Libero arbitrio

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OSCURITÀ

Scendevo le scale con maniacale attenzione. Osservavo ogni scalino tentando di metterne a fuoco il bordo e tenendomi salda alla ringhiera che lasciava le mie mani impolverate di ruggine. Il buio viveva a sprazzi in quel sotterraneo in cui sarebbe risultato difficile vivere anche per una talpa. Le piante erano stranamente irte e rigogliose. Vegete come non mai, ma l’odore di acqua stagnante penetrava nelle mie narici, violando il mio stomaco con un nauseabondo senso di vomito. Ester mi precedeva. Sicura e saltellante come una bambina, raggiante di fare nuove scoperte. Si chinĂČ verso lo zerbino sfilacciato, prese la chiave e aprĂŹ la porta dalle maniglie d’ottone. Appena oltre la soglia si mise a urlare: «zia Nina, sono io, Ester. Sei in cucina?» «SĂŹ, entra.» La voce arrivava forte e distinta. Con una vigorosa cadenza meridionale. Ester mi fece segno di seguirla. Appena entrai, l’ombra mi avvolse come un mantello notturno, caldo e accogliente. Il buio era sovrano e l’odore di mobili consumati dalle tarme impregnava tutta la casa. Soffocante ma protettivo come un abbraccio consolatorio. Io annaspavo in cerca di un punto di riferimento mentre Ester apriva velocemente le ante del balcone, permettendo alla luce di violare il mistero che avvolgeva quel luogo e la sua padrona. I raggi caldi e violenti del sole, come una lama d’acciaio, colpirono l’anziana seduta su una sedia di vimini di fronte al balcone. Il suo volto era un impasto di cartapesta definito da intrecci di piccole strade create dal tempo. I suoi occhi erano perle bianche, opache lĂŹ dove un tempo la luce aveva filtrato e vissuto lasciando spazio alle immagini e alle emozioni. «Ti sistemo i capelli» disse Ester lasciando me impalata a osservare la cucina, arredata con accortezza e minuziosa particolaritĂ . C’erano centrini di macramĂš ovunque, persino sui braccioli e sullo schienale del divano.


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