzione o meno, io ho discusso con te le tue idee di come farlo, io ho parlato con te di Polacco – non una volta, ma dieci – di redattori, del tono, di tutto. E ti assicuro che «Sipario» come volevi che fosse era quasi il contrario di quello che è ora. Questa è una realtà inequivocabile. [...]
Una lettera di Giorgio Strehler
A questo punto Strehler si diffonde nell’analisi di un recente numero di «Sipario» contestando senza peli sulla lingua le scelte dei temi e dei collaboratori chiamati a trattarli. E quindi si riprende... (Tullio Kezich).
Tu devi scusarmi, Tullio, devi scusare un vecchio amico, che ha irriso amaramente, però; c’è un qualcosa che in fondo dà dolore, rende perplessi, confusi. Non c’è acrimonia, c’è il gusto magari della battuta “alla triestina”. Ma tu non puoi non capire. Come non puoi non capire che sotto si cela una sincera preoccupazione, un senso di abbandono, di solitudine. In questo momento di forsennato attacco ai teatri stabili, a me personalmente come artista, dai vari Quadri, Moscati, Augias, (più o meno mascherati) e mille altri, in cui si svaluta tutto il lavoro di ieri e quello di oggi, dal Lear all’opera, dall’opera al futuro Giardino, in cui «Il dramma», diventato fascista, mi accusa di essere un ladro, un ipocrita, un incapace, in cui a un clamoroso successo su tutti i fronti, estetico ed economico e strutturale, si oppone una battaglia politica ai vertici del “Piccolo Teatro” delle forze più retrive della DC; ammantate di pluralismi culturali che nascondono solo fame di potere e di emolumenti, cariche, posti, intrallazzi... Sono veramente solo, mentre provo il Giardino, che sarà forse il mio migliore spettacolo in senso assoluto, ma che, so già, sarà avvilito come possibile, smerdato come elegia, come regia rifatta, come mio privato, rimasticatura e altro in cui proprio non ne posso più di questa lotta su troppi fronti e in cui aspetto solidarietà, amicizia, calore; in questo momento mi pare di accorgermi che non ho più vicino a me nemmeno gli amici più cari, quelli che operano sullo stesso versante culturale, quelli che storicamente non possono non vedere e sapere.
Tu sai quanto poco mi interessi il potere, quanto poco stimi alcuni individui che sono preposti ai teatri stabili, per esempio, quanto io, in fondo aspetti di essere liberato da questo peso per ritornare “libero professionista” e pensare alla vita anche di uomo che in questo momento ha preso una strada bellissima piena di speranza e di futuro dopo tanto sbagliare, farsi e far male, tu che sai quanto sono stato ingannato nella mia buona fede dai politici, da coloro che mi hanno voluto ancora nel teatro pubblico, tu sai questo e altro e sai che io sono ancora qui, per un estremo senso della storia, per un caparbio amore per questo teatro che è il teatro della mia lingua ma non della mia “patria”. La nostra patria è più europea che per altri. Sono qui perché credo che questo teatro abbia bisogno di me, della mia presenza e del mio lavoro. Il mondo, in fondo, mi è aperto. Perché mi accanisco?
Perché continuo così, con la donna che amo lontana perché di un’altra lingua? Perché perseguo questo sogno perduto? Perché ho continuato e con-
tinuo a parlare di cinema e altro e mai lo faccio? Solo perché sono vile? Perché ho paura? Tu sei testimone di cosa è successo per il “Goldoni” e per altro! Perché, perché e perché? Rispondi da solo a queste domande. Tu lo puoi.
Ecco il motivo di questa mia lunga lettera. Per domandarti: cosa faccio, Tullio? Vale la pena che io ti scriva venti cartelle-saggio sul teatro stabile, sul teatro pubblico e il suo futuro? In quale contesto esce? Sotto quale inquadratura? Con quali compagni di strada? A quale scopo? A scopo “obiettivo”! Ognuno dice la sua e il pubblico poi giudica? Oppure c’è una volontà di chiarire, di indirizzare il processo dialettico, di aiutare la demistificazione di ciò che accade, non coprendo gli errori ma inquadrando tutto in un contesto storico, politico, estetico molto complesso. Questo io non lo so. Stando così le cose io mi sentirei di stare zitto. Se tu mi aiuti a capire meglio, posso fare lo sforzo. Vivo molto male, Tullio. Non sto bene di salute. Ho lavorato troppo. In due anni: ho preso la direzione del “Piccolo Teatro”, ho lottato su tutti i fronti; ho fatto il Lear, una nuova opera, in mezzo a disgrazie enormi; ho ripreso Arlecchino ; ho fatto le Nozze di Figaro, che si dice siano le migliori fatte sino a oggi; ho allestito Il gioco dei potenti a Salisburgo (nove ore di spettacolo in cinquanta prove); ho ripreso il Boccanegra; ora faccio il Giardino e subito dopo faccio la Trilogia a Vienna; dopo questa Il flauto magico con Karajan; ancora dopo il Tristano alla “Scala” e dopo questo, probabilmente, I giorni della comune. Sto crepando, ecco. In più Arlecchino e Lear in TV. Questa lettera è un briciolo di vita che ti do. Se le mie parole ti hanno urtato, pazienza, ma mettile anche in conto del mio stato, sebbene io penso di dirti cose giuste. Tra pochi giorni si deciderà il mio destino al “Piccolo Teatro”. Non ti nascondo che spero che sia negativo e che io possa andarmene da questo Paese abbastanza infame. Altrove non è meglio, ma almeno c’è la possibilità per me di scegliere il meglio e se vuoi anche, mettilo in conto, lavorare meno e guadagnare finalmente molto di più. E fare un figlio, più importante di tante storie e polemiche e anche di qualche buona regia.
Indirizzami su quello che devo fare e come. In nome della nostra vecchia amicizia intoccabile, oltre ogni cosa sappi dire qualcosa: ti abbraccio
il tuo Giorgio
Una lettera di Giorgio Strehler
Questa lettera fluviale e appassionata, molto più lunga nella versione integrale che si potrà rendere nota solo quando tutte le persone nominate saranno passate a miglior vita, è la testimonianza di un momento di crisi. Chiaramente Strehler si aspettava dalla mia direzione di «Sipario» che ci schierassimo apertamente ed esclusivamente al suo fianco. Lo deluse il fatto che la rivista prendesse in considerazione anche i tentativi di cercare, in chiave avanguardistica o meno, un teatro diverso. La scelta, diciamo così, “ecumenica” mi costò cara perché in un clima di “muro contro muro” scontentò tutti e fu anche in seguito a queste polemiche che l’editore di «Sipario» si liberò della mia ingombrante presenza e cedette la testata a una nuova gestione poi rivelatasi ingloriosa. Ma questa è una lunga storia, da raccontare un’altra volta (Tullio Kezich).
Luciano De Giusti
Postilla
Durante la preparazione di questo volume, Tullio Kezich ha manifestato più volte la preoccupazione che potesse risultare celebrativo. Ha espresso il suo timore accompagnandolo al desiderio che ne scaturisse un testo utile, soprattutto dal punto di vista documentale. L’ho rassicurato: lo spirito che ha animato la ricerca e la riflessione sul suo lavoro ha sempre avuto di mira la ricostruzione storica di un’avventura intellettuale. Credo che i saggi critici qui raccolti lo confermino.
Nel corso dei lavori, certo, affiorava a tratti la consapevolezza che, tracciando il profilo critico di una figura complessa quale la sua, forse poteva anche sfuggire agli intenti una tenue coloritura celebrativa, suscitata magari dalle affettuose e riconoscenti testimonianze. Ma è una percezione che può scaturire quale inevitabile effetto collaterale quando se ne ripercorre il lungo e fecondo percorso produttivo, un esito implicito nell’atto stesso di proiettare un fascio di luce sulla sua multiforme attività di critico e narratore, drammaturgo e produttore, biografo e sceneggiatore.
È indubbio che, tra le varie facce della sua articolata produzione, quella del critico prevalga sulle altre, non fosse che per l’ininterrotta costanza con cui è stata esercitata. Tutte però si intrecciano e, a volte, si fondono. Il suo modo di fare critica cinematografica si nutre di riferimenti letterari e artistici, così come la sua opera di drammaturgo teatrale attinge alla profonda conoscenza delle risorse linguistiche del cinema.
In un incontro bolognese del 1998 con gli studenti universitari, dedicato al mestiere del critico, invitò coloro che volessero praticarlo a essere onnivori, leggere di tutto, andare ai concerti, vedere mostre d’arte e soprattutto frequentare il teatro, solitamente trascurato dai cultori del cinema. In quell’occasione lasciò intendere che l’idea del nutrimento reciproco delle varie arti era profondamente radicata nella propria esperienza e maturata nel tempo della sua formazione triestina.
Fu forse per questo che in chiusura tratteggiò uno struggente ritratto della sua terra e, indirettamente, di sé: «Per me il paesaggio interiore assomiglia a quello della mia città d’origine, Trieste, fra nuvole in viaggio
e folate di bora, fra la vecchia Europa che incombe dalle facciate degli edifici austroungarici e il sogno americano che intravedevo da bambino ammirando i transatlantici attraccati al nostro molo. È in mezzo a queste contraddizioni che ho maturato la mia vocazione al cinema in un luogo di etnie e lingue plurime, di commerci e di passioni, di scontri e di bevute, di sangue versato nelle guerre e di canzonette»1
Parlando del ruolo determinante che la sua città ha avuto nel romanzo della sua formazione, Kezich si congedava dai giovani che lo ascoltavano offrendo loro una chiave d’accesso al suo lavoro. Era un modo per rendersi leggibile: le diverse e contrastanti anime della città natale sembrano prolungarsi nella sua variegata produzione critica e creativa, e questa si presenta come un riflesso della ricchezza culturale propria di quella: ritrovata dentro di sé e riagganciata negli ultimi anni attraverso le opere teatrali in dialetto, anche la sua esperienza conferma che non si sfugge all’influsso del “primo luogo della vita”, al quale si tende e si torna per irresistibile attrazione.
1Tullio Kezich, dalla lezione sulla critica cinematografica tenuta a Bologna il 28 novembre 1998 per conto della Cimes, Dipartimento Musica e Spettacolo di Bologna, nel quadro del ciclo I mestieri del cinema.
Apparati
Nota biografica
Nato a Trieste il 17 settembre 1928, dall’oriundo spalatino Giovanni (18981961), avvocato penalista, e da Francesca Vallon, istriana di Muggia. Liceo classico al Petrarca, maturità anticipata da privatista al Dante; studio del pianoforte con Dario De Rosa; facoltà di lettere all’Università di Trieste arrivando alle soglie della laurea; prestazioni eclettiche (sceneggiatore, animatore, rumorista, attore) nelle trasmissioni di prosa di Radio Trieste. Agli stessi microfoni, non ancora diciottenne, esordisce in qualità di critico cinematografico il 2 agosto 1946, incarico che mantiene fino al 1954. Nello stesso periodo fa qualche breve esperienza di critica quotidiana in testate quali «Libertà», «Corriere di Trieste» e «Ultimissime». Ha poi proseguito tale attività su riviste («Cinema», «Rassegna del film», «Sipario»), settimanali («La Settimana Incom» e «Panorama», ambedue diretti da Lamberto Sechi) e quotidiani: «la Repubblica» (chiamato da Eugenio Scalfari fin dalla fondazione, 1976) e «Corriere della Sera» (su invito di Ugo Stille, dal 1989). Molte sue recensioni sono riunite in una decina di volumi pubblicati a intervalli da Il Formichiere, Oscar Mondadori e Laterza.
Nel dicembre 1952 è stato fra i fondatori di «Cinema Nuovo», diretto da Guido Aristarco, e nell’aprile 1953 si è trasferito a Milano diventando per nove mesi redattore capo del quindicinale e responsabile della redazione nel frangente dell’arresto di Aristarco da parte dell’autorità militare Dal gennaio 1954 al 1961 è stato redattore, inviato e infine critico teatrale del settimanale «Settimo Giorno», diretto successivamente da Ezio Colombo, Guido Rocca e Pietro Bianchi. Dopo un breve tirocinio alla Sezione Cinema della Edisonvolta, insieme con Ermanno Olmi ha creato a Milano nel 1961 la società cinematografica “22 dicembre”, di cui è stato direttore artistico, producendo film dello stesso Olmi, Eriprando Visconti, Lina Wertmüller, Gianfranco De Bosio, Damiano Damiani, Roberto Rossellini e altri. Dal 1967 ha continuato per quasi vent’anni l’attività di produttore di film d’autore in RAI, trasferendosi presso la direzione generale di Roma nel ’69. Tra le sue produzioni figurano, oltre a I recuperanti da lui scritto con Mario Rigoni Stern e Olmi regista del film, alcuni titoli ispirati alla letteratura triestina: La rosa rossa da Quarantotti Gambini, Un anno di scuola da Giani Stuparich e il lungometraggio documentario La città di Zeno, tutti diretti da Franco Giraldi (altri titoli: Il lungo viaggio da Dostoevskij, La giacca verde da Mario Soldati). Per la RAI, quasi sempre scegliendo di non firmare, ha prodotto vari programmi e film, tra i quali San Michele aveva un gallo dei
Nota biografica
fratelli Taviani e il popolarissimo Sandokan di Sergio Sollima. Non sono pervenute alla realizzazione importanti iniziative alle quali ha lavorato a lungo: l’adattamento dei Mémoires di Carlo Goldoni con Giorgio Strehler, Lo scialo da Pratolini con Valerio Zurlini e I fatti di Andria con Giuseppe De Santis.
È studioso di Italo Svevo, al quale ha dedicato il volume Svevo e Zeno: Vite parallele (Scheiwiller). Il grande successo del suo adattamento teatrale de La coscienza di Zeno, prodotto nel ’64 dal Teatro Stabile di Genova, con Alberto Lionello e la regìa di Luigi Squarzina (e in seguito ripreso da Renzo Montagnani, Johnny Dorelli in TV, Giulio Bosetti e Massimo Dapporto), ha aperto la strada alla messinscena dell’intero teatro sveviano fino a quel momento considerato non rappresentabile. A Svevo ha dedicato anche Una burla riuscita (portato in TV da Romolo Valli, poi da Sergio Fantoni, e in teatro da Corrado Pani, poi da Marcello Bartoli), l’adattamento di Un marito per Aroldo Tieri, Zeno e la cura del fumo, interpretato da Bosetti, L’ultimo carnevàl con Orazio Bobbio nel ruolo di Svevo. Per il cinquantenario della scomparsa di Svevo, ha curato nel 1978 con Claudio Magris la serie di trasmissioni TV Mezzo secolo da Svevo
È drammaturgo largamente rappresentato con adattamenti da romanzi, opere originali e traduzioni per un totale di oltre 50 spettacoli. Fra i titoli di maggiore rilievo: Bouvard e Pécuchet (in collaborazione con Squarzina, protagonisti Tino Buazzelli e Glauco Mauri), W Bresci (“Piccolo Teatro” di Milano), Il fu Mattia Pascal da Pirandello (rappresentato oltre mille volte in vari allestimenti, volta a volta con Giorgio Albertazzi, Pino Micol, Flavio Bucci e Giuseppe Pambieri), Don Chisciotte: Frammenti di un discorso teatrale con Micol (in collaborazione con Maurizio Scaparro e Rafael Azcona, due edizioni: 1983, 2005), Il Vittoriale degli italiani (con Corrado Pani nel ruolo di D’Annunzio), Il gallo (con Turi Ferro) da Il bell’Antonio di Brancati, Il ritorno di Casanova da Arthur Schnitzler (con Albertazzi), Un amore da Dino Buzzati (con Bosetti), Si gira da Pirandello (con Bucci, scritto a quattro mani con il regista Mario Missiroli), Mémoires da Goldoni (in collaborazione con Scaparro) con Mario Scaccia. Per vent’anni ha partecipato a numerose produzioni della Plexus di Lucio Ardenzi con Alberto Lionello, Johnny Dorelli, Massimo Dapporto e altri. Dal 1998 ha iniziato con L’americano di San Giacomo a scrivere in dialetto triestino per il regista Francesco Macedonio e “La Contrada Teatro Stabile di Trieste”. Hanno fatto seguito (oltre al menzionato L’ultimo carnevàl ) a comporre una “Trilogia triestina” basata sui ricordi dei tumultuosi anni Quaranta: Un nido di memorie (2000) e I ragazzi di Trieste (2004).
Nota biografica
Svolgendo una saltuaria attività di sceneggiatore cinematografico, ha ottenuto due “Nastri d’argento” in collaborazione: Venga a prendere il caffè da noi (1970) di Alberto Lattuada, da La spartizione di Piero Chiara, e La leggenda del Santo bevitore di Olmi, dal racconto di Joseph Roth (“Leone d’oro” a Venezia, 1988).
Ininterrottamente presente dal 1946 alla Mostra di Venezia, ne è stato esperto dal 1966 al 1968, sotto la direzione di Luigi Chiarini, e nel ’70 ha ripetuto l’esperienza con Ernesto G. Laura. Dopo la scomparsa dell’amico Francesco Savio ha editato le 116 testimonianze da lui raccolte fra i protagonisti del “secondo cinema italiano” nei tre fondamentali volumi Cinecittà anni Trenta (Bulzoni, 1979). È autore di molti libri, di cinema e no, tra i quali la biografia Fellini (1987), “Premio Volterra” assegnato da Enzo Biagi giudice unico, riscritta nel 2002 per Feltrinelli con il titolo Federico. Fellini, la vita e i film, tradotta in tedesco (Diogenes), inglese (Faber & Faber in USA, I.B. Tauris in Gran Bretagna), francese (Gallimard), ungherese (Europa), spagnolo (TusQuets), nell’attesa di uscire in Giappone, Repubblica Ceca e Repubblica Popolare Cinese. Al mondo felliniano ha dedicato inoltre: Su La Dolce Vita con Federico Fellini ; Giulietta Masina (prima in spagnolo, poi in italiano), Fellini del giorno dopo, Federico Fellini Il libro dei sogni (a cura, Rizzoli; versione francese Flammarion). Fra gli altri libri si ricordano Salvatore Giuliano di Francesco Rosi ; Primavera a Cinecittà ; Dino. De Laurentiis, la vita e i film, in collaborazione con Alessandra Levantesi (“Premio Efebo d’oro” ad Agrigento per il miglior libro di cinema, Premio Scriveredicinema ad Assisi); Una giornata particolare (2003) e Cronaca di un amore (2004), ambedue con Levantesi; Ermanno Olmi: il mestiere delle immagini (altro premio ad Assisi come miglior libro dell’anno, 2004); La rivolta degli attori (2005), Cari centenari… Rossellini, Visconti, Soldati (2006). Alcuni volumi di narrativa: Il campeggio di Duttogliano (1959, rieditato nel 2001 da Sellerio con alcuni Ricordi-racconti ; riproposto nel 2004 dal quotidiano «il Piccolo» con il titolo Balilla a Trieste e il testo della commedia Un nido di memorie); L’uomo di sfiducia (Bompiani, 1963 e – con un racconto in più e una postfazione – 2005); il romanzo Una notte terribile e confusa (Sellerio, 2006).
Il Museo del cinema di Torino ha dedicato un volume a cura di Sergio Toffetti all’attività del critico, produttore e autore intitolato ’Ndemo in cine. Tullio Kezich fra pagina e set (Lindau, 1998). L’Università di Trieste gli ha conferito nel 2001 la laurea in lettere ad honorem, con lectio magistralis intitolata Sulla triestinità. Un altro volume gli ha dedicato la Provincia di Lodi: Tullio Kezich, Professione: spettatore, a cura di Fabio Francione (Falsopiano, 2003).
Autobiografia cronologica
1928
17 settembre – Tullio Kezich nasce a Trieste, in viale XX Settembre 13, alle 22.30 (notizia dedicata agli oroscopisti). La madre, Francesca Vallon (1899-1977), casalinga, è istriana di Muggia. Il padre Giovanni (1898-1961) è nativo di Spalato, emigrato a Trieste all’età di tre o quattro anni seguendo “Nonno Frane” che importando il vino dalmato apre tre osterie nel popolare quartiere di San Giacomo. Allo scoppio della Guerra mondiale lo studente liceale Giovanni viene richiamato e inviato in Galizia come Kaiserjaeger ; dopo la smobilitazione si laurea in giurisprudenza a Padova. Nel frattempo, lasciata la gestione delle osterie alle sorelle incapaci, il patrimonio familiare si vanifica. Nei primi anni Trenta l’avvocato Kezich, frequente difensore di antifascisti, trasferisce casa e studio all’indirizzo definitivo di via Pier Luigi da Palestrina 3.
1932
Abitudine di trascorrere le vacanze estive nell’isola di Arbe (Rab), dove vive Palmina sorella del padre, sposata con il macellaio Duje Vukusich. Una delle loro figliole, Emilia, è sempre vissuta a Trieste, accolta nella famiglia dello zio avvocato come una sorella maggiore di Tullio. Il soggiorno in Jugoslavia viene completato, con l’arrivo del papà, da una rituale visita ai parenti di Spalato.
1934
Marzo – Vede il primo spettacolo teatrale al “Verdi” di Trieste, in programma Caterina Sforza di Sem Benelli con Guglielmina Dondi.
1936 (?)
Marzo – Vede al “Verdi” L’isola dei pappagalli di e con Sergio Tofano nei panni di Bonaventura.
In un ritaglio senza data intitolato La distribuzione dei premi, forse da «Il Popolo di Trieste», si ritrova la prima menzione del nome di T.K. sulla stampa: «Salì quindi sul podio il caposquadra balilla moschettiere (non ero caposquadra né moschettiere, ma semplice Figlio della Lupa, n. d. r.), che disse il discorso pronunciato dal Duce il 2 ottobre 1935. La dizione offerta dal piccolo caposquadra fu, si può dire, una rivelazione. Il Kezich, assumendo un atteggiamento da tribuno, accompagnando le parole con gesti
Autobiografia cronologica
autoritari, raggiunse effetti assolutamente nuovi e suscitò in coloro che lo ascoltavano il più vivo interesse e la più intensa commozione…».
1939
1 settembre – Scoppio della guerra europea e conseguente fuga da Arbe confuso nella massa dei turisti tedeschi che tornano precipitosamente in patria.
1939-1944
Frequenta ginnasio e liceo all’istituto “Francesco Petrarca”. Tra i compagni di classe alcuni nomi che in futuro avranno rilevanza nella vita cittadina: il politico Guido Botteri, il professore avvocato Giampaolo de Ferra, l’industriale scrittore Fulvio Anzellotti, il musicista Pavle Merku, il giornalista Danilo Soli, il sindacalista Claudio Tonel.
1941
10 gennaio – Sul quindicinale «Cinema» (numero 109) esce nella rubrica Capo di Buona Speranza la prima risposta di “Il Nostromo” (Francesco Pasinetti) a una lettera di Tullio Kerisch (Trieste) «per un volume di critiche che intendi fare» (Pasinetti ignorava che il suo corrispondente aveva 12 anni). Seguiranno regolarmente altre risposte, con il nome non storpiato, nonché il contributo all’inchiesta Pro o contro il doppiaggio (numero 115, 10 aprile) in cui «Tullio Kezich, studente, Trieste» si dichiara «contro con riserva». Collabora anche regolarmente alla rubrica “Il pelo nell’uovo” del settimanale «Film», ma quando nel corso di un soggiorno romano si presenta alla redazione viene messo alla porta dal direttore, Mino Doletti, che vedendosi davanti un ragazzino si sente preso in giro.
7 febbraio – In un tema scolastico intitolato Il mio ritratto scrive: «…i miei più desiderati svaghi (sono) lettura e cinematografo. Proprio non riesco a concepire la vita senza libri o film: a onta dei progressi del mondo, si tornerebbe certo al periodo trogloditico». Segue l’elenco delle sue preferenze: in letteratura (Shakespeare e Omero), nel cinema (Renoir, Duvivier, Capra, René Clair, John Ford), nella musica (Mozart, Verdi, Puccini). Non ha mai cambiato idea.
In risposta a una lettera di ammirazione, riceve una foto con dedica: A Tullio Kezich cordialmente De Sica. È un segno del destino e uno dei cimeli a cui tiene di più.
Autobiografia cronologica
1942
Promuove con alcuni compagni di scuola un giornaletto in ciclostile intitolato «Lo Strale». Pur non avendo alcun contenuto politico, il primo numero viene sequestrato dal Preside del Petrarca che vieta il proseguimento della pubblicazione.
1943
Gennaio-ottobre – Scrive e rappresenta con il teatrino di marionette Il dottor Faust, suo adattamento dal Marionetten-Faust salisburghese. Scrive anche La commedia degli errori, versione in dialetto veneziano da Shakespeare, messa in prova e mai arrivata alla rappresentazione.
Autunno – Si abbona alla stagione lirica del “Verdi” e frequenta la Società dei Concerti e l’ambiente musicale. Amicizia, proseguita vita natural durante, con il pianista Giorgio Vidusso, che raffigurerà con l’appellativo schumanniano di Maestro Raro nel romanzo Una notte terribile e confusa.
1944
10 giugno – Sopravvive miracolosamente al bombardamento di Trieste, che provoca 500 morti e 1000 feriti.
17 settembre – Il giorno del sedicesimo compleanno riceve la cartolina di richiamo al servizio del lavoro istituito dai tedeschi nell’Adriatisches Kuestenland. Per evitare il peggio, riesce a farsi assumere come Freiarbeiter (libero lavoratore) dall’Einheit Pankoke, una ditta che realizza opere difensive per l’Organisation Todt. Durante quattro o cinque mesi lavora sul Carso come manovale in una squadra di operai adibita a fabbricare inutili opere difensive, poi si infratta in attesa della Liberazione. Nel frattempo si è anche ritirato dalla seconda liceo del “Petrarca” per preparare da privatista l’esame anticipato di maturità.
1945
5 maggio – All’angolo del corso con via Imbriani scampa all’eccidio della dimostrazione di italianità sotto il fuoco dei militari jugoslavi del “IX Corpus” che lasciano sul terreno quattro morti e numerosi feriti.
Giugno – Iscritto come privatista agli esami di maturità classica al Liceo “Dante Alighieri”, è minacciato di espulsione per aver scritto sulla scheda, che ancora recava la voce “razza”: «Razza negra».
Autobiografia cronologica
Settembre – Sostenuti gli esami di riparazione in matematica e chimica, ottiene il diploma. Nello stesso mese viene letta ai microfoni dell’Ente Radio Trieste la sua prima conversazione culturale intitolata Su alcuni drammi marini di Eugene O’Neill. Scoperta la sua giovane età, alla radio non lo fanno più collaborare.
Ottobre – Per desiderio paterno si iscrive riluttante alla facoltà di Legge dell’Università di Trieste. Entra a far parte della redazione di «Caleidoscopio», settimanale studentesco di satira politica diretto da Luciano Cossetto, dove stringe durevole amicizia con Mariano Faraguna e Lino Carpinteri.
Per un anno o poco più, senza alcun profitto dal punto di vista tecnico ma con grande vantaggio sul piano culturale, prende lezioni di pianoforte dal maestro Dario De Rosa del “Trio di Trieste”.
1946 15 gennaio-19 giugno – Pubblica su «Caleidoscopio» una ventina di raccontini nella rubrica “Il Nano Meraviglioso racconta”.
2 agosto – Esordisce come critico cinematografico recensendo ai microfoni dell’Ente Radio Trieste il film L’ispiratrice (The Great Man’s Lady, 1942) di William A. Wellman. Proseguirà questo servizio, con frequenza plurisettimanale, fino al 1954. Alla radio continua a lavorare per oltre sette anni come sceneggiatore, intrattenitore (è “spalla” di Romano De Mejo nel quiz Doppio o niente, anticipatore di Lascia o raddoppia? ), interprete di piccoli ruoli e rumorista presso le due compagnie dirette rispettivamente da Ugo Amodeo (varietà e sceneggiati) e Giulio Rolli (prosa). Fra le sue sceneggiature: il programma in cinque puntate I cavalieri del West, L’isola del tesoro da Robert L. Stevenson, Il velo dipinto da William S. Maugham, La freccia nera da Stevenson e numerose scenette per le trasmissioni di varietà.
Settembre – Per la prima volta è presente come inviato di Radio Trieste alla risorta Manifestazione internazionale d’arte cinematografica di Venezia, che continuerà a frequentare anno dopo anno stringendo amicizie che assumeranno un peso nel suo futuro: da Guido Aristarco a Giulio Cesare Castello, da Renzo Renzi a Ugo Casiraghi, da Enzo Biagi a Lamberto Sechi, da Michelangelo Antonioni a Oreste Del Buono.
Autobiografia cronologica
1947
Prende parte come animatore e attore occasionale alle attività del TAU (Teatro d’Arte dell’Università), diretto da Spiro Dalla Porta Xidias. Scarsamente dotato per la recitazione, impersona il giovane soldato in Lungo pranzo di Natale di Thornton Wilder, il vecchio Colum in Cavalcata a mare di John M. Synge, Du Croisy in Le preziose ridicole di Molière, un avvocato (voce fuori scena) in Gli indifferenti di Moravia-Squarzina, un invitato in Nozze di sangue di Federico Garçia Lorca, il parrucchiere Macario in Una losca congiura con Barbariccia contro Bonaventura di Sto. Un paio di spettacoli vengono presentati anche a Bellinzona, Lugano e Padova. Inizia e conclude la sua carriera di regista con la lettura al Circolo universitario dell’atto unico Inezie di Susan Glaspell.
Gennaio-marzo – Trascorre alcuni mesi a Varese, un’esperienza che rispecchierà molti anni dopo in Una notte terribile e confusa.
Maggio-giugno – Critico del quotidiano «Libertà», che ha breve vita.
Luglio – Inizia la consuetudine, che durerà qualche anno, di trascorrere le ferie estive a Cavalese, nella casa avita del musicista Giulio Viozzi dove sono ospiti De Rosa e Vidusso e compare anche il folklorista Claudio Noliani.
Settembre-dicembre – Critico del quotidiano «Corriere di Trieste».
1948
Gennaio – Abbandona la facoltà di legge e sfidando l’ira paterna si iscrive a lettere moderne, ma dopo aver frequentato assiduamente i corsi (con particolare riguardo alle illuminanti lezioni di Mario Fubini, Nino Valeri, Bruno Maier e Vito Levi) e dati quasi tutti gli esami a pieni voti non porta a compimento la laurea assegnatagli da Valeri, docente di storia moderna: Le origini del movimento fascista, un tema che continuerà ad appassionarlo.
15 febbraio – Inaugura al “Politeama Rossetti” di Trieste, insieme con Callisto Cosulich l’attività della Sezione Spettacolo del Circolo della Cultura e delle Arti. In programma The Fireman (Il pompiere) di Charles Chaplin, Il rullo compressore di Walt Disney e Le million di René Clair.
29 aprile – Lo storico belga Carl Vincent, che parla su Passato e avvenire dell’arte cinematografica, è il primo dei conferenzieri invitati dalla Sezione Spettacolo; in
Autobiografia cronologica
giugno segue Orazio Costa (La regia teatrale). Nel 1950 si susseguono, fra gli altri, Virgilio Tosi (I film di animazione, 1 gennaio), Giulio Cesare Castello (Il teatro italiano del dopoguerra, 24 aprile), Carlo Lizzani (Le nuove strade del cinema italiano, 4 maggio), Guido Aristarco (I teorici del cinema, 27 maggio).
2 settembre – Alla Mostra di Venezia, tornata al Lido, è presente alla tempestosa prima de La terra trema di Luchino Visconti e stringe amicizia con Antonio Pietrangeli autore del commento parlato.
1949
19 marzo – A Bologna per il Convegno nazionale dei Circoli del cinema conosce fra gli altri il regista Luigi Comencini, che accompagnato dal fratello Gianni rappresenta la Cineteca Italiana di Milano.
Maggio-giugno – Critico del quotidiano «Ultimissime».
Ottobre – È segretario di produzione, agli ordini dell’organizzatrice Bianca Lattuada, per il film Cuori senza frontiere di Luigi Zampa, una produzione di Carlo Ponti per la Lux Film girata sul Carso, dove fa una figurazione in divisa da militare jugoslavo accanto a Gina Lollobrigida, Raf Vallone e Enzo Stajola.
1950
Su invito dell’amico Castello pubblica il primo articolo su una rivista di carattere nazionale: Continua a raccontare il West, dedicato ai recenti western di John Ford («Sipario»).
15 luglio – Inizia la collaborazione al quindicinale «Cinema», di cui è factotum Aristarco, con l’articolo Il western è maggiorenne (numero 42).
17 settembre – Anteprima di Cronaca di un amore al Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste, presente Antonioni.
Dicembre – Autore con Giorgio Bergamini di cinque puntate radiofoniche, I cavalieri del West, dedicate a Jesse James, Wild Bill Hickock, Wyatt Earp, Billy the Kid e Buffalo Bill Cody.
1952
Gennaio – Prende l’abitudine, che conserverà sempre, di tenere irregolar-
Autobiografia cronologica
mente un quaderno in cui appuntare impressioni di letture, eventi, sogni e pensieri assortiti.
Febbraio – Dal primo numero collabora con recensioni e saggi alla rivista torinese «Rassegna del film» diretta da Fernaldo Di Giammatteo, che durerà un paio d’anni.
3-14 luglio – Partecipa per la prima volta come inviato di Radio Trieste al Sesto Festival Internazionale del Film di Locarno, del quale resterà assiduo frequentatore per oltre mezzo secolo.
7 settembre – Alla Mostra di Venezia, tramite il comune amico Leopoldo Trieste, conosce Federico Fellini che il giorno prima ha presentato Lo sceicco bianco. Nasce un nuovo durevole rapporto.
15 dicembre – È tra i fondatori del quindicinale milanese «Cinema Nuovo», nato da una costola di «Cinema», figurando in coppia con Renzi come “consiglieri redazionali”.
1953
Febbraio – Dal numero 82 assume la critica cinematografica del mensile «Sipario», che manterrà per quasi vent’anni.
13 aprile – Su pressante invito del direttore Aristarco si trasferisce a Milano, dove assume l’incarico di redattore capo a «Cinema Nuovo».
5 settembre – Gli cadono addosso l’interim della direzione di «Cinema Nuovo» e, affiancando Cesare Zavattini e Antonello Trombadori, la contemporanea organizzazione del Comitato di difesa di Aristarco e Renzi, arrestati su denuncia dell’autorità militare e tradotti al carcere di Peschiera. L’accusa è vilipendio dell’esercito per aver pubblicato il soggetto cinematografico L’armata Sagapò sulla campagna di Grecia. In questo periodo si consolida la sua amicizia con Roberto Leydi, Tom Granich e Livio Zanetti, futuro direttore de «L’Espresso». Tramite quest’ultimo intreccia un ulteriore sodalizio di lunga durata con Romolo Valli emergente attore del “Piccolo Teatro”.
Ottobre – Presso l’editore Floriano Zigiotti di Trieste esce il suo primo libro, l’antologia Il western maggiorenne
Autobiografia cronologica
1954
Gennaio – Dopo le dimissioni da «Cinema Nuovo», al quale non collaborerà più, viene assunto come redattore all’ebdomadario «Settimo Giorno», edito dalla Gloriosa di Ottavia Vitagliano e diretto da Ezio Colombo (al quale succederanno Guido Rocca e Pietro Bianchi). Vi rimane fino al 1961, assumendo negli ultimi anni la critica drammatica, che rappresenta un entratura nel mondo del teatro.
Luglio-agosto – Pubblica per le edizioni de «l’Avanti!», dirette da Gianni Bosio, Ascolta, Mr. Bilbo! Canzoni di protesta del popolo americano, scritto in collaborazione con Leydi.
1955
Gennaio – Primo viaggio a Parigi per un servizio sul set di Frou Frou, film di Augusto Genina.
12 aprile – Sposa a Trieste Laura de Manzolini Vidali detta Lalla (19241987), primattrice del Teatro d’Arte dell’Università. In seguito Lalla pubblicherà cinque libri di narrativa: Marina indiana, La preparazione, Gruppo concentrico e (postumi) La nave di Jean e Il silenzio abitato
Agosto – Esce il primo volumetto della collana “Tascabili del Cinema”, da lui curata con Giuseppe Calzolari per le edizioni parmigiane Sedit, dedicato ad Amedeo Nazzari e scritto da Aldo Paladini. Nel giro di un anno seguiranno monografie su Marilyn Monroe (Livio Zanetti), Marlon Brando (Tullio Kezich), Gina Lollobrigida (Renzi), Laurence Olivier (Silvano Villani), William Holden (Castello), Hollywood (Franco Berutti) e Jean Gabin (Glauco Viazzi).
Settembre-dicembre – Subentrando a Claudio Varese assume dal numero 17-18 la rubrica cinematografica della rivista «Letteratura», che manterrà fino al 1963.
1956
27 luglio – Nasce a Milano il figlio Giovanni, futuro direttore (dal 1992) del “Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina” di San Michele Adige (Trento) e autore di numerose pubblicazioni di antropologia fra le quali I poeti contadini
(Data incerta) Su invito di Gastone Da Venezia scrive un radiodramma
Autobiografia cronologica
intitolato La fabbrica dei sogni, un montaggio di scene da libri e da film utilizzati per comporre un racconto unitario su Hollywood. Il protagonista della trasmissione è Achille Millo.
Inverno – Viaggio in Germania per servizi su «Settimo Giorno».
1957
Dopo aver scritto un articolo sulla ripresa di Il diario di Anna Frank inizia a frequentare la Compagnia dei Giovani (Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Annamaria Guarnieri, Romolo Valli, Elsa Albani), che continuerà a seguire nelle “prime” e a volte anche nei debutti per alcuni anni e alla quale dedicherà nel 1996 il libro De Lullo o il teatro empirico
1958
Ottobre – Pubblica su «Storia illustrata» l’articolo Un garibaldino cavalcava al fianco del generale Custer, dedicato a John Martin (alias l’emigrato trasteverino Giovanni Martini) unico scampato nel 1876 alla strage del Little Big Horn. Alberto Sordi lo inviterà a Roma per studiare con Sergio Amidei la possibilità di ricavarne un film, Il trombettiere del generale Custer, ma i costi dell’impresa indurranno l’attore a rinunciare al progetto.
Autunno – A Bruxelles per la Confrontation des meilleurs films de tout le temps, dove riceve la medaglia comemorativa riservata agli esperti del comitato internazionale di selezione che ha assegnato il primo premio a La corazzata Potemkin di Ejzenštejn
1959
17 marzo – A Cinecittà assiste al primo ciak de La dolce vita di Fellini, che lo incarica di scrivere un diario sulla lavorazione.
Settembre – Viene contattato da Ermanno Olmi, che gli chiede un parere sul suo copione per un film tratto da Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, del quale diventa amico.
Dicembre – Pubblica presso le edizioni triestine dello Zibaldone di Anita Pittoni il racconto Il campeggio di Duttogliano, che sarà più volte rieditato (Studio Tesi in due diverse edizioni, Sellerio (in edizione normale e scolastica) e nel volume Balilla a Trieste (distribuito con «il Piccolo»).
Autobiografia cronologica
1960
Febbraio – Nel libro su La dolce vita, numero 13 della collana “Dal soggetto al film” dell’editore Cappelli diretta da Renzi, esce il suo diario, in seguito più volte ripubblicato a parte (come Il dolce cinema da Bompiani, Su La dolce vita con Federico Fellini da Marsilio).
5 giugno – Va in rete sul Programma Nazionale della TV la prima puntata dell’inchiesta Noi come siamo di Virgilio Sabel, di cui ha scritto i testi per le presentazioni di Valli.
Ottobre – Pier Paolo Pasolini gli concede amichevolmente la prima intervista apparsa sulla stampa («Settimo Giorno») annunciante il proprio esordio nella regia con Accattone
1961
Primavera – Agli ordini di Mario Soldati è consulente per la sezione teatro della mostra torinese “Italia ’61”.
Primavera – Partecipa alla realizzazione del film Il posto di Olmi, dove fa una breve figurazione come esaminatore psicotecnico. La sua scena viene applaudita a schermo acceso alla Mostra di Venezia e lo fa inopinatamente includere nella terna dei “Nastri d’argento” per il miglior attore non protagonista (vinto poi da Salvo Randone!).
Aprile-maggio – È a Palermo per seguire la lavorazione di Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, con il quale stringe una grande amicizia. Sul film scrive un altro diario di lavorazione che esce in novembre e conosce in seguito varie riedizioni. Consulente del regista per molteplici problemi inerenti al film, fa un’apparizione sullo schermo con la tonaca del parroco di Montelepre.
Settembre – Dopo averlo visto in Il posto, Pietrangeli che prepara il film Io la conoscevo bene lo chiama a Roma per un provino che si svolge agli studi De Paolis. Si tratta di una scena fra la protagonista Sandra Milo e lo squallido giornalista Cianfanna. Poco tempo dopo, mentre si trova in ritiro a Firenze con il gruppo di Olmi per preparare la fondazione di una nuova società cinematografica, apprende da una telefonata del direttore di produzione Marcello Bollero la notizia che è stato scelto e l’invito a farsi prendere da un sarto le misure per gli abiti di scena. Ma il film fortunatamente va a
Autobiografia cronologica
monte, evitandogli questo passo pericoloso, e quando il progetto verrà ripreso nel 1965 la parte di Cianfanna andrà a Nino Manfredi.
Dicembre – Preparando la televisiva Serata per Svevo accompagna Valli a intervistare Letizia Fonda Savio nella sua casa triestina di via Montfort 12.
22 dicembre – Dopo una breve collaborazione con la Sezione Cinema della EdisonVolta, dà vita con Olmi e altri alla società editoriale cinematografica “22 dicembre”, in compartecipazione al 49 per cento con la Edison rappresentata dal suo segretario generale avvocato Bruno Janni. In questa operazione investe l’intera liquidazione di «Settimo Giorno», due milioni e mezzo che non rivedrà più.
1962
Gennaio – Segue come coproduttore (non firmante, per sua volontà) la lavorazione a Milano di Una storia milanese, opera prima di Eriprando Visconti ed esordio della “22 dicembre”.
12 febbraio – Durante una colazione a San Michele del Carso, nel corso di un viaggio in macchina verso Trieste alla ricerca dell’interprete dell’amante di Mastroianni in 8½, Fellini scrive il seguente appunto di cui si conserva una brutta fotocopia: «Caro Tullio produttore, fammi fare un film mitologico, di fantascienza, Maciste e le ficone, e io ti firmo fin da subito il contratto. Federico Fellini. P. S. Il presente foglio ha valore di contratto». C’è anche una controfirma: «Visto e approvato. Alessandro Normann» (il direttore di produzione).
3 maggio – A sua cura il Secondo Canale RAI trasmette la Serata per Svevo. Dopo l’intervista a Letizia, Valli è il protagonista di Una burla riuscita, regia di Edmo Fenoglio. L’adattamento del racconto sveviano sarà ripreso più volte: nel ’78 in TV con Sergio Fantoni, regia di Mario Missiroli; e in teatro, regista Egisto Marcucci, nel 1985 con Corrado Pani e nel 1998 con Marcello Bartoli.
11 giugno – Pubblica presso Bompiani i racconti di ambiente cinematografico intitolati L’uomo di sfiducia (ripubblicati nel 2005).
Giugno – Su invito del direttore Sechi assume la critica cinematografica de «La Settimana Incom Illustrata», che manterrà fino alla chiusura del giornale (estate 1966).
Autobiografia cronologica
Settembre – Viene proiettato alla Mostra di Venezia Una storia milanese, che si aggiudica vari premi non ufficiali.
Settembre – Sopralluoghi con Lina Wertmüller, Franca Santi e Alberto Soffientini in Puglia e Basilicata preparando il film I basilischi.
1963
Gennaio – Segue a Venezia come produttore la lavorazione del film di Gianfranco De Bosio GAP, che diventerà Il terrorista.
30 maggio – Va in onda sul Secondo programma della TV la prima delle sei puntate del suo adattamento di Delitto e castigo, dal quale ha ritirato la firma (sostituendola con lo pseudonimo Giovanni Vallon) dopo l’abbandono di Gian Maria Volontè in polemica con il regista Anton Giulio Majano. Rifarà Delitto e castigo, a quattro mani con il regista Mario Missiroli, per una nuova versione a colori (in onda a partire dal 9 febbraio 1983).
28 luglio – I basilischi, opera prima di Lina Wertmüller prodotta dalla “22 dicembre”, vince la “Vela d’argento” al 16° Festival di Locarno.
Agosto – Viaggio al festival di Montreal e a New York con Gian Vittorio Baldi. Amicizia con Lindsay Anderson, che in seguito gli invierà dagli USA una foto di John Ford con il seguente autografo: «To Tullio Kezich “grazie!” with many thanks Sincerely John Ford Hollywood ».
Settembre – Presenta alla Mostra di Venezia il film, da lui prodotto per la “22 dicembre” (in coppia con Soffientini), Il terrorista che ottiene vari premi non ufficiali. Boicottato dagli esercenti, il film riceve l’approvazione di Ferruccio Parri e all’uscita alla Pagode di Parigi viene sostenuto da Jean-Paul Sartre.
Non dà seguito alla proposta di Fellini di andare a lavorare per lui alla Federiz di Roma.
1964
Aprile – Sul numero 172 Letteratura di «Paragone» Anna Banti gli pubblica il racconto Le sabatine.
12 ottobre – Debutta alla “Fenice” di Venezia, nel quadro del Festival del teatro di Prosa, il suo adattamento de La coscienza di Zeno di Italo Svevo, prodotto
Autobiografia cronologica
dal Teatro di Genova, regia di Squarzina, protagonista Alberto Lionello (una versione TV in 3 puntate, con regia di Daniele D’Anza, andrà in onda il 16, 23 e 30 marzo 1966). Il copione sarà ripreso più volte: da Renzo Montagnani nel ’78, Johnny Dorelli (in TV) nel 1988, Giulio Bosetti nel ’98, Massimo Dapporto nel 2003. La collaborazione con Lionello per traduzioni e adattamenti proseguirà con Monsieur Ornifle di Anouilh (1983) e Divorziamo!! di Sardou (1985).
Autunno – Su invito di Alberto Lattuada, recandosi spesso a Varese, collabora con l’autore Piero Chiara alla sceneggiatura per il film tratto dal romanzo La spartizione.
1965
Febbraio-marzo – Presenta in TV il ciclo settimanale di film intitolato Sui sentieri del West
Luglio – Il consiglio d’amministrazione del Teatro Stabile di Torino decide di non mettere in scena, pur avendola commissionata, la commedia Lo stanzone che riflette le esperienze fatte nella redazione di «Settimo Giorno». Mai rappresentato, il testo sarà pubblicato su «Sipario» (numero 266, giugno 1966).
Estate – Trasferta in Tunisia con De Bosio per proporre al presidente Habib Burghiba il film Fellagha sulla lotta di liberazione del paese, operazione che non va a buon fine.
1966
Gennaio – Dalle mani di Letizia Fonda Savio riceve in occasione delle ultime recite a Trieste di Zeno una targa con la seguente dedica: «A Tullio Kezich che con amorosa intelligenza ridusse per il teatro La coscienza di Zeno di Italo Svevo conservandone intatti il sottile umorismo l’acuto studio dell’animo umano la figlia dello scrittore riconoscente».
16 marzo – Va in onda la prima delle tre puntate dell’adattamento TV dello spettacolo genovese La coscienza di Zeno, regia di Daniele D’Anza.
Primavera – Viene cooptato dal direttore Luigi Chiarini nella Commissione di selezione della XXVII Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, incarico confermato per le edizioni XXVIII e XXIX.
5 maggio – Per la prima volta è presente come critico a Cannes, dove si reca
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in compagnia di Enzo Biagi per il 19 ° Festival International du Film.
Maggio-giugno – Presenta in TV un ciclo di film interpretati da Alan Ladd.
Giugno – A Londra con Chiarini per incontrare François Truffaut e visionare la copia campione di Fahrenheit 451 da portare a Venezia. Colazione al ristorante degli studi di Pinewood in mezzo ai matti in costume di Marat/ Sade, dove al tavolo accanto si accomoda Charlie Chaplin che sta montando La contessa di Hong Kong.
Per il racconto Il dare e l’avere, pubblicato sul settimanale «ABC», viene denunciato per pornografia, poi prosciolto in istruttoria.
Agosto – In missione a Parigi per assicurare La prise de pouvoir de Louis XIV alla Mostra veneziana, che presenterà con grande successo il film di Rossellini nella serata finale.
10 novembre – Sul Secondo Canale inaugura con Il caso Fuchs. Una spia del nostro tempo la serie Teatro Inchiesta, regia di Piero Schivazappa, protagonisti Franco Graziosi e Tino Carraro.
Novembre – Inizia una collaborazione a contratto annuale con la sede milanese della RAI, dove per tre anni inventa, produce e realizza programmi di vario tipo: dalla serie Processi a porte aperte (anche su copioni di Carlo Fruttero e Franco Lucentini) a Il mestiere di vincere (scritto da Giorgio Cesarano, in onda dal 12 settembre 1968), da Il bracconiere (scritto con Mario Rigoni Stern, regia di Eriprando Visconti, 31 agosto 1968) a La macchinite di Raffaello Baldini, regia di Fulvio Tolusso (16 giugno 1968).
Dicembre – Inizia su «L’Europeo» una serie di articoli sul teatro dedicati alla “rivolta degli attori”, che prosegue con interviste a Giorgio Strehler, Squarzina, De Bosio, Vittorio Gassman e Franco Enriquez, raccolte nel 2005 nel volume La rivolta degli attori (Gremese).
1967
Gennaio – Assume la critica cinematografica su «Panorama» diretto da Sechi, che suggerisce la formula del pezzo «corto ma breve».
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Maggio – Di nuovo a Cannes con Biagi per il XX Festival.
1968
12 marzo – Il “Teatro Sloveno di Trieste” mette in scena Zenova Izpoved (La coscienza di Zeno t.o.) con la regia di Joze Babic.
17 marzo – Va in onda sul Programma Nazionale, ore 21, il primo episodio della serie Processi a porte aperte, da lui curata. A Il giocatore di scacchi di Carlo Fruttero e Franco Lucentini seguiranno altri otto appuntamenti: Il medico delle vecchie signore, La tragedia di Hopewell, Il caso dei tre giudici, Il barone dei diamanti (copione firmato con lo pseudonimo Giovanni Vallon), Losey il bugiardo, Io accuso, tu accusi, Io difendo Elvira Sharney (Vallon), Un delitto d’amore (Vallon).
Giugno – Alla prima sezione del Tribunale di Genova è testimone a favore di Luigi Squarzina, Ivo Chiesa e Ivo Garrani, rispettivamente autore-regista, produttore e interprete della commedia Emmetì, prima tagliata e poi portata in giudizio dal sostituto procuratore Mario Sossi (che in seguito sarà rapito dalle Brigate Rosse). Il clamoroso processo per vilipendio della religione si conclude con una piena assoluzione dei tre imputati.
17 luglio – Forse a imitazione dell’amico Fellini inaugura un quaderno intitolato Libro dei sogni, dove annota e commenta le fantasie notturne. Lo proseguirà a intermittenze fino al 23 giugno 1973, dopodiché continuerà ad annotare alcuni sogni in mezzo ad altre cose nei suoi diari.
20 novembre – Va in scena al Politeama Genovese Bouvard e Pécuchet, scritto in collaborazione con Luigi Squarzina che ne è il regista, con Tino Buazzelli e Glauco Mauri, prodotto dal “Teatro Stabile di Genova” e pubblicato su «Sipario» numero 271.
Settembre – Pur contrario alla contestazione della Mostra di Venezia, si dimette dalla commissione di selezione per protesta contro l’intervento della polizia.
7 dicembre – Inaugura una casa di vacanza che ha fatto costruire in Val Giardini, Asiago, accanto agli amici Rigoni Stern e Olmi.
Scrive con Piero Chiara il radiodramma Marguerito, dal racconto Il ponte di
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Queensboro, che va in onda sfigurato da ampie manomissioni registiche.
1969
2 aprile – Riceve dalle mani di Pietro Bianchi il “Premiolino Bagutta” nell’omonima trattoria milanese.
Estate – Lavora con Squarzina a un copione sul processo di Tullio e Linda Murri intitolato Le streghe di Bologna, che rimane interrotto.
30 settembre – Prende la residenza ad Asiago, che manterrà per alcuni anni.
1 ottobre – Si trasferisce definitivamente a Roma con un contratto per “incarichi speciali connessi alla produzione di programmi sceneggiati” presso la direzione generale della RAI che mantiene fino al 1985.
Ottobre – Fa parte con Piero Chiara e Roberto Rebora della giuria del premio per un atto unico di teatro indetto dalla Dante Alighieri di Merano.
Novembre – Da questo momento visita più volte Giorgio Strehler nella villa San Sebastiano sul monte di Portofino per preparare insieme con il regista una miniserie televisiva tratta dai Mémoires di Carlo Goldoni. Dopo due anni di appassionanti incontri di lavoro, il progetto sfuma. Nello stesso periodo, e oltre, manda avanti due altri grandi progetti che la RAI non porta a buon fine: Lo scialo (dal romanzo di Vasco Pratolini) con Valerio Zurlini e I fatti di Andria con Giuseppe De Santis.
20 dicembre – Presenta ad Asiago il film per la TV di Olmi I recuperanti, da lui prodotto e scritto in collaborazione con il regista e Rigoni Stern (trasmesso il 29 marzo 1970). Tra i molti giornalisti intervenuti, brilla l’illustre veterano Filippo Sacchi.
1970
Primavera – Nominato dal direttore Ernesto G. Laura nella Commissione di selezione della XXXI Mostra di Venezia, incarico che in seguito rifiuterà varie volte.
Si aggiudica con Piero Chiara e altri il “Nastro d’argento” per la sceneggia-
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tura in collaborazione di Venga a prendere il caffè da noi di Alberto Lattuada, dal romanzo La spartizione.
Su incarico della RAI lavora con Mario Camerini al progetto di un adattamento televisivo del romanzo Eleonora d’Arborea di Giuseppe Desasì, che poi passerà ad altri. Nello stesso periodo, con Camerini e Luchino Visconti, fa parte della giuria che assegna a Strehler il premio intitolato alla birra Moretti di Udine.
1971
26 febbraio – Va in scena al “Metastasio” di Prato W Bresci. Storia italiana in due tempi, regia di De Bosio, produzione “Piccolo Teatro di Milano”, ma si dissocia in polemica con lo spettacolo troppo infedele al testo.
Marzo – Assume la direzione del mensile «Sipario» che manterrà per oltre tre anni, fino al numero dell’agosto-settembre 1974.
Marzo – Sopralluoghi in Istria con il regista Franco Giraldi per il film La rosa rossa dal romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini, seguiti dalle riprese in maggio-giugno (poi trasmesso il 23 maggio 1974).
Cura (senza firmare) la produzione per la TV del film San Michele aveva un gallo di Paolo e Vittorio Taviani.
1973
18 marzo – Accompagna il regista Sergio Sollima nei sopralluoghi in India per il Sandokan televisivo. All’“Hotel Taj Mahal” di Bombay è il primo a incontrare Kabir Bedi e a caldeggiare la sua candidatura. In aereo, macchina, motobarca e perfino a dorso di elefante, l’itinerario tocca successivamente le seguenti località: Bombay, Goa, Cochin, Mysore, Bangalore, Mudumalai, Madurai, Madras… Un altro paio di trasferte in India e Malaysia (con base a Kwala Trengganu sul mare della Cina) seguiranno durante le riprese della miniserie, dal luglio ’74 al febbraio ’75.
Ottobre – Sopralluoghi in Ungheria e Polonia con Giraldi per la miniserie televisiva Il lungo viaggio da racconti di Dostoevskij (trasmesso dal 15 ottobre 1975).
1974
Marzo – Va in scena alla “Städtische Bühne” di Heidelberg la versione tedesca di Bouvard e Pécuchet.
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Settembre – A seguito di un cambio di proprietà gli viene tolta la direzione di «Sipario».
14 novembre – Va in scena al “Duse”, prodotto dal Teatro di Genova, Il fu Mattia Pascal da Pirandello, regia di Luigi Squarzina, protagonista Giorgio Albertazzi. Il copione sarà ripreso da Pino Micol nel 1986, Flavio Bucci nel 1992, Giuseppe Pambieri nel 2000.
1975
Riceve ad Agrigento per l’adattamento di Il fu Mattia Passcal il “Premio Pirandello Maschere Nude” del Centro Nazionale Studi Pirandelliani.
1976
6 gennaio – Va in onda sulla ReteUno la prima delle sei puntate della miniserie Sandokan di Sollima (oltre 27 milioni di spettatori in media), alla produzione del quale ha ampiamente collaborato senza firmare.
14 Gennaio – Su indicazione di Zanetti, Eugenio Scalfari gli affida la critica cinematografica del nuovo quotidiano «la Repubblica», dove resterà per tredici anni fino al 1989.
Novembre – Accompagna il direttore di RAI 2 Massimo Fichera in un viaggio di acquisizione filmati a Mosca e Leningrado.
1977
28 marzo – È a Hollywood per accompagnare alla cerimonia degli Oscar, al Dorothy Chandler Pavillon, l’amica Lina Wertmüller candidata a quattro premi per Pasqualino Settebellezze, di cui nessuno va in porto.
Aprile – Pubblica presso Il Formichiere Il MilleFilm. Dieci anni al cinema 1967-1977, seguito da Il FilmSessanta. Il cinema degli anni 1962-1966. Il MilleFilm viene ripubblicato, riveduto e aumentato negli Oscar Mondadori (1983), seguito da Il nuovissimo MilleFilm (1983), Il Film ’80 (1986) e Il Film ’90 (1990)
12 aprile – Assume la direzione della “Collana di Studi Cinematografici” dell’editore Mario Bulzoni, fondata da Luigi Chiarini, che manterrà per alcuni anni.
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Settembre-ottobre – A Trieste con Giraldi per le riprese del lungometraggio documentario La città di Zeno.
21-22 ottobre – Per il Sindacato Critici organizza al “Teatro Petrarca di Arezzo” un convegno dedicato a L’attore nel cinema italiano d’oggi.
1978
22 febbraio – Prima presenza come inviato de «la Repubblica» alla 28a Berlinale, Internationale Filmfestspiele Berlin, che frequenterà regolarmente fino al 2006.
Aprile – Riprese a Roma e sui monti della Sabina per il film La giacca verde di Franco Giraldi, tratto dal racconto di Mario Soldati.
7 settembre – Inizia sulla Rete 2 TV la serie di trasmissioni curata in collaborazione con Claudio Magris e intitolata Mezzo secolo da Svevo, alla quale prende parte con l’adattamento della commedia mai rappresentata Il ladro in casa (regia di Fenoglio), la menzionata nuova versione di Una burla riuscita e il lungometraggio documentario La città di Zeno realizzato in collaborazione con Giraldi.
1979
Luglio – Cura la pubblicazione postuma, in tre volumi editi nella collana di Bulzoni, di Cinecittà anni Trenta. Parlano 116 protagonisti del secondo cinema italiano, rimasta incompiuta dopo il suicidio dell’amico Francesco Savio nel ’76.
1980
5 febbraio – Presenta su RAI 2 un nuovo ciclo di 12 film western intitolato Nel crepuscolo del West.
Luglio – Viaggio ad Atene per intervistare Theo Anghelopoulos che sta ultimando l’edizione di Megalexandros
A Parigi, in un Convegno dell’Unesco, presenta una relazione su La civiltà contadina in mezzo secolo di cinema italiano.
Dicembre – È sceneggiatore e voce off dello speciale televisivo A sud di Eboli, che illustra il film Cristo si è fermato a Eboli di Rosi.
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1982
16 gennaio – A Percoto (Udine) riceve il “Premio giornalistico Nonino” per il saggio La civiltà contadina in mezzo secolo di cinema italiano, pubblicato dalla rivista pescarese «Oggi e domani».
17 ottobre – Inizia al romano Teatro delle Arti con Candida di G.B.Shaw la collaborazione come traduttore e adattatore per la compagnia Tieri (Aroldo) – Lojodice (Giuliana). Seguiranno Un marito di Svevo (’83), Un ispettore in casa Birling (’85) di John B. Priestley, Indians di Arthur Kopit (solo Tieri, al Palazzo delle Esposizioni, ’94).
Dicembre – Sul numero 51 di «Radiocorriere» inizia la rubrica Cinema e dintorni, che manterrà per oltre due anni fino al numero 12 del 1985.
1983
9 gennaio – Va in onda su RAI Due la prima di 5 puntate di Delitto e castigo di Dostoevskij, nuovo adattamento in collaborazione e con la regia di Missiroli.
27 giugno – Per l’Estate Teatrale Veronese va in scena l’adattamento di Un marito di Svevo, regia di De Bosio, protagonista Tieri (“Premio Curcio”).
5-14 agosto Membro della giuria del 36° Festival internazionale del film di Locarno.
Presenta su RAI Due un ciclo di film italiani emarginati.
17 ottobre – Al “Teatro Ariosto” di Reggio Emilia va in scena (regia di Squarzina, protagonista Lionello) la sua traduzione di Monsieur Ornifle di Anouilh. È la prima di undici collaborazioni con il produttore Lucio Ardenzi, con il quale farà ancora Divorziamo!! di Victorien Sardou (’85, con Lionello), Il Gallo da Vitaliano Brancati (’89, con Turi Ferro), M. Butterfly di David H. Wang (’89, con Ugo Tognazzi e Arturo Brachetti), Il ritorno di Casanova da Arthur Schnitzler (’91, con Giorgio Albertazzi). Seguono tre testi di Neil Simon (tradotti in collaborazione con Alessandra Levantesi) A piedi nudi nel parco (’93, con Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini), Il prigioniero della Seconda strada (’96) e Plaza Suite (’99), ambedue con Massimo Dapporto; e ancora L’amico di tutti (Tribute) di Bernard Slade (’99, con Johnny Dorelli), Lo sbaglio di essere vivo di Aldo De Benedetti (2000, con Fabrizio Frizzi) e La coscienza di Zeno (2003, Dapporto).
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1984
17-28 febbraio – Membro della giuria internazionale della 34a Berlinale, presieduta da Liv Ullmann e di cui fanno parte, fra gli altri, Jules Dassin e Mario Vargas Llosa.
Marzo – Viaggio a Lisbona e a Porto per incontrare Manoel de Oliveira e altri cineasti portoghesi.
3 luglio – Debutta al “Teatro Caio Melisso”, nel quadro del Festival dei Due Mondi, Don Chisciotte. Frammenti di un discorso teatrale, scritto in collaborazione con Rafael Azcona e il regista Maurizio Scaparro, protagonista Pino Micol (sarà ripreso nel 2005 e oltre).
Novembre – Con atto di citazione del Tribunale Civile di Roma l’ANEC, Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici, gli chiede 100 milioni di danni (54mila dollari secondo la stima di «Variety») per diffamazione, avendo egli deplorato in vari articoli e interventi la cattiva condizione delle sale in Italia. C’è il rischio che il giudice possa ordinare la provvidenziale, ovvero il versamento della cifra in attesa che si concluda il lungo iter del processo; ma in seguito una massiccia ondata di proteste sui giornali e in televisione, l’ANEC ritira la querela.
1985
6 gennaio – Partecipa a una commemorazione di Romolo Valli a Reggio nell’Emilia.
18 luglio – Si dimette dalla RAI, che sta rapidamente adeguandosi al modello della televisione commerciale.
4 ottobre – Accompagna Giulietta Masina a Valencia per la presentazione del libro-intervista che ha dedicato all’attrice (in lingua spagnola, poi ripubblicato in italiano).
4-8 novembre – Nuovamente in compagnia della Masina e di altri felliniani partecipa al “Seminario Internacional Federico Fellini ” organizzato dalla Fundaciòn Luis Cernuda a Sevilla.
1986
3 dicembre – Riceve il “Premio giornalistico Osteria dell’Orso” patrocinato
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dall’Associazione Stampa Romana.
1987
Per la società M & P – Film & Film (Torino) assume la direzione di una linea di videocassette di film classici e moderni sotto l’insegna “La cineteca di Tullio Kezich”, che alla fine saranno all’incirca una quarantina.
Aprile – Sopralluoghi a Parigi con Olmi per la preparazione delle riprese de La leggenda del Santo bevitore.
Maggio – L’editore Camunia pubblica la sua biografia Fellini (“Premio Volterra”, giudice unico Enzo Biagi), poi tradotta nella Svizzera tedesca e in Brasile.
7 luglio – Al ritorno dal Mystfest di Cattolica, l’ultima giuria alla quale ha accettato di partecipare, incidente di macchina con frattura di costole e degenza di tre settimane all’ospedale di Cesena. Nel corso della convalescenza ad Asiago comincia a scrivere l’adattamento de Il ritorno di Casanova di Schnitzler, che gli è stato commissionato da Marcello Mastroianni. Il copione verrà invece recitato, in una diversa versione e con svariati ad libitum, da Giorgio Albertazzi.
Settembre – Fellini ottiene il “Premio Selezione Sirmione Catullo”, presieduto da Giancarlo Vigorelli.
1988
21 febbraio – Su «Panorama», abbandonando le recensioni dei film, inizia la rubrica “Cinema in TV” che tiene fino al 5 marzo ’89.
Settembre – Insieme con gli interpreti sir Anthony Quayle e Sandrine Dumas, assente Olmi indisposto, tiene la conferenza stampa per la presentazione in concorso alla Mostra di Venezia di La leggenda del Santo bevitore, moderatore Maurizio Costanzo. Il film da lui promosso e scritto in collaborazione con il regista vince il “Leone d’oro”; e in seguito otterrà per la sceneggiatura il “Nastro d’argento” e la Nomination ai “David di Donatello”. I titoli si aprono con la dedica «Ricordando Lalla», ispiratrice della pellicola, scomparsa il 21 marzo dell’anno prima.
Targa dell’Associazione Giuliani e Dalmati per la Presenza Giuliana a Roma.
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29 novembre – Riceve il riconoscimento per la critica al VII Premio Michelangelo da una giuria presieduta da Ennio Morricone.
1989
18 gennaio – Va in scena al “Teatro Verga” di Catania Il gallo, adattamento da Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati, con Turi Ferro, regia di Lamberto Puggelli, produzione Lucio Ardenzi-Teatro Stabile di Catania.
8 febbraio – Firma con la RCS Rizzoli Libri un contratto per una biografia di Vittorio De Sica da scrivere a quattro mani con Callisto Cosulich. La data di consegna (30 giugno 1990) è scandalosamente disattesa, ma non si esclude che il manoscritto (da tempo in fase di avanzata elaborazione) possa un giorno o l’altro venir completato.
Marzo – Su cordiale invito del direttore Ugo Stille, diventa il critico cinematografico del «Corriere della Sera».
Estate – Scrive un libretto tratto da Il bell’Antonio per la musica di Girolamo Arrigo, ma l’opera non trova la via del palcoscenico.
Ottobre – Per una stagione dirige a Roma, con Missiroli e Alessandro Tolomei, il “Teatro delle Arti”, producendo fra l’altro Piccola città di Thornton Wilder, regia di Olmi.
1990
30 maggio – In Campidoglio sposa in seconde nozze Alessandra Levantesi, critico cinematografico de «La Stampa» e da questo momento regolare collaboratrice per libri e copioni teatrali.
Giugno – Prepara un adattamento della commedia di Vitaliano Brancati Il viaggiatore dello sleeping numero 7 era forse Dio? in collaborazione con Anna Proclemer che dovrebbe curarne la regia, ma lo spettacolo non si fa.
12 ottobre – Va in scena al “Teatro delle Arti” Il Vittoriale degli italiani, regia di Missiroli, protagonista Pani nella parte di D’Annunzio, produzione Tolomei.
1991
5 luglio – Va in scena al “Teatro Romano” di Verona la versione musicale di L’impresario delle Smirne di Carlo Goldoni, scritta in collaborazione con il
Autobiografia cronologica
regista Missiroli, musiche di Armando Trovajoli. Il 16 luglio gli autori dello spettacolo scrivono una lettera a «la Repubblica» per protestare contro i critici che hanno abbandonato il teatro al primo scroscio di pioggia.
15 settembre – Nel quadro del XII Festival Città Spettacolo va in scena all’“Auditorium Calandra” di Benevento Il ritorno di Casanova con Albertazzi.
21 settembre – Pronuncia la laudatio di Rigoni Stern vincitore del premio dell’Agrifilmfestival di Orbetello.
1992
3 ottobre – Riceve a Viareggio il “Premio Europa Cinema” intitolato a Fellini.
Novembre – La Città di Assisi gli assegna il “Premio Domenico Meccoli ScriverediCinema” per il miglior critico dell’anno.
1993
10 giugno – Su invito del British Film Institute è fra i cineasti che raccontano questa giornata in una serie di testimonianze poi raccolte a cura di Mitchell Beazley nel volume World Cinema. Diary of a Day – A Celebration on the Centenary of Cinema.
30 novembre – Prima all’“Eliseo” di Roma (dopo il debutto a Città di Castello) di A piedi nudi nel parco, tradotto con Levantesi, protagonisti Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini.
1994
9-28 febbraio – Cura al romano Palazzo delle Esposizioni la rassegna Indian Movies – 40 titoli per ridisegnare l’immagine degli indiani, conclusa con una mise en place di un suo adattamento da Indians di Arthur Kopit, protagonista Aroldo Tieri, regia di Piero Maccarinelli.
15 aprile – Al “Teatro Verdi” di Padova va in scena Zeno e la cura del fumo, con Bosetti, regia di Marco Sciaccaluga, produzione “Teatro Stabile del Veneto”.
20 agosto – Va in scena a Villa Borghese, piazza di Siena, il balletto Fellini, coreografia di Micha van Hoeck, con Jean Babilée e Natalia Makarova, musica di Nicola Piovani, produzione ideata dal sovrintendente Giorgio
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Vidusso per il Teatro dell’Opera (trasmessa in diretta da RAI Due).
15 ottobre – Riceve a Ravenna uno dei riconoscimenti del XXIII “Premio Guidarello” per il giornalismo d’autore riferito all’articolo sul «Corriere della Sera» in morte di Fellini.
3 novembre – Pubblica su «Sette» un articolo sull’imminente cinquantenario di Roma città aperta contenente il suggerimento, prontamente accolto dal sindaco Francesco Rutelli, di collocare una lapide commemorativa sull’edificio di via degli Avignonesi dove fu battuto il primo ciak.
15-26 novembre – Mostra documentaria dedicata a Lalla Kezich (19241987) alla Biblioteca Statale del Popolo di Trieste.
16 dicembre – È tra gli ideatori della mostra, che si apre al Palazzo delle Esposizioni, Roma sotto le stelle del ’44. Storia arte e cultura dalla guerra alla Liberazione di cui cura con Levantesi la parte dedicata al cinema. Per l’occasione intervista in video Massimo Girotti.
1995
4 febbraio – Discorso ufficiale per l’assegnazione dell’“Archiginnasio d’oro” a Pupi Avati, sala dello Stabat Mater, Bologna.
8 giugno – Con lettera del Segretario Generale della Presidenza del consiglio dei Ministri, gli viene conferita l’onorificenza di Commendatore dell’ordine “Al Merito della Repubblica Italiana”. Trattandosi di un riconoscimento concesso contemporaneamente ad altre 99 persone, il neocommendatore sceglie di rinunciare.
Pubblica presso Laterza, in collaborazione con Alessandra Levantesi, Centofilm 1994, al quale seguiranno Centofilm 1995 (1996), Centofilm 1996 (1997) e Centofilm 1997 (1998).
Autunno – Su invito di Lucio Ardenzi, dopo un caloroso incontro con Anthony Quinn, accetta di scrivere un copione intitolato Picasso, che l’attore vorrebbe recitare in italiano per poi tradurlo e portarlo a Broadway. In seguito l’iniziativa è raccolta dal “Teatro di Catania” per Turi Ferro, ma si vanifica un’altra volta. Frutto di un lungo studio sulla vasta bibliografia picassiana e completato nel 2002, il copione resta inedito e non rappresentato.
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1996
Si dimette dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani per protesta contro una sguaiata presa di posizione del direttivo nei confronti di Gillo Pontecorvo direttore della Mostra di Venezia. Le dimissioni sono accolte senza commenti.
31 ottobre – A Rimini nel terzo anniversario della scomparsa di Federico presenta, insieme con la sorella Maddalena Fabbri Fellini, il libro Fellini del giorno dopo.
1997
Luglio – Inizia la consuetudine di trascorrere ogni estate un paio di settimane a St. Tropez.
13 luglio – Riceve a Pescara dalle mani di Fernaldo Di Giammatteo il “Premio Flaiano per la critica”.
1998
11 marzo – Firma a Torino una rassegna di film con la formula Carta bianca a… per iniziativa del Museo Nazionale del Cinema. In tale occasione Lindau pubblica, a cura di Sergio Toffetti, il libro ’Ndemo in cine. Tullio Kezich fra pagina e set.
Aprile – Tra Pitigliano e Cinecittà intervista Tullio Pinelli nel video, a sua cura e con la regia di Franco Giraldi, Il teatro del mondo – Incontro con Tullio Pinelli, primo numero della serie Archivio della Memoria – Ritratti Italiani della Scuola Nazionale di Cinema.
5 giugno – Discorso a Trieste nella Sala del Consiglio della RAS, per l’inaugurazione della mostra Gli ultimi sogni di Fellini alla Casa della Pietra “Igo Gruden” di Duino – Aurisina. Il sindaco Riccardo Illy gli consegna la medaglia di bronzo che raffigura il palazzo del Municipio.
Agosto-novembre Su commissione scrive con Levantesi un trattamento sul caso di Maria Tarnowska per un film cinetelevisivo che non viene realizzato.
8 ottobre – La Fondazione Fellini di Rimini gli assegna una targa d’argento “con gratitudine”.
9 ottobre – Va in scena con “La Contrada Teatro Stabile di Trieste” L’americano di San Giacomo con Mario Valgoi, che inaugura una “Trilogia triestina” comprendente anche Un nido di memorie (6 ottobre 2000) e I ragazzi di Trieste (1 ottobre 2004), tutti diretti da Francesco Macedonio con Orazio Bobbio e Ariella Reggio. Bobbio è anche protagonista de L’ultimo carnevàl (ottobre 2002) nel quale impersona Italo Svevo.
28 ottobre – Per il Cimes, Dipartimento Musica e Spettacolo di Bologna, tiene una lezione sulla critica cinematografica a Palazzo Marescotti nel quadro del ciclo I mestieri del cinema.
28 novembre – Dal Comune di Assisi riceve una targa in cui figura «da sempre emerito sostenitore e prezioso punto di riferimento della Rassegna del Cinema Italiano Primo piano sull’Autore ».
17 dicembre – A Trieste riceve la “Targa d’argento dei Cronisti Triestini”, contestualmente al premio offerto a Tommaso Padoa-Schioppa.
1999
Partecipa, in alternanza con Levantesi, a una lunga serie di puntate della trasmissione di divulgazione cinematografica “Il Club” condotta da Sergio Toffetti.
Riceve a Saint Vincent la “Grolla d’oro” al merito cinematografico.
4 settembre – Alla 61a Mostra di Venezia, discorso in onore di Dino De Laurentiis che riceve il Premio Pietro Bianchi del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani.
2 ottobre – Riceve il premio Masi Civiltà Veneta nella Pieve di San Giorgio di Valpolicella.
2000
4 dicembre – Alla Scuola Nazionale di Cinema pronuncia la laudatio di Dino De Laurentiis al quale viene consegnato il diploma ad honorem di direttore di produzione.
2001
Giugno – Pubblica presso Feltrinelli Dino. De Laurentiis, la vita e i film, in
Autobiografia cronologica
collaborazione con Levantesi (“Premio Efebo d’oro” di Agrigento, “Premio ScriverediCinema” ad Assisi), che esce tradotto in USA (Miramax Books, Hyperion, N.Y.).
7 giugno – Riceve dalle mani di Lucio Delcaro, magnifico rettore dell’Università degli Studi di Trieste, la Laurea in lettere ad honorem e tiene una lectio intitolata Sulla triestinità
4 luglio – Partecipa a Napoli al simposio in onore del centenario di Vittorio De Sica che si tiene a Castel dell’Ovo.
2002
26 giugno – Il Festival Internazionale del Film di Locarno gli assegna una targa «per cinquant’anni di amicizia».
Novembre – Pubblica presso Feltrinelli Federico. Fellini, la vita e i film, poi tradotto in Svizzera tedesca (Diogenes), USA (Faber & Faber), Ungheria (Europa), Spagna (TusQuest), Gran Bretagna (I.B. Tauris), Francia (Gallimard), Giappone, Repubblica Czeca e Repubblica Popolare Cinese.
15 novembre – Pronuncia il discorso ufficiale per le celebrazione in Campidoglio degli 80 anni di Francesco Rosi.
2003
Gennaio – Nel dedicargli un ciclo di incontri e proiezioni, la Provincia di Pavia pubblica Tullio Kezich: professione spettatore, a cura di Fabio Francione (edito da Falsopiano).
15 giugno – A Sissa (Parma) riceve il Premio Giornalistico Nazionale “Pietro Bianchi”, riconoscimento “alla storia del giornalismo critico”.
1 novembre – A Stresa riceve il premio “Grinzane-Cavour”.
30 novembre – A Porretta Cinema riceve una targa del Comune e della Banca di Credito Cooperativa dell’alto Reno: «Al suo straordinario impegno per la conoscenza e la diffusione del cinema d’autore».
2004
5 gennaio – Al Teatro Comunale di Belluno va in scena Mémoires. Frammenti
Autobiografia cronologica
di vita e teatro tratti da I Mémoires, le opere e le lettere di Carlo Goldoni, in collaborazione e con la regia di Scaparro, protagonista Mario Scaccia.
22 aprile – Al teatro “Gaetano Fraschini” di Pavia, nel corso di un omaggio personale, riceve il Regisole, simbolo della città.
Novembre – Riceve agli Incontri di Assisi un altro “Premio ScriverediCinema” per il libro Ermanno Olmi. Il mestiere delle Immagini. Diario in pubblico di un’amicizia (edito da Falsopiano).
2005
10 marzo – Intrattiene in un dialogo pubblico Aroldo Tieri all’inaugurazione della mostra Una vita per lo spettacolo, Casa dei Teatri, Roma.
23 marzo – Pronuncia in Campidoglio l’elogio di Giorgio Albertazzi.
10 luglio – Il Festival triestino del Teatro Romano, diretto da Furio Bordon, gli dedica una Serata d’onore condotta da Gianni Fenzi. Il giorno dopo, al cinema Excelsior, Maurizio Cabona presenta il suo lavoro di produttore proiettando I basilischi e Il terrorista
2006
Giugno – Presso Falsopiano pubblica Cari centenari... Rossellini, Visconti, Soldati
10 luglio – Riceve a Zagarolo il premio Goffredo Petrassi per il giornalismo.
Ottobre – Presso Sellerio pubblica il romanzo Una notte terribile e confusa, che passa pressoché inosservato.
Ottobre – Autobiografia di Franco Zeffirelli esce da Mondadori con il seguente strillo in controcopertina: «Franco Zeffirelli è tanto indipendente da rischiare di diventare indisponente. Può apparire ingiusto e contraddittorio, però è sempre appassionato e dotato di un enorme talento. Non resta che accettarlo così com’è». Tullio Kezich «la Repubblica» [Recte «Corriere della Sera», n. d. r.]. Nella dedica autografa del volume il Maestro scrive: «Grazie, caro Tullio, per avermi consentito di chiudere questo libro con il più fulminante ritratto che alcuno abbia saputo fare di me. Anche io, alla fine di tutti i giochi, debbo concludere per accettarmi così come sono… Franco».
Autobiografia cronologica
23 ottobre – La sua commedia Il sosia, su Michail Ghelovani impersonatore di Stalin sullo schermo, viene presentata in pubblica lettura al Teatro della Contrada di Trieste, protagonista Antonio Salines, regia di Macedonio.
25 novembre – “Premio alla carriera Domenico Meccoli ScriverediCinema”, assegnato dal Comune di Assisi e dal Centro Studi Cinematografici «per il rigoroso e incessante impegno, per la passione, la grande sensibilità e acume che da sempre contraddistinguono il suo lavoro di saggista, storico e critico cinematografico».
18 dicembre – In una pagina di «Variety» intitolata Critique Peak viene elencato fra i dieci critici mondialmente più importanti di una generazione valutata «la più grande» finora: «non è solo il leader della critica italiana […] ma tuttora un’autorevole voce della cultura cinematografica europea…». «Suprema evidenza del suo lavoro» è considerata la biografia di Fellini.
2007
25 febbraio – In occasione del tricentenario della nascita di Goldoni, RAI Due trasmette (all’una e venti di notte!) lo spettacolo Mémoires
Aprile – È nominato presidente del Comitato Scientifico della seconda Festa del Cinema di Roma.
Aprile – Esce nell’Universale Economica di Feltrinelli Federico. Fellini, la vita e i film
21 settembre – Dalle mani dell’amico Ottavio Missoni riceve a Pesaro, in occasione del 64o raduno nazionale dell’Associazione Dalmati italiani nel mondo – Libero comune di Zara in esilio il “Premio Niccolò Tommaseo” con la seguente motivazione, firmata Franco Luxardo: «Di famiglia spalatina, il suo impegno artistico e culturale ben rappresenta la dignità etica della vita e dell’inquieta anima dalmata».
10 ottobre – Al teatro “Valle” segue i provini di un centinaio di giovani diplomati dell’Accademia d’arte drammatica e del Centro Spertimentale per la messinscena del suo adattamento da Il romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani, debutto previsto per il 7 aprile 2008 al “Palladium” di Roma con regia di Maccarinelli.
Autobiografia cronologica
17 ottobre – Viene inaugurata all’Auditorium, in occasione della Festa del cinema, la mostra Fellini Oniricon – Il libro dei miei sogni, curata con Vittorio Boarini, mentre escono, sempre a loro cura, i relativi volumi (edizioni in facsimile e in dimensione ridotta) della RCS, titolo Federico Fellini Il libro dei sogni.
18-26 ottobre – Ogni sera, in coda alla trasmissione ciakpoint dedicata da RAI Sat alla “Festa del cinema”, presenta la striscia Quattro passi fra i sogni di Fellini, una sorta di visita guidata alla mostra.
19 ottobre – Partecipa come voce recitante allo spettacolo Dunia sigui kan – O della creazione del mondo e l’arroganza degli uomini , in collegamento satellitare fra la “Festa del cinema” di Roma e il Burkina Faso, regia di Carlo Lizzani.
24 ottobre – Esce a Parigi, presso Flammarion, Le livre des mes rêves par Federico Fellini, versione francese dell’edizione RCS.
9-10 novembre – Presiede presso la Fondazione Fellini di Rimini il convegno dedicato a Il libro dei sogni, che si conclude con l’assegnazione del “Premio Fellini” a Ermanno Olmi.
15 novembre – Esce a Parigi presso Gallimard Federico Fellini. Sa vie et ses films
28 novembre – Il 25o TFF (Torino Film Festival), diretto da Nanni Moretti, ripropone Il terrorista di De Bosio fra i 5 esordi più importanti dei primi anni Sessanta.
16 dicembre – In qualità di critico cinematografico riceve il “Premio del Presidente della Repubblica” al Festival della Cerasa di Palombara Sabina, diretto da Franco Montini.
Bibliografia1
1953
Il western maggiorenne. Saggi e documenti sul film storico americano, Floriano Zigiotti, Trieste, ottobre.
1954
Ascolta, Mr. Bilbo! Canzoni di protesta del popolo americano (in collaborazione con Roberto Leydi), Avanti!, Milano-Roma, luglio.
1955
Aldo Paladini, Amedeo Nazzari, Collana Tascabile del cinema a cura di Tullio Kezich e Giuseppe Calzolari, n. 1, Sedit, Milano, settembre.
Livio Zanetti e Giuseppe Calzolari, Marylin Monroe, Collana Tascabile del cinema a cura di Tullio Kezich e Giuseppe Calzolari, n. 2, Sedit, Milano, settembre.
Tullio Kezich, Marlon Brando, Collana Tascabile del cinema a cura di Tullio Kezich e Giuseppe Calzolari, n. 3, Sedit, Milano, settembre.
Tino Ranieri, Alberto Sordi, Collana Tascabile del cinema a cura di Tullio Kezich e Giuseppe Calzolari, n. 4, Sedit, Milano, novembre.
Renzo Renzi, Gina Lollobrigida, Collana Tascabile del cinema a cura di Tullio Kezich e Giuseppe Calzolari, n. 5, Sedit, Milano, novembre.
Silvano Villani, Laurence Olivier, Collana Tascabile del cinema a cura di Tullio Kezich e Giuseppe Calzolari, n. 6, Sedit, Milano, novembre.
1956
Giulio Cesare Castello, William Holden, Collana Tascabile del cinema a cura di Tullio Kezich e Giuseppe Calzolari, n. 7, Sedit, Milano, agosto.
Franco Berutti, Questa è Hollywood, Collana Tascabile del cinema a cura di Tullio Kezich e Giuseppe Calzolari, nn. 8-9, Sedit, Milano, agosto.
Glauco Viazzi, Jean Gabin, Collana Tascabile del cinema a cura di Tullio Kezich e Giuseppe Calzolari, nn. 9-10, Sedit, Milano, agosto.
1 Questa bibliografia aggiorna e integra quelle finora pubblicate in varie occasioni. Include libri, curatele, prefazioni, partecipazioni a opere collettive, collaborazioni di particolare rilievo a riviste, estratti e tesi di laurea, note in programmi teatrali e presentazioni in cataloghi d’arte (Tullio Kezich).
Bibliografia
1958
John Ford, Piccola Biblioteca del Cinema, Guanda, Parma-Bologna (ripubblicato in Il mito del Far West).
John Ford, in Enciclopedia dello Spettacolo, vol. V, Le Maschere, Roma.
David Wark Griffith, in Enciclopedia dello Spettacolo, vol. V, Le Maschere, Roma. Il western maggiorenne, Circolo Monzese del cinema, Lissone, novembre.
1959
Il campeggio di Duttogliano, Lo Zibaldone, Trieste, dicembre (nuove edizioni, Studio Tesi, Pordenone, gennaio 1981; Piccola Biblioteca Universale, n. 42, Studio Tesi, Pordenone, giugno, 1995).
1960
“Presentazione”, in Giro a vuoto, programma del recital di Laura Betti, Teatro Gerolamo, Milano, gennaio (nuova edizione, Libri Scheiwiller, Milano).
I tre cavalieri di Alamo (con lo pseudonimo di Jack Shanon), AMZ, Milano.
La dolce vita di Federico Fellini, Collana Dal soggetto al film n. 13, Cappelli, Rocca San Casciano, febbraio (nuove edizioni, Il dolce cinema; Su La dolce vita con Federico Fellini ).
Dieci domande a Giorgio De Lullo sulla regia di D’amore si muore, in Giuseppe Patroni Griffi, D’amore si muore, Cappelli, Rocca San Casciano, giugno (ripubblicato in De Lullo o il teatro empirico).
Domande a Giorgio De Lullo sulla regia di Anima nera, in Giuseppe Patroni Griffi, Anima nera, Cappelli, Rocca San Casciano, settembre (ripubblicato in De Lullo o il teatro empirico).
1961
Ritratto d’attore, in Marcello Moretti, Quaderni del Piccolo Teatro, n. 4, Milano, gennaio.
L’occhio della telecamera, in Aldo Visalberghi, Gino Fantin (a cura di), Televisione e cultura, «Rivista Pirelli», supplemento, anno XIV, nn. 1-3 (febbraio-giugno).
Il divo, in Domenico Porzio (a cura di), Le più belle novelle di tutti i paesi, Martello, Milano, novembre.
Salvatore Giuliano, FM, Roma, novembre (ripubblicato in Incontri con il cinema di Acicatena; nuova edizione aggiornata Salvatore Giuliano. Il film di Francesco Rosi)
1962
Una burla riuscita, «Sipario», n. 192, Milano, aprile (ripubblicato con varianti in Mezzo secolo da Svevo).
L’uomo di sfiducia, Bompiani, Milano, giugno (ripubblicato in Il dolce cinema)
Il teatro politico di Squarzina, in “Programma del XXI Festival Internazionale del Teatro di Prosa”, La Biennale, Venezia, ottobre.
Bibliografia
John Huston, Centrofilm, n. 1, Istituto del cinema, Torino, novembre.
1963
Sei film (come anonimo), in “Catalogo della produzione della società cinematografica ‘22 dicembre’”, Milano.
“Intervento”, in Giorgio Tinazzi (a cura di), Il “Nuovo cinema italiano”, Centro Cinematografico degli Studenti dell’Università, Padova, febbraio.
1964
“Introduzione”, in Lino Carpinteri, Mariano Faraguna, Serbidiola, La Cittadella, Trieste (nuova edizione, Leonardo Paperback, Milano, 1990).
Un cowboy che si chiamava Tom Mix, in Avventure dei nostri tempi, Della Volpe, Milano, marzo.
Le Sabatine, «Paragone», n. 172, Rizzoli, Milano, aprile.
Shakespeare cineasta, «Sipario», numero speciale, anno XIX, n. 218, Milano, giugno.
Un sasso nella coscienza di tutti, in “Programma del XXIII Festival Internazionale del Teatro di Prosa”, La Biennale, Venezia, ottobre.
La coscienza di Zeno, «Sipario», n. 223, Milano, novembre (nuova edizione, Einaudi, Torino, 1965).
1965
L’intervista lunga, in Giulietta degli spiriti di Federico Fellini, Collana Dal soggetto al film, n. 33, Cappelli, Rocca San Casciano, maggio.
Il gran teatro del secolo. Appunti sul cinema americano, «Letteratura», anno XXIX, De Luca, Roma, marzo-giugno.
Rosi, in Venti anni di cinema italiano nei saggi di ventotto autori, SNGC, Roma, giugno. Ipotesi per un cinema della crudeltà, «Sipario», n. 230, Bompiani, Milano, giugno.
I cavalieri del west, Della Volpe, Milano.
Cinema e gioco, in Almanacco Bompiani, Bompiani, Milano.
Juliet of the Spirits (traduzione inglese), Orion Press, New York (nuova edizione, Bantam Books, New York, 1966).
1966
Il cinema interroga il passato, cronaca e spettacolo nel film western, in Lorenzo Camuso, Dino Mezzanotte (a cura di), La storia del cinema, vol. I, Vallardi, Milano, maggio.
La sceneggiatura, in Lorenzo Camuso, Dino Mezzanotte (a cura di), La storia del cinema, vol. III, Vallardi, Milano, maggio.
Eine Krankheit genannt Leben, Ricordi, Francoforte.
Preso per la gola, «Annabella».
Bibliografia
1967
Il western all’italiana, in Ornella Levi (a cura di), Catalogo Bolaffi del cinema italiano. Tutti i film italiani del dopoguerra, Giulio Bolaffi, Torino.
“Presentazione”, in Il Gattopardo, Teatro Massimo di Palermo, Palermo, dicembre.
1968
Il ragazzo padre, in «Il Cantiere», Italo Svevo, Trieste, marzo
Lo stanzone, «Sipario», n. 266, Milano, giugno.
Il balilla Rancovich (estratto de Il campeggio di Duttogliano), in Fulvio Tomizza (a cura di), Letture del Friuli-Venezia Giulia, R. A.D. A. R., Padova, settembre.
Il campeggio di Duttogliano, Le vite parallele (estratti de L’uomo di sfiducia), in Oliviero Honoré Bianchi et alii (a cura di), Scrittori triestini del Novecento, Lint, Trieste, ottobre.
Bouvard e Pécuchet (in collaborazione con Luigi Squarzina), «Sipario», n. 271, Milano, novembre.
Premessa in tre lettere (in collaborazione con Luigi Squarzina), «Sipario», n. 271, Milano, novembre.
Ombre rosse, R. A.D. A. R., Padova, dicembre.
1969
I recuperanti (in collaborazione con Mario Rigoni Stern ed Ermanno Olmi), Appunti del servizio stampa, n. 29, RAI, Roma, dicembre (nuova edizione, Tipografia Moderna, Asiago, luglio, 1985).
1970
Svevo e Zeno: vite parallele. Cronologia comparata di Ettore Schmitz (Italo Svevo) e Zeno Cosini, con notizie di cronaca triestina ed europea, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano, dicembre.
1971
W Bresci. Storia italiana in due tempi, Bulzoni, Roma, marzo. “Prefazione”, in Lino Carpinteri, Mariano Faraguna, Noi delle vecchie province, La Cittadella, Trieste.
1972
Marisandra Calacione, La personalità e l’opera di Tullio Kezich, Tesi di laurea, Università di Trieste, Facoltà di Magistero.
1974
Un film europeo, in La rosa rossa di Franco Giraldi, Appunti del Servizio Stampa, n. 59, RAI, Roma (ripubblicato in “Programma del film La rosa rossa di Franco Giraldi”, Auditorium delle Clarisse, Rapallo, aprile).
Bibliografia
“Intervento”, in Maricla Boggio (a cura di), Sporcarsi le mani. Cinque serate con i critici di teatro, Bulzoni, Roma, ottobre.
Il mito del far west, Collana Studi Cinematografici, n. 4, Bulzoni, Roma (nuova edizione accresciuta, Il Formichiere, Milano, 1980).
1975
Sceneggiati TV. Il lungo viaggio (prefazione come anonimo), Appunti del Servizio Stampa, n. 66, RAI, Roma, ottobre.
Lui e il suo doppio, «Bianco e Nero», nn. 9-12, Roma, settembre-dicembre.
Il Fu Mattia Pascal, Collezione di Teatro, n. 190, Einaudi, Torino, dicembre.
1976
Prefazione (anonimo), in Sandokan TV, Appunti del Servizio Stampa, n. 68, RAI, Roma, gennaio.
La lunga marcia della tigre (anonimo), in Sandokan TV, Appunti del Servizio Stampa, n. 68, RAI, Roma, gennaio.
Un ortodosso dell’anticonformismo (prefazione), in Livio Grassi, Il teatro di Angelo Cecchelin, Lint, Trieste.
“Presentazione”, in Stuart N. Lake, Lo sceriffo di ferro (WyattEarp), Longanesi, Milano.
1977
Il MilleFilm. Dieci anni al cinema (1967-1977), 2 voll., Il Formichiere, Milano (nuova edizione, Oscar Mondadori, Milano, 1983; edizione speciale, agosto 1986).
1978
Svevo e Zeno: vite parallele, Il Formichiere, Milano, 1978.
Perché un convegno, in L’attore nel cinema italiano d’oggi, Atti del Convegno di Arezzo, 21-22 ottobre 1977, «Cinecritica», Roma, aprile.
Il centofilm. Un anno al cinema (1977-1978), Il Formichiere, Milano.
“Partecipazione”, in Fernaldo Di Giammatteo, 100 film da salvare secondo la classifica di una giuria internazionale, Mondadori, Milano, settembre.
Mezzo secolo da Svevo. 1928-1978 (in collaborazione con Claudio Magris), Appunti dell’Ufficio Stampa, n. 89, TV 2, Roma, luglio.
“Introduzione”, in Gabe Essoe, Clark Gable, Gremese, Roma.
1966. La Coscienza di Zeno in TV, in Svevo in televisione e da Radio Trieste, Quaderni RAI, n. 3, Del Bianco, Udine, ottobre.
Svevo torna a casa, in Svevo (per noi) oggi, Teatro Stabile Friuli-Venezia Giulia, Quaderni nuova serie, n. 12, Udine (ripubblicato in Teatro da Trieste).
Il dolce cinema. Fellini & altri, Bompiani, Milano, novembre.
Bibliografia
“Presentazione”, in Incisori visionari di Praga e Bratislava, Galleria Don Chisciotte, Roma, dicembre.
(Direzione della Collana di Studi Cinematografici fondata da Luigi Chiarini) Sergio Raffaelli, Cinemafilm regia. Saggi per una storia linguistica del cinema italiano, n. 5, Bulzoni, Roma.
1979
Olmi. Il cinema e la vita, in Ermanno Olmi. Le radici dell’albero, Auditorium delle Clarisse, Rapallo, gennaio.
Finché c’è crisi c’è speranza, in Mino Monicelli, Cinema italiano ma cos’è questa crisi?, I Giornalibri, n. 1, Laterza, Roma-Bari, aprile.
Hanno fatto pace col nonno fascista, in Riccardo Redi (a cura di), Cinema italiano sotto il fascismo, Quaderni della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Marsilio, Venezia, maggio.
Il centofilm 2. Un anno al cinema (1978-1979), Il Formichiere, Milano.
(Direzione collana Bulzoni e cura del libro) Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta. Parlano 116 protagonisti del secondo cinema italiano (1930-1943), 3 voll, nn. 6-8, Bulzoni, Roma.
Il film Sessanta. Il cinema degli anni 1962-1966, Il Formichiere, Milano.
1980
Le cinémapolitique de Francesco Rosi, in Francesco Rosi, Deuxièmes Rencontres Cinématographiques Internationales, Saint-Etienne, gennaio.
“Prefazione”, in Baccio Ziliotto, Dal confine austriaco, Italo Svevo, Trieste.
Romolo Valli, in “Catalogo del 23° Festival dei Due Mondi”, Spoleto, giugno.
Sfortune e fortune del teatro di Svevo, in Marco Marchi (a cura di), Italo Svevo oggi, Atti del Convegno, Firenze 3-4 febbraio 1979, Vallecchi, Firenze, settembre.
Il centofilm 3. Un anno al cinema (1979-1980), Il Formichiere, Milano.
(Direzione collana Bulzoni) Pietro Pintus, Storia e film. Trent’anni di cinema italiano (1945-1975), n. 9, Bulzoni, Roma.
(Direzione collana Bulzoni) Gianna Giuliani, Le strisce interiori. Cinema italiano e psicoanalisi, n. 10, Bulzoni, Roma.
1981
Italo Svevo in Teatro contemporaneo, vol. I., Lucarini, Roma.
(Direzione collana Bulzoni) Jean A. Gili, Stato fascista e cinematografia. Repressione e promozione, n. 11, Bulzoni, Roma.
“Interventi”, in Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Feltrinelli, Milano, dicembre.
La civiltà contadina in mezzo secolo di cinema italiano, «Oggi e domani», n. 10, Pescara, ottobre (ripubblicato in n. 10, ottobre, 2003).
Bibliografia
1982
Cinema uguale avventura, in L’isola non trovata, Emme, Milano.
L’armata delle ombre, in Venezia ’32-’82, La Biennale, Venezia, agosto.
“Introduzione”, in Nedo Ivaldi (a cura di), I cavalieri del Leone d’oro. La prima volta a Venezia. Mezzo secolo di cinema nei ricordi della critica, Studio Tesi, Pordenone, agosto. La civiltà contadina in mezzo secolo di cinema italiano, in Pepa Sparti (a cura di ), Cinema e mondo contadino. Due esperienze a confronto, Marsilio, Venezia, settembre.
È la commedia di Shaw più rappresentata nel mondo, in “Programma dello spettacolo Candida di G.B. Shaw”, Compagnia Stabile delle Arti, Roma.
A Risi e Verze, in “Programma dello spettacolo Candida di G.B. Shaw”, Compagnia Stabile delle Arti, Roma.
E un giorno verranno i film portoghesi, «Panorama Mese», anno I, n. 4, dicembre.
(Direzione collana Bulzoni) Callisto Cosulich (a cura di), Giuseppe De Santis, verso il neorealismo. Un critico cinematografico degli anni Quaranta, Bulzoni, n. 12, Roma.
(Direzione collana Bulzoni) Maria Pia Tasselli, Il cinema dell’uomo. Festival dei Popoli 1959-1981, n. 13, Bulzoni, Roma.
1983
Essere o non essere di Albertazzi sullo schermo, in Luciano Lucignani (a cura di), Giorgio Albertazzi, Curcio, Roma, aprile.
Fiori di celluloide (introduzione), in Tino Ranieri, 20 film al microfono di Radio Trieste (1954-1962), Quaderni RAI, n.5, RAI, Trieste (ripubblicata in Tino Ranieri, Nostro cinema quotidiano).
Delitto e castigo dal romanzo di Feodor Dostoevskij (in collaborazione con Mario Missiroli), Collana TV/Cinema, n. 29, Cinema, ERI, Torino.
“Contributo”, in Michelangelo Antonioni, Le montagne incantate, La Biennale, Venezia, agosto (nuova edizione, Electa, Milano, ottobre).
Indagine su un cineasta al di sopra di ogni sospetto, in Ugo Pirro (a cura di), Elio Petri, La Biennale, Venezia, settembre.
Cronaca di un restauro, in “Programma dello spettacolo Un marito di Italo Svevo”, Teatro delle Arti, Roma.
Il nuovissimo millefilm. Cinque anni al cinema (1977-1982), Oscar Mondadori, Mondadori, Milano (nuova edizione 1983; edizione speciale 1987).
(Direzione collana Bulzoni) Michel Ciment, Il libro di Losey. Un dialogo autobiografico, n. 14, Bulzoni, Roma.
Il reale, il fantastico e la macchina, in Sergio Velitti (a cura di), Capire domani. STET 1933-1983, Seat, Moncalieri, ottobre.
(Direzione collana Bulzoni) Cinzia Romani, Stato nazista e cinematografia, n. 15, Bulzoni, Roma, novembre.
Bibliografia
Montgomery Clift, in Guido Aristarco (a cura di), Il mito dell’attore. Come l’industria della star produce il sex symbol, Dedalo, Bari, ottobre.
Charlton Heston, in Guido Aristarco (a cura di), Il mito dell’attore. Come l’industria della star produce il sex symbol, Dedalo, Bari, ottobre.
1984
John Ford. Tamburi di guerra, in “Programma di Spoletocinema ’84”, Spoleto, giugno.
E un dia virao os filmes portugueses, «Estudos Italianos em Portugal» nn. 45-47 (1982-1984), Istituo italiano de cultura em Portugal, Lisboa.
...E un giorno i Tartari arrivarono davvero, in Cesare Biarese (a cura di), Valerio Zurlini, Circuito Cinema, n. 25, Ufficio attività cinematografica del Comune di Venezia, Venezia, settembre.
Dov’è finito il copione?, in “Programma dello spettacolo Don Chisciotte. Frammenti di un discorso teatrale”, Teatro di Roma, Roma (ripubblicato in Don Chisciotte. Frammenti di un discorso teatrale).
Don Chisciotte. Frammenti di un discorso teatrale (in collaborazione con Rafael Azcona e Maurizio Scaparro), Collana del Teatro di Roma, Officina Edizioni, Roma, ottobre. Michele e il commissario. Il cinema di Moretti, «il Belpaese», n. 1, Camunia, Milano, ottobre.
“Interventi”, in Franca Faldini, Goffredo Fofi, Il cinema italiano d’oggi 1970-1984 raccontato dai suoi protagonisti, Mondadori, Milano, ottobre.
Il western, fenomenologia di un sogno americano, in Annamaria Percavassi, Stella Rassman (a cura di), A proposito di generi. Corso di storia del cinema per insegnanti, La Cappella Underground, Trieste, ottobre.
Il fascino indiscreto della borghesia, in “Programma dello spettacolo Divorziamo!! di Victorien Sardou”, Teatro Manzoni-Lucio Ardenzi, Roma.
1985
Valli al cinema, in Caterina d’Amico de Carvalho, Pier Luigi Pizzi, Umberto Tirelli, Dino Trappetti (a cura di), Romolo Valli, Mondadori, Vicenza, gennaio.
Nostalghia, Galleria Don Chisciotte, Roma, febbraio.
Il primato di Amleto (prefazione), in Lindsay Anderson, John Ford, I libri bianchi, Ubulibri, Milano, marzo.
Cento piccoli film, in Luciano Lucignani (a cura di), Aroldo Tieri, Curcio, Roma, maggio (ripubblicato in Antonio Panzanella (a cura di) Aroldo Tieri. 50 anni di teatro, Il Serratore, Corigliano Calabro, marzo, 1989).
Viva Olmi, in Gianfranco Miro Gori (a cura di), Europa cinema 1985, Rimini.
Più attenti al futuro, in Federico Fellini Leone d’oro a Venezia 1985, «Cinema d’oggi», inserto, n. 13, Roma, agosto.
Giulietta Masina (traduzione spagnola), Fernando Torres, Valencia, ottobre.
Bibliografia
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Il Vittoriale degli italiani, «il Belpaese», n. 3, Camunia, Milano, ottobre.
Ingrid Bergman in Le dive, Laterza, Roma-Bari, ottobre.
A Priestley quel ch’è di Priestley, in “Programma dello spettacolo Un ispettore in casa Birling”, Compagnia del Teatro delle Arti, Roma.
Promenade parmi le souvenirs de Tullio Kezich et de Callisto Cosulich, in Lorenzo Codelli, Annamaria
Percavassi (a cura di), Trouver Trieste. Un regard retrouvé. Auteurs et acteurs du cinéma de Trieste, Centre Pompidou-Electa, Parigi-Venezia, novembre.
Una burla riuscita, ATER, Modena, novembre.
Il mandarino ubriaco e la scacchiera di alabastro, in Leopoldo Trieste un intruso a cinecittà, ERI, Torino.
L’olocausto come metafora, in Leopoldo Trieste un intruso a cinecittà, ERI, Torino (ripubblicato in “Programma dello spettacolo Cronaca di Leopoldo Trieste”, Teatro Stabile di Calabria, Catanzaro, novembre, 1988).
Sulla nave dei folli con Federico Fellini, in Il tempo del disagio, Rosenberg & Sellier, Torino, dicembre.
1986
Quell’applauso è in ritardo di mezzo secolo, in Italo Svevo, La rigenerazione, Teatro Pubblico Pugliese, Bari, gennaio.
Il film di Rosi. Il regista che non volle fare il cinema, in Cavalleria Rusticana. Salvatore Giuliano, Teatro dell’Opera di Roma, gennaio.
Per Pietro Bianchi, «Paragone Letteratura», n. 432, Sansoni, Firenze, febbraio.
Il fu Mattia Pascal, Collana del Teatro di Roma, Officina, Roma, maggio.
Mattia Pascal: uno, due e tre in Omaggio a Pirandello, Leonardo Sciascia (a cura di), Omaggio a Pirandello, Bompiani, Milano, ottobre.
Il film ’80. Cinque anni al cinema (1982-1986), Oscar Mondadori, Mondadori, Milano, novembre.
“Nota”, in Ermanno Olmi, Ragazzo della Bovisa, Camunia, Milano.
Il pipistrello uno e due, in «Ariel», numero speciale, anno I, n. 3, Bulzoni, Roma, settembredicembre [ripubblicato in Nino Genovese, Sebastiano Gesù (a cura di), La musa inquietante di Pirandello. Il cinema, Bonanno Editore, Catania, luglio, 1990].
Marcello Mastroianni, in I divi, Laterza, Roma-Bari.
Fiori di celluloide (prefazione), in Annamaria Percavassi (a cura di), Tino Ranieri Nostro cinema quotidiano Da spettatore di provincia a critico militante (1952-1976), n. 16, Bulzoni, Roma, dicembre.
1987
L’amante compiacente, in “Programma dello spettacolo L’amante compiacente di Graham Greene”, Compagnia del Teatro delle Arti, Roma, marzo. Fellini, «il Belpaese», Camunia, Milano, aprile.
Bibliografia
1988
Enrica Caprio, Zeno a teatro. Dalla narrativa alla drammaturgia. Problemi di metodo dell’adattamento teatrale, Tesi di laurea, Università di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia.
L’amico “maudit”, in “Catalogo della Mostra Vito Timmelpittore ‘maudit’. 34 opere”, Galleria Tommaso Marcato, Trieste, aprile.
Quando Flaiano si chiamava Patrizio, in Ennio Flaiano, Un film alla settimana, Studi cinematografici, n. 17, Bulzoni, Roma (ripubblicato in 34. Flaiano Film Festival, Pescara, 2007).
Da Olmi a Roth. La leggenda del Santo bevitore (a cura, in collaborazione con Piero Maccarinelli), Nuova Immagine, Siena, agosto.
Fellini (nuova edizione riveduta), Supersaggi BUR, Rizzoli, Milano, settembre.
Das Theater Svevo’s, in Claudio Magris, Gabriella Contini, Silvana De Lugnani, Rowolth Verlag (a cura di), Italo Svevo. Theaterstuecke, Essays, Rowohlt, Hamburg, ottobre.
“Prefazione”, in André Brunelin, Gabin, Arsenale, Venezia.
La “22 dicembre” ovvero un capitolo di storia minore della Titanus, in Vito Zagarrio (a cura di), Dietro lo schermo, Marsilio, Venezia.
1989
“Testimonianza”, in Franco Mariotti (a cura di), Cinecittà tra cronaca e storia 1937-1989, vol. I, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma.
“Prefazione”, in Nerio Tebano, Poesia dal cinema, Carte d’Europa, n. 9, Ventaglio, Roma, aprile.
Olmi e il teatro, in Piccola città di Thornton Wilder, I Libretti del Teatro delle Arti, Nuova Immagine, Siena, ottobre.
Fellini. Eine Biographie (traduzione tedesca), Diogenes, Zurigo.
1990
Il gallo, Maria Pacini Fazzi, Lucca, gennaio.
Nota biografica (come anonimo), in Lalla Kezich, La preparazione, BUR, Rizzoli, Milano, febbraio.
Il Vittoriale degli italiani. Nuova versione per la scena, Nuova Immagine, Siena.
Il film ’90. Cinque anni al cinema (1986-1990), Oscar Mondadori, Mondadori, Milano, ottobre.
Teatro di e teatro da, in Franca Angelici (a cura di), Scrivere il teatro, Bulzoni, Roma.
Dalla pagina alla ribalta, in Franco Fido, Angela Guidotti, Francesca Fazzi (a cura di), Voci di repertorio, n. 1, Pacini Fazzi, Lucca.
1991
Introducing Pupi, in “Programma del Melbourne Film Festival”, 21 giugno. Partono i bastimenti (o magari non partono...) (nota in collaborazione con Mario Missiroli), in “Programma dello spettacolo L’impresario delle Smirne”, Teatro Romano, Verona, luglio.
Salvatore Giuliano (collaborazione con Sebastiano Gesù), Incontri con il cinema, Acicatena, luglio.
Bibliografia
Cani e porci, in Laura Betti, Michele Gulinucci (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Le regole di un’illusione, Associazione “Fondo Pier Paolo Pasolini”, Roma.
Casanovista di complemento, in Albertazzi Casanova, Roma, settembre.
Giulietta Masina, Cappelli, Bologna, settembre.
Siamo momentaneamente presenti, in “Programma dello spettacolo Siamo momentaneamente assenti di Luigi Squarzina”, Piccolo Teatro di Milano, Milano.
Ermanno Olmi e il cinema delle piccole cose (intervista), in Fernando Russo, Tesi di laurea, Università “La Sapienza” di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia.
1992
Virginia Cuffaro, Tullio Kezich tra narrativa, teatro e cinema, Tesi di laurea, Università di Trieste, Facoltà di Lettere e Filosofia.
La coscienza di Zeno. Interpretazioni (intervista), in Viviana Di Russo, Tesi di laurea, Università “La Sapienza” di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia.
Servitore di due padroni, in Lino Micciché (a cura di), De Sica- Autore, regista, attore, Marsilio, Venezia, giugno.
Flaiano. Il cinema come odio-amore, in Lucilla Sergiacomo (a cura di), La critica e Flaiano, EDIARS, Pescara, ottobre [ripubblicato in Vito Moretti (a cura di), Flaiano e «Oggi e domani», EDIARS, Pescara, aprile 1993].
Fellini. Una biografia (edizione brasiliana), L&PM, Porto Alegre, autunno.
Camerini calligrafo di complemento, in Andrea Martini (a cura di) La bella forma. Poggioli, i calligrafici e dintorni, Marsilio, Venezia, dicembre.
1993
Una commedia per tutte le stagioni (con la collaborazione di Alessandra Levantesi), in “Programma dello spettacolo A piedi nudi nel parco di Neil Simon”, Plexus, Roma, gennaio.
“Postfazione”, in Steno, Sotto le stelle del ’44. Un diario futile, Sellerio, Palermo, luglio.
Il cinema d’auteur, in Europa 1700-1992. Storia di un’identità. Il Ventesimo secolo, Electa, Milano. Il Tevere non bagna Hollywood, in Gli americani in Italia, Banco Ambrosiano Veneto, Libri Scheiwiller, Milano, ottobre.
“Intervento”, in Anna Imponente (a cura di), Michelangelo Antonioni le montagne incantate, Carte segrete, Roma, ottobre.
“Intervento”, in Il fu Mattia Pascal, Arti Grafiche Aquilane, L’Aquila, novembre. Dedicato a Fellini, in Europacinema ’93, Materiali di documentazione sul cinema europeo, n. 9, Europacinema, Roma, novembre.
La conciencia de Zeno (edizione messicana), El Milagro, Colonia Juárez, 1993.
1994
Tullio Kezich adattatore di testi teatrali. La coscienza di Zeno e Il gallo (intervista), in Daniela
Bibliografia
Sant’Pietro, Tesi di laurea, Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia. Indian Movies. 40 titoli per ridisegnare l’immagine degli indiani (a cura di, con la collaborazione di Elisabetta Bruscolini), Comune di Roma, Roma.
“Testimonianza”, in Peter Cowie (a cura di), World Cinema. Diary of a Day. A Celebration of the Centenary of Cinema, Mitchell Beazley, London.
Nello specchio del tempo (prefazione), in Thomas Hardy, Una romantica avventura, Sellerio, Palermo.
Zeno e la cura del fumo, in “Programma dello spettacolo del Teatro Veneto”, Venezia.
Questi fantasmi (prefazione), in Federico Fellini, Giulietta, Il Melangolo, Genova, marzo
Dietro la facciata, in Aurelio Bulzatti, Netta Vespignani, Roma, aprile.
Io e Giraldi, «Film Video Monitor», n. 9, Cassa di Risparmio Gorizia, Gorizia, aprile.
Svevo torna a casa, La coscienza di Zeno 1978 e Ricordo di Giorgio Polacco, in Teatro da Trieste, Studio Tesi, Pordenone.
Rosi’s Secret, in Vittorio Giacci (a cura di), Francesco Rosi, Cinecittà International, Roma, ottobre. Ostacoli, risultati e ambizioni d’una carriera registica, in Ernesto G. Laura (a cura di), Parola d’autore. Gianni Puccini tra critica, letteratura e cinema, ANCCI, Roma.
“Prefazione”, in Giorgio Stern, Buffalo Bill a Trieste, La Mongolfiera, Trieste, ottobre.
La coscienza di Luigi, in Claudio Meldolesi, Arnaldo Picchi, Paolo Puppa (a cura di), Passione e dialettica della scena. Studi in onore di Luigi Squarzina, Bulzoni, Roma, novembre.
“Prefazione”, in Pietro Spirito, Trieste a stelle e strisce. Vita quotidiana d tempi del governo militare alleato, MGM, Trieste, dicembre.
Il cinema normale di un anno anormale (in collaborazione con Alessandra Levantesi), in Roma sotto le stelle del ’44. Storia arte e cultura dalla guerra alla liberazione, Zefiro, Follonica.
1995
Il viaggiatore incantato (prefazione ), in Federico Fellini, Il viaggio di G. Mastorna, Bompiani, Milano, gennaio.
Cento film 1994 (in collaborazione con Alessandra Levantesi), Biblioteca Universale Laterza, n. 430, Laterza, Roma-Bari, marzo.
“Postfazione”, in Federico Fellini, Die Reise des G. Mastorna, Diogenes, Zurigo.
“Discorso”, in L’archiginnasio d’oro a Pupi Avati, Futura, febbraio.
Il segreto di Rosi in Vittorio Giacci (a cura di), Francesco Rosi, Cinecittà International S.p.A., Roma, aprile.
Mimmolo e il maestro (introduzione), in Antonio Audino, La compagnia dei giovani, Editalia, Firenze, luglio.
“Intervista”, in Andrea Arditi, Enrico Frances, Nello Santi produttore per caso?, Tesi di diploma dell’Accademia Albertina di Belle Arti, Torino.
Il cinema sovietico e il cinema italiano. Come in uno specchio. Tre schede per i rapporti cinematografici fra Italia e Russia, in Vittorio Strada (a cura di), I russi e l’Italia, Banco Ambrosiano Veneto, Libri Scheiwiller, Milano, ottobre.
Bibliografia
Intervista a Marcello Mastroianni, in “Programma di Le ultime lune di Furio Bordon”, Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni, Venezia, ottobre.
“Lettere”, in Anna Longoni, Diana Ruesch (a cura di), Soltanto le parole. Lettere di e a Ennio Flaiano (1933-1972), Bompiani, Milano, ottobre.
“Lettera”, in Stelio Vinci, Al Caffè San Marco. Storia, arte e lettere di un caffè triestino, Lint, Trieste, novembre.
Ombre Rosse (intervista), in Ranieri Polese, Il film della mia vita, Rizzoli, Milano.
“Intervento” (estratto da Fellini), in Orio Caldiron, Pietro Germi. Le cinéma frontalier, Gremese International, Roma.
1996
Romolo Valli attore di teatro (lettera), in Annalisa Morini, Tesi di laurea, Università di Parma, Facoltà di Lettere e Filosofia.
Da Jimmy Porter a Mel Edison, in “Programma dello spettacolo Il prigioniero della seconda strada di Neil Simon”, Plexus, Roma, gennaio.
Su La dolce vita con Federico Fellini. Giorno per giorno la storia di un film che ha fatto epoca, Marsilio, Venezia, febbraio.
Olmi prima di Olmi, in Lino Micciché (cura di), Studi su dodici sguardi d’autore in cortometraggio, Lindau, Torino.
Guardando indietro con rabbia (presentazione), in Florestano Vancini, Elio Bartolini, Le stagioni del nostro amore, Collana Cinema, n. 27, Casa del Mantegna, Mantova, marzo.
A Portofino con G. (Giorgio Strehler), in Carmelo Alberti, Ginette Herry (cura di), Tra libro e scena
Carlo Goldoni, Il Cardo, Venezia, marzo
Cento film 1995 (in collaborazione con Alessandra Levantesi), Biblioteca Universale Laterza, n. 451, Laterza, Roma-Bari, marzo
Pier Paolo Pasolini: i film degli altri (a cura di), Biblioteca della Fenice, Guanda, Milano, maggio. De Lullo o il teatro empirico. Ricordando un maestro dello spettacolo italiano, Marsilio, Venezia. Pietrino senza lacrime, in Bruna Gambarelli (a cura di), L’occhio di vetro. Il cinema visto da Pietro Bianchi, AGE, Reggio Emilia, luglio.
“Prefazione”, in Carlo Gaberscek, Sentieri del west. Dove il cinema ha creato il West, La Cineteca del Friuli, Gemona, settembre.
Fellini del giorno dopo, Associazione Fellini-Guaraldi, Rimini, ottobre. Il modello fantasma, in Giorgio Culatelli (a cura d), I tedeschi e l’Italia, Banco Ambrosiano Veneto, Libri Scheiwiller, Milano, ottobre.
“Introduzione”, in Il teatro dell’anima. Burattini marionette pupi teatrini, Galleria Don Chisciotte, Roma, novembre.
Picnic all’italiana, in Primo piano sull’autore. Bernardo Bertolucci. La strategia dell’inconscio, ANCCI, Assisi, novembre.
Bibliografia
Quattro chiacchiere d’epoca con Mauro Bolognini, in Enzo Natta (a cura di), Mauro Bolognini. Il fascino della forma, ANCCI, Roma.
1997
Cinema e cultura cinematografica a Trieste. 1946-1954 (testimonianze), in Silvia Apostoli, Tesi di laurea, Università di Trieste, Facoltà di lettere e Filosofia.
Marcello Mastroianni. Immagini di un mito, «Panorama», inserto redazionale, n. 1, gennaio.
Dalla pagina allo schermo, in Lino Micciché (a cura di), Il bell’Antonio di Mauro Bolognini, Lindau, Torino, gennaio.
Cento film 1996 (in collaborazione con Alessandra Levantesi), Biblioteca Universale Laterza, n. 467, Laterza, Roma-Bari, marzo.
Il giovane Friedrich, in Giovanni Spagnoletti (a cura di), Marco Bellocchio, Il Principe di Homburg di Heinrich von Kleist, Baldini e Castoldi, Milano, aprile.
Steiner cercasi, L’orgia, I dubbi in terrazza (estratti da Su La dolce vita con Federico Fellini), in Manlio Cecovini, Elvio Guagnini, Bruno Maier, Stelio Mattioni, Licio Zellini (a cura di), Scrittori triestini del Novecento, vol. II, Lint, Trieste, marzo.
La quiete prima della tempesta (presentazione), in “Catalogo della mostra di Vladimir Pajevic”, Galleria Don Chisciotte, Roma, maggio-giugno (ripubblicato in Vladimir Pajevic, Il Tempietto, Brindisi, settembre 2002).
“Risvolto di copertina”, in Marcello Mastroianni, Mi ricordo, sì io mi ricordo, Baldini e Castoldi, Milano, maggio.
“Testimonianza”, in Callisto Cosulich (a cura di), Venezia. Cinquant’anni fa. La Mostra del Cinema del ’47, Il castoro, Milano, agosto.
Appunti di un reduce riluttante, in Italo Moscati (a cura di), 1967 tuoni prima del maggio. Cinema e documenti degli anni che prepararono la contestazione, Marsilio, Venezia.
“Contributo”, in Gianfranco Angelucci (a cura di), Gli ultimi sogni di Fellini, Pietroneno Capitani, Rimini, settembre.
“Testimonianza” in Sergio Zavoli, Enrico Smeraldi, I volti della mente. Viaggio nel pensiero ammalato, Marsilio, Venezia, novembre.
Alberto, Gastone, Virna e gli altri, in Lino Micciché (a cura di), Signore e signori di Pietro Germi, Lindau, Torino, dicembre.
1998
Strizzando l’occhio a Molière, in “Programma dello spettacolo Plaza Suite di Neil Simon”, Plexus, Roma.
“Intervista”, in Sergio Toffetti (a cura di), ’Ndemo in cine. Tullio Kezich fra pagina e set, Lindau, Torino, marzo.
La letteratura in 101 anni di cinema, in Antologia Vieusseux, nuova serie, anno III, nn. 8-9, Firenze.
Memorie di un recensore militante. Il cinema straniero, in Lino Micciché (a cura di), Schermi
Bibliografia
opachi. Il cinema italiano degli anno ’80, Marsilio, Venezia, giugno.
Il cinema impuro di un grande indifferente, in Italo Moscati (a cura di), Il cattivo Eduardo, Marsilio, Venezia.
Trittico d’epoca fra ricordi e fraintendimenti (1956, 1985, 1985), in Italo Moscati (a cura di), Il cattivo Eduardo, Marsilio, Venezia.
“Testimonianza”, in Callisto Cosulich (a cura di), ’ 68 e dintorni, «Bianco e Nero», nn. 2-3, Milano, aprile-settembre.
“Presentazione”, in I nostri cento anni ce li portiamo molto bene. Al cinema. Una rassegna di film firmata da Tullio Kezich, Teatro Eliseo, Roma, settembre.
L’americano di San Giacomo, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, ottobre.
Il diletto del dialetto, in L’americano di San Giacomo, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, ottobre.
Appunti per una futura storia da cineintrecci italo-britannici, in Agostino Lombardo (a cura di), Gli Inglesi e l’Italia, Banco Ambrosiano Veneto, Libri Scheiwiller, Milano, ottobre.
Chi c’è sotto il lenzuolo che copre il monumento, in Federico Fellini da Rimini a Roma. 1937-1947, Atti del Convegno di studi e testimonianze, Rimini, 31 ottobre 1997, Pietroneno Capitani, Rimini, ottobre.
Federico e Roberto, la strana coppia, in Federico Fellini da Rimini a Roma. 1937-1947, Atti del Convegno di studi e testimonianze, Rimini, 31 ottobre 1997, Pietroneno Capitani, Rimini, ottobre.
Valerio Jahier, un cinecritico italiano a Parigi, in France Cinéma 1998. Incontri di Firenze, Il castoro, Milano, novembre.
La mia battaglia di Algeri, in Gillo Pontecorvo: la dittatura della verità, ANCCI, Assisi, novembre.
Nove registi (quasi dieci) nella villa di Toscanini, in Lino Micciché (a cura di), Gli sbandati di Francesco Maselli. Un film generazionale, Lindau, Torino, novembre.
Macedonio chi?, in Paolo Quazzolo (a cura di), Il teatro della poesia. Francesco Macedonio, regie e spettacoli (1967-1998), La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, dicembre.
Marcello + Sophia = Cinema, in Sergio Tuffetti (a cura di), Un’altra Italia. Pour une histoire du cinéma italien, Cinémathèque Française-Musée du Cinéma-Mazzotta, Parigi-Milano, dicembre.
“Interventi”, in Il teatro del mondo. Incontro con Tullio Pinelli, Ritratti italiani, n. 1, Scuola Nazionale di Cinema, Roma.
1999
Tra Mazarino e Don Abbondio, «Nuova Antologia», fasc. 2209, Le Monnier, Firenze, gennaiomarzo.
La tesa volontà di vivere, in Tel Aviv for Ever, Mazzotta, Milano, febbraio.
Quando non sai cos’è, allora è cinema, in La leggenda del pianista sull’oceano, Gremese, Roma, febbraio.
Bibliografia
Mi voleva Pietrangeli, in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli. Infelicità senza dramma, Lindau, Torino, marzo.
Uomini e lupi (di Andria), in Marco Grossi, Virginio Palazzo (a cura di), Giuseppe De Santis maestro di cinema e di vita, Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis, n. 1, Grafiche PD, Fondi, aprile.
Il mio vicino di casa, in Paolo Teobaldi (a cura di), Il gusto dei contemporanei. Mario Rigoni Stern, Comune di Pesaro, Pesaro, aprile.
“Intervento”, in Giorgio Manacorda (a cura di), Poesia ’98, Castelvecchi, Roma, maggio.
Quella Palermo brutta sporca e cattiva, in Valentina Valentini, Emiliano Morreale (a cura di), El sentimiento cinico de la vida. Il cinema, i video, la televisione di Ciprì e Maresco da Cinico TV a Totò che visse due volte, Luxograph, Palermo, maggio.
Vittorio fra i tromboni. Note su Gassman regista, in Fabrizio Deriu (a cura di), Vittorio Gassman. L’ultimo mattatore, Marsilio, Venezia, giugno.
Miracolo a Trieste, in Gualtiero De Santi, Manuel De Sica (a cura di), Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, Testimonianze, interventi, sopralluoghi, Pantheon, Roma, giugno.
Quaranta anni (prefazione), in 40 anni di dolce vita (1959-1999). Omaggio a Federico Fellini, Fondazione Federico Fellini, Rimini, luglio.
Salvatore Giuliano. Il film di Francesco Rosi, Cinecittà Holding, Roma, luglio.
Caro Comencini. Vita da artigiano di un artista “incompreso” (prefazione), in Luigi Comencini, Infanzia, vocazione ed esperienze di un regista, Baldini e Castoldi, Milano, luglio [ripubblicato in Lorenza Micarelli, Francesca Nigro (a cura di), Luigi Comencini, Nicolò, Messina, luglio 2001].
“I Could Write a Book”, in Veronica De Laurentiis (a cura di), Messages of Love, Los Angeles, agosto.
Tutto il cinema in un’istantanea (prefazione), in Gianfranco Mingozzi (a cura di), Dolce dolce vita. Immagini da un set di Federico Fellini, Collana Arte Cinema, n. 3, Casalecchio di Reno, agosto.
Il mio Cecchelin in Roberto Damiani, El serpente de l’Olimpia, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, ottobre.
Un uomo in prestito, in Teresa Viziano, Gian Domenico Ricaldone (a cura di), Omaggio a Alberto Lionello, Teatro Stabile di Genova, Genova, ottobre.
Caro Tavernier, nessuno complottò contro Cottafavi, in Aldo Tassone, Beatrice Manetti, Gladys Janine Lopacka (a cura di), France Cinéma 1999, Il castoro, Firenze, ottobre.
Chi siamo e cosa vogliamo; Fellini e il varietà. Intervista con Riccardo Aragno; Il teatro del mondo. Incontro con Tullio Pinelli, in Massimiliano Filippini, Vittorio Ferorelli (a cura di), Federico Fellini autore di testi. Dal «Marc’Aurelio» a Luci del varietà, Atti del Convegno di Bologna, 19-30 ottobre 1998, Quaderni IBC, n. 3, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna, ottobre.
Il mandarino ubriaco, se... (provaci ancora Leopoldo), lettere di Tullio Kezich, in Carmelo Zinnato (a cura
Bibliografia
di), Leopoldo Trieste, vol. I, Abramo, Catanzaro, ottobre.
Il mondo magico (intervista a Fellini), Renzo Renzi, Giacomo Manzoli (a cura di), La dolce vita del cinema d’autore (1942-1975), Cappelli, Bologna, novembre.
Primavera a Cinecittà. Il cinema italiano alla svolta della “Dolce vita”, Bulzoni, Roma, novembre.
Scene da un matrimonio fra le due guerre, in Gualtiero De Santi, Manuel De Sica (a cura di ), I bambini ci guardano di Vittorio De Sica. Testimonianze, interventi e sceneggiatura, Pantheon, Roma, dicembre.
Chi è “L’amico di tutti” (in collaborazione con Alessandra Levantesi), in “Programma dello spettacolo L’amico di tutti di Bernard Slade”, Plexus, Roma, dicembre.
2000
È esistito il vero Magnozzi?, in Lino Micciché (a cura di), Una vita difficile di Dino Risi. Risate amare nel lungo dopoguerra, Marsilio,Venezia, gennaio.
L’altro “Scialo”, in Lino Micciché (a cura di), La prima notte di quiete di Valerio Zurlini. Un viaggio ai limiti del giorno, Lindau, Torino, maggio.
Il terzo uomo secondo Tullio Kezich, in Il terzo uomo (The ThirdMan), opuscolo, BIM Distribuzione, Roma, maggio.
Elogio di un Dio minore, in Roberto Festi (a cura di), Victor Mature. Dalla Val Rendena a Hollywood, Stampalith, Trento, giugno.
Diamogli del tu, chiamiamolo Marcello, in Francesco Tatò (a cura di), La materia di cui sono fatti i sogni. I film di Marcello Mastroianni, Cinecittà Holding, Roma, luglio.
Il fiore che non colsi, in Rincorrendo Angiolina... Figure femminili nella vita e letteratura sveviana, Museo Sveviano, Trieste, luglio.
Un critico per tutte le stagioni (prefazione), in Filippo Sacchi, Al cinema negli anni Trenta. Recensioni dal «Corriere della Sera». 1929-1941, Franco Angeli, Milano, luglio.
Cinema. Passione tradita, in Marco Delpino, Paolo Riceputi (a cura di), Mario Soldati. Eccentrico sognatore, Tigullio-Bacherontius, Santa Margherita Ligure, luglio.
Il suo alfabeto della vita, in Marco Delpino, Paolo Riceputi (a cura di), Mario Soldati, eccentrico sognatore, Tigullio-Bacherontius, Santa Margherita Ligure, luglio.
La Legende du Saint buveur. Conversation entre Tullio Kezich et Ermanno Olmi, in Paris vu par...
Emmer Olmi Ferreri Bertolucci, Associazione Roma Città di Cinema, Roma, agosto.
Folco Quilici, il mondo non basta (introduzione), in Ilaria Caputi, Il cinema di Folco Quilici, I Quaderni di Bianco e Nero, Marsilio, Venezia, agosto.
Un odore di mare giovane (nota), in Pier Antonio Quarantotti Gambini, L’onda dell’incrociatore, Sellerio, Palermo, settembre.
Che bella idea! La firmo io, in Alberto Ghè (a cura di), Mostra Internazionale dei Cartoonists, Comune di Rapallo, ottobre.
Un nido di memorie, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, ottobre.
Se Aldo De Benedetti non fosse nato in Italy..., in “Programma dello spettacolo Lo sbaglio di essere vivo di
Bibliografia
Aldo De Benedetti”, Plexus, Roma, ottobre.
Nel porto delle nebbie (prefazione), in Giorgio Strehler, Due volte sola, Nino Aragno, Torino, ottobre.
Il grande “Zeff” e il suo sosia, in Franco Zeffirelli. Il cinema delle grandi storie, ANCCI , Assisi, novembre.
Un italiano insegna all’Old Vic come si recita “Romeo e Giulietta”, in Franco Zeffirelli. Il cinema delle grandi storie, ANCCI, Assisi, novembre.
2001
Un uomo che non dimenticherò mai, in Orio Caldiron (a cura di), Luigi Chiarini 1900-1975 Il film è un’arte, il cinema un’industria, Scuola Nazionale di Cinema, Roma, gennaio.
Quando il cinema ci arrivò in casa, in “Catalogo del Trieste Film Festival”, Trieste, gennaio.
Giorgio Strehler, in Il nuovo vecchio Rossetti, Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, Trieste, aprile.
Dino. De Laurentiis, la vita e i film (in collaborazione con Alessandra Levantesi), Feltrinelli, Milano, giugno.
Il campeggio di Duttogliano e altri ricordi-racconti, Sellerio, Palermo, settembre.
La formula imperitura e vincente della civiltà, in Dalla Valpolicella al mondo. Vent’anni del premio Masi civiltà veneta, Fondazione Masi, Sant’Ambrogio Valpolicella.
Mattia Pascal e le sue prime mille repliche, in Il fu Mattia Pascal, Teatro Stabile di Catania, Catania, ottobre.
L’ispettore notturno della Viribus Unitis, in Lino Carpinteri, Mariano Faraguna, Due paia di calze di seta di Vienna, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, ottobre.
When “He” Became “I ”, in Federico Fellini’s 8½, The Criterion Collection, fascicolo di accompagnamento al DVD del film, New York.
2002
Zeno rassomiglia a Charlot, in Aldo Grasso, Massimo Scaglione (a cura di), Schermi d’autore.
Intellettuali e televisione (1954 -1974), Rai-Eri, Roma.
“Intervento”, in Serena Foglia, Il posto delle fragole. La scelta di morire con dignità, Armenia, Milano, gennaio.
Nasce il cabaret?, in Franco Quadri (a cura di), Il teatro di Trionfo, Ubulibri, Milano, febbraio. Buongiorno, prostitute!, in Lina Wertmüller, Storia d’amore e d’anarchia, Eliseo Teatro Stabile di Roma, Roma, febbraio.
Il mio amico Franco (Giraldi), in Giancarlo Beltrame, Giulia Dagradi, Paolo Romano (a cura di), Schermi d’amore, Cierre, Verona, aprile.
Ugo Tognazzi. L’Italia in agrodolce (testimonianza), in Maurizio Schiaretti (a cura di), Edicta, Parma, aprile.
Il segreto di Giancarlo, in Gianni Volpi, Anton Giulio Mancino, Giancarlo Giannini. Il fascino sottile dell’interprete, Besa, Nardò, aprile.
De Sica, l’attore, in Lino Micciché (a cura di), Pane, amore e fantasia. Un film di Luigi Comencini. Neorealismo in commedia, Lindau, Torino, maggio.
Bibliografia
C’era una volta in America, in Roberto Granata (a cura di), Leone, Giuseppe Maimone, Taormina, luglio.
Prefazione in forma di autointervista sugli operatori che ho conosciuto, in Alessandro Gatti (a cura di), Fotocinematografia e regia. Il mestiere del regista nel racconto degli autori della fotografia, AIC, Roma, luglio.
Una poesia per Michelangelo (Antonioni) (testimonianza), Il Girasole, Catania, settembre.
L’ultimo carnevàl, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, ottobre.
Il fiore che non colsi, in L’ultimo carnevàl, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, ottobre.
Nel segreto di una stanza a ore, in L’ultimo carnevàl, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, ottobre.
Il richiamo della laguna inganna il re dei seduttori (prefazione), in Arthur Schnitzler, Il ritomo di Casanova, RCS, Milano, novembre.
Federico. Fellini, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, novembre.
Tredici sogni nel cassetto, in La coscienza di Svevo, De Luca, Roma, novembre.
Diritto d’attore, in Michele Placido. La poetica dell’essenziale, ANCCI, Assisi, novembre.
“Rossella” (estratto da De Lullo o il teatro empirico), in Fabio Poggiali (a cura di), Rossella Falk. La regina del teatro, Bulzoni, Roma.
Caro diario, in Piera Detassis (a cura di), Caro diario, Centro Studi, Lipari, dicembre.
Per Francesco Rosi, «Cinecittà», anno III, n. 10, Roma, dicembre.
Il mito di Cinecittà, in Enciclopedia del cinema, vol I, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, dicembre.
Giovanni Grazzini cinecritico inattuale, in «QR Quaderni Radicali», nn. 76-78, luglio-dicembre, Roma.
2003
Massimo Dapporto, il primo Zeno del ventunesimo secolo, in “Programma dello spettacolo La coscienza di Zeno”, Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, gennaio.
L’amico del cinema (prefazione), in Mario Longardi, Più stelle che in cielo. Mezzo secolo tra Hollywood e Cinecittà, Gremese, Roma, gennaio.
“Interventi”, in Fabio Francione (a cura di), Tullio Kezich. Professione: spettatore, Falsopiano, Alessandria, gennaio.
Sulla triestinità. Tullio Kezich all’Università degli Studi di Trieste, Quaderni del Dipartimento di Italianistica Linguistica Comunicazione Spettacolo, n. 5, Trieste, gennaio.
Il mostro (estratto da Su La dolce vita con Federico Fellini), in Arnaldo Colasanti, Claudio Siniscalchi (a cura di), La dolce vita scandalo a Roma Palma d’oro a Cannes, Scuola Nazionale di Cinema, Roma, maggio.
Poesia e verità della bugia (prefazione), in Federico Fellini sono un gran bugiardo. L’ultima confessione del Maestro, Elleu multimedia, Roma, maggio.
Una giornata particolare. Un film di Ettore Scola. Incontrarsi e dirsi addio nella Roma del ’38 (a cura di, con
la collaborazione di Alessandra Levantesi), Lindau, Torino, maggio.
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Lo conosco bene..., in Cristiano Paolozzi, Antonella Sica (a cura di), Claudio G. Fava clandestino in galleria, Le Mani, Genova, giugno.
Il cineasta e il suo doppio (musicale). Giraldi & Bacalov, in Maria Girardi (a cura di), Lungo il Novecento. La musica a Trieste e le interconnessioni fra le arti, Marsilio, Venezia, ottobre.
“Testimonianza”, in Alice Zen, Protagonisti. Arte e scienza a Trieste, Mladika, Trieste, novembre.
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Conversazione su Giulietta Masina, in Francesca De Gujo, Le maschere di Giulietta Masina nel cinema di Federico Fellini, Tesi di Laurea, Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, Milano.
Truth & Poetry in Lies (introduzione), in Damian Pettigrew, I’m a Born Liar:A Fellini Lexicon, Harry N. Abrams Inc, New York.
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Autobiografia del teatro, in “ Programma dello spettacolo Mémoires da Carlo Goldoni”, Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni, Venezia, gennaio.
È rimasto uno dei miei idoli, in Orio Caldiron (a cura di), Totò e la gaia scienza, Sopralluoghi, n. 16, Bulzoni, Roma.
“Intervento”, in Rossana Buono, Eletta Camon, Piergiorgio Dragone (a cura di), Le intermittenze del cuore... e della mente. Intorno al film Le intermittenze del cuore di Fabio Carpi, Ulisse, Roma, febbraio.
Diario di un esordio. San Michele aveva un gallo, in Vito Zagarrio (a cura di), Utopisti, esagerati. Il cinema di Paolo e Vittorio Taviani, Marsilio, Venezia, giugno.
Ermanno Olmi, il mestiere delle immagini. Diario (in pubblico) di un’amicizia, Falsopiano, Alessandria, agosto.
Cronaca di un amore. Quando un’opera prima è già un capolavoro (a cura di, con la collaborazione di Alessandra Levantesi), Lindau, Torino, ottobre.
Tullio Kezich ai tempi del “Quaderno unico”, in Marco Coslovich, Nemici per la pelle. Trieste terra di confine, Mursia, Milano, ottobre.
La memoria è l’arma più forte (postfazione), in Marco Coslovich, Nemici per la pelle. Trieste terra di confine, Mursia, Milano, ottobre.
“Recensioni”, in Alberto Pezzotta, Regia Damiano Damiani, Cinemazero, Pordenone, ottobre. Il campeggio di Duttogliano, Sellerio, Palermo, novembre.
Conversare. Intervista a Tullio Kezich, in Il campeggio di Duttogliano, Sellerio, Palermo, novembre.
Ritratto di un camaleonte, in Giancarlo Giannini. L’arte dell’interpretazione, ANCCI, Assisi, dicembre.
Giulietta Masina, in Enciclopedia del cinema, vol. IV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma.
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Marcello Mastroianni, in Enciclopedia del cinema, vol. IV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma.
Ermanno Olmi, in Enciclopedia del cinema, vol. IV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma.
Eriprando Visconti, in Enciclopedia del cinema, vol. V, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma.
“Interventi”, in Guglielmo Maggioni, Ermanno Olmi e l’esperienza produttiva milanese della “22 dicembre” (1961-965), Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia.
Dino. The Life and Films of Dino de Laurentiis (edizione inglese), Miramax Books, Hyperion, New York.
“Intervista”, in Nicoletta Fabio, Stampa quotidiana e critica cinematografica: spazi, confini e valenze sociali, Tesi di Laurea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia.
2005
Francesco Rosi e l’urbanistica: un’inedita prospettiva critica, «Cinemacittà», anno 1, n. 1, Cangemi, Roma, gennaio
Giulietta una e due, in Giulietta Masina. Un paese e la sua stella, Comune di San Giorgio di Piano, gennaio.
Le mani sulla città, 1963/2003, «Cinemacittà», anno 1, n. 1, Cangemi, Roma, gennaio.
Massimo Dapporto da Neil Simon (e Svevo) a Molière (con la collaborazione di Alessandra Levantesi), in “Programma dello spettacolo Il malato immaginario di Molière”, Teatro 3-Teatro Stabile del Veneto, febbraio.
Cento piccoli film, in Antonio Panzanella (a cura di), Aroldo Tieri. Una vita per lo spettacolo, Bevivino, Milano.
Essere o non essere sullo schermo, in Fabio Poggiali (a cura di), Giorgio Albertazzi, l’ultimo imperatore, Bulzoni, Roma.
Mémoires da Carlo Goldoni (con Maurizio Scaparro), Ubulibri, Milano, aprile.
L’uomo di sfiducia, Bompiani, Milano, maggio (nuova edizione aggiornata).
Zurlini e Pratolini nei miei ricordi. Zurlini et Pratolini dans mes souvenirs, in Sergio Toffetti (a cura di), Cronaca familiare. Un film di Valerio Zurlini, Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma, maggio.
“Intervista”, in Nicola Piovani, Concerto fotogramma, BUR senza filtro, Rizzoli, Milano, luglio. Per Francesco Rosi (estratto da Cinecittà), in Aldo Tassone, Gabriele Rizza, Chiara Tognolotti (a cura di), La sfida della verità. Il cinema di Francesco Rosi, Aida, Firenze, luglio.
La rivolta degli attori. Il “prologo in teatro” del Sessantotto, Gremese, Roma, settembre.
Libertà, curiosità, fraternità (introduzione), in Giulio Martini (a cura di), I luoghi del cinema, Touring Club Italiano, Milano, ottobre.
Ecco Giulietta degli Spiriti, Giulietta degli spiriti (estratti giornalistici da «Sorrisi e canzoni» e «Sipario»), in Domenico Monetti, Giuseppe Ricci (a cura di), Giulietta degli spiriti raccontato dagli archivi Rizzoli, Centro Sperimentale di Cinematografia-Fondazione
Bibliografia
Federico Fellini, Roma-Rimini, ottobre.
Aurelio De Laurentiis, una dinasty fra il passato e l’avvenire, in Aurelio De Laurentiis.Una dinastia in cinema, ANCCI, Assisi, novembre.
Don Chisciotte. L’immaginazione al potere, in “Programma dello spettacolo Don Chisciotte. Frammenti di un discorso teatrale”, Compagnia degli Ipocriti, novembre.
Conversazione su Giulietta Masina. Intervista a Tullio Kezich, in Francesca De Guio (a cura di), Gli attori di Fellini. Giulietta, 50 anni dopo La strada, Atti del Convegno internazionale di studi, Rimini, 29-31 ottobre 2004, Fondazione Federico Fellini, Rimini, novembre.
Storia naturale di un piccolo miracolo (introduzione), in Il mestiere dell’uomo. Ermanno Olmi regista per la Edison, Federico Motta-Edison, Milano, dicembre.
Federico Fellini. Eine Biographie, Diogenes, Zurigo.
2006
Addio a Eduardo. Napoli milionaria e il miracolo del cinema italiano, in Il libro dei trent’anni. La Repubblica 1976-2006, «la Repubblica», Roma, gennaio.
Quando le sere al Placido..., in Caro Beniamino. Scritti per una festa di compleanno, Cometa, Roma, febbraio.
Federico Fellini. His Life and Work (edizione americana), Faber and Faber, New York, marzo.
Ciò che devo a Rosa e Ballo, in Un sogno editoriale. Rosa e Ballo nella Milano anni Quaranta, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, marzo.
Marcello e Tazio, in Giovanna Bertelli (a cura di), Marcello Mastroianni nelle fotografie di Tazio Secchiaroli, Bolis, Bergamo, marzo.
Federico avagy Fellini elete es filmjei (edizione ungherese), Euròpa Konyvkiadò, Budapest, marzo.
Marcello e Tazio, in Marcello Mastroianni fotografiert von Tazio Secchiaroli, Collection Rolf Heyne, Monaco, marzo.
Marcello e Tazio, in Giovanna Bertelli (a cura di), Marcello Mastroianni nelle fotografie di Tazio Secchiamoli, Bolis, Azzano San Paolo, marzo.
Gli attori italiani dalla preistoria del divismo al monopolio, in Orio Caldiron (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. V, Marsilio, Venezia, maggio.
La coscienza di Livio, in Rosignano, Galleria Rettori Trebbio, Trieste, giugno.
Cari Centenari... Rossellini Visconti Soldati raccontati da Tullio Kezich, Falsopiano, Alessandria, giugno.
Citto? chiamiamolo francesco, chiamiamolo maestro, in “Catalogo dello Spoleto Festival”, 49a Edizione, Spoleto, giugno.
“Intervento”, in Giacomo Gambetti, Capire il cinema e la televisione, Gremese, Roma.
“... quei Luchini là..”. Contestualizziamo il Conte, in Caterina d’Amico de Carvalho (a cura di), Luchino Visconti e il suo tempo, Electa, Roma, ottobre.
Una notte terribile e confusa, Sellerio, Palermo, ottobre.
Il sosia, La Contrada Teatro Stabile di Trieste, Trieste, ottobre.
Bibliografia
“Un cineasta contromano” (intervista), in Alberto Anile, Orson Welles in Italia, Il castoro, Milano, ottobre.
(Non) ho sposato la Proclemer, ma... in Anna Proclemer Official Website, ottobre.
Quando si può scrivere “un film di...” seguito da un nome (o magari due) che non è quello del regista, in Bud Spencer e Terence Hill, ANCCI, Assisi, novembre.
L’inferno di Dante, in Anna Laura Angeletti, Giorgio Capozzo (a cura di), Catalogo della Mostra di Dante Ferretti, Studio Angeletti, Roma, novembre.
Per Francesco Rosi, in Vittorio Giacci, Adriano Pintaldi (a cura di), Francesco Rosi. I mosaici della ragione, XI Roma Film Festival, Roma, novembre.
L’orchestra di Piazza Vittorio tra neorealismo e metafore politiche, in Prove d’orchestra, Lucky Red, Roma, novembre.
C’era una volta il cinema, in Mauro Molinaroli, Stefano Pareti (a cura di ), Al cinema con Cat. Giulio Cattivelli e i film italiani (1945-1994), Berti, Piacenza, dicembre.
Amicizia e lavoro, in Luciano De Giusti (a cura di), Franco Giraldi, lungo viaggio attraverso il cinema, Kaplan, Torino, dicembre.
2007
Luchino nell’eclissi di Pirandello, in Luchino Visconti, «Istituto Studi Pirandelliani», anno XXII, nn. 1-3, Roma, gennaio-dicembre.
Federico Fellini. His Life and Work (edizione americana), Faber and Faber, New York, gennaio.
Fellini. La vida y las obras (edizione spagnola), Tusquets, Barcellona, gennaio.
Federico. La biografia infinita/TheNeverending Biography, in Fellini Amarcord, «Rivista di studi felliniani», nn. 3-4, Fondazione Federico Fellini, Rimini, marzo.
Federico. La vita e i film, Universale Economica, Feltrinelli, Milano, aprile.
Ve lo spiego al pianoforte... in Adriano Pintaldi (a cura di), Armando Trovajoli. Le stagioni di un artista, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Roma, aprile [ripubblicato in Maurizio Baroni, Marco d’Ubaldo (a cura di), Armando Trovajoli, Mediane Libri, Roma, giugno].
In due si scrive meglio (prefazione), in Lino Carpinteri, Mariano Faraguna, Il mondo delle maldobrie, MGS, Trieste, giugno.
Il “Fellini per pochi” di Chiara Samugheo, in Fellini Privat. Il maestro fotografato da Chiara Samugheo, Museo Fellini, giugno.
L’amico che sapeva a memoria i dialoghi di Ombre rosse, in Sibilla Damiani, Gabriella Costanzo, Damiano Damiani regista pittore, Giafrasi, Roma, agosto.
Federico Fellini His Life and Work, I. B. Tauris & Co Ldt, London-New York.
“Interventi come anonimo”, in Fellini oniricon il libro dei miei sogni, Rizzoli, Milano, ottobre.
Federico Fellini. Il libro dei sogni (a cura di, in collaborazione con Vittorio Boarini), Rizzoli, Milano, ottobre.
Bibliografia
Quella serata indimenticabile, in Aldo Tassone (a cura di), France Cinéma 07, Aida, Firenze, ottobre.
La presa del potere dei dir-actors, in Paolo Bertetto (a cura di), Azione! Come i grandi registi dirigono gli attori, Minimum Fax, Roma, ottobre.
“Introduzione”, in Le livre de mes rêves de Federico Fellini, Flammarion, Parigi, ottobre. Fellini, sa vie et ses films, Gallimard, Parigi, novembre.
Il caso Rosi, in Francesco Rosi. Cinema e verità, ANCCI, Assisi, novembre.
Ricordando Salvatore Giuliano, in Francesco Rosi. Cinema e verità, ANCCI, Assisi, novembre.
Teatrografia
1964
LA COSCIENZA DI ZENO da Italo Svevo
Produzione: Teatro Stabile di Genova; regia: Luigi Squarzina; scenografia: Gianfranco Padovani; musica: Sergio Liberovici; interpreti principali: Alberto Lionello, Checco Rissone, Pina Cei, Marzia
Ubaldi, Omero Antonutti, Gianni Feni; prima rappresentazione: Biennale di Venezia, XXIII Festival del Teatro, La Fenice, 12 ottobre.
1968
ZENOVAIZ POVED (La coscienza di Zeno)
Traduzione: MartinJevnikar; produzione: Slovensko Gledaliscev Trstu, regia: Joze Babic; interpreti principali: Silvij Kobal, Rado Nakrst, Livij Bogatec, Lidija Kozlovic; prima rappresentazione: Trieste, Kulturni Dom, 12 marzo.
BOUVARD E PÉCUCHET da Gustave Flaubert (collaborazione Luigi Squarzina) Produzione: Teatro Stabile di Genova; regia: Luigi Squarzina; scenografia: Pier Luigi Pizzi; musica: Angelo Musco jr; interpreti principali: Tino Buazzelli, Glauco Mauri, Rita Di Lernia, Renato Campese; prima rappresentazione: Genova, Politeama Genovese, 20 novembre.
1971
W BRESCI. STORIA ITALIANA IN DUE TEMPI
Produzione: Piccolo Teatro di Milano regia: Gianfranco De Bosio; Scenografia: Lele Luzzati, Flavio Costantini; musica: Fiorenzo Carpi; interpreti principali: Franco Parenti, Edda Albertini; prima rappresentazione: Prato, Teatro Metastasio, 26 febbraio.
1973
BOUVARD
UND PÉCUCHET ODER EINE ENZYCLOPÄDIE DER MENSCHLICHEN
DUMMHEIT
Traduzione e adattamento: Gerda Scheffel; produzione: Städtische Bühne Heidelberg; regia: Guido Huonder; scenografia e costumi: Wolfgang Reuter; interpreti principali: Uwe-Karsten Koch, Henning Koehler; prima rappresentazione: Heidelberg, Städtische Bühnen Heidelberg, marzo 1974.
1974
IL FU MATTIA PASCAL da Luigi Pirandello
Produzione: Teatro Stabile di Genova; regia: Luigi Squarzina; scenografia: Gianfranco Padovani;
Teatrografia
interpreti principali: Giorgio Albertazzi, Omero Antonutti, Camillo Milli, Lina Volonghi, Elisabetta Pozzi, Tullio Solenghi; prima rappresentazione: Genova, Teatro Eleonora Duse, 14 novembre.
1978
LA COSCIENZA DI ZENO
Produzione: Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia; regia: Franco Giraldi; scenografia: Sergio d’Osmo; interpreti principali: Renzo Montagnani, Marina Dolfin, Marino Masè, Francesca Archibugi; prima rappresentazione: Trieste, Politeama Rossetti, 18 ottobre.
1982
CANDIDA di George Bernard Shaw (traduzione)
Produzione: Compagnia Stabile delle Arti; regia: Gianfranco De Bosio; interpreti principali: Giuliana Lojodice, Aroldo Tieri, Antonio Meschini; prima rappresentazione: Roma, Teatro delle Arti, 13 ottobre.
1983
BOUVARD E PÉCUCHET
Produzione: Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia; regia: Giovanni Pampiglione; scenografia: Sergio d’Osmo; interpreti principali: Mario Maranzana, Vittorio Franceschi, Carla Cassola; prima rappresentazione: Roma, Teatro Eliseo, 12 aprile.
MONSIEUR ORNIFLE di Jean Anouilh (traduzione)
Produzione: Plexus T (Lucio Ardenzi); regia: Luigi Squarzina; musica: Arturo Annecchino; interpreti principali: Alberto Lionello, Erica Blanc, Nestor Garay; prima rappresentazione: Reggio Emilia, Teatro Ariosto, 27 ottobre.
UN MARITO di Italo Svevo (adattamento)
Produzione: Sandro Tolomei per la Te.Ro.; regia: Gianfranco De Bosio; interpreti principali: Aroldo Tieri (Premio Curcio), Giuliana Lojodice; prima rappresentazione: Verona, Estate Teatrale Veronese, 27 giugno.
1984
DON CHISCIOTTE: FRAMMENTI DI UN DISCORSO TEATRALE da Miguel de Cervantes (collaborazione Rafael Azconae Maurizio Scaparro)
Produzione: Teatro Popolare di Roma e Théâtre National du Chaillot; regia: Maurizio Scaparro; scenografia: Roberto Francia; costumi: Lele Luzzati; musica: Eugenio Bennato; interpreti principali: Pino Micol, Peppe Barra, Concetta Barra; prima rappresentazione: 26° Festival dei Due Mondi, Spoleto, Teatro Caio Melisso, 3 luglio.
Teatrografia
1985
DIVORZIAMO!! di Victorien Sardou (traduzione e adattamento)
Produzione: Teatro Manzoni di Milano e Lucio Ardenzi; regia: Mario Ferrero; interpreti principali: Alberto Lionello, Erica Blanc, Pier Senarica; prima rappresentazione: Milano, Teatro Manzoni, 15 gennaio.
UN ISPETTORE IN CASA BIRLING di John Boynton Priestley (traduzione e adattamento)
Produzione: Compagnia del Teatro delle Arti (Sandro Tolomei per la Te. Ro.); regia: Sandro
Sequi; interpreti principali: Aroldo Tieri, Giuliana Lojodice, Mino Bellei; prima rappresentazione: Città di Castello, Teatro degli Illuminati, 18 ottobre.
UNA BURLA RIUSCITA da Italo Svevo
Produzione: emiliaromagnateatro; regia: Egisto Marcucci; interpreti principali: Corrado Pani (Premio Istituto Dramma Italiano), Dario Cantarelli, Glauco Onorato, Quinto Parmeggiani; prima rappresentazione: Bologna, Arena del Sole, 15 dicembre.
1986
IL FU MATTIA PASCAL
Produzione: Teatro di Roma; regia: Maurizio Scaparro; interpreti principali: Pino Micol, Marisa Mantovani, Ezio Marano; prima rappresentazione: Roma, Teatro Argentina, 23 maggio.
1987
L’AMANTE COMPIACENTE di Graham Greene (traduzione)
Produzione: Compagnia Teatro delle Arti (Sandro Tolomei); regia: Giancarlo Sbragia; interpreti principali: Giancarlo Sbragia, Giovanna Ralli, Luigi Diberti; prima rappresentazione: Salerno, Teatro delle Arti, marzo.
DUELLO (Sleuth) di Anthony Shaffer (traduzione)
Produzione: pro.sa. (Produzione Sagittarius)/compagnia Giordana Zanetti; regia: Gianfranco De Bosio; interpreti principali: Giancarlo Zanetti, Renzo Palmer (poi Renato De Carmine); prima rappresentazione: Roma, Teatro delle Arti, 2 novembre.
GRANDE E PICCOLO di Botho Strauss (traduzione, collaborazione Cinzia Romani)
Produzione: Teatro d’Europa-Piccolo Teatro di Milano; regia: Carlo Battistoni; interpreti principali: Giulia Lazzarini, Franco Graziosi, Gianfranco Mauri; prima rappresentazione: Milano, Piccolo Teatro, 5 novembre.
1988
LA COSCIENZA DI ZENO
Produzione: Compagnia Giulio Bosetti, Comune di Savona; regia: Egisto Marcucci; scenografia: Lele Luzzati, Flavio Costantini; interpreti principali: Giulio Bosetti, Marina Bonfigli, Claudio Gora, Gea Lionello; prima rappresentazione: Savona, Teatro Chiabrera, 15 ottobre.
1989
IL GALLO da Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati
Produzione: Teatro Stabile di Catania-Plexus T (Lucio Ardenzi); regia: Lamberto Puggelli; interpreti principali: Turi Ferro, Ida Carrara; prima rappresentazione: Catania, Teatro Verga, 18 gennaio.
M. BUTTERFLY di David H. Wang (versione italiana)
Produzione: Plexus T (Lucio Ardenzi); regia: John Dexter; interpreti principali: Ugo Tognazzi, Arturo Brachetti.
1990
IL VITTORIALE DEGLI ITALIANI
Produzione: Sandro Tolomei per la Te. Ro.; regia: Mario Missiroli; scenografia: Enrico Job; musica: Benedetto Ghiglia; interpreti principali: Corrado Pani, Nestor Garay, Caterina Vertova; prima rappresentazione: Roma, Teatro delle Arti, 12 ottobre.
1991
L’IMPRESARIO DELLE SMIRNE di Carlo Goldoni (adattamento a commedia musicale, collaborazione Mario Missiroli)
Produzione: Mario Chiocchio; regia: Mario Missiroli; musica: Armando Trovajoli; interpreti principali: Mariano Rigillo, Marzia Ubaldi, Emanuela Moschin, Alfredo Pea; prima rappresentazione: Verona, Estate Teatrale Veronese, Teatro Romano, 5 luglio.
IL RITORNO DI CASANOVA da Arthur Schnitzler
Produzione: Lucio Ardenzi; regia: Armand Delcampe; scenografia: Josef Svoboda; costumi: Elena Mannini; musica: Andrea Centazzo; interpreti principali: Giorgio Albertazzi, Mariangela d’Abbraccio; prima rappresentazione: Benevento, XII Festival Città Spettacolo, Auditorium Calandra, 15 settembre.
1992
IL FU MATTIA PASCAL
Produzione: APAS di Sebastiano Calabrò, Teatro Stabile di Firenze; regia: Marco Mattolini; Teatrografia
interpreti principali: Flavio Bucci, Graziano Giusti, Daniela Marazita; prima rappresentazione: Roma, Teatro Valle, 18 novembre.
1993
A PIEDI NUDI NEL PARCO di Neil Simon (traduzione, collaborazione AlessandraLevantesi)
Produzione: Plexus (Lucio Ardenzi); interpreti principali: Sergio Castellitto, Margaret Mazzantini, LaurettaMasiero; prima rappresentazione: Città di Castello, Teatro degli Illuminati, 8 gennaio.
1994
INDIANS di Arthur Kopit (traduzione e adattamento)
Produzione: Palazzo delle esposizioni, rassegna “Indian Movies”; regia: Piero Maccarinelli; interpreti principali: Aroldo Tieri; prima rappresentazione: Roma, Palazzo delle Esposizioni, 1 marzo.
ZENO E LA CURA DEL FUMO da Italo Svevo
Produzione: Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni; regia: Marco Sciaccaluga; interpreti principali: Giulio Bosetti, Marina Bonfigli, Ilaria Borrelli, Camillo Milli; prima rappresentazione: Padova, Teatro Verdi, 15 aprile.
FELLINI (soggetto del balletto)
Produzione: Teatro dell’Opera (da un’idea del sovrintendente Giorgio Vidusso); regia: Michavan Hoecke; scenografia: Milo Manara; musica: Nicola Piovani; interpreti principali: Jean Babilée, Natalia Makarova, Valeria Marini; prima rappresentazione: Roma, Villa Borghese, Piazza di Siena, 20 agosto.
1996
IL PRIGIONIERO DELLA SECONDA STRADA di Neil Simon (traduzione, collaborazione Alessandra Levantesi)
Produzione: Plexus T (Lucio Ardenzi); regia: Tonino Pulci; interpreti principali: Massimo Dapporto, Benedetta Buccellato, Virginio Zernitz, Silvana De Santis.
1998
PLAZA SUITE di Neil Simon (traduzione, collaborazione Alessandra Levantesi)
Produzione: Plexus T (Lucio Ardenzi); regia: Guglielmo Ferro; interpreti principali: Massimo Dapporto, Maria Amelia Monti, Aicha Cerami.
Chiaramello; interpreti principali: Giulio Bosetti, Marina Bonfigli; prima rappresentazione: Belluno, Teatro Comunale di Belluno, 21 febbraio.
UNA BURLA RIUSCITA
Produzione: Compagnia teatrale i fratellini; regia: Egisto Marcucci; interpreti principali: Marcello Bartoli, Dario Cantarelli; prima rappresentazione: Trento, Auditorium Santa Chiara, 19 marzo.
L’AMERICANO DI SAN GIACOMO
Produzione: La Contrada Teatro Stabile di Trieste; regia: Francesco Macedonio; scenografia: Sergio d’Osmo; interpreti principali: Mario Valgoi, Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Lidia Coslovich, Maurizio Repetto; prima rappresentazione: Trieste, Il Cristallo, 9 ottobre.
1999
L’AMICO DI TUTTI di Bernard Slade (versione italiana, collaborazione Alessandra Levantesi)
Produzione: Plexus T (Lucio Ardenzi); regia: Piero Maccarinelli; interpreti principali: Johnny Dorelli, Daniela Poggi, Pier Senarica; prima rappresentazione: Milano, Teatro Verdi.
2000
UN NIDO DI MEMORIE
Produzione: La Contrada Teatro Stabile di Trieste; regia: Francesco Macedonio; scenografia: Sergio d’Osmo; interpreti principali: Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Maurizio Repetto; prima rappresentazione: Trieste, Il Cristallo, 6 ottobre.
LO SBAGLIO DI ESSERE VIVO di Aldo De Benedetti (adattamento)
Produzione: Plexus T (Lucio Ardenzi); regia: Ennio Coltorti; interpreti principali: Fabrizio Frizzi, Mascia Musy, Ennio Coltorti; prima rappresentazione: Orvieto, Teatro Mancinelli, 14 ottobre.
IL FU MATTIA PASCAL
Produzione: Teatro Stabile di Catania; regia: Piero Maccarinelli; interpreti principali: Giuseppe Pambieri, Lia Tanzi, Micol Pambieri; prima rappresentazione: Catania, Teatro Verga, settembre.
2002
SI GIRA! da Luigi Pirandello (collaborazione Mario Missiroli)
Produzione: Sebastiano Calabrò; regia: Mario Missiroli; interpreti principali: Flavio Bucci, Paola Di Meglio; prima rappresentazione: Taormina, Palazzo dei Congressi, 27 luglio.
L’ULTIMO CARNEVÀL
Produzione: La Contrada Teatro Stabile di Trieste; regia: Francesco Macedonio; interpreti principali: Teatrografia
Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Marzia Postogna; prima rappresentazione: Trieste, Il Cristallo, 4 ottobre.
2003
LA COSCIENZA DIZENO
Produzione: Teatro 3 (Francesca e Lucio Ardenzi) - Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia; regia: Piero Maccarinelli; interpreti principali: Massimo Dapporto, Virginio Zernitz, Silvana De Santis; prima rappresentazione: Trieste, Politeama Rossetti, 7 gennaio.
DUELLO di Anthony Shaffer (traduzione)
Regia: Ugo Gregoretti; interpreti: Gian Giacomo Ladisa, Pierluigi Corallo; prima rappresentazione: Roma, Sala Orfeo, Teatro dell’Orologio, 21 febbraio.
2004
MEMOIRES. FRAMMENTI DI VITA TEATRALE TRATTI DAI MEMOIRES, LE OPERE
E LE LETTERE DI CARLO GOLDONI (collaborazione Maurizio Scaparro)
Produzione: Théâtre des Italiens; regia: Maurizio Scaparro; scenografia: Roberto Francia; interpreti principali: Mario Scaccia, Max Malatesta, Donatella Ceccarello, Gaia Aprea; prima rappresentazione: Belluno, Teatro Comunale, 5 gennaio.
ITALO SVEVO, GENERO LETTERARIO RACCONTATO DA SUA SUOCERA (monologo)
Produzione: La Contrada Teatro Stabile di Trieste; regia: Francesco Macedonio; interpreti: Ariella Reggio; prima rappresentazione: Trieste, Piazza Attilio Hortis, 8 agosto (interrotto dalla pioggia).
I RAGAZZI DI TRIESTE
Produzione: La Contrada Teatro Stabile di Trieste; regia: Francesco Macedonio; scenografia: Sergio d’Osmo; interpreti principali: Maurizio Repetto, Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Paola Di Meglio; prima rappresentazione: Trieste, Il Cristallo, 1 ottobre.
GLI OCCHIALI D’ORO (riduzione del romanzo di Giorgio Bassani)
Regia: (lettura) Piero Maccarinelli; interprete: Massimo De Francovich, prima rappresentazione: Ferrara, Sala Estense, 21 ottobre.
2005
IL MALATO IMMAGINARIO di Molière (adattamento, collaborazione Alessandra Levantesi)
Produzione: Teatro 3 (Francesca Ardenzi) - Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni; regia: Guglielmo Ferro; costumi: Santuzza Calì; interpreti principali: Massimo Dapporto, Susanna Teatrografia
Marcomeni, Sebastiano Tringali, Riccardo Peroni; prima rappresentazione: Castelfranco Veneto, Teatro Accademico, 5 febbraio.
IL RITORNO DI CASANOVA da Arthur Schnitzler (adattamento di Antonio Salines)
Produzione: Centro Culturale G. Belli e Centro Servizi Culturali Santa Chiara; regia: Antonio Salines; interpreti principali: Antonio Salines; prima rappresentazione: Villazzano, Villa dei Mersi, 7 luglio.
DON CHISCIOTTE: FRAMMENTI DI UN DISCORSO TEATRALE (collaborazione Rafael Azcona e Maurizio Scaparro)
Produzione: Compagnia Italiana degli Ipocriti; regia: Maurizio Scaparro; scenografia: Roberto Francia; costumi: Lele Luzzati; musica: Eugenio Bennato; interpreti principali: Pino Micol, Augusto
Fornari, Fernando Pannullo; prima rappresentazione: Napoli, Teatro Mercadante, 2 novembre. Teatrografia
TVgrafia
1962
UNA BURLA RIUSCITA da Italo Svevo (adattamento)
Regia: Edmo Fenoglio; interpreti principali: Romolo Valli, Ferruccio De Ceresa, Alfredo Bianchini; trasmissione: Secondo canale, 3 maggio 1962; replica: 31 gennaio 1964.
1963
DELITTO E CASTIGO da Feodor Dostoevskij (adattamento firmato Giovanni Vallon)
Regia: Anton Giulio Majano; interpreti principali: Luigi Vannucchi, Ilaria Occhini, Ivo Garrani; trasmissione: Secondo canale, maggio-giugno.
1966
IL CASO FUCHS. UNA SPIA DEL NOSTRO TEMPO. “TEATRO INCHIESTA” N. 1 (sceneggiatura, non accreditato)
LA COSCIENZA DI ZENO (collaborazione Daniele D’Anza)
Regia: Daniele D’Anza; interpreti principali: Alberto Lionello, Ferruccio De Ceresa, Pina Cei; trasmissione: Secondo canale, 3 puntate dal 16 marzo; replica: dal 16 novembre 1968.
1967
IL BARONE DEI DIAMANTI. “PROCESSI A PORTE APERTE” N. 1 (delegato alla produzione, sceneggiatura firmata Giovanni Vallon)
I RECUPERANTI (delegato alla produzione, adattamento con Mario Rigoni Stern ed Ermanno Olmi)
Sceneggiatura: Mario Rigoni Stern, Tullio Kezich, Ermanno Olmi; regia: Ermanno Olmi; interpreti principali: Andrea Carli, Alessandra Micheletto, Antonio Lunardi.
1968
EINE KRANKHEIT GENANNT LEBEN (La coscienza di Zeno)
Produzione: Zweite Deutsche Fernsehen-Oesterreichiscer Rundfunk Fernsehen; regia: Max Friedmann; interpreti principali: Peter Mosbacher, Hans Hinrich, Paul Edwin Roths, Loni von Friedke.
1972
SAN MICHELE AVEVA UN GALLO (delegato alla produzione, non firmato)
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; interpreti principali: Giulio Brogi, Daniele Dublino, Renato Scarpa.
1974
LA ROSA ROSSA dal romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini (delegato alla produzione, non firmato)
IL LADRO IN CASA di Italo Svevo (adattamento in collaborazione con Edmo Fenoglio)
Regia: Edmo Fenoglio; interprete: Luigi Diberti; trasmissione: RAI Due, 21 settembre.
UNA BURLA RIUSCITA
Regia: Mario Missiroli; interpreti principali: Sergio Fantoni, Piero Mazzarella, Mario Maranzana; trasmissione: RAI Due, 28 settembre.
1983
DELITTO E CASTIGO (nuova versione, in collaborazione con Mario Missiroli)
Regia: Mario Missiroli; scenografia e costumi: Gianfranco Padovani; musica: Benedetto Ghiglia; interpreti principali: Mattia Sbragia, Pino Micci, Rero Mazzarella, Laura Lenzi; trasmissione: RAI
Due, dal 9 gennaio (5 puntate).
1985
MONSIEUR ORNIFLE (ripresa dello spettacolo)
Regia televisiva: Nicola De Rinaldesi, 18 gennaio.
UN MARITO (ripresa dello spettacolo)
15 luglio.
UNA BURLA RIUSCITA (ripresa TV dello spettacolo).
1988
LA COSCIENZA DI ZENO (nuova versione, collaborazione Dante Guardamagna)
Regia: Sandro Bolchi; interpreti principali: Johnny Dorelli, Ottavia Piccolo, Eleonora Brigliadori; trasmissione: RAI Due dal 14 aprile.
1995
FELLINI
(Ripresa in diretta del balletto del Teatro dell’Opera da Roma, Piazza di Siena)
RAI Due 20 agosto. TVgrafia
Contributi speciali DVD1
2003
Interview in Ermanno Olmi’s Il posto, The Criterion Collection, New York.
Interview in Ermanno Olmi’s I Fidanzati, The Criterion Collection, New York.
Contributo extra in La strada di Federico Fellini, Filmauro Home Video, Roma.
Contributo extra in Le notti di Cabiria di Federico Fellini, Filmauro Home Video, Roma.
Contributo extra in Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, 20th Century Fox Home Entertainment.
A Sud di Eboli (documentario) in Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, 20th Century Fox Home Entertainment.
Contributo extra in La leggenda del Santo bevitore di Ermanno Olmi, Cecchi Gori Home Video. Rosi and Kezich Interview in Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, The Criterion Collection, New York.
2004
Interview in I vitelloni di Federico Fellini, The Criterion Collection, New York.
Interview in The Battle of Algiers di Gillo Pontecorvo, Disc 2: The Making of the Film , The Criterion Collection, New York.
2005
Contributo extra in Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni, Alan Young Home Video. Dialogo con Francesco Rosi in Dimenticare Palermo di Francesco Rosi.
2006
Interview in Fists in the Pocket di Marco Bellocchio, The Criterion Collection, New York. Interview in Federico Fellini. Biography International, ABC News Productions, New York.
Fellini’s Homecoming in Amarcord di Federico Fellini, Disc 2, The Criterion Collection, New York.
Interview in Hands over the City di Francesco Rosi, Disc 2, The Criterion Collection, New York.
Contributo extra in Mémoires di Maurizio Scaparro, Luce, DVD Video.
1 Sono qui elencati i principali contributi storico-critici contenuti in DVD.
2007
Contributo extra in Sfogliare i film di Lorenzo d’Amico de Carvalho (allegato al libro Lo schermo di carta ) .
Tullio Kezich racconta... in Il grido di Michelangelo Antonioni, Parus Film, Univideo Medusa.
Contributo extra in Mogli pericolose di Luigi Comencini, Parus Film, Univideo Medusa.
Contributo extra in La notte di Michelangelo Antonioni, Parus Film, Univideo Medusa.
1. Nei pressi di Trieste, verso il 1948, sotto il Governo Militare Alleato.
2. Trieste, verso il 1905. Nonno Frane in divisa di “bersagliere di Baiamonti” (famoso podestà di Spalato) con il piccolo Giovanni (a sinistra) e un cuginetto.
3. Trieste, verso il 1932. In costume dalmata (foto Armando Decorti).
4. Trieste, 1936. Con il papà, l’avvocato Giovanni Kezich (foto Wulz).
5. Trieste, 1939. Fotografia scolastica della I B, ginnasio Francesco Petrarca. Al centro il professore di italiano, Guido Trani. Tullio Kezich in prima fila, secondo da sinistra. A fianco di Trani, con la cravatta, Giampaolo de Ferra. Terzo da destra, in ultima fila, Fulvio Anzellotti.
6. Ottobre 1949. Si gira in Carso Cuori senza frontiere. Al centro, seduto, il regista Luigi Zampa. Tullio Kezich a destra, con berretto e sciarpa, e accanto a lui l’aiuto regista Mauro Bolognini (foto Civirani).
7. Una trasmissione da Radio Trieste, primi anni Cinquanta.
8. Trieste, 1953. Il direttore americano di Radio Trieste, Rim, con Tullio Kezich, Lino Carpinteri e Mariano Faraguna.
9. Milano, verso il 1955. L’allegra redazione di «Settimo Giorno» con Tullio Kezich “violino di spalla” del direttore Guido Rocca (foto Mulas).
10. 1955, Gruppo di critici al Festival di Locarno. Da sinistra: Robert Hawkins di «Variety», il ticinese Luigi Caglio, Ugo Casiraghi («l’Unità»), Tullio Kezich, Luigi Fossati («l’Avanti»).
11. Roma, estate 1961. Indossa per scherzo la toga di un giudice durante una pausa nelle riprese in studio del processo del film Salvatore Giuliano.
12. Trieste, dicembre 1961. Con Letizia Fonda Savio, Romolo Valli e il regista Ruggerini preparando la trasmissione televisiva Serata per Svevo.
13. Milano, gennaio 1962. Si gira Una storia milanese con l’operatore Lamberto Caimi e il regista Eriprando Visconti.
14. Palazzo San Gervaso, settembre 1962 Sopralluoghi per il film I basilischi di Lina Wertmüller.
15. Capodistria, marzo 1974. Sopralluoghi per La
16. 17 marzo 1986. Con Ermanno Olmi e Anna Crespi presentando La sonnambula agli “Amici della Scala”.
rosa rossa con Franco Giraldi.
Pescara, 13 luglio 1997. Riceve il premio “Flaiano” dalle mani di Fernaldo Di Giammatteo.
18. Trieste, settembre 1998. Nel teatro de “La Contrada” durante le prove della commedia L’americano di San Giacomo con Alessandra Levantesi e il regista Francesco Macedonio (foto di Tiziano Neppi).
17.
19. Motonave “Saturnia”, in navigazione nell’oceano Atlantico, primi anni Cinquanta. Il cameriere di bordo Mario Codrini getta in mare l’urna con le ceneri di Umberto Sussan, zio di Tullio Kezich e ispiratore de L’americano di San Giacomo
20. 15 novembre 2002. Onoranze in Campidoglio per gli ottant’anni di Francesco Rosi. Da sinistra: Felice Laudadio, Tullio Kezich, il sindaco Walter Veltroni e Francesco Rosi. (foto di Pietro Coccia).
21 Trieste, ottobre 2004. Prova generale a “La Contrada” de I ragazzi di Trieste. Tullio Kezich al centro, con alla sua destra Ariella Reggio. Ultimo a destra Orazio Bobbio (foto di Roberto Pastrovicchio).
Finito di stampare nel mese di dicembre 2007 presso Tipografia Gravinese – Torino