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Macron l’equilibrista, fermo e umano sui migranti Camille Vigogne Le Coat 46 Giubileo all’anno zero Carlo Tecce

pure il Giubileo in formato ordinario - che si tiene ogni quarto di secolo - non è un evento imprevisto. Un margine per organizzarsi c’era, margine addentato, rosicchiato e infine spolpato dalle tipiche esitazioni dei caduchi governi italiani. Giorgia Meloni guida l’esecutivo numero 68 dal 1948. In cassa ci sono circa 2 miliardi di euro da spendere per il Giubileo entro il 2025 più altri 8,2 miliardi per la mobilità e il turismo di Roma acclusi al piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che scade nel 2026. Com’è potuto succedere.

Il 3 novembre 2020, fra il ponte dei santi e la festa delle forze armate, con un inedito anticipo, quasi fastidioso, il presidente Giuseppe Conte convocò un incontro per il Giubileo 2025 con Nicola Zingaretti, il governatore del Lazio e monsignor Rino Fisichella, il delegato vaticano. La sindaca Virginia Raggi, esclusa, protestò vibratamente. Nessuna comunicazione particolare, era un modo per avviare il percorso e fissare agenda e intenzioni. Ci si rivede. Fammi sapere. I soldi li mettiamo con la legge di Bilancio. La prossima volta meglio da me.

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A gennaio il secondo governo di Conte era già barcollante. Il 13 febbraio 2021 Mario Draghi giurò al Quirinale. Come eredità di Conte, Draghi si ritrovò per il Giubileo un cosiddetto “tavolo istituzionale” introdotto proprio con la legge di Bilancio assieme a un paio di milioni di euro. Attorno al “tavolo istituzionale”, capeggiato ovviamente dal presidente del Consiglio, si accomodano i ministri di Economia, Trasporti, Esteri, Interno, Cultura, Turismo, il sindaco di Roma, il governatore del Lazio, due deputati e due senatori nominati dai presidenti di Camera e Senato. I componenti parlamentari erano Francesco Silvestri (5S) e Marianna Madia (Pd) per la Camera e Isabella Rauti (Fdi) e Alberto Bagnai (Lega). Siccome il legno per rafforzare la partecipazione democratica non manca mai, i deputati e i senatori invitati al tavolo con il governo Draghi - la maggioranza era più larga e varia rispetto a Conte – sono diventati in totale sei con l’onorevole Annagrazia Calabria (Fi) e la senatrice Annamaria Pa-

Carlo rente (Iv).

Tecce Il tavolo istituzionale di

Giornalista Conte era forgiato per

stabilire come e dove spendere il denaro e monitorare - «aggiornare e rimodulare», precisa la norma - i progetti su base semestrale. Conte non ebbe il tempo di sedersi. Draghi l’ha inaugurato il 15 luglio 2021. Il sottosegretario Roberto Garofoli è stato parecchio attento all’argomento. Le stime di crescita nazionale in quel periodo erano sempre ritoccate al rialzo. Il governo brillava col sostegno della gente e della sorte. A qualsiasi esecutivo, al più secolarizzato come al più conservatore, fa piacere farsi piacere dal Vaticano. C’era una legge di Bilancio da riempire con tanti soldi. Quella di Conte era limitata all’architettura politica. Le nozze di Cana per Draghi si sono rivelate una banalità. Ha stanziato 1,335 miliardi di euro per pianificare e realizzare le opere attinenti al Giubileo e 110 milioni per gestire con la Santa Sede l’accoglienza dei pellegrini (si stimano arrivi a Roma attorno ai 22 milioni, aggiuntivi ai 20 milioni di un anno medio non pandemico).

A differenza del Giubileo 2000, quello di Francesco Rutelli sindaco e di tre governi di centrosinistra da Romano Prodi a Massimo D’Alema sino a Giuliano Amato, Draghi ha preferito affidare le “dotazioni finanziarie” e perciò le funzioni di stazione appaltante e soggetto pagatore e vigilante non a un’agenzia comunale, ma a una società di scopo interamente controllata dal ministero dell’Economia denominata “Giubileo 2025”. Un espediente per proteggere il Giubileo (e il denaro pubblico) dalle contese politiche, ma comunque il “programma dettagliato” e la relativa burocrazia è attribuita al commissario straordinario e cioè al sindaco Roberto Gualtieri.

Affianco al tavolo eccessivamente riflessivo di Conte, il governo Draghi ha costruito una cabina di “coordinamento” per la «verifica semestrale del grado di attuazione degli interventi» e per «assegnare poteri surrogatori in caso di inerzia». È la cabina per le emergenze e vi possono accedere il governo, la società Giubileo 2025, la regione Lazio, il comune di Roma, il commissario straordinario, il delegato vaticano.

Un successivo decreto ha inserito, per il ministero del Turismo oggi di Daniela Santanché, un altro capitolo di spesa definito “caput mundi”. Con un misto di fondi, ad aprile, il governo ha reperito 500 milioni di euro per «la rigenerazione del patrimonio culturale romano», che il comune di Gualtieri ha convertito in una lista di 335 lavori per decine di siti archeologici e poi parchi, giardini, palazzi, fontane e ville storiche.

Un ulteriore decreto a metà giugno ha offerto l’ultima spinta per il lancio. All’articolo 1 si «recano disposizioni di semplificazione e accelerazione delle procedure di valutazione e di verifica». La società Giubileo 2025, amministratore delegato Marco Sangiorgio (ex di Redo sgr e di Cassa Depositi e Prestiti), presidente Matteo Del Fante (ad di Poste Italiane), risulta formalmente attiva dal 15 luglio 2022 e da quel momento è più o meno pronta a muovere il conto della Tesoriera dello Stato che custodisce i circa 1,5 miliardi di euro.

Il 20 luglio 2022 il governo Draghi non ha

SOCIETÀ

Matteo Del Fante, presidente della società Giubileo 2025. Sopra: il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti

SOLTANTO IL 10 NOVEMBRE TESORO E RAGIONERIA GENERALE HANNO RICEVUTO IL “PROGRAMMA DETTAGLIATO”. ORA PARTIRÀ LA CLASSICA CORSA DISPERATA ALL’ITALIANA

ottenuto la fiducia. Il presidente della Repubblica ha sciolto le Camere. Il 1° settembre, per la terza volta, a tre settimane del voto, Draghi ha riunito a Palazzo Chigi il “tavolo istituzionale” e il 9 settembre il sottosegretario Garofoli ha inviato lo schema degli interventi e delle opere per il Giubileo ai presidenti di Camera e Senato per il parere delle commissioni competenti. Si trattava di un documento diviso in cinque «ambiti tematici»: tanta manutenzione, fermate metropolitane e ferroviarie, acquisto di treni, percorsi ciclabili, parcheggi interrati, illuminazione del Grande raccordo anulare, sottovia a Porta Pia, cammini per pellegrini, pulizia e sponde del fiume Tevere, deposito tramviario a Porta Maggiore, rifacimento di piazze (per esempio quella dei Cinquecento di fronte a Termini e la spianata di San Giovanni). Cose che non stravolgono il volto urbano di Roma come avvenne nel 2000, ma che possono darle una ripulita, una sana sciacquata. Per procedere, sbloccando sia la società Giubileo 2025 che i 500 milioni del ministero del Turismo, però c’era bisogno di un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (un dpcm) che contiene il “programma dettagliato” (cantiere e importi) preparato dal sindaco/ commissario Gualtieri e vagliato dal ministero dell’Economia. La campagna elettorale ha indotto alla prudenza, le trattative per il governo alla ibernazione.

Il 22 ottobre Meloni ha ricevuto il testimone (e la campanella) da Draghi. Ormai è dicembre e per il Giubileo non c’è neanche lo schizzo a matita per immaginare, non capire, come scippare il Tevere all’incuria con una massiccia dose di «parchi pubblici e oasi naturalistiche». Soltanto il 10 novembre gli uffici del Tesoro e la Ragioneria Generale hanno ricevuto il “programma dettagliato” di Gualtieri. Dopo l’esame dei tecnici, tocca alla politica col ministro Giancarlo Giorgetti e la premier Meloni che dovrà firmare il dpcm. Questioni di giorni, certo, con ciascun giorno che incupisce chiunque si avvicini al Giubileo: è la solita corsa disperata all’italiana con il piombo nelle scarpe, la solita scommessa in sospeso tra fallimento e miracolo. Per tacere del tripudio di cantieri da 10 miliardi di euro che attende i romani con il Giubileo e il Pnrr fino al 2027. Oltre alla Porta Santa, ci vorrà una santa pazienza.

Roma, Piazza San Pietro durante una cerimonia di canonizzazione. A destra: monsignor Rino Fisichella, delegato vaticano per il Giubileo del 2025

il console onorario di Israele a Firenze. R iveste questa carica dal 10 settembre 2019, data dell 'accreditamento (exequatur) del ministero degli Esteri italiano. Quel giorno l 'ambasciatore israeliano a Roma, Dror Eydar, annuncia v ia Internet che Carrai è il primo a rivestire quel ruolo a Firenze, con competenze su tre regioni: Toscana, Emilia Romagna e Lombardia. Il tempismo della nomina è notevole: appena nove giorni dopo, il 19 settembre, l 'agenzia A nsa informa che A lberto Bianchi, il presidente della Fondazione Open, si è v isto perquisire, a sorpresa, la casa e gli uffici. Due mesi dopo, quando tocca a Carrai, è ormai diventato un console, per cui è protetto dall ' immunità diplomatica. E la Finanza si deve fermare.

Nel mondo esistono migliaia di consoli onorari, diverse centinaia solo in Italia. Non sono ambasciatori o diplomatici pubblici. Sono privati, ma rappresentano uno Stato all 'estero. Quindi godono di una forma minore d ' immunità diplomatica: non possono essere perquisiti o intercettati per tutte le attiv ità, non prefissate dai trattati, di possibile interesse statale. Uno scudo legale che ha finito per attirare molti personaggi spregiudicati e perfino criminali. Questa inchiesta giornalistica internazionale, chiamata Shadow Diplomats (diplomatici-ombra), ha identificato, per la prima volta, più di 500 consoli onorari che sono stati

Paolo accusati pubblicamente di aver v ioBiondani lato la legge o gestito affari controGiornalista versi per interessi privati. Molti

Gloria Leo Riva Sisti Giornalista Giornalista

risultano tuttora in carica. L'inchiesta ha unito più di 160 giornalisti di 46 nazioni, tra cui L'Espresso in esclusiva per l 'Italia, coordinati dall 'International Consortium of Investigative Journalists (Icij) e dalla fondazione indipendente ProPublica. Nell 'elenco degli oltre 500 casi documentati di cariche problematiche compaiono politici e imprenditori condannati per corruzione, tesorieri di organizzazioni terroristiche, riciclatori di capitali mafiosi, spie di regimi autoritari, falsari, truffatori, trafficanti di cocaina e armi.

Carrai è entrato nella lista internazionale perché è indagato e il suo ruolo ha influenzato l'istruttoria. I giudici decideranno nelle prossime settimane se dovrà essere processato, con l'ex premier Renzi e altri, per il reato di finanziamenti illeciti. L'indagine di Firenze ha accertato che la fondazione Open, tra il 2014 e il 2018, ha incassato oltre 3,5 milioni di euro da diverse aziende private, senza dichiararli come contributi politici. Renzi si proclama innocente, anzi perseguitato, e tutte le difese sostengono che la fondazione non è un partito, quindi non ha obblighi di trasparenza. A questo verdetto è appesa la sorte di molte altre indagini sui soldi ai partiti, in un quadro giuridico incerto, che si può riassumere in un solo quesito: per sfuggire alla storica legge che fu alla base di Tangentopoli, quella che impone di comunicare e registrare i finanziamenti ai politici, basta intestare una fondazione agli amici?

L’Espresso ha fatto pervenire a Carrai molte domande sul suo ruolo di console onorario: quali personalità hanno

favorito la sua nomina, cosa ha fatto in questi anni per il governo di Tel Aviv, che interessi ha in quella nazione, quali affari ha gestito con i suoi soci israeliani come Jonathan Pacifici. L'imprenditore però ha preferito, diplomaticamente, non rispondere.

Tra gli oltre 500 «diplomatici-ombra» ci sono anche consoli non indagati, ma in situazioni di conflitto d'interessi: ad esempio, politici che rappresentano regimi considerati nemici dai loro stessi governi. Fabrizio Comba è un parlamentare di Fratelli d'Italia eletto nel 2022 in Piemonte, la regione di Guido Crosetto, l’attuale ministro della Difesa. A lla Camera, Comba è stato inserito proprio nella commissione Difesa, ruolo delicatissimo in tempi di guerra. Anche perché lui non è mai stato un sostenitore della Nato e tantomeno dell'Ucraina. Torinese, 56 anni, laureato in Giurisprudenza, imprenditore nel settore delle auto, è stato nominato console onorario della Bielorussia già nel 2004 e ha continuato a ricoprire quella carica fino a pochi mesi fa, con una sola pausa per «sopraggiunta incompatibilità», come ha spiegato lui stesso, riferendosi al periodo in cui era consigliere regionale in Piemonte. Caduta quella giunta a guida leghista, Comba torna a fare l'imprenditore, proprietario di una carrozzeria e una concessionaria d'auto. E dal 2016 ricomincia anche a fare il console onorario per la Bielorussia, promettendo di rafforzare i rapporti economici con l'Italia, specialmente nella chimica, agricoltura, cellulosa, legno, pelle e, naturalmente, automobili. Un compito non facile, perché da molti anni l'Unione Europea sta sanzionando la Bielorussia per violazione dei diritti umani, repressione sociale, falsificazione dei risultati elettorali. Nel febbraio scorso, quando il presidente-dittatore A lexandr Lukashenko si è schierato al fianco di Putin nella guerra in Ucraina, le sanzioni si sono aggravate. Comba però si è dimesso dalla carica di console solo nella tarda estate di quest'anno, in piena campagna elettorale, dopo

DAL BANCHIERE AMICO DI PUTIN E BERLUSCONI ALL'ONOREVOLE MELONIANO, LA RETE AL SERVIZIO DELL'EX BLOCCO SOVIETICO SAMA RAPPRESENTA IL PARAGUAY

DIPLOMATICI-OMBRA

Dall’alto a sinistra, in senso orario: il manager Carlo Sama, l’onorevole Fabrizio Comba, l’imprenditore Marco Carrai assieme all’ex premier Matteo Renzi. Sono tutti consoli onorari: sono privati, ma hanno poteri di rappresentanza di Stati esteri e quindi godono di un’immunità diplomatica garantita dai trattati

essersi visto rinfacciare le sue richieste, ripetute più volte fin dal 2014, di revocare le sanzioni contro la Russia, perché danneggiano anche aziende italiane. L'onorevole Comba non ha risposto a nessuna domanda de L'Espresso.

Un altro diplomatico privato in bilico tra Est e Ovest è Antonio Fallico. È l ' italiano più potente di Mosca. Presidente di Banca Intesa Russia, gestisce da decenni affari e relazioni politiche con l 'ex Blocco sov ietico. E fin dal 2008 è console onorario della Federazione Russa a Verona. Ha difeso pubblicamente il regime di Vladimir Putin anche alla v igilia della g uerra contro l 'Ucraina. Il 10 febbraio scorso, in un convegno a Mosca, ha dichiarato che «la Russia in tutta la sua storia non ha mai attaccato nessuno», chiedendo se l 'allarme americano non fosse «un nuovo pretesto per l 'allargamento della Nato ad Est». Una tesi rilanciata in un' inter v ista del 15 febbraio, nove giorni prima della g uerra.

Fallico, classe 1945, ha conosciuto tutti i leader di Mosca degli ultimi 50 anni, da Breznev ad Andropov, da Gorbaciov a Eltsin, fino a Putin e Medvedev. Originario di Bronte, in Sicilia, laureato in Lettere a Catania, si è trasferito come insegnante a Verona, dove negli anni '70 si è iscritto al Pci. Dal Veneto, con la tessera comunista, è diventato consulente della Banca Cattolica, poi confluita nel gruppo Intesa. Con Putin ha un rapporto molto stretto. Lo conosce da quando era vicesindaco di San Pietroburgo. A ll'inaugurazione della sede di Banca Intesa a Mosca, Putin è intervenuto di persona, con un altro ospite eccellente: Silvio Berlusconi. A Verona, Fallico è presidente dell'«Associazione conoscere Eurasia», fondata nel 2007 per «sviluppare le relazioni tra Italia, Russia, Bielorussia, Kazakistan, Armenia e K irghizistan», che organizza ogni anno un forum con i big del gas e petrolio. L'ultima edizione, la quindicesima, si è trasferita da Verona a Baku, in Azerbaijan, perché le sanzioni hanno tenuto lontano dall'Italia gli oligarchi invitati da Fallico, come Igor Sechin, il numero uno della Rosneft.

L'Espresso e il consorzio Icij hanno inv iato 15 domande a Fallico, per chiarire la sua attiv ità di console; g li accordi tra Banca Intesa e Mir Capital, una finanziaria di GazpromBank di cui era presidente; i negoziati tra Berlusconi e Putin, tra il 2002 e 2006, per modificare i contratti dell 'Eni con Gazprom, che hanno raddoppiato la dipendenza italiana dal gas russo. Fallico non ha risposto. Non ha voluto correggere neppure le sue dichiarazioni sull 'Ucraina.

La carica diplomatica off re una rete di supporto politico internazionale anche a diversi imprenditori italiani. Roberto Gotti è un industriale bresciano che dal 2018 è console onorario della Bielorussia. La sua azienda, Dismas Trading, ha l 'esclusiva per l 'Italia nel commercio dei prodotti in acciaio fabbricati dall ' industria statale bielorussa Bmz, che nel 2021 g li ha garantito ricav i per oltre 34 milioni e utili netti per 412 mila euro. Gotti è anche un appassionato di scherma, a cui ha dedicato un museo e una scuola a Botticino, dove v ive.

La Bmz, in Bielorussia, è accusata di repressione delle proteste operaie. Tra il 2020 e il 2021, nei mesi delle

Il banchiere Antonio Fallico, console onorario della Russia a Verona rivolte di massa contro il reg ime, lo sciopero dei lavoratori dell 'acciaio è stato stroncato con l 'arresto dei loro rappresentanti sindacali, condannati a tre anni di galera. Molti operai sono stati licenziati, altri sono scappati all 'estero.

Gotti ha risposto a tutte le domande inviate da L'Espresso e da altre testate europee. «Ho iniziato a lavorare con la Bielorussia 22 anni fa, sono i rapporti commerciali che hanno spinto la diplomazia, non la politica, a chiedermi di diventare console onorario. Sono un europeista convinto, la guerra in Ucraina è una tragedia per tutti». In una serie di mail dell'estate 2022, ottenute dal quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung, l'ambasciatore bielorusso a Roma lo definisce «il più attivo console onorario in Italia». E afferma che Gotti «non ha interrotto i rapporti economici» neppure dopo le sanzioni di guerra, anzi si sarebbe offerto di «svilupparli ulteriormente». L'imprenditore però smentisce di aver mai aggirato le sanzioni: «Molti nostri contatti sono svaniti già nella prima notte di guerra in Ucraina. Dal 4 giugno, con le sanzioni sull'acciaio bielorusso, la mia azienda ha dovuto riconvertirsi totalmente: da allora compriamo da altri Stati. Penso che la mail dell'ambasciatore si riferisca ai pochissimi prodotti bielorussi esclusi dalle sanzioni». Gotti poi conferma, come si ricava dalle mail, di aver chiesto alla Bielorussia, tramite l'ambasciatore, di votare per un suo amico italiano, Giorgio Scarso, per la carica di vicepresidente della Federazione europea di scherma, nomina in effetti ottenuta il primo ottobre scorso.

L'azienda del console bresciano è sensibile agli equilibri strategici. Gotti ha av uto per anni tra i soci un'azienda austriaca controllata da ex manager bielorussi dell'acciaio: la loro quota è stata venduta a un gruppo italiano il 24 febbraio 2022. Il giorno dell'invasione russa dell'Ucraina. Difficile non pensare a una mossa in extremis per sfuggire alle sanzioni di guerra.

A ltri diplomatici privati hanno forti legami con la politica. Il professor Giacomo Gargano è considerato un fedelissimo dell'ex governatore siciliano Nello Musumeci, oggi ministro. Ed è il console onorario del Sudafrica a Catania. Gargano, 43 anni, av vocato e docente di Diritto amministrativo all'università Kore di Enna, dal 2018 siede su una poltrona chiave per l'economia siciliana: è presidente dell'Irfis, la banca regionale che gestisce gli aiuti pubblici alle imprese e i fondi per il Covid-19. E per il Sudafrica che fa? Il console non ha risposto. Tra gli imprenditori italiani che rappresentano nazioni straniere, il più conosciuto è Carlo Sama, ex azionista e amministratore del colosso Ferruzzi-Montedison, travolto dalle indagini di Mani pulite. A l processo Enimont, fu tra i primi a confessare la cosiddetta «madre di tutte le tangenti» e ha limitato la condanna definitiva a tre anni, ev itando il carcere. Nel 2018 ha ottenuto la riabilitazione giudiziaria, che cancella tutti gli effetti della pena. In questi anni ha trasferito le attiv ità all 'estero: nel Principato di Monaco ha creato la holding, FerSam, che rimanda ai cognomi di lui e della moglie, A lessandra Ferruzzi, figlia di Serafino, il fondatore dell ' impero di famiglia. Il tesoro del gruppo oggi è soprattutto in Sudamerica: enormi tenute agricole, proprietà immobiliari, investimenti finanziari. Sama è anche console onorario del Parag uay proprio a Montecarlo. L’Espresso gli ha chiesto chi gli ha offerto quel ruolo diplomatico nel paradiso fiscale europeo. Carlo Sama ha risposto in modo esauriente: «Sono stato nominato dal presidente Horacio Cartes nel novembre 2016. Amo il Paraguay, un paese aperto al mercato dei cereali, che ha assunto una rilevanza mondiale per la soia. La nostra azienda agricola è una delle più avanzate, nell'A lto Paranà, la zona più fertile. Viaggiando spesso per lavoro, ho conosciuto il ministro degli Esteri, Eladio Loizaga. È stato lui a proporUN INDUSTRIALE BRESCIANO HA IL MONOPOLIO DELL’ACCIAIO DI MINSK. E RAPPRESENTA IL REGIME IN ITALIA. ACCUSATO DA CARTE RISERVATE, NEGA TUTTO: MAI VIOLATO LE SANZIONI mi Monaco». Sama precisa che «la procedura è iniziata nel 2015» e la nomina è stata riconfermata «dai successivi ministri, Castiglioni, Acevedo, Arriola, oggi tutti membri del governo dell ’attuale presidente Mario Abdo Benitez». E in cosa consiste la sua attività di console? «Promuovere il Paese sotto il profilo delle potenzialità economiche di sviluppo». La carica diplomatica ha mai favorito le sue aziende? La risposta di Sama è netta: «Lo escludo».

di NICOLA GRAZIANO Il Parl am ento fa c ci a l e l e g g i I m a g i strati l e int er pre tin o

Non può dirsi ancora archiviato il procedimento che porta al rinnovo del Csm visto che, dopo l’elezione della componente togata secondo il nuovo sistema elettorale, è stato convocato per il prossimo 13 dicembre il Parlamento in seduta comune per l’elezione dei membri laici che dovrebbe avvenire secondo procedure trasparenti di candidatura, da svolgere nel rispetto della parità di genere ma con un inevitabile accordo tra maggioranza ed opposizione in considerazione del quorum minimo richiesto. Ed è probabilmente in vista di questa elezione che divampa il conflitto tra le correnti della magistratura che tutt’altro che essere state mitigate nella loro forza risultano essere nettamente fortificate da un sistema elettorale che non ha affatto raggiunto l’obiettivo del loro superamento. L’esito delle elezioni ha visto infatti una netta contrapposizione tra la corrente moderata e quella progressista secondo un esito abbastanza scontato, con un deludente effetto del sistema proporzionale che ha consentito solo in minima parte l’elezione di soggetti non appartenenti ad alcuna corrente. Oltre le righe si deve però leggere con favore il risultato elettorale di magistrati come Stanislao De Matteis, candidato nel difficile collegio unico di legittimità, il quale - scegliendo di candidarsi come indipendente per superare gli steccati ideologici delle correnti - ha raccolto un importante numero di voti coagulando intorno a sé un gruppo eterogeneo di magistrati che si riconoscono in un modello di consigliere non necessariamente appartenente ad un gruppo prestabilito. Resta però sullo sfondo un generale insuccesso del nuovo sistema elettorale con sostanziale pareggio tra le correnti che attende di essere completato con la nomina dei membri laici che faranno da vero e proprio ago della bilancia. Intanto iniziano le prime schermaglie. Dai comunicati stampa degli esponenti delle correnti trasuda una chiara ed evidente presa di posizione politica che non dovrebbe certamente caratterizzare l’attività dei magistrati, se non nei limiti della interpretazione delle leggi che non può andare oltre il principio della separazione dei poteri. E invece si assiste ad un dibattito sui primi atti del governo di centrodestra con toni accesi quali la preannunciata necessità di una stagione di resistenza costituzionale da una parte e dall’altra la stigmatizzazione a non diventare attori della scena politica, culminato poi con un invito ad una pubblica tenzone sul modo di declinare la giurisdizione dal punto di vista della necessaria difesa dei diritti civili ed umani. C’è però da domandarsi cosa c’è oltre le correnti e la loro rumorosa deriva che sempre meno rappresentano quella parte silenziosa dei magistrati che, lavorando alacremente, oggi fanno i conti con il sistema dei controlli dei capi degli uffici nell’ottica del perseguimento dei sempre più ambiziosi ma al contempo difficili obiettivi di riduzione dei tempi della giustizia in chiave Pnrr. Io credo che, sia pure non volendo affatto rinnegare il ruolo che la magistratura è chiamata a svolgere come un potere dello Stato che si fa attore nella società a difesa dei diritti fondamentali (si pensi alla giurisprudenza pretoria degli anni 70 che ha contribuito e non poco alla emersione del concetto di ambiente da tutelare anche in ottica di futuro delle nuove generazioni), in questo momento la magistratura debba andare oltre posizioni politiche o di parte e considerare i problemi che ha al suo interno, primo fra tutti quello di recuperare la credibilità che sempre più è persa per colpa di pochi con conseguenze per tutti. In questa ottica il Parlamento faccia le leggi che ritiene tenendo in debito conto i principi della nostra Carta fondamentale e la magistratura ritorni al suo ruolo di interprete della legge perché è forse solo seguendo tale strada che si potrà dire effettivamente superato quel problema costante della commistione tra politica e magistratura che interessa sempre meno ai cittadini che a gran voce invocano una giustizia celere ed efficace che solo così si fa difesa di diritti fondamentali che nella loro tutela esprimono il senso democratico del nostro Stato di diritto.

Solo seguendo questa strada si potrà dire di aver effettivamente superato il problema costante della commistione tra poteri

GLI USA OLTRE BIDEN E TRUMP

DI MANUELA CAVALIERI E DONATELLA MULVONI

ntrambi i partiti si trovano ad un bivio. La

Equestione è generazionale: Biden è anziano e lo è anche Trump. Io scommetto che nel 2024 il nuovo batterà il vecchio. In quale partito succederà, non è dato saperlo». All’indomani delle elezioni di metà mandato, lo stratega conservatore Scott Jennings, come tutti gli analisti, è già proiettato alla corsa per la Casa Bianca. «Trump e Biden hanno dominato la politica per molto tempo. I partiti ora vogliano candidare persone nuove, più giovani», ci spiega l’esperto che ha lavorato per il presidente George W. Bush ed è consulente di Mitch McConnell, leader Gop al Senato.

A seggi chiusi, il quadro che va abbozzandosi in vista delle prossime presidenziali, ha contorni confusi. Per la prima volta, democratici e repubblicani si trovano a fare i conti con complessità speculari: due leader ingombranti, che si preferirebbe non ricandidare, pur con motivazioni diverse. Da un lato, Joe Biden. Sul secondo mandato di un presidente, solitamente i partiti si compattano, eppure la sua possibile ricandidatura non entusiasma i vertici e neppure la base, nonostante sia il vincitore morale delle ultime elezioni. Gli gioca contro l’età - nel 2024 avrà 82 anni - e anche il basso indice di gradimento. Dall’altro, Donald Trump, settantaseienne, che aveva promesso di sfinire i suoi per le troppe vittorie e che invece ha inanellato una serie di sconfitte: le midterm del 2018, le presidenziali del 2020 e adesso i modesti risultati dei candidati che ha sostenuto l’8 novembre. Il pronostico era quello di una “red wave”, un fiume in piena che avrebbe umiliato i progressisti. E invece, nonostante inflazione ed economia incerta, l’onda rossa «si è trasformata in un piccolo rivolo» ha sintetizzato sarcastica la speaker della Camera Nancy Pelosi. Tra gli sconfitti alcu-

DONALD È LO SCONFITTO DI MIDTERM. IL PRESIDENTE IL VINCITORE MORALE. MA IN ENTRAMBI I PARTITI CRESCE LA TENTAZIONE DI ANDARE AL 2024 CON CANDIDATI PIÙ GIOVANI ni nomi pesanti, voluti e appoggiati proprio da Trump. Ad esempio, in Pennsylvania, Mehmet Oz, candidato al Senato, e Doug Mastriano, in corsa per la carica di governatore; o in Arizona, dove “il suo” Blake Masters ha ceduto la poltrona al democratico Mark Kelly. Seggi che sono costati il Senato ai repubblicani. La vittoria in Nevada di Catherine Cortez Masto contro Adam Laxalt ha ufficialmente consegnato ai democratici i 50 seggi necessari ad afferrare la maggioranza. Questo perché in

caso di parità - 50 e 50 - a contare è il voto della vicepresidente Kamala Harris. E la forbice potrebbe allargarsi, se il ballottaggio del sei dicembre in Georgia confermerà il senatore democratico Raphael Warnock, pastore battista in corsa per il secondo mandato, sfidato dall’ex stella del football Herschel Walker, pupillo di The Donald.

Alla Camera, invece, pochi dubbi sulla conquista repubblicana della maggioranza a spoglio concluso. Il margine, strettissimo. Tra i quadri del partito conservatore ci sono tensione e spaesamento. Come sempre accade all’indomani delle débâcle (o almeno delle non-vittorie) è tempo di dita puntate. La gestione di McConnell è in discussione, con il senatore Rick Scott deciso a sfidarne la leadership.vMa è l’ipotesi di un Trump ’24 a sbriciola-

re il Gop tra indefessi sostenitori, trumpiani barcollanti e detrattori pronti a scaricarlo. La retorica del tycoon, ancora incentrata sulla falsa denuncia delle elezioni rubate nel 2020, piuttosto che sui temi cari al partito, ha iniziato a stancare. Come pure le tante inchieste in corso. Iniziano ad abbandonarlo anche media amici come Fox News e New York Post. La lista dei possibili sfidanti è già lunga: Glenn Youngkin, governatore della Virginia; Nikki Haley, ex ambasciatrice delle Nazioni Unite; Mike Pompeo, ex direttore della CIA e Segretario di Stato; Tim Scott, senatore della Carolina del Sud; l’ex vicepresidente Mike Pence e l’ex governatore del New Jersey Chris Christie. Ma soprattutto Ron DeSantis, governatore della Florida fresco di rielezione. «È quello con le migliori possibilità al momento - continua Scott Jennings - Ha vinto bene in uno Stato considerato competitivo per entrambi i partiti. È Manuela Donatella giovane, il suo stile piace, per certi versi è come Trump, in Cavalieri Mulvoni versione meno caotica». Gli occhi, ora, sono puntati sul Giornalista Giornalista convegno della Republican Jewish Coalition di Las Ve-

Il governatore della Florida Ron DeSantis

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden con la vicepresidente Kamala Harris

gas, primo appuntamento post elettorale di spessore a cui tutti loro parteciperanno.

Mancano comunque due anni al voto. Quanto Trump e il trumpismo siano effettivamente fiaccati è da vedere. Trump, intanto, scommette ancora su se stesso. Martedì scorso l’annuncio della candidatura da Mar-a-Lago. «È un movimento - ripete - Non sarà la mia, ma la nostra campagna». Guai a sottovalutare la capacità di ripresa del leader del mondo Maga, avverte tra gli altri il Washington Post che ricorda i momenti in cui, ingenuamente, nel 2016, lo si dava per spacciato: quando mise in dubbio l’eroismo in guerra del defunto senatore John McCain o, negli ultimi giorni della campagna, quando emersero le registrazioni di Access Hollywood in cui si vantava di aver palpeggiato donne.

Se nel quartier generale del Gop domina un clima di confusione, poco meglio va in casa democratica. Il presidente scioglierà a gennaio il riserbo su una eventuale ricandidatura. Nel frattempo, galvanizzato dell’esito delle urne, Biden è arrivato al G20 di Bali e all’incontro con il leader cinese Xi Jinping in “posizione di forza”. «Con questo risultato elettorale - riflette la dem Capri Cafaro, ex senatrice statale dell’Ohio - si placheranno, almeno per ora, le voci che suggerivano un’uscita di scena». Il nodo da sciogliere però resta: confermare Biden, puntare su un candidato alternativo? Oppure aprire il campo delle primarie? In fondo, quest’ultimo approccio aveva permesso la levata dell’astro di Obama. Di certo nelle fila del partito, spiega, mancano personaggi carismatici pronti per l’arena. Tra i nomi in lizza, al momento, c’è quello della vicepresidente Kamala Harris; del ministro dei trasporti Pete Buttigieg; dei governatori Gavin Newsom, californiano, e Gretchen Whitmer, del Michigan, appena rieletti. Il cielo è più sereno se si guarda in prospettiva, avverte

Cafaro. Le elezioni di midterm hanno iniettato linfa nuova tra i progressisti: le prime governatrici lesbiche, il primo governatore nero in Maryland, il primo membro della generazione Z al Congresso. Sono loro il futuro del partito, insieme alla già rodata squadra capitanata da Alexandria Ocasio-Cortez. In attesa delle politiche del 2024, però, ci sarà da portare avanti l’agenda di governo, con lo scenario, che va concretizzandosi, di un Congresso spaccato. Al sicuro saranno le nomine giudiziarie di Biden, la cui conferma è competenza del Senato; ma alla Camera sarà difficile arginare la paralisi legislativa. Qui, i deputati Gop hanno già annunciato commissioni di inchiesta, su Hunter Biden, figlio del presidente, sul ritiro dall’Afghanistan, un processo di impeachment al presidente. A livello legislativo, due possibilità: fare muro contro muro, approvando leggi promosse dalla frangia più estrema o spingere pacchetti più moderati, accettabili anche per Biden, per dimostrare al Paese di saper governare. Sul fronte economico, è il tetto di spesa a togliere il sonno ai democratici. I repubblicani potrebbero minacciare di non votare nessun aumento del debito, se le loro richieste non venissero accontentate. «Un’eventualità che escludo, perché la maggioranza è troppo risicata», ci dice Dean Baker, economista e cofondatore del Center for Economic and Policy Research. Il vero problema per lui è l’eventualità di una recessione nel 2023. «Cosa che accadrà, se la Federal Reserve esagererà nell’aumentare i tassi. A quel punto, il modo migliore per uscirne sarà spendere. Ma sarà più difficile far passare il messaggio del presidente quando dirà: “Abbiamo bisogno di un pacchetto di 300 miliardi per riI PROSSIMI DUE ANNI SARANNO COMUNQUE SEGNATI DAL RISCHIO DI PARALISI LEGISLATIVA CON CAMERA E SENATO GOVERNATI DA DUE MAGGIORANZE DIVERSE lanciare l’economia” e i repubblicani risponderanno “Non permetteremo più i vostri sprechi”. Purtroppo, in media la gente non capisce come funziona l’economia». Se il Gop dovesse bloccare qualsiasi stimolo, avverte Baker, si tratterrebbe del «rischio economico più grande derivato dai risultati delle elezioni, che potrebbe causare un periodo prolungato di crescita debole e alta disoccupazione, nel tentativo forse di ripetere il 2011. Ovvero, arrivare alle presidenziali con una economia debole». “Colpa” che ovviamente ricadrebbe sul presidente e ridimensionerebbe le chance di rielezione. «Quella volta non funzionò, però, Obama rivinse. Speriamo ricordino la lezione».

SE L’ARBITRO ENTRA IN PARTITA

COLLOQUIO CON ALEC ROSS E ISABELLA WEBER DI FEDERICA BIANCHI

he la Storia dell’umanità sia giunta a un cro-

Ccevia fondamentale nessuno ha dubbi. Tra pandemia, guerra, cambiamenti climatici e le più gravi tensioni geopolitiche degli ultimi settant’anni, il mondo di oggi è molto diverso da quello di soli tre anni fa. Su questo punto un’economista come la tedesca Isabella Weber e un esperto di nuove tecnologie come l’americano Alec Ross concordano. È sulla ricetta e sui cammini da intraprendere guardando avanti che le opinioni divergono. È tempo di confrontarsi. Motivo per cui Fondazione Feltrinelli e Regione Toscana hanno dato vita a una tre giorni di dialoghi che si terrà alla Normale di Pisa e a Firenze tra il 23 e il 25 novembre su come i fondi del Pnrr potrebbero contribuire a reimpostare il nostro sistema economico, con una rinnovata attenzione alle risorse naturali e alle disuguaglianze.

«L’Unione europea ha bisogno di un suo modello specifico per affrontare la doppia transizione ecologica e digitale», dice al telefono dall’Università di Bologna, dove insegna, Ross, ex consigliere per l’Innovazione di Hillary

Clinton durante la sua permanenza al vertice della segreteria di Stato statunitense: «Deve mettere in campo una sua squadra con una sua strategia, smettendo di fare da arbitro tra americani e cinesi perché alla fine l’arbitro non vince mai». Tanto più che per Roma, Parigi e Berlino non vanno bene i modelli di sviluppo tecnologici creati da ragazzini californiani ora miliardari e nemmeno quelli messi a punto da uno Stato sempre più autoritario come la Cina, dove ci sono oltre tre milioni di telecamere di sorveglianza. «Pechino vorrebbe sostituire i G20 e i G8 con i G0», sottolinea Ross nella settimana in cui i leader del G20 si sono incontrati a Bali per discutere dell’economia mondiale e delle conseguenze dell’aggressione russa contro l’Ucraina: «In un mondo senza alleanze tradizio-

nali Pechino sarebbe libera di stringere gli accordi bilaterali che vuole e ottenere vantaggi». Lo sta già facendo con la Russia: gran parte di quello che Putin non riesce più a esportare verso Usa ed Europa prende la via della Cina con uno sconto di almeno il 20 per cento. E India e Paesi del Golfo seguono. «Fino a cinque anni fa in Italia si pensava che dovessimo stringere i rapporti con la Cina, se non copiare parti del suo modello di sviluppo», dice Ross: «Adesso devi essere uno sciocco per abbracciare un modello che è contrario a tutti i valori italiani, a partire dalla libertà. È chiaro che il modello cinese sia un modelALL’UE SERVE UN MODELLO DI SVILUPPO NUOVO, SOSTENIBILE. PER AFFRANCARSI DA USA E CINA. ANCHE GRAZIE AL PNRR. L’ESPERTO DI TECNOLOGIE ROSS E L’ECONOMISTA WEBER A CONFRONTO lo bruttissimo». Brutto o buono che sia il modello, secondo Weber, attualmente consulente del governo tedesco per l’economia, le interdipendenze con esso costruite negli ultimi trent’anni dai Paesi europei non possono essere recise in modo frettoloso. «Stiamo vivendo un cambiamento totale dell’economia mondiale come non lo vedevamo da secoli e non è chiaro come affrontarlo, non ci sono risposte pronte. La cosa importante è agire con cautela», dice. Cautela (di sapore merkeliano) è lo slogan di questa economista Federica sulla cresta dell’onda, esperta di Cina. In Bianchi un momento in cui i cambiamenti climatiGiornalista ci, la pandemia e la guerra hanno scon-

volto le tradizionali catene di rifornimento servirebbe un’azione congiunta per ripristinarle, ma a causa di un’acuita rivalità tra Usa e Cina la cooperazione internazionale è sempre più difficile. Il recente tentativo di evitare una seconda guerra fredda con il dialogo di oltre tre ore tra Joe Biden e Xi Jinping a margine del G20 di Bali ha forse scongiurato una guerra nucleare in Ucraina, ma non l’eventualità di un conflitto mortale per la salvaguardia dell’indipendenza de facto dell’isola di Taiwan, che la Cina rivendica come suo territorio. In questa nuova era, gli intrecci economici sono divenuti funzionali alle ambizioni politiche. La crescita non è più un obiettivo in sé: è tornata a essere uno strumento dei fini politici delle grandi potenze mondiali.

«È la situazione di un gatto che si morde la coda», dice Weber : «È facile parlare di “decoupling”, di spezzare le linee di rifornimento dalla Cina per non diventarne oggetto di ricatto. Ci sono voluti decenni per crearle. Forse abbiamo bisogno di più resilienza, di costruire uno stoccaggio europeo maggiore e di essere meno esposti. Ma il rischio di tagliare prematuramente i legami con la Cina è quello di finire per dovere fare a meno degli attrezzi che ci servono per costruire quella resilienza». Un esempio? «Nel costruire un’economia più verde abbiamo ancora bisogno dei prodotti cinesi: è difficile ricostruire una catena di rifornimento mentre stiamo già ricostruendo un’economia nazionale più verde».

Molto più ottimista è invece Ross: «I fondi del Pnrr non saranno sufficienti ma sono comunque un’opportunità storica per cercare di arginare i cambiamenti climatici e costruire un’economia circolare». Non solo. Per l’Europa sono l’opportunità per conquistare la leadership mondiale del green. Ne ha le competenze e la capacità innovativa. Ora deve metterci i soldi e orientare la propria politica al cambiamento». Ad esempio, gli Stati europei, Germania compresa, devono smetterla di guardare a Cina e Usa per l’auto elettrica: «Le soluzioni arrivano sempre dalle startup, è ora di investire in quelle europee che creano le batterie di nuova generazione». Il maggior paradosso è che l’80 per cento dei lavoratori di Silicon Valley sono europei. «Vanno in Usa perché trovano terreno fertile: fondi a parte, la ricerca universitaria non è considerata patrimonio esclusivamente statale, ma ha connessioni fortissime con il mondo dell’impresa. Non c’è quel muro tra ricerca e commercializzazione che c’è qui. Negli Usa come in Cina la ricerca universitaria è alla base dell’eco-

nomia. Non a caso Google è nato a Stanford. E poi sia in Usa sia in Cina c’è una strategia politica che aiuta la nascita delle imprese». E questa ancora manca all’Europa. «La Germania in particolare è in una posizione difficile», ribatte Weber : «Non abbiamo Google, non abbiamo Londra, non abbiamo le multinazionali dei servizi. Abbiamo Bosch e Siemens, aziende energivore». Un quarto dell’economia tedesca dipende dalla manifattura. E il 40 per cento di quella manifattura dipende dalla Cina. «La Cina diventerà la maggiore economia mondiale e per le nostre aziende sarà difficile restare leader globali e non stare in Cina. Certo, potremmo riorientare le catene di rifornimento verso il Sud-Est asiatico ma il mercato cinese dove lo troviamo?». La risposta non è facile. Certo pesa la miopia tedesca nei confronti della Russia, l’incapacità della Germania di costruire in tempo un’infrastruttura verde così da non trovarsi oggi in recessione, con il rischio di trascinarsi dietro mezza Europa, a causa del ricatto del gas di Putin. Ma come non ripetere l’errore in futuro senza darsi la zappa sui piedi? «La soluzione deve passare per la nazionalizzazione di alcune aziende di interesse pubblico, come hanno fatto in Francia, nella costruzione di infrastrutture verdi che ci permettano di affrontare il cambiamento climatico», dice Weber. E la tutela dei settori di interesse nazionale dalle mire dei Paesi “non così amici”? «Non è facile individuare i settori che debbano davvero essere messi al riparo dalle catene di rifornimento mondiali, ci stiamo lavorando». «Pigri! Gli europei sono stati pigri fino ad adesso!», esplode Ross: «L’Europa non ha una sua indipendenza energetica a causa della pigrizia della sua classe politica». Prendiamo l’Italia: «Dovrebbe avere un parco eolico in L’esperto di tecnologie Alec Abruzzo, uno solare nel cuore di Sicilia doRoss; l’economista Isabella Weber. Saranno tra i protagonisti ve tutto brucia e poi è circondata ovunque dei Colloqui di Toscana dall’acqua ma non ha fatto abbastanza investimenti ed è oggi più indietro del Marocco». E se gli Usa hanno risposto al neo-sovranismo cinese con il “made in America”, ora gli europei dovrebbero avere più coraggio nel costruire una propria risposta, nel loro solo interesse, «come dice Emmanuel Macron». «Non occorre rovesciare la globalizzazione a 180 gradi ma dovete avere più capacità e meno dipendenza», conclude Ross. Una pausa. «Merkel (e le sue interdipendenze con Russia e Cina) è la leader più sopravvalutata della storia d’Europa. L’Europa oggi non può più permettersi di seguire quel modello tedesco».

di ZLATKO DIZDAREVIC Isra el e, e stremi sti a l p o t ere In Me dio O ri ent e c am bi a tutto

Dopo quindici anni, e due brevi pause, Benjamin Netanyahu sarà di nuovo il premier d’Israele. Si potrebbe pensare che non sia cambiato nulla rispetto alla variopinta coalizione che lo ha preceduto, ma non è così. Il fattore decisivo non sarà il Likud di “Bibi”, nonostante sia il partito con più seggi nella Knesset (32), bensì le due figure d’ombra dell’estrema destra: Bezalel Smotrich con il “Partito Sionista Religioso” e Itamar Ben-Gvir col partito “Otzma Yehudit”, lett. Potere Ebraico. Questo “potere” raccoglie perlopiù i simpatizzanti del noto estremista sionista Meir Kahane e del partito Kach, fondato nel 1971 e vietato in Israele nel 1994 da una legge anti-terrorismo.

La coalizione dei due estremisti si è piazzata al terzo posto (14 seggi), subito dopo il Likud e l’ex partito di maggioranza Yesh Atid (24) del premier Yair Lapid, un risultato che porterà un forte cambiamento nel Paese, una radicalizzazione estrema fino al fanatismo. La conseguenza di questa linea sarà un ritorno al passato per Israele, i palestinesi e tutto il Medio Oriente.

Netanyahu in questo schema non appare, per assurdo, né come il player più importante né come quello più pericoloso. È inebriato avendo soddisfatto tutte le sue ambizioni, potrà “congelare” nuovamente il suo corposo fascicolo giudiziario che lo vede indagato per corruzione e diverse malversazioni. Ma per quanto sia furbo, esperto e importante per quelli che in Israele esclamano «o Netanyahu o nessuno», sarà per lui difficile bilanciare le crude realtà rappresentate dai due veri vincitori, Smotrich e Ben Gvir, a cui deve la sua vittoria. Questa porterà all’estrema radicalizzazione dello stato d’Israele che presto verrà profilato come religioso e sionista. Le forze moderniste e moderate, se ci sono, oggi sono sconfitte. Soprattutto quelle che sono inequivocabilmente contro Netanyahu.

Da oggi anche quella piccola misura di realismo che Netanyahu suo malgrado ha dovuto mostrare nei mandati precedenti a favore dei vicini e dei “grandi” partner nel mondo, sarà sotto enorme pressione. Ben-Gvir ha già chiesto la poltrona di ministro per la pubblica sicurezza, affermando che per ogni pietra lanciata, ogni molotov e ogni atto distruttivo, la risposta sarà solo armata. Secondo Smotrich e Ben Gvir, tutti quelli che non sono a favore di Israele saranno espulsi! Non dimentichiamo che a suo tempo Ben-Gvir ha minacciato brutalmente il premier Yitzhak Rabin, andato ad Oslo nel 1995 per trattare con Arafat. Tre settimane dopo Rabin è stato ucciso da un attentatore israeliano.

Smotrich, di professione avvocato, ha proposto leggi e misure legali contro tutti quelli ritenuti nemici d’Israele, contro i richiedenti asilo, gli avversari politici, e contro i diritti Lgbt. Secondo lui gli stranieri sono un pericolo, e bisogna “ridefinire” i diritti delle donne.

Il ritorno di Netanyahu, è chiaro, non è una good news per Biden. Tre anni fa il presidente Usa ha chiaramente favorito il “Bennett di destra” come premier, mantenendo un quieto “status quo” nelle relazioni Usa-Israele. Ciò difficilmente potrà continuare. Netanyahu e i partner sono un terremoto per la regione e Biden ha altre cose di cui occuparsi. Si sta aprendo un nuovo vaso di Pandora in Medio Oriente con nuovi giovani palestinesi ma anche con Iran, Siria, Russia.

Se finora potevamo pensare che le cose si stessero sistemando - ci sono state addirittura trattative per stabilire i confini marittimi - le elezioni in Israele riportano sul tavolo i vecchi giochi più pericolosi. Una volta contro Meir Kahane è stata fatta una legge, d’ora in poi non sarà più possibile. Lo spirito di Meir Kahane sta diventando un fenomeno d’Israele, e del mondo.

Il futuro non promette bene, per nessuno.

Un manifesto elettorale di Benjamin Netanyahu

Una casa distrutta dopo i bombardamenti ad Arkhanhelske, villaggio da poco liberato nella provincia di Kherson

Con l’Ucraina fino alla vittoria», abbiamo spesso sentito ripetere in questi mesi. Ma se la vittoria è impossibile? Allora si inizia ad agire su un doppio binario, come stanno facendo gli Stati Uniti nelle ultime settimane. Da un lato c’è la linea dura, quella che dal 24 febbraio ha insistito urbi et orbi per il sostegno militare a Kiev e l’interruzione di ogni relazione con la Russia. Dall’altro, la convenienza che probabilmente è sempre stata nell’ombra, o meglio, che noi non abbiamo potuto vedere, ma ora entra in scena con la prepotenza del realismo. Anche in seguito ai frammenti di missili caduti in Polonia, sul territorio della Nato, gli Usa sono stati fin dalle prime ore i più cauti. Mentre i Paesi baltici e la Repubblica Ceca invocavano subito l’articolo 5 dell’Alleanza, Washington ha parlato di «verifiche necessarie» e ha stemperato i toni.

D’altronde, non è la prima volta che i funzionari e i militari Usa adottano questa strategia comunicativa. Mark Milley, il capo di stato maggiore congiunto statunitense, ovvero una delle tre figure al comando delle forze armate a stelle e strisce, è stato il primo alto ufficiale dei Paesi Nato ad ammettere la possibilità di uno stallo a tempo indefinito sul campo di battaglia. «Deve esserci un riconoscimento reciproco [tra Russia e Ucraina, ndr] del fatto che la vittoria nel senso proprio del termine probabilmente non è ottenibile con mezzi militari e quindi bisogna guardare ad altri metodi», ha dichiarato Milley all’Economic club di New York. Difficile pensare che le dichiarazioni di un ufficiale di quel rango siano improvvisate. Al contrario, ne dobbiamo trarre la conclusione che i vertici militari del principale alleato di Kiev, nonché leader della Nato, intravedono la necessità di trovare una soluzione diversa alla guerra. Si noti che lo stesso giorno (10 novembre) il presidente Biden aveva chiarito che il sostegno all’Ucraina continuerà, ma che a Kiev non è stato dato «un assegno in bianco»; in altri termini, non tutte le richieste ucraine devono essere soddisfatte. I droni di ultima generazione, per esempio, non saranno forniti «per scongiurare un allargamento del conflitto». Tuttavia, altri 400 milioni di dollari di aiuti militari sono stati approvati dal Congresso e inizieranno a essere consegnati a breve.

Il lunedì seguente due fatti hanno rafforzato la tesi che le dichiarazioni di Milley non fossero un caso isolato. In un lungo articolo sul quotidiano Wall Street Journal, si raccontava di come il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, il 4 novembre fosse atterrato a Kiev per provare a convincere il presidente ucraino a «mostrarsi aperto ai negoziati». Tale atteggiamento, secondo la diplomazia americana, contribuirebbe a mettere Kiev in una «posizione vantaggiosa» rispetto alla controparte sia sul piano della politica internazionale sia su quello mediatico. Sullivan avrebbe consigliato al presidente ucraino di pensare a «priorità e richieste realistiche» da presentare al tavolo negoziale con la Russia in modo da poter aprire una trattativa. Tuttavia, al G20 di Bali, Zelensky sembra non aver recepito affatto i consigli americani e i «10 punti per la pace» presentati all’assemblea si sono rivelati dei desiderata più che delle proposte concrete. Poco dopo, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha bollato le proposte del presidente ucraino come «non realistiche e non adeguate» in quanto «la Russia vuole fatti concreti e non parole» per iniziare un eventuale negoziato. Si noti che fino alla scorsa settimana i russi, Putin in testa, avevano sempre affermato di essere «aperti a trattare la pace», ma «partendo dall’attuale situazione sul campo». Mosca sa che Kiev non vuole rinunciare ai territori perduti dall’invasione a oggi e che quindi non accetterà di partecipare a una trattativa in cui Mariupol, Melitopol o la regione di Zaporizhzhia sono la moneta di scambio. Almeno per ora. Da qualche tempo, invece, i russi si dicono

Sabato Angieri Giornalista

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nella Kherson liberata aperti alle proposte ucraine «senza pregiudizi». A dirlo è stato il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, quindi, anche qui, non un personaggio che può permettersi di parlare senza consultarsi prima con il capo.

Per gli stessi motivi Sullivan avrebbe chiesto a Zelensky di «riconsiderare» la riconquista della Crimea. A differenza di quanti sostengono che entro la prossima primavera Kiev otterrà dei successi fondamentali, come l’ex capo delle forze armate Usa in Europa, Ben Hodges. Stando all’analisi del militare, il danneggiamento del ponte sullo stretto di Kerch e l’avvicinamento delle batterie ucraine al fiume Dnipro permetteranno alle forze ucraine di indebolire a tal punto i russi da poter riconquistare la penisola. Ma con i soldati di Mosca in ritirata dalla sponda ovest del fiume Dnipro parlare anche di restituzione della Crimea sarebbe forse eccessivo per intavolare una trattativa. Gli ucraini, tuttavia, non fanno che ripetere che presto a Sebastopoli sventoleranno di nuovo le bandiere gialle e blu.

E poi ci sono i contatti diretti con Mosca. In tale contesto il nome di Jake Sullivan è ricorrente. La settimana scorsa abbiamo scritto delle rivelazioni (sempre del Wall Street Journal) sulla linea aperta tra il consigliere americano e alcuni funzionari molto vicini al Cremlino. Ora scopriamo che si è passati agli incontri confidenziali in territorio neutro. La Cnn ha diffuso la notizia che il direttore della Cia, William Burns, ha incontrato il capo del Svr (l’intelligence estera russa), Sergei Naryshkin, ad Ankara. Si noti che l’incontro è stato voluto proprio da Washington, come il Cremlino non ha mancato di sottolineare. Stando a quanto dichiarato ai media, la missione di Burns era parlare della «gestione del rischio, in particolare il rischio nucleare e i rischi per la stabilità strategica» con la controparte russa. Si è anche tenuto a sottolineare che Kiev era stata informata per tempo dell’incontro, il che è molto significativo.

Diversi analisti iniziano a chiedersi se i rapporti interni nel governo di Kiev siano effettivamente così armoniosi come sono stati presentati. Il capo riuscirà, se dovesse presentarsene l’occasione, a imporre una linea che si discosta dalla riconquista totale dei territori occupati? La domanda è tutt’altro che scontata e rima con il ruolo preponderante che hanno le forze armate e i gruppi più nazionalisti all’interno dell’attuale amministrazione ucraina. Quanto, negli ultimi mesi, Volodymyr Zelensky sia riuscito a costruirsi un entourage in grado di assecondarlo e di difenderlo in caso di scelte impopolari è tutto da verificare. Dall’esterno abbiamo solo potuto prendere atto dei frequenti licenziamenti al vertice delle cariche statali e alla loro sostituzione con figure in apparenza più vicine alla linea del presidente.

Per lo stesso motivo anche la ritirata russa da Kherson e la liberazione della parte ovest della città non costituiscono di per sé un catalizzatore della pace. Anche se Zelensky stesso ha dichiarato che è «l’inizio della fine della guerra» e che il suo Paese è «pronto per la pace», tali parole sono ( forse volutamente) ambigue. Si tratta della pace voluta dagli ufficiali ucraini, ovvero la vittoria contro l’invasore e la riconquista del territorio nazionale, o della pace tout court? Del resto, dopo gli attacchi di martedì, gli ucraini sono tornati a sostenere che «il terrore russo si può fermare solo con la forza delle nostre armi».

Tra i rappresentanti Usa sembra esserci chi ancora crede al sostegno all’Ucraina «a tutti i costi». Parlare di soldi non è fuori luogo se si pensa alle forniture di gas russo e ai rincari in Europa. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg continua a ripetere che servono più armi e che la Russia è «ancora pericolosa, anche se indebolita». L’ex vicesegretario alla Difesa statunitense, Evelyn Farkas, afferma che «l’Occidente non deve permettere a Putin di chiedere un cessate il fuoco» e la rappresentante permanente degli Usa alla Nato, Julianne Smith, dice che «la Nato e l’Ucraina godono di un forte sostegno bipartisan al Congresso […] non sappiamo quando la guerra finirà, ma siamo certi che l’Ucraina prevarrà».

Tale dicotomia si spiega facilmente se ci si appella alla forma. Gli Usa sono talmente coinvolti da non potersi permettere di passare da voltafaccia di fronte a Kiev e, soprattutto, agli alleati europei. Tuttavia, la sproporzione di potere all’interno della Nato permette a Washington di poter agire in autonomia. Con buona pace del presidente francese Macron che, tra i leader europei, sembra il più infastidito dal ruolo di gregario che questa guerra gli ha riservato. D’altronde, non sarebbe il primo ripensamento della Casa bianca in anni recenti, basti citare l’Afghanistan, anche se per gli Stati Uniti in Ucraina c’è una posta molto più alta in gioco: l’indebolimento della Russia e la riaffermazione dell’egemonia strategica sull’Unione europea.

P E R L A T R E G U A SE P A R E

DI GIGI RIVA

ome sarà l'Ucraina dopo una trattativa che

Cpiù o meno sotterraneamente è già iniziata e che dovrebbe sfociare se non nella pace in una tregua per congelare il conflitto? È tempo di chiederselo nonostante l'infittirsi dei bombardamenti russi, l'offensiva ucraina che prosegue e gli ordigni caduti in Polonia che hanno ucciso due persone: quando si avvicinano negoziati decisivi sempre succede che si alzi la temperatura per sedersi al tavolo da una posizione più vantaggiosa e sempre sono in agguato incidenti che possono ostacolare il dialogo: nel caso polacco, dagli Usa alla Nato alla stessa dirigenza di Varsavia si è subito cercato di buttare acqua sul fuoco per non far deragliare il delicato percorso in atto.

Come sarà dunque? Viene in mente uno slogan cinico, già usato nel passato, qui ammantato però di valenze diverse: separare i vivi per non continuare a contare i morti che avrebbero superato, sui due fronti, il numero esorbitante di duecentomila. Separarli attraverso una pulizia che sarebbe improprio definire etnica per la confusa serie di varianti offerte da una popolazione di confine. Ci sono ucraini, ci sono russi, ci sono ucrainofoni che stanno con Mosca (pochi), russofoni che stanno con Kiev (molti). E dunque le categorie da prendere in esame sono piuttosto l’identità e l’ideologia. Per definizione l’identità e l’ideologia sono autocertificate, sono quanto ciascuno si sente nel profondo. E questo provoca le complicazioni.

A inizio conflitto l’Ucraina aveva quasi 44 milioni di abitanti. Di questi 8 milioni sono sfollati interni, altri 7 milioni sono profughi all’estero. Quindici milioni in totale, un terzo della popolazione. Quando tacerà il cannone la loro scelta non sarà se tornare a casa ma dove tornare a casa, dove è casa. E, il fenomeno è già parzialmente in atto, casa è dove saranno coloro che condividono la stessa visione del mondo.

Stare nell’Ucraina di Zelensky (sempre che rimanga al potere) con uno sguardo rivolto verso le democrazie europee cercando di perseguire gli stessi standard in fatto di diritti civili ed economia di mercato, o stare nella Russia di Putin (sempre che rimanga al potere, più facile) dove la democrazia è considerata obsoleta e dove vige una democratura muscolare con forti venature autoritarie (eufemismo).

Gigi Riva Una “pulizia identitaria” obbligatoria per-

Giornalista ché il numero esorbitante di vittime, la pro-

Una casa distrutta durante un attacco russo nel villaggio di Novooleksandrivka, regione di Kherson

fonda spaccatura prodotta impediranno una conciliazione, almeno nei tempi brevi. Solo più avanti, e mutata qualche circostanza, popolazioni così interconnesse potranno riprendere le vecchie consuetudini di una mescolanza favorita da legami familiari oltre che storici. Il presente sarà la divisione dei destini, una sconfitta non solo delle parti in causa ma anche dei valori su cui si è costruito il Vecchio Continente. Succede alle porte dell’Unione Europea ed è un segnale catastrofico, un cattivo esempio che potrebbe dunque dilagare nell’epoca delle tentazioni sovraniste purtroppo non naufragate nemmeno sotto i colpi di una pandemia che aveva illuso circa un futuro di maggiore condivisione perché «non ci si salva da soli» nel pianeta interconnesso.

È ormai del tutto evidente che la trattativa, al netto di alcune reboanti dichiarazioni ad uso interno per meglio posizionarsi ai round finali dei tavoli di negoziato, muove dal disegno di nuovi confini frutto di una realtà del terreno sulla via di essere accettati. Lo sgombero dei russi da Kherson è la cartina di tornasole di una diplomazia sotto traccia che ha già stabilito alcune linee guida evidentemente concordate mentre si muove una pluralità di attori attorno al nocciolo decisivo Zelensky-Putin. Ne sono la riprova i primi contatti da febbraio dei capi degli 007 di Russia e Stati Uniti, l’incon-

Prima Pagina E P A R E R A N N O I V I V I

tro tra Biden e Xi Jinping sullo scenario di Bali. La riprova che, dopo la lunga notte della guerra, è giunto il momento della presa d’atto di una situazione difficilmente modificabile dalla forza d’urto dei due eserciti belligeranti. Lo zar del Cremlino ha perso, non potrà mai prendere Kiev e il Paese tutto, come era nei suoi auspici iniziali e la Cina desiderosa di riprendere a pieno ritmo i commerci dovrà ridurlo alla resipiscenza. Permettendogli tuttavia di poter contrabbandare il clamoroso rovescio di quella che fu l’Armata Rossa con un surrogato di vittoria per aver allungato le mani su una fetta ulteriore di Donbass e mantenuto la contesa Crimea. «Tutti i russi in uno Stato», era la sua parola d’ordine che andrà modificata, vista la riottosità di una parte di loro a tornare sotto il dominio del Cremlino, in «tutti i russi che lo vogliono in uno Stato». Quanto a Joe Biden, rafforzato dalle elezioni di Midterm, dovrà faticare per convincere Zelensky, in piena euforia da riconquista, che a sua volta può proclamare la vittoria per aver fermato i russi nonostante la dolorosa concessione di una fetta di territorio ma questo era il massimo risultato possibile perché il prezzo da pagare al-

trimenti sarebbe la terza guerra mondiale. Si chiama realismo cinico. O, se volete, la finestra di opportunità spalancata dall’inverno per non continuare il massacro. Zelensky, in collegamento video con il G-20 di Bali (e il ministro degli Esteri russo lo è stato a sentire senza lasciare la sala...) ha enunciato i dieci punti per la pace, molti dei quali facilmente sottoscrivibili dal nemico come sicurezza nucleare, sicurezza alimentare, sicurezza energetica, rilascio di tutti i prigionieri e deportati, meccanismo di compensazione dei danni di guerra, protezione dell’ambiente. Ha invocato poi una carta delle Nazioni Unite largamente bistrattata ovunque negli ultimi decenni per il ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina e chiesto, per la protezione futura del suo Paese, alcune garanzie visto che non fa parte di alcuna alleanza militare: non ha citato l’adesione alla Nato. È chiaramente la questione del ripristino dell’integrità territoriale che sarà motivo d’attrito. Risolvibile solo con l’ausilio della gamma di sfumature di cui dispone l’arte diplomatica. L’ipotesi più probabile è il congelamento del riconoscimento delle aree conquistate dai russi con la promessa di un referendum sul futuro status da svolgersi sotto il controllo di osservatori internazionali. Già ma con quali regole? Chi potrà votare? I residenti attuali o quelli al 24 febbraio 2022, iniCI SONO UCR AINI, RUS SI, UCR AINOFONI CHE S TA NNO CON MO SCA E RUS SOFONI PIÙ VICINO A KIEV. QUA NDO TACER À IL CA NNONE L A LORO SCELTA NON SA R À SE TORN A RE A CA SA MA DOVE zio delle ostilità? E si torna alla questione iniziale della pulizia identitaria nel frattempo intercorsa. È il perenne dualismo tra autodeterminazione e inviolabilità dei confini che rientra in gioco. Due principi inconciliabili e motivo di tensioni non solo a Oriente, anche nel pacifico Occidente (Spagna, Irlanda, Scozia, Belgio...). In ogni caso è prevedibile, dopo la tregua, che non si arriverà alla pace giusta. E torna in mente la famosa massima di Blaise Pascal: non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte, abbiamo fatto che ciò che è forte fosse giusto. All’amara frase si può opporre solo un alibi: sì, ma abbiamo fermato la carneficina.

alcio e ipocrisia vanno a

Cbraccetto. Ma in Qatar si stanno battendo record ancor prima del debutto del mondiale, previsto domenica 20 novembre con un match non proprio di cartello fra la nazione ospitante e l’Ecuador.

In breve, il Qatar è buono quando investe in Europa e in Italia. È buono quando l’Italia vince appalti nel Paese del Golfo con imprese come Eni, Saipem, Webuild. È buono quando il suo gas naturale liquefatto ci aiuta a superare la crisi energetica provocata dall’invasione russa dell’Ucraina. È buono quando fa divertire gli spettatori con le stelle del Paris Saint-Germain, da Leo Messi a Kylian Mbappé, e quando riempie le casse voraci di club e federazioni con i diritti tv comprati dal network al Jazeera.

È cattivo quando un suo rappresentante impropriamente definito ambasciatore, tale Khalid Salman, ex calciatore dell’al Sadd e della nazionale, dichiara che i gay vanno curati. È cattivo quando continua a intrattenere rapporti preferenziali con gli ayatollah iraniani e con Vladimir Putin. È cattivo quando dichiara, contro ogni verosimiglianza, che la prima coppa del mondo invernale sarà a zero emissioni di carbonio nonostante si giochi in impianti ad aria condizionata.

Il Qatar infine è cattivo quando, nella corsa forsennata a costruire sette stadi, una metro colossale, opere stradali e idrauliche per una bolletta complessiva di 220

miliardi di dollari, manda al massacro almeno 6.751 lavoratori immigrati fra il 2011 e il 2020, secondo una statistica ricostruita dal Guardian nel febbraio del 2021 su dati delle ambasciate di India, Pakistan, Bangladesh, Nepal e Sri Lanka e, dunque, senza contare altre comunità molto diffuse nei Paesi del Golfo, gli afghani, i filippini, i kenioti. È una strage che ha colpito una forza lavoro di due milioni di persone su 2,9 milioni di residenti totali ma il saldo del decennio non è lontano da quello di cui dovrebbe vergognarsi l’Italia.

Per chi ha costruito il sogno, l’incubo non è finito. Dalla fine di settembre, a stadi completati, l’autorità dei lavori pubblici di Doha (Ashghal) ha vietato a migliaia di edili di cercarsi un altro lavoro. Questo significa espulsione dai confini dell’emirato retto da Tamim al- Thani. La prima conseguenza è che molti di questi lavoratori non avranno la possibilità di estinguere i debiti da re-

Foto: Hassan Ammar / LaPresse

MIGRANTI SFRUTTATI, MIGLIAIA DI MORTI SUL LAVORO, COMUNITÀ LGBT PERSEGUITATA. E LA FIFA GUIDATA DALL’ITALO SVIZZERO GIANNI INFANTINO RACCOMANDA: “NIENTE POLITICA”

Gianfrancesco Turano Giornalista Lo stadio 974 di Doha, chiamato così dal numero di container riciclati utilizzati per la sua costruzione. Verrà dismesso dopo i Mondiali

cruitment fees. In italiano si chiama caporalato. Nei loro Paesi di provenienza i migrant workers hanno dovuto pagare l’equivalente di somme a tre zeri in valuta occidentale ai reclutatori che li hanno spediti a Doha e dintorni. Tutto legittimo o quasi. In fondo, sono agenzie di lavoro interinale che propongono ingaggi biennali in cambio di una fetta della magra torta. Chi non ha soldi in anticipo può prenderli a prestito con interessi che superano il 30 per cento, secondo l’indagine di Migrant-Rights.org.

Chi è arrivato nella fase iniziale dei cantieri avviati nel 2011, se non è morto e non ha riportato danni permanenti lavorando a temperature che d’estate superano facilmente i 50°, ha potuto almeno coprire le spese. Chi è stato ingaggiato dopo, anche se ha trovato migliori condizioni per la pressione esercitata da organizzazioni come Amnesty international o Human rights watch, non ha avuto il tempo di risparmiare il denaro sufficiente da un salario che, per uno specializzato, si aggira sui trecento-quattrocento dollari al mese e scende a duecento per un manovale semplice.

Ma il calcio è spensieratezza. Così il 3 novembre la Fifa guidata da Gianni Infantino, figlio di due lavoratori italiani emigrati in Svizzera, ha scritto una lettera alle nazioni partecipanti nella quale si suggerisce di mettere da parte la politica. «Focus on football» è lo slogan cofirmato dal successore di Joseph Blatter e dalla segretaria generale della Fifa Fatma Samoura, lei sì proveniente dal corpo diplomatico senegalese ma a digiuno di calcio fino alla sua nomina nel giugno 2016, a valle dell’azzeramento dei vertici scatenato dall’inchiesta degli agenti federali statunitensi contro Blatter e il suo amico-nemico Michel Platini, al tempo alla guida della federazione europea (Uefa).

Nella mail urbi et orbi Infantino si dice soddisfatto dei progressi del Qatar sia nei rapporti di lavoro, citando un report positivo dell’Ilo (International labour organization), sia nell’accoglienza dei tifosi della comunità Lgbt, gli stessi che l’8 novembre hanno protestato davanti al museo della Fifa a Zurigo.

«Per favore», scrive la Fifa, «non permettete che il calcio sia trascinato in ogni battaglia politica o ideologica esistente». L’intervento di Infantino ha scatenato polemiche di ogni genere. Squadre qualificate alla fase finale come l’Australia, la Danimarca e l’Olanda hanno puntato l’indice contro la criminalizzazione dell’omosessualità in Qatar. Tre giorni dopo la missiva di Infantino, l’Uefa ha ribadito che «i diritti umani sono universali e si applicano dovunque». Dieci federazioni europee, fra le quali Inghilterra e Germania, hanno replicato con una lettera aperta nella quale si rilancia la proposta fatta da Amnesty e Hrw di creare un fondo Fifa da 440 milioni di dollari per risarcire i lavoratori e le loro famiglie. La cifra è pari al montepremi totale del Mondiale, che prevede 42 milioni di dollari per la squadra campione, ed è quasi il triplo dei 164 milioni che l’Emirato ha versato a 37 mila lavoratori a titolo di compensazione nel 2020, poco più di 4.400 dollari a testa.

La Fifa ha fatto orecchie da mercante. Il colosso con sede a Zurigo, che raccoglie più iscritti delle Nazioni unite (211 contro 193) non intende in alcun modo pregiudi-

L’ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE FA I CONTI CON LA FRONDA DI NUMEROSE FEDERAZIONI E DELLA UEFA CHE HA COMMISSIONATO UN PROPRIO REPORT SULLA MANOVALANZA NEI CANTIERI

L’EVENTO

Il Lusail stadium. A destra Lionel Messi in azione con il Paris Saint-Germain

care il suo conto economico con oneri straordinari. Il 2022 è l’anno della grande raccolta per l’organizzazione del calcio mondiale che pianifica i suoi bilanci in periodi di quattro anni. Il 2015-2018 ha portato un incasso di 6,41 miliardi di dollari, di cui 5,41 miliardi dal solo mondiale vinto dalla Francia. Ci si poteva aspettare che il 20192022, segnato da una pandemia che ha tenuto chiusi gli stadi per mesi, segnasse un passo indietro. Ma la federazione internazionale, a differenza dei club, non conosce recessione. Il quadriennio che si chiuderà con la proclamazione dei campioni del mondo domenica 18 dicembre al Lusail Iconic Stadium progettato da Foster+Partners fa segnare una previsione di ricavi da 6,44 miliardi di dollari che sarà certamente superata. La proiezione sull’utile netto finale è di 3 miliardi di dollari per un rapporto ricavi-profitti senza paragoni con altri settori dell’industria, anche perché lo stipendio ai calciatori e gli altri costi li pagano i club, non la Fifa.

E sono stati proprio i presidenti dei grandi club a dissuadere Infantino, che si concede un modesto emolumento da 3 milioni di franchi svizzeri l’anno, dal mettere in atto il suo progetto di Coppa del mondo biennale.

Il fronte del boicottaggio verso il mondiale sul Golfo si allarga di giorno in giorno. Persino Sepp Blatter, ringalluzzito dalla recente assoluzione decretata dal tribuI PROTAGONISTI

Il presidente della Fifa Gianni Infantino. In alto, l’emiro del Qatar, Tamim al-Thani nale di Bellinzona sul Fifagate del 2015, si è coperto il capo di cenere dicendo che il Qatar, dichiarato vincitore dal medesimo Blatter nel dicembre 2010, è stato una cattiva scelta. L’ex ras della Fifa ha accusato Platini e l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy di avere rovesciato l’esito della votazione, che vedeva favoriti gli Usa, in cambio di un ordine di aerei da guerra made in France da 14,6 miliardi di dollari dopo una cena a tre all’Eliseo con l’emiro. Pochi mesi dopo Qsi, una delle holding di investimento qatariote, comprava il Psg e trasformava un club in decadenza in corazzata del football sotto la guida di Nasser al Khelaifi, ex tennista che ha avuto la fortuna di giocare in doppio con il principe Tamim.

Oltre ai nemici interni come Blatter, la Fifa soffre l’antagonismo dell’Uefa, che è la federazione regionale più potente con i suoi 55 membri fra i quali nazionali asiatiche come la Turchia, la Georgia e l’Azerbaijan. Il presidente Uefa, l’avvocato sloveno Aleksander Ceferin, ha gradualmente trasformato la sua organizzazione in partito di opposizione permanente nel parlamento del football mondiale. Nemico giurato della superlega dei grandi club, Ceferin ha costretto Infantino, accusato di essere il regista occulto dell’operazione, a smentire ogni coinvolgimento nel progetto sostenuto da Andrea Agnelli e avversato dal qatariota al Khelaifi.

Ceferin ha inoltre varato una task force per verificare le condizioni dei lavoratori nei cantieri e l’ ha affidata al coordinamento del vicepresidente italiano Michele Uva. Le conclusioni di visite e ispezioni sono state in linea con le valutazioni positive dell’Ilo. Ma è difficile ispezionare quello che non c’è più.

L’espulsione dal Paese di decine di migliaia di lavoratori sembra dovuta a un misto di ragioni. C’è la chiusura definitiva di molti cantieri. Ma c’è anche il sospetto che si siano voluti togliere dalla circolazione i veri artefici del miracolo di Qatar 22 perché, in fin dei conti, i poveri non sono un bel vedere. Il rischio è trovarsi con stadi meravigliosi, coperti, rinfrescati e mezzi vuoti. È vero che Infantino è dato per favorito alle elezioni Fifa programmate per l’inizio del 2023. Ma un flop al mondiale potrebbe cambiare le carte in tavola.

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