L'incubo di Pachelbel, Cristina Chinaglia

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CRISTINACHINAGLIA L’INCUBODI PACHELBEL

ZeroUnoUndici Edizioni

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L’INCUBODIPACHELBELL

Copyright©2023ZerounoundiciEdizioni

ISBN:978-88-9370-612-4

Copertina: Immagine Shutterstock.com

PrimaedizioneGiugno2023

ZeroUnoUndiciEdizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it

«Procedonoglistudisulmanoscrittorinvenutoil mesescorso,» continuò la voce quasi meccanica dell’annunciatrice del telegiornale locale. «Gli esperti si dichiarano sempre più propensi a confermarne l’autenticità, attribuendolo proprio a Pachelbel. Il manoscritto,» riprese dopo una pausa di pochi istanti, «è stato rinvenuto per caso da un contadino, Joseph Meyer,mentreriordinavaicimelidifamiglia».

Sullo schermo si passò dallo studio televisivo a uno sfondo campagnolo. In primo piano, un signore sulla mezza età, con un cappellaccio di paglia in testa e un grembiule blu addosso, che sorrideva come in una fotografia. Improvvisamente, l’immaginepresevitael’uomocominciòaparlare. «Ho trovato il manoscritto mentre sistemavo la soffitta,» dichiarò, in un italiano sporcato da un forte accento tedesco. «Ho aperto un baule, che appartiene alla mia famiglia da generazioni, e l’ho trovato, accompagnato da un biglietto firmato da un mio antenato, che riportava anche la data: gennaio 1706. Così ho subito contatto il museo della musica, pensandochepotessetrattarsidiqualcosadivalorestorico».

L’intervistafubrutalmentetagliata,propriomentreilcontadino riprendeva fiato per continuare, e la parola tornò alla giornalista.

«È proprio al museo della musica, annesso al conservatorio e inaugurato da meno di un anno, che il manoscritto è attualmentestudiatoeconservato».

PRELUDIO MODERATO

E,mentreparlava,lasuaimmaginefudinuovosostituitadaun movimento al rallentatore di una camera che inquadrava un vecchio palazzo dall’aria un po’ cadente ma ancora fiera. La facciata non era ancora tornata agli antichi fasti, nonostante i lavoridiristrutturazionein corsod’opera,elatorrecampanaria che la affiancava sembrava una candela triste e sformata. Ma, nonostante tutto, quell’edificio trasudava energia: quello era il conservatorio,iltempiodellamusica. All’improvviso, il ritmodella ripresa cambiò drasticamente: un movimento rapido e deciso portò la camera ad attraversare il portone dell’ingresso principale, dall’aria abbastanza discreta, perpoifiondarsilungouncorridoioscuro,finoaun’altraporta, questavoltainstilepiùmoderno.

Con una transizione secca, l’immagine mutò di nuovo, mostrando un altro signore quasi sulla sessantina, con pochi capelli scoloriti sulla testa e un sorriso un po’ ebete. Al contrario del contadino di poco prima, quest’ospite era vestito elegante, con una giacca scura impeccabilmente stirata e una cravatta rossa che sembrava voler portare una ventata di allegrianell’ambienteasetticocheglifacevadasfondo. «Stiamo lavorando indefessi,» iniziò a dire, in tono serio, mentre sullo schermo compariva una scritta che lo qualificava a tutti gli effetti come esperto. “Markus Fischer,” riportava la didascalia in sovraimpressione, “direttore del Museo della Musica”. «Abbiamo molti elementi che sembrano confermarci l’autenticità del manoscritto,» continuò l’uomo, di fatto ribadendo quanto la presentatrice del telegiornale già aveva dichiarato. «Dobbiamo ancora completare le ultime perizie, confrontando questo con altri lavori di Pachelbel, per assicurarci che non si tratti di un qualche bravo imitatore. Ci sonobuonepossibilitàdiaveretalirisultatiagiorni».

Di nuovo, il video venne tranciato di netto, proprio nel momento in cui l’espressione dell’intervistato era cambiata, quasi si stesse preparando a una precisazione crucciale. La

linea tornò allo studio televisivo, con la giornalista che, sfoggiando un sorriso professionale, si accingeva a cambiare completamenteargomento.

«Passiamooraallosport,»declamòinfatti. RayspenselaTV.Lasciòcaderesgraziatamenteiltelecomando sul cuscino accanto a sé e si stiracchiò, senza però alzarsi dal divano. Spese ancoraqualche istante a fissare lo schermo nero, rimuginandotrasésuquantoappenasentito. Poi alzò lo sguardo verso l’orologio al centro della mensola proprio sopra lo schermo della televisione, decifrando con pigrizia la posizione delle lancette. Sbuffò seccato e con un certodisappunto,notandocheeranoquasileseidisera. Borbottando sommessamente qualche parola, Ray si mosse finalmente dal divano per avvicinarsi alle vetrate sulla sinistra. Dalla posizione sopraelevata della casa si poteva normalmente godere di una vista mozzafiato sull’intera città, che diventava interessantesoprattuttoquandoc’eralaneve.Quelgiorno,però, il cielo era stato bigio sin dal mattino e una nebbiolina fastidiosaavevastesoilsuomantoopacosututtoilpaesaggio. Ripensò ancora rapidamente a quello che aveva sentito poco innanzi. Tutto il mondo della musica, ma non solo, era in trepidazione per quel ritrovamento. Lui, in quanto professionista, era ancora più curioso del cittadino medio, che considerava quella notizia più o meno alla stessa stregua di tuttelealtrechetrasmettevanoimedia.

In una delle precedenti edizioni del telegiornale, aveva sentito che il manoscritto riportava una composizione originale proprio per organo. Per un organista del suo calibro, era una notizia eccezionale, e i suoi occhi si erano illuminati nell’ascoltarla.

Da quel momento in poi, aveva passato buona parte del suo tempo libero a fantasticare su come sarebbe stato avere tra le mani quella musica nuova, poterla ammirare, studiare e,

soprattutto,suonare.Checolposarebbestato,sefosseriuscitoa essereilprimomusicistaaeseguirequelbrano!

Naturalmente, tutto quello era stato solo un pensiero astratto nella sua testa, qualcosa di definitivamente irrealizzabile. Eppure,quel pomeriggio, seguendo il telegiornale, aveva avuto un’illuminazione. Quel breve spezzone di video sul museo della musica gli aveva fatto ricordare una cosa importante, che avrebbe potuto tornare a suo vantaggio e permettergli – forse –dimettereinattoilsuoambiziosointento.

Nonostantespendesselamaggiorpartedelsuotempoincittàal conservatorio, a preparare i brani da portare in concerto, non gli era mai venuto in mente di passare dall’adiacente museo.

Così, solo in quel momento, guardando l’intervista al direttore, aveva connesso le informazioni in suo possesso: lui, quel direttore,loconoscevabene!

Quando, ancora studente, Ray era arrivato in città per un Erasmus, si era ritrovato proprio Markus Fischer come insegnante di storia della musica. Non era certo una materia che aveva apprezzato poi molto, soprattutto considerato che Markus aveva un modo di parlare troppo elaborato e pesante per uno straniero che aveva appena imparato a dire “buongiorno”.

Dopo il diploma, Ray aveva mantenuto poco i contatti, sia con gliexcompagnicheconimaestri.Ma,perqualchemotivo,con Markus si incontrava spesso. Avevano entrambi l’abitudine di frequentare una certa birreria nel centro storico, così con il tempoillororapportoeraevolutoinunabellaamicizia.

E adesso, dopo chissà quanti incarichi all’università, al conservatorio o in qualche archivio, Markus era finito al posto che chiunque come lui aveva sempre sognato: direttore di un museodedicatoallamusica.

Un posto che in quell’occasione avrebbe sicuramente fatto comodo all’ambizione di Ray. Essere ritenuto un bravo organista era certo una grande soddisfazione, ma lui era

conscio di avere le capacità per diventare più che bravo. In qualche momento, mosso dall’ottimismo, aveva addirittura pensatochesarebbearrivatoaessereilmigliorealmondo.Non per sete di fama o vana ricerca della gloria, bensì per pura soddisfazione personale. In fondo, amava ripetersi per giustificare un po’ questa sua occasionale mania di grandezza, ciò che fa di un grande musicista un grande professionista è propriol’ambizione,ildesideriodimigliorarsicontinuamente. Questa volta, forse spinto più dalla vanità che dalla sana ambizione, decise di mettere in atto la sua idea: in un modo o nell’altro, al suo prossimo concerto avrebbe eseguito quel brano!

Deciso a raggiungere il suo scopo, afferrò il telefono dal tavolino accanto al divano e compose il numero privato di Markus. Subito, impostò il vivavoce, per poter conversare lasciandoiltelefonoalsuopostosultavolino.

Dopoappenaunpaiodisquilli,qualcunorispose.

«Markus Fischer all’apparecchio,» dichiarò una voce, resa vagamente metallica e meccanica dal telefono, ma comunque identificabilecomequelladeldirettore.

«Markus,» iniziò Ray, con un saluto di preambolo, sprecando unodeisuoisorrisida captatiobenevolentiae,nonostanteilsuo interlocutore non potesse vederlo. «Quanto tempo, che non ci sisentiva».

«Da martedì scorso,» precisò l’altro, un po’ seccamente. «Dall’ultimavoltacioèchesiamoandatiabereinsieme».

«Eh, hai ragione. Mi sembra passato un secolo. È che sai, sto lavorando cosìintensamenteperpreparareil prossimoconcerto chehopersolacognizionedeltempo…Tuciverrai,vero?»

«Sì, certo,» confermò Markus. «Io vado a qualunque concerto si tenga qui in città. Sai, di solito mi chiedono di fare il discorsointroduttivo».

«Capisco,» lo interruppe Ray, aggrottando la fronte con finta aria comprensiva e annuendo. «Eh già, un uomo nella tua posizione: direttore del museo della musica… Ti ho visto al telegiornale,sai?Proprioqualcheminutofa». Dall’altra parte ci fu silenzio. Probabilmente, Markus non sapeva cosa rispondere. Non era il tipo che amava vantarsi, così quando riceveva un complimento – più o meno esplicito che fosse – preferiva tacere. Di solito sorrideva leggermente, quasi a titolo di ringraziamento, ma, anche se in quel momento lo avesse fatto, la telefonata non permetteva di saperlo con certezza.

«Sì,»aggiunse Ray, pensando così di toglieredall’imbarazzo il suo amico. «Sai, parlavano di quel nuovo Pachelbel. Non credevochedirigessitularicerca».

«Be’, insomma,»farfugliòMarkus, non pienamenteasuo agio. «Era mio dovere prendermi l’incarico. In quanto direttore del museo, capisci? Non è che voglio atteggiarmi a esperto, figuriamoci: io mi occupo di raccontare le vicende, più che di studiare i reperti. Anche se devo dire che avere qui quel manoscrittoèfantastico!»

A questo punto del discorso, Markus era più sciolto. Aveva accantonato l’impiccio e si era lasciato andare, sciorinando tuttelefrasicheripetevapiùomenoognivoltachearrivavaun nuovorepertoalmuseo.Comealsolito,purutilizzandosempre le stesse, precise parole, ci metteva un tale entusiasmo da risultare coinvolgente anche per chi non era interessato e qualunque pezzo della collezione ospitata al museo era per lui quasi come una reliquia. Se gli avessero presentato anche solo una scheggia del clavicembalo di Bach, pur essendo un mozartiano convinto, sarebbe rimasto ore a fissarla estasiato, quasiinvenerazione.

«Sarei proprio curioso di vederlo,»buttò lì Ray, pensando che, primadiarrivarealsodo,fossebenetastareunpo’ilterreno.

«Sono ottimista, in proposito,» replicò subito l’altro, alimentando falsamente le speranze di Ray. «Se tutto va bene, potremmoesporloperl’annonuovo».

«Oh, ma manca quasi un mese,» Ray simulò rammarico, ma nonsenzaunfondodiverità.Unmesesarebbestatotroppo,dal momento che il suo concerto si teneva dopo una decina di giorni.Ma,anchevolendoaccantonarequestaideadelconcerto, un mese significava rischiarechealtri musicisti formulassero il suo stesso pensiero o magari venissero assoldati apposta dal team di Markus per eseguire la composizione. Il tutto, dal punto di vista di Ray, corrispondeva a perdere un’occasione unica e irripetibile, che lo avrebbe consacrato nella rosa dei musicisti più famosi al mondo. «Non potresti farmi dare una sbirciatina? Una piccola anteprima?» attaccò poi, arrivando finalmentealdunque.

«Ma scherzi?» Markus quasi gridò, sconcertato. «Sarebbe contro ogni etica professionale, oltre che contro il regolamento,» aggiunse subito, in tono più moderato, rendendosi conto da solo di avere esagerato ad alzare così la voce.

«Dai,»cercò ci incalzarlo il suo interlocutore, mordicchiandosi nervosamente il labbro di tanto in tanto e temendo di avere fatto un passo falso irrecuperabile. «Non lo dirò a nessuno, promesso.Occhiononvede,cuorenonduole».

«No, no,» ribadì l’altro, fermamente, anche se era un po’ indeciso se prendere quella proposta seriamente o come moto di spirito. «Non se ne parla. Quel manoscritto è un reperto prezioso e ancora in fase di studio, tremendamente sensibile aglisbalzidiluce,temperatura,pressione…»

Per un paio di minuti buoni, Markus si perse a descrivere minuziosamente tutte le precauzioni che prendevano i ricercatori quando lavoravano con quel nuovo reperto, dall’uso dei guanti alla temperatura da cella frigorifera, menzionando

ancheilgirodicontrollochefacevapersonalmenteogni giorno, all’oradichiusura,perassicurarsichetuttofosseinordine. Ray passò quel tempo ad ascoltare passivamente e con scarso interesse. Prese quasi subito a rosicchiarsi le unghie, un vizio che purtroppo lo accompagnava da sempre e che non era mai riuscito a togliersi. Mentre il suo interlocutore si avviava verso la fine del suo monologo, Ray cercò di osservare la sua immagine, parzialmente riflessa nella vetrata che lo separava dall’esterno. A fatica si riconobbe in quel riflesso incompleto, che restituiva solo uno schizzo della sua figura. Si distinguevano abbastanza gli occhi, scuri e sottili, vagamente orientali,ma,nelvetro,ilvisochelicontenevaerainesistente. Trovando la cosa inquietante, Ray si voltò di scatto verso il telefono, che, al suo posto sul tavolino, continuava a sproloquiare. Si passò annoiato una mano tra i capelli, scompigliandoli volutamente, di modo che tutti i ciuffi, normalmente tirati indietro, gli ricadessero sugli occhi. Soffiò un paio di volte per smuovere quella frangia improvvisata e caotica, ma alla fine, stufo anche di quello, mosse di nuovo la manoperrimettereicapelliapostocomeprima. Si lasciòcaderepesantementesuldivano,facendosobbalzareil telecomandodellaTV,eunpaiodiciuffitornaronofuoriposto, ma nulla che potesse essere davvero fastidioso, quindi li lasciò stare.Aquelpunto,Markuserafinalmentearrivatoallafinedel suo discorso, ribadendo seccamente l’importanza di proteggere quei manufatti inestimabili da qualunque agente potesse danneggiarli.

«Non te la prendere, Markus,» cercò allora di rabbonirlo Ray, improvvisandounabugiacheriteneva“afindibene”. «Volevo solo essere divertente, non intendevo offendere il tuo lavoro. So quanto tu tenga al tuo museo, sei un vero professionista e amiquellochefai».

Nell’udire quelle parole, l’altro restò interdetto. Provava un forte imbarazzo per avere frainteso quella che, nelle intenzioni

dell’amico, voleva solo essere una battuta. Tuttavia, si sentì anche profondamente sollevato. Anche se riponeva in Ray una grande stima ed era legato a lui da una sincera e ormai consolidata amicizia, sarebbe rimasto deluso se quello avesse fatto la sua richiesta seriamente. In quanto direttoredel museo, Markus Fischer erastato costretto dare unarisposta così severa e perentoria, ma come amico… Come amico avrebbe probabilmente assecondato la richiesta. In fondo, Ray era mosso dalla pura curiosità professionale – almeno, così pensava Markus, – che male ci sarebbe stato nel mostrargli da lontanounmanoscrittoalsicuronellasuateca?

«Ma certo,» il direttore tentò una poco riuscita arrampicata suglispecchi. «Avevointuito,desunto,compreso». Fece una pausa, lasciando spazio a un silenzio colmo di imbarazzo. A Ray era parso subito evidente che quell’ultima affermazione fosse una scusa raffazzonata alla meglio. Ma lo avevacapito giàprima,daltonoedallafogadiMarkus,mentre si perdeva nell’esporre le misure di sicurezza del museo. Comunque,decisedifarefintadiniente.

«Ehi, tranquillo,»lo rassicurò infine Ray, ora con il solo scopo di terminare quella conversazione disastrosa. «Be’, allora ci si vedeingiro.Ciao».

Lasciòaldirettoreappenail temposufficienteapronunciareun più formale “arrivederci”, poi interruppe il collegamento telefonico, allungandosi verso il tavolino. Si accasciò sul divano un po’ deluso, reclinando la testa tanto da poter fissare ilsoffittodrittodavantiasé,esimiseariflettere.

Senzaconcluderenulla,restòinquellaposizioneabbastanzada sentire i muscoli del collo irrigidirsi. Così, per evitare un fastidioso torcicollo, si alzò, massaggiandosi la nuca, e riprese lariflessionefissandofuoridallafinestra.

Tutto intorno si era rabbuiato rapidamente e, se non fosse stato in vena di filosofeggiare un po’ con se stesso, avrebbe

sicuramente acceso la luce. Ripensò parola per parola alla sua conversazione con Markus, riuscendo solo a concludere che telefonargli era stato un errore. Ora avrebbe dovuto cercare di porvirimedio. «Accidenti!» imprecò a voce alta, battendosi un pugno sul palmoaperto.

Aveva davvero creduto che, lisciando un po’ Markus, questi avrebbe ceduto. E invece, nonostante i suoi sforzi di apparire conciliante,avevaottenutounrifiuto.

Eppure, quell’idea era ormai diventata un chiodo fisso, che in quei pochi minuti trascorsi dall’inizio della telefonata lo stava ossessionando. Suonare quel brano al prossimo concerto, tra appenaunadecinadi giorni,eradiventataperlui unanecessità, come respirare. Bisognava trovare un modo per raggiungere lo scopo, mantenendo però intatta l’amicizia con Markus: nonostantel’orgoglio,Raynonvolevarovinarla. Improvvisamente, mentre si spremeva le meningi per trovare un’idea, un’idea bussò alla sua mente. E così, il suo cervello prese ad architettare nei più minimi dettagli un piano che, era certo, non avrebbe fallito: avrebbe raggiunto lo scopo, a ogni costo!

SONATINAINTREMOVIMENTI: ANDANTINO–AGITATO-SOSTENUTO

I.ANDANTINO

Giàl’indomani,RaysimiseallavorosulfrontePachelbel. Aveva passato come al solito tutto il giorno al conservatorio, a rifinire i brani da portare a un concerto di beneficienza di Natale, per il quale si offriva volontario ogni anno da quando abitavalì incittà.Si trattavaperlaverità diunadelleoccasioni meno formali del suo calendario, ma ci teneva comunque a partecipare ed essere impeccabile, tanto nell’abbigliamento quanto nell’esecuzione. Così, si preparava con impegno, stilando personalmente il programma, adattandolo anche a persone incolte in materia musicale, e inserendo l’immancabile Toccata e Fuga in re minore di Bach; forse l’unico pezzo che tutti,almenounavolta,avevanosentito. Non si trattava solo di perfezionare la tecnica, per lui, che comunque era già un organista di eccellente livello, bensì di arricchire ogni volta l’interpretazione. Note giuste e diteggiature ottimali erano senza dubbio importanti, ma… Quasi nessuno avrebbe notato eventuali errori qua là, mentre tutti si sarebbero accorti se la musica fosse stata piatta, senza sentimento. Non sarebbe stata musica. Per quello, proprio come un attore che prova una parte più e più volte, Ray continuava a studiare, tornando su pezzi già visti e rivisti e ambendoallaperfezione.

Tantaera la sua ambizionedi migliorare– siaper se stesso, sia per il suo pubblico – che spesso si dimenticava perfino di pranzare. Quel giorno non fece eccezione in questo senso, ma, anziché proseguire con il suo lavoro come da programma, era spesso distratto dal pensiero di quanto avrebbe dovuto fare alla finedellagiornata.

La telefonata disastrosa che aveva fatto a Markus la sera prima non era stata un completo fallimento. Non gli aveva garantito un’anteprima del manoscritto, ma gli aveva comunque dato qualche informazione utile allo scopo. In particolare, la cosa che aveva colpito Ray era il giro di controllo a fine giornata. Questo gli aveva fatto venire una mezza idea. Non era certo sicurochefunzionasse,matentarenonglicostavanulla. Il museo chiudeva alle sei per il pubblico, mentre il personale si tratteneva al massimo una mezz’ora in più. Il direttore non facevaeccezione,anzi,normalmenteeral’ultimoadandarevia. Così, alle sei e cinque, Ray aveva lasciato l’aula con l’organo incuiavevapassatolagiornataederaentratonelmuseo. Per i più, l’unico accesso al museo della musica era il portone in legno che veniva sempre mostrato in televisione, che in realtà era l’antico ingresso al conservatorio. Tuttavia, per gli addetti ai lavori c’era anche un’altra via. Il museo era infatti annesso al conservatorio e, seppure in locali separati, entrambi eranoospitatinellostessoedificio,unexconventomedievale. I collegamenti interni tra i due erano quindi presenti e perlopiù agibili, alcuni messi in evidenza da frecce o cartelli, altri più nascosti e discreti, spesso definiti scherzosamente “passaggi segreti”. Una porticina, in particolare, che Ray aveva scoperto solo da poche settimane, dava direttamente nel corridoio che portava allo studio di Markus. Non era mai entrato là, ma aveva sentito dire in giro che lo stesso direttore del conservatorio se ne serviva per andare a trovare la sua contropartemuseale.

Ray aveva deciso di provare. Era sceso al pian terreno con le solite scale, ma, anziché infilare una delle uscite, si era addentrato nella struttura, seguendo un corridoio interno stretto epocoilluminato.Comeprevisto,infondotrovòlaportadicui aveva sentito. Si trattava di una normalissima porta, come tutte lealtre,dipintadibianco,maormaiingrigita.

Senza nemmeno ventilare l’ipotesi che potesse essere chiusa, abbassò la maniglia e la porta si lasciò docilmente spingere, cigolando a tratti. Un lungo corridoio girava ad angolo a una decina di metri sulla destra e a poco più della metà sulla sinistra.

Per qualche istante Ray si sentì disorientato. L’ambiente era asettico, dominato dal bianco e appena sporcato da sfumature di grigio sulle piastrelle in marmo del pavimento. I colori del conservatorio, per quanto non molto originali e vari, erano più caldi.

Tutto quel bianco, invece, metteva quasi a disagio chi non era abituato, almeno in un primo momento, ma bastarono pochi istanti perché Ray si abituasse, soprattutto quando vide una persona nota. Dal fondo del corridoio, sulla destra, sbucò un uomodall’aspetto giovanile,nonostanteicapelli brizzolati,che spingeva un carrello delle pulizie e reggeva un mocio ancora gocciolante.

«Hannes,» lo salutò Ray, appena lo ebbe riconosciuto, alzando unamanoinsegnodisaluto.

L’altro, inizialmente assente, si riscosse dai suoi pensieri, smettendo anche di borbottare tra sé. Si avvicinò al nuovo arrivato, che si stava ancora richiudendo alle spalle la porta “segreta”, e si fece comparire un sorriso, un po’ tirato ma comunquesincero.

«Buonasera,» salutò a sua volta quando si fu avvicinato abbastanza, con un accento tedesco non troppo marcato. «Comemaidaiquesteparti?Nontiavevomaivistoalmuseo».

Hannes era uno dei dipendenti di una ditta di pulizie, che, dall’apertura del museo, aveva ottenuto di occuparsi delle pulizie, sia del museo che dell’annesso conservatorio. Per pura coincidenza, si dedicava al secondo piano del conservatorio, che ospitava diverse aule con un organo, proprio quando Ray solitamente terminava il suo studio quotidiano. Così, i due, pur limitandosi ai saluti e a qualche commento su questo o quel fattodicronaca,siincontravanospesso.

«Infatti,»confermòRay.«Èlaprimavolta.CercavoMarkus».

«Oh, sua maestà,» l’altro alzò gli occhi al cielo. Fischer, per quanto potesse essere un gran esperto, non gli era mai andato troppoagenio,unpo’perilsuomododifare,unpo’perlesue dichiarate idee politiche. Tuttavia, Hannes sapeva della profonda amicizia che intercorreva tra Ray e il direttore, così aveva preso a riferirsi a quest’ultimo con il nomignolo quasi affettuoso di “sua maestà”, indicando il ruolo che, di fatto, avevaMarkusnelmuseo.

«Lui c’è?» domandò serio Ray, dopo essersi concesso un sorrisodivertito.

«E quando mai non c’è!» replicò Hannes, un filo esasperato, indicando dietro di sé «Sono appena passato dal suo ufficio, per fare il mio lavoro, ma lui era ancora lì. E, per qualche motivo,seinunastanzac’èluinoncipossostareio».

«Perbacco,» esclamò l’organista, che, pur avendo intuito da tempol’ostilitàtraHanneseMarkus, avevasempreprovveduto anondarloaintendere.«Videtestatecosìtanto?»

«Ma no, cosa pensi,» spiegò sommariamente l’altro, nascondendo l’imbarazzo dietro un’espressione forzatamente ironica. «Il problema è che al signor Fischer non piace che “si mettano in disordine le sue cose”, come dice lui. Ma io, per pulire, ho bisogno di spostare le sedie o i fermacarte, non ho micalabacchettamagica!»

«Ah, certo,» considerò Ray, inarcando un sopracciglio, con il tono di chi vuole concludere al più presto una conversazione.

«Sarai contento, allora, sto andando a invitarlo fuori a bere un aperitivo».

«Ecco, bravo!» esclamò Hannes, forse con eccessivo slancio «Portatelo via, così posso pulire anche il suo ufficio e andarmenefinalmenteacasa».

Ray ridacchiò, perlopiù per cortesia, ma comunque trovò quasi divertente quell’affermazione, abbastanzada chiedersi se il suo interlocutoreavessevolutofareunabattuta.

«Be’, arrivederci, allora,» concluse infine, accantonando ogni altropensiero.

«Ci vediamo,» salutò l’altro a sua volta, alzando leggermente la mano con il mocio gocciolante, tenendo per sé l’ennesimo pensiero che aveva appena formulato riguardo il terminare finalmentelasuagiornatalavorativa.

Dopo quel congedo un po’ frettoloso e distaccato, Ray continuò per la sua strada, percorrendo il corridoio fino in fondo e svoltando poi a sinistra, seguendo cioè l’unica via possibile. Lì, incassate tra due pareti distanti non più di un metro e mezzo, si trovavano ben tre porte, due a destra e sinistra rispettivamente e una centrale. Nonostante quel luogo gli fosse completamente sconosciuto, si diresse senza indugio versolaportacentrale, avendoletto latarghettacheriportavail nomedelsuoamico.

Come vuole l’educazione, bussò un paio di volte con discrezione, tuttavia aprì la porta ed entrò senza attendere risposta. L’interno dell’ufficio, seppure apparentemente accogliente a causa delle dimensioni ridotte, non era molto diverso dall’esterno: interamente bianco, fatta eccezione per il mobilio,sobrioeilluminatodaunafiladineon cheirradiavano la loro luce fredda dal soffitto. In alto, dritto davanti alla porta, si trovava anche una finestrella quadrata, la quale però era chiusaeconlepersianeabbassate.

«Hannes, ti ho già detto di ripassare più tardi,» borbottò secca lavocediMarkus,intonodirimprovero. Il direttore, seduto dietro a una massiccia scrivania in legno scuro, teneva gli occhi abbassati su una carta che stava esaminando, ma era evidente che non aveva intenzione di trattenersiancoraalungo.Infatti,lasuaborsa,unacartellettain cuoio visibilmente consumata, era aperta sul tavolo e i documenti rimasti fuori si riducevano a una decina di fogli pinzati insieme, quelli che Markus stava leggendo con attenzione.

«Buonasera, grande capo,» salutò scherzosamente Ray, con vocesquillante,appostaperrichiamaresudisél’attenzione. L’altrosollevòimprovvisamentelo sguardodallesuescartoffie, con un’espressione a metà tra l’imbarazzato per l’equivoco e il sorpreso. Senza più badare ai documenti, Markus si alzò, fissando il nuovo arrivato senza riuscire a formulare una frase comprensibile.

«Ray, non ti aspettavo,»si limitò a risponderepoi, optando per una frase forse troppo banale, ma che di sicuro non avrebbe datoluogoadaltriequivoci.

«Volevo farti unasorpresa,»spiegòsommariamentel’organista, di fatto senza rivelare nulla delle sue vere intenzioni. «Dovrei ancheparlartidiunacosa».

«Sì, io…» bofonchiò Markus, ancora a disagio per avere scambiato un gradito visitatore per quell’irritante uomo delle pulizie che gli scombinava sempre tutto l’ufficio «Insomma,» si riprese dopo un attimo di tentennamento, «io stavo per andarevia».

«Perfetto,allora,»constatòRay.«Ancheiodevoavviarmi». «Be’,» precisò il direttore, alzandosi per infilare nella sua cartellettaanchegli ultimi fogli. «Perlaveritàdevoancorafare il mio giro di controllo nel museo. Sai, io controllo ogni sera tuttelesaleeleareediricerca,primadiandareacasa».

«Non c’è problema, ti posso accompagnare. Così, intanto, mi puoi spiegare una cosa,» fece Ray, accomodante, mentre il suo amico si infilava il cappotto e una banale coppola grigio scuro.

«Sai,arrivandohonotatoicartelloniemichiedevose…»

«Cartelloni?» lo interruppe l’altro, confuso, riponendo nel taschino interno del cappotto gli occhiali da lettura «Di cosa staiparlando?»

«Mi riferisco al manifesto all’ingresso,» fu la spiegazione. «Quellocheparladiquelprogettoperlescuole».

«Ahh,certo,»annuìMarkus,facendomentelocalealmanifesto di cui parlava il suo interlocutore. «Certo,» continuò, avvicinandosi alla porta. «Ti riferisci al progetto in collaborazione con gli enti provinciale e regionale per l’istruzione, quello per avvicinare i ragazzi al mondo della musica».

«Esatto,» confermò Ray, indietreggiando nel corridoio mentre l’altrospegnevalaluceechiudevaachiavelaportadell’ufficio. «Ho dato una letta e… Be’, mi sembra un’iniziativa interessante».

«Già, già,» borbottò sommessamente Markus, facendo sparire lechiaviinunatascadelcappotto,perlaveritàpocoentusiasta. Lui, che non aveva mai potuto soffrire i bambini e la loro vivacità, era stato sfavorevole a quel progetto sin dall’inizio. Certo, gran parte della sua avversione era dovuta proprio alla sua incompatibilità con qualunque umano di età inferiore ai trent’anni, tuttavia aveva anche altre ragioni. Se da un lato educare i giovani alla musica era una specie di dovere morale, dall’altro era anche un azzardo. Gli capitava tutti i giorni, venendo al lavoro, di incontrare ragazzotti con le cuffiette o, peggio, gli stereo a palla. In entrambi i casi, i rumori che le nuove generazioni si permettevano di definire “musica” erano ben udibili anche a metri di distanza e finivano ogni volta per lasciarlo frastornato. E anche molto amareggiato. Sì, perché ai

tempisuoi,nonostantelamusicaleggeraspopolasse,lepersone normali, accendendo la radio, potevano godere anche di qualche ascolto un po’ più impegnato; e comunque, anche nel caso di pop o rock’n’roll, si trattava pur sempre di celebrità musicalicomeiBeatles, famosieapprezzatiancoraoggi. Altro chequelrapotrapocomediavololochiamavano!

«Allora, mi puoi dire qualcosa?» la voce di Ray, con una ben mascherata nota di impazienza, lo richiamò dalle sue invettive intellettuali.

«Sì, be’…» tergiversò Markus. Si schiarì la voce prima di continuare, con un discorso più connesso, pensando che, per spiegare il progetto nelle varie interviste programmate per la settimana successiva, avrebbe dovuto mostrarsi convinto e compiacente. «Come già hai letto, si tratta di un’iniziativa rivolta agli alunni delle scuole di ogni ordine e grado. A seconda dell’età, sono previsti dei percorsi interattivi, in cui i bambini e i ragazzi potranno venire in contatto con diversi aspetti della musica. Per esempio, uno dei referenti incaricati, un esperto di pedagogia, ci ha fatto allestire una saletta per la pittura, in modo che i bambini più piccoli possano “sbizzarrirsi acreareispiratidallamusica”,cosìdicelui».

«E tu cosa dici, invece?» intervenne l’altro, intuendo che a quella frase mancasse ancora un “ma”, che sarebbe stato omessoneldiscorsoufficiale.

«Io temo per l’incolumità delle mie pareti appena ridipinte,» sospirò il direttore, con fare liberatorio. «Credi davvero che dare dei fogli a dei bambini di tre anni armati di tempere e pennarellibastiaimpedirglidiimbrattarelepareti?»

«Porta pazienza, Markus,» cercò di sdrammatizzare Ray, nascondendosi con la mano un sorrisetto divertito. «Pensa che lariverniciaturasaràaspesedellaprovincia».

«Il miopoveromuseo,»piagnucolòancoraMarkus,alzandogli occhialcieloeunendolemani,comeperpregare.

Perunattimo,traiduecifusilenzio.Stavanoattraversandogià una delle ultime sale del museo, quella dedicata interamente a Bach. Nonostante ci fossero centinaia di cose da dire sul celebre compositore, l’esposizione si limitava a un clavicembalo, gentilmente offerto dal vicino conservatorio, e a una decina di cartelloni, che riportavano informazioni sommariesullavitaeleoperedell’eccelso.

L’occhio di Ray cadde sullo schema di un organo, pieno di frecce colorate e scritte grandi, che sembravano messe lì apposta per un bambino. Oltre a quello e allo strumento, al sicuro dietro dei cordoni rossicci, non c’era niente altro di interessante. Provò ad autoconvincersi che quella sala fosse ancorainallestimento,mainfondosapevachenoneracosì. Il museo, nonostante la propaganda provinciale lo dipingesse come il fulcro della cultura musicale dell’intera regione, non eramolto frequentato. Igiovani non sembravano nutriretroppo interesse per una cosa “noiosa” come la musica classica e la sua storia, e gli insegnanti dovevano esserne ancora meno attratti, preferendo spendere le loro ore scolastiche in progetti anche poco utili, come corsi annuali sugli origami o lezioni di ballo. Possibile che gli origami avessero più appeal della nobileartedellaMusica?!

D’altro canto, anche il pubblico adulto non aveva risposto come ci si era aspettati. L’orario di apertura del museo, un orario lavorativo standard, certo non contribuiva, e anche l’apertura nel fine settimana non era di molto aiuto. Sabato, giorno di mercato, era più facile che le persone facessero un saltodalfruttivendolo odalvenditorediscarpe,cheavevanola bancarella proprio lì davanti, piuttosto che oltrepassarli per entrare nel museo. Quanto alla domenica, i più la riservavano alle gite fuori porta o alle riunioni di famiglia e ben pochi avevano tempoevoglia perimmergersi nelmondodiMozarto diBeethoven.

Markus accelerò, uscendo dalla sala dedicata a Bach senza averlanemmenodegnatadiunosguardo.Lasalasuccessivaera quella di Mozart, l’unica nel museo che sembrasse stata allestita con impegno, ed era stata curata personalmente dal direttore. Lì si trovavano molte più spiegazioni alle pareti ed erano esposti due strumenti. Il primo era un fortepiano, che a una prima occhiata Ray identificò erroneamente come un altro clavicembalo, tratto in inganno dal colore dei tasti. Il secondo era un violino, uno strumento più piccolo dei violini moderni, con un archetto molto più corto e dalla forma più bombata del normale. Mentre il fortepiano era protetto dai soliti cordoni rossi, il violino era adagiato all’interno di una teca trasparente, sotto la quale una targhetta spiegava che lo strumento era stato costruito da un liutaio tedesco pressoché sconosciuto nel 1756, propriol’annodinascitadiMozart. Primadellaportacheconducevainun’altrastanza,piùstrettae lunga, si trovava anche un monitor integrato nella parete, che riproduceva in sequenza un breve video sul passaggio da clavicembaloapianoforteeunosull’invenzionedelclarinetto. «Per caso il progetto prevede anche incontri con musicisti?» domandò Ray, quando ormai anche la sala Mozart fu alle loro spalle. Non che avesse davvero interesse per quell’informazione,maavevanotato chela stanzaincui erano, che era piena di sedie disposte in file davanti a un telo usato per proiettare immagini e filmati, terminava con una porta che recitava “vietato l’accesso ai non addetti”. Senza troppo sforzo di immaginazione, considerato che Markus si stava dirigendo proprio lì, concluse che quella porta dovesse dare accesso alla parte dei laboratori, quelli in cui venivano studiati i reperti –pochi, in verità – che arrivavano al museo. Meglio dunque distrarre il direttore, si disse Ray, prima che decidesse di fermarsi–odifermarelui.

«Sì, be’…» bofonchiò l’altro, di nuovo un po’ a disagio «Se mairiusciremo atrovarequalchepazzochevogliaaffrontarele ordebarbarichedeiragazzini…»

«Se vuoi, io potrei farlo,» si propose l’organista, per una volta con naturalezza. «Mi piacciono i bambini enon possono essere cosìterribilicomedicitu».

«No, anche peggio,» declamò Markus, con il tono di un attore tragico.

«Guarda che dico sul serio,» ribadì l’altro, studiando attentamente le reazioni del suo interlocutore mentre spalancava la porta e lo precedeva giù per una stretta rampa di scale. «Parlo volentieri di musica agli alunni delle scuole. Compatibilmente con i miei impegni, ti do la mia disponibilità a incontrare delle classi. Magari l’organo li sorprenderà: quanti dilorocredicheneabbianomaivistouno?»

«Non sai in che guaio ti stai cacciando,» lo ammonì Fischer, con l’aria di chi la sa lunga, ma non volle aggiungere altro. Fece un istante di pausa, fermandosi davanti a una porta dall’aria pesante, a tenuta stagna e con un oblò per guardare all’interno, che a Ray ricordò quella di una cella frigorifera. «Amico mio,» riprese Markus, completamente serio, appoggiando una mano sulla superficie liscia della porta, quasi come per accarezzarla, «questo è il sancta sanctorum del mio museo».

Senza attendere risposta, il direttore infilò una chiave presa dalla tascadel cappotto nella toppadella porta. Feceun doppio giro e la serratura scattò. Tirò la porta verso l’esterno e mosse un passo dentro, spostando un interruttore subito sulla destra peraccenderelaluce.

La scena che gli si parò davanti convertì il suo fiero sorriso in unasmorfiadisconcerto. Laprimacosachegli saltòall’occhio furono le sedie in disordine, un paio rovesciate, altrettante gettate malamente contro il muro. Qualcosa non andava: i suoi ricercatori sapevano della sua mania per l’ordine, non avrebbero mai lasciato le sedie fuori posto, né le carte sparse pertuttoiltavolo.

Il suo sguardo si spostò istintivamente sulla teca che proteggeva il manoscritto, nell’angolo in fondo a sinistra: sembrava che il lucchetto fosse stato rotto, o almeno danneggiato, ma il reperto era al suo posto. L’attenzione di Markus andò poi al quadro dei controlli ambientali: strabuzzò gliocchi,notandocheanchelìqualcunoavevamessolemani. Dimenticandosi del suo accompagnatore, Fischer si fiondò in fondo alla stanza, per sistemare le condizioni di temperatura e umidità.

«Ma cosa caspita è successo?!» esclamò, con fare isterico, pigiando pulsanti e spostando leve con la foga di un pazzo «Com’è potuto succedere, chi ha osato,» continuava a ripetere, inpredaallafollia.

Ray, dal canto suo, era rimasto per qualche secondo sulla soglia,acontemplarelascena.Aggrottòlafronte,sinceramente colpito da quella confusione: pur senza capire cosa, fu chiaro anche a lui che lì era successo qualcosa. Impotente di fronte

II.AGITATO

alla situazione, il suo sguardo fu attirato dalla teca con il manoscritto. Ipnotizzato da quel sottile fascicolo di fogli antichi e dai bordi sfrangiati, si avvicinò con cautela, mentre il suo amico finiva di sistemare i parametri ambientali prima di passareancheal riordino dellecarte edelle sedie. Aquelpunto, avrebbedovuto aspettarecheil direttorefinisselasistemazione e riacquistasse lucidità per domandargli di sfogliare il manoscritto. Invece, nemmeno lui avrebbe saputo dire come, mosso da un’insanabrama di conoscenza,scostò con facilità la teca trasparente, l’invisibile muro che lo separava dalla ritrovataoperadi Pachelbele,con unabuonadosedi reverenza, allungò una mano sul fascicolo ingiallito. Con una delicatezza estrema, tremando per l’emozione e tenendo a freno un’inquieta avidità, afferrò e strinse le pagine, sollevandole dal piccololeggiosucuieranostateadagiate.

Una strana sensazione lo pervase, un misto tra ammirazione, soddisfazione e timore, senza che lui fosse in grado di distinguere con chiarezza tutte quelle emozioni. Non era certo il primo a prendere in mano quell’opera nuova, ma di sicuro eraunodeipochiprivilegiatiadaverlofatto,etantoglibastava. Presto, poi, sarebbe diventato il primo musicista a eseguirlo, e questo lo avrebbe consacrato nei libri di storia come uno degli organisti più celebri, affiancando il suo nome a fuoriclasse comeilgrandeBach.

Ebbe la tentazione di soffermarsi sulle prime note, piccole macchie scure che, fitte fitte, ricoprivano tutto il pentagramma, ma si trattenne: doveva concentrarsi su altro. Gli cadde anche unistantel’occhiosultitolo:unaparolatedesca,scarabocchiata in cima alla pagina, come se fosse stata aggiunta in fretta e furia, ma Ray non riuscì a decifrarne immediatamente il significato. Si costrinse quindi a liberarsi dal potere ipnotico di quelfascicolodicarta,chesentivaruvidaespessasottoledita.

Gettando una repentina occhiata a Markus, si assicurò che il suo amico fosse ancora affaccendato in altro; estrasse poi dalla tasca dei pantaloni il cellulare, già pronto sull’applicazione per fotografare documenti. Ci sarebbero voluti pochi istanti per scansionare le cinque o sei pagine che componevano il fascicolo,madinuovoRaypersealcuni secondiperstudiarelo stile e l’armonia. Così a prima vista, gli parve che ci fosse qualcosadistrano.Leprimenotesisusseguivanoconunacerta calma, costruendo una melodia lineare e orecchiabile. Poi, dopo un paio di battute, la seconda voce iniziava con le stesse note, come sefosse stato l’inizio di un canone, ma quasi subito andavainveceatessereuntappetoarmonico, chediventavavia viapiùcomplessoconanchel’introduzionedelpedale. Attraverso lo schermo del telefono, mentre fotografava le diverse pagine, poteva avere un’anteprima del pezzo. Non era un grande esperto di analisi musicale, per quanto comunque si intendessedi armonia,mapiùandavaavantiepiùgli sembrava che ci fosse qualcosa di strano. Non riusciva a identificare esattamente cosa dovesse essere quel brano: iniziava come un canone,mapoisitrasformavainunaspeciediciaccona,conun pedale ostinato e un andamento atipico. La dicitura di tempo iniziale, infatti, indicava chiaramente quattro quarti e non c’erano mai cambi di tempo. Eppure, la figurazione nella parte centrale del pezzo vedeva aggregate tre quartine per volta, come per dare l’illusione di un andamento ternario. Infine, il tutto terminava con una fuga. Dopo il corpo centrale del brano c’erano alcune battute di passaggio, in cui l’andamento rallentava progressivamente, fino a ridursi alle stesse note lunghe del pedale che all’inizio venivano invece suonate dalla mano destra.Da lì si sviluppava poi un rincorrersi di notedella stessa melodia, unite da un’armonia maestosa e potente, sempre più rapide e fitte, fino alla cadenza finale, una serie di accordi abbastanza standard che si soffermava però sulla

dominante prima della risoluzione finale, tenendo l’ascoltatore tesoeattento,quasiallamanieradiBeethoven. «Cosa fai?!» strillò Markus, all’improvviso, facendo sobbalzareRay. Fineanteprima. Continua…

Indice PRELUDIO...................................................................................5 SONATINAINTREMOVIMENTI: ANDANTINO–AGITATOSOSTENUTO..............................................................................15 STUDIETTO..............ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. INTERMEZZO...........ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. STUDIO....................ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. TANGO....................ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. DUETTO ..................ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. CONCERTOI............ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. CAPRICCIO..............ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. CONCERTOII...........ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. LAFOLLIA ..............ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. LASTRAVAGANZA..ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. FUGA.......................ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO. CADENZA................ERRORE.ILSEGNALIBRONONÈDEFINITO.

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