in copertina: Marina (Jimi Trotter 2022)
disegni:
Jimi Trotter
coordinamento editoriale e progetto grafco: Marino Tomas
fnito di stampare nel mese di dicembre 2022
Tipolitografa Editoria DBS
Seren del Grappa (BL)
in copertina: Marina (Jimi Trotter 2022)
disegni:
Jimi Trotter
coordinamento editoriale e progetto grafco: Marino Tomas
fnito di stampare nel mese di dicembre 2022
Tipolitografa Editoria DBS
Seren del Grappa (BL)
di emigrazione femminile durante gli anni ‘50
di:
Questa pubblicazione arriva dritta al cuore. Una ricerca storica accurata, che narra le migrazioni delle donne di tutto Primiero.
Coinvolgenti racconti di ragazze partite, alla ricerca di una nuova sconosciuta realtà. Infatti, la cosa che più affascina in queste testimonianze è la scoperta una parte di queste donne partiva non tanto per necessità economica, ma per la voglia di conoscere il mondo esterno alla nostra piccola valle.Spesse si sono ritrovate a lavorare in famiglie complicate, con datori di lavoro diffcili, ma pronte al sacrifcio. Ancora una volta emerge assolutamente “il coraggio delle donne”, l’enorme forza di lasciare il proprio paese ed i familiari per un futuro diverso.
Grazie infnite ad Acli, a Delia Scalet, ad Angelo Longo e tutto il gruppo che ha reso possibile la raccolta e la restituzione alla comunità di queste testimonianze di donne coraggiose.
Antonella Brunet
Vicesindaco – Assessora alla Cultura
Comune di Primiero San Martino di Castrrozza
Lavoro e emigrazione negli anni ‘50. L’azione delle ACLI
Sull’emigrazione femminile da Primiero. Il caso delle «domestiche» da fne Ottocento a metà Novecento
Marina ...quello che contava era comportarsi bene ed essere sempre disponibili.
Mariuccia ...era lavoro solo stagionale, solo d’inverno potevo andare.
Carla ...non sono tornata volentieri, mi sarebbe piaciuto rimanere a Roma.
Caterina ...i problemi venivano soprattutto dai genitori, che dicevano sempre no.
Giovanna ...dall’inferno al paradiso, da Milano a Treviso.
Antonia ...non mi facevano mancare nulla però non me la sentivo di continuare la loro vita.
Teodora ...là mi hanno concesso tutto, non ho più avuto tanta concessione come là.
Gabriella ...io non sarei mai più tornata dall’Australia e mio marito nemmeno.
Anna ...erano tutti contadini e anche noi eravamo una famiglia ordinaria.
Ada ...io sono partita per non veder più né feno né vacche!
Veronica ...il nome Roma, già a sentirlo aprivi gli occhi così.
Maddalena ...in tutto ho fatto quattro stagioni in Ticino e sei in Svizzera interna.
Lidia ...ero sempre in paese e volevo fare un’esperienza diversa.
Francesca ... a mia nonna importava solo se andavano in chiesa, non se erano brave persone.
Il progetto è stato ideato da Acli Primiero e presentato al “Festival Pari Opportunità 2022” (festival coordinato da APPM Onlus all’interno del Distretto FAMILY GREEN di Primiero); fnanziato dalla Provincia
Autonoma di Trento, dal Comune di Primiero San Martino di Castrozza e da Acli Primiero.
Si ringrazia per la collaborazione
A.P.S.P. San Giuseppe di Primiero
A.P.S.P. Valle del Vanoi.
interviste raccolte da: Marisa Debertolis, Gabriella Nami, Valeria Marcon, Caterina Nicolao, Delia Scalet, Maria Lucia Orler, Giulia Cecco e Marisa Dell’Antonia.
L’azione delle ACLI
Il progetto Donne con la valigia – storie di emigrazione femminile negli anni ’50 proposto da Acli Primiero in occasione del Festival delle Pari Opportunità 2022, vuole indagare il fenomeno dell’emigrazione femminile degli anni ’50, tema meno conosciuto rispetto a quello maschile.
In verità, Primiero registra ancor prima eventi migratori femminili, come il caso delle tante ragazze emigrate nelle flande del Vorarlberg nel XIX secolo e fno alla Prima Guerra mondiale.
Alla realizzazione di questa pubblicazione, oltre all’antropologo Angelo Longo, hanno collaborato alcune volontarie che hanno raccolto le nove testimonianze, offrendo così l’occasione a tante donne ormai anziane di sentirsi protagoniste nel raccontare le loro lontane esperienze di emigrazione e come esse hanno infuito nella loro vita. Altri volontari hanno curato la stesura grafca e all’esecuzione dei disegni che rappresentano momenti signifcativi di ciascuna esperienza.
Sono state coinvolte nell’iniziativa anche le APSP del territorio, San Giuseppe e Valle del Vanoi e, grazie alla disponibilità delle animatrici, sono state raccolte delle testimonianze tra le ospiti.
L’antico adagio «bisogna conoscere il passato per capire il presente e orientare il futuro» spiega come la memoria di ciò che è stato aiuti a intravedere ciò che sarà, oltre che a riscoprire il ruolo della Comunità e dei fenomeni che la attraversano.
Dalle testimonianze raccolte emerge che negli anni ‘50 l’economia di Primie-
ro è ancora caratterizzata da una diffusa, se non prevalente, attività agricola. Tuttavia si espandono altre attività economiche come quelle legate all’accoglienza turistica. Pure la costruzione dei grandi impianti idroelettrici segna un nuovo passo per l’economia locale con capacità di assorbire un maggior numero di lavoratori e contrastare il fenomeno dell’emigrazione. Questo nuovo fermento economico richiede la presenza a Primiero di servizi stabili a supporto dei lavoratori, spesso impegnati anche in attività ad alto rischio. Tre le varie iniziative di allora, i sindaci e i parroci, mettono a disposizione delle ACLI alcuni locali nello stabile di Fiera di Primiero dove, ancora oggi, si trova la sede. Sempre negli anni ’50, vengono costituiti i Circoli in tutti i paesi, quali luogo di confronto e di partecipazione sociale. Il movimento aclista pone al centro della propria azione la persona con i suoi bisogni di libertà, democrazia e partecipazione, ma anche quelli più concreti di assistenza, tutela e sostegno al lavoro. Per questo, oltre alle attività di patronato, vengono organizzati dei corsi professionali per muratori e, grazie all’azione convinta di persone come Bruno Fronza e Bruno Kessler con il sostegno della Provincia, nel 1958 viene aperto a Primiero il Centro di Formazione Professionale Enaip così da garantire una preparazione stabile e strutturata anche in altri ambiti. Si sottolinea l’intuizione di voler assicurare una professionalità ai tanti giovani che ancora emigravano.
A partire dagli anni ’60, in particolare dopo l’alluvione, il processo di sviluppo del nostro territorio si apre a nuove sfde che consentono di arginare il fenomeno dell’emigrazione sia maschile che femminile e di raggiungere un diffuso benessere generale.
Oggi la situazione economica delle Valli di Primiero – Vanoi - Mis è diversa, ma non sempre facile. Come allora, nei territori decentrati e di montagna, sono necessarie opportunità di lavoro e la presenza di servizi quale condizione indispensabile per favorire la residenzialità, la natalità e per contrastare nuove forme di emigrazione - oggi soprattutto dei giovani - oltre che promuovere promuoverne l’attrattività. Queste sono le sfde attuali per costruire Comunità vive e coese, capaci di rigenerarsi e di proiettarsi nel futuro.
Delia Scalet
Il caso delle «domestiche» da fne Ottocento a metà Novecento
1. Questa ricerca vuole svelare e togliere dall’invisibilità l’emigrazione femminile di Primiero. Di quella maschile se ne è parlato a lungo, di quella femminile molto meno. Perché?
Perché la marginalità era la loro condizione sociale di partenza: la donna era stretta tra le maglie del patriarcato. Perché la precarietà era la loro condizione lavorativa da emigrante: spesso non avevano mansioni precise o contratti di lungo periodo. Perché il senso di inadeguatezza era, ed è ancora, condizione esistenziale di chi oggi racconta la propria storia: molte delle nostre informatrici preferiscono rimanere nell’anonimato. Quindi una tripla invisibilità: sociale, lavorativa, esistenziale.
Possiamo poi aggiungerne una quarta: quella storiografca. Come scrive Francesca Massarotto Raouik: «l’esodo delle donne» è rimasto inosservato, poco studiato a livello trentino e italiano, nonostante esso sia stato «un fenomeno di notevole e costante entità numerica ed ha rappresentato almeno un terzo dell’intera emigrazione italiana» [Massarotto Raouik: 17]. Perché? Perché in molti casi mancano fonti storiche attendibili, documenti d’archivio soprattutto. Le donne erano emigranti di seconda categoria, partivano in secondo piano rispetto agli uomini, in quanto spesso andavano al seguito di qualche familiare (marito, fdanzato, padre) e quindi nei documenti uffciali erano considerate delle «non lavoratrici»; oppure perché erano prive di competenze lavorative specifche e venivano quindi classifcate nella categoria di «personale di servizio e fatica» [Massarotto Raouik: 18].
Si scriveva poco sui registri d’archivio di queste «non lavoratrici», agli amministratori non interessava di chi aveva un guadagno scarso o non guadagnava affatto. C’era molto più interesse, a vari livelli amministrativi, verso chi guadagnava molto e in questo modo rendeva l’emigrazione non tanto un esodo luttuoso, ma piuttosto un alleggerimento economico e demografco. Infatti per le famiglie era un sollievo il fusso continuo di piccoli risparmi che giungeva dagli emigrati; anche le banche erano ben felici di veder arrivare nelle loro casse delle valute estere pregiate. E perfno le istituzioni locali, attanagliate dal problema della disoccupazione, vedevano spesso di buon occhio la partenza dei loro cittadini e delle loro cittadine. La traccia archivistica svanisce poi quasi del tutto nei casi in cui l’emigrazione era temporanea o stagionale, della durata di qualche mese e svolta nelle città italiane, «mobilitazione interna al Paese». Le donne o ragazze che partivano per 8-10 mesi verso Roma o Milano o Bologna, senza un contratto regolare e senza specifche mansioni, non venivano segnalate nei registri d’emigrazione del Comune di partenza. Era un movimento invisibile. Ecco quindi l’importanza della narrazione in prima persona, il valore fondamentale della fonte orale, che diventa la traccia storica necessaria al racconto di questo fenomeno epocale.
2. I primi dati certi sull’emigrazione femminile sono di fne Ottocento, l’epoca dell’emigrazione di massa: disastri naturali e instabilità sociale portarono molti a partire senza volontà di ritorno.
Si stima che negli ultimi decenni dell’Ottocento emigrarono da Primiero 1.892 persone, il 16% della popolazione dalla valle: un terzo andò nelle terre dell’Impero Austroungarico (soprattutto in Tirolo e Vorarlberg), altri in Svizzera (soprattutto nel Canton San Gallo), altri in Italia, in Germania e in America [Grosselli 2007: 54]. Un vero e proprio esodo.
La mèta principale era il Vorarlberg. Gli uomini erano attratti dal lavoro nelle grandi opere pubbliche, nel settore ferroviario e nell’edilizia. Donne e ragazze, invece, trovavano occupazione nei numerosi stabilimenti di lavorazione delle lane e dei tessuti di cotone aperti in quegli anni: erano almeno 349 le primierotte impiegate nei telai e flatoi sul fnire dell’Ottocento [Grosselli 2007: 70].
Ma non tutte le primierotte trovarono lavoro nelle fabbriche, molte dovettero accontentarsi di lavori marginali e precari. Abbiamo segnalazioni di venditrici ambulanti o klòmere in vari luoghi dell’Austria e della Francia, provenienti soprattutto dal Vanoi [Grosselli 2007: 66] e di «domestiche» nelle città italiane emigrate da Sagron Mis.
Nel 1894 avvenne una disputa tra il consiglio scolastico di Sagron Mis e quello del distretto di Primiero. L’oggetto del contendere era la volontà di avviare
dei corsi scolastici invernali per gli studenti che avevano completato il ciclo di studi. Ma l’iniziativa venne osteggiata: «durante l’inverno – si scrive – tutti i giovani di oltre il 14° anno sono assenti dalla patria per procacciarsi il necessario sostentamento. La scuola di ripetizione, se la si volesse pur introdurre dovrebbe limitarsi ad un’istruzione per le ragazze del 15° e 16° anno, ma anche queste una gran parte emigrano in altri paesi in qualità di domestiche» [Archivio Comunale di Sagron Mis].
Non sappiamo dove andassero le «domestiche» di Sagron e Mis a fne Ottocento: in Italia o Svizzera? in Francia o Germania? Nell’Archivio Comunale emergono informazioni soltanto di due donne e una ragazza di 13 anni, partite per emergenza: a causa della morte del capo famiglia (marito o padre). Si tratta di Domenica Renon che nel 1852, quattro anni dopo esser rimasta vedova, affdò ai genitori la cura della fglia e si recò a Verona per «cercare lavoro come domestica»; di Cristina Daldon, classe 1846, che partì dopo la morte del padre avvenuta nel 1859; e di Domenica Broch, «abbandonata dal marito» e quindi costretta ad emigrare in Italia nel 1886 come «domestica» [Archivio Comunale di Sagron Mis].
3. Furono moltissime le ragazze che partirono come «domestiche» nei decenni successivi. Ad inizio Novecento un emigrante trentino su quattro aveva sul passaporto segnata la voce «casalinga» o «domestica» [Massarotto Raouik: 25]. La prima guerra mondiale bloccò gli espatri, ma nei decenni successivi, come scrive Grosselli, «la montagna trentina, e italiana in genere entrò in situazione di sofferenza acuta [...]. Da allora e sino, almeno, agli anni ‘50 praticamente ogni famiglia della classe bassa contadina darà alla borghesia italiana qualche serva» [Grosselli: 239]. Leggendo le testimonianze di alcune donne del Vanoi che raccontano degli anni ‘30 del Novecento si intuisce il gran numero di partenze: «andavano tutte», «ce ne erano tante». Proprio in questo periodo, tra il 1921 e il 1936, in Italia le persone impiegate nel «lavoro domestico» balzarono da 380.614 a 570.083 [Sarti: 22].
Nel Novecento le «domestiche» non partivano soltanto per povertà o bisogno come nei tre casi di Sagron e Mis, «emigrazione d’emergenza»; bensì alcune donne erano spinte alla partenza per motivi e desideri diversi. Tra le tante ragazze che si recavano lontano – in Italia ed anche in Svizzera, Belgio, Germania e non solo – qualcuna rientrava nella «emigrazione d’assenza», partiva per sgravare la famiglia di un peso e per guadagnare soldi da mandare a casa. C’era poi chi rientrava nella «emigrazione per desiderio».
Clorinda Orsingher, classe 1922, racconta che a 16 anni era a Torino: «Quelle che potevano andavano in fabbrica. Ma non tutte potevano e allora si andava
a servizio. Le giovani andavano via tutte dal paese. Chi voleva un po’ di soldi doveva andare a guadagnarseli. [...] Tre anni senza tornare a casa. Perché stavo bene, stavo meglio là. Da noi era tutta un’altra cosa. Mi piaceva tutto, la modernità, il lavoro più regolare. E poi il lavoro non era così pesante come il lavoro della campagna. Eh, quando cominci a fare feno, si fatica, si suda mentre là non sudavo quasi niente» [Grosselli: 247].
Nel 1938 a Torino c’era anche Domenica Rattin, 16 anni: «ce n’erano tante, a Milano soprattutto. E anche a Trento andavano. Avevo una cugina che faceva la stagione a Cortina per esempio, in albergo, aveva due sorelle a Roma, a servizio. [...] Era parecchio che volevo andare via di casa, perché non mi piaceva, perché era troppo magra la situazione qui, non si riusciva ad avere un paio di scarpe, non c’erano soldi, niente c’era. Allora ho preso e sono andata» [Grosselli: 253].
A volte partono più ragazze dalla stessa famiglia: Domenica Rattin racconta che aveva tre cugine emigrate, una lavorava in albergo e due come «domestiche». Luigi Orsingher spiega che tutte le sue sorelle partirono: «Le mie sorelle, erano quattro e sono andate tutte a servizio. [...] Mandavano a casa qualcosa, erano soldi importanti per la famiglia. Ma ne mandavano pochi perché li spendevano tutti per vestirsi. La mamma aveva comperato una macchina da cucire, a rate, e bisognava sempre scrivere perché mandassero soldi per pagare la rata. Così era, miseria» [Grosselli: 250].
Anche da Mis partono più ragazze dalla stessa famiglia, Maria Celestina Broch racconta che le ragazze di Mis «andavano a serviér giù per Milano, le tóse, io piangevo perché avevo nostalgia delle mie compagne, volevo andare anch’io ma non mi lasciavano partire perché avèe laóro a casa: feno e legna! Le mie sorelle: la Palmira è andata giù per Rovereto e la Marta anche è andata a Rovereto... io ero la più giovane, non sono andata io» [Longo: 34].
Da queste testimonianze emerge che le partenze non dipendono solo e soltanto da una urgenza del presente, ma piuttosto da un desiderio del presente: il desiderio di guadagnare, di vivere meglio, di stare con le amiche o vivere la loro stessa esperienza. Tali desideri alimentarono anche l’emigrazione del secondo dopoguerra, che riprese fortissima già nel 1947: dal Trentino partirono 1.071 «domestiche», quasi tutte per la Svizzera. Nel 1951 ne emigrarono altre 516: 23 dal Comune di Canal San Bovo, tutte verso l’estero [Massarotto Raouik: 45]. Non sappiamo quante ne partirono per le città d’Italia: non essendoci espatrio non c’era necessità di visti, di passaporti, di contratti o altri atti burocratici al momento della partenza.
4. La migrazione interna era consistente, probabilmente il fusso principale. Lo dicono le interviste, in cui si parla di viaggi verso Milano, Roma, Torino,
Bologna e non solo; ed anche alcuni documenti d’archivio: sui Registri Emigrazione dei Comuni di Primiero sono segnate le persone che cambiano residenza, quelle che, uscite per lavoro o per altri motivi, decidono di non tornare più in valle o di stare lontano per lungo tempo.
A Tonadico, nel Registro Emigrazione del 1947-1953, si segnalano 170 cambi di residenza: 89 uomini e 81 donne. Non sappiamo il motivo del loro trasferimento, forse un lavoro stabile o il matrimonio; sappiamo però i nuovi luoghi di residenza di queste 81 donne: Trento, Bolzano, Roma, Napoli, Milano, Pavia, Pisa, Varese, Treviso, Bologna, Nuoro, Vicenza, Rovigo, Empoli, Brescia, Livorno, Venezia, Verona, Biella. Solo una donna emigra all’estero, in Francia.
Nel Registro successivo, 1954-1965, sono segnate 275 partenze: 166 uomini e 109 donne. Le destinazioni femminili sono: Napoli, Venezia, Montebelluna, Vicenza, Novara, Desenzano, Trento, Verona, Bolzano, Roma, Modena, Alessandria, Milano, Gorizia, Bologna, Brescia, Vercelli, Belluno, Rovereto. Quattro le donne che si stabiliscono all’estero: Austria, Germania, Brasile, Svizzera. Facendo un breve calcolo, in 14 anni, su 190 donne di Tonadico che cambiano residenza, ben 185 si trasferiscono in città italiane e solo 5 vanno all’esterno [Archivio Comunale di Tonadico]. Nonostante questi dati l’emigrazione oltre frontiera, seppur in calo, ma non si interruppe mai: le donne continuarono a partire per i paesi europei e quelli oltre oceano, come Gabriella che nel 1958 partì per raggiungere il marito in Australia: «ho iniziato ad aver bisogno di partire io. Volevo che il fglio vedesse suo papà. Per me era giusto raggiungerlo».
La maggioranza delle donne e ragazze sceglieva però l’Italia. Forse perché il Bel Paese era più comodo, più vicino, non presentava alcuna barriera linguistica ed era in una fase di inaspettato e grande sviluppo economico. Infatti durate gli anni ‘50 l’Italia visse una «inattesa belle époque». In un decennio la società italiana conobbe una rottura epocale con il passato: nel modo di produrre e di consumare, di pensare e di sognare, di vivere il presente e di progettare il futuro. Dal 1954 al 1964 il reddito nazionale e quello pro capite quasi raddoppiarono. Gli occupati in agricoltura calarono dal 40% al 25% della popolazione attiva, mentre nell’industria salirono dal 32% al 40% e nei servizi dal 28% al 35%. La produzione industriale aumentò dell’84% e l’Italia divenne una delle principali potenze europee: al suo attivo il 12% della produzione del vecchio continente [Crainz: 81]. Fu questa l’Italia che riempì gli occhi alle ragazze di Primiero: fatta di grandi città e promesse di ricchezza, di possibilità d’emancipazione e d’autonomia. «Il nome Roma, già a sentirlo aprivi gli occhi così: doppi e stradoppi al solo pensiero. Ti podi immaginàrte,
da Primiero a Roma!», racconta Veronica che nel 1954 parte per la capitale. A differenza delle donne segnate nei Registri Emigrazione di Tonadico, che cambiano residenza, molte «domestiche» emigravano in modo temporaneo o stagionale. Mariuccia ci dice: «a servizio ci andavo solo d’inverno» e Carla precisa che «bisognava tornare a casa per la fenagione». Anche per Anna, emigrata nella Friburgo svizzera, fu lo stesso: «sono rimasta lì fno a primavera, dopo d’estate sono tornata a casa ad aiutare i miei»; e lo stesso successe a Vittorina Salvadori che andò a Catania: «io ho fatto 9 mesi laggiù. Perché dopo c’era il feno quassù e allora a fne giugno dovevo venire in su, ma io mica avevo voglia di venire in su, oramai stavo bene là» [Longo: 37]. Così doveva essere anche per Ada, partita da Ronco, ma le cose andarono diversamente: «La mamma non voleva lasciarmi partire, assolutamente. Allora un amico di papà ha detto: “Lasciala andare per quest’inverno, che quando è ora di metter le patate torna!” Ma io ho pensato nella mia testa: “Se prendo la Cortèla vàrda ti se vegnerò ancora!”».
5. Negli anni ‘50 la famiglia contadino-patriarcale stringeva le ali del femminile. La donna viveva in un contesto familiare ben defnito e con ruoli precisi. Ne era al contempo la regina (l’anello forte per dirla con Nuto Revelli) e la serva, perché l’ambito domestico era il suo unico raggio d’azione. Infatti la gestione dell’abitazione, la cura dei fgli, degli anziani, dei campi e in alcuni casi dell’allevamento erano in mano sua. Si diceva: la fémena la cén su tre cantoni de la casa, el om uno sól. Ma l’angolo sorretto dall’uomo era il più solido: il maschio di casa sanciva le regole, gestiva il denaro, defniva i rapporti con il fuori. Era in vigore la regola sociale della virilocalità: secondo la quale col matrimonio la sposa doveva spostarsi nella casa del marito (se avveniva il contrario, se era l’uomo a spostarsi nella casa della donna, scattava la derisione: ti sé en cuch!). La donna quindi usciva dalla domesticità del maschio-padre per entrare in quella del maschio-marito, portando con sé la dote. Quindi era l’uomo il possessore della casa e, automaticamente, di tutto quello che nella casa era presente: quindi anche della donna. Le «domestiche» erano sempre e soltanto tóse: ragazze non sposate dai 14 anni in su. L’essere nubili era una delle condizioni imprescindibili: «si fdava moltissimo di noi il Commendatore. Però non dovevamo sposarci. Perché secondo lui noi eravamo delle fglie». Ad ascoltare queste parole sembra che le tóse passassero da una casa padronale (quella del padre) ad un altra (quella del cittadino-borghese). Rimanevano fglie, perché rimanevano serve di un padrone. Così come rimanevano serve le ragazze che andavano a servire Dio indossando l’abito monastico. Fu il caso di Marina, che nel 1946, dalla veste
delle Dame di Sion di Trieste passa al grembiule bianco della donna di servizio in Svizzera: «dopo la quinta elementare sono andata in questo collegio di suore francesi, Dame di Sion, e dopo volevano farmi diventare suora ma io ho detto: “Io non ho la vocazione e non mi sposo, resto libera”. E così ho fatto. Le mie sorelle sono diventate tutte e due suore, di clausura: una è morta a 96 anni e l’altra a 90. [...] [In Svizzera] i primi anni sono stati i più diffcili, perché venivo dal collegio e molte cose non le sapevo fare [...]. Per il servizio c’era il grembiule bianco e guardavano se ero pettinata, lavata e cambiata». Ma non era solo la famiglia a stringere le ali del femminile: c’erano anche altri strati sociali che chiudevano gli orizzonti delle tóse. Oltre a quello della casa, o strato domestico, gestito dal padre e, secondariamente, dalla madre; c’era lo strato lavorativo, composto da specifche mansioni e ambienti esclusivi di sole donne o ragazze, gestiti da fgure femminili carismatiche; poi lo strato comunitario, gestito dalle autorità civili; infne la parrocchia, strato morale gestita dal parroco. Con questi quattro strati sociali la tósa doveva fare i conti al momento della partenza.
Emblematica, in tal senso, la storia di Veronica. Nel 1954 il suo futuro datore di lavoro la vede in un albergo di San Martino e la vuole come donna di servizio. Si reca quindi a casa di Veronica per incontrare i genitori (primo strato) per tre volte, portando con sé tre personaggi differenti. «La prima volta è venuto con una donna di Primiero. Quando è andato via mi ha detto che doveva valutare perché aveva alcune ragazze per le mani» (secondo strato).
Dopo una settimana ritorna «con un carabiniere. Era andato dai carabinieri perché voleva delle persone fdate» (terzo strato). L’ultima volta arriva con il parroco: «son passate altre due settimane e il Signore è venuto col prete, era don Scrinzi. Era andato a chiedergli informazioni sulla mia famiglia» (quarto strato). Dopo il via-libera della donna-carismatica, dell’autorità e del prete Veronica aspetta di ottenere quello della famiglia. La decisione familiare era l’ultima, spesso era la madre ad esprimersi in quanto la tósa era ancora legata alla domesticità e quindi alla donna di casa. Veronica racconta che «la mamma per risposta non ha detto né si né no, mi ha detto soltanto: “Se ti va a Roma no ti vién pì a casa”»; Veronica partì lo stesso e ancora oggi vive a Roma.
6. Molte ragazze disubbidirono ai genitori. Mariuccia afferma che partì in servizio «senza salutare il papà perché lui non voleva che io ci andassi» e anche Teodora non ebbe l’approvazione del padre. Era quindi possibile partire contro la volontà familiare, da un lato perché il volere della ragazza era supportato dagli altri strati (donna-carismatica, autorità, parroco), dall’altro perché la partenza, nonostante la disapprovazione, garantiva alla famiglia un
introito economico da aggiungere alla produzione agro-pastorale.
La disubbidienza a volte toccava però anche gli altri strati sociali: alcune tóse uscivano dalla comunità senza tutti i via-libera. Fuggendo da casa sfuggivano al controllo civile e soprattutto morale. Il clero ne era preoccupato e infastidito, a vari livelli e gradi. Sulla Rivista del clero italiano, nel 1932, apparve l’articolo intitolato Il problema delle domestiche dove si denunciava che «spesso non il reale bisogno sospinge a lasciare il focolare paterno; ma alla grande città attrae l’ansia d’una vita nuova, più brillante, più comoda» [Sarti: 24].
Anche sul Foglio diocesano trentino, l’organo di informazione della Curia vescovile, si scrisse che nelle città: «i pericoli sono assai gravi, dove le lusinghe del lusso e dei divertimenti diventano per molte una triste scuola a cui imparano la leggerezza, il desiderio di indipendenza, il disprezzo della vita sana e semplice dei monti. Così che al ritorno esse non possono essere che delle spostate» [Leoni: 128].
Anche il bollettino decanale Voci di Primiero affrontò il problema con alcuni articoli in cui i parroci richiamavano le ragazze ai valori della morale cristiana: la messa domenicale, il vestire sobrio; e denunciavano i pericoli: le compagnie maschili, «il cinematografo». Nel giugno 1942 appare in prima pagina il testo Le nostre domestiche con le 6 regole per affrontare «il problema» delle ragazze che vanno in città:
«1) Nessuna ragazza dovrebbe andare in servizio senza una vera necessità: no mai per smania di libertà e di emancipazione dai genitori.
2) Prima di accettare una qualsiasi offerta di servizio da compagne che stanno ormai in città, da persone che vengono in villeggiatura, che, come di solito succede, conducono via la ragazza, si deve prima a mezzo del proprio parroco o della corrispondente della Protezione delle Giovane che ora c’è quasi in tutti i nostri paesi, prendere sicure informazioni. […]
3) Prima di partire passare a salutare il proprio parroco, che darà quegli avvisi e norme che non sono mai inculcate abbastanza. […]
4) In città ogni domestica deve darsi premura di cercare il ritrovo domestiche domenicale che assiste e diverte le giovani nelle ore di libera uscita. […]
5) Ad ogni dubbio o richiamo che giungesse a conoscenza dei genitori, questi non esitino a ritirare la loro fglia se non vogliono poi assistere a disastri irrimediabili.
6) All’osservazione di molte mamme che se le loro fglie vogliono fare il male lo possono fare anche a casa, rispondiamo che non c’è solo da salvaguardare l’onore davanti al mondo per essere cristiani, ma che l’ansia
di ogni mamma deve essere quella di non permettere che la propria fglia rovini la coscienza e si abitui ad un metodo di vita che è l’antitesi di tutto il tesoro di bontà purezza e semplicità che è il fore più bello delle nostre valli alpine
I vostri Parroci» [Voci di Primiero, 1942, n. 6]
6. «Il fore più bello delle nostre valli alpine» si sta sciupando, scrivono i parroci. In questa frase è racchiusa l’idea che la valle era considerata un mondo perfetto ed equilibrato da salvaguardare a tutti i costi. Per mantenerlo intatto andavano custodite, prima di tutto, le autorità di potere che possiedono le chiavi di lettura del mondo. Ogni cambiamento era un peggioramento. Il cambiamento però era inevitabilmente già arrivato nel dopoguerra ed i confni geografci e con essi i margini morali si stavano dilatando. Scrive Diego Leoni: «l’esperienza nella società contadina è basata non sulla conoscenza ma sull’autorità: l’esperienza della donna di servizio è invece fondata sulla conoscenza diretta: prima di tutto e soprattutto di uno spazio e di un tempo nuovi» [Leoni: 128]. La tósa viaggiava, visitava luoghi diversi, entrava in contatto con sistemi di vita differenti e con nuovi ritmi dell’esistenza. I ritmi in città erano differenti rispetto a quelli del paesino. Nelle società contadine di montagna esisteva il tempo del lavoro: scandito dalla luce del sole, dal momento dei pasti, dalle necessità di animali e piante, dalla ciclicità stagionale; e il tempo della festa: ritmato dalla liturgia e ritualità religiosa. Le attività erano svolte in spazi precisi: luoghi domestici, luoghi di lavoro e luoghi religiosi. Le ragazze in servizio vissero invece una diversa concezione del tempo, basato sulla giornata e sulla settimana, e una nuova idea dello spazio femminile. Incontrarono il tempo libero e lo spazio dello svago. Ecco dunque le ore di libertà ed i nuovi spazi d’incontro: «la domenica pomeriggio ero libera e ci trovavamo in diverse ragazze, nessuna da Primiero ma da Gosaldo sì E si andava alla stazione di Milano, nella sala d’aspetto a far su bordèl»; «il tempo libero era ridotto a mezza giornata la settimana [...] così si approfttava per fare qualche spesetta personale, [...] dal parrucchiere, scrivere a casa o alle amiche». Le tóse incontrarono poi i ragazzi e con essi una nuova idea di sentimenti, fsicità e fedeltà: «Arrivavano i ragazzi della naja a Villa Borghese e a piazza Ungheria. Le nostre padrone ci raccomandavano di non andarci. [...] E allora tutti a Villa Borghese e Villa Gloria. Un’amica mi ha detto: “Trovami il fdanzato!”, “Seguimi e lo troverai”, ho risposto. E difatti uno se lo è trovato»; «fuori dalla valle era un altro mondo. Si vedevano cose che qui a Primiero sono arrivate cinquanta anni dopo. Si vedevano cose che ti te féi marevéa. Le coppie si facevano i corni, c’erano fgli illegittimi. Invece qua si andava in flò dopo rosari
Poi ci si sposava, spesso tra paesani. Se un uomo sposava una donna di un altro paese, per esempio da Siror, si diceva che sposava na forèsta».
7. E poi le «persone che vengono in villeggiatura» che, come scrivono i parroci, «conducono via la ragazza». Infatti la modernità proruppe in valle non solo con le ragazze che tornavano dalla loro esperienza di servizio portando con sé, spesso inconsapevolmente, una nuova visione del tempo e dello spazio o nuove competenze pratiche (il modo di vestirsi, di pettinarsi, di cucinare, di gestire la casa), ma entrò in valle soprattutto con i cittadini che salgono a Primiero per vivere il loro tempo libero.
La presenza in valle di questi cittadini-villeggianti accelera la partenza di «domestiche»: «[ero] a fare la stagione all’Albergo Belvedere, a Transacqua. Lì ho conosciuto due anziani, marito e moglie che gli sono ndàta in simpatia e mi hanno chiesto se andavo a Milano con loro. Era il 1955». Avveniva in alcuni casi un reclutamento diretto, ma la maggioranza delle volte le tóse seguivano ancora un’emigrazione a catena in cui una ragazza chiamava l’altra: «sono arriva lì tramite il passaparola, attraverso una mia amica che era già a Murano». Oppure il reclutamento avveniva da parte di donne di Primiero che facevano da intermediarie con la famiglia di città: «era una signora dei Masi a trovarci la famiglia, si chiamava Ceste. Lei lavorava in una famiglia a Milano [...]. Tutte erano raccomandate da lei, che trovava le famiglie a Milano e poi ce lo comunicava».
La preoccupazione dei parroci relativa ai cittadini-villeggianti era dunque fondata: erano un nuovo trampolino per l’emigrazione femminile, ma soprattutto erano gli artefci di alcuni cambiamenti sul modo di abitare il territorio di Primiero. La villeggiatura si sviluppò non soltanto a livello alberghiero (dove le nostre ragazze lavoravano nel periodo estivo e delle festività natalizie), ma anche a livello domestico, entrando profondamente nelle abitazioni dei primierotti e nella loro mentalità. Il livello domestico era gestito dalle donne di casa, come ci racconta Antonia: «soldi non ce n’erano nelle famiglie. Allora le donne hanno cominciato ad affttare un po’ le case, che alcuni d’estate andavano su al maso e lasciavano le case libere per i turisti, altri si trasferivano in una sofftta o in un vòlt. A un certo periodo affttavano tutti e tutti i buchi. C’era ancora l’acqua alla fontana. Il cesso, solo i più fortunati lo avevano in cima alle scale o nel giroscale. C’era chi aveva il cesso nell’orto e affttavano». Primiero cominciò così a considerarsi come un luogo-da-tempo-libero, un luogo che a Caterina appare meno agricolo e più chic di altre vallate trentine: «la Val di Fiemme mi sembrava più agricola di Primiero anche se c’era qualche industria di scarpe e pianoforti. Primiero però era più raffnato, c’era
più lusso e più negozi, pensavo: “i é pi indrìo qua!” Noi eravamo più avanti di loro. Un tassista che passava sempre in pasticceria diceva: “Che belle feste che fanno a Primiero e quanta gente!” E mi faceva venire la malinconia». Fu proprio sulla scia dei villeggianti, di un turismo ricco e pretenzioso, che la valle avviò nuovi lavori pubblici, infrastrutturali, energetici ed edilizi; e gli occupati in agricoltura calarono drasticamente: nel 1951 erano il 49% dei lavoratori (2.360 persone), nel 1961 diventano il 31% (1.401 persone) per ridursi al 15% nel 1971 (293 persone) [Istat]. I primierotti, a partire dal dopoguerra, cambiarono defnitivamente la visione del proprio luogo, di sé stessi e delle proprie autorità.
8. Fu così che ebbe fne l’epoca delle «domestiche». Perché partire ed andare dai cittadini quando sono loro a venire a Primiero, portando con sé soldi e novità? Calò così la spinta a partire e le tóse iniziarono ad occuparsi dell’ospitalità domestica del villeggiante: ammodernarono la casa o spinsero per la costruzione di una casa per i sióri. In valle l’edilizia privata esplose in quegli anni occupando ettari ed ettari di suolo: si passa dai circa 130 ettari edifcati nel 1960 ai quasi 270 nel 1980 [www.paesaggideltrentino.it].
Durante gli anni ‘60 cambia anche la richiesta da parte della borghesia cittadina italiana. Da poco erano state approvate nuove normative che limitavano la libertà del datore di lavoro: è del 1958 la prima (e ancora unica) legge che regola il lavoro domestico e ne defnisce le modalità il collocamento e l’avviamento al lavoro, l’assunzione, il periodo di prova, i diritti e i doveri del lavoratore e del datore di lavoro, il riposo settimanale, l’orario di lavoro e il riposo, i giorni festivi, le ferie, il congedo matrimoniale, il preavviso, l’indennità di anzianità, l’indennità in caso di morte e la tredicesima. Istituisce inoltre la commissione centrale per la disciplina del lavoro domestico e le commissioni provinciali per il personale domestico [Sarti: 27]. I sióri si spaventano, si sentono schiacciati dalle nuove regole e dai nuovi i costi: quindi chiamano meno tóse a servizio.
Parallelamente avvenne una modernizzazione del lavoro, ovvero la diffusione su larga scala di lavatrici ed elettrodomestici che alleggeriscono il peso delle faccende casalinghe. Questo non portò tanto al miglioramento delle condizioni e dei ritmi di lavoro, ma provocò la riduzione e la parziale scomparsa del personale. Nelle città italiane si ridusse di molto la fgura del domestico che abitava con i datori di lavoro: nel 1951 erano il 74%, nel 1961 solo il 41% [Sarti: 29]. Non serviva più una tósa sempre disponibile ad ogni ora del giorno e della notte: c’erano le macchine della modernità che lavavano e pulivano; e poi una ragazza in casa proveniente da lontano, magari dalla montagna,
costava troppo. Subentrano così nuove fgure specifche, una su tutte la donna delle pulizie, spesso impiegata da più famiglie e residente nella zona, magari a casa propria.
Si concluse così un’esperienza collettiva che unì per almeno un secolo migliaia di ragazze primierotte: dalla Domenica Renon che partì nel 1852 da Sagron Mis, a Francesca che nel 1963 lascia Pieve. Un’esperienza collettiva lunga oltre un secolo che ha tessuto assieme paura e desiderio, montagna e città, povertà e ricchezza, tradizione e modernità, autorità e libertà.
Angelo Longo
Fonti d’archivio e bibliograFiche.
Archivio Comunale di Sagron Mis (Consiglio scolastico locale di Sagron Mis, 1894 - [1920], A3.1-1, 1894; e Carteggio e atti ordinati per annata 1857-1923, 1886, 1.2.2-17, n. 47; 1887, 1.2.2-18; 1887, 1.2.2-18, n. 147) e Archivio Comunale di Tonadico (Registri delle pratiche di immigrazione ed emigrazione, 1947 – 1975: 1.6.30-1 e 1.6.30-2).
Renzo Maria Grosselli, Oltre ogni confne: l’emigrazione di un distretto delle Alpi tra Otto e Novecento, il Vanoi nelle testimonianze orali, Trento 2007. Angelo Longo, Partire, restare, tornare: sei sguardi sull’emigrazione di Sagron Mis (Primiero), «Rivista Feltrina» 33, Feltre 2014, pp. 29-48.
Diego Leoni, La comunità delle donne di servizio, «Materiali di lavoro» 4, Rovereto 1983, pp. 125-134.
Francesca Massarotto Raouik, Oltre la nostalgia: l’emigrazione trentina al femminile, Belgio e Canada, vol. I, Trento 1991.
Guido Crainz, Storia della Repubblica: l’Italia dalla liberazione ad oggi, Roma 2016.
Raffaella Sarti, Serva, Colf, “badante”: per una storia delle lavoratrici domestiche dall’unità ad oggi, «Colf d’Italia: 150 anni di lavoro domestico per raccontare l’Italia che cura», Roma 2011, pp. 17-32
Fonti orali.
Per ricostruire le vicende qui descritte sono state utilizzate in particolar modo delle fonti orali ovvero interviste registrate realizzate con metodo storico. In questo capitolo compaiono interviste tratte da pubblicazioni: quelle a Clorinda Orsingher, Domenica Rattin e Luigi Orsingher realizzate da Renzo Maria Grosselli nel 1993; e quelle a Maria Celestina Broch e Vittorina Salvadori registrate da Angelo Longo nel 2010.
La gran parte delle parole però provengono da registrazioni realizzate appositamente per questo lavoro di ricerca tra settembre ed ottobre 2022. Si tratta di 14 interviste a 14 donne: Marina, Mariuccia, Carla, Caterina, Giovanna, Antonia, Teodora, Gabriella, Anna, Ada, Veronica, Maddalena, Lidia, Francesca; che raccontano la loro esperienza di emigrazione a 7 differenti intervistatrici. Queste 14 fonti orali sono trascritte nei prossimi capitoli (non l’intera intervista, ma solo le parti attinenti al tema dell’emigrazione). Alcune intervistate non hanno voluto comparire con il loro nome di battesimo ed è stato assegnato loro un nome di fantasia. Le loro parole-orali sono state rielaborate in parole-scritte utilizzando il metodo del testo normalizzato: è avvenuto un montaggio per temi delle parti di discorso rispettando però la sintassi delle frasi, le ripetizioni e mantenendo alcune espressioni e termini nella forma dialettale. Questo tipo di trascrizione ci ha permesso di rendere facilmente comprensibili e leggibili le fonti (il nostro obiettivo di ricerca); e di rispettare il patto con le narratrici, che hanno rivisto il testo trascritto.
Le interviste sono conservate presso gli archivi personali dei curatori del progetto e possono essere consultate previa richiesta e autorizzazione da parte delle intervistate o dei loro parenti.
... quello che contava era comportarsi bene ed essere sempre disponibili.
Io sono andata in Svizzera. Sono partita nel 1946, il 7 o 8 ottobre, che era ancora guerra. Prima sono andata a Ginevra, da un italiano originario di Treviso che aveva sposato una donna svizzera. Sono stata un po’ con loro. Poi sono andata nella famiglia del fratello di lui, a Solothurn, e ho fatto 19 anni sempre in questa famiglia. E alla fne in un’altra famiglia per 5 anni consecutivi. In Svizzera mi ha trovato lavoro una ragazza di Mezzano che poi è diventata mia cognata. Lei era già lì. Ed è rimasta lì per due anni, poi e tornata a Primiero e ha sposato mio fratello. Io invece sono rimasta in Svizzera, sempre. E in Svizzera ho fatto venire anche tre miei fratelli. Eravamo in 11 fratelli in tutto. Tre li ho fatti venire per lavorare in una cava di sabbia: scavavano la montagna. E pensa che due di loro, mentre uno scavava con la pàchera e l’altro con il badile, sono rimasti sepolti dalla sabbia. Per fortuna che qualcuno ha visto la scena e ha chiamato il padrone. Li hanno salvati, per fortuna. Loro facevano la stagione: da febbraio a dicembre e poi tornavano a casa. Sono rimasti 3-4 anni. Avevano un capannone dove vivevano, come una casa. Abbiamo dovuto emigrare perché qui a Primiero non c’era lavoro. Prima di venire con me in Svizzera, i miei fratelli, erano in Francia. In Svizzera sono andata da sola, col treno. Non avevo mai viaggiato prima di allora. Non sono partita da Primiero ma da Trieste, perché ero in un collegio
Abbiamo dovuto emigrare perché qui a Primiero non c’era lavoro
di suore con due mie sorelle. Dopo la quinta elementare sono andata in questo collegio di suore francesi, Dame di Sion, e dopo volevano farmi diventare suora ma io ho detto: “Io non ho la vocazione e non mi sposo, resto libera”. E così ho fatto. Le mie sorelle sono diventate tutte e due suore, di clausura: una è morta a 96 anni e l’altra a 90.
Sono rimasta chiusa per cinque anni in quel collegio di Trieste. Se ogni tanto si andava a passeggiare, guai se si trovava qualcuno per strada, non si poteva fermarsi a vedere un bambino o così, guai! Erano rigide le suore. Anche noi eravamo vestite da suore, che io ho pensato: “Mai diventerò suora”. Sai cosa facevamo in collegio? Scarpe. Le suore ci insegnavano a fare scarpe e basta. Però ho imparato anche il francese da loro.
C’erano quattordici locali da pulire e tappeti
Sono partita così, allo sbaraglio, avevo solo la valigia. Non conoscevo niente del mondo: venire fuori dal collegio, andare in treno, arrivare a Milano, vedere tutta quella moltitudine di gente! Io vestita da poré diaóla. Avevo i capelli ricci che non ti dico, sembravano un cespuglio. Che con i primi soldi che ho preso sono andata dal parrucchiere a tagliarli corti, che mi ha detto: “Signorina può prenderli a fare un bel cuscino”. Ho passato 19 anni sempre nella stessa famiglia. La Signora era molto ricca, aveva ancora i genitori in vita. Gestivano delle cave, erano cinque sorelle. In quelle cave hanno lavorato i miei fratelli. Il Signore era un ingegnere di Treviso. Avevano due fglie femmine, piccole eh! La prima aveva due anni e la seconda non c’era ancora quando sono arrivata da loro, è nata dopo. Ero la sola ragazza di servizio nella famiglia. Facevo di tutto e guardavo anche i bambini. I primi anni sono stati i più diffcili, perché venivo dal collegio e molte cose non le sapevo fare, allora li ho passati assieme con la signora che i mestieri se li sapeva fare anche da sola. Per il servizio c’era il grembiule bianco e guardavano se ero pettinata, lavata e cambiata. Avevano una villa in campagna. C’erano quattordici locali da pulire e tappeti persiani che bisognava mezz’ora per tappeto a passar l’aspirapolvere: perché erano così grandi che non li portavo a sbattere nella neve. Però la signora mi aiutava, anche lei con il grembiule bianco, mi insegnava come fare. Da lei ho imparato i lavori di casa, a servire a tavola, a lavare. Ho conosciuto anche delle domestiche di Treviso, che non si trovavano bene nelle loro famiglie. E rimanevano un anno e se non si trovavano bene, basta, non ti tengono neanche. Perché è questione di fortuna, anche. Il primo servizio era il primo servizio. Se
la Signora ti diceva che dovevi stirare delle robe, lei vedeva come stiravi e si accorgeva subito se eri brava o no. Ti teneva un anno di prova e dopo magari diceva: “No”. Io sono stata fortunata che mi hanno tenuta. Avevi il tuo libretto e tu eri quello che era scritto lì dentro.
Quello che contava era comportarsi bene ed essere sempre disponibili. Ogni tanto con la famiglia si andava a fare una gita, ti prendevano dietro. Avevo la giornata libera il mercoledì o il giovedì, a seconda dei lavori che c’erano. Avevo anche le ferie: tre settimane a luglio, ogni estate, tornavo a Primiero col treno.
Avevi il tuo libretto e tu eri quello che era scritto
lì dentro
Quando avevo il pomeriggio libero facevo i piatti e potevo andare a dormire o fare maglia, fare quello che volevo. Puoi anche andare un’ora in città a vedere, così. Spesso andavo a trovare persone che conoscevo. Avevo conosciuto una famiglia di Udine, che lavorava in fabbrica e avevano 3 bambine. E una donna di Tonadico che spesso aiutavo perché le tenevo i bambini. A volte andavamo assieme in città, a vedere le vetrine. Si faceva una passeggiata. Oppure andavamo alla Missione, ma di solito la domenica e lì mangiavamo e facevamo giochi e altre cose con altri italiani più che altro del Sud.
Poi ho visto che in questa famiglia non avevano più bisogno di me, le fglie erano grandi, a loro bastava una persona a ore e bon. E poi volevo guadagnare più soldi, per quello ho cambiato.
Allora sono andata in un’altra famiglia. Anche questa era benestante. La Signora era americana, una semplice segretaria però molto brava e molto gentile con me. Veniva da una famiglia ricca, avevano palazzi in America e facevano la carta. Lei mi trattava come una di famiglia. Mangiavo assieme a lei. Tutto insieme facevamo, con due fgli. Lui era un ingegnere.
Ero da sola anche nella seconda famiglia. Avevamo una casa piccola, con tre camere: una per loro, una per il bambino e una per me. Mi hanno trattata non come una serva, ma una di casa. Quel bambino l’ho praticamente tirato su io. Nel 1973 sono tornata al paese, ho abbandonato la Svizzera, e ho trovato un posto in una famiglia di Primiero dove ho lavorato 15 anni. Sono tornata per stare vicina alla mamma, perché era da sola e allora ci siamo fatte compagnia due anni. Poi lei e morta e sono rimasta sola.
Ho ancora contatti con tutte e due le famiglie. Ogni tanto vengono a trovarmi le bambine della prima famiglia in cui ho lavorato, adesso la grande ha 75 anni e l’altra ha 73 anni.
... era lavoro solo stagionale, solo d’inverno potevo andare.
primi
soldi
guadagnati li ho spesi subito per un paio di sandali fatti con la stoffa da vestito
A servizio ci andavo solo in inverno. Partivo senza salutare il papà perché lui non voleva che io ci andassi. Andavo perché volevo soldi e per avere soldi dovevo fare così: partire in servizio. Prima sono andata a Codroipo. Lì lavavo i panni nel fume Varmo, perché i sióri non avevano l’acqua in casa. Mi erano venute le mani piene di piaghe a forza di lavare nel fume. Il dottore mi aveva dato degli ónti, ma non contavano nulla. La pomata fatta dei contadini con lo strutto di maiale invece mi ha guarito. Me l’aveva data una ragazza di Codroipo di nome Maria, ancora adesso, dopo 80 anni, siamo ancora amiche.
Mi aiutavano i contadini della zona, ero amica dei contadini, ballavamo nei cortili. La Signora invece non era loro amica. I contadini della zona dicevano: “il Signore è bravo, lei è una arpia”. La Signora non era ben vista da nessuno. Un giorno mi disse: “Ragazza, se viene un terremoto tu prendi la bambina che io prendo la pelliccia”. Lei aveva in mente solo la pelliccia.
In casa arrivavano salsicce, formaggio, pollastri da parte dei contadini perché la gente pagava i miei Signori con le cose da contadini, la gente non aveva soldi. Io mangiavo: ero diventata grassa.
I primi soldi guadagnati li ho spesi subito per un paio di sandali fatti con la stoffa da vestito. Quando sono tornata a casa li ho subito indossati questi sandali per andare a ballare a Valmesta. Ci sono andata in bicicletta. Ma sulla curva della Birreria, a Nolesca, sono caduta: i sandali si sono tutti rotti e mi sono sbucciata tutte le ginocchia. Il giorno dopo dovevo andare a messa a San Silvestro, ma non riuscivo ad alzarmi dal letto. Sentivo fuori dalla stanza mio papà che diceva: “No la leva su quela mula a ndar a San Silvestro!” E mia madre rispondeva: “No la sta mia ben, eh!” Avevo le ginocchia piene di sassi e ghiaia della strada.
Un solo inverno sono andata a Codroipo, poi ho cambiato ed ho iniziato ad andare a Milano.
A Milano sono stata in varie case. In una famiglia mi facevano stirare le lenzuola con l’amido e pulire le interiora di pollo per poi mangiarmele. Ma guarda un po’: ero povera, si, ma non da mangiare quelle cose. Tre-quattro giorni ho resistito e poi me ne sono andata. Sono stati gli unici a controllarmi la valigia quando sono partita: la Signora me l’ha fatta mettere sulla sedia, la ha aperta e poi mi ha lasciato partire.
Da un’altra parte sono stata bene. I miei sióri lasciavano a me i loro due fgli ed andavano di notte a vedere le prime degli spettacoli a Torino, quelle sere in cui le donne si vestono tutte belle e guardano con i binocoli. Si fdavano di me. Mi hanno chiesto se tornavo anche il secondo anno, ma non sono tornata. Era lavoro solo stagionale, solo d’inverno potevo andare.
Era una signora dei Masi a trovarci la famiglia, si chiamava Ceste
Era una signora dei Masi a trovarci la famiglia, si chiamava Ceste. Lei lavorava in una famiglia a Milano, fnché è morta ha lavorato lì. Tutte erano raccomandate da lei, che trovava le famiglie a Milano e poi ce lo diceva: “ho catà en posto così, ho catà en posto colà”. Lei diceva se i sióri erano polìto oppure no. E i sióri erano contenti e si rivolgevano proprio a lei perché volevano ragazze della montagna perché erano brave e lavoratrici, quelle altre, dalla città, lo erano meno. Era un vero e proprio passa parola, anche tra le ragazze. Morta la Ceste se ne è occupata un’altra donna di tiràr su le tóse a ndar in servizio.
Sono stata anche a Trento. È stata una ragazza di Imèr a chiamarmi giù dal fratello del suo parón. Lei era da un fratello e io dall’altro.
La prima notte che sono arrivata a Trento, la Signora ha detto: “Dove la met-
tiamo a dormire sta ragazza? La mettiamo sul divano fnché la stanza per lei non sarà pronta. Ci sono il lenzuolo e la coperta dentro”. Ma mostro, io non avevo mai visto un canapè che si apriva su. Io avevo paura che si chiudesse e di rimanere dentro come un topo. Non ho dormito per tutta la notte. Con parte della paga di Trento ho preso il materasso di crine.
Però si aveva molta nostalgia. Io moltissima, piangevo spesso la sera. Scrivevo lettere per non piangere. E ne ricevevo tantissime di lettere e cartoline: bruciavo una volta a settimana una cassa di lettere. Avevo foderato l’intera mia stanza di cartoline e lettere.
Il postino di Imér mi recapitava 8-10 lettere al giorno. A volte le trovavo a primavera quando si era consumata la catasta di legna, perché il postino me le buttava dietro la legna da quante ce ne erano. E me le leggeva! Perché sapeva che erano morosi a scrivermi, morosi di penna eh!
Ma quando qualcuno si proponeva di venire a trovarmi io rispondevo secca di no, a tutti, nessuno è mai venuto quassù a trovarmi, siamo matti? Dicevo loro: “io abito in un posto ripido, sulle montagne! Non riuscireste nemmeno a trovarmi quassù!” Io ero allegra, volevo libertà per tutto. Ma solamente per parlare, solo parlare e basta.
Sono stata anche a Roma. Eravamo in 14-15 di Primiero a Roma: era il 1950, l’Anno Santo.
“È lei la signorina dalla borsa marrone e le margherite gialle?”
“Come facciamo a riconoscerla in stazione”, mi ha chiesto la Signora al telefono. “Avrò una borsa marrone di plastica con le margherite gialle”, ho risposto. Dopo nove ore di viaggio in treno da Padova a Roma, sono scesa in stazione. C’era gente dappertutto, il piazzale era enorme: “Cosa farò adesso!”, mi sono detta. Ma subito mi viene in contro una signora che mi chiede: “È lei la signorina dalla borsa marrone e le margherite gialle?” Ben, ho tirà su el fà che no te dighe niànca
Era una famiglia di brave persone, avevano anche il giardiniere e la cuoca. Il Signore era un capo nelle industrie. La Signora era gentilissima.
Una volta, ad una delle bambine di case sono cadute le mutande. Allora le ho detto: “Ti sono cadute le mutande”. Lei mi ha risposto: “Tu sei la mia serva, raccoglimele tu!” Ma la madre ha sentito e allora è intervenuta: “Chiedi scusa. Raccoglile tu e chiedi scusa!” E poi le ha fatto scrivere su un foglio per mezz’ora intera, come penitenza: non ti dirò più che sei la mia serva.
Io e una mia amica avevamo i biglietti per andare dal Papa, fn dentro la chiesa, era riservato a pochissimi.
Ma noi andavamo solo un po’ in chiesa e poi si andava a Villa Borghese. Arrivavano i ragazzi della naja a Villa Borghese e a piazza Ungheria. Le nostre padrone ci raccomandavano di non andarci. Io un giorno sono passata proprio per piazza Ungheria. Ero tutta dritta. E ho sentito chiamare il mio nome, più e più volte. Giro un po’ la testa, ho provato a guardare. Hanno ripetuto il mio nome più forte. “Chiamate me?”, urlo. “Si”, risponde una voce maschile. Era uno di Imèr con i suoi amici. Tutti che mi rincorrevano dopo. E allora tutti a Villa Borghese e Villa Gloria. Un’amica mi ha detto: “Trovami il fdanzato!”, “Seguimi e lo troverai”, ho risposto.
E difatti uno se lo è trovato.
Arrivavano i ragazzi
della naja a Villa Borghese e a piazza
Ungheria
Avevamo però paura di uscire, stavamo in giro al massimo due ore, non avevamo il coraggio di stare in giro di più. Se si usciva dal cinema alle cinque cominciava già il buio, come facevamo ad andare a casa? Una volta, mentre arrivava il buio della notte, stavo tornando a casa e mi sono accorta che uno mi seguiva. Per fortuna che la sióra mi ha vista risalire la via dalla fnestra: ha aperto di tutta fretta il portone e mi ha detto: “D’ora in poi non andare più in piazza Ungheria a messa, andrai solo dalle suore qui accanto.”
Eh, ero una ragazzina!
Io volevo fare l’infermiera quand’ero a Roma. Studiare. Mi avevano detto che ero idonea. Allora l’ho detto alla mamma: “Vardé che pense de star quadó a maggio parché scomìnzie en corso de infermiera.” Lei ha risposto: “No ghe dighe nianca a to pare che ti ha ste intenzión. Vàrda de eser qua par la fn del més, no sta fdar a disubedìr”. Allora son venuta in su: piangevano i sióri e piandée anca mi. Non si poteva fare quello che si voleva, c’era lavoro a casa.
... non sono tornata volentieri, mi sarebbe piaciuto rimanere a Roma.
Sono partita la prima volta l’autunno del 1948, a 16 anni. I sióri erano alla vecchia pensione Genzianella e volevano tornare a Bologna con una ragazza di qua perché sapevano che erano più baùche: che facevano tutto quello che veniva detto loro. Era stata la Pina che aveva chiesto alla nonna: “Mariota, l é sióri bòni bòni, i zérca sta tósa de ndar in dó, àsa ndar una de le tóe!” E allora sono andata io.
sono partita
un solo paio di scarpe e una valigia dell’America del papà
Era la prima volta che uscivo dalla valle. Quando sono partita avevo un solo paio di scarpe e una valigia dell’America del papà, ma tutto quello che avevo ci stava in quella valigia. Sono partita senza cappotto, perché era in lavorazione dalle Damiane e mai più lo fnivano ‘sto cappotto. Era freddo, Bologna è una città fredda. Me l’ha portato qualche mese dopo una donna di Primiero che era venuta a Bologna a trovare dei sióri. Il viaggio l’ho fatto in corriera. Siamo partiti assieme da qua, io e i sióri. Prima ci siamo fermati al Lido di Venezia, lì eravamo ospiti di una sióra che era sorella del parón.
Dal Lido avevo scritto una lettera a casa, avevo scritto: “Mamma, par carità de Dio qua, non mi pare sia una famiglia per me.” La padrona ha voluto spedirmela lei, anche se io non volevo, e me l’ha aperta la lettera! E dopo mi ha
fatto un lungo interrogatorio! Ma mi ha tenuto lo stesso, nonostante questo. Evidentemente le andavo bene.
La periferia di Bologna nel ‘48 era parecchio distrutta ma avevano costruito molto. Noi eravamo piuttosto in periferia, in via Parisio. Era una famiglia di quattro persone: marito e moglie e due bambini. Lui aveva terre in provincia di Rovigo e aveva sposato la fglia del suo fattore.
La mamma mi aveva insegnato a tenere in mano el broschìn
Ero la sola donna di servizio. Facevo di tutto e tutto a mano: non esistevano ancora gli elettrodomestici. Però non facevo da mangiare perché lo faceva la Signora, in questo si arrangiava. E la Signora ne faceva sempre poco, tutto molto misurato: il pane lo compravano a etto, non a chilo, ma a etto. L’avrei mangiato tutto io quando arrivava a casa.
La mia giornata si svolgeva iniziando con le pulizie di casa. Io le pulizie le sapevo fare, la mamma mi aveva insegnato a tenere in mano el broschìn. Ma la signora era molto pignola, non le andava mai bene niente.
La domenica pomeriggio ero libera. Avevo conosciuto una ragazza di nome Rosina che serviva in casa al piano di sotto. E ogni domenica si andava per chiese: San Petronio, San qua e San là... Le uniche cose che ho visto a Bologna sono state le chiese, non ho visto altro.
Sono rimasta 10 mesi perché poi bisognava tornare a casa per la fenagione. Poi non sono più voluta tornare.
Finito il lavoro a Bologna sono stata a San Martino, un mese all’Hotel Des Alpes, perché non tenevano di più di un mese, la stagione era corta. E da lì sono andata a Taormina: era il 1952. Ho compiuto gli anni laggiù: per il compleanno mi hanno regalato l’orologio, io non ce l’avevo. Sono andata a Taormina tramite un cuoco anziano che lavorava all’Hotel Des Alpes che voleva una cameriera per questo suo amico che gestiva la Pensione Minerva di Taormina.
Sono andata giù. Ho viaggiato giorno o notte, è stato un lungo viaggio.
Era una pensione modesta. La padrona era toscana, forentina: simpatica ma come tutti i toscani era ruffana. Mi sono trovata bene. Facevo le stagioni invernali: lì al mare fanno il bagno anche a febbraio e marzo.
Ero solo io come aiutante. La padrona faceva da mangiare e il padrone andava con l’asino per le sue terre dove aveva la vigna e poi faceva la spesa alimentare per la pensione. Avevano una ghiacciaia, non c’erano ancora i frighi e li
conservavano il cibo. Il ghiaccio veniva trasportato a dorso di mulo e arrivava da lontano.
Io facevo le camere, ne avevo 12, con un unico bagno. Poi lavoravo anche in sala da pranzo, facevo la cameriera. Non avevo nemmeno tempo per pettinarmi, ero sempre di fretta. C’era molto lavoro, ma avevo soddisfazione. C’erano sempre turisti stranieri, scandinavi. La sera preparavamo spesso i cestini da viaggio, perché venivano per visitare la Sicilia e andavano in giro: Catania, Siracusa...
Sono andata avanti e indietro dalla Sicilia alcune volte, mi pare fno al ‘56. Poi la mamma non ha più voluto che andassi giù, perché aveva paura che mi trovassi un siciliano e che rimanessi laggiù.
Nel 1954 sono andata a Madonna di Campiglio. Con me sono venute anche mia sorella e una amica. C’era da fare la stagione estiva. Ma in montagna durava poco. Nel ritorno abbiamo saputo della morte di Alcide De Gasperi e, dato che dovevamo fermarci a Trento per prendere la corriera, siamo andate a dare l’acquasanta a De Gasperi.
Mi ha messo in mano “ Cucchiaio d’Argento”
e ha detto: “Adesso ti arrangi e guardi qua!”
Poi a novembre di quell’anno sono andata a Roma, dalla Olga Villi. Lei era attrice, aveva sposato il Principe Raimondo Lanza di Trabia, avevano il castello a Trabia in Sicilia. In casa eravamo: io che cucinavo e pulivo, la cameriera che serviva in tavola e rifaceva il letto alla Principessa. La cameriera era una friulana vecchia, antipatica e zitella, odiosa. Poi c’era la cameriera di teatro. Ho imparato a fare da mangiare dalla Villi, perché mi ha messo in mano il Il Cucchiaio d’Argento e ha detto: “Adesso ti arrangi e guardi qua!”
La Principessa aveva due fglie: la più grande aveva la balia; poi, andata via la balia, è nata l’altra, proprio i giorni in cui il principe Lanza è morto. Proprio in quei giorni che sono arrivata io.
Si andava spesso a Trabia, ma una volta siamo venuti anche quassù a Primiero a Col. Avevano preso un appartamento in afftto. Olga Villi non poteva rimanere qui, doveva andare a fare teatro a Milano. Siamo rimaste qui con le due bambine io e la balia. Poi è venuta a prenderci: siamo andate prima a Roma e poi a Trabia.
A Roma c’era tanta confusione, ma mi piaceva. Noi abitavamo in via Circo Massimo. Ci si trovava spesso con altre donne in servizio; con mia zia, è stata
lei a farmi andare a Roma; e con altre di quassù. Sono rimasta dalla Villi per due anni.
Sono stata anche da un’altra famiglia a Roma. È stata la famiglia in cui mi sono trovata meglio. Erano in gamba, giusti. Non ti davano più del dovuto, ma erano giusti. Facevo la bambinaia ai due fgli: un maschio e una femmina. La signora si fdava di me. Il marito era ingegnere e collaudava macchine e ogni tanto partiva per il Giappone e la Signora lo seguiva sempre. Io rimanevo da sola coi bambini. La portinaia mi diceva sempre: “È strano che non portino i bambini dai nonni!” Infatti, prima di me, quando partivano, chiudevano tutto e portavano i bambini dai nonni e non li lasciavano alla ragazza di servizio.
Invece di me si fdavano.
Però i soldi li mandavo tutti a casa, e risparmiarli uno sull’altro
Andavo anche in vacanza con loro: un mese a Cortina, poi avevano una casa all’isola di Ponza dove andavamo d’estate. Non serviva che rientrassi a Primiero per il feno perché mio fratello si era sposato e c’era mia cognata che aiutava. Però i soldi li mandavo tutti a casa, e risparmiarli uno sull’altro. Avevano iniziato a fabricàr e c’era bisogno di soldi. In famiglia non c’erano grandi entrate: solo dopo, quando la mamma ha iniziato ad affttare ai turisti.
Sono tornata a Primiero perché i miei genitori diventavano anziani. Non sono tornata volentieri, mi sarebbe piaciuto rimanere a Roma. La Signora dove facevo la bambinaia mi ha chiamata al telefono anche qualche anno fa, per me è stata una grande sorpresa, e mi ha detto:” Non l’ho mai più sentita, perché non mi ha più telefonato?” Io mi sono scusata, ma allo stesso tempo pensavo che una volta terminato il lavoro nella casa dei sióri forse a loro non interessava più mantenere nessun contatto.
... i problemi venivano soprattutto dai genitori, che dicevano sempre no.
Sono partita a 17 anni nel 1949 e dopo poco ho compiuto 18 anni. Sono stata a Milano da novembre a giugno. In casa c’erano il marito, la moglie e basta. A Natale e Pasqua venivano le due fglie con le loro famiglie: una era giudice a Firenze e l’altra ingegnere a Carrara.
Questi signori venivano a Primiero in villeggiatura, venivano a casa nostra, io ero piccola.
Erano venuti per tre anni. E poi è successa una cosa da non credere.
Mia sorella più grande era già a Milano a lavorare e per caso ha conosciuto la Signora e un giorno le ha detto:
“Ma che bella ragazza, da dove vieni?”
“Sono Trentina. Da Primiero.”
“Ma sono stata anch’io a Primiero”
“Sul serio?”
“Hai altre sorelle? Tua sorella potrebbe venire da me a lavorare? Perché la ragazza che ho in casa si sposa e io rimango da sola e io non voglio rimanere sola”
“Scriverò per chiedere alla mamma!”
“No no, vieni a casa mia che ti faccio telefonare che ho premura”
Mia sorella è andata con la Signora e ha chiamato a casa, non so come abbia fatto perché noi a Primiero non avevamo il telefono, forse ha telefonato alla Cooperativa. E mia mamma mi ha detto: “Dai, vai dó ti, che ti ha sempre mal de panza e ladó ti magni bon e ti sta al calt!” Il papà non voleva. E io ho detto di si: quando si è giovani si è un po’ matti.
Ho preso la corriera, la Persival, che veniva giù da Cortina e passava per Feltre e giù fno a Milano. Sono arrivata a Milano, al Castello Sforzesco e lì c’era mia sorella con la Signora ad aspettarmi. Mi hanno portata a casa: la casa era nel Palazzo di Giustizia. Era enorme il Palazzo di Giustizia di Milano, con cortili e giardini, era grande come un paese. Il marito era Presidente della Corte d’Appello di Milano e vivevano all’ultimo piano di questo palazzo. L’appartamento era tutto chiuso con un muro che si vedeva dalle fnestre, era come una prigione, mi metteva paura. Mi son fatta un gran pianto il giorno che sono arrivata perché mi sembrava di essere in prigione: era pieno di carabinieri.
Appena arrivata la Signora mi ha fatto tagliare i capelli, perché diceva che era più igienico coi capelli corti. Mi ha portata da una parrucchiera e mi ha comperato il cappello, una sciarpa e i guanti.
Lei era un gendarme, lui invece era più alla mano. Dovevo sempre chiamarlo Eccellenza, ma a volte sbagliavo e dicevo Eminenza e la moglie: “Ma no, Eminenza si dice ad un Vescovo! Chiamalo Eccellenza!”
Al mattino mi alzavo alle 8 e andavo a prendere il latte e il giornale al Presidente. Era tutto lì sotto, lì vicino. Poteva andare anche l’Attendente a farlo, ma volevo andare io così uscivo un po’, ma la Signora avvisava tutti i carabinieri che mi seguivano dappertutto.
Preparavo la colazione e la portavo in camera ai Signori, che avevano i letti separati. Lui era un uomo piccolino, assomigliava al presidente Einaudi. Ogni tanto non lo vedevo tra le coperte di quanto era piccolo e magro. In casa c’erano sette camere con sette bagni. Io avevo la mia camera con il bagno, era rosa. Fee la sióra. Io non pulivo le camere, a pulire veniva l’Attendente con la moglie. Io facevo le pulizie della cucina e della lavanderia. Avevano la lavatrice a manovella. Per lavare i panni mi aiutava la Signora, separava i vestiti e poi veniva ad aiutarmi la mamma di un avvocato: una donna piccola e magra, si chiamava Giuditta. Io stiravo, ma non le camicie di seta, quelle le stirava la Giuditta. Io stiravo i baveri del Giudice con un ferro apposito, elettrico e piccolo. A volte cucinavo e veniva la Signora ad aiutarmi, a insegnarmi come dovevo fare. Avevano una cucina tutta bianca, grande come casa mia. C’era il forno elettrico e il frigo. Ne combinavo di tutti i colori. Mi sgridava anche la Signora. E io rispondevo: “Pò bèn, se no vaghe bèn vaghe a me casa!” Mangiavano
Io avevo la mia camera con il bagno, era rosa
poco. Pasta in bianco, minestrine, verdure cotte, catalogna, arrosto di vitello, ma fettine fne fne. Io invece avevo molta fame. Loro erano abituati così, ma io no.
Potevo uscire due ore al giorno, tutti i pomeriggi
Quegli anni a Milano avevano aperto la Rinascente con le scale mobili. La Signora di pomeriggio mi lasciava uscire con la sua nipotina quando c’era, dicevo che andavo al parco vicino al palazzo, ma invece andavo alla Rinascente. Andavo per guardare tutte quelle belle cose, non compravo mai niente. Un giorno ho perso la bambina! Me avee imbarlucà chissà dove e non l’ho più vista: ho cominciato a urlare come una matta! Mi vedevo già in prigione! Passa di là un commesso e mi dice che ha visto una bambina nella sala giochi. Sono salita di corsa e ho preso sta bambina e sono tornata a casa. Non l’ho mai detto ai Signori. E non sono mai più andata alla Rinascente. Potevo uscire due ore al giorno, tutti i pomeriggi. Non ho conosciuto altre ragazze. Non potevo fare amicizie perché c’erano sempre dei carabinieri in giro e la Signora non voleva che parlassi con nessuno: la me stéa drio che l’era robe èstra. Nel tempo libero giravo per mostre o al Duomo o per negozi, oppure andavo da mia sorella, lì dove lavorava, ma lei aveva pochissimo tempo. Ogni tanto veniva al Palazzo di Giustizia a trovarmi, di solito a ora di cena, e mi mangiava le patate: “Signora! mia sorella mi ha mangiato le patate”. Allora ridevano tutti e due i Signori. Oppure nel tempo libero andavo da un’altra signora, zia di un falegname di Primiero, e guardavo la televisione. Anche a Palazzo avevano la televisione, la accendevano ogni tanto di pomeriggio o di sera e la Signora mi chiamava: “Vieni che guardiamo assieme questo programma”. Lei voleva che passassi il tempo sempre con lei, a ricamare. Poi mi faceva aggiustare e rammendare i vestiti. Lei diceva che aveva fatto la scuola a Firenze assieme a Maria José.
La domenica andavo con loro a messa e poi in pasticceria al Motta o all’Alemagna, sempre con l’Attendente e la macchina dello Stato. A volte si usciva da Milano: Pavia e altre città nei paraggi. Mangiavamo fuori. E io li seguivo.
Mi piaceva molto leggere, la signora lo sapeva. Quando avevo fatto i mestieri e messo apposto, andavo nella camera a leggere. La Signora mi dava i libri, li sceglieva dalla biblioteca delle fglie. Aveva anche libri proibiti, quelli di Dumas, li chiudeva in un armadietto, ma io ho visto dove nascondeva la chiave. Lei si è accorta: “Hai preso il libro vero? Come no! Non sono libri per te!” Parlavano di amanti, tradimenti e robe del genere.
Mi sentivo sola in quella casa, che era troppo grande. A Natale è venuta giù mia sorella, solo per le festività. Lei badava alla bambina e io servivo a tavola: coi guanti bianchi e la cresta in testa. Quando avevano ospiti o per le feste a cucinare veniva la Giuditta. La sala da pranzo aveva statue – che roba! –quando entravo ciapée infìn paura! Avevano di quei servizi, che se tu vedessi: posate d’argento!
La Signora mi dava i libri, li sceglieva dalla biblioteca delle fglie
D’estate hanno voluto andare a Lecce, ma lì non volevo andare. Avevano una tenuta, il Signore era originario di lì. Mi sembrava che andare fno a Lecce era come andare in America. Io ho deciso di tornare a Primiero. Allora ci siamo accordati che quando tornavano in su da Lecce sarebbero venuti a prendermi. Sono venuti a prendermi ma io non ho più voluto andare con loro. Non per loro, che erano buoni, ma perché mi vedevo in quella casa enorme da sola.
Poi ho cominciato ad andare a lavorare negli alberghi. Non volevo lavorare a Primiero, non mi piaceva. Venivano i ragazzi dei paesi, al bar o all’albergo, ti prendevano in giro, ti davano troppa confdenza. Sono stata a Fai della Paganella: era tutto pieno di milanesi e veronesi. Ero lì con mia sorella, ci aveva fatto arrivare lì altra gente di Primiero. Eravamo in un albergo, in sala, ma il proprietario non ci aveva assicurato. Ho avuto una discussione con lui, non mi ricordo per cosa, e gli ho detto: “Lei ci fa fare più ore e non ci ha assicurato!” Si è arrabbiato tantissimo. Allora ho minacciato di andarmene. Ho detto a mia sorella: “Esci dalla sala, andiamocene!” Abbiamo preparato le valigie e siamo partite. Lui ci ha rincorse e ci ha chiesto scusa. “O ci assicuri o non torniamo”, gli ho detto. Ci ha assicurate e anche aumentato la paga. È stata l’unica volta che ho avuto da ridire con un padrone. Poi sono andata a Tesero in una pasticceria famosa in tutta la valle. Proprietaria era la signora Rosina, che era fantastica. Faceva le torte per tutti gli alberghi della Val di Fiemme. Mi chiamava alle 3 di notte a fare torte per matrimoni o messe. Sono rimasta là per quattro stagioni. E la Val di Fiemme mi sembrava più agricola di Primiero anche se c’era qualche industria di scarpe e pianoforti. Primiero però era più raffnato, c’era più lusso e più negozi, pensavo: “I é pi indrio qua!” Noi eravamo più avanti di loro. Un tassista che passava sempre
Allora ho minacciato di andarmene e di andare dai sindacati
in pasticceria diceva: “Che belle feste che fanno a Primiero e quanta gente!” E mi faceva venire la malinconia.
A Tesero ho conosciuto il nipote della Rosina, che era campione di sci di fondo. Sapeva che volevo vedere le Olimpiadi del 1956. Allora mi ha trovato un posto di lavoro a Cortina d’Ampezzo, all’Hotel Regina. È venuta anche una mia sorella a Cortina e altre ragazze di Primiero. Facevo la cameriera di sala. Cortina d’inverno era stupenda. Partire a Primiero e andare a Cortina era come andare in un altro mondo: signori eleganti, carrozze, negozi! C’erano clienti da tutto il mondo, era internazionale. Mi sembrava più signorile di Milano.
Con le Olimpiadi è cambiato il turismo, perché sono arrivati gli sportivi. Io ho visto le gare di salto e il pattinaggio artistico al Palazzo del Ghiaccio.
A Cortina ho dovuto studiare i vini. I signori dell’albergo ti chiedevano dei vini. Ho fatto un corso sui nomi dei vini, dovevamo consigliarli ai tavoli: per il pesce, per la carne, per l’umido. Chissà che cosa avrò detto, a volte.
andare a Cortina
A Cortina facevo sempre brutti raffreddori e ho avuto una bronchite. Ma ho trovato una signora da Sanremo, le ho chiesto se era possibile trovare un posto da cameriera a Sanremo. Lei era impiegata nel turismo. Mi ha trovato subito un posto. E ho fatto una stagione a Sanremo, in una pensione da ottobre a giugno. Lì è sempre stagione, alti e bassi, ma sempre stagione. Era uno spettacolo, era sempre primavera anche d’inverno.
come andare in un altro mondo
Il proprietario, il giorno dopo il mio arrivo si mette sulla porta della sala e mi guarda. Ero preoccupata che non gli piacesse come lavoravo in sala. Ma lui ha detto: “Dove ha imparato a lavorare? E a fare servizio? Te la senti di servire tutta la sala?” Secondo lui io ero bravissima.
C’erano molti inglesi e francesi e anche persone famose: ho servito tre mesi Renato Carosone, mi dava tante di quelle mance! Dalla sala da pranzo vedevo il Casinò dove allora facevano il Festival di Sanremo.
Penso che con queste mie esperienze fuori valle sarò diventata più aperta, più moderna. Dicevo ad una amica: “Perché non vieni anche tu? Perché ti fai problemi?” I problemi venivano soprattutto dai genitori, che dicevano sempre no-no-no. Per fortuna mia mamma era più moderna. Anche lei era andata in giro da giovane. Mio papà invece era solo stalla, siegar e slargar gràsa. Lui
non voleva farmi partire. Allora dicevo sempre al papà: “Ne avé sforzà masa! Una vita sempre sottomessa!” E quindi andavo. Poi tornavo e facevo volentieri il lavoro di aiuto a casa. Quando tornavo a casa era estate, dovevamo preparare el quartier da affttare. La mamma mi diceva di farlo io. Allora non andavo al maso e restavo a casa e sistemavo el quartier de ftar. Qui ha Primiero, una volta tornata, ho fatto dei corsi con le donne rurali: un corso di cucina e un corso di medicina. Mi sono inserita bene nella vita di valle.
Ne avé sforzà masa! Una vita sempre sottomessa!”
... dall’inferno al paradiso, da Milano a Treviso.
A 16 anni sono stata a Milano: ne ho passate di tutti i colori. Nella famiglia in cui ero c’erano quattro bambine, tre fglie e una nipote: la più grande aveva la mia età, 16 anni. Dovevo fare tutto io.
A casa mia la mamma mi aveva già insegnato tutto e poi, prima di partire per Milano, avevo già lavoravo fuori casa: in un bar di Fiera a lavare i piatti, che mi mettevano la seggiolina sotto i piedi per raggiungere il lavello. Poi ero stata, dai 13 ai 15 anni, due estati in un albergo ad imparare a fare la cameriera di sala. In albergo c’era una donna che invece di insegnarmi a servire a tavola mi faceva fregare tutti i giorni il pavimento. Questa donna non mi faceva nemmeno preparare le tavole, niente di niente. Questo non mi piaceva e non piaceva nemmeno a mia mamma. Allora sono partita per Milano e son rimasta là per due anni. Mi sembrava di andare in America di lontano che era Milano. In due anni sono tornata a Primiero solo due volte. La prima volta dopo 13 mesi, avevo solo 7 giorni di ferie, e ho detto alla mamma: “Non vado più, c’è troppo da lavorare”. Ma sono ripartita. La seconda volta sono venuta a casa in permesso dopo 9 mesi, avevo un permesso di 4 giorni. La signora di Milano era venuta su apposta a vedermi e a parlare con la mamma e a parlare col prete. Nessun’altra referenza. E allora sono partita. La par-
tenza era tutta una catena. A portarmi a Milano è stata una signora vicina di casa. La donna mi ha accompagnata a Milano, perché aveva una fglia sposata a Como e voleva andare a trovarla. La mamma quando mi ha fatto la valigia piangeva: “Piuttosto che farti la valigia ti chiuderei in una bara”, mi ha detto. Perché lei sapeva cosa voleva dire andare in servizio. Io e questa donna siamo andate col treno a Milano: prima di allora non ero mai arrivata neanche fno a Feltre. Non c’era motivo per me di andare fuori valle. Arrivate alla stazione di Milano abbiamo preso il tram fno alla casa della Signora. Dopo un mese, questa donna, è passata di nuovo perché prima di tornare a Pieve voleva vedermi. Ha suonato alla porta, le ho aperto io e appena l’ho vista volevo partire anch’io e tornare su a casa.
Ero da sola a lavorare in quella casa. Ero sempre stanca morta: dovevo fare i letti, le pulizie, servire a tavola. No no, era terribile! Facevo tutto io. Facevo il pranzo con il pesto di lardo, carote e cipolle pestate fne, avviavo il risotto. Servivo a tavola. Lavavo i piatti. Stiravo. E lavavo i panni nella vasca da bagno con la brega, tutti i giorni. La Signora si sedeva su una sedia e mi guardava. Alla mattina mi svegliavo alle 6 perché avevo le trecce lunghe da pettinare. Ci mettevo un po’ di tempo per sistemarmi i capelli. E allora, dopo qualche mese che ero là, la Signora ha legato uno spago al lenzuolo e quando suonava la sveglia, se non mi alzavo subito, la Signora tirava il flo e mi tirava giù il lenzuolo. Alle sette in punto dovevo iniziare a fare le pulizie in sala da pranzo. Ho pianto due anni a Milano per il male che stavo e per il male che ricevevo. Ero proprio una serva. La signora mi misurava il cibo. Non ho mai ricevuto frutta. Mi dava una minetta al giorno, un panino solo al giorno: pativo la fame!
La Signora era veneta. Il Signore era di Milano ed era fglio unico. Lavorava in Svizzera, era direttore di non so che cosa. Lui partiva il lunedì e tornava il venerdì sera e quando tornava a casa era sempre con un gran signore svizzero che si fermava a cena. Quella sera dovevo servire coi guanti bianchi e il grembiulino bianco e la cresta sulla testa. Quando il signore svizzero andava via dovevo mettermi sulla punta dei piedi per aiutarlo ad indossare il cappotto. E lui mi metteva sempre in tasca 5 lire d’argento, quelle grandi. E con quelle scrivevo alla mamma. Non ho mai toccato i soldi del mese, mai, mi bastavano quelle 5 lire d’argento. Ho portato tutti i soldi a casa in un colpo, sia il primo anno che il secondo anno.
Guadagnavo 7.000 lire al mese. Non so se era tanto o poco, però andavo spesso fuori sul poggiolo per piangere. Una signora vicina di casa mi vedeva sempre e mi chiedeva: “Cos’hai che piangi sempre? Perché guadagni poco? Dai, vieni da me che te ne dò 10.000!”
Ma come potevo fare, non potevo di certo cambiare. Ero sola in una grande città. Non avevo tempo libero. Solo qualche ora la domenica quando la Signora mi mandava dalle suore. La domenica aveva poco bisogno di me, non dovevo badare alle bambine. La ragazzina grande aveva 16 poi 17 anni e ospitava gente in casa. Poi studiavano il piano soprattutto la domenica. Anche il giovedì mi mandava due ore a passeggio. Perché il giovedì arrivava un uomo, il marito della sua amica più cara: lei pensava che non me ne accorgessi, che ero una stupida ragazza della montagna. Aveva l’amante e voleva insegnare l’educazione a me!
Io non ho voluto tornare a Milano anche perché la Signora – che non era la mia padrona, perché per me la sola mia padrona era la mamma – mi ha aperto una lettera. Un giorno vedo che nella sua borsetta c’è una lettera. La mamma mi scriveva sempre tanto, perché la lontananza era terribile per me: le sue lettere erano sempre in buste di colore arancione. Ecco che un giorno vedo che dalla borsettina della Signora spunta su un angolo di busta arancione: tiro su e vedo che è aperta. È stata la fne! Poi me l’ha data chiusa la lettera, non so come abbia fatto a chiuderla.
E pensa che, qualche tempo dopo, la Signora mi ha chiesto: “Ma non ti scrive più la mamma?” “Ah si”, ho risposto, “vuole leggere ancora le sue lettere?”
Nel frattempo, la domenica pomeriggio dalle suore, ho conosciuto una ragazza di Agordo che era a lavorare in una casa poco distante dalla mia. Era la sola persona che conoscevo, non c’era nessuno di Primiero. A questa ragazza ho raccontato della busta aperta e lei mi ha detto: “Fai arrivare le lettere da me!” E così ho fatto. Ogni quindici giorni, la domenica dalle suore, la mia amica mi consegnava la lettera di mia mamma.
Quando sono tornata da Milano la seconda volta, con 4 giorni di permesso, non ho voluto più tornare giù. In quei giorni è venuta una signora di Transacqua che lavorava in una famiglia a Treviso di due Signorine anziane. Queste due Signorine avevano la cuoca, il giardiniere e l’autista. Non ci ho pensato neanche un secondo: sono scappata a Treviso.
Lì era da sogno. Le due Signorine di Treviso erano una giovane e l’altra di ottant’anni. Dovevo solamente pettinare la più vecchia e farle la camera. Poi servivo a tavola e poi uscivo con quella più giovane che doveva andare per uffci e altre cose così, mi voleva sempre con lei. Avevano anche una sorella sposata a Venezia, ma nessuna delle tre aveva fgli. Non c’era discendenza. Erano proprietarie di terra. Avevano i coloni che vivevano in case dentro alle terre, erano coloni e anche custodi. Una di queste case era una villa con dentro perfno la chiesetta.
Io e la cuoca avevamo due camerette nel garage, separate dal bagno. Era bello. In garage era parcheggiata una 500 color aragosta col tettuccio apribile.
Con la cuoca accendevamo la macchina e facevamo il giro di tutto il giardino. Ma io non avevo la patente!
Quando si è poveri e cammini per la strada anche i sassi ti danno contro alle scarpe
Ero anche pagata un po’ di più. Non volevo nemmeno le ferie, non c’era motivo, stavo troppo bene. Ogni tanto veniva giù il papà a trovarmi e la domenica alle nove andavo in bicicletta a messa al Duomo.
A Treviso ho fatto tre anni di bella vita. Sono stata ricompensata del male ricevuto a Milano.
Un giorno mi hanno telefonato che la mamma era in ospedale. Purtroppo aveva un tumore allo stomaco, già avanzato. La mamma è morta ad agosto e io sono cambiata: ho dovuto fare io la mamma. Eravamo in otto a casa, i due più piccoli avevano dieci e sei anni. Non ho più potuto andare a Treviso e sono rimasta in valle.
Ho conosciuto anche mio marito qui a Primiero. L’ho visto la prima volta davanti all’Aquila Nera. Era di Jesolo e faceva il posatore in un albergo a San Martino. Era il giorno delle fere. Ha aspettato sei anni, perché non ho lasciato i due piccoli a mio padre.
Quando sono diventati grandicelli mi sono sposata. Poi siamo tutti emigrati: io in Veneto, i fratelli nell’esercito e le mie sorelle, una alla volta, sono andate in Svizzera. Era il sogno di mia mamma quello di andare tutti in Svizzera. In quei cinque anni di servizio a Milano e Treviso non ho imparato cose nuove. Lavorare sapevo già lavorare, l’educazione me l’aveva insegnata mia mamma. Mi aveva insegnato a non dire mai bugie, diceva: “Chi dice bugie è capace di qualunque azione”. Ed io ne ho avuto esperienza. E poi diceva: “quando si è poveri e cammini per la strada, anche i sassi ti danno contro alle scarpe, ricordatelo!”
... non mi facevano mancare nulla però non me la sentivo di continuare la loro vita.
Io sono partita perché mi sentivo stretta nella vita
di Primiero
Sono andata in servizio in tutto 3-4 anni: un anno a Venezia, uno ai Parioli e poi altri due sempre a Roma. Si partiva per avere qualche soldo, perché nelle case dei contadini c’era molto da mangiare ma soldi non ce n’erano, poi anche per provare a cambiare un po’ il metodo di vita. Io sono partita perché mi sentivo stretta nella vita di Primiero. Mi sarebbe piaciuta un po’ più di civiltà. Fuori dalla valle era un altro mondo. Si vedevano cose che qui a Primiero sono arrivate 50 anni dopo. Si vedevano cose che ti te féi marevéa. Le coppie si facevano i corni, c’erano fgli illegittimi. Invece qua si andava a flò dopo rosari. Poi ci si sposava, spesso tra paesani. Se un uomo sposava una donna di un altro paese, per esempio da Siror, si diceva che sposava na forèsta.
C’era un po’ di turismo, stava ricominciando perché con la guerra, nel 1939, si era bloccato. Aveva ripreso nel 1944-1945, pian pianino. Soldi non ce n’erano nelle famiglie. Allora le donne hanno cominciato ad affttare un po’ le case, che alcuni d’estate andavano su al maso e lasciavano le case libere per i turisti, altri si trasferivano in una sofftta o in un volt. A un certo periodo affttavano tutti e tutti i buchi.
C’era ancora l’acqua alla fontana. Il cesso, solo i più fortunati lo avevano in cima alle scale o nel giroscale. C’era chi aveva il cesso nell’orto e affttavano.
E quando si affttava si preparava la cassetta della legna piena perché si facevano da mangiare sullo spolèr, non c’era il gas.
Mi facevano gola quelle che andavano a studiare dopo la quinta elementare, andavano in Istituto dicevano. Io non sapevo cos’era sto Istituto, ma volevo anch’io andarci. Invece era solo andare su al maso. Mi piaceva molto leggere. A prendere un libro là dei Frati ci volevano due lire di iscrizione per avere diritto alla biblioteca. E si andava a prendere un libro di domenica mattina. I Frati avevano una buona biblioteca: c’erano libri interessanti. Quando ne riportavi uno te ne davano un altro. Bisognava nasconderlo il libro, perché se lo portavi a casa ti dicevano brutte cose, ti paragonavano a una donna mal vista che leggeva e basta e era piena di lìpa come na basta! Leggere era considerato tempo sprecato. Leggevo di notte con una candela. Quando passavo davanti al giornalaio a Fiera avrei rinunciato anche al pranzo pur di avere un libro. Stavo male a vedere questo mondo, a continuare questa vita... i miei sàntoli non mi facevano mancare nulla però non me la sentivo di continuare la loro vita. Avrebbero avuto anche bisogno di me. Ma io ho detto: “Vado a servire e vi mando i soldi a casa e vi prendete qualcuno per aiutarvi”.
Bisognava nasconderlo il libro, perché se lo portavi a casa ti dicevano brutte cose
Sono partita a 22 anni, era il 1950, e sono andata a Murano, vicino Venezia. Sono arriva lì tramite il passaparola, attraverso una mia amica che era già a Murano.
Era una delle famiglie più forti delle vetrerie. Lavoravano moltissimo, avevano una fornace con diversi dipendenti. Era una famiglia numerosa con 5 fgli, padre e madre e la nonna. Erano in otto. Era una famiglia perbene, però tutto controllato, tutto quanto.
Eravamo in due, io facevo la tuttofare: lavori di casa, le pulizie, servire a tavola. Dovevo badare ai due fgli più piccoli: li portavo a scuola, li lavavo e vestivo al mattino, li aiutavo a fare i compiti.
L’altra ragazza che c’era in casa era un’analfabeta, era da Burano. Veniva con il battello. Lei aveva un anno in meno di me, aveva il paletot di cammello mentre il mio lo avevo fatto io a telaio di stamét. A lei davano 6.000 lire al mese, anche a me ne avevano proposte 6.000 ma ho detto che era poco, perché avevo la responsabilità della bambina più piccola. Allora me ne davano 12.000, era già una bella paga. E li mandavo a casa i soldi, tutti i mesi col va-
glia, con l’idea che si prendessero qualcuno per sostituirmi a casa per il feno e gli altri lavori. Ma a casa non hanno mai speso un soldo, me li hanno messi via tutti, fno all’ultimo centesimo.
Gli ordini me li dava la nonna, la madre della Signora. Veniva alla mattina alle 8 e se ne andava la sera alle 10. In casa amministrava tutto lei: era tremenda, anche con i suoi, tutti doveva essere sotto controllo. Il Signore lavorava, si vedeva poco; la Signora faceva quello che diceva sua mamma.
Quello che ho imparato me lo ha insegnato lei: la nonna mi ha insegnato a cucinare, mi ha insegnato a stirare. A casa avevo ancora il ferro da stiro con le braci. Si imparava molto.
C’era solo da lavorare e tante ore. L’unico svago era la messa alle 6 della domenica e poi bisognava tornare a lavorare e poi si usciva la domenica alle due, che non si mangiava nemmeno così da avere più tempo e alle sei si era a casa. Andavamo, io e la mia amica di Primiero, a Venezia col battello, giravamo per la città, guardavamo le vetrine, andavamo sul campanile di San Marco. Ci siamo concesse un caffè in piazza San Marco. “No ti sarà mia màta a sederci qui”, ho detto all’altra ragazza: ghe n aréne sol che noi e i colombi. Abbiamo speso debòta la paga di un mese per un caffè.
Sono scappata dopo un anno. Per me era troppo pesante come lavoro. Era dalle 6 di mattina a mezzanotte. Sapevo di altre ragazze che lavoravano meno. Volevo cambiare posto.
Quando le ragazze di montagna hanno imparato a fare le cose di città
vanno via
Allora ho scritto una lettera con su tutte le novità del paese, inventate tutte, ho scritto perfno che si sposava una ragazza e che mia sàntola non stava bene. Poi questa lettera l’ho mandata a casa con lo scopo che cambiassero busta e poi me la rimandassero. Quando la lettera è tornata l’ho mostrata alla Signora e me son tràta te na disperazion, le dicevo: “Cogne ndar a casa, cogne ndar a casa!”. La Signora mi ha risposto: “Lo sapevo, quando le ragazze di montagna hanno imparato a fare le cose di città vanno via”. E io sono venuta a casa. Anche la mia amica che lavorava a Murano ha fatto circa uguale. Anche lei prendeva 12.000 lire, anche se lavorava meno.
Io sono rimasta a casa un’estate a restelàr, e poi sono andata a fnire a Roma. Mi ha mandato lì una donna di Primiero che era a Roma a rencuràr i gemellini
della Principessa Maria Pia. Mi diceva che mi avrebbe mandato in un posto d’oro. Ma era un disastro!
Siamo andate io e la mia amica a Roma. Eravamo ai Parioli, che era popolato solo di attori, cantanti e persone del genere. Uno schifo! Tuta na grandéza.
Ma la servitù pativa tutta la fame o non prendevano i soldi. Era gente così: tut grandéze, tut sgàia.
La famiglia dov’ero io non erano attori, erano commercianti di legnami. Lui era più vecchio e aveva sposato questa napoletana di 23 anni, avevano una bimba di tre anni e poi ne è nata un’altra. La Signora era strana, forse si drogava. Non si sapeva cos’era la droga però ogni mattina andavo in farmacia a prenderle una boccetta strana. Alla mattina mai pi la levéa sta sióra. E a casa non c’era da mangiare, non ci dava i soldi per la spesa. Avevamo sempre fame. Era tutti i giorni pastasciutta, io ne facevo molta e poi la nascondevo. Perché la Signora diceva che alla sera non serviva mangiare. Allora noi della servitù mangiavamo la pasta di nascosto col buio. Anche il Signore pativa la fame, lei gli vendeva i vestiti. E che avevano la denuncia dei redditi simile a Onassis!
Era gente così: tut grandéze, tut sgàia
Siamo andate via in poco tempo. Ricordo che sono venuta su per la fenagione, poi ho scritto a Roma che non potevo più tornare. Il Signore è venuto su, mi ricordo che è rimasto due ore sul tavolo fora de la caséra, diceva: “Torna da noi, vieni giù, come faccio adesso... i soldi per la spesa ve li dò io tutti i giorni, vi pago di più”.
La mia amica è andata in Svizzera e io sono rimasta a Primiero negli alberghi di qua: al Savoia a San Martino, al Roma di Fiera.
Poi sono tornata a Roma. Sono andata a fnire in via Aventina. Era una famiglia di sole due persone anziane di Napoli, lui era un Commendatore, però partito da zero. Era andato in Africa per commerciare in sale ed ha raggiunto un’attività di 500 operai. Quando in Africa è arrivato l’odore di guerra – lì è arrivato prima – lui ha mandato in su i ragazzi da un ragioniere e anche tutti i soldi. Lui era scaltro: ha deciso di spendere i soldi subito, comprando un palazzo di 42 appartamenti non di lusso, tutti affttati. Poi ha comprato metà villa Aventina insieme al De Sica. Mi ricordo il De Sica, con Maria Marcader, che era la sua amante. Veniva con questi due fgli, che uno, il Christian, era dispettoso che gliene ho date io tante de quele sgorlàde. Qualche ora rimanevano lì. Erano d’accordo che in quel tempo lì doveva esserci silenzio: giocavano tutti alle carte.
In questa famiglia eravamo in due ragazze e si stava molto bene. Il Commendatore sapeva che i miei genitori erano emigrati in America. Mia mamma mi scriveva tutte le settimane. Quando arrivava la posta arrivava un fschio in cucina, da un arnese apposta. E io tremavo perché mio papà era malato di tumore, era in America, sapevo che non lo avrei rivisto mai più. Il Commendatore sperava che rimanessi sempre lì con loro, lui non sapeva che avevo un obbligo con i sàntoli di Primiero che erano loro che mi avevano norì granda e grosa Il nostro divertimento, la domenica dalle 2 ad ora di cena, era di andare nella casa di un’altra ragazza di Primiero che lavorava dalla Olga Villi. Era il posto più comodo dove trovarsi, ci trovavamo lì a chiacchierare. Eravamo in molte. Una portava un etto di caffè, un’altra un pacchetto di biscotti e si chiacchierava minosoquant e poi tornavamo tutte a casa. Quello era il nostro divertimento. Quattro ore in tutto, alla settimana.
Avevamo il mese di luglio di riposo, tipo ferie. Ce lo pagava quasi del tutto. Venivo su per la fenagione. Io non spendevo soldi a Roma. La mia amica ne spendeva più di me, non portava soldi a casa. Quando tornava su aveva la valigia piena di regali: una bottiglia di profumo che costava, calze di nylon per le amiche. Io invece li mandavo a casa perché ero abituata all’austerità.
Un giorno ho ricevuto una brutta lettera, che non mi sono fatta nemmeno la valigia e sono partita subito per Primiero. In sette mesi sono morti entrambi i miei sàntoli: sono rimasta nel disastro, come in una nuvola. Ho cercato di mettere a posto le cose. E poi ho pensato: “cosa faccio qui con due vacche e s-ciào!” Era il 1957 avevo 29 anni, la moda di andare a servir stava tramontando, perché era arrivata la moda di andare in Svizzera: in famiglia o in fabbrica. Si tiravano una con l’altra.
Non volevo sposarmi. Non volevo andare ancora a servire. Mi sembrava di avere tutto il paese contro. Allora ho scritto al Commentatore che mi ha scritto: “Resistete signorina!” Ho resistito, si, e poi mi sono anche sposata!
... là mi hanno concesso
tutto, non ho più avuto tanta concessione come là.
A casa eravamo in sei fratelli, io ero la quarta. Sono partita a 14 anni, grazie a un contatto che c’era qua in valle. Ho deciso di partire e di fare quest’esperienza. Sono partita subito dopo la scuola. Sono andata a Bologna. Mi hanno chiesto quanti giorni dovevano aspettare per avermi. Io sono andata a casa e ho chiesto ai miei genitori. Il papà non voleva e la mamma invece ci teneva, perché c’erano altri due fgli dopo di me, bisognava mettere in piedi anche questi. Sono andata e stata bene. Anche oggi, direi ancora: “Io vado!” Perché la vita che si poteva avere lì, non si poteva avere a casa. A casa c’erano i fratelli, tutti piccoli.
Ho dovuto mettere un foulard rosso al collo così i Signori mi avrebbero riconosciuta
Sono venuti a prendermi a casa della mamma e mi hanno portata vicino a Bologna. Sono andata in treno, ho dovuto mettere un foulard rosso al collo così i Signori mi avrebbero riconosciuta in stazione. Là mi hanno concesso tutto, non ho più avuto tanta concessione come là.
Anche se i bambini mi facevano i dispetti io non me la prendevo.
Ho cambiato varie famiglie. In una mi avevano messo un foglio attaccato con un cordoncino al collo, e sul foglio c’erano scritte le regole. Era un lavoro molto duro. Ho imparato a lavare i piatti, la prima cosa che ho imparato. C’era
una macchina che lavava i piatti. Erano molti quelli dei bambini. E quelli che non ci stavano nella macchina li lavavo io, col detersivo. Distraevo i bambini coi libricini mentre io lavavo e sciacquavo i piatti.
Poi a Bologna ho fatto un corso di economia domestica e puericultura molto serio e sono stata inserita in una lista e chiamata come bambinaia da alcune famiglie.
In una di queste famiglie avevano una bimba già grandina ed erano in attesa del secondo bambino. Mi hanno presa per occuparmi del secondo nato. La famiglia si chiamava Mattioli. Stavano bene, avevano una fabbrica di vestiti. Non avevano molti dipendenti. Facevo la bambinaia, sedevo a tavola con loro vicino al bambino e là mi servivano.
In famiglia c’era la coppia, marito e moglie. Avevano anche due camerieri e poi altre persone. Io mi curavo abbastanza, le altre persone si curavano meno.
Finché il bambino era piccolo rimanevo con loro giorno e notte, quando diventò più grande invece ho preso in afftto un appartamento e stavo al lavoro fno ad ora di cena e poi andavo a casa mia. Avevo il compito di seguire il bambino e dirigere anche la restante servitù.
Si fdavano molto di me. Mi lasciavano i bambini quando andavano in ferie. Oppure andavo anch’io con loro, siamo andati a Cortina, a Forte dei Marmi, in Sardegna e in Sicilia: posti che non avrei mai visitato se non ero con loro a lavorare.
Avevo tempo libero, se lavoravo mattina e sera per alcuni giorni, poi avevo altrettanto di libertà.
Rientravo a Primiero spesso, avevo le ferie in estate e a Natale. Quando i fgli sono diventati grandi mi sono occupata della nipotina, ma solo di giorno. E quando anche la nipotina è diventata grande sono diventata governate dei nonni. Venivo trattata come una di famiglia, mangiavo con loro, ricevevo regali importanti. Sono rimasta là fno alla pensione. Poi sono tornata a Primiero.
... io non sarei mai più tornata dall’Australia e mio marito nemmeno.
Quando avevo 20-21 anni ero fdanzata con un giovanotto vicino di maso. Eravamo fdanzati da 3-4 anni. Ma la vita era dura anche per lui: lavorava nel bosco ma guadagnava poco o niente, solo quello che mangiava. Un giorno, come sempre, è venuto a trovarmi ed era più serio del solito e mi ha detto che voleva emigrare. Gli ho chiesto dove. Mi ha detto che andava in Australia. Ho potuto dire quello che volevo, ma lui ha iniziato a fare le carte. E a febbraio del 1952 è partito con due amici di Transacqua con una valigia, che se la sono fatta loro, di legno.
Prima di partire hanno dovuto fare delle visite a Genova. Era diffcile andare a Genova. Da Genova hanno preso la nave e sono andati in Australia. Avevano il lavoro già pronto. Ha fatto tanti lavori: campi di canne da zucchero, miniera... È rimasto lì 4 anni, naturalmente mi ha sempre scritto, per quattro anni. Poi è tornato. Erano i primi di aprile. E quando, la sera, è venuto a trovarmi, mi ha detto subito che non rimaneva qua e che ad ottobre sarebbe tornato in Australia.
Da Genova hanno preso la nave e sono andati in Australia
Ci siamo sposati dopo poco tempo. È rimasto qua da aprile ad ottobre, io sono rimasta qui incinta, e lui è partito per l’Australia. L’ho accompagnato a Genova: è stata la cosa più dolorosa che... nessuno può credere che roba che l é
quando che se vét la nave a partir sempre più piccola, sempre più piccola, con questo suono tremendo che ha. L’ho lasciato andare, insomma.
La promessa era che rimaneva via due anni e poi sarebbe tornato. Poi è nato anche il fglio e lui non mi diceva mai che tornava. Allora ho iniziato ad aver bisogno di partire io. Volevo che il fglio vedesse suo papà. Per me era giusto raggiungerlo.
ho iniziato ad aver bisogno di partire io
Il tempo passava e a un certo momento mi ha fatto il richiamo con il Governo australiano. Ho dovuto anch’io fare la trafla di andare a Genova, con un bambino di un anno a fare le visite. Era un disagio: partire la mattina con la corriera fno a Trento, aspettare fno alla sera alle nove e partire col treno diretto a Genova. A Genova sono fnita in una Casa dell’Emigrante, vicina al porto con sto picenìn a far le visite. Sono rimasta là tre giorni. Poi sono tornata su, a Primiero, per aspettare il tempo di partire. E il tempo passava. Quando mio fglio aveva 16 mesi fnalmente ho ciapà de partir. Era il 26 di maggio, mio papà mi ha portata alla corriera ed è venuta una mia cugina ad accompagnarmi fno a Genova. Ho dormito ancora nella Casa dell’Emigrante, eravamo una trentina per camerone. Si pensava di partire il giorno dopo, invece alla sera del terzo giorno ci hanno detto che non si partiva da Genova ma da Trieste perché non c’erano abbastanza passeggeri. E sulla nave che c’era lì a Genova sono saliti i passeggeri di un treno arrivato dalla bassa Italia.
Alla sera alle 6 ci hanno messi tutti su un treno per Trieste, siamo arrivati a mezzogiorno del giorno dopo. Avevo sto bambino piccolo, non avevo i pannolini. Sono arrivata lì sola. E sono partita da Trieste su una caréta de nave che ho saputo dopo che era il suo ultimo viaggio. E mi hanno detto che è stata l’ultima nave a passare per il Canale di Suez, che dopo da lì non sono più passate delle navi passeggeri.
La nave era piena. Ci hanno messi giù nella stiva, eravamo quattro spóse con i bambini. Sarà stato il primo di giugno la partenza a Trieste. Arrivati a Messina si poteva scendere. Io sono scesa a Messina e poi in Australia e basta, perché non potevo prendermi il bimbo a scendere. Il viaggio è stato de tuti i colori: lungo-lungo-lungo e mal di mare. Venivano sulla porta e ti buttavano dentro un’arancia o altro, per fortuna c’era una persona di Feltre che mi portava qualche bottiglia di tè per il bimbo che vomitava anche lui. Il cibo era un disastro: carne lessa e carote.
Sono arrivata a Melbourne il tre di luglio. Lì c’era mio marito che mi aspet-
tava. E da lì mi ha portata in una famiglia di primierotti. Sono rimasta con loro una giornata e poi a Melbourne c’erano anche i miei cognati e lì ci siamo fermati tre giorni. Il viaggio era ancora lungo. Siamo andati in treno per tutta la notte e il giorno dopo siamo arrivati ad Adelaide. Abbiamo dovuto attendere l’aereo che ci ha portato in mezzo al deserto, a Broken Hill, e poi verso le miniere.
Eravamo in mezzo al deserto, dove mio marito faceva il minatore. E lì ho dovuto affrontare la lingua inglese: per me è stata dura. Ho cominciato a fare scuola per corrispondenza, ma insomma... Eravamo in una casa di una famiglia di siciliani, con camera uso cucina. Questa famiglia era brava, mi sono trovata molto bene. La signora faceva da mangiare anche a tre uomini italiani che facevano i minatori, perché c’erano famiglie lì ma c’erano anche tanti singoli. I singoli vivevano in una baracca vicino alle miniere, le famiglie invece avevano una casettina, precaria però.
Eravamo
in mezzo al
deserto: passavano i canguri, passava di tutto
Eravamo in mezzo al deserto: passavano i canguri, passava di tutto. Ogni tanto veniva la sabbia del deserto, che se veniva a mezzogiorno bisognava accendere la luce che non si vedeva più niente. Entrava dappertutto, una cosa che... si riempiva la casa. E in più il caldo, che è stata una sofferenza: superava i 50 gradi. Gli uomini giù nella miniera non lo sentivano, ma per noi sopra era una sofferenza. E le zanzare! Sono rimasta sei mesi con questa famiglia di siciliani e poi ci hanno assegnato una casa tutta per noi. La vita è cambiata quando abbiamo avuto questa casetta, con le sue tendine. La prima credenza la abbiamo fatta con le cassette della frutta. Si stava bene, anche così.
Finalmente avevamo la nostra casa, eravamo contenti anche se eravamo in mezzo al deserto. C’erano le scuole, statale e cattolica, e la chiesa: costruite anche da mio marito e altri da Primiero. Nel frattempo è nato il secondo fglio. Sono andata a partorire nell’ospedale di campo e non ha Broken Hill che era distante 100 miglia. Non mi è andata molto bene: il bambino è nato bene ma io ho avuto una brutta emorragia. È venuto subito mio marito dalla miniera e mi ha accompagnato con l’aereo, di quegli aerei piccoli, fno all’ospedale per 5 giorni. Parlavo pochissimo l’inglese. Il quinto giorno mio marito e un altro sono venuti a prendermi con la macchina fno a casa. Abbiamo cominciato la vita di questa piccola famiglia, anche contenti. Nel
Il bello è stato che là sono venuti tanti paesani
di Primiero
frattempo mi sono trovata un lavoretto. Lì c’erano tutti questi uomini singoli che avevano bisogno di lavare le cose, mi portavano un sacco di roba da lavare e stirare. E dopo venivano a prendersela. Avevo diversi clienti. Avevo molto lavoro. Poi badavo ai bambini e alla casa. E lì in questa comunità c’erano 11 famiglie di italiani e ci si trovava spesso. Era bello poter parlare con qualcuno. Dopo un po’ di tempo fortunatamente le miniere di uranio le hanno chiuse, perché l’America non ha più accettato l’uranio grezzo. Così abbiamo dovuto andare via e noi siamo andati vicino a Melbourne, ci siamo comperati la casa e là è nato un altro fglio. Però il bello è stato che là sono venuti tanti paesani di Primiero, diverse famiglie, tutte vicine a noi che abbiamo fatto una piccola comunità. Mio marito ha cominciato a lavorare in una impresa edile e ci siamo stabiliti defnitivamente là. Purtroppo, dopo, mio marito si è ammalato e abbiamo dovuto tornare in Italia. Io non sarei mai più tornata e mio marito nemmeno. Abbiamo dovuto tornare e ora siamo qua.
... erano tutti contadini e anche noi eravamo una famiglia ordinaria.
Sono partita a 17 anni per la Svizzera, da Sagron. È stata mia cognata a chiamarmi, che lavorava là, in un albergo sopra a Briga nel Vallese. Il treno è partito da Bribano fno a Milano e dopo a Milano si cambiava e si andava con un altro treno e si arrivava a Briga. Quando sono arrivata la sera, là c’era il Console italiano ad aspettarmi. Al mattino dopo ho dovuto fare la visita. E dopo il Console mi ha accompagnata da questa famiglia che aveva l’albergo. L’albergo era su in zìma a una montagna, si raggiungeva con la funivia, e c’era lì mia cognata. Facevo un po’ di tutto in albergo. Mia cognata faceva la cuoca. Sono rimasta tre mesi. Ho fatto la stagione. In autunno sono andata a Friburgo. Avevo un’altra amica che lavorava in città e allora mi ha trovato un posto dalla sorella della sua padrona e sono andata a Friburgo. Era un avvocato con tre bambini. Ho dovuto imparato il francese. I bambini all’inizio mi davano infìn peàde perché non capivo cosa mi dicevano. Dopo mi sono arrangiata con la lingua. Avevano la bambinaia e la cuoca e io facevo la cameriera. Sono rimasta lì fno a primavera. Dopo d’estate sono tornata a casa ad aiutare i miei. Poi ho conosciuto un uomo di Tonadico che cercava qualcuno per il Canton Vaud, tra Losanna e Ginevra. C’era lì un istituto di ragazze che andavano a
I bambini all’inizio
mi davano infìn peàde perché non capivo cosa mi dicevano
imparare il francese, una specie di collegio. Sono andata. Lui faceva il giardiniere e l’autista. E di ragazze in servizio ce n’erano tre: una da Ospedaletto, una da Enego ed io. Lavoravo in cucina soprattutto. Mi ricordo che in inverno portavano queste studentesse a Les Diablerets: è un posto con piste da sci e pattinaggio. E c’erano tutto chalet, che erano come dei tabià. Sono tornata a casa perché stava per nascere mio nipote e io dovevo tenerlo a battesimo. E poi non sono più andata in Svizzera.
Stavo fn màsa ben, meglio che venire a casa
Dopo un po’ sono andata un’estate a fare la stagione all’Albergo Belvedere, a Transacqua. Lì ho conosciuto due anziani, marito e moglie che gli sono ndàta in simpatia e mi hanno chiesto se andavo a Milano con loro. Era il 1955. Loro andavano a Feltre a fare una cura, ma il marito nel frattempo è morto proprio a Feltre. Dovevano venire a ritirarmi per poi andare, invece lui è morto e allora ho dovuto arrangiarmi per andare a Milano. La casa era in zona di Piazzale Loreto, non molto lontano dalla stazione. Avevo da badare solo alla vedova. Lui sarebbe stato napoletano e lei da Bassano. Una buona signora. Ero come la sua dama di compagnia, facevo da mangiare e la accompagnavo al mercato. Mi pagava bene e mi ha sempre fatto tanti regali, mi voleva bene, e anch’io gliene volevo. Stavo fn màsa ben, meglio che venire a casa. Sono rimasta là tre anni.
La domenica pomeriggio ero libera e ci trovavamo in diverse ragazze, nessuna da Primiero ma da Gosaldo si. E si andava alla stazione di Milano, nella sala d’aspetto a far su bordél.
D’estate la Signora andava alle terme, a Levico anche, e dopo sul lago Maggiore. Allora in quel periodo venivo a casa a Sagron. Ogni volta che rientravo mi accoglievano bene, perché portavo i soldi. In quegli anni non prendevano mica la pensione, erano tutti contadini e anche noi eravamo una famiglia ordinaria, uguale alle altre, con la stessa mentalità ordinaria.
Ada... io sono partita per non veder più né feno né vacche!
Ho fatto 43 anni all’estero, in Svizzera. Ero la più vecchia di cinque fratelli. Dovevo sempre accudirli. Siamo emigrati tutti. A Ronco Chiesa ho fatto la quinta elementare e poco dopo sono partita in servizio. Quelle che andavano a Milano venivano su con delle belle scarpette, con le calze di nylon. E noi abbiamo sempre avuto solo gli zoccoli per portare il feno sulla schiena. Qui era sempre restèl e ninzòl su la schéna. No no, basta! Io sono partita per non veder più né feno né vacche!
La mamma non voleva lasciarmi partire, assolutamente. Allora un amico di papà ha detto: “Lasciala andare per quest’inverno, che quando è ora di metter le patate torna!” Ma io ho pensato nella mia testa: “Se prendo la Cortèla vàrda ti se vegnerò ancora!” L’amico di mio papà sapeva dove andavo, perché lì era stata sua sorella. Sono andata, la prima volta nel 1950, a Villar. Con il treno fno a Bex. Sono scesa lì sola soletta. Ho mostrato l’indirizzo, perché non parlavo mica francese. Dopo ho imparato un po’ di francese e anche un po’ di tedesco. Lavoravo in una casa privata, la famiglia aveva un negozio di sport. Io lavoravo in cucina e guardavo i bambini. La Signora mi diceva: “Portali fuori quando c’è la neve”. Invece la nonna gridava di non portarli fuori. Si fdavano. Ha pianto la Signora il giorno che sono partita, quando ho detto: “Io sono stanca di stare qui, vado
Se
prendo la Cortèla
vàrda
ti se vegnerò
ancora
via”. Volevo andare perché c’era anche il mio futuro marito in Svizzera, lavorava come stagionale assieme a 15 persone di Ronco, tutti maschi. La Signora piangeva e diceva: “Sei diventata la mamma dei miei bambini!”
Sono andata a Losanna. Lì con me c’era una persona che mi aiutava a servire. Perché non arrivavo a tutto: bambini e cucinare. I bambini non volevano andare all’asilo insieme. C’era quindi sta ragazza, era tedesca, e i bambini non la capivano e non volevano andare con lei. I soldi che guadagnavo li mandavo a casa tramite il prete di Losanna. Guadagnavo una miseria. Li mandavo quasi tutti, mi tenevo poco poco. Dura dura dura è stata in quegli anni. Nel poco tempo libero si andava a messa alla Casa d’Italia.
In questa casa sono stata poco. Poi sono stata a Zurigo, in privato. Una Signora con suo marito e un fglio studente, che viveva fuori. Facevo un po’ di tutto. Non c’erano le ferie. Non c’era tempo. Poi, io e il mio futuro marito, ci siamo detti: “Basta, ci sposiamo e fniamo!”
Il pane del servitore
ha sette croste
Siamo andati via dalla Svizzera nel 1959, ci siamo sposati nel Vanoi il 4 aprile 1959. Mia mamma quando mi ha visto ha detto: “Il pane del servitore ha sette croste”. Io ho risposto: “No, no no... sono stata bene, meglio che in campagna, meglio che con le mucche!” Avevo tagliato i capelli anche, prima avevo le trecce lunghe così. La mamma ha detto: “Vegnerà el papà doman matina!” È arrivato il papà e non mi ha detto niente, non mi ha sgridato. Era contento del mio ritorno.
Il nostro viaggio di nozze è stato fare le valigie e andare a Zurigo. A Zurigo mi ha trovato lavoro una donna del Vanoi. Io non volevo più andare in campagna qua a Ronco. Sono andata via in privato e sono passata qua e là e lavìa. Ho lavorato in una famiglia di protestanti, molto gentili, dicevano sempre: “Prendiamo la vita ogni giorno come viene, così è molto più leggera!” Ho lavorato 14 anni a fare caffè e tè e servivo 50 persone, tre piani di uffci. Ho lavorato anche un po’ in negozio, ma coi soldi non mi piaceva. Ho fnito per fare la badante assieme a mio marito. Ci hanno licenziati pochi anni prima della pensione.
Siamo partiti con le valigie e siamo tornati in valle col camion, con dentro le cose che abbiamo guadagnato. Siamo partiti assieme e siamo tornati assieme.
I fgli sono rimasti lavìa e sono ancora lavìa.
... il nome Roma, già a sentirlo aprivi gli occhi così.
Non so come mai sono partita per Roma. Io non avevo intenzione di andare a Roma, di andare in giro per il mondo. Avevo sempre lavorato qua attorno e in vari posti del Trentino.
Qui a Primiero facevo le stagioni in Albergo e poi aiutavo in famiglia. La mamma era sempre per campi, prati o nella stalla e anche il papà. Falciavamo fno su a Le Vale e anche i prati vicino all’ospedale. Aiutavo anche mio papà nel suo lavoro a cottimo: faceva mattoni, più ne faceva e più guadagnava. Mi chiamava al mattino alle 6 e andavo con lui.
Avevo sempre lavorato
qua attorno e in vari posti del Trentino
Poi, prima di andare a Roma, ero stata a Trento sei anni in una famiglia. Non proprio solo a Trento, perché ‘sta famiglia mi metteva anche in una loro villa a Baselga di Pinè. Rimanevo quattro mesi da sola lassù! Mi facevo da mangiare e facevo la spesa. Volevano che la villa fosse abitata, che ci fosse qualcuno. Venivano su una sera ogni tanto e il giorno dopo partivano. Però trovavano tutto sistemato. Lì avevo una sola amica, la perpetua del prete.
Nella casa di Trento, invece, eravamo in tre: io e due petolóne che stavano sempre appiccicate al Signore, gli sflavano perfno il portafoglio dalla tasca per non farlo affaticare. Gli stavano una da una parte e una dall’altra. A un certo punto, una di queste, gli faceva da amante anche se aveva il marito! Il suo
marito faceva lo chauffeur del Signore: era sempre in giro e lei faceva quello che voleva in quella casa. Era disgraziata, ancora oggi la ucciderei!
Dopo Trento sono stata a Brusago, oltre Piné. Mi aveva mandato lì un signore di Primiero, un sensér, e sono fnita in un albergo per 4-5 mesi. Questo albergo non aveva materassi, ma pagliericci con foglie di granoturco, era proprio alla buona. Io servivo a tavola, lavavo le tazzine della mattina e a volte lavavo le pentole. Ma non stavo tanto bene. Poi hanno chiuso, perché il nipote del proprietario si è ammalato. Quindi sono tornata a Primiero ed ho incontrato il Commendatore.
Il Commendatore è venuta a cercarmi, mi ha fatto una proposta per Roma ed io ho accettato. Il nome Roma, già a sentirlo aprivi gli occhi così: doppi e stradoppi al solo pensiero. Ti podi immaginarte, da Primiero a Roma! Questi di Roma erano sfollati tunisini e avevano bisogno della servitù. Il Commendatore veniva a Primiero in vacanza, al Hotel Des Alpes di San Martino; la Signora invece si fermava a Levico perché San Martino era troppo in alto e non poteva andar su. Lui cercava della servitù: voleva delle ragazze di montagna; non una, ma tre!
Io vengo senz’altro, ma solo su disposizione dei genitori
È venuto a casa mia tre volte. La prima volta è venuta con con una donna di Primiero. Quando è andato via mi ha detto che doveva valutare perché aveva alcune ragazze per le mani.
È passata una settima ed è venuto la seconda volta con un carabiniere. Era andato dai carabinieri perché voleva delle persone fdate. Quel giorno alla mamma quasi che le veniva un colpo a vedere arrivare un carabiniere. “Signora!” diceva a mia mamma ‘sto Commendatore che era tracagnòt cossita “Signora, signora... non si preoccupi, non è successo niente!” E subito mi ha chiesto: “Lei è disposta a venire a Roma?”. Io ho risposto: “E come no!? Io vengo senz’altro, ma solo su disposizione dei genitori.” Allora la mamma per risposta non ha detto né si né no, mi ha detto soltanto: “Se ti va a Roma no ti vién pì a casa”. Queste parole testuali, me par ancora de véderla. Son passate altre due settimane e il Signore è venuto col prete, era don Scrinzi. Era andato a chiedergli informazioni sulla mia famiglia. Abbiamo parlato un po’. Poi mi ha detto: “Se le cose sono apposto possiamo già partire lunedì”. Era venerdì. Sono partita per Roma il 12 settembre 1954, compivo 24 anni a fne mese. Siamo andati tutti quanti assieme. Eravamo in tre da Primiero: io e altre due ragazze.
Siamo andati con la macchina, lui guidava. Abbiamo preso la moglie a Levico e poi giù a Roma.
Nella casa del Commendatore abbiamo dovuto spartirci i compiti noi tre ragazze di Primiero: chi doveva fare la cameriera, chi la cuoca e chi doveva fare la sguattera. Allora abbiamo messo dentro ad un cestino dei bussolotti con dei bigliettini: mi sembra ancora di vederci noi tre ragazze in questa camera da pranzo grandissima. Abbiamo pescato a sorte e a me è toccato di fare la cuoca. Un’altra era padrona dei vetri e di tutto e guai a chi toccava la roba; l’altra invece faceva tipo la badante a ‘sti due vecchi, da governante. Era bello stare con il Commendatore, invece lei era sempre un po’ lunatica e non aveva tanta salute. Stava interi giorni a letto, e quando si alzava diceva: “Qui non va bene, qui non va bene, qui non va bene”. E il Commendatore diceva a sua moglie: “Ti devi accontentare”. Lei era più vecchia di lui. Lui era un tracagnòt cossì, però carino, sempre springo. Camminava sempre su e giù. Era una famiglia abbastanza ricca. Avevano dovuto lasciare molte cose a Tunisi, erano sfollati, però c’avevano i quattrini. Non so che lavoro facesse, so solo che un Commendatore.
Abbiamo pescato a sorte e a me è toccato di fare la cuoca
Avevano tre fgli. Uno di questi abitava al piano di sopra, perché suonava il piano. L’ho visto poco. La fglia invece aveva una bambina e un bambino di nome Fabio, piccolo così e io lo chiamavo sempre: “Fabietto, Fabietto” e gli dicevo sempre: “Se avrò un bambino lo chiamerò Fabio!”
Si fdava moltissimo di noi il Commendatore. Però non dovevamo sposarci. Perché secondo lui noi eravamo delle fglie.
La giornata passava così: si cominciava il lavoro alle otto, io anche un po’ più tardi perché mi portava la spesa un loro fglio. Io la spesa non sono mai andata a farla. Questo fglio aveva una ditta o un magazzino di cose alimentari. Mi portava di tutto e di più.
Loro volevano cibo molto semplice. Facevo i tagliolini col pan grattato abbrustolito. E poi verdure. Le patate le volevano sempre condite e piccole, fritte mai. Allora mettevo a tavola queste patate condite con le olive. I fnocchi bisognava tagliarli con la macchinetta o sennò lessi. E mangiavano così, semplice semplice.
E noi ragazze mangiavamo uguale. Ma noi mangiavamo prima, perché dovevamo servirli. Era come negli alberghi. Dopo il pranzo avevamo da lavare e
stirare, ognuna le proprie mansioni. Era così, uguale sempre, tutti i giorni della settimana.
Io ero, dico la verità, in un ventre di latta. Pensa che di sopra c’era una Signora che aveva lo chauffeur, ma gli dava poco da mangiare, perché invitava sempre tanta gente a cena e non avanzava niente. Gli dava, a ‘sto pore òm, i colli dei polli da mangiare. Allora io, che avevo tanta cose e potevo fare quello che volevo, lo chiamavo e gli davo la verdura e così mangiava un po’ di più. Altrimenti faceva la fame. Alla fne, quando me ne sono andata, mi ha regalato una catenina.
Di giovedì pomeriggio alle 4 si usciva, fno alle 7. Tre ore. Si girava tutta Roma con 10 lire, perché c’era il tram che passava per tutta la città. E la domenica idem: dalle 4 alle 7. Quando uscivamo ci mettevano in mano 50 lire, ogni volta, a tutte e tre. Ho messo da parte un bel gruzzoletto con ‘sti soldi, perché io non li spendevo mai: a me il gelato non piaceva e bevevo solo dalle fontane. Ogni tanto ci trovavamo con altre di Primiero. Una di loro, che chiamavamo zia, ci faceva da madre, almeno a me.
Tornavo a Primiero ogni anno. Avevo un mese di ferie quando il Commendatore andava a San Martino e la Signora a Levico. Passavo l’agosto con i miei: erano felici quando tornavo. Ripartivo per Roma il primo di settembre. Guadagnavo bene: 25.000 lire al mese. I soldi li mandavo sempre a casa. Io tiravo avanti con le mance del Commendatore. Poi dopo ho conosciuto mio marito e quindi me ne servivano di meno. A Roma, dal Commendatore, sono rimasta dal 1954 all’agosto del 1959.
Sono rimasta senza
lavoro perché ho deciso di sposarmi
Poi, l’agosto del 1959, non sono più ripartita col Commendatore. Io volevo ritornare a Roma per fare ancora qualche soldo, perché soldi non ce n’erano tanti in famiglia. Ma una delle ragazze di Primiero che era con me mi ha fatto le scarpe, ha portato a Roma un’altra ragazza e io ho perso il lavoro. Sono rimasta senza lavoro perché ho deciso di sposarmi. Il Commendatore non voleva che noi ci sposassimo. Per il matrimonio lui è stato gentile: mi hanno mandato una scatoletta con sei cucchiaini d’argento. E per la comunione della prima fglia ho ricevuto una scatola di biscotti.
Il matrimonio si è fatto con tutti soldi che avevo guadagnato e mandato in famiglia: il papà mi ha tirà fora la casa, allungato la camera e ha pagato tutto, perfno il vestito di nozze. Io mi sono sposata a Roma e son ancora ladó
Ho imparato tante cose in servizio, ma avevo già la scuola della mamma mia che mi aveva insegnato a tenere i conti e l’educazione. Di cose nuove ho imparato soprattutto a conoscere la città di Roma: la fontana di Trevi, il Circo Massimo... mi si è aperto un mondo!
Ho vissuto sempre a Roma, con mio marito e i fgli. Per nove anni dopo il matrimonio non ho lasciato i miei fgli, perché nessuno me li teneva. Quando hanno cominciato ad andare a scuola, e soprattutto dopo la prima comunione, ho iniziato a lavorare al mattino per tre giorni alla settimana da una dottoressa. Erano in cinque in famiglia, entrambi i genitori erano medici condotti. Non avevano tempo per farsi da mangiare, avevano tre fgli. Io cucinavo, apparecchiavo la tavola e tutto quanto. Facevo le solite minestre. Facevo lavatrici, ma non le pulizie.
Di cose nuove ho imparato soprattutto a conoscere la città
Nel frattempo, avevamo stretto una forte amicizia con una donna di Transacqua anche lei sposata a Roma. Eravamo due coppie ma una anima sola: dove c’erano loro c’eravamo anche noi e dove eravamo noi c’erano loro. Ci siamo stati vicini. Quando è andata in pensione ho preso il suo posto. Era all’AID, Associazione Italiana Diabeti. Hanno fatto la selezione e scelto me, volevano tramandare il lavoro ad un’altra di Fiera di Primiero. Sono rimasta là fno alla pensione.
... in tutto ho fatto quattro stagioni in Ticino e sei in Svizzera interna.
Parlare di servizio non è il mio caso, ho lavorato in Svizzera in Albergo e stagionale. Sono partita nel 1957, a maggio, fno ad ottobre-novembre. Avevo 26 anni. Sono andata nel Canton Ticino.
Una mia conoscente, che già lavorava là, mi ha scritto che nell’alberghetto – ristorante e una decina di camere –cercavano una guardiarobiera e aiuto camere e se volevo andare là anch’io. Sono partita un po’ per curiosità, ma soprattutto per guadagnare qualcosa più di qua. Perché oltre ad aiutare i miei genitori contadini, facevo lavori di cucito ed ero stata ad imparare da una sarta.
Ho raggiunto la Svizzera con i mezzi di allora: corriera fno a Feltre, poi treno, con un po’ di paura, non avevo mai viaggiato in treno. Dovevo cambiare due volte: a Padova e a Milano.
L’alberghetto era a conduzione familiare in un paese, non in città. Ero arrivata in una famiglia con due genitori e due fgli maggiorenni. Lavoravano tutti in casa. Eravamo in tre ragazze: due italiane, e una ragazza svizzera-tedesca venuta in Ticino per imparare l’italiano. Lei lavorava in sala. Io facevo la guardarobiera e aiuto camere.
Il tempo libero era ridotto a mezza giornata la settimana. Ma io e la mia amica avevamo liberi giorni diversi, così si approfttava per fare qualche spesetta
personale, o una per l’altra, dal parrucchiere, scrivere a casa o alle amiche. Non ricordo quanto guadagnavo, ricordo bene che la mia famiglia diceva: “Mételi via par ti”. Accettavano volentieri se davo loro qualcosa. Tornavo sempre a casa per alcune settimane fra una stagione e l’altra. Erano contenti tutti quando tornavo a casa.
A fne della prima stagione, i gestori mi dissero che se a primavera pensavo di tornare in Svizzera erano contenti se tornavo da loro. Li ringraziai e mi sentivo molto soddisfatta. Ma la ragazza svizzera-tedesca invece mi disse: “Vieni nella Svizzera interna, là si guadagna di più!” E allora io ho risposto più per scherzo che altro: “Trovami un lavoro”. Ma durante l’inverno mi informò che aveva trovato un lavoro assieme a lei, io nelle camere e lei in sala, in un Cantone francese. Ho risposto di si, ho avvisato in Ticino e loro sono stati gentili, mi hanno detto: “Se vuoi possiamo sentirci dopo.”
I vip che frequentavo la pensione non badavano a spese, soprattutto nel bere certe bottiglie
Durante la prima stagione estiva in Svizzera francese ho dovuto imparare tedesco e francese almeno quel che mi serviva per lavoro. Però ho pensato: “Voglio passare in sala”; dove il guadagno veniva non dallo stipendio ma dalla percentuale sul servizio.
Così è stato, in autunno ho contattato il Ticino e ho detto che se avevano bisogno in sala io ero libera. E che mi ero impegnata con le lingue. Mi hanno accettata subito. Da qual momento ho continuato: inverno in Ticino, estate in Svizzera interna. In tutto ho fatto 4 stagioni in Ticino e sei in Svizzera interna. L’ultima estate l’ho fatta nel Canton Grigioni, sempre su insistenza della mia amica. Ormai ero pratica nel lavoro in sala, me la cavavo benino in francese e abbastanza in tedesco. Era necessario sapere un po’ le lingue per lavorare in quei posti.
I vip che frequentavano la pensione non badavano a spese, soprattutto nel bere certe bottiglie che costavano un occhio della testa. Ma andava più che bene, perché la mia percentuale sul servizio cresceva con poco lavoro.
Lì ho guadagnato proprio tanto, è stato bello, e avrei continuato, ma avevo in programma il matrimonio in autunno. Così quella è stata la mia ultima stagione.
Qualche anno dopo, sono andata ancora una volta in Svizzera a far visita alla mia amica e i suoi genitori. Con la mia bambina in braccio e la valigia nell’al-
tra mano. Ma senza più paura del viaggio, dopo quanti ne avevo già fatti. E insieme siamo andate a salutare la famiglia del Canton francese, dove avevo lavorato per 4 estati e lei per una. Sono stati tanto contenti di vederci. La famiglia del Ticino, erano brave persone senz’altro, ma alcuni anni dopo, quando ho pensato di mettere insieme i miei contributi per la pensione, con mia sorpresa ho trovato i periodi di lavoro in Svizzera interna pressoché esatti, ma da quelli in Ticino mancava sempre qualche settimana tanto all’arrivo che alla partenza. I gestori erano di origini italiane, dalla provincia di Milano. Per la mia esperienza meglio quelli al di là che quelli al di qua del Gottardo. Fine della trasmissione.
... ero sempre in paese e volevo fare un’esperienza diversa.
Sono partita nel 1957, avevo 20 anni. Sono state le suore a trovarmi il lavoro da ‘sta Signora di Torino che veniva qua in villeggiatura. In quegli anni là molte andavano in Svizzera o Milano. Erano molte a partire. Mia mamma era possessiva e mi diceva di rimanere a casa. Ma io volevo andare via, ero sempre in paese e volevo fare un’esperienza diversa. Non sono partita per i soldi: noi avevamo anche il panifcio, mio papà lavorava là, non avevamo nemmeno così bisogno di guadagnare.
Era estate quando sono partita. Forse la Signora è venuta a prendermi a casa o forse mi hanno accompagnata le suore in treno, non mi ricordo. La Signora non aveva fgli, non aveva nessuno, solo un cugino che veniva ogni tanto a trovarla. Aveva però molti quattrini, perché suo marito era un Commendatore che comandava una fabbrica o una industria. Ma era poco che era morto d’infarto a 56 anni. E la Signora era pazza. Aveva anche lei 56 anni ma ne dimostrava ottanta, era magrissima, aveva delle gambe magre così. Io le facevo tutto: la lavavo, la spogliavo, la vestivo, le facevo da mangiare, facevo la spesa, la portavo a passeggio. Le davo il braccio quando si camminava. Erano gli anni che a Torino venivano su tutti quei meridionali di vent’anni, giovani come me. Trovavano lavoro alla FIAT. Questi operai, in giro, quando
Erano gli anni che a Torino venivano su tutti quei meridionali di vent’anni
vedevano una ragazza, si sa com’è! Allora la Signora si arrabbiava: “Lasciate stare la mia ragazza, che è fdanzata eh!” Si arrabbiava la Signora, li cacciava via.
Si è fdata subito di me. Mi mandava in banca a prendere e portare i soldi, non ti dico quanti soldi aveva, aveva un conto bancario che non ti dico. Però mi pagava poco, una miseria.
Non
potevo fare una vita con una donna così
Sono rimasta 7-8 mesi. Era troppo pesante. Non avevo tempo libero, lei non mi lasciava quasi mai uscire. Ho conosciuto una ragazza feltrina, anche lei in servizio. Alla domenica, quando la mia Signora me lo permetteva, uscivo con lei e ci facevamo compagnia, ma restavo sempre vicino a casa, non mi allontanavo mai. La sera era l’unico momento in cui rimanevo da sola, sennò dovevo sempre essere con lei, come una bambina. Non potevo fare una vita con una donna così. Quando le ho detto che partivo si è messa a urlare. E veniva la gente a suonare alla porta per capire cosa stava succedendo. Era pazza. Era possessiva. Dopo mi ha scritto per tanti anni perché sperava che tornassi, mi scriveva: “Ti ho conosciuta nel periodo peggiore della mia vita, quando ho perso mio marito!” Ma non ho voluto tornare a Torino, per l’amor di Dio. Dopo mi sono sposata e sono andata in Svizzera. Ma queste suore: come hanno fatto a mandare una ragazza di 20 anni, così?! Se tornassi indietro non lo rifarei.
... a mia nonna importava solo se andavano in chiesa, non se erano brave persone.
Nel 1963 avevo 18 anni, non ero ancora maggiorenne. Ero all’Ospedale Santa Chiara di Trento. Avevo lì l’appoggio di mia sorella più vecchia. Ma lei era stata mandata via perché era fdanzata, non si poteva a quell’epoca, e poi si è sposata. Ma aveva anche la pleurite e non accettavano quelli che non potevano lavorare. L’Ospedale era gestito dalle suore: mi sono trovata malissimo con loro, esperienza pessima. Qualcuna era anche paesana nostra. Le ragazze lì non resistevano più di qualche anno. L’Ospedale era stile caserma: non avevi la libertà di uscire la sera, facevi i turni fno alle 22. Avevamo le camerate come i militari.
Dopo un anno, nel 1964, sono stata a Firenze, da settembre a giugno. Sono partita perché ero la secondogenita di sei fgli, dovevo andare a lavorare e mandare i soldi a casa e a Firenze non avevo spese, essendo in famiglia. Era una famiglia abbastanza numerosa, benestante. Ero da sola in servizio. Prevalentemente facevo la babysitter. Non conoscevo nessuno, avevo solo un’amica di Castelnuovo di Garfagnana, anche lei era a servizio, e passavamo il tempo a vedere Firenze. È durata poco. Ho deciso di fnire bruscamente, perché non ho trovato quello che mi era stato promesso. La signora era incinta e io non lo sapevo, quando ho deciso di partire non l’avevo vista, avevo visto solo il marito. E avevo
Non ho trovato quello che mi era stato promesso
già due bambine da accudire. E una mi diceva: “Tanto tu sei solo la donna di servizio!” e la cosa mi dava molto fastidio. Questa bambina era amica intima della fglia di Gino Bartali, l’ho conosciuto lui. Io a quei tempi soffrivo terribilmente di nostalgia. Non c’erano telefoni, allora ho scritto tanto, lettere enormi e anche cattive a volte. Non ho resistito. Ho imparato che non era un lavoro adatto a me.
Sono tornata a casa e neanche il tempo di guardarmi attorno e sono ripartita per Roma con quelli con cui, poi, ho sempre lavorato: un dentista. Questi qua hanno chiesto a una signora che cercavano una ragazza. E sta signora ha fatto il mio nome. Allora sono andati a cercarmi da mia nonna: perché mi chiamavo come lei. E lei ha detto di si per me perché a mia nonna importava solo se andavano in chiesa, non se erano brave persone. A Roma non ero a servizio, io mi occupavo dello studio medico. Abitavo con i genitori del dentista, i nonni, e gli facevo compagnia nonni e vivevo con loro in una casa grandissima: avevo una stanza e un bagno per conto mio, che forse era quello della donna di servizio. Però anche lì non ero libera libera, perché dovevo domandare il permesso alla nonna, mamma del dottore, per uscire quando fnivo di lavorare. Lei era bigotta. Chiedevo: “Posso uscire stasera?”. Ma rispondeva: “Si, ma solo mezz’ora!” Io svolgevo il lavoro di una laureata però segnata come commessa di studio. Ho lavorato 25 anni con loro.