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Le politiche commerciali e industriali nella siderurgia tra Europa e Stati Uniti
Introduzione
Per tutto il XX secolo – e in particolare a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale - il Commercio Internazionale è stato un motore fondamentale di sviluppo dell’economia e di prosperità per tutti i Paesi che hanno adottato questa politica, registrando un sensibile aumento del proprio reddito. Per decenni la comunità internazionale ha ritenuto che l’integrazione di un numero sempre più elevato di Paesi nell’economia mondiale costituisse un potente sistema di redistribuzione della ricchezza. Dal 1950 il ad oggi, il Commercio Internazionale è cresciuto circa 3 volte in più rispetto al PIL mondiale.
La siderurgia, fin dalla sua repentina crescita a dimensione industriale, avvenuta nel XVIII secolo in Inghilterra e Germania (Prussia), è da tutti gli studiosi indicata come uno dei principali – se non il principale - pilastri della crescita economica in Occidente. La combinazione di Commercio Internazionale e siderurgia ha inevitabilmente portato i due elementi ad essere al centro di dispute internazionali e transnazionali a partire dagli anni ’70 fino ai giorni nostri. Nonostante il ruolo sempre più preponderante nello sviluppo del PIL mondiale degli ultimi 20 anni di settori quali l’energia, l’elettronica e i servizi, la siderurgia costituisce ancora oggi un elemento rilevante dell’agenda politica nazionale e internazionale, che, attraverso le sue scelte, oscillanti tra libero mercato e protezionismo, è in grado di produrre ricadute rilevanti nelle economie nazionali.
In questo articolo vogliamo dare uno sguardo agli elementi che hanno caratterizzato la relazione tra Europa e Stati Uniti nell’ambito delle politiche commerciali ed industriali nella siderurgia. A tal proposito è utile una breve contestualizzazione storica, per capire con quali tempi e modalità, sin dal secondo dopoguerra, le Nazioni abbiano cercato di dotarsi di strumenti comuni, regole e sanzioni, per gestire il Commercio Internazionale.
General Agreement on Tariffs and Trade (GATT)
Nel 1947 fu stipulato a Ginevra il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) da 23 Nazioni, fra cui Stati Uniti, Cina, UK, Francia, Australia, Brasile ma non Germania, Italia e Unione Sovietica. La Cina lascerà il
GATT nel 1949, mentre Italia e Germania Occidentale aderirono al GATT rispettivamente nel 1950 e 1951. Lo scopo era di dotare la Comunità Internazionale di una base giuridica su cui operare per promuovere il Commercio Internazionale, attraverso la riduzione o l’eliminazione di tariffe/dazi e delle altre barriere non tariffarie (standard di prodotto, certificazioni, “made in”, ecc.), che ne ostacolavano la crescita.
World Trade Organization (WTO)
Il GATT rimase in vigore sino al 1995, quando nacque il suo successore, il World Trade Organization (WTO) siglato a Marrakesh da 123 Nazioni, sempre con lo scopo di promuovere il commercio attraverso l’abbattimento delle barriere. Per dare un ordine di grandezza, nel 1947 livello medio di tariffe (dazi che gravavano sull’importatore dei beni provenienti dall’estero) imposte tra i 23 Paesi che aderivano al GATT era del 22%, mentre nel 1999 crolla al 5% tra ben 123 Nazioni.
L’industria siderurgica americana e le barriere anti-dumping L’industria siderurgica U.S.A. è strutturalmente debole perché non ha mai investito sull’export: non a caso si fa fatica a ricordare aziende americane in grado di competere su scala globale. L’acciaio U.S.A. sopravvive grazie al mercato locale, l’export non è significativo e la politica ne difende l’esistenza. Al contrario, i produttori europei, pur passando attraverso drammatiche ristrutturazioni, continuano ad investire e ad espandersi, individuando anche nel mercato U.S.A. uno sbocco importante della propria produzione.
Sin dagli anni ’80, l’industria siderurgica U.S.A. è sopravvissuta grazie alla dimensione e alla ricchezza del mercato interno, combinata con strumenti di protezione che limitavano l’accesso al mercato locale ai produttori stranieri. Lo strumento più noto è il dazio anti-dumping, che punisce produttori che praticano politiche di esportazione molto aggressive, per ottenere quote di mercato grazie a prezzi molto bassi. L’anti-dumping è riconosciuto dal WTO, ma negli U.S.A. la sua legittima applicazione è stata probabilmente abusata: da sempre infatti negli U.S.A. vengono imposti dazi molto più elevati rispetto ad altre aree omogenee, quali Unione Europea o Giappone, arrivando a fare dello strumento un elemento di vero protezionismo e non di difesa.
A partire dai primi anni 2000, il concetto di free trade inizia a vacillare e, mentre l’Unione Europea rimane coerente agli obiettivi del WTO, gli U.S.A., fronteggiando una delle numerose crisi del settore siderurgico, ritengono necessario un intervento politico per proteggere l’industria locale, attaccata e indebolita dall’import indiscriminato. Già nel 1983, il presidente Reagan aveva introdotto tariffe sui prodotti siderurgici che restarono in vigore per 4 anni. L’assenza di strumenti forti nel GATT e il peso egemonico degli U.S.A. in quegli anni impedirono ogni reazione a livello internazionale.
Ma fu un altro presidente Repubblicano, George Bush, che introdusse nel marzo del 2002 delle tariffe che si applicavano indiscriminatamente a tutti i prodotti siderurgici importati da tutti i Paesi ad eccezione di Messico e Canada, membri del NAFTA (North American Free Trade Agreement). La fiducia dell’Unione Europea nell’Organo Internazionale (WTO) deputato a risolvere le dispute in ambito commerciale porta gli stati membri a valutare misure ritorsive nei confronti degli Stati Uniti che mai vengono poste realmente in essere, per ragioni di puro calcolo di convenienza. Infatti, nonostante l’export di acciaio in U.S.A. abbia un peso rilevante per il settore siderurgico europeo (tra il 5% e il 7%), la sua incidenza sul volume complessivo di esportazioni verso gli U.S.A. è molto limitata (circa l’1%): una guerra commerciale non conviene alla UE. Ciononostante, la decisione di Bush di imporre dazi fino al 30% sull’import di acciaio ha vita breve. La presa di posizione del WTO, chiamato a legittimare la decisione U.S.A. è chiara: non sussistono i presupposti per tale decisione, quindi i dazi sono in violazione delle regole internazionali. Le diverse posizioni interne allo stesso partito Repubblicano, così come quelle di numerosi economisti e studiosi, tutti critici per la violazione rispetto al principio del libero mercato, fanno il resto e così Bush, nel dicembre del 2003, ritira la legge. Il dibattito in U.S.A. non è di poco conto: i sostenitori della linea protezionistica non mancano, soprattutto in Stati chiave come Pennsylvania, Ohio and West Virginia e, come vedremo, qualche anno dopo torneranno a farsi sentire.
Il percorso di consolidamento al ribasso dell’industria siderurgica U.S.A. prosegue dopo il 2003: alle varie crisi che si susseguono, corrispondono chiusure di aziende e quelle che sopravvivono ne escono indebolite. Il mercato U.S.A. richiede prodotti, in quantità e qualità, che i produttori locali non sono in grado di fornire; l’import è sempre più indispensabile e ne traggono vantaggio non solo Paesi di consolidata esperienza siderurgica come Germania, Italia, Spagna, Francia, Giappone e Corea del Sud, ma altri nuovi attori del mercato internazionale quali Cina, Brasile, Indonesia e Vietnam trovano negli U.S.A. spazi di crescita importanti.
Nel 2018 il Presidente Trump, autodefinendosi più protezionistico di Reagan e Bush, in linea con uno dei suo slogan “America first”, proclama l’introduzione di tariffe del 25% per l’importazione di acciaio da tutte le provenienze, escluse ovviamente Canada e Messico, a protezione dell’industria locale. L’obiettivo di Trump è che l’industria americana recuperi competitività grazie alle tariffe protezionistiche imposte ai produttori stranieri e in parte questo avviene: a fronte della garanzia politica che le misure rimarranno in vigore per anni, le aziende U.S.A. lanciano imponenti piani di investimenti per rinnovare gli impianti e non raramente installando nuove capacità.
Per evitare il rischio che il WTO si esprima nuovamente contro questa decisione, Trump si appella alla Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1964, che consente di imporre dazi sulle merci importate in quantità tali da compromettere la sicurezza nazionale. Si tratta chiaramente di una forzatura legale, che però spiazza tutti: è l’inizio di una vera e propria guerra commerciale, che Trump scatena contro tutti i Paesi “antagonisti” ma anche contro quelli politicamente vicini. Il vero obiettivo è la Cina (non solo per la siderurgia), ma la difesa a oltranza dell’industria siderurgica locale rimane un obiettivo fondante della legge.
L’Europa, ritenendo ingiustificata e unilaterale la decisione di Trump, questa volta reagisce rapidamente, sia pure con un’azione non così impattante, e rifiuta di sedersi al tavolo per negoziare condizioni speciali, quali quote di esportazioni esenti oppure un dazio ridotto, ma valuta una serie di azioni ritorsive contro gli U.S.A. su altri prodotti e un’azione specifica per difendere il proprio mercato e l’Industria europea dell’acciaio. Le tariffe del 25% creano infatti forti distorsioni nel Commercio Internazionale siderurgico e gli effetti determinano danni diretti e indiretti all’industria europea e ai lavoratori del settore. Non solo per la siderurgia europea sarà più difficile esportare in U.S.A., ma altri Paesi esportatori, perdendo volumi di export verso gli U.S.A., saranno interessati a deviare le proprie esportazioni verso il mercato aperto ed attrattivo dell’Europa che rischia di essere “sommersa” dall’acciaio proveniente dall’estero. Nell’arco di circa 6 mesi, L’UE propone e approva uno strumento definito di “Salvaguardia”, che dal gennaio 2019 assegna delle quote massime di prodotti che ciascun Paese potrà importare in UE senza alcun vincolo. Una volta raggiunto il massimale scatta una tariffa del 25%. Si tratta di una misura molto più sfumata di quella U.S.A. (che applica indiscriminatamente una tariffa del 25%) e che permette quindi a ciascun Paese esportatore di mantenere una quota di export gratuita pari alla media degli ultimi anni. Una decisione di compromesso che cerca di mantenere fede al principio del libero mercato, ma che non può fare a meno di prendere atto della mossa protezionistica degli U.S.A.. Complessivamente l’impatto per il settore siderurgico Europeo non è drammatico, in quanto il mercato U.S.A. continua a dipendere dalle importazioni di acciaio, sia pure a prezzi più elevati e in volumi più contenuti. Contestualmente la “Salvaguardia” impedisce che il mercato Europeo venga invaso dall’ export dei Paesi terzi che non può accedere al mercato U.S.A..
Nei tre anni successivi a questa legge, gli U.S.A. negoziano soluzioni
“one to one” con Argentina, Brasile e Corea del Sud, ma sostanzialmente la situazione rimane cristallizzata fino alla fine del 2021. Il cambio di Amministrazione in U.S.A. apre qualche spiraglio politico e quindi negoziale che, verso fine 2021, si concretizza in un accordo tra U.S.A. e UE che rende esenti circa 3,3 milioni di tonnellate di export UE verso gli U.S.A.. L’accordo è sostanzialmente identico a quello che 3 anni prima la UE aveva rifiutato di discutere con l’Amministrazione Trump. Dal punto di vista commerciale non è un grande successo, in quanto le 3,3 milioni di tonnellate costituiscono poco più del 70% di quanto la UE esportava prima del 2018. Il significato politico è certamente più rilevante: l’Europa torna a trattare con gli U.S.A. e per il futuro si auspicano decisioni più concordate e meno aggressive verso la UE, non solo nel settore Siderurgico.
Sviluppi delle ultime settimane del 2022
1. Il WTO ha finalmente deliberato in merito alla decisione di Trump del 2018 di avvalersi della clausola di sicurezza nazionale per introdurre tariffe del 25%: la decisione non era legittima in quanto mancavano i presupposti (il WTO afferma che la sicurezza nazionale può essere invocata solo in caso di guerra). Gli U.S.A., per ora, non accettano il giudizio e non intendono rispettare il suggerimento del WTO che prevede l’eliminazione immediata delle tariffe del 25%.
2. La UE ha approvato la cosiddetta Carbon Tax Europea (CBAM) che sarà applicata a partire dal 2026. Si tratta di un’imposta concepita per proteggere l’industria Europea (acciaio, alluminio, cemento, fertilizzanti) in fase di decarbonizzazione da quei competitor esterni che non sono soggetti ai rigidi e onerosi obiettivi climatici dell’Unione Europea. La tassa graverà quindi su tutti i prodotti importati dai Paesi terzi che non si saranno dotati di una politica simile a quella Europea.
3. L’amministrazione Biden ha approvato un imponente piano di investimenti, il cosiddetto Inflation Reduction Act (IRA). Si tratta di un pacchetto di 391 miliardi di dollari che, da gennaio 2023, agevolerà imprese e famiglie nella transizione green. Un volume di sussidi senza precedenti per convincere le imprese a tornare a investire negli Stati Uniti e a “comprare americano”.
Questa decisione sta allarmando l’Europa e richiederà una complessa discussione con gli U.S.A. per evitare che un flusso gigantesco di investimenti, anche di aziende Europee, si trasferisca nel medio termine in U.S.A. rallentando inevitabilmente la transizione energetica nel Vecchio Continente e spostando da Europa a U.S.A. la produzione di beni e servizi collegati.
La transizione energetica collegata alla siderurgia è entrata nella discussione del Commercio Internazionale
U.S.A. e UE stanno discutendo di una partnership (probabilmente insieme a Canada, Giappone e pochi altri) dedicata alla riduzione della CO2 nel settore dell’acciaio. Gli obiettivi sono l’azzeramento delle tariffe nel com- mercio dei prodotti siderurgici tra le Nazioni aderenti e il coordinamento delle azioni di difesa commerciale verso quei Paesi che non implementano, con tempistiche urgenti, gli interventi volti alla decarbonizzazione, in primis Cina ed India. Un percorso complesso e dall’esito incerto, che dovrà conciliare le diverse tecnologie con cui si produce l’acciaio e le diverse tempistiche con cui i singoli Stati avanzano nel processo di decarbonizzazione. Certamente un tentativo di trovare comportamenti comuni e riconoscersi come Paesi partner e non come concorrenti, quantomeno nell’ambito della transizione energetica del settore siderurgico.