Blu notte, Luisa Martucci

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14 all’oscuro di tutto, stavo andando a interrogare uno dei principali sospetti. Marcello, però, era un amico, un buon amico, a suo tempo, anche se non ci frequentavamo da anni, perciò era normale andare da lui a mente sgombra e sentire quel che aveva da dire in proposito. Misi la prima e proseguii. Abitava in un loft, al primo piano di un vecchio capannone industriale trasformato, all’angolo di corso Giulio Cesare. L’edificio, sebbene ristrutturato di recente, già presentava segni di decadenza: nell’ingresso l’intonaco delle pareti si stava scrostando, la passatoia era coperta di macchie e nell’aria ristagnava la puzza di cavolo. Davanti alle buche delle lettere c’era un grosso vaso di terraglia turchese contenente il tronco mozzato di una pianta, circondato da un tappeto di volantini pubblicitari lasciati cadere dagli inquilini negligenti. Al primo piano, fissato alla porta con una puntina da disegno, c’era il biglietto da visita di Marcello Giussardi, scultore. Premetti il campanello. «Non ci posso credere», disse Marcello quando mi vide. L’ampio monolocale, con il soffitto concavo attraversato da sbarre di ferro, retaggio dell’antico capannone, era impregnato dall’olezzo, accentuato dal calore, di prodotti chimici e altre sostanze indefinibili. Marcello era ingrassato e invecchiato: i capelli si diradavano alle tempie, le guance floride cascavano come quelle di un boxer e la pancetta protrudeva; di certo non l’avrei riconosciuto incontrandolo per strada. Al tavolo di legno scuro, forse comprato dal rigattiere o forse un’eredità di famiglia, era seduta una donna bionda e graziosa con un neonato in braccio. Sul resto del mobilio e sul pavimento era disseminata


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