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Rubriche Editoriale Il grande momento delle imprese famigliari
Il grande momento delle imprese famigliari
Uno dei punti deboli dell’economia italiana, è stato scritto più volte, è il predominante nanismo delle imprese che, nella stragrande maggioranza dei casi sono a conduzione e proprietà famigliare. Si potrebbe, però, ribaltare il ragionamento: durante i periodi di crisi il punto di forza dell’economia italiana è stata proprio la base famigliare delle proprie piccole e medie imprese. Il 2020 segnato dal maledetto virus sembra confermare il secondo aspetto. Per esempio, una ricerca su 350 imprese ha indicato che durante la diffusione della pandemia le imprese controllate da famiglie hanno realizzato una performance azionaria significativamente superiore di quelle con strutture proprietarie diffuse. La ricerca si riferisce alle piccole aziende quotate in Borsa, ma il concetto rimane valido anche per quelle, quasi tutte, che non sono approdate al listino Aim (quello riservato alle micro imprese). In ogni caso, indicano i numeri della ricerca, le aziende familiari hanno registrato una performance azionaria dell’8% migliore rispetto a quella delle imprese a capitale diffuso o, comunque, senza una famiglia di riferimento. E, se contiamo che in Italia sono attive 101 mila piccole e medie imprese di proprietà famigliare (103 mila considerando anche le grandi) con almeno il 50% +1 dei diritti di voto, questo potrebbe essere un vantaggio per il sistema-Italia. Ma anche per i sotto-sistemi, per esempio quello della distribuzione, dove le imprese famigliari sono quasi la totalità. Certo, ci sono anche gli svantaggi. Per esempio, quando nella gestione di un’impresa famigliare si antepongono le carriere dettate dalla parentela invece che del merito. Un aspetto particolarmente negativo quando si verifica un cambio generazionale. Per il resto, le famiglie proprietarie tendono ad avere orizzonti di più lungo periodo nelle loro scelte strategiche. Non devono rendere conto a soci piccoli e grandi che pretendono risultati immediati e dividendi da distribuire. Un’azienda famigliare guarda avanti e l’imprenditore mette il cuore nella propria azienda. Inoltre, ha un buon nome da difendere e più difficilmente si troverà a gestire affari che possono nuocere alla propria reputazione, che fa parte del patrimonio aziendale. Aggiungiamo anche che, per sua natura, un’impresa famigliare ha spesso dimensioni più piccole e, per questo, chi la gestisce tende a stabilire rapporti più diretti con i dipendenti, ma anche con i propri clienti. Ecco perché, nel caso specifico del 2020, un’impresa famigliare ha probabilmente avuto maggiore capacità di riorganizzare l’azienda per affrontare la crisi dettata dall’emergenza sanitaria. Tutto bene, quindi? La realtà ha due facce: se le piccole imprese sono state capaci di affrontare meglio il covid, non è detto che la loro struttura sia sempre al passo con i tempi «normali». Una ricerca di Cerved, per esempio, ha messo in luce che la proprietà e la gestione famigliare si associano a una minor crescita dimensionale: le piccole imprese di carattere non famigliare realizzano in media 800 mila euro in più di ricavi e 1,4 milioni in più di attivo. Inoltre, le Pmi gestite da manager esterni vantano in media un margine operativo lordo maggiore (459 mila euro contro 400 mila). È vero che, in compenso, le imprese a carattere famigliare hanno tassi di profitto più elevati in termini di margini lordi su fatturato (7,2% contro 6,8%). Ma questo, rileva Cerved, è un’indicazione di una scala produttiva inefficiente e ridotta. In sostanza, le imprese familiari non sfruttano del tutto le opportunità di crescita. Insomma, il bicchiere è mezzo pieno. Ma anche mezzo vuoto.