Anteprima - La nuova letteratura artistica 1

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La nuova letteratura artistica 1

Dalla tarda antichità alla fine del Quattrocento

12 Teofilo e la letteratura tecnico-artistica

12.1 Teofilo e la Schedula diversarum artium

12.2 Altri scritti di letteratura tecnico-artistica

13 Il viaggio: pellegrinaggi e altri resoconti 111

13.1 Pellegrinaggi

13.2 La quarta crociata

PARTE QUARTA

Villard de Honnecourt

14.1 Il Livre de Portraiture di Villard de Honnecourt

15 Le arti nell’epoca della Scolastica

PARTE QUINTA

Scienza, arte e antiquariato in Ristoro d’Arezzo

25.3 Roma 1440-1450

26 Architetti e ingegneri del Quattrocento

26.1 Filarete

26.2 Francesco di Giorgio Martini

26.3 Scritti sull’architettura a fine secolo

APPROFONDIMENTI

27 La prospettiva dopo Alberti

27.1 Piero della Francesca

27.2 Luca Pacioli

27.3 Ancora sulla prospettiva: Leonardo

28 Arti e artisti nella seconda metà del Quattrocento

28.1 Antonio Manetti e Cristoforo Landino

28.2 La Cronaca rimata di Giovanni Santi 261

28.3 Poliziano 263

28.4 Leonardo e il «Paragone delle arti» 265

APPROFONDIMENTI

29 Descrizioni di città e resoconti sull’antico a cavallo

30 La Chiesa e le arti figurative nel Quattrocento

30.1 Un inquadramento

30.2 Giovanni Dominici, Bernardino da Siena, Antonino Pierozzi

30.3 Domenico di Giovanni da Corella

Girolamo Savonarola

Lettere e documenti d’archivio

32 La letteratura tecnico-artistica del Quattrocento

delle fonti

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PREFAZIONE

Nel 1924 Julius von Schlosser (1866-1938) pubblicava a Vienna Die Kunstliteratur. Si trattava – spiegava l’autore nella sua presentazione – di un testo che raccoglieva sue precedenti lezioni universitarie, tenute fra il 1914 e il 1920, ma che era il frutto di ricerche cominciate oltre un quarto di secolo prima. Il tono dimesso della presentazione non lasciava presagire la consapevolezza di aver scritto un capolavoro e l’autore si dichiarò sempre insoddisfatto del risultato ottenuto. L’opera venne tradotta in italiano da Filippo Rossi (in coordinamento con lo stesso Schlosser) e pubblicata nel 1935 da La Nuova Italia con il titolo La letteratura artistica. Già nel 1937, un allievo di Schlosser, Otto Kurz (1908-1975), provvide ad aggiornarla. Al 1956 risale la seconda edizione italiana; la terza fu pubblicata nel 1964; in entrambe le occasioni Otto Kurz continuò a aggiornare la sezione bibliografica dell’opera. Da allora, La letteratura artistica non è mai stata modificata, divenendo in ambito artistico, in sostanza, quello che il Rocci è stato per chi ha studiato greco: uno strumento imprescindibile. Per capirne l’importanza, basti un dato: l’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966 distrusse i magazzini de La Nuova Italia; fra i primissimi titoli a essere ristampati, ci fu, appunto, La letteratura artistica dello Schlosser (la ristampa fu eseguita nel gennaio 1967 a Bologna).

Presentando La nuova letteratura artistica dichiariamo subito che è nostra intenzione rendere omaggio al grande studioso viennese, ma non desideriamo aggiornarne l’opera. Sarebbe stato impossibile: in confronto alla sua epoca, la produzione bibliografica è esplosa e, contemporaneamente, si è frammentata in così tanti rivoli che un mero aggiornamento bibliografico sarebbe stato sia una fatica di Sisifo sia un puro esercizio di erudizione. Oltre che impossibile, sarebbe stato sbagliato. Rispetto alla definizione della disciplina data da Schlosser oltre cent’anni fa, molte cose sono cambiate, nuove consapevolezze sono state acquisite, nuovi indirizzi di ricerca sono stati perseguiti, mentre altri sono passati in secondo piano. Proviamo a spiegarci.

Secondo Schlosser, la letteratura artistica è una scienza storica che ha come oggetto le fonti della storia dell’arte. Lo studioso austriaco opera una distinzione fondamentale fra fonti primarie, che sono i manufatti artistici e come tali sono oggetto di analisi della storia dell’arte propriamente detta, e «le fonti scritte, secondarie, indirette; soprattutto quindi, nel senso storico, le testimonianze letterarie, che si riferiscono in senso teoretico all’arte, secondo il lato storico, estetico o tecnico» (p. 1). Sono escluse «le testimonianze per così dire impersonali, iscrizioni, documenti e inventari [che] riguardano altre discipline e possono quindi essere materia soltanto di un’appendice» (p. 2). La disciplina, nel suo esplicitarsi, si declina fondamentalmente in tre fasi: la ricerca e l’individuazione delle fonti (fase euristica); l’articolazione del giudizio (fase critica), in cui è fondamentale tener conto della realtà storica dei singoli periodi; e un momento chiamato “ermeneutico”, che punta alla «dimostrazione dell’intrinseco valore

storico di questo materiale, considerato con spirito filosofico» (p. 2). Quest’ultima fase è l’unica – a detta di Schlosser – che giustifichi l’esistenza della letteratura artistica come scienza. Le tesi dell’austriaco risentono della sua vicinanza e della sua ammirazione nei confronti del pensiero filosofico di Benedetto Croce, di cui tradusse molte opere in tedesco.

A noi sembra che la definizione di fonti secondarie, a oltre cent’anni di distanza, non rispecchi più gli sviluppi della storia dell’arte. Schlosser scrisse che l’unico motivo per cui la letteratura artistica era scienza stava nella sua interpretazione filosofica (di matrice idealistica), una volta portate a termine le prime due fasi, quella euristica e quella del giudizio; è innegabile che l’approccio filosofico idealista sia stato, nel frattempo, fortemente ridimensionato a vantaggio di connotazioni sociali, antropologiche, percettive: in ambito medievale, per esempio, a essere preso in considerazione è un complesso intreccio di aspetti politici, liturgici, religiosi e materici, nel tentativo di ricostruire i fenomeni percettivi dell’epoca. Riteniamo, per questo motivo, che sia opportuno svincolare la materia dallo schema classificatorio proposto dallo studioso austriaco nel 1924, adottando una definizione senz’altro più approssimativa, ma proprio per questo più elastica e inclusiva.

Per noi l’oggetto della nuova letteratura artistica è il “discorso sull’arte”, ossia «un discorso che riguarda quella produzione materiale che di tempo in tempo, per certi suoi mutevoli caratteri, è stata considerata di qualità e di fruizione intrinsecamente differenti da quelle di altri manufatti»1. È appena evidente che, in questa accezione, il ventaglio delle fonti si allarga potenzialmente all’infinito. Per restare al pieno Medioevo, i testi selezionati da Schlosser erano, in sostanza, ricettari che testimoniavano le tecniche artistiche e le cronache di ambito ecclesiastico. In questa selezione è scarso o nullo l’interesse per la “questione delle immagini” e per testi come i Libri carolini («non grande è il loro valore storicoartistico, poiché vi prevale la polemica teologica, che tocca solo di sfuggita l’attività artistica», p. 47).

A un secolo di distanza, a quei testi, come a omelie e sermoni, o ad altri di natura liturgica, è attribuita grande importanza proprio perché contribuiscono a formarsi un’idea sull’“esperienza” dell’arte vissuta in quei secoli. Pur non autonomamente “artistici” (e, quindi, in termini schlosseriani, da non tenere in considerazione), si tratta di tasselli che contribuiscono a ricostruire quale fosse il discorso sull’arte a essi contemporaneo, fondamentalmente da intendersi all’interno di scopi performativi: l’arte era parte di una serie di fattori che proponevano a un pubblico variegato in termini di età, sesso, estrazione sociale, un’esperienza di fede (giacché quasi sempre di arte religiosa si parla). Spingendo il discorso al limite, gli stessi calendari liturgici, che comportavano l’esposizione di immagini di icone normalmente nascoste ai fedeli in occasione di particolari ricorrenze o proponevano processioni che coinvolgevano lo spazio cittadino esterno alle chiese, fanno parte del discorso sull’arte. E il termine “discorso”, al posto di “letteratura”, indica anche la presenza fondamentale di una componente orale che viene prima della scrittura e che, inevitabilmente, abbiamo in gran parte perduto. Ciò detto, siamo perfettamente consapevoli che si rischia di provare a vuotare il mare con un secchiello, ma non rinunceremo a dar conto del fenomeno allargando anche noi la prospettiva da cui operiamo.

1 Definizione proposta da Donata Levi in Il discorso sull’arte. Dalla tarda antichità a Ghiberti, Bruno Mondadori, Milano, 2010, p. 29.

Né, naturalmente, la questione si pone soltanto per il Medioevo. Si pensi, per esempio, al fenomeno del collezionismo: lungi da noi l’idea di seguirne le singole vicende, ma è innegabile che, a volte, i collezionisti abbiano mostrato maggiore capacità di comprensione del fare artistico rispetto ad altri; che da esigenze di collezionismo (e di mercato) nascano figure come quelle del conoscitore è assodato; e, ancora, secondo una via aperta ai suoi tempi da Paola Barocchi, è altrettanto pacifico che il collezionismo possa esser studiato come modo di organizzare i materiali in una struttura concreta, che produce classificazioni che non mancano, in un rapporto strettissimo, di influenzare la riflessione sulle arti. In questo senso, il collezionismo è, probabilmente, più attento alla realtà artistica contemporanea di certa trattatistica: si pensi a un Mancini o, ancora, ai giudizi di Giustiniani su Caravaggio. Insomma, a noi pare opportuno allargare lo sguardo e adottare un approccio più flessibile e inclusivo. L’obiettivo è quello di far aderire la “nuova letteratura artistica” alla realtà. Non sempre quella schlosseriana lo conseguiva (e certo non per colpa sua): la trattatistica di un Bellori, per esempio, confina Bernini a un ruolo praticamente inesistente. Non sempre (anzi, quasi mai), le fonti descrivono tutta la realtà. I motivi possono essere vari. Innanzi tutto, le testimonianze, per quanto impersonali e oggettive possano, o pretendano di essere, sono sempre orientate e ci trasmettono soltanto una faccia della medaglia. Inoltre, è innegabile che, nella letteratura artistica, tenda a prevalere una visione classicista dell’arte, basata sulla nobiltà della disciplina, sul riconoscimento del ruolo degli artisti, e soprattutto sul primato (o sulla propedeuticità) del disegno: sono principi che innervano il dibattito nelle Accademie e lo fanno perché sono facilmente trasmissibili e insegnabili tramite regole. Nostro compito, dunque, è quello di ricostruire un’immagine di insieme da fonti diverse, non dimenticando la complessità dell’intreccio di istanze e fenomeni e cercando di mostrare al lettore la coesistenza di comportamenti e attitudini a volte fra loro in manifesto contrasto.

Il problema è riuscire a dipanare una matassa intricatissima. L’unico modo che ci sembra possa aiutare a farlo è seguire la trasmissione delle idee, in senso sia cronologico sia geografico. Qui dobbiamo essere chiari. Per prima cosa, affronteremo il discorso sull’arte in ambito europeo, non per stabilire un primato culturale, ma perché è in questo ambito che ci muoviamo meglio. Sappiamo benissimo che esiste una teoria dell’arte cinese. Semplicemente non siamo in grado di parlarne con cognizione di causa. In una prospettiva cronologica, i concetti fondamentali del discorso sull’arte occidentale hanno le loro radici nella civiltà greco-romana. In assenza di scritti andati perduti, lo testimoniano temi che ci sono giunti in forma di aneddoto e che, peraltro, sono già stati indagati a inizio Novecento e messi in contatto con culture a noi diverse, delineando l’immagine di un artista “leggendario”.

Tenendo sempre lo sguardo su questi fenomeni di lungo periodo, in cui ricade anche una parte non indifferente della letteratura tecnico-artistica, saremo attenti, inoltre, a cercare puntualmente “le fonti delle fonti”. In quest’ottica, non valuteremo i plagi (usando un termine moderno) in termini negativi, ma come occasione di circolazione delle idee in ambiti geografici diversi. In questo primo volume, in particolare, in cui parliamo di tempi in cui gli Stati nazionali non si sono ancora formati, l’approccio è, per forza di cose, europeo; sono fenomeni come il monachesimo a garantire, molte volte, la circolazione del discorso sull’arte, facendo leva su reti di abbazie e conventi che si differenziano per le regole monastiche seguite e non per la collocazione geografica. Ma anche nei

prossimi tomi proveremo ad affrontare la materia evitando di rinchiuderci dentro i confini di un’Italia delle “piccole patrie”. Ancora una volta: nessuno vuole negare l’importanza fondamentale e incancellabile dell’esperienza italiana dell’arte: proprio per tale motivo, appunto, non intendiamo tralasciarne le ricadute in altri Paesi, dove esse si fondono con specificità locali. I trattati di pittura del Seicento spagnolo, per esempio, non devono essere considerati una stanca ripetizione di temi come la nobiltà della pittura, la libertà dell’artista o il paragone delle arti, che già si erano letti in Italia un secolo prima, in scritti che, secondo i loro detrattori, nemmeno rispecchiavano il naturalismo del Secolo d’oro iberico. Fu nel Seicento che in Spagna si pose all’ordine del giorno l’indipendenza dell’artista rispetto alla corporazione (e la sua esenzione dal pagamento delle tasse): dimenticarlo vuol dire tralasciare il contesto. Ovvio che quei testi si siano rifatti a quanto già detto in Italia, ma con accenti originali, e comunque del tutto aderenti alla realtà del fare artistico in quegli anni, unico aspetto realmente dirimente in materia. Nell’ambito della circolazione delle idee, una particolare attenzione sarà dedicata alla fortuna dei testi: valuteremo le fonti per il loro interesse intrinseco, ma cercheremo anche di mettere in luce quale fu la reale influenza che esse esercitarono sui lettori, e chi furono questi ultimi. Uno snodo fondamentale, in tal senso, è costituito dall’invenzione della stampa. Naturale che, da quel momento, a essere più diffuse furono le fonti pubblicate con i caratteri mobili rispetto a quelle manoscritte. Ciò non significa – ci mancherebbe altro – che eviteremo di esaminare approfonditamente opere non giunte sotto i torchi o a diffusione editoriale limitatissima, ma che terremo sempre su due piani separati i contenuti degli scritti e la loro fortuna editoriale. Da questa prospettiva, probabilmente, il testo italiano più fortunato del XVII secolo non furono le Vite di Bellori, le Notizie di Baldinucci o la Felsina pittrice di Malvasia, ma la terza (debolissima) edizione delle Vite di Vasari, pubblicata a Bologna, nel 1647, da Carlo Manolessi che rimise in circolazione un’opera divenuta introvabile e riaccese la cosiddetta “reazione antivasariana”. Naturalmente possono esistere casi particolari di scritti rimasti inediti, ma egualmente influenti da un punto di vista storico: le Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini, ne sono il classico esempio. Terremo conto anche di queste situazioni: non ce ne dimenticheremo.

Per portare avanti la nostra opera abbiamo scelto la forma della narrazione. Potevamo scrivere un’antologia commentata, e nutriamo il massimo rispetto nei confronti di chi l’ha fatto. Il rispetto è tale che, negli Approfondimenti di questa prefazione, troverete una sezione che illustra – si spera in maniera esauriente –le antologie di letteratura artistica pubblicate sino a oggi. Le antologie sono, a tutti gli effetti, strumento di trasmissione della conoscenza. Ciò detto, a noi è parso che ci fosse comunque bisogno di una voce narrante per aiutare lettrici e lettori a orientarsi, evitando di proporre ampi brani in latino o in un volgare di difficile comprensione. Intendiamoci: mai come nella nuova letteratura artistica leggere gli originali è fondamentale, ma questo compito spetta a chi narra; a chi ne fruisce, invece, in prima battuta, si devono offrire chiavi di lettura e interpretazione critica.

L’opera sarà pubblicata in tre volumi. Ogni volume è diviso in parti e ogni parte in capitoli. A loro volta tutti i capitoli sono scanditi, grosso modo, a metà: nella prima sezione, più marcatamente narrativa, prenderemo in considerazione le fonti principali, analizzandole nelle linee fondamentali. Lateralmente, per aiutare il pubblico a orientarsi, sono inserite postille che evidenziano i passaggi più significativi. Gli ideali fruitori di questa prima parte sono le studentesse e

gli studenti universitari, ma anche un pubblico di non specialisti e curiosi, senza particolari conoscenze pregresse. La seconda sezione, denominata Approfondimenti è facilmente distinguibile “graficamente”; offre un panorama più completo delle fonti, edite e inedite, rassegne sulla bibliografia indispensabile per chi voglia saperne di più e ulteriori commenti relativi a fonti minori; questa parte è pensata per essere di ausilio a chi si muova nell’ambito della ricerca, della docenza, della specializzazione. L’apparato delle note a piè di pagina è ridotto al minimo indispensabile. L’indice delle fonti finale dovrebbe consentire un rapido reperimento dei testi in caso di necessità. Una fitta rete di richiami fra un capitolo e l’altro dovrebbe assicurare al pubblico la possibilità di muoversi con sufficiente facilità fra le pieghe di una materia oggettivamente intricata.

Nella sezione online dell’opera troverete anche, fra i materiali integrativi, l’indice dei nomi citati nel volume. Nel primo tomo ci occupiamo del periodo che va dalla tarda antichità alla fine del Quattrocento; il secondo sarà dedicato a Cinquecento e Seicento; il terzo avrà come oggetto di analisi il Settecento e l’Ottocento fino all’affermazione della fotografia come strumento di riproduzione della realtà. La scelta del termine finale (che non corrisponde a una data precisa) merita una spiegazione: Schlosser concluse la sua opera, di fatto, con Winckelmann, dedicando peraltro poche pagine al Settecento. Il motivo è noto: per l’austriaco, Winckelmann apre la stagione della moderna storia dell’arte (e della storia della critica). Dopo di lui nulla è come prima. La storia che procede per fratture ci piace poco. A noi pare che il discorso sull’arte, inteso nell’accezione che abbiamo cercato di illustrare, continui a esistere con una sua dignità anche dopo il grande studioso tedesco. Ci domandiamo, innanzi tutto, se i protagonisti, gli artisti, i dilettanti, gli eruditi, i collezionisti abbiano avuto, nel loro spazio e tempo, la percezione che con Winckelmann cambiasse tutto. Ovviamente no, ci pare di poter dire. E comunque la nascita della storia dell’arte come disciplina è un fenomeno che assume visibilità e vigore nei decenni, ma si istituzionalizza soltanto nella seconda metà dell’Ottocento, con la generale diffusione delle cattedre universitarie. L’artista smette di cercare una spiegazione del suo fare in virtù della nascita della storia dell’arte? Il pubblico di ragionare sulla bellezza o bruttezza di un quadro? Anche qui, ci sembra che la risposta sia scontata. Abbiamo scelto l’avvento della fotografia perché la nostra principale preoccupazione consiste nell’aderire il più possibile ai fenomeni reali: siamo certamente di fronte a uno snodo fondamentale, in quanto l’artista è privato del monopolio sull’imitazione della natura a favore di un mezzo meccanico; le ricadute si avvertono anche sul discorso sull’arte. Un momento contemporaneamente di crisi e di crescita ci sembrava la scelta migliore per concludere la nostra trattazione. Non neghiamo, con la massima sincerità, che scegliere di fermarci all’avvento della fotografia ci permette di evitare la questione dell’insegnamento della critica d’arte nelle aule universitarie o, comunque, in forma professionalizzata. Un conto è il discorso sull’arte e un conto la storia della storia dell’arte. Su quest’ultimo tema hanno già scritto in tanti e a essi rimandiamo. Non sentirete parlare, quindi, della scuola di Vienna, di Lionello Venturi e Roberto Longhi, di Aby Warburg o Erwin Panofsky o di qualsiasi altro irrinunciabile e grandissimo interprete della disciplina nel Novecento, se non quando sarà necessario per segnalare il recepimento o l’interpretazione storicamente data a una fonte. Analogo discorso vale per museologia e restauro. Ne parleremo, ma sempre con riferimento alle fonti, che sono e rimangono la nostra unica stella polare.

Dichiariamo, a scanso di equivoci, che il nostro è stato l’incontro di due persone

con un vissuto completamente diverso: da un lato una professoressa universitaria con decenni di esperienza didattica nel settore, dall’altro una figura anomala di amatore che da quindici anni gestisce un blog che, non a caso, si chiama Letteratura artistica , dove ha pubblicato oltre quattrocento recensioni sulle fonti. Nel caso specifico, non abbiamo nessuna difficoltà a dire che, in questo volume, troverete, sia pur in quantità minima, anche materiali provenienti da Il discorso sull’arte. Dalla tarda antichità a Ghiberti di Donata Levi (Bruno Mondadori, 2010) e da recensioni pubblicate da Giovanni Mazzaferro nel suo blog. Ciò detto, siamo davanti a un completo ripensamento di materiali con un lavoro che, solo per questo primo volume, ha richiesto due anni di impegno. Il lavoro è stato condotto con una precisa finalità: essere chiari, ma rigorosi. Sotto questo punto di vista, ci permettiamo di rifarci alla lezione di Paola Barocchi, in cui ricerca e impegno etico a favore della comunità, in sostanza, coincidevano.

L’ultima cosa che vorremmo è che il nostro lavoro diventi un canone inscalfibile. Sappiamo, peraltro, che la sorte di opere come questa è di essere consultata con riferimento a singoli periodi cronologici e di essere criticata per la mancanza della citazione di questo o quel testo. Ci appelliamo alla vostra benevolenza. Siamo responsabili in solido ed esclusivamente di tutti gli errori presenti in quest’opera; preghiamo chi legge di volerceli segnalare. Per aver esaminato parti del testo e averci arricchito coi loro consigli, abbiamo debiti di riconoscenza con Barbara Agosti, Sandro Baroni, Mirco Bagnesi, Claudia Bolgia, Giulio Burresi, Tommaso Casini, Valentina Catalucci, Laura Cavazzini, Andrea D’Agostino, Francesco De Carolis, Stefano G. Casu, Fabrizio Crivello, Francesca Dell’Acqua, Gianluca del Monaco, Patrizia Dragoni, Bernardo Oderzo Gabrieli, Diletta Gamberini, Claudio Gamba, Valeria Genovese, Elisabetta Giffi, Silvia Ginzburg, Fabrizio Lollini, Antonio Milone, Oriana Orsi, Emanuele Pellegrini, Piergiacomo Petrioli, Valter Pinto, Giovanna Ragionieri, Valentina Sapienza, Lara Scanu, Elisa Spataro, Paola Travaglio e Francesca Valli. Ringraziamo tutte e tutti in questa sede, sperando di non aver dimenticato nessuno.

Da ultimo ringraziamo Zanichelli editore per aver creduto in quest’opera. Non era scontato. Un grazie particolare a Elena Bacchilega, Daniele Bonanno, Marika De Acetis e Daniela Nicolò.

AUTORI

DONATA LEVI insegna Museologia e Storia della critica d’arte presso l’Università di Udine. È presidente della Fondazione Memofonte, dedicata all’elaborazione digitale delle fonti storico-artistiche (www. memofonte.it) e direttrice della rivista online “Studi di Memofonte”. Ha partecipato a progetti di ricerca nazionali ed europei relativi a temi di circolazione dei beni culturali e di allestimenti museali. È stata visiting scholar presso la New York University di Abu

Dhabi e collabora con lo Al-Mawrid Arab Center for the Study of Art della stessa università. Le sue ricerche si concentrano sulla storia della critica d’arte tra Sette e Ottocento (in particolare Lanzi, Cavalcaselle, Ruskin), sulla storia e politica della tutela del patrimonio culturale – con particolare attenzione ai problemi di trasferimento, circolazione e restituzione dei beni culturali – e su vari aspetti della museologia tra XIX e XX secolo.

GIOVANNI MAZZAFERRO è studioso indipendente di fonti di storia dell’arte. Dal 2013 gestisce il portale Letteratura artistica, di cui è fondatore. Ha pubblicato Le Belle Arti a Venezia nei manoscritti di Pietro e Giovanni Edwards (GoWare, 2015), La donna che amava i colori. Mary P. Merrifield: lettere dall’Italia (Officina Libraria, 2018) e Il giovane Cavalcaselle. «Il più curioso, il più intrepido, il più appassionato di tutti gli affamati di pittura» (Leo S. Olschki, 2023), nonché diversi con-

tributi e recensioni su riviste specialistiche italiane e straniere. Assieme a Susanna Avery-Quash, senior research curator della National Gallery di Londra, ha pubblicato un saggio sulla corrispondenza fra Michelangelo Gualandi e Charles Eastlake (2020), da lui scoperta a Francoforte.

Fra le sue aree di ricerca si segnalano lo studio delle postille manoscritte alle Vite del Vasari e la connoisseurship dell’Ottocento.

PARTE PRIMA

L’EREDITÀ GRECO-ROMANA

Capitolo 1

Ars e téchne

Capitolo 2

La Naturalis historia

Capitolo 3

Vitruvio

Capitolo 4

Pausania e Filostrato

L’arte come mestiere ›

Ars e téchne

La nostra narrazione partirà dalla tarda antichità (grosso modo dal III secolo d.C.), ma non può evitare di ripercorrere, per grandi linee, ciò che successe prima e che ha influenzato in maniera decisiva il pensiero occidentale. Cominceremo, quindi, da due opere fra loro molte diverse, la Naturalis historia di Plinio il Vecchio e il De architectura di Vitruvio, cercando di contestualizzarle nella loro epoca. Stiamo parlando, in entrambi i casi, di opere di piena età romana: il De architectura fu scritto attorno al 30-25 a.C., la Naturalis historia uscì nel 77 d.C. Rispecchiano pertanto un momento particolare dell’antichità e, a loro volta, rielaborano motivi e informazioni provenienti da secoli precedenti: a ben vedere, abbiamo testimonianze di un discorso artistico (non dirette, perché le fonti si sono perse) almeno dal V secolo a.C. Ci riferiamo, quindi, complessivamente a un arco cronologico di ottocento anni, superiore a quello che oggi ci separa da Giotto.

Dopo aver narrato Plinio e Vitruvio proveremo a selezionare altre opere e altri temi provenienti dall’antichità e ripropostisi prima nel Medioevo e poi in età moderna, ma non affronteremo sistematicamente i temi della letteratura artistica degli otto secoli appena citati, che sono oggetto di altri testi (cfr. Approfondimenti).

La prima cosa da dire è che in lingua greca o latina non è mai esistita una parola che definisse l’arte così come, più o meno, la si intende oggi, ossia l’esito ultimo di un processo creativo libero e indipendente, guidato dall’ispirazione; né è esistito un lemma che chiamasse “artista” il protagonista di questo processo; al suo posto si è usato il più generico “artefice”.

In Grecia si parlava di téchne, a Roma di ars, in entrambi i casi a definire un’attività come tante altre, un mestiere. Ars, di per sé, era parola vuota, e acquistava significato quando accompagnata da un termine successivo che definiva l’ambito a cui si applicava: esisteva l’arte oratoria, quella dei poeti, ma anche l’ars topiaria, riferita a botanica e tecniche di creazione e gestione dei giardini.

Fra tutte queste artes l’attività artistica (così la chiameremo per essere più fedeli al concetto greco-romano) si caratterizzava, peraltro, per comportare un lavoro fisico, in cui l’attore doveva confrontarsi e trasformare la materia (terre, marmi, pietre e quant’altro) per arrivare a un manufatto finito. Semplificando, l’attività artistica rientrava nel campo largo dell’artigianato: fra dipingere quadri e costruire un tavolo in legno non vi era, concettualmente, nessuna differenza. Se non esisteva una definizione di arte, esistevano invece termini che si riferivano a singoli settori dell’attività artistica, a seconda degli strumenti che utilizzava l’artefice. E così gli antichi parlavano di pittura, di coroplastica (o semplicemente di plastica), ossia l’arte di modellare la creta o, in generale, materie molli; di scultura (l’arte di lavorare la pietra, in particolare il marmo); di statuaria (l’arte di produrre opere in bronzo) e di toreutica (l’arte di lavorare i metalli).

Per gli antichi tutte le artes (anche l’oratoria, per esempio) erano imitazione (mimesis) della natura. Quest’aspetto è facilmente comprensibile oggi, con riferimento alle arti figurative, molto meno per la musica o per l’oratoria. Nella Grecia arcaica, la natura era considerata una realtà regolare, governata da leggi matematiche immutabili che bisognava scoprire e riprodurre. Così, per esempio, in ambito artistico, attorno al 450 a.C., ebbe fondamentale importanza il cosiddetto Canone di Policleto; Policleto scrisse un perduto trattato sulle proporzioni umane, dando vita alla tradizione della symmetria (ossia lo studio delle proporzioni) che, al netto di modifiche, giunse sino al Rinascimento; analoghe leggi matematiche doveva seguire la musica e sempre entro schemi rigidi si dovevano muovere l’oratoria o le rappresentazioni teatrali. Nel caso delle attività artistiche, pesava, per di più, la poca considerazione di cui erano oggetto nel pensiero dei grandi filosofi.

Per Platone (427-347 a.C. ca.), che ne scrisse nella Repubblica, la natura, in termini conoscitivi, era riflesso imperfetto di un mondo ultraterreno (l’iperuranio) dove stavano le idee; imitare la natura significava, in sostanza, allontanarsi dalle idee (ossia dalla verità) tramite una doppia imitazione peggiorativa (idee imitate dalla natura – natura imitata dalle artes). La censura di Platone non era, insomma, di ordine estetico, ma legata al pericolo che l’essere umano si allontanasse dalla comprensione delle idee. Non a caso Platone, nell’ambito delle attività artistiche, riteneva migliori quelle perfettamente mimetiche, perché si allontanavano meno dalla natura, imitazione delle idee (tecnicamente si operava una distinzione fra mimesi icastica – fedele alla natura – e mimesi fantastica).

Sempre in termini conoscitivi, le cose sono diverse in Aristotele (384-322 a.C.): nell’attività artistica, di per sé, non vi era nulla di male, purché fosse esercitata per un buon fine. E il fine ultimo non poteva essere che la conoscenza della natura, di cui l’attività artistica doveva essere strumento, dando vita a immagini che riproducessero gli oggetti, gli animali, le cose, in forma essenziale. Perché in forma essenziale? Perché Aristotele riconosceva che, nel concreto dispiegarsi di ogni giorno, la natura presentava al genere umano infinite varianti di una medesima cosa (intendendo per “cosa” anche la persona e le sue attitudini). Di fronte all’impossibilità di rappresentare ogni singola variante, che avrebbe finito per confondere il pubblico, l’artefice (fosse esso musicista, poeta, pittore) doveva stabilire una forma non vera, ma verosimile.

Con Aristotele per la prima volta viene quindi presa in considerazione in termini positivi la phantasia, concetto particolarmente sdrucciolevole nel corso dei secoli. Per il filosofo nativo di Stagira, in Macedonia, la phantasia sembra consistere più che altro nella capacità dell’artista di trovare il verosimile in grado di suscitare l’interesse e l’entusiasmo dello spettatore per l’indagine della natura. Se per Platone la mimesi fantastica è destabilizzante, insomma, per Aristotele è fonte di indagine e non ha nulla di male, se condotta correttamente. Chiaro che emergono, almeno in nuce, due aspetti soggettivi: la capacità creativa dell’artista da un lato e la percezione dell’opera d’arte da parte del pubblico. Ciò detto, Aristotele non attribuiva particolare importanza a quelle che oggi chiameremmo arti visive; non è certo un caso se il suo pensiero fu presentato in maniera organica nei due libri della Poetica, il primo dedicato a tragedia ed epica, il secondo (andato perduto) alla commedia. In età ellenistica più avanzata, lo stoicismo riprende elementi aristotelici e platonici e li rielabora in senso sempre più soggettivo; succede così che la censura platonica, ossia il fatto che l’attività artistica sia imitazione di un’imitazione, comincia a trasformarsi in potenzialità; se infatti si inverte il senso del processo cognitivo (in Platone dalle idee alla natura e dalla natura all’arte) si ottiene che la crea-

‹ Imitare la natura

‹ L’arte per Platone

‹ L’arte per Aristotele

zione artistica, attingendo alla phantasia, possa, sulla base dell’ispirazione, mirare a rappresentare l’invisibile (l’allontanamento peggiorativo diventa avvicinamento migliorativo: dall’arte alla natura e dalla natura alle idee). Tutto ciò premesso, resta il fatto che, pur con la nascita della storia dell’arte, ossia con l’imporsi di una visione storica dei fatti artistici, avvenuta in epoca ellenistica, e l’idealizzazione di figure esemplari, come per esempio quella di Fidia, continua a mancare una sistemazione organica dell’attività artistica.

Come vedremo negli aneddoti di Plinio, l’artefice si confronta da pari a pari con i grandi regnanti, ma non per questo diventa nobile o si separa nettamente da un inquadramento artigianale. Il modo migliore per comprendere questo fenomeno è, forse, per negazione: la Grecia e Roma non conoscono il fenomeno della nascita delle Accademie artistiche, che sanciscono, da metà XVI secolo in poi, la separazione dell’artista dal mondo corporativo e l’innalzamento formale del suo status; o, per meglio dire, nella Grecia che ne è patria, l’Accademia resta un’istituzione di impronta filosofica.

APPROFONDIMENTI

Le grandi raccolte sistematiche di scritti su arti e artisti dell’antichità (ricavate più che altro da testi frammentari) risalgono all’Ottocento. La più importante è, probabilmente Die antiken Schriftquellen zur Geschichte der bildenden Künste bei den Griechen, a cura di Johannes Overbeck, Leipzig, Wilhelm Engelmann, 1868 (ristampata più volte nel corso del Novecento). Nel 2014 è uscito Der Neue Overbeck. Die antiken Schriftquellen zur Geschichte der bildenden Künste bei den Griechen, a cura di Sascha Kansteiner, Lauri Lehmann et al., 5 voll., Berlin-Boston, De Gruyter (seconda edizione, sempre in cinque volumi, nel 2022). Altra opera di riferimento, questa volta in ambito francese, Recueil Milliet. Textes grecs et latins relatifs a l’histoire de la peinture ancienne, a cura di Adolphe Reinach, vol. I, Paris, Librairie Klincksiek,

1921 (uscì postumo solo il primo tomo: l’autore morì nel corso della Prima guerra mondiale). Fra le raccolte antologiche si ricordano Giovanni Becatti, Arte e gusto negli scrittori latini, Firenze, Sansoni, 1951; Benedetto Patera, La letteratura sull’arte nell’antichità. Profilo storico e antologia, Palermo, S.F. Flaccovio, 1975; M. Letizia Gualandi, L’antichità classica, Roma, Carocci, 2001. In inglese: Jerome Jordan Pollitt, The Art of Ancient Greece: 1400-31 B.C. Sources and Documents, Englewood Cliffs (NJ), Prentice Hall, 1965 e idem, The Art of Rome: c. 753 B.C.-A.D. 337. Sources and Documents, stesso editore, 1966. In una qualsiasi di queste raccolte sono reperibili stralci dagli scritti di Platone (Repubblica) e Aristotele (Poetica). Si veda anche Roberto Panichi, La teoria dell’arte nell’antichità, Firenze, Alinea, 1997. ■

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– Immagine di copertina: Hans Memling, dettaglio del pannello centrale del Trittico di San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista, 1474-79 (olio su tavola). Sint-Janshospitaal, Bruges, Belgio © Art in Flanders/Bridgeman Images

Prima edizione: gennaio 2026

Ristampa: prima tiratura

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La nuova letteratura artistica 1

Inquadra e scopri i contenuti

Scritti di artisti, collezionisti, amatori, letterati; trattati teorici, vite di pittori, scultori e architetti; guide artistiche di città e resoconti di viaggio; discussioni sulla liceità religiosa delle immagini e disposizioni sulla loro collocazione negli ambienti ecclesiastici; ricostruzioni di esperienze di fruizione dell’arte in ambito sacro o in occasione dell’allestimento di apparati effimeri: tutte queste sono fonti che, nel loro insieme, definiscono il “discorso sull’arte”, cioè l’insieme delle considerazioni riguardanti l’arte in un determinato periodo storico.

Nel 1924 Julius von Schlosser, uno studioso austriaco, scrisse La letteratura artistica, fondando e dando un nome alla disciplina. Quel libro è stato l’opera indiscussa di riferimento per generazioni di amanti della materia. Oggi, La nuova letteratura artistica non è un semplice aggiornamento, in quanto propone un vero e proprio ripensamento della disciplina. In un ambito oggettivamente complesso, questo libro conduce attraverso

Donata Levi insegna Storia della critica d’arte e Museologia presso l’Università di Udine ed è presidente della Fondazione Memofonte di Firenze. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche e decenni di insegnamento universitario.

Giovanni Mazzaferro è studioso indipendente di fonti di storia dell’arte. Dal 2013 ha fondato e gestisce il blog “Letteratura artistica”. Ha pubblicato volumi e ricerche sulla materia.

un affascinante viaggio che parte dai testi e segue gli spostamenti storici e geografici del discorso sull’arte. In questo percorso, è relativamente importante chi esprime per primo un concetto; è fondamentale, invece, seguire la fortuna di quel concetto nel corso dei secoli e tra un’area geografica e un’altra.

La nuova letteratura artistica è un progetto in più volumi. In questo primo libro si va dalla tarda antichità alla fine del Quattrocento. I criteri che caratterizzano la narrazione sono completezza della trattazione e chiarezza del commento. Ogni capitolo è diviso in due parti: la prima contiene le informazioni di base per l’insegnamento universitario della materia, o anche per chi, semplicemente, ami l’arte e desideri saperne di più; la seconda è pensata per gli operatori professionali e propone approfondimenti contenutistici con un ricco apparato di segnalazioni bibliografiche. L’indice delle fonti, a fondo volume, ne permette l’uso come opera di consultazione.

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