Fondamentale dicembre 2016

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Numero 5 - dicembre 2016

NUMERI

Numero 5 - dicembre 2016 - Anno XLIV - AIRC Editore - Poste Italiane spa Sped. in Abb. Postale D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 1 LO/MI - ISSN 2035-4479

Dai grandi database si estraggono informazioni preziose per la ricerca PEDIATRICI

Controlli periodici per ex pazienti ormai guariti IFOM

Nuove tecnologie e multidisciplinarietĂ , la chiave di un istituto di grande successo

Vincenzo Costanzo, ricercatore europeo (e oltre)

DALLA RANA AL CICLO CELLULARE


SOMMARIO

FONDAMENTALE dicembre 2016

In questo numero: 04 VITA DA RICERCATORE 07 RUBRICHE 08 RICERCA 11 RUBRICHE 12 TEST DIAGNOSTICI 14 PREMIO NOBEL 16 TERAPIE 19 TUMORI PEDIATRICI 22 IFOM 24 BORSE DI STUDIO 26 VIAGGIO DENTRO AIRC 29 EVENTI 30 IL MICROSCOPIO

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La ricerca oncologica si fa internazionale Progressi della ricerca AIRC

Big data da distillare per carpire i segreti del cancro

Una gran mole di dati da sondare con gli strumenti della bioinformatica, alla ricerca di nuove cure

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Domande e risposte

Non più prelievi di tessuto ma semplici analisi del sangue: è la promessa della biopsia liquida

È il sangue che segnala l’esistenza del tumore Premiato il giapponese che ha scoperto l’autofagia Un’arma più efficace per il tumore dell’ovaio

Un percorso per gli ex piccoli pazienti

Nuove tecnologie e multidisciplinarietà i segreti di un successo Tutte le opportunità per formarsi in oncologia

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Numeri, computer e servizi a sostegno della ricerca

I partner ne fanno di tutti i colori Il premio Nobel per la medicina 2016

FONDAMENTALE

Anno XLIV - Numero 5 Dicembre 2016 - AIRC Editore DIREZIONE E REDAZIONE: Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro Via San Vito, 7 - 20123 Milano tel. 02 7797.1 - airc.it - redazione@airc.it Codice fiscale 80051890152 Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 128 del 22 marzo 1973. Stampa N.I.I.A.G. SpA Bergamo DIRETTORE RESPONSABILE Niccolò Contucci

La chemioterapia intraperitoneale per il tumore ovarico

CONSULENZA EDITORIALE Daniela Ovadia (Agenzia Zoe) COORDINAMENTO EDITORIALE Giulia Cauda, Cristina Zorzoli REDAZIONE Martina Perotti, Cristina Ferrario (Agenzia Zoe) PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE Umberto Galli TESTI Agnese Codignola, Cristina Ferrario, Daniela Ovadia, Cristina Zorzoli

IFOM, l’istituto di ricerca sul cancro finanziato da FIRC

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Pier Giuseppe Torrani

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Presidente AIRC

La partenza dei ricercatori: un’opportunità e non una fuga

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a Napoli agli Stati Uniti, poi l’Inghilterra e poi Milano: sono le “tappe” del viaggio di Vincenzo Costanzo descritte nell’articolo “Vita da ricercatore” a pag. 4 di questo numero di Fondamentale. Perché parto dalla geografia? Perché la vita del ricercatore non può che svolgersi in un mercato mondiale. Un ricercatore si forma attraverso una pluralità di esperienze che gli fanno ben capire quali sono i linguaggi e i metodi che dovrà seguire per lo sviluppo della sua arte. Spesso lamentiamo la fuga dei cervelli dal nostro Paese, ma il problema non è questo: è che non ci siamo ancora attrezzati a consentire che il nostro ricercatore, se lo vuole, termini poi il suo viaggio in Italia. Se il mercato e il linguaggio sono globali, non vi è nulla di strano. Nel mercato della scienza un ricercatore è sempre sottoposto a verifiche, non esiste per definizione il posto fisso. E le istituzioni europee hanno capito l’importanza dei programmi Erasmus e di tutti i programmi di ricerca comunitari come strumento base per l’acculturamento dei giovani europei. Non dobbiamo quindi preoccuparci dell’esodo. Dobbiamo invece essere in grado di assicurare che chi vuole possa rientrare in condizioni competitive. I cervelli si perdono non perché emigrano, ma perché non abbiamo ancora saputo costruire le condizioni perché i ricercatori, gli scienziati, i medici del mondo possano trovare interessante e proficuo venire a lavorare nelle loro discipline nel nostro Paese. Questo è il nostro problema, sono poche le istituzioni di ricerca in Italia in grado di rispondere alle sfide globali del mercato scientifico. Non è un caso che Vincenzo Costanzo sia rientrato in Italia per lavorare all’IFOM, un istituito di ricerca che AIRC e FIRC hanno voluto negli anni realizzare per aprire un mercato internazionale agli scienziati, sia italiani sia stranieri, come ricorda il diretto scientifico Marco Foiani nell’intervista di pag. 22. Ricordo ancora i programmi AIRC finalizzati a fare rientrare nel nostro Paese ricercatori che abbiano avuto successo nel mondo, raccontati sul sito inviaggioconlaricerca.airc.it: si tratta ancora di episodi isolati. Ricordo la storia di Annachiara De Luca che dalla Scozia ha potuto rientrare in Italia, a Pozzuoli, per sviluppare la sua ricerca con un contratto quinquennale AIRC e che ha trovato il supporto del CNR. La vera sfida per gli anni prossimi è quindi quella di potenziare le nostre strutture di ricerca e di organizzare dei profili di carriera che siano ritagliati per favorire gli scienziati italiani che all’estero hanno raggiunto risultati consistenti. Perché il nostro Paese non sia prevalentemente luogo di emigrazione, ma sia anche luogo di ritorno.

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VITA DA RICERCATORE Vincenzo Costanzo

La ricerca oncologica si fa internazionale Da Napoli agli Stati Uniti per poi tornare in Italia, a Milano, passando dall’Inghilterra: un lungo percorso nella ricerca con una rana come inseparabile compagna di viaggio

ERC: LA RICERCA PARLA EUROPEO

L’

Europa sostiene la ricerca e lo fa anche attraverso i fondi (come quelli che hanno sostenuto i progetti di Vincenzo Costanzo) che ogni anno lo European Research Council (ERC) mette a disposizione dei ricercatori impegnati in diversi campi del sapere. Dalla biologia alla genetica, passando dalla matematica e dalle scienze informati-

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che, nel corso di circa un decennio l’organizzazione ha finanziato oltre 6.000 progetti e investito nella ricerca poco meno di 10 miliardi di euro. Ricevere il finanziamento significa vedere riconosciuto a livello internazionale il valore del proprio progetto di ricerca, ma arrivare a questo traguardo non è così semplice: l’ERC nasce nel 2007 con l’obiettivo principale di sostenere l’eccellenza nella ricerca e oggi solo il 10 per cento circa delle domande riceve una risposta positiva e il successivo finanziamento. Il motivo di tanta selettività? Soprattutto l’obiettivo primario di finanziare progetti innovativi che vengano portati avanti

sul territorio europeo, senza limiti di nazionalità o di età, ma che superino l’esame di un gruppo di esperti disposti a investire su un progetto e su una persona. E a quanto pare il sistema di selezione messo in campo funziona. Tra i beneficiari dei finanziamenti ERC ci sono ben sei premi Nobel, ultimo, ma solo in ordine di tempo, Bernard L. Feringa, vincitore assieme a due colleghi, del Nobel per la chimica nel 2016. “Un traguardo che ci riempie di orgoglio anche perché l’ERC ha visto tra i suoi beneficiari tanti Nobel nel corso di soli nove anni di vita” spiega il presidente dell’ERC Jean-Pierre Bourguignon, che poi aggiunge:


In questo articolo: IFOM ciclo cellulare ERC grant

“N

a cura di CRISTINA FERRARIO asco come medico, ma in realtà ho sempre fatto il medico solo per amici e parenti”. Si presenta così Vincenzo Costanzo, napoletano classe 1973, ricercatore dell’Istituto FIRC di oncologia molecolare (IFOM) di Milano dove dirige il programma “Metabolismo del DNA”, da un ufficio ravvivato da un divanetto rosso. D’altronde l’approdo al bancone di un laboratorio, invece che nelle corsie, sembra un destino segnato fin dall’inizio della carriera. Gli anni di formazione alla Facoltà di medicina di Napoli sono stati infatti subito caratterizzati da un interesse molto forte, una vera e propria passione, per la scienza in genere e per il DNA in particolare. È questa naturale predisposizione ad andare a cercare le cause prime delle malattie che porta lo studente Vincenzo, attraverso un internato in chirurgia oncologica prima e in patologia generale poi, verso una meta già ben definita: scoprire che cosa “si rompe” nel DNA quando comincia la trasformazione di una cellula in senso tumorale. “Capii che era importante comprendere cosa permetteva al DNA di rimanere stabile nella cellula sana e

studiai questi meccanismi di base utilizzando un sistema molto efficiente, basato sugli estratti di uova di Xenopus laevis, una rana che ancora oggi ‘mi aiuta’ nelle mie ricerche” aggiunge sorridendo Costanzo. Che cosa ha di speciale questo estratto di uova di rana? “La risposta è tanto semplice quanto affascinante” spiega l’esperto, che definisce questa sostanza come “vita liquida”. Alcuni geni presenti nelle cellule di un organismo intero sono infatti essenziali per la vita ed eliminarli per studiarne la funzione ucciderebbe l’organismo stesso. L’estratto di uova di rana contiene il patrimonio genetico della cellula di provenienza e permette di ricreare in laboratorio la maggior parte delle reazioni che normalmente avvengono nella cellula con però un vantaggio enorme: può essere manipolato senza che questo porti alla morte cellulare o addirittura dell’intero organismo.

Dagli ovociti si ottiene “vita liquida” per la ricerca

“Questo premio conferma come il sostegno dell’ERC alla ricerca innovativa in Europa sia un investimento di successo per la scienza e per l’Europa intera”. Gli investimenti non si fermano, anzi aumentano: nel 2017 l’organizzazione metterà a disposizione dei ricercatori 1,8 miliardi di euro, la cifra più alta mai raggiunta dal 2007. Un bell’auspicio per chi, come Costanzo (già beneficiario di due finanziamenti ERC), porta avanti il proprio lavoro anche grazie all’Europa. Gli scienziati italiani, infatti, risultano spesso tra i vincitori ma purtroppo, quasi nella metà dei casi, lavorano presso istituzioni all’estero.

Oltre oceano Gli Stati Uniti fanno parte da sempre della vita di Vincenzo Costanzo. “Da piccolo mi trasferii là con la mia famiglia, per seguire mio padre che era ingegnere aeronautico. Erano gli anni settanta a Seattle, era l’America bella e tecnologicamente avanzata, quella che contribuì a farmi crescere con il mito della scienza e con una grande curiosità verso i meccanismi che stanno alla base di ciò che vediamo” dice il ricercatore. E negli USA Costanzo torna presto, per portare avanti le ricerche iniziate negli anni universitari con tante estati passate nei laboratori d’oltre oceano. Dopo la laurea inizia il dottorato all’Università di Napoli, ma lo conclude a New York, lavorando alla Columbia University nel laboratorio di Jean Gautier, esperto di Xenopus e uno dei padri dello studio del ciclo cellulare, cioè dei processi che portano alla duplicazione di una cellula. “Ricordo con piacere gli anni negli Stati Uniti, dove arrivai grazie anche

all’aiuto di uno zio che viveva lì e all’amicizia con Max Gottesman, un professore della Columbia che mi prese in simpatia e al quale ogni tanto facevo da cuoco o da ‘cat-sitter’ in cambio di un divano dove dormire” ricorda Costanzo. Ma un punto fondamentale dell’esperienza a stelle e strisce è il primo di quelli che il ricercatore chiama i suoi “eureka moment”, momenti nei quali arriva l’idea che poi dà la svolta a livello professionale e forse anche personale. È sera, ci sono le luci di New York sullo sfondo e arriva l’idea che vale a Costanzo e ai suoi collaboratori numerose pubblicazioni su riviste scientifiche di primo piano: inserendo nell’estratto di ovociti di Xenopus frammenti di DNA si blocca il ciclo cellulare e non avviene nessuna replicazione. “Abbiamo così capito che il danno al DNA era servito come segnale di stop: era proprio il DNA ‘rotto’ a bloccare la macchina della replicazione cellulare” dice il ricercatore, che con questa intuizione mette a punto un sistema in vitro per studiare tutte le proteine coinvolte nella replicazione del DNA e nella risposta al danno. Tanti successi e un ambiente di lavoro ottimale, ma gli Stati Uniti co- Costanzo minciano a stare stretti a Co- in IFOM, stanzo: “A New York mi trova- l’istituto vo benissimo, ma sentivo che che ospita la mia esperienza statunitenil suo labose si era conclusa, e positivamente”. Colpa o merito anche ratorio dell’incontro con Luisa, poi diventata sua moglie, e conosciuta nel corso di un seminario tenuto a Napoli dal ricercatore: “Lei era tra il pubblico perché amica di una mia cugina” ricorda.

Il Nobel della porta accanto

Il passo successivo è dunque lasciare gli Stati Uniti, magari per tornare in Italia, ma la situazione della ricerca italiana al momento non si dimostra favorevole e così Vincenzo Costanzo si deve “accontentare” dell’Inghilterra. DICEMBRE 2016 | FONDAMENTALE | 5


VITA DA RICERCATORE Vincenzo Costanzo

Nella foto Vincenzo Costanzo insieme al gruppo che guida in IFOM

“Risposi quasi per caso a un annuncio nel quale si cercava un junior group leader per guidare un proprio laboratorio al Clare Hall Institute di Londra” ricorda lo scienziato che si trova proiettato nella realtà londinese di uno dei laboratori più all’avanguardia nella ricerca europea e mondiale. “L’esperienza inglese è stata per me enormemente importante dal punto di vista sia professionale sia personale” spiega Costanzo, che nel frattempo aveva sposato Luisa e, dopo un periodo da pendolare tra Napoli e Londra (“Tutte le hostess e i piloti della compagnia che utilizzavo ormai erano miei amici” racconta divertito) si trasferisce con la moglie in una casetta fuori dalla capitale britannica e vicina al laboratorio. Al Clare Hall Institute, il giovane ricercatore è decisamente in buona compagnia. “Condividevo gli spazi di laboratorio con Tim Hunt, Nobel per la medicina nel 2001 per i suoi studi sulla ciclina, e spesso scambiavo opinioni con Thomas Lindahl, direttore del Clare Hall e premio Nobel per la chimica nel 2015 per il lavoro sui meccanismi di riparazione del DNA. Entrambi mi avevano voluto accanto a loro sin dall’inizio. Sento di aver vissuto un sogno” confessa Costanzo, che in un ambiente tanto 1 2 3 4

stimolante e con il sostegno economico dell’ERC (vedi il box a pag. 4) ha il suo secondo “eureka moment”. Con un esperimento che combina biochimica in vitro e microscopia elettronica riesce infatti a comprendere il ruolo di molecole fondamentali per la stabilità del genoma degli organismi superiori: Rad51 e BRCA2, quest’ultimo noto perché assieme a BRCA1 predispone al tumore della mammella. Si tratta di osservazioni importanti che aprono la strada anche alla comprensione dei meccanismi d’azione di alcuni farmaci già esistenti e allo sviluppo di nuove terapie mirate. A questo punto però anche l’esperienza inglese arriva al termine. “È stato difficile decidere di lasciare un ambiente come quello in cui mi trovavo con una posizione stabile in un centro internazionale ma, un po’ per nostalgia e un po’ per il fatto che i miei migliori collaboratori a Londra venivano dall’Italia, ho deciso di ritornare”.

L’obiettivo è comprendere la stabilità del genoma

La ricerca si fa bella “In Italia c’è la bellezza in ogni aspetto della vita: nel cibo, nel clima, nella gente” spiega Costanzo, ma la bellezza da sola non può bastare. Uno degli in-

Nel 2016 vogliamo affrontare in particolare quattro grandi sfide: 1-immunità e cancro, 2-prevenzione, 3-cancro e ambiente e 4-indentificazione dei bersagli per cure mirate. Le ricerche di Costanzo rispondono alla sfida 4. Per approfondire vai su www.airc.it/sfide 6 | FONDAMENTALE | DICEMBRE 2016

centivi più forti a tornare nel Bel Paese arriva senza dubbio dalla destinazione finale, l’IFOM di Milano, una struttura di ricerca all’avanguardia che non ha nulla da invidiare a tante realtà internazionali, in cui ha anche ritrovato Lindahl come consulente scientifico. “E poi hanno giocato un ruolo importante AIRC, con la sua visione lungimirante del sostegno alla ricerca, e la Fondazione Armenise, che premia i ricercatori italiani che hanno trascorso un periodo all’estero” spiega Costanzo che nel capoluogo lombardo coordina un gruppo di quindici ricercatori focalizzati sul metabolismo del DNA. Ed è tutto italiano il terzo “eureka moment” che porta a rivelare per la prima volta la natura del centromero, una struttura posta al centro del cromosoma che si è duplicato e che è fondamentale perché il materiale genetico si distribuisca in modo corretto nelle cellule figlie. “Sono convinto che questa struttura sia fondamentale per la ricerca oncologica in quanto il suo malfunzionamento è comune a tutti i tumori” precisa prima di raccontare come lavora e come è formato il suo gruppo di ricerca. “Ci sono persone che arrivano da tutto il mondo e tutti ci rapportiamo gli uni agli altri alla pari, felici di scambiarci opinioni ed esperienze non solo professionali ma anche culturali” dice. Nostalgia dell’Inghilterra e degli Stati Uniti? “Direi di no, IFOM è l’evoluzione naturale del mio percorso e Milano è una città in crescita, una via di mezzo tra la vecchia idea di quartiere e metropoli come Londra e New York con i suoi grattacieli. Inquinamento dell’aria a parte, Milano è la città giusta per noi ora” commenta con un riferimento anche alla moglie Luisa, fisioterapista. “Resta fissa nella mia mente una frase che mi disse anni fa Tim Hunt: l’importante non è avere la risposta esatta, ma porsi la domanda giusta” conclude. “Credo che porsi sempre domande e confrontarsi con gli altri sia la chiave del successo di ogni ricerca”.


della ricerca AIRC Dalla vitamina E per la salute del fegato

I microRNA del tumore ovarico

In base ai risultati di uno studio pubblicato sulla rivista Cancer Research il nemico numero uno del carcinoma epatocellulare – tra i più comuni tumori del fegato – potrebbe essere l’alfa tocoferil succinato. “Questo derivato della vitamina E è in grado di bloccare la crescita dei tumori che presentano una mutazione in GSNOR, una proteina che ha il compito di staccare eventuali gruppi chimici contenenti azoto presenti sulle proteine” spiega Giuseppe Filomeni, coordinatore della ricerca, oggi attivo tra Roma (Università Tor Vergata) e Copenaghen in Danimarca (Danish Cancer Society Research Center). Alla base dell’azione del composto sui tumori del fegato con GSNOR mutata e quindi inattiva (circa il 50%) ci sono meccanismi detti di denitrosilazione, ovvero il distacco dei gruppi azotati dalle proteine che non funzionano più come dovrebbero e causano la proliferazione del tumore.

Piccoli frammenti di RNA che controllano l’attività dei geni possono aiutare a capire se il tumore ovarico è destinato a tornare dopo l’intervento chirurgico e il trattamento chemioterapico. Si tratta in particolare di 35 piccole molecole di microRNA identificate da tre gruppi di ricercatori italiani coordinati da Delia Mezzanzanica dell’Istituto nazionale tumori di Milano. “Grazie a un algoritmo matematico siamo riusciti a selezionare questo gruppo di microRNA, la cui associazione è strettamente collegata alla prognosi del tumore ovarico” spiega la ricercatrice, che assieme ai colleghi ha analizzato il patrimonio genetico di quasi 900 donne con questo tumore, che spesso si ripresenta dopo le iniziali terapie. In pratica, una firma molecolare di maggiore o minore rischio di ricaduta della malattia. I risultati dello studio pubblicato sulla rivista Lancet Oncology rappresentano un passo avanti anche verso la scelta di terapie mirate per il tumore ovarico: alcuni farmaci infatti funzionano meglio con i tumori più aggressivi, cioè quelli con un rischio maggiore di ricaduta.

L’antibiotico che batte il cancro La resistenza agli antibiotici, sempre più comune negli ultimi anni, ha fatto tornare in campo farmaci antimicrobici già in disuso per gli eccessivi effetti collaterali. Tra questi, le polimixine B ed E, molecole complesse dal punto di vista chimico, che potrebbero diventare importanti anche nella cura dei tumori. I ricercatori dell’Università di Pavia guidati da Andrea Mattevi assieme a quelli dell’Università La Sapienza di Roma coordinati da Alessandro Mai hanno dimostrato che queste molecole utilizzate per combattere le infezioni antibiotico-resistenti riescono a bloccare l’attività di un enzima coinvolto nell’insorgenza di alcuni tipi di tumore: l’istone demetilasi LSD1. “La speranza è che composti di origine naturale come le polimixine possano essere usati, oltre che come antibiotici classici, anche per curare malattie legate a LSD1, inclusi leucemie e tumori solidi” dice Mattevi, che ha pubblicato i risultati sulla rivista Science Advances.

... altre ricerche su: airc.it/ricerche-airc

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RICERCA Analisi dati

In questo articolo:

big data informatica biologia molecolare

Big data da distillare per carpire i segreti del cancro Centinaia di migliaia di sequenze di DNA, informazioni sui pazienti e sulle terapie: un’enorme mole di dati che rappresenta una risorsa immensa per la ricerca sul cancro, ma pone anche una serie di problemi da risolvere

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a cura di CRISTINA FERRARIO n gergo tecnico si parla di big data. Sono enormi quantità di dati che vengono prodotti e raccolti in modo ordinato grazie all’aiuto dei computer e che rappresentano una preziosa fonte di informazioni, purché si sia capaci di interrogarli nel modo giusto per distillarne le risposte desiderate. In origine queste raccolte di dati sono state usate in economia, per comprendere le tendenze del mercato e modulare di conseguenza le decisioni aziendali, ma oggi si accumulano big data praticamente in tutti i campi, dall’astronomia alla geologia e, naturalmente, anche alla ricerca medica e oncologica. Proprio in oncologia, l’analisi su larga scala dei big data è vista da molti come la base per una vera e propria rivoluzione nella cura della malattia, grazie alla possibilità di analizzare dettagli molecolari e clinici con una precisione mai raggiunta prima. “Le potenzialità legate a questi giganteschi archivi sono senza dubbio enormi, ma resta ancora molta strada da fare” spiega Pier Paolo

Di Fiore, scienziato dell’IFOM di Milano “Alcune fasi di questa rivoluzione sono già state completate, mentre altre sono ancora da definire e ci sono aspetti che vanno oltre la biologia che non possono essere trascurati, come per esempio i problemi etici e di privacy che si associano alla raccolta e all’utilizzo di dati tanto sensibili”.

Facili sequenze Per poter parlare di big data in oncologia bisogna innanzitutto avere a disposizione grandi quantità di informazioni sui tumori e sui pazienti colpiti da questi tumori. “La generazione di dati molecolari e in particolare il sequenziamento del DNA oggi non è più un problema, anzi, conoscere la sequenza di un determinato genoma è diventato relativamente semplice e poco costoso” esordisce Di Fiore. Se infatti la prima sequenza completa, ottenuta all’inizio del millennio, è costata circa tre miliardi di dollari e anni di lavoro, oggi conoscere in dettaglio l’ordine dei tre miliardi di “mattoncini” che compongono il ge-

I costi per analizzare il DNA sono ai minimi

... l’articolo continua su: airc.it/bigdata 8 | FONDAMENTALE | DICEMBRE 2016

noma umano è molto più semplice e le previsioni dicono che entro pochi anni il costo dell’intera operazione non supererà quello di altri esami medici comunemente utilizzati. Ma è davvero così importante conoscere la sequenza del DNA per arrivare a curare il cancro? “Con il sequenziamento del DNA siamo arrivati a conoscere molti geni e processi molecolari coinvolti nello sviluppo della malattia e nella sua diffusione, così come nella resistenza ai farmaci e nello sviluppo di recidive” spiega l’esperto, ricordando l’enorme mole di dati molecolari sui tumori raccolti in questi anni e oggi disponibili: “In realtà nella maggior parte dei casi i dati vengono raccolti in database (archivi informatici) privati, ma una parte di queste informazioni è pubblica e accessibile a tutta la comunità scientifica”.

Bisogna imparare a leggere i dati

I progressi in campo tecnologico e in campo biomedico hanno permesso di generare quindi una quantità impressionante di informazioni, misurate in petabyte, ovvero 1015 byte: per capire quanto velocemente si sono moltiplicate le capacità di calcolo delle macchine, basta ricordare che il computer che guidava il modulo lunare Apollo aveva una memoria centrale dell’ordine di 104 byte. La ricerca oncologica è davvero pronta a

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ià più di 50 anni fa – era il 1965 – Gordon Moore, cofondatore del colosso statunitense Intel, aveva enunciato quella che oggi è nota come la “prima legge di Moore”. Si tratta di una legge empirica, basata cioè sull’esperienza diretta, che sostiene che le prestazioni degli strumenti come i compu-


BEN OLTRE MOORE E LE SUE LEGGI

ter raddoppiano ogni due anni circa (un po’ meno secondo le più recenti versioni della legge) e contemporaneamente il loro costo si riduce. “La legge riguarda una parte del sapere umano che è esplosa come mai era succes-

so a un’altra disciplina prima dell’information technology nella storia dell’uomo” spiega Pier Paolo Di Fiore. Ebbene, con il sequenziamento del DNA ci si è spinti oltre. Nei primi anni della genomica, infatti, l’andamento

della legge di Moore è stato rispettato, ma con l’avvento delle più moderne tecniche di sequenziamento si è assistito a un incredibile abbattimento dei costi, ancora maggiore di quello previsto in teoria.

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RICERCA Analisi dati

ELEMENTARE, WATSON…

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uno strumento di analisi con un nome che è tutto un programma: si chiama Watson, come uno dei ricercatori che scoprirono la struttura del DNA, ma anche come il fedele compagno di avventure di Sherlock Holmes. E proprio come il Watson letterario creato da Conan Doyle aiutava Sherlock a risolvere le sue indagini, la moderna versione creata dalla IBM aiuterà i medici a scegliere il trattamento più adatto per ciascun paziente e lo farà in base a una enorme quantità di informazioni ricavate dalla letteratura scientifica e dai pazienti (anche dal loro DNA), ma soprattutto grazie alla sua capacità di “imparare” come muoversi all’interno dell’enorme quantità di dati oggi disponibili. Diversi enti di ricerca sul cancro stanno utilizzando questo strumento, che è solo uno degli esempi di intelligenza artificiale dedicata all’oncologia: di certo un tale aiutante può velocizzare notevolmente il processo, offrendo un contributo al medico per prendere la decisione finale.

confrontarsi con i big data? “La loro gestione è in effetti uno dei grandi problemi che dobbiamo oggi affrontare” afferma Pier Paolo Di Fiore, convinto però che la comunità scientifica si stia muovendo nella giusta direzione. “Sono molti gli investimenti nel settore della bioinformatica e dell’analisi dei dati e sono numerosi gli istituti che si stanno dedicando a questo aspetto della ricerca oncologica più moderna” dice. Serve innanzitutto creare banche dati complete e facilmente consultabili dove raccogliere i big data. L’American Society for Clinical Oncology ha dato il via all’iniziativa CanceLinQ, allo scopo di raccogliere i dati di tutti i pazienti oncologici statunitensi e renderli disponibili per le analisi; l’American Association for Cancer Research guida il progetto internazionale AACR Project Gene, nel quale i dati molecolari di migliaia di pazienti oncologici sono legati ai dati clinici; e così via, nell’ottica di creare banche dati sempre più ricche. Ma questo non basta perché poi bisogna analizzare i dati con super computer, capaci di aggiornarsi continuamente e di “imparare” come muoversi nel mare dei big data. Si parla in questi casi di intelligenza artificiale e di cognitive computing: la macchina è “addestrata” a riconoscere le informazioni e a trarre conclusioni dai dati che le vengono trasmessi. “È quello che normalmente fa un medico quando deve fare la diagnosi o deve scegliere una terapia: analizza tutti i dati a disposizione e in base a semplici algoritmi prende le sue decisioni” spiega Di Fiore, sottolineando che, grazie ai computer, questi algoritmi possono diventare sempre più complessi e la risposta finale può arrivare in tempi molto più rapidi.

Servono dati controllati Avere la sequenza del DNA e i dati di un numero sempre più ampio di pazienti è fondamentale, ma ancora non basta. L’entusiasmo delle nuove scoperte tecnologiche e delle nuove possibilità di generare dati velocemente ha fatto in un certo senso perdere di vista un aspetto fondamentale della ricerca oncologica: il significato clinico delle informazioni molecolari. “In altre parole non ci basta sapere che un certo tumore presenta una mutazione, dobbiamo collegare quella mutazione alla storia del paziente che ne è affetto per comprenderne davvero il significato” afferma Di Fiore ricordando l’importanza della qualità dei dati, non meno importante della quantità. “Avere dati di centinaia di migliaia di pazienti è senza dubbio molto utile, ma se non sono di buona qualità potrebbero risultare inutili o addirittura portarci fuori strada” spiega. Potrà sembrare paradossale, ma oggi è molto più semplice ottenere una sequenza di DNA che seguire il paziente negli anni dopo la diagnosi di tumore: spesso infatti ci si opera in un centro di eccellenza e poi si proseguono le cure in un centro più vicino a casa, e non è semplice conoscere gli esiti della terapia (ritorno della malattia, sopravvivenza eccetera). E senza queste informazioni, che devono essere raccolte secondo protocolli standard per poter poi essere confrontate, milioni di sequenze di DNA servono a poco. “Proprio sulla raccolta di dati di qualità l’Italia potrebbe trovare spazio per fare la differenza a livello internazionale” dice l’esperto. “Credo che nel sequenziamento e nell’analisi dei dati la strada sia già ben tracciata e mettersi in viaggio ora significherebbe arrivare comunque in ritardo rispetto agli altri Paesi, mentre la qualità dei dati è un campo che ancora deve essere esplorato e nel quale potremmo dare un contributo significativo”.

La quantità dei dati non è sinonimo di qualità


Domande e risposte

Ho terminato la chemioterapia per un linfoma più di sei mesi fa ma ho ancora bisogno di riposare il pomeriggio. Quando smetterò di sentirmi stanco?

L

a stanchezza (fatigue) è uno degli effetti collaterali delle chemioterapie. In genere scompare poche settimane dopo la fine del trattamento ma in alcuni casi può durare anche mesi e talvolta cronicizzare. Vi sono due fattori che concorrono a generare questa stanchezza incontrollabile: alcuni sono di tipo fisiologico e possono essere trattati dal medico con farmaci ad hoc dopo aver stabilito la causa (che può essere una grave anemia, una carenza di vitamine o di altri microelementi); altri sono di tipo psicosociali, legati all’accettazione della diagnosi e della prognosi. In quest’ultimo caso può essere utile un sostegno psicologico e un supporto per il reinserimento lavorativo.

Quanto è diffuso il cancro al seno tra gli uomini?

L’

American Cancer Society stima che quest’anno verranno diagnosticati, negli Stati Uniti, 2.600 casi di cancro al seno con 440 decessi. Si tratta quindi di una malattia 100 volte meno diffusa tra gli uomini rispetto alle donne. L’AIRTUM, l’associazione che raggruppa i Registri tumore italiani, stima che nel nostro Paese si contino circa 300 casi l’anno: una malattia rara, ma non rarissima. Anche la prognosi è diversa nei due sessi, perché nell’uomo il cancro al seno, anche a parità di diffusione al momento della diagnosi, sembra essere più aggressivo. Le ragioni possono essere duplici: da un lato spesso l’uomo è portatore di mutazioni genetiche che rendono le cellule maligne più aggressive, dall’altro spesso giunge alla diagnosi tardivamente perché non immagina neanche che i disturbi che presenta possano avere questo tipo di causa.

A 10 anni dall’introduzione, quali sono gli effetti del vaccino antiHPV?

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na recente analisi condotta da Suzanne Garland del Royal’s Women Hospital di Victoria, in Australia, ha valutato l’impatto dei 187 milioni di dosi di vaccino somministrate in 130 Paesi da 10 anni a questa parte. L’effetto è un crollo delle infezioni, ridottesi fino al 90 per cento, una riduzione delle anomalie rilevate al Pap test del 45 per cento e un calo drastico anche dei condilomi genitali (oltre il 90 per cento), provocati da ceppi di HPV non sempre compresi nella copertura vaccinale. Uno studio precedente, uscito nel mese di febbraio 2016 negli Stati Uniti, mostra una riduzione delle infezioni del 64 per cento, giustificata dal fatto che in Australia, come in Italia, la vaccinazione è stata offerta gratuitamente alle ragazze di 12 anni mentre negli USA è a pagamento ed è stata effettuata solo dal 37 per cento delle ragazze. DICEMBRE 2016 | FONDAMENTALE | 11


TEST DIAGNOSTICI Biopsia liquida

È il sangue che segnala l’esistenza del tumore La biopsia sta cambiando volto e da intervento chirurgico diventa un prelievo di sangue, riuscendo comunque a fornire informazioni importanti sulla malattia che aiutano i pazienti a stare meglio e i medici a prendere le decisioni giuste

L

a cura di DANIELA OVADIA a biopsia è l’esame più comunemente usato per fare diagnosi di tumore. Consiste in genere in un prelievo di tessuto successivamente analizzato al microscopio e rappresenta uno dei principali strumenti nelle mani dei medici per scoprire molte informazioni preziose sulla malattia. Grazie agli occhi esperti del patologo, infatti, da un pezzetto di tessuto tumorale è possibile in molti casi capire quale tipo di tumore si ha di fronte e anche quanto è aggressivo, si può verificare la presenza di particolari marcatori utili per guidare la scelta del trattamento e classificare la malattia in modo più preciso.

Ma la biopsia a volte non basta e in alcuni casi non è nemmeno possibile effettuarla. Anche se viene eseguita da un medico esperto, resta infatti un prelievo mirato, mentre il tumore è una malattia eterogenea che presenta caratteristiche diverse nelle diverse aree: può succedere quindi che il tessuto prelevato non rappresenti esattamente tutta la massa tumorale. Inoltre con la biopsia si ottiene una fotografia “statica” del tumore al momento della diagnosi, ma la malattia cambia e si trasforma nel tempo. Ci sono poi pazienti che non possono sottoporsi alla biopsia che, per quanto relativamente semplice, resta sempre un intervento chirurgico e, infine, ci sono tumori dai quali è difficile prelevare tessuto, per

A volte non è possibile prelevare i tessuti

12 | FONDAMENTALE | DICEMBRE 2016

esempio quelli che colpiscono il cervello o le ossa. LA RISPOSTA È NEL LIQUIDO La biopsia liquida, che prevede per il paziente un semplice prelievo di sangue, è in

grado di identificare in modo accurato le mutazioni del DNA che indicano la presenza del tumore tanto quanto la biopsia più classica. È quanto emerge da uno studio condotto su oltre 15.000 persone con 50 diversi tipi di tumore e presen-

MICROSCOPICHE QUANTITÀ

COME UN AGO IN UN PAGLIAIO

Q

uanto materiale biologico c’è nel sangue da utilizzare per la biopsia liquida del tumore? Non molto, anzi, in realtà davvero poco in termini quantitativi e per questa ragione è importante che la tecnologia continui a progredire per arrivare a recuperare tutti i frammenti di DNA libero, di cellule tumorali circolanti o di esosomi e altre vescicole che possono fornire informazioni utili. Ma le informazioni contenute possono essere tantissime: in un campione di 2 microlitri di plasma vi possono essere oltre 10.000 copie di DNA circolante proveniente da cellule sane, ma a volte solo poche dozzine di copie di DNA circolante di cellule tumorali. Discorso simile per le cellule tumorali circolanti: in un microlitro di sangue ce ne sono da 1 a 10, contro i circa 7.000 globuli bianchi e i circa 5 milioni di globuli rossi. Anche gli esosomi sono molto numerosi: ce ne sono miliardi in un microlitro di plasma, sia da cellule sane sia da cellule tumorali.


In questo articolo:

biopsia liquida diagnosi oncologia molecolare

tato all’ultima edizione dell’ASCO, il congresso annuale della Società americana di oncologia clinica, un appuntamento imperdibile per la comunità oncologica internazionale. E questa è solo l’ultima conferma che la nuova e meno inva-

siva forma di biopsia potrebbe aiutare in tutti i casi in cui il metodo tradizionale non è applicabile o non è sufficiente. Il test sul sangue va a cercare alcuni segnali della presenza della malattia, in particolare, piccoli frammenti di DNA che contengono mutazioni tipiche del tumore e che derivano proprio dalle cellule tumorali che muoiono o vengono distrutte, per esempio dal sistema immunitario. Si tratta di frammenti molto piccoli e poco numerosi, che in genere aumentano di numero quando il tumore è in fase più avanzata. E sono “nudi”, ovvero non sono all’interno di una cellula, ma sono liberi di circolare nel sangue: da qui il nome inglese di cell free DNA (DNA senza cellula). Oltre a questi piccoli frammenti si possono ricercare nel sangue anche le cellule tumorali circolanti che magari si sono staccate dal tumore e stanno viaggiando verso un’altra sede o gli esosomi, piccole vescicole che il tumore produce attivamente e che

poi rilascia nel circolo sanguigno. In entrambi i casi è possibile recuperare e poi analizzare il materiale genetico e, in alcuni, risalire anche a informazioni sulle proteine prodotte dal tumore. DALLA RICERCA ALLA TERAPIA I dati che si possono ottenere dalla biopsia liquida vanno anche oltre quelli che si ricavano dalla tecnica classica di analisi del tessuto prelevato dal paziente. Innanzitutto con questo nuovo esame è possibile seguire l’evoluzione genetica del tumore e, in base a ciò, modulare la terapia. Inizialmente infatti potrebbe essere presente una mutazione che spinge il medico a scegliere un determinato farmaco – magari uno diretto proprio verso quel difetto genetico – ma nel tempo potrebbero insorgere nuove mutazioni, a volte causate proprio dal trattamento che

spinge il tumore a cercare altre vie d’uscita. Ripetere più volte la biopsia classica sarebbe troppo pesante per il paziente, mentre la biopsia liquida può essere ripetuta a cadenze regolari senza grandi problemi: se l’analisi rivela una nuova mutazione si potrà modificare di conseguenza la terapia in tempo reale. Come se non bastasse, la biopsia liquida rappresenta anche un potente strumento di ricerca, dal momento che grazie a questo esame potrebbero venire alla luce mutazioni non ancora note e responsabili della progressione o dell’aggressività del tumore sulle quali lavorare per cercare nuove terapie. Tutto molto bello e promettente, ma per poter usare questa forma di biopsia bisogna sapere, per ciascun tumore sospettato, che cosa si vuole andare a cercare e quali sono i marcatori significativi tra tutti gli innumerevoli segnali contenuti in un prelievo di sangue. Per questa ragione l’esame tradizionale è ben lontano dall’andare in pensione, ma le prove che dimostrano l’efficacia della biopsia liquida sono sempre più numerose e in alcuni casi il test è già stato approvato come strumento per scegliere la terapia. In Europa è successo con il tumore del polmone non a piccole cellule e con il farmaco gefitinib: l’Agenzia europea per il farmaco (EMA) ha stabilito che se la biopsia liquida scopre una mutazione che attiva il gene EGFR, si può trattare con gefitinib che blocca proprio gli effetti di tale mutazione.

Non solo per la diagnosi ma anche per la terapia


PREMIO NOBEL Yoshinori Ohsumi

In questo articolo: premio Nobel 2016 autofagia biologia di base

Premiato il giapponese che ha scoperto l’autofagia Il meccanismo di riciclo ed eliminazione dei rifiuti cellulari ha un ruolo essenziale nel benessere delle cellule: lo ha scoperto Yoshinori Ohsumi, premiato per questo col massimo riconoscimento. Ora altri scienziati cercano di comprendere come l’autofagia sia collegata al cancro

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a cura di AGNESE CODIGNOLA iamo tutti cannibali di noi stessi. Lo sono le nostre cellule, attraverso il meccanismo dell’autofagia, termine mutuato dal greco e contenente il verbo faghein, mangiare. E lo devono essere, per garantirci un buono stato di salute dalla nascita fino all’ultimo respiro. Per questo il comitato del Nobel ha assegnato il premio per la medicina e la fisiologia del 2016 a colui che più di tutti ha contribuito a dimostrare l’esistenza del fenomeno, e a spiegarlo nei particolari, facendo vedere anche le sue implicazioni e potenzialità per la salute umana: il giapponese Yoshinori Ohsumi.

Un settore già premiato

L’autofagia in realtà non è nuova al più ambìto dei riconoscimenti, già assegnato per ben due volte a coloro che hanno posto le basi per il lavoro di Ohsumi, descrivendo fenomeni all’epoca poco chiari. La storia nasce infatti negli anni cinquanta, quando iniziano a esser descritti gli “organelli”, particelle interne alle cellule che digeriscono proteine, zuccheri e grassi. Ma si deve arrivare agli anni settanta perché il belga 14 | FONDAMENTALE | DICEMBRE 2016

Christian de Duve identifichi strutture più grandi, nelle quali sono spesso contenuti gli organelli: i lisosomi. La scoperta vale a de Duve il Nobel del 1974: per la prima volta viene posta l’ipotesi di un compartimento specializzato nello smaltimento dei rifiuti cellulari, per quella che lui stesso chiama autofagia. Gli studi continuano, e verso la fine del secolo si giunge a identificare il proteasoma, cioè il sistema che “smonta” le proteine; tale scoperta porterà al secondo Nobel, nel 2004, dato a Aaron Ciechanover, Avram Hershko e Irwin Rose. Ma il proteasoma non è attrezzato per smaltire i rifiuti e la domanda, quindi, non può che essere: è l’autofagia a svolgere questo compito?

Dai lieviti all’uomo La risposta la fornisce Ohsumi, che in un primo momento lavora sui lieviti, organismi facili da studiare, anche dal punto di vista genetico. Lo scienziato dimostra infatti, con esperimenti tanto semplici quanto chiari, che l’autofagia esiste davvero ed è supportata da un complesso sistema grazie al quale ciò che deve essere destrutturato e poi riciclato viene riconosciuto e trasportato

specificamente ai lisosomi. In seguito, nel 1992, Ohsumi descrive le proteine e tutti gli elementi che rendono possibile l’autofagia. Negli anni seguenti arriva poi la risposta che tutti aspettano: questo meccanismo è presente anche negli esseri superiori, uomo compreso (i geni coinvolti sono, al momento, 35). Spiega Francesco Cecconi, del Dipartimento di biologia dell’Università Tor Vergata di Roma, che da anni lavora sull’autofagia anche grazie a finanziamenti AIRC: “Questo Nobel, dato a ricerche veramente di base, spiega più di tante parole perché è importante finanziare la ricerca: quello dischiuso dal lavoro di Ohsuni è un intero mondo, di cui prima del 2000 si ignorava l’esistenza. E questo mondo ci aiuterà anche a sconfiggere i tumori”. Via via che l’autofagia viene disvelata, spiega il biologo, se ne capisce sempre meglio il ruolo. In generale, il sistema entra in funzione in condizioni di stress, per esempio durante il digiuno, oppure un’infezione, ma anche per assicurare la corretta maturazione degli organi in gravidanza e poi nello sviluppo e, ancora, per mantenere l’equilibrio metabolico durante tutta la vita. Per questo, un suo malfunzionamento è già stato associato a tutte le principali malattie, dal diabete a quelle neurodegenerative, fino al cancro. E da quando il cancro è entrato nel novero delle patologie che risentono dell’autofagia, si è iniziato a pensare anche a come intervenire. Chiarisce Cecconi: “L’autofagosoma (l’insieme di tutto ciò che permette l’autofagia) è regolato in maniera estremamente raffinata e complessa attraverso geni, fattori di trascrizione, RNA normali e micro e così via: tutti protagonisti sui quali si potrà intervenire in modo selettivo, visto che agire su tutto il meccanismo sarebbe probabilmente troppo pericoloso per l’equilibrio della cellula”. Ed è questo il campo in cui il gruppo sta lavorando e nell’ambito del quale ha già identificato una proteina potenzialmente molto importante, Ambra1 (vedi box).

... l’articolo continua su: airc.it/nobel2016


AMBRA 1, ALL’INCROCIO DI DUE MONDI

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l lavoro di Francesco Cecconi, nel 2014, gli ha fruttato la pubblicazione su una delle bibbie della biologia di base: Nature Cell Biology. Perché la proteina dell’autofagosoma descritta dal suo gruppo, chiamata Ambra1, è posta all’incrocio di due macchine cellulari fondamentali nel cancro: quella appunto dell’autofagia e quella della replicazione cellulare. Spiega Cecconi: “Quando è

attiva l’autofagia, la replicazione non c’è o è silente, probabilmente perché il momento è delicato e va regolato in ogni più piccolo particolare, e perché le energie a disposizione vengono dirottate sul riciclo. Ma l’equilibrio è fragile e, quando Ambra1 non funziona bene o è addirittura ferma, tutto il processo si altera e la replicazione si attiva, innescando la duplicazione cellulare”. Che sia così, del resto, lo confermano

le due proteine poste a monte e a valle di Ambra1: mTOR e c-myc, rispettivamente, entrambe ben note a chi si occupa di oncologia, importantissime e, non a caso, bersaglio di diversi farmaci antitumorali. Gli studi stanno proseguendo per capire quali tipi di anomalie di Ambra1 possano essere più pericolose e, in generale, le complesse relazioni tra la stessa, mTOR e c-myc, con lo scopo di individuare sempre più bersagli specifici in queste catene metaboliche, per fermare il cancro senza compromettere nessun altro fenomeno fisiologico.

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TERAPIE Chemio peritoneale

Un’arma più efficace per il tumore dell’ovaio Una chemioterapia infusa direttamente nell’addome può rivelarsi molto efficace in alcuni casi di tumore ovarico, ma studi recenti dimostrano che, per diverse ragioni, non è ancora entrata a far parte della pratica clinica di molti ospedali

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In questo articolo: tumore all’ovaio chemioterapia nuove cure

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a cura di DANIELA OVADIA i chiama chemioterapia intraperitoneale: è una terapia che non viene introdotta nell’organismo attraverso la circolazione sanguigna, ma viene immessa direttamente nell’addome e rappresenta una possibile risposta alla ricerca di nuove opzioni di trattamento per il tumore ovarico. Questa malattia conta circa 5.000 nuove diagnosi ogni anno in Italia e purtroppo resta ancora complessa da curare nonostante i progressi in campo chirurgico e terapeutico. Uno dei fattori che la rende così subdola è la mancanza di sintomi nelle fasi iniziali o la presenza di sintomi molto generici spesso sottovalutati: ecco perché molte delle diagnosi vengono effettuate

quando la malattia ha già dato metastasi a livello addominale. L’intervento chirurgico seguito dalla chemioterapia per via endovenosa resta l’opzione più utilizzata, ma non sempre si rivela efficace, soprattutto se con il bisturi non è stato possibile asportare tutte le cellule tumorali visibili. GLI STUDI PARLANO CHIARO Sono passati ormai 10 anni da quando la Food and Drug Administration (FDA), l’ente a stelle e strisce che si occupa della regolamentazione dei farmaci, ha emesso un comunicato speciale per sottolineare l’efficacia della combinazione della chemioterapia intraperitoneale e di quella più classica intravenosa nel trattamento del tumore ovarico. Questo


tipo di annunci da parte della FDA è piuttosto raro e sottolinea in modo inequivocabile la fiducia che gli esperti ripongono in questa terapia, considerata rivoluzionaria al tempo della pubblicazione del comunicato, basato sui risultati di diversi studi clinici e in particolare di quello chiamato GOG-172. Per le donne che oltre alla chemioterapia classica si erano sottoposte anche a quella intraperitoneale si allungava in effetti il tempo di sopravvivenza di oltre un anno rispetto a quanto osservato per quelle che invece avevano utilizzato solo la chemioterapia per via endovenosa. Studi più recenti hanno inoltre dimostrato che, grazie alla

combinazione dei due tipi di trattamento, il rischio di mortalità si riduce del 23 per cento. Anche nel corso del più recente congresso della American Society of Clinical Oncology (ASCO), nel mese di giugno scorso, sono stati presentati dati sull’efficacia del trattamento intraperitoneale, capace di controllare meglio della sola chemioterapia endovenosa la malattia e di allungare la vita alle pazienti, con una sopravvivenza significativamente più lunga. Non tutto però è così positivo: il trattamento è infatti gravato da effetti collaterali che lo rendono inadatto ad alcune pazienti.

Se tollerata allunga la vita delle pazienti

SISTEMA SANITARIO NAZIONALE

LA TERAPIA INTRAPERITONEALE IN ITALIA

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nche se, sulla base degli studi, la terapia intraperitoneale per il carcinoma ovarico avanzato non è ancora molto diffusa, in Italia non mancano i centri nei quali il trattamento è disponibile. Elencarli tutti su carta è impossibile, ma per una ricerca mirata può essere utile consultare il Libro bianco dell’oncologia italiana, pubblicato dalla Associazione italiana di oncologia medica (AIOM) nel quale è presente un elenco aggiornato dei centri di eccellenza nella cura del cancro presenti sul territorio nazionale (librobianco.aiom.it). Nel sito non è disponibile l’informazione specifica relativa al trattamento intraperitoneale, ma sono elencate comunque numerose strutture alle quali è possibile rivolgersi direttamente per avere informazioni dettagliate e che dispongono in genere dei trattamenti più all’avanguardia.

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TERAPIE Chemio peritoneale

ANCORA QUALCHE DUBBIO Il termine intraperitoneale si riferisce al fatto che la terapia arriva in contatto con il peritoneo, una sottile membrana che riveste tutto l’addome e dove si localizzano le metastasi del tumore ovarico, ancor prima di raggiungere le sedi più lontane dall’organo di origine. C o m e funziona in pratica la chemioterapia intraperitoneale? Il processo di somministrazione non è molto diverso da quello usato per la dialisi intraperitoneale, una tecnica utilizzata nei pazienti con insufficienza renale. Si tratta di inserire un tubicino attraverso una speciale “porta” creata proprio nella parete addominale. Tramite questo catetere la TERMINOLOGIE

UN LAVAGGIO ANTICANCRO

L’

espressione chemioterapia intraperitoneale si utilizza anche per indicare una tecnica che a volte viene definita semplicemente “lavaggio intraperitoneale”. Si tratta di una procedura utile per trattare i tumori del peritoneo – la sottile membrana che riveste la parete addominale e gli organi in esso contenuti – anche quando non si tratta di malattia primaria (mesotelioma), ma di metastasi di altri tumori (soprattutto colon e ovaio).

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chemioterapia può arrivare direttamente al tumore nella regione addominale senza dover passare dal sangue, può rimanerci più a lungo e in concentrazioni molto elevate, impossibili da somministrare con la tecnica endovenosa classica. Guardando i risultati degli studi, non sembrano esserci grandi ostacoli alla diffusione di questo trattamento, eppure la tecnica è ancora poco utilizzata: meno del 50 per cento delle pazienti idonee al trattamento la riceve. E la percentuale è probabilmente più bassa in molti ospedali, dal momento che i dati riportati sono stati ottenuti valutando centri di eccellenza oncologica statunitensi. I motivi della scarsa diffusione? Soprattutto gli effetti collaterali, sicuramente più pesanti di quelli già difficili da sopportare della chemioterapia per via endovenosa, e che costringono spesso le pazienti a interrompere il trattamento prima del completamento dei sei cicli previsti, riducendo così l’efficacia della cura. Per somministrare i far-

maci in questo modo è inoltre necessario che il catetere resti in sede a lungo e ciò può essere veicolo di infezioni. Inoltre, per poter effettuare la terapia intraperitoneale è necessario che il tumore originale sia stato rimosso in modo ottimale con la chirurgia (ovvero che ne restino solo frammenti inferiori a 1 cm), che la paziente abbia una buona funzionalità renale, buone condizioni di salute generale e che l’intervento iniziale abbia lasciato poche cicatrici e poche “aderenze” intraperitoneali, altrimenti la chemioterapia non raggiunge tutte le zone che devono essere trattate. Questi fattori, insieme alla scarsa esperienza di molti centri, non permettono al momento alla chemioterapia intraperitoneale di diventare il trattamento di prima scelta nel tumore ovarico avanzato benché molte linee guida, tra cui quelle dell’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM) la raccomandino per tutte le pazienti che, dopo l’intervento chirurgico, presentano ancora un residuo di malattia.

Non ci devono essere aderenze nel peritoneo

In questo intervento viene introdotta nell’addome una soluzione contenente il farmaco chemioterapico che così raggiunge direttamente e in concentrazioni particolarmente elevate le cellule tumorali e che viene tolto solo dopo circa 90 minuti. Il liquido viene anche riscaldato a 42 °C – si parla infatti di ipertermia o terapia ipertermica – poiché il calore danneggia il tumore e rende più efficaci alcuni farmaci. Resta però un intervento estremamente complesso, che dura molte ore e prevede una degenza lunga e probabili complicazioni. Per questo è importante discuterne tutti i dettagli con il medico.


TUMORI PEDIATRICI Effetti a lungo termine

Un percorso per gli ex piccoli pazienti Anche dopo molti anni dal termine delle terapie per un tumore diagnosticato in tenera età, i segni dei trattamenti ai quali ci si è sottoposti possono complicare la vita quotidiana. Conoscerli è il modo migliore per tenerli sotto controllo

a cura di CRISTINA FERRARIO ungo-sopravviventi da tumore pediatrico: dietro questo nome tecnico piuttosto brutto si nasconde però una bella realtà, cioè la possibilità per molti bambini che ricevono una diagnosi di cancro di vivere una vita lunga e piena di soddisfazioni nonostante la malattia che ha interrotto – solo momentaneamente – la loro infanzia o adolescenza. Grazie ai continui progressi nelle terapie e alle sempre più raffinate armi a disposizione dei medici, oggi tre bambini su quattro escono vincitori dalla sfida contro il

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cancro e questo dato si traduce in un numero sempre crescente di persone guarite, ovvero libere dalla malattia e dai trattamenti a cinque anni dalla diagnosi. Sono circa 1.100 ogni anno solo in Italia, dove si stima che siano presenti circa 25.000 persone trattate per un tumore in età pediatrica, la metà delle quali ormai è entrata di diritto tra i giovani adulti avendo raggiunto o superato i 25 anni di età. Il tumore e i suoi trattamenti, però, possono lasciare segni che si manifestano anche a distanza di anni dal termine delle terapie, costringendo medici ed ex pazienti a tenere sempre gli occhi bene aperti.

RICERCHE

CCSS: UNA MINIERA DI INFORMAZIONI

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l Chilhood Cancer Survivor Study (CCSS) rappresenta ormai da oltre 20 anni una fonte insostituibile di dati che aiuta gli esperti a comprendere meglio gli effetti avversi tardivi dei trattamenti di un tumore pediatrico, a migliorare la sopravvivenza dei piccoli pazienti e a minimizzare gli effetti negativi delle cure oncologiche sulla salute. Greg Armstrong, del St. Jude Children’s Research Hospital di Menphis (Stati Uniti) guida la cordata dei centri che partecipano al progetto, elencati assieme ai dettagli dello studio nel sito web dedicato a questa indagine (ccss.stjude.org). Lo studio è partito nel 1994 arruolando oltre 14.000 sopravvissuti a tumore pediatrico diagnosticato tra il 1970 e il 1986 e, come controlli, circa 4.000 loro fratelli e sorelle, ma si è evoluto per restare al passo con gli enormi cambiamenti terapeutici degli ultimi decenni: al gruppo iniziale sono stati aggiunti circa 10.000 pazienti ai quali è stato diagnosticato un tumore tra il 1987 e il 1999 e circa 1.000 controlli. Arrivano da questo studio molte informazioni che hanno guidato e guidano le Nel 2016 vogliamo affrontare in particolare quattro grandi sfide: scelte dei medici in termini di 1-immunità e cancro, 2-prevenzione, 3-cancro e ambiente follow up e di raccomandazioni e 4-indentificazione dei bersagli per cure mirate. Queste ricerche rispondono ai pazienti, nonché gli spunti per nuovi studi. alla sfida 2. Per approfondire vai su www.airc.it/sfide

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TUMORI PEDIATRICI Effetti a lungo termine EFFETTI TARDIVI SUL CORPO… Se il rischio che il tumore originario si ripresenti diminuisce nel tempo, con il passare degli anni aumenta la probabilità che compaiano quelli che gli esperti chiamano “effetti collaterali tardivi”, una serie di disturbi che possono colpire dal punto di vista sia fisico sia psicologico chi ha superato un tumore pediatrico. Elencarli tutti nel dettaglio o prevederli con precisione è molto difficile dal momento che il tipo di effetto collaterale dipende da diversi fattori e in particolare dal tipo di tumore diagnosticato, dal tipo

di trattamento e dalle caratteristiche del piccolo paziente. “Per esempio, numerosi studi clinici hanno dimostrato che i sopravvissuti a un tumore pediatrico hanno un maggior rischio di svilupparne un altro (diverso dal primo), con chem i o t e r ap i a e radioterapia utilizzate per curare il primo cancro nel ruolo di principali indagate per lo sviluppo di questi tumori secondari” spiega Carmelo Rizzari, responsabile del Reparto di emato-oncologia pediatrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza, uno dei più noti nel campo dell’oncologia pediatrica. “Ma ci sono anche complicazioni che riguardano altri organi,

Ogni caso presenta un’evoluzione particolare

INIZIATIVE

UN PASSAPORTO DAVVERO SPECIALE

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i chiama survivorship passport e nasce dall’idea di creare un documento standard in tutta Europa che accompagni le persone che hanno avuto un tumore in età pediatrica nel viaggio della vita. “È un documento nel quale vengono raccolte informazioni dettagliate – tipo di tumore, caratteristiche cliniche e biologiche, trattamenti ricevuti eccetera – sulla storia di malattia di ciascun bambino che ha terminato il percorso terapeutico per lui previsto” spiegano dall’Ospedale Gaslini di Genova, dove opera Riccardo Haupt, uno dei responsabili del progetto. E oltre alle informazioni su quanto è stato fatto in termini di terapia e indagini cliniche o genetiche, il passaporto contiene anche raccomandazioni su quali esami effettuare negli anni per diagnosticare i possibili effetti collaterali tardivi dei trattamenti e su quali comportamenti adottare per cercare di prevenirli o comunque tenerli sotto controllo. Con questo passaporto sempre a portata di mano, per tutti i pazienti che hanno superato un tumore in età pediatrica sarà possibile muoversi con maggiore sicurezza negli anni della vita adulta.

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In questo articolo: tumori pediatrici sopravvivenza effetti collaterali

in particolare cuore, polmoni e reni che possono essere danneggiati dai trattamenti oncologici, o gli organi riproduttivi colpiti magari da radiazioni o asportati per eliminare il tessuto tumorale”. La radioterapia nella regione testa-collo può creare danni alle cellule cerebrali che possono tradursi in problemi cognitivi o di apprendimento, soprattutto se effettuata nelle fasi più precoci della vita, e gli effetti negativi si possono far sentire anche sull’ipofisi, con il conseguente squilibrio nella produzione di ormoni, inclusi quelli sessuali e l’ormone della crescita. Uno sviluppo fisico armonico può anche essere influenzato in negativo dai trattamenti radioterapici a ossa e muscoli che possono causare disturbi come la scoliosi o da

alcuni farmaci steroidei con un effetto diretto sulla formazione dell’osso, che potrebbe risultare più debole e soggetto a osteoporosi dopo il trattamento. … E SULLA MENTE Quello finora descritto è un quadro decisamente complesso che si complica ancora di più se ai problemi fisici si aggiungono quelli che colpiscono la vita sociale e lo sviluppo psicologico di una persona colpita da tumore in età pediatrica. In alcuni casi in realtà chi ha superato un tumore si sente più forte, mostra un grande senso di attaccamento alla vita e una grande fiducia nella scienza e ha meno paura di ammalarsi rispetto a chi è sempre stato bene. A volte però adolescen-


FERTILITÀ

PENSARE AL FUTURO ti e giovani adulti sopravvissuti al cancro sviluppano disturbi psicologici ed emotivi che includono ansia, depressione, paura del ritorno della malattia e addirittura possono portare a effetti simili a quelli sperimentati dai veterani che tornano dalla guerra e sono vittime del cosiddetto disturbo da stress posttraumatico. Tutte queste condizioni si ripercuotono sulla qualità della vita sotto diversi aspetti: in alcuni casi tengono lontani gli ex pazienti da dottori e ospedali, diminuendo la possibilità di identificare per tempo gli effetti collaterali tardivi, mentre in altri casi sono alla base di un isolamento sociale e psicologico che non permette di godere della vita dopo la malattia. Che fare di fronte a que-

sto scenario? “La prima cosa è senza dubbio tenere a mente che non è detto che gli effetti collaterali tardivi si manifestino nel corso della vita: molti pazienti oncologici pediatrici sono diventati adulti sani, hanno un lavoro e una famiglia” afferma Rizzari. “Ma è comunque considerato necessario seguire un programma articolato di controlli che devono essere pianificati su misura per ciascun caso”. Da qui l’importanza di rivolgersi a un centro di eccellenza con grande esperienza in oncologia pediatrica e che disponga di tutte le strutture e le conoscenze necessarie per seguire il piccolo malato in un percorso che, se necessario, può durare tutta la vita.

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na delle preoccupazioni dei giovani adulti che hanno già dovuto fare i conti con un tumore riguarda la fertilità e la possibilità di avere figli. Molte delle terapie utilizzate per curare i tumori hanno un impatto negativo diretto o indiretto sul sistema riproduttivo, ma le buone notizie in questo delicato ambito non mancano. Innanzitutto, numerosi studi hanno chiarito i dettagli del legame tra terapie oncologiche e fertilità: sono ben noti i farmaci e i trattamenti che più influenzano la possibilità di concepire e dare alla luce un figlio e di conseguenza si cerca di evitare o comunque ridurre il loro impiego nei casi pediatrici. Un esempio su tutti sono i cosiddetti “agenti alchilanti” noti per la loro capacità di danneggiare la fertilità. E quando alcuni trattamenti che mettono a rischio la possibilità di avere un figlio sono inevitabili, si può ricorrere, prima della terapia, a una serie di strategie quali il prelievo e il congelamento di sperma e cellule uovo. Sono procedure complesse anche dal punto di vista emotivo e psicologico, che dovrebbero sempre essere discusse con il piccolo paziente, o con i genitori, e con l’équipe medica.

PERCORSI PERSONALIZZATI Esistono anche in Italia centri che dispongono di ambulatori specializzati per seguire questa popolazione particolare, e sempre più numerosa, di ex pazienti per la quale non basta un oncologo. Serve anche un gruppo di specialisti che sappia leggere e riconoscere con prontezza gli eventuali segni di una terapia effettuata anni prima e sappia gestire anche le problematiche meno “fisiche” ma non meno importanti per la qualità della vita. Qual è la strategia vincente per tenere alla larga o ritardare gli effetti collaterali tardivi? La stessa che tutti dovrebbero far propria: adottare uno stile di vita sano, ovvero mangiare sano, evitare il fumo, l’abuso di alcol, l’esposizione eccessiva al sole e la sedentarietà, spesso anticamera del sovrappeso e di problemi metabolici. DICEMBRE 2016 | FONDAMENTALE | 21


IFOM – ISTITUTO FIRC DI ONCOLOGIA MOLECOLARE Strategie

Nuove tecnologie e multidisciplinarietà i segreti di un successo L’Istituto FIRC di oncologia molecolare è diventato maggiorenne. Fondato 18 anni fa grazie alla lungimiranza di FIRC, è oggi un fiore all’occhiello della ricerca italiana

IFOM, l’Istituto di oncologia molecolare che svolge attività scientifica d’avanguardia a beneficio dei pazienti oncologici è sostenuto dalla Fondazione italiana per la ricerca sul cancro-AIRC, attraverso lasciti testamentari (vedi p. 31).

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In questo articolo:

ricerca scientifica strategie internazionalizzazione

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a cura della REDAZIONE el corso della sua esistenza IFOM si è adattato al rapido cambiamento che caratterizza la scienza, modificando le proprie strategie ma sempre con un unico obiettivo: collaborare al grande sforzo internazionale per trovare terapie sempre più efficaci nella cura del cancro. Fondamentale ha parlato con il direttore scientifico Marco Foiani per fare un bilancio di quanto svolto finora e per pensare al futuro. Qual era il suo obiettivo quando ha preso in mano IFOM e che cosa è riuscito a realizzare? Quando sono diventato direttore scientifico volevo puntare su due aspetti importanti: l’internazionalizzazione e la multidisciplinarietà. Ambedue erano già stati portati avanti da chi mi aveva preceduto ma negli ultimi anni sono diventati una realtà matura. Oggi IFOM non solo collabora con istituti stranieri, ma ha anche vere e proprie sedi all’estero. E in IFOM lavorano biologi, chimici, matematici, fisici e informatici. IFOM, con le sue scoperte, ha un impatto diretto sulla vita dei malati? Certamente! L’esempio più evidente è nella diagnostica molecolare. In IFOM è nata la COGENTECH, uno spin-off che da anni monitora il DNA di pazienti con rischio elevato di sviluppare tumori ed esegue circa 2000 test l’anno per i geni BRCA 1 e 2, quelli che predispongono al cancro al seno. Grazie allo sviluppo tecnologico oggi possiamo testare

il DNA nel sangue ma anche quello estratto da tessuti solidi, per esempio per valutare l’evoluzione genetica del tumore durante un trattamento. In un futuro speriamo prossimo potremo testare il DNA delle cellule tumorali circolanti grazie a un apparecchio messo a punto dai nostri collaboratori a Singapore e in grado di estrarre da una piccola quantità di sangue anche 10 cellule tumorali circolanti, separandole da quelle sane. Quindi lavoriamo nella diagnostica sequenziando i tumori ereditari, i tumori solidi e le cellule circolanti. In IFOM si studiano nuovi farmaci contro il cancro? Io penso che di farmaci anticancro ce ne siano già tanti, ma di molti non sappiamo perché a volte funzionano e a volte no. Alcuni gruppi in IFOM lavorano sui meccanismi d’azione di farmaci già esistenti per permetterci di usarli meglio. Una strategia importante è anche il riposizionamento di vecchi farmaci in ambito oncologico: ci sono molecole che sono state studiate per altre ragioni (come l’antidiabetico metformina) che si sono rivelate utili nel contrastare i tumori. Grazie alle tecnologie disponibili in IFOM, i nostri ricercatori possono testare sulle cellule tumorali fino a 30.000 diverse sostanze note, per identificare quelle che funzionano contro la malattia. Grazie a questo approccio combinato farmacologico e genetico i tempi di sviluppo di un nuovo farmaco si sono notevolmente accorciati. IFOM ha investito in questo settore assumendo dei chimici genetisti capaci di fare questo tipo di analisi.

C’è qualcosa su cui ha puntato ma che non ha riscosso il successo sperato? Abbiamo avuto qualche delusione sul piano dell’interazione con gli ospedali e i clinici. All’inizio anch’io pensavo, come molti, che la figura del medico-ricercatore potesse risolvere alcuni problemi legati alla trasferibilità delle scoperte al letto del malato, ma la ricerca contro il cancro sta diventando così complessa che non sempre è possibile indossare i due camici nello stesso tempo. La collaborazione funziona meglio se le persone sono due e se lavorano sulla base di una forte intesa personale. Tra l’altro noi siamo una realtà non profit, mentre molti ospedali devono oggi fare i conti con una logica legata al numero di prestazioni e ai bilanci, e questo anche quando sono all’interno del Sistema sanitario nazionale. Il segreto, secondo me, sta in una buona comunicazione tra il laboratorio e la corsia e su un comune interesse scientifico.

mo due grandi filoni di ricerca: quello che si occupa del metabolismo dei cromosomi (e studia la rottura e la riparazione degli stessi) e quello di biologia cellulare e trasmissione del segnale, che studia la comunicazione tra cellule. Ma i due gruppi non sono separati, c’è continuamente interazione. IFOM è una delle poche realtà italiane che attrae ricercatori stranieri. Qual è il segreto? Reclutiamo i ricercatori migliori anche dall’estero. Ci aiuta il fatto che Milano è diventata una città internazionale che può attrarre anche uno straniero, ma anche la scelta di inserire in IFOM personale amministrativo che parla la lingua dei nuovi arrivati e che li aiuta in tutte le faccende pratiche, dalla casa alla scuola dei figli fino all’inserimento lavorativo del coniuge. Abbiamo un asilo nido interno e una foresteria per i soggiorni brevi. È così che fanno i centri di ricerca all’estero e se vogliamo attrarre i migliori non possiamo essere da meno. Poi investiamo all’estero per avere un ritorno in Italia. Abbiamo laboratori a Singapore, in India e presto in Giappone e questo attrae naturalmente ricercatori da quei Paesi che vengono a Milano a completare il loro percorso: nel mio laboratorio, per esempio, lavorano 6 persone di origine asiatica, e io posso contare sulla loro formazione multidisciplinare.

Ogni scienziato sceglie il proprio settore

Che ruolo ha la ricerca di base? Molti dei nostri ricercatori studiano i processi fondamentali delle cellule ma è chiaro che lo scopo finale è curare il cancro, anche quando sis studia un meccanismo di base. I risultati arrivano ai pazienti grazie alla maturazione dei singoli programmi di ricerca, che può richiedere anni. Purtroppo i tempi non si possono accorciare. Abbia-

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BORSE DI STUDIO In Italia e all’estero

In questo articolo: borse di studio iCARE formazione

Tutte le opportunità per formarsi in oncologia Grazie a un cofinanziamento europeo, AIRC ha affiancato alle sue classiche borse di studio anche le borse iCARE per la mobilità dei giovani ricercatori

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a cura della REDAZIONE on era “fuggito” molto lontano Giovanni Germano che, dopo la laurea in biologia a Perugia e una lunga parentesi milanese, ha lasciato l’Italia per la Svizzera e ora è tornato nel Bel Paese anche grazie a una borsa di studio iCARE cofinanziata da AIRC e dall’Unione Europea. “A Milano ho incontrato la ricerca con la R maiuscola” dice il ricercatore in forza prima al gruppo di Luisa Lanfrancone all’Istituto europeo di oncologia e poi a quello di Alberto Mantovani all’Humanitas di Rozzano. “Dopo l’esperienza milanese molto positiva volevo farmi le ossa all’estero e ho scelto la Svizzera anche per rimanere più vicino a mia moglie, neurologa a Milano” spiega. Il viaggio di ritorno verso l’Italia lo porta a Candiolo, vicino a Torino, nel gruppo di Alberto Bardelli di cui ha subito apprezzato la passione per la ricerca

e con il quale ha definito il progetto finanziato da AIRC. “Studiamo il tumore del colon retto e come il microambiente riesce a influenzare le cellule tumorali”, e mentre racconta, ricorda l’importanza del sostegno di AIRC e la selezione basata sul merito che guida le scelte dell’Associazione: “Mi hanno voluto conoscere come persona e come scienziato e il risultato del nostro lavoro viene controllato regolarmente” dice.

Controlli regolari sui risultati ottenuti

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Le borse di AIRC/FIRC Germano è uno dei 26 ricercatori titolari di una borsa biennale iCARE (International Cancer Research Fellowships), cofinanziata con l’Unione Europea. Si tratta di finanziamenti per italiani che vogliono andare a formarsi all’estero oppure che rientrano dall’estero in Italia o per stranieri che vogliono venire a fare ricerca nel nostro Pae-

se. iCARE può contare su fondi che AIRC ha ottenuto nel 2014, per la seconda volta, nell’ambito del Settimo programma quadro dell’Unione Europea per lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica. Ottenere un cofinanziamento dall’Unione Europea è tutt’altro che facile: servono infatti caratteristiche particolari, come un processo di valutazione di alta qualità e una notevole attenzione agli aspetti etici della ricerca. L’Europa ha riconosciuto il rigore e la trasparenza di AIRC nell’assegnare i fondi agli scienziati più competitivi e meritevoli, ritenendo AIRC un’associazione seria, competente e affidabile. L’obiettivo del programma iCARE è favorire la mobilità dei giovani ricercatori e contribuire alla loro formazione in ambito oncologico nei centri di eccellenza mondiali, offrendo loro ottime condizioni contrattuali. Oltre a svolgere un progetto scientifico sotto la costante guida di un mentore, i borsisti hanno la possibilità di apprendere anche gli aspetti più manageriali e amministrativi della ricerca oncologica attraverso la partecipazione a workshop e attività di formazione specifici. Oltre alle borse iCARE, al momento sono attive 156 borse AIRC-FIRC, di cui 7 per l’estero e 149 per l’Italia. Le borse per l’Italia durano da uno a tre anni, quelle per l’estero un anno. Le prime sono nate per consentire ai più giovani di imparare le basi della ricerca. Le borse triennali assorbono la maggior parte delle risorse destinate alla formazione per i più giovani poiché garantiscono ai ragazzi un tempo sufficientemente lungo per costruire solide


basi e diventare ricercatori. Per raggiungere risultati di valore è però fondamentale respirare aria nuova, visitare altri Paesi, venire a contatto con ambienti diversi: perché la scienza utilizza, sì, un linguaggio comune, ma si basa su interazioni e collaborazioni tra scienziati di tutto il mondo. Per questo FIRC mette a disposizione borse di studio annuali per giovani ricercatori che desiderano fare un’esperienza di formazione all’estero. AIRC garantisce la selezione più seria e trasparente possibile: tutte le candidature sono valutate da almeno tre revisori (la composizione della commissione è variabile e comprende revisori internazionali e membri del Comitato tecnico scientifico di AIRC a seconda del bando). I revisori scrivono un commento e danno un punteggio al curriculum del candidato, alla qualità dell’istituzione ospitante e al progetto. Tra i criteri di valutazione ci sono: la rilevanza del progetto per la ricerca sul cancro; l’esperienza del capolaboratorio; il potenziale formativo sia nella ricerca sia in abilità complementari, come la scrittura di progetti e l’etica della ricerca. La mobilità da un laboratorio a un altro in regioni diverse è considerata un plus.

preclinica ma non trascurando l’attività assistenziale. Non avrei potuto essere un medico oncologo se non avessi avuto la passione per la ricerca” dice Stucci. “Grazie ad AIRC, da giovane medico ho potuto proseguire i miei studi di ricerca preclinica presso il Laboratorio di oncologia molecolare diretto da Francesco Silvestris (direttore dell’Oncologia medica all’Università degli Studi di Bari). Il mio scopo è comprendere i meccanismi immunologici che contribui-

Viaggiare è una necessità per diventare ricercatori

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scono alla malattia ossea nel mieloma” aggiunge. E ancora: “I criteri di selezione per queste borse sono molto severi e, grazie al contribuito dei miei mentori e colleghi, ho raggiunto questo traguardo che mi dà la possibilità di affrontare con serenità il futuro prossimo. L’impegno è ricambiato dalla soddisfazione per i risultati al bancone del laboratorio, ma anche dal sorriso guadagnato al letto del paziente. Sostenere la ricerca è un atto di bene: permette a chiunque, anche a chi fa solo una donazione, di essere protagonista dei progressi scientifici e AIRC dà questa possibilità”.

IL SOSTEGNO DELLE AZIENDE

a possibilità di finanziare borse di studio è una delle modalità di partnership più richieste dalle aziende che sostengono AIRC, all’interno del programma AIRC Aziende. Tra le 4.000 imprese donatrici alcune hanno deciso di dare il proprio nome a Borse e seguire il percorso dei ricercatori nel tempo. Hard Rock Cafè e Starwood Hotel sono state le pioniere, imitate da altri importanti brand come Nuvenia e ILMeteo.it. Hanno aderito con entusiasmo anche AIGC Associa-

zione Italiana Centri Giardinaggio, Codital, Site e Paytipper. Spesso dietro questa decisione dell’azienda c’è una forte partecipazione dei dipendenti che sono il motore di progetti sociali che motivano i team aziendali. Per attivare progetti aziendali: partnership@airc.it

Tra corsia e laboratorio

Stefania Stucci, laurea in medicina e specializzazione in oncologia, è un buon esempio di questa strategia. È infatti tra i destinatari di una borsa triennale AIRC. “Fin da quando preparavo la tesi di laurea mi sono avvicinata al bancone del laboratorio assaporando il piacere della ricerca

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VIAGGIO DENTRO AIRC Missione possibile / 4

In questo articolo:

area gestione e controllo ufficio IT servizi generali

Numeri, computer e servizi a sostegno della ricerca La generosità dei 4,5 milioni di sostenitori, delle imprese e delle scuole che sostengono AIRC si traduce in un patrimonio economico e di dati che viene gestito quotidianamente con la stessa grande trasparenza che caratterizza tutto il lavoro dell’Associazione

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a cura della REDAZIONE on ci sono solo arance e azalee e campagne di comunicazione dirette a vecchi e nuovi soci. Nella grande e complessa macchina rappresentata da AIRC hanno un ruolo di primo piano anche attività che, almeno a prima vista, potrebbero sembrare lontane dalla missione dell’Associazione, ovvero il sostegno dei ricercatori e dei loro progetti per combattere il cancro: l’amministrazione finanziaria, la gestione dei fondi e degli acquisti e i servizi informatici. Le aree dell’Associazione che incontriamo oggi lavorano in modo trasversale con tutte le componenti di AIRC, fornendo un supporto e un aiuto costante con l’obiettivo primario di garanti-

re che tutto ciò che arriva dai donatori venga organizzato e gestito nel modo migliore.

Parola d’ordine è trasparenza

“Una volta la gestione finanziaria di AIRC era molto più semplice e aveva cadenza semestrale: la liquidità raccolta veniva investita a brevissimo termine per poi finanziare i progetti di ricerca e le borse di studio approvati dal Consiglio direttivo. Oggi invece, grazie alle generose donazioni, ci troviamo a gestire un patrimonio rilevante che ha cambiato completamente lo scenario”. Esordisce così Renato Ceccarini, dirigente GESTIONE dell’area am-

E CONTROLLO DEI FONDI

RACCOLTA FONDI E COMUNICAZIONE

ministrazione di AIRC, che spiega come lo spirito che anima il lavoro dell’Associazione sia presente anche a livello di fatture, resoconti e bilanci. Grazie a una gestione da sempre attenta anche alla reputazione, si è arrivati negli anni a un equilibrio tra le risorse disponibili e quelle impegnate, un’impresa non semplice ma di successo grazie a una gestione attenta, oculata e diversificata di consistenti somme di denaro. E il bilancio di esercizio annuale è uno degli esempi più lampanti della trasparenza che sta alla base di AIRC e del suo operato. “Il lettore del nostro bilancio può, in un colpo d’occhio, seguire l’andamento di ogni iniziativa di raccolta fondi realizzata nell’anno e confrontare i proventi netti con quanto realizzato l’anno prima” spiega Ceccarini, che poi prosegue: “Può sembrare poco, ma in realtà è un passo nella direzione giusta verso un obiettivo che noi abbiamo ben chiaro: rendere comprensibile e fruibile a tutti il bilancio, sia quello legale sia quello sociale, che da anni pubblichiamo sul nostro sito”.

Pianificare con attenzione e seguire le procedure

“Facciamo le gare persino per comprare le matite” si lamentano bonariamente dagli uffici. “Certo che le facciamo e tutti i passaggi devono seguire per filo e per segno le procedure concordate” ribatte sempre con il sorriso Anna Tortora, a capo dell’Unità pianificazione e controllo degli acquisti – o PICA (ribattezzato Pikachu dai colleghi, con tanto di Pokémon che fanno capolino da ciascun computer dell’ufficio) – che ha il compito di controllare che chiunque stia utilizzando i fondi AIRC per un acquisto lo faccia secondo le procedure uffiEROGAZIONE ciali stabilite in preceDEI FONDI denza e approvate dal Consiglio. “Il nostro ufficio non ha alcun potere deci-


Da sinistra: Manuela Marconi, Marco Varisco, Raffaella De Zen, Carlotta Marzano, Lina Crisopulli, Azzurra Robbioni, Mattia Beraldo

sionale, ma funge da supervisore e da garante che i fondi per gli acquisti siano utilizzati nel modo più corretto” spiega la responsabile, sottolineando come questa impostazione sia ulteriore garanzia di neutralità. E quando si parla di acquisti lo si fa a 360 gradi, includendo un vero e proprio esercito di articoli, che vanno dalle arance da distribuire nelle piazze per raccogliere fondi ai computer per gli uffici o al servizio di stampa per Fondamentale. “Il nostro lavoro di costante supervisione serve a garantire il servizio migliore al giusto prezzo nella più completa trasparenza” continua Tortora. Una trasparenza e una puntigliosità che si ritrovano anche in altre mansioni svolte dall’ufficio, come per esempio la pianificazione degli acquisti basata sulla raccolta e la valutazione di tutti i dati disponibili prima dell’approvazione finale da parte del Consiglio. “Siamo talmente pignoli che giustifichiamo anche ogni singolo spostamento dal budget originale per tenere traccia di tutte le modifiche di spesa e delle ragioni che le hanno causate” conclude la responsabile.

Milioni di soci, miliardi di dati

A volte è già complesso gestire una rubrica telefonica di lavoro, figuriamoci quanto può essere complesso gestire le informazioni relative a oltre 11 milioni di anagrafiche, senza contare i volontari, le aziende finanziatrici, i fornitori eccetera. Raffaella De Zen, responsabile del servizio IT/DB (information technology / database) è la regista che, assieme ai suoi collaboratori, aggiorna e tiene sotto controllo questa enorme mole di dati. “Sono miliardi di informazioni che arrivano da canali anche molto diversi tra di loro e che alla fine devono essere incasellate in modo corretto per renderle davvero utili e per rispettare la privacy di chi le ha fornite” racconta Raffaella. Il servizio IT è una struttura estremamente complessa che si è creata negli ultimi 10 anni e che è in continua evoluzione per tenere testa ai cambiamenti che quotidianamente si presentano in questo settore. Basti pensare per esempio alle diverse forme di pagamento presenti sul mercato:

LA BUONA GESTIONE SI VEDE DAI COSTI

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ome si fa a capire se un’associazione gestisce bene i propri fondi? La risposta è in una serie di indici specifici che danno un’idea dell’ammontare dei costi di gestione sul totale dei costi. “L’80 per cento dei fondi raccolti è destinato allo scopo istituzionale, alla missione dell’Associazione, come avviene solo nei casi di gestione più virtuosa nelle organizzazioni non profit italiane e internazionali. A questa percentuale, si aggiungono un 13 per cento di investimenti per generare la raccolta fondi e un 6-7 per cento è rappresentato dai costi del personale e del supporto generale” spiega Ceccarini, ricordando il grande contributo del 5 per mille al raggiungimento di tali numeri. Maggiori saranno le entrate derivanti dal 5 per mille – frutto di 50 anni di storia e della fiducia che il Paese ha dimostrato di tributare ad AIRC – maggiore sarà la percentuale dedicata allo scopo istituzionale.

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VIAGGIO DENTRO AIRC

I CONTROLLI NON FINISCONO MAI

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e procedure messe in campo internamente dagli uffici che controllano la gestione dei fondi e degli acquisti sono molto accurate, ma rappresentano solo la punta dell’iceberg. “Accanto ai nostri continui e accurati controlli, ci sono anche quelli a campione che una società di revisione esegue ogni semestre” spiega Anna Tortora, precisando che questa società esterna riceve tutta la documentazione sugli acquisti da controllare e verifica che la procedura sia stata seguita correttamente. Discorso

molto simile anche per quanto riguarda l’amministrazione e la gestione finanziaria dell’associazione. “Il bilancio viene validato da una società di revisione esterna, tutte le procedure di controllo interno sono soggette a revisione e vengono tenuti sotto stretto controllo anche i progetti di ricerca finanziati” dice Renato Ceccarini. A campione, vengono estratti periodicamente alcuni progetti sottoposti ad audit sulla corretta gestione dei fondi assegnati al ricercatore da parte di una società terza. “Con il tempo ci siamo dotati – e continuiamo a muoverci in questa direzione – di un sistema di giudizio esterno che rappresenta un fiore all’occhiello per la nostra Associazione, in favore della trasparenza e del corretto utilizzo dei fondi che raccogliamo” conclude.

ciascuna nuova modalità crea i presupposti per sviluppare applicazioni e sezioni nuove del database da integrare a quelle già esistenti. Oppure ai dati anagrafici doppi o non corretti che possono arrivare per errore fino al database finale e che si possono poi tradurre in un flusso non corretto di informazioni. In pratica ci siamo preoccupati – e continuiamo a farlo – di concentrare in un’unica banca dati tutte le informazioni che arrivano dai canali esterni: call center, web, piazze e altro ancora” spiega la responsabile. E non finisce qui: dal database generale partono dati preziosi per un secondo database, utilizzato dall’Unità Analisi di marketing per le proprie 28 | FONDAMENTALE | DICEMBRE 2016

attività di verifica sull’andamento delle campagne di raccolta fondi.

Non chiamateli solo “costi”

Per poter funzionare al meglio, tutti gli ingranaggi della struttura devono incastrarsi perfettamente tra di loro e devono anche potersi muovere con agio e senza attriti. Entra in gioco a questo punto l’Unità Servizi generali, che si occupa di attività non direttamente legate ai soci e ai sostenitori AIRC, ma garantisce che tutto il personale che lavora in Associazione lo faccia nelle migliori condizioni possibili. “In un certo

Da sinistra: Simona Broglia, Manuela Goglio, Renato Ceccarini, Antonio Caravello, Giuseppina Palermo, Maria Garofalo. Assente nella foto: Anna Tortora.

senso siamo l’olio che fa girare gli ingranaggi” spiega Azzurra Robbioni, a capo dell’Unità grazie alla quale tutti i dipendenti AIRC – circa un centinaio – possono avere una sede efficiente in cui lavorare, un centralino che smista le chiamate, ma anche una scrivania e una sedia, oltre a fornire loro la necessaria assistenza tecnico-informatica quotidiana. “Lavoriamo per creare le migliori condizioni perché tutti i colleghi possano lavorare al meglio. Possiamo dire metaforicamente che sgomberiamo gli ostacoli e creiamo percorsi. Garantiamo infatti l’efficienza organizzativa, assistiamo i vertici, contribuiamo alla formazione e alla crescita professionale di ogni collega” dice la responsabile. A un primo e superficiale sguardo questo ufficio potrebbe sembrare solo un costo, ma si tratta ancora una volta di un servizio indispensabile per il raggiungimento dell’obiettivo finale del sostegno alla ricerca. Senza queste infrastrutture molte attività dell’Associazione non sarebbero possibili. E poi, a conti fatti, tali costi incidono per una percentuale davvero minima – attorno al sei per cento – sul bilancio finale a fronte di un servizio che permette a una grande associazione come AIRC di lavorare a pieno ritmo.


EVENTI Partnership

I partner di AIRC ne fanno di tutti i colori Dalla collaborazione “verde” con Dolomiti Energia all’impegno costante di UBI Banca, passando per il Duomo in rosa, le aziende a fianco di AIRC

DUOMO DI MILANO IN ROSA CON ESTÉE LAUDER

Grazie alla collaborazione di AIRC con Estée Lauder Italia, che si rinnova per il secondo anno, il Duomo di Milano si è tinto di rosa dando avvio a un ottobre di iniziative per rendere il cancro al seno sempre più curabile. Per info: www.bcacampaign.it

L’ISTITUTO LOMBARDO PREMIA LE RICERCATRICI AIRC

UBI BANCA, UN IMPEGNO COSTANTE

Per il quarto anno il Gruppo UBI Banca con i suoi dipendenti e filiali si affianca ad AIRC per promuovere le attività di informazione e raccolta fondi, a favore della ricerca oncologica. Il percorso, avviato nel 2013, ha già permesso di raccogliere circa tre milioni di euro. Il Gruppo UBI Banca sostiene AIRC con la distribuzione dei Cioccolatini della Ricerca a novembre, con una Campagna per le scuole che in due anni arriverà a coinvolgere 7.000 classi tra IV e V di scuole primarie italiane, in un percorso di educazione su ricerca, corretti stili di vita e, non ultima, la generosità. È possibile contribuire con il Gruppo UBI Banca, per sostenere la ricerca, attraverso queste modalità: in ogni momento, con l’app UBI Pay, donando ad AIRC tramite il circuito Jiffy; usando per i pagamenti Enjoy AIRC, la carta prepagata dotata di IBAN (per ogni carta attivata e per ogni transazione il Gruppo devolve parte dei ricavi). Ancora, in modo costante con il modulo per le donazioni ricorsive, disponibile nelle filiali delle Banche del Gruppo. E per i clienti UBI con un Bonifico solidarietà esente da commissioni.

UN PARTNER “VERDE” PER AIRC

L’Istituto lombardo accademia di scienze e lettere ha onorato nel 2015 il 50° anniversario di AIRC con un convegno dedicato ai progressi della ricerca oncologica e con un bando per la migliore tesi di dottorato o di specializzazione in ambito oncologico. I premi sono stati consegnati a inizio 2016 dal presidente dell’Istituto, Silvio Beretta, a quattro giovani ricercatrici: Stefania Raimondo (Università degli studi di Palermo), Gisella Figlioli (Università di Pisa), Francesca Rossiello (Università degli studi di Milano) e Francesca Zanconato (Università degli studi di Padova).

Una partnership innovativa per AIRC: Dolomiti Energia ha creato un’offerta dedicata di energia e gas per le famiglie, per sostenere il lavoro dei ricercatori. I sottoscrittori dell’offerta beneficiano di uno sconto sulla bolletta, fino al 15 per cento in base alle modalità di attivazione, e AIRC riceve una donazione del 6 per cento su ogni nuovo contratto attivato. Un’iniziativa a vantaggio dell’ambiente, perché l’offerta di energia elettrica è certificata “100% Energia Pulita” e il Gruppo Dolomiti Energia, con sede in Trentino, produce energia esclusivamente da fonti rinnovabili. AIRC ha trovato nell’azienda un partner affidabile per una collaborazione che prevede ulteriori donazioni per sostenere la ricerca Diga di Careser – Archivio Gruppo sul cancro. Dolomiti Energia Per saperne di più: www.dolomitienergia.it - tel. 800.814.634


IL MICROSCOPIO

Federico Caligaris Cappio Direttore scientifico AIRC

Il premio Nobel per la Medicina 2016

ATTENTI ALLE TRUFFE AIRC non effettua la raccolta fondi “porta a porta”, con incaricati che vanno di casa in casa. Nel caso dovesse succedere, stanno tentando di truffarvi. Denunciate subito la truffa chiamando la polizia (113) o i carabinieri (112).

I

l premio Nobel per la Medicina 2016 è stato assegnato al giapponese Yoshinori Ohsumi per la scoperta del meccanismo dell’autofagia (si veda l’articolo a pagina 14), una delle funzioni chiave del funzionamento di molte cellule viventi la cui definizione ha importanti implicazioni nella comprensione di numerose malattie inclusi i tumori. Nei mammiferi, l’autofagia interviene in diversi processi come la crescita e la morte cellulare, la rimozione degli agenti patogeni, l’attivazione dei meccanismi di difesa del sistema immunitario. L’autofagia si attiva in maniera particolarmente significativa in alcune situazioni critiche. Per esempio, interviene come meccanismo di autodistruzione quando una cellula o i suoi organelli sono anomali o gravemente danneggiati, il che comporta per la cellula il rischio o di un pesante accumulo di sostanze dannose, come avviene in alcune malattie neurodegenerative, o di innescare una serie di alterazioni che favoriscono la crescita tumorale. A volte il meccanismo di riciclaggio si inceppa o viceversa funziona troppo attivamente: ciò può accadere a causa di mutazioni che possono alterare i geni, identificati da Ohsumi, che regolano l’autofagia. Queste mutazioni sono in grado di condizionare la risposta dell’organismo alle infezioni e sono anche coinvolte in molte malattie, in particolare i tumori. L’autofagia in condizioni normali è un’alleata dell’organismo ma in certe situazioni può diventarne nemica. Un esempio importante è rappresentato dai tumori dove

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l’autofagia può promuovere i meccanismi di resistenza che le cellule tumorali a volte sviluppano nei confronti delle terapie anticancro. Infatti l’autofagia è un sistema che permette alla cellula tumorale di resistere allo stress causato dai diversi trattamenti; quindi questa resistenza può essere all’origine della resistenza alle cure, e dunque favorire le possibili ricadute e le eventuali metastasi. Questa scoperta ha portato allo sviluppo di nuovi promettenti farmaci anticancro, basati sull’inibizione dell’autofagia. Tali farmaci sono attualmente in sperimentazione in studi clinici in cui vengono utilizzati in combinazione con altri trattamenti. Il premio Nobel per la medicina premia spesso ricerche cosiddette “di base”, cioè volte a capire i meccanismi fondamentali che governano le nostre cellule, ricerche sviluppate in laboratorio talora nel corso di decenni. Questo sottolinea ancora una volta come lo studio dei meccanismi che svolgono un ruolo centrale nel governare il normale funzionamento cellulare siano essenziali per poter comprendere gli aspetti devianti che caratterizzano le cellule tumorali e assicurano loro un vantaggio rispetto alle cellule normali. AIRC ha da sempre posto una particolare attenzione a questo aspetto della ricerca nella piena consapevolezza che perseguire studi volti a capire il normale meccanismo del funzionamento cellulare apre la strada alla possibilità di vedere la cellula tumorale sotto una diversa prospettiva e quindi soprattutto di poter ideare e sviluppare nuove terapie per il cancro.


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I SUOI AUGURI ARRIVANO DRITTI AL CUORE. ANCHE DELLA RICERCA. Questo Natale scelga i biglietti e le e-card della nostra Associazione: tante idee originali per inviare ai suoi cari un augurio che va oltre il semplice pensiero, perché aiuta la ricerca a rendere il cancro sempre più curabile. Scopra tutte le proposte: www.airc.it/auguri • 02 901.69.290

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