giornalino n°4

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Liceo Classico “Plinio il Giovane” - viale Armando Diaz, 2 - 06012 Città di Castello (PG) - tel. 075.8554243 - fax 075.8554724 - www.liceoplinio.net - pgpc05000a@istruzione.it

Pli LA VOCE DEL LICEO CLASSICO PLINIO IL GIOVANE

4 NOVEMBRE 2010

L’anno della svolta di Andrea Pellegrini

L’A.S. 2010/2011 può ben dirsi cruciale per il nostro Liceo. La questione, infatti, della riorganizzazione dell’offerta formativa del territorio altotiberino è di dominio pubblico e di fondamentale importanza per il Plinio. Se la proposta del Comune dovesse essere approvata anche dalla Regione, il Polo liceale sarebbe finalmente una realtà e la nostra scuola avrebbe finalmente quella solidità e completezza che da anni insegue. Scuola, dunque, al centro della questione. Scioperi, proteste, manifestazioni hanno caratterizzato l’inizio di questo anno, sintomi di un grave malessere del sistema-istruzione. La coperta è evidentemente troppo corta per coprire le numerose magagne. Una di queste è rappresentata dalle gite. L’articolo del Professor Venturini può ben dirsi illuminante. Come è nostro costume, quindi, abbiamo deciso di affrontare tematiche d’attualità, che possano suscitare qualche spunto di riflessione, coniugandole con interventi più leggeri e speriamo divertenti. Chiediamo, come sempre, il contributo di tutti per crescere e migliorare. Chi, invece, ha dato al Liceo un grande contributo in termini di professionalità e passione è la grande Rita Carletti, da quest’anno in pensione. Ancora non ci sembra vero: una Segreteria senza Rita ha qualcosa di strano, quasi di irreale. È come se il Liceo avesse perso un pezzo di memoria, perché Rita è stata ed è la memoria storica della nostra scuola. Ci manchi!

La sfida di Maria Rosella Mercati, Dirigente Scolastico

L’anno scolastico da poco iniziato si presenta ricco di importanti novità: l’avvio dei nuovi curricoli liceali, secondo la riforma Gelmini, mette alla prova studenti ed insegnanti. Siamo di fronte ad “una opportunità da non sprecare, utile non solo per ripensare la funzione della scuola liceale nella società italiana, ma anche per rilanciarla nelle sue varie articolazioni previste e porla come polo strategico per il miglioramento della qualità dell’istruzione”(A. Poggi). Occorre evitare l’immobilismo didattico e culturale, se si vogliono raggiungere gli obiettivi culturali propri del Liceo Classico, in armonia con la sua identità e mirando alla completezza ed eccellenza degli apprendimenti. Il cambiamento riguarda aspetti tecnici organizzativi e aspetti sostanziali del fare scuola. Sono note le modifiche nell’orario settimanale. L’ora di 60 minuti, un’ora in più di matematica, l’inserimento di scienze, due ore in meno per italiano, storia e geografia non rappresentano modifiche solo formali, ma obbligano a rivedere l’impostazione complessiva degli insegnamenti, affrontando in modo nuovo il rapporto tra sapere (conoscenze), saper fare e saper essere (competenze). Gli aspetti sostanziali riguardano dunque i processi formativi da attivare per il conseguimento dei risultati di apprendimento previsti per gli studenti (DPR n.89/2010): la cultura della valutazione e la certificazione delle competenze, l’individuazione di metodologie appropriate, l’uso degli strumenti multimediali a supporto dello studio e della ricerca nella esperienza pratica quotidiana. Il Liceo Classico risponde alla domanda di istruzione della società, delle famiglie e dei giovani di


oggi? Forma il cittadino italiano ed europeo di cui il futuro ha bisogno? Noi riteniamo di sì. Il Liceo, infatti, è indirizzato allo studio della civiltà classica (i maestri del passato dai quali non si finisce mai di imparare) e della cultura umanistica (in cui si incontra la contemporaneità), favorisce una formazione letteraria, storica e filosofica idonea a comprenderne il ruolo nello sviluppo della civiltà e della tradizione occidentali e nel mondo contemporaneo sotto un profilo simbolico, antropologico e di confronto di valori. Riservando attenzione anche alle scienze matematiche, fisiche e naturali, consente di cogliere le intersezioni tra i saperi e di elaborare una visione critica della realtà (dal Regolamento, art.5). Il profilo in uscita di uno studente liceale è alto e disegna una persona con solide basi culturali, capace di affrontare la costruzione di sé e del proprio futuro con strumenti sofisticati, in grado di dialogare con la società, con mentalità aperta e visione positiva dell’esistenza.

Corrispondenze dall’India di Augusta Ramaccioni

Il 10 Luglio, finalmente, sono a Roma insieme ai ragazzi che Intercultura ha destinato a varie città dell’India. La condivisione della partenza, così a lungo attesa, dopo un iter pressoché identico, crea in noi un immediato spirito di gruppo e di identità e ci infonde il coraggio (l’incoscienza?) necessario a varcare le colonne d’ Ercole dell’ignoto. Al nostro arrivo nel subcontinente, avremmo ben presto capito quanto ingenuo fosse il nostro atteggiamento e quanto impreparati fossimo riguardo all’impatto con una realtà a dir poco scabrosa. Il folklore agiografico e di maniera – colori esplosivi, sapori e pro-

fumi inebrianti, ritualità magica, spiritualità soffusa – lascia il posto alla sgradevolezza: sporcizia, povertà, inquinamento (anche acustico), diffidenza nei confronti dello straniero, composizione piramidale della società, indifferenza, almeno apparente, nei confronti dell’ingiustizia a cui si sono aggiunti, negli ultimi anni, gli effetti devastanti di una tecnologizzazione rapida, massiccia ed omologante. Dopo un intero giorno di viaggio, stanca e spaesata, eccomi a Vadodara, moderna città di circa due milioni di abitanti, capoluogo della regione del Gujarat, una delle più chiuse e tradizionaliste dell’intero Paese. La mia famiglia ospitante, appartenente alla casta dei bramini (la più alta, spiritualmente, la sola destinata, un tempo -quando il sistema delle caste non era stato ancora abolito- all’istruzione ed ad un posto di rilievo nella società, perché formata da persone civilizzate!), mi accoglie gentilmente in una abitazione che un indiano percepirebbe come dignitosamente adeguata, ma che respinge me, non tanto per la sua modestia, quanto per la quasi totale mancanza di servizi igienici. Solo il mio fratello indiano parla un inglese fluente, gli altri si esprimono in gujarati, lingua ufficiale della regione, a me sconosciuta. La stanza da letto la condivido con la piccola di casa: manca un armadio – ed io non so dove riporre le mie cose – molte delle quali mi si rivelano come inessenziali (i letti sono semplici stuoie appoggiate per terra, non esistono lenzuola o coperte. Scarafaggi e topi viaggiano indisturbati (questo mi dicono succedere anche in ambienti lussuosi). Il caldo è una morsa che non dà tregua. Si mangia seduti per terra (i pasti sono frugali: verdure, riso, qualche patata, niente carne o formaggio), senza posate ed io mi sento molto impacciata. L’incontro con la scuola è altrettanto traumatico. Devo indossare una divisa dimessa, raccogliere i capelli, bandire qualsiasi gioiello. Prima di varcare i cancelli della scuola, tempio della conoscenza, tutti si devono lavare, in segno di rispetto. Il liceo che frequenterò, unica ragazza europea a parte la ragazza tedesca – Luise – destinata alla mia stessa classe, è prestigioso, in quanto 2


mi. Chi conosce l’Italia, la connota secondo gli stereotipi più frusti: pizza, mafia e mandolino. Forse anche per me l’India è solo Gange, sari e Taj Majal. Proiezioni contro proiezioni, pregiudizi contro pregiudizi. Il fatto di essere donna non mi aiuta; l’India mi si mostra come un Paese ancestrale e maschilista, in cui la donna non gode di tutti i diritti riservati agli uomini. Quando mi meraviglio che una ragazza non possa uscire se non accompagnata da una parente e che il matrimonio – quasi sempre combinato – sia sentito da una donna come un traguardo ed un obbligo sociale, mia madre mi rimprovera la mia scarsa memoria storica – cinquant’anni fa era così anche da noi – e mi consiglia di leggere Levi-Strauss, Corrado Alvaro e Pier Paolo Pasolini. prepara all’ingresso alle facoltà di medicina, ingegneria ed architettura, le più ambite in India (medicina, in particolare, per le donne, le altre per gli uomini). Lo studio è settoriale, specialistico: solo materie scientifiche, fisica, matematica e chimica. Spetta ai genitori scegliere gli studi dei propri figli e questi obbediscono cercando di corrispondere quanto più possibile alle aspettative degli adulti. Non è concesso fallire. Un insuccesso scolastico può condurre al suicidio. Lo studio è uno dei più potenti mezzi di ascesa sociale e di riscatto. Si studia tutto a memoria, non viene incentivato alcuno spirito critico. Il mio ingresso in classe, sebbene previsto, non suscita alcun evidente interesse, semmai una malcelata curiosità. Per strada gli stranieri vengono fotografati, anche senza il loro consenso,come rari esemplari di una strana razza. Tutti i bianchi, europei od americani che siano, vengono accumunati ai colonizzatori inglesi nei confronti dei quali il risentimento è ancora molto alto e diffuso. Il patriottismo è un valore indiscutibile, l’appartenenza alla madrepatria è motivo di orgoglio. Ogni giorno, prima dell’inizio delle lezioni, gli studenti della mia scuola vengono convocati nel cortile per pregare – piuttosto per semplice tradizione che per una profonda esigenza spirituale – e per inneggiare alla grande India. Le classi sono numerose ed arrivano a contenere anche cinquanta alunni; il chiacchiericcio è un sottofondo costante e tollerato. Gli insegnanti, che qui godono di massimo rispetto ed autorità, non spiegano la lezione, limitandosi a leggere qualcosa da scarni fascicoletti – i libri di testo – tanto dopo la scuola tutti prendono lezioni a pagamento (talvolta anche di domenica, anche alle cinque di mattina). Le interrogazioni non sono previste: cinque sessioni di test decideranno il destino degli studenti. Il tragitto da casa a scuola e viceversa lo compio su uno scuolabus stipato all’inverosimile; le regole stradali sono in India qualcosa di aleatorio, i clacson sopperiscono a qualsiasi razionalità di comportamento. Le mie difficoltà di adattamento vengono interpretate dalla mia famiglia come un rifiuto della loro ospitalità e questo li offende, mio malgrado. Il mio comportamento viene addirittura percepito come offensivo nei confronti dell’intera comunità ospitante. Non riesco ad aprire un varco verso le persone che mi circondano, a trovare qualcuno capace di mediare tra la cultura indiana e la mia, in modo tale che io possa inserir-

Continua…

Basta belle statuine: è ora di fare sul serio La rievocazione storica non è un semplice travestimento, ma un momento di profonda coesione sociale e di riflessione di Roveno Valorosi

Rievocare è un verbo come tanti, significa (definizione da vocabolario) “richiamare”, “riportare alla mente”, “celebrare” e “commemorare”, ma il suo significato è più profondo e verace, perché racchiude lo stare assieme, l’impegnarsi e l’adoperarsi per una comune passione tra emozioni, malintesi, divertimento e abbattimento. Rievocare significa buttarsi anima e corpo in un progetto, in un’idea, in una differente visione del mondo, partecipare attivamente a ciò che è stato ricreando e rendendo attuali fatti e personaggi che furono. Fare rievocazione storica non è noleggiare o comperare un costume, ma attivarsi, documentarsi, studiare, conoscere, imparare usi e costumi di un popolo e di un periodo storico, riuscire a calarsi nei panni d’un glorioso e scintillante o nefasto e oscuro passato: è dar vita a uomini e donne d’altri tempi. Là si scorge il grasso e opulento mercante, vicino il bravaccio senza scrupoli che attenta alla purezza d’una giovane contadinella, che a suo volta è difesa da un prode cavaliere e dai suoi servi che s’azzuffano con qualche attaccabrighe di taverna, mentre un santo monaco prega loro di smettere in nome di Dio. Persone d’ogni razza e sorta possono ancora vivere, parlarci di loro e renderci partecipi delle loro avventure, dei loro amori o delle loro fortune o sfortune, attraverso risate o duelli, scherzi o omicidi, allegre bevute o avvelenamenti. Quanto io ho imparato e continuo a imparare da questo mondo lo devo a Marco Giacchi, “capitano” di una scalcinata banda di armigeri, la peggior feccia di una epoca brutale e violenta. È stato capace di mettere insieme un gruppo di persone eterogeneo ma compatto, libero ma controllato, sano ma disteso, accomunato dal fatto di fare bene il nostro “lavoro”, di divertire e divertirsi. Posso dire con estrema certezza che noi esistiamo sul territorio e che non facciamo le belle statuine. 3


Manuale di sopravvivenza per gli studenti del liceo classico di Ester Refatta e Sara Cinesca

Questa sezione è stata pensata in particolare, ma non solo, per le quarte ginnasiali, che forse ancora non hanno ben preso consapevolezza di cosa significhi fare il Liceo. Le regole per affrontare al meglio i cinque anni che ancora (poverini) avete davanti sono poche, semplici, chiare, ma indispensabili. Le prime nascono sulla falsa riga delle regole della corsa, questo implica NATURALMENTE che sia necessaria una buona dose di resistenza psico-fisica e tanta buona forza di volontà. 1. Essere sempre pronti a scattare…1,2,3..VIAAAAA! 2. Prima di partire allargare i gomiti per cercare innanzitutto di rimanere in piedi, e, nel caso, arrivare primi. 3. Non rimanere mai indietro per nessun motivo. 4. Assolutamente vietato fermarsi per assecondare qualsiasi tipo di bisogno fino al raggiungimento del traguardo. 5. Soprattutto nei primi anni è fondamentale l’esercizio, seguendo il prezioso esempio dei nostri amati modelli greci, che ogni giorno si allenavano nel gimnasium..anche se ciò significa sacrificare hobbies, amicizie o frivolezze simili. 6. Una volta arrivati stremati, affaticati, distrutti, sudati ma vincitori, sbandierare al mondo la nostra superiorità da Liceo Classico. Inoltre, non dimenticate la regola su cui si basano tutte le altre: DARE SEMPRE LA VITA per il Liceo!!

TEST: SEI UN VERO STUDENTE DEL LICEO CLASSICO SE… A scuola: ☺se almeno una volta hai replicato:“Non ho sbagliato a tradurre, ho solo reso la frase in un italiano migliore” ☺se appoggi la tesi che l’ottativo sia un po’ come un leone affamato. È difficile trovarsene davanti uno, ma quando succede sono cavoli amari ☺se durante un compito di greco non trovi una parola sul vocabolario e speri fino alla fine che sia un avverbio ☺se, quando ti incitano a tradurre dicendoti:”Dai, scopri quello che ti vogliono dire gli antichi”, rileggi e pensi che qualcosina vorresti dirgliela tu ☺se discorrendo con un ragazzo del ginnasio, con aria superiore affermi: “Non faccio più il ginnasio: le versioni io non le traduco. Io le versioni le rendo” ☺se hai un nano secondo per andare in bagno perché spiegano a raffica ☺se studi gli stessi argomenti a: italiano, storia, letteratura inglese, filosofia... ☺se almeno una volta hai visitato splash latino! ☺se anche tu credi che: quando Jovanotti cantava “Dove le regole non esistono, esistono solo le eccezioni” … pensava senza alcun dubbio alla grammatica greca

Confrontandoti con alunni di altre scuole: Mostenti una retorica aulica e incomprensibile davanti a volgari insulti Mhai la meglio in una discussione semplicemente sostenendo le tue tesi con frasi latine completamente estrapolate dal contesto palesando così la tua superiorità culturale e vincendo quindi la contesa senza avere reali argomentazioni Musi espressioni come:”in primis” “in vino veritas” “omnia super pares” ecc. Mparlando del futuro dici: “Il mio diploma sarà anche inutile per il mercato del lavoro, ma almeno io so usare il congiuntivo” M“Questo, mio caro, non è il 2010. Questo è il 2763 ab urbe condita” M“Le feste di compleanno sono per i pezzenti. Noi facciamo i simposi di compleanno” M“Noi non andiamo al bagno … andiamo al vespasiano”. 4


Piccoli statisti crescono di Giorgio Ramaccioni

Mercoledì 27 ottobre 2010, non una data qualunque. Gli alunni del Liceo sono chiamati a valutare attentamente, durante un’apposita assemblea, le proposte avanzate dai candidati al Consiglio d’Istituto. Indubbiamente, la sensazione che in una scuola di modeste dimensioni, quale il Plinio, i consensi siano assegnati in partenza, vuoi per la popolarità degli aspiranti rappresentanti, vuoi per la presenza in un’unica lista di vari candidati adulti, è forte; tuttavia non possiamo esimerci dall’esercitare i nostri diritti di studenti. Nel caos più completo, dopo una simbolica ora di lezione, i ginnasiali sono convocati nell’aula magna. Nel sonnolento flusso dei più giovani discepoli, sono facilmente distinguibili i candidati, fra cui il sottoscritto, i quali percorrono freneticamente, brandendo fogli ed appunti vari, le brevi scalinate che li separano dalla gloria (o gogna) politica. Giunto nell’αγορά, luogo preposto all’adunanza, insieme al mio compagno di lista Francesco Rignanese, faccio la conoscenza dei miei avversari. Questi, sfoggiando un sorriso a mezza bocca, mi stringono guardinghi la mano, assorti nelle loro elucubrazioni pre-orazione. Dopo numerosi richiami da parte della rappresentante uscente, unica superstite dell’ultimo triumvirato, ci schieriamo ai blocchi di partenza, occupando gli esigui scranni riservati ai relatori di cui dispone la nostra scuola (altro che nuova macchinetta del caffè…). Seguono, nell’ordine: l’effettiva presentazione dei programmi

(che a parer mio non dovrebbero essere necessariamente definitivi), il dibattito (termine a dir poco eufemistico, considerando il tenore della discussione); alterchi e conseguenti rappacificazioni di facciata fra i contendenti. Fra interventi poco felici di studenti faziosi (i ginnasiali avranno inteso!) e chiarimenti di tipo giuridico, circa i programmi, da parte di insegnanti navigati, la prima trance dell’assemblea volge al termine. Attardandomi a dialogare, molto democraticamente, con alcuni miei detrattori, ancora stordito dal fiume di parole, spesso intempestive, udite nelle due ore precedenti, guadagno con estrema flemma la mia aula. Durante l’intervallo, riavutomi dalla sbornia verbale, ho l’occasione di meditare sulle intenzioni elettorali mosse dalle rispettive liste. In particolare, una esponeva punti incredibilmente simili a quelli presentati l’anno scorso, forse troppo timidamente, dal mio schieramento. Ora, considerando che la lista in questione ha riscosso un discreto successo popolare, date inoltre le numerose critiche rivoltemi in occasione dell’ultima tornata elettorale dagli allora candidati, sorge spontaneo in me un dubbio: non è forse che le contestazioni da cui sono stato subissato in questi due anni siano state pretestuose? Si fa un gran parlare di esperienza, nel mio caso “carente”, ma non è forse questa il riflesso dell’impegno che uno studente profonde nei confronti della sua scuola? Ai posteri, o meglio agli elettori, l’ardua sentenza.

Alle urne, alle urne! di Michele Rondoni

Mercoledì 27 Ottobre ha avuto luogo l’assemblea d’istituto indetta per la presentazione dei candidati alle elezioni dei rappresentanti d’istituto, previste per il 7 e 8 novembre. Indipendentemente dal risultato di tale assemblea, di cui parleremo sotto, ha fatto riflettere,e discutere, la modalità di svolgimento della stessa: due sole ore, non un minuto di più, testimonianza della confusione in cui è piombata la scuola per tutto il mese. Ma andiamo all’assemblea, che come sempre diventa luogo di democratiche discussioni, soprattutto tra i candidati, in cui ognuno prende la parola, chiarisce il concetto da esprimere a potenziali votanti,e con gentilezza degna del manuale del bon ton lascia a fine intervento il microfono all’“avversario”, che per l’occasione diventa un fratello più che un nemico. Le capacità oratorie, e l’italiano impeccabile, rendono il confronto degno di un parlamento. Da notare l’attenzione prestata dagli studenti, tutti quanti composti, attenti e partecipi come sempre accade. Soprattutto dalle ultime file, dove un silenzio di tomba faceva presagire segni sinistri e misteriosi, degni del miglior film horror della storia, e dove nemmeno al grido di battaglia arrivato dall’alto “Sin

ce si prova” abbiamo assistito a un sussulto. Ma passiamo alla descrizione dei punti chiave dei programmi elettorali: programmi innovativi, rivoluzionari e fantasiosi, con tematiche forti e sentite, che hanno colpito l’animo degli studenti. C’era chi sfruttava senza pagamento del copyright l’immagine “ispiratrice” di un grande politico quale super Mario, chi invece diligentemente ha proposto un piano ricco di punti, o chi in maniera trasgressiva il programma non l’ha proprio presentato: insomma uno show! Come sempre il nonnismo è stato messo da parte e la certo discutibile candidatura di due ragazzi alle prime armi non ha creato scalpore, ma ha anzi suscitato l’interesse degli avversari che con questi si sono confrontati con un totale rispetto. Più che assistere ad una assemblea scolastica, sembrava di essere nell’antica agorà greca, che tanto ci appassiona, teatro di scontri politici appassionati e appassionanti. L’assemblea è stata chiusa con un applauso ed un’ovazione, e con la convinzione di essere stati partecipi di un solenne momento di ritrovo e di confronto, moralmente ed umanamente significativo, e con la convinzione che un vento di cambiamento si sia finalmente alzato. 5


Qualche considerazione semiseria sulla questione delle gite scolastiche di terza liceo… di Paolo Venturini

Puntuale come un orologio svizzero, è ripartita, ineunte anno scholastico, la solita, grottesca farsa dell’organizzazione (si fa per dire) di quelli che solo i burocrati ministeriali e gli insegnanti rassegnati continuano a chiamare pomposamente, con sprezzo del pericolo e, soprattutto, del ridicolo, viaggi d’istruzione. In particolare, ci riferiamo qui al viaggio d’istruzione supremo, l’esperienza unica e irripetibile, l’obiettivo di un intero quinquennio di studi liceali, la madre di tutte le battaglie: il mitico viaggio all’estero di terza liceo, quello che si ricorda fino alla vecchiaia, raccontandolo a nipoti e bisnipoti, come il ballo delle debuttanti nelle famiglie bene dell’Ottocento o il battesimo del fuoco nelle trincee della Grande Guerra. Eh sì, questo è il bello della gioventù: il mondo è devastato dai conflitti, la crisi economica impazza, il futuro è nero all’orizzonte, Bin Laden non è stato catturato, il buco dell’ozono non è stato tappato, ma chissenefrega, qui il problema vero e pressante, quello che toglie il sonno e fa venire la colite, è stabilire se si va a Barcellona o a Berlino, a Londra o a Parigi. Il meccanismo, grosso modo, è il seguente: a inizio anno gli studenti di terza liceo, già in ansia non per gli esami ma per la gita, si ritrovano, discutono, propongono, inveiscono, brontolano, litigano: c’è chi propone Vienna perché c’è stata una sua zia e le è piaciuta; chi la rifiuta perché c’è stato un suo cugino e ha detto che non c’è niente, chi ha trovato su Internet tante cose interessanti su Berlino, chi loda il fascino di Praga senza sapere, beninteso, dove si trovi esattamente, chi esalta Parigi, perché, lo sanno tutti, Parigi è sempre Parigi. Insomma, il tenore della discussione è più o meno questo, ma alla fine della fiera, tra stre6

piti e clangori, votazioni contestate e repentini cambi di opinione, si arriva in qualche modo alla scelta di una meta definitiva, tra le tante che sono state oggetto di discussione. Va da sé che le motivazioni della decisione finale, quelle vere, non quelle ufficiali che, con le faccine compunte, gli studenti dichiarano in Consiglio di Classe, restano sottaciute. Ma, in sostanza, esse si riducono a una: la vivacità, vera o presunta, della movida notturna della metropoli prescelta; dunque si valutano con attenzione orari delle discoteche, disponibilità di mezzi pubblici per le sortite notturne, usi locali relativi al consumo e allo smercio di alcolici, mentre i più audaci si occupano della praticabilità di trasgressioni, diciamo così, di più alto livello. Partorita la decisione, bisogna però farla approvare dagli organi della scuola, in primo luogo dai Consigli di Classe: mettiamo dunque che sia stata scelta come meta, che so, Barcellona. Gli studenti si sono documentati e hanno scoperto che a Barcellona ci sono tante belle cose. Arrivano così in consiglio con un foglietto in cui hanno elencato, tanto per dire, museo di Picasso, Sagrada Familia e roba del genere. Poco importa se la maggioranza della classe fino al giorno prima pensava che Picasso fosse una riserva del Barça e la Sagrada Familia una variante catalana della sangria: a diciotto anni, si sa, gli interessi sono come gli amori, improvvisi e totalizzanti, dunque chi può contestare questa passione per l’arte moderna? Ecco così trovate le “motivazioni didattiche”, perché sia chiaro, noi siamo un liceo classico e se andiamo a Barcellona non è mica per fare casino! A questo punto la palla passa agli insegnanti: e così, con tali nuovi figuranti, la commedia, da surreale qual è stata finora, si imbruttisce,

diventa triste; in effetti, gli studenti perseguono, come è comprensibile che sia, il loro interesse; in Consiglio di Classe, invece, emerge lo squallore profondo di una classe insegnante inerte, pigra, priva di piglio e di mordente e intellettualmente molto scialba. Tutti i docenti, in privato, sostengono che le gite sono per lo più occasione di sballo e confusione, ma in consiglio questo non si può dire: gli studenti si irriterebbero come verginelle offese, dunque la fiera dell’ipocrisia va avanti. I docenti, in genere, non fanno grosse opposizioni alla scelta, talvolta lodano addirittura gli studenti per le brillanti “motivazioni didattiche” trovate – giuro: mi è capitato di sentire anche questo… – solo che fanno fatica a dare la disponibilità ad accompagnare la classe: tra genitori invalidi, figli piccoli, mariti gelosi, amanti focosi, animali domestici, c’è poco da fare, si deve raschiare il fondo del barile e trovare sempre i soliti cirenei che si sobbarcano l’impegno. Nessun docente, di norma, si pone gli unici problemi davvero rilevanti; in primo luogo: è giusto che i docenti accompagnino praticamente gratis le classi in gita, con tutte le responsabilità e la fatica che ciò comporta? Tale problema, peraltro, dovrebbe essere sollevato non come questione personale che ogni docente valuta a modo suo, ma da tutti gli insegnanti come questione di principio a prescindere dalla propria disponibilità: hanno i docenti la capacità di pensare ai problemi in termini generali o sono così intellettualmente avvizziti da occuparsi solo di scansare l’incarico di accompagnatore in una gita che poi votano senza problemi perché, si sa, non si può mica negare la gita alle terze liceo? Secondo problema, e ancora più importante: la gita proposta ha una


vera motivazione didattica? E motivazione didattica non significa entrare in qualche museo, come un dazio inevitabile che gli studenti devono pagare prima di dedicarsi alla movida notturna, vero scopo del viaggio. Motivazione didattica significa che si parte per andare a vedere solo ed esclusivamente qualcosa che è legato in modo non occasionale, ma strutturale e profondo, ad un progetto didattico che esige, per la sua stessa completezza, il viaggio d’istruzione. Non basta, insomma, andare a vedere qualcosa che, vagamente, potrebbe rientrare nel programma di arte, di storia o di italiano. Non basta, soprattutto, scegliere a caso una metropoli europea. Nessun insegnante, però, pone mai questi problemi, i presidi in genere glissano sulla questione perché per loro l’importante è non scontentare l’utenza e così la dignità della scuola (e non solo della nostra, beninteso) va a ramengo. In questa commedia umana, poi, non manca mai l’insegnante che trova giustificazioni apparentemente razionali per un simile andazzo: “la gita – dice, ma non ci crede neanche lui – è anche un’esperienza di socializzazione, in terza liceo, poi, assume un valore importante anche sul piano umano, è l’ultimo anno che i ragazzi stanno insieme e bla bla bla”, insomma, le solite scempiaggini pseudopedagogiche che potevano avere un senso una volta, quando molte persone avevano minori possibilità di viaggiare, ma non oggi, quando tutti, ivi compresi gli studenti, vanno praticamente ovunque spendendo poche lire. La situazione comunque è questa, piaccia o meno, e invertire la rotta sembra una battaglia impossibile, almeno finché permarrà questo spirito rinunciatario nella categoria di cui chi scrive fa parte, dunque coraggio e pazienza perché la notte è ancora lunga.

Un’alternativa al nucleare è possibile di Eleonora Pasqui

Mentre nella maggior parte del mondo, per far fronte all’inquinamento atmosferico causato dagli idrocarburi e all’esigenza energetica, stanno cercando fonti energetiche alternative sia al nucleare che al petrolio e tentano di migliorare l’utilizzo delle risorse naturali, in Italia si cerca di promuovere l’energia nucleare, tanto che entro il 2013 inizieranno i lavori di costruzione delle nuove centrali. Senza dubbio il nucleare presenta i suoi vantaggi: infatti consente di ridurre in modo significativo le emissioni di CO2 (che ammontano a 28,8 miliardi di tonnellate immesse nell’atmosfera), può garantire al Paese una maggiore indipendenza energetica in quanto riduce l’importazione di petrolio e possibili shock esterni sull’economia; consente ai governi una minore spesa per quanto riguarda i pagamenti con l’estero e tutto ciò produce una maggiore stabilità economica nazionale. Altro punto a favore del nucleare è dato dal fatto che esso può favorire maggiore competitività del Paese e inoltre può sviluppare le infrastrutture e costituisce un passo per la riqualificazione dell’industria italiana del settore e per la sua ricollocazione sul mercato nazionale ed internazionale. Tuttavia l’altra faccia della medaglia mette in luce tutti gli aspetti negativi, o per meglio dire, disastrosi di questa fonte energetica. In caso di incidente infatti le radiazioni a cui la popolazione viene esposta causano un grande rischio di morte per leucemia e tumore, come è stato dimostrato con l’incidente avvenuto a Chernobyl. Altro fattore altamente dannoso è la emissione di scorie radioattive, le quali non possono essere distrutte e l’unica soluzione sembra essere lo stoccaggio per migliaia di anni in depositi geologici o ingegneristici. Difficoltosa è anche la ricerca di luoghi dove ubicare le centrali, in quanto nessuna comunità è disposta ad offrire il suo territorio o luoghi limitrofi ad esso per la costruzione degli impianti. Inoltre non è da escludere il pericolo del terrorismo: le centrali infatti potrebbero essere oggetto di attentati e questo porterebbe a cause catastrofiche paragonabili al disastro di Chernobyl. Altro punto critico è il trasporto di materiale nucleare, poiché la scienza non ha ancora trovato il modo di distruggere le scorie all’interno delle centrali stesse, quindi prevedibile è la protesta delle popolazioni che vedranno attraversare le loro città da treni o mezzi di trasporto carichi di materiale radioattivo. Dunque sorge spontanea la domanda se davvero l’energia nucleare sia l’unica alternativa possibile al petrolio. La risposta a tale quesito è negativa. Esistono infatti altre fonti di energia, come ad esempio l’eolico. Confrontando infatti il nucleare con l’eolico si nota che è molto più conveniente quest’ultimo in quanto a parità di investimenti si darebbe l’energia al doppio delle abitazioni. Altra alternativa al nucleare è l’energia solare, che contribuisce al miglioramento climatico e diminuisce la dipendenza dai combustibili fossili. Dunque un’altra fonte di energia non inquinante come il petrolio e non pericolosa come il nucleare è possibile, basta voler fare i giusti investimenti. 7


Viaggio d’istruzione/fitness a Siracusa Si tratta del famoso viaggio d’istruzione in Sicilia dei ragazzi delle ex seconde liceo A e B anno scolastico 2009/2010 di Leonardo Anderini

Come dimenticare questi 5 giorni di maggio (23-28/05/2010), quando noi alunni delle ex seconde liceo A e B abbiamo provato in prima persona cosa significhi psicologicamente e FISICAMENTE affrontare un viaggio “terra marique”, condotti per le vie impervie e tortuose di Sicilia da una Preside in cerca d’avventura, che con passo svelto come il lampo capitanava la spedizione tra le “meraviglie sicule dell’Ellade” (Cit. Prof.Maria Rossella Mercati, espressione utilizzata all’incirca 89847874 volte durante la gita) e da due proff molto alla “turisti per caso” con tanto di cappellino con visiera e occhialini da sole (poco fashion). La tribolazione.... cioè il viaggio ha avuto inizio con la tipica “alzataccia” di mattina presto per arrivare in tempo a Napoli e imbarcarsi alla volta di Catania. Mai scorderemo la notte tempestosa passata tra le “comodissime” e soprattutto “stabili” poltroncine sul ponte del traghetto, dove avremmo dovuto trovare riposo e recuperare le forze per affrontare la corsa campestre del giorno dopo... Bello svegliarsi la mattina seguente stesi in terra con gli occhi rivolti al cielo e al Prof Pellegrini che degustava il suo cornettino e cappuccino! Il Negriero, fresco come una rosa dopo il riposo nella sua cuccetta “millecomfort”, ci svegliava con aria soddisfatta mentre noi indo-

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lenziti come non mai, dopo la notte passata in terra tra i rumori del ponte e il rollio del traghetto, a stento ci reggevamo in piedi... Mai scorderemo quello che abbiamo visto in terra sicula sebbene sgusciassimo a velocità inaudite dai centri storici pieni di vita e di arte delle città più famose di Sicilia agli affascinanti ruderi della civiltà ellenica, che ora divenivano teatro di episodi, aneddoti, risate e foto da calendario (come dimenticare il sirenetto Vandini in posa tra le arcatelle del teatro greco-romano di Taormina). Fra qualche tempo infatti pochi, pochissimi si ricorderanno nel dettaglio Catania e la casa del Verga , Siracusa e l’ “Orecchio di Dioniso”, i ritrovamenti archeologici, l’architettura barocca... Ma quanti ricordi per le vie di Taormina, Siracusa e Catania; quanti negozi, quanti cannoli, quanti arancini, quante granite !! E che dire delle serate passate in compagnia sugli spalti di dura roccia del teatro greco di Siracusa (comodissimi per il nostro “osso sacro”), dopo aver camminato ore e ore per le vie delle città sotto i caldi raggi del sole, assaporando le rappresentazioni di due tragedie ( l’Aiace di Sofocle e l’Ippolito di Euripide) che ormai dopo un intenso e lungo studio conoscevamo come le nostre tasche ( più o meno). In quelle ore di spettacolo ci siamo sorbiti stavolta dal vivo in carne ed ossa tutte quel-

le vicende di massacri,struggimen ti,dolori, inganni, menzogne e “liti coniugali” che hanno intrecciato la nostra memoria per tutto l’anno scolastico studiando i tre famosissimi tragediografi. Dopo esserci sorbiti monologhi su monologhi e colpi di scena che ogni tanto destavano ( per fortuna) la nostra attenzione messa a dura prova dalla pesantezza degli argomenti delle tragedie (sebbene fossero interpretate in modo avvincente) finalmente arrivavano i momenti di relax all’albergo anche se poco potevamo rimanere svegli.... Non tan-

to perchè non ci piacesse un po’ di “Vida Loca”, quanto per la pesante (a tratti insostenibile) stanchezza mentale e fisica provocata dalle innumerevoli attività proposte dalla nostra guida/trottola ( Preside). Un bilancio della nostra gita per i secondi di quest’anno?? Vale tutta la fatica che si spende nel farla! Sia per le qualità artistiche e culturali che propone la mèta e gli spettacoli teatrali, sia per il lato ricreativo della gita.


Questione crocefisso: due pareri a confronto ...e quelle del no Le ragioni del sì... di Roveno Valorosi

La recente polemica se sia giusta o meno la presenza del crocefisso negli edifici pubblici italiani, in particolare nella scuola, è nata con l’accoglimento da parte della Corte di Strasburgo del ricorso di una cittadina finlandese residente in Italia favorevole alla rimozione dello stesso dalla classe di suo figlio. È la tradizione, il bagaglio culturale di un popolo, di una Nazione, dei suoi cittadini, a rendere unito il Paese, fondato su comuni radici che sono espressione della nostra moderna società. Il crocefisso è emblema della nostra storia ed è un errore rinnegarlo, oltre che come simbolo religioso, come simbolo storico-culturale. Inoltre il suo significato è tutt’altro che negativo: Cristo si è immolato per l’uomo, la sua morte rappresenta la nostra Salvezza. Gesù è portatore di valori e principi sani, condivisi da atei o credenti di altre religioni, quali la fratellanza, l’amore, la carità, il perdono, la libertà, lo scagliarsi contro l’ipocrisia e la falsità che è intrinseca nell’animo umano. Un simbolo non è dannoso fin quando che non viene imposto violentemente, e garantisce la libertà del proprio credo. Siamo ossessionati, perseguitati dal “politically correct”, come dicono gli inglesi. Dobbiamo destreggiarci furtivamente per non offendere o turbare chi potrebbe pensarla in maniera differente, velandoci di buonismo e moralismo. Il fatto è che siamo vigliacchi! Siamo portati, da qualche astrusa forza, a negarci davanti agli altri, ad essere pronti a rinnegare noi stessi e ciò in cui crediamo, solamente per evitare di alzare polveroni e inutili scompigli, per evitare di diventare orchi intransigenti e intolleranti. Si possono mantenere posizioni forti senza però ledere la libertà di pensiero altrui, argomentando nel reciproco rispetto, evitando di mettere in discussione la liberalità del nostro Paese. Il progresso non si fonda sull’accettazione passiva di ciò che ci viene propinato, ma sulle solide basi della nostra passata ed attuale società, specchio della storia, della cultura e della religione dell’Italia. Questi cicalecci mentali ci allontanano e ci dividono maggiormente, anche davanti al simbolo della Redenzione, che invece dovrebbe unirci e scaldarci per una comune riflessione sulla brutalità e sulla volgarità di questo mondo. Ogni giorno la libertà di molti uomini viene estinta, così come le loro idee: il crocefisso non fa che ricordarci i tormenti di chi lotta e si sacrifica per una causa.

di Francesca Marinelli

Sono due i punti che ho ritenuto importanti per determinare la mia opinione su questo difficile argomento: il crocefisso è innegabilmente un simbolo religioso e lo Stato è – lo afferma la Costituzione stessa – laico. Ed è proprio quest’ultimo aspetto, la laicità dello Stato, di cui dovremmo andare fieri (simbolo di civiltà e progresso culturale, in quanto garante di libertà religiosa), che a volte viene messo da parte a causa di una certa forma di patriottismo, di un egoismo forse, che ci impedisce di prendere una posizione eticamente più corretta sulla polemica sollevata dalla madre finlandese. Considerare il crocefisso come simbolo esclusivamente culturale, sebbene non solo l’Italia, ma tutta l’Europa comprenda nelle proprie radici il Cristianesimo, è obiettivamente sbagliato. Tutti siamo d’accordo, considerando le dovute differenze tra i due casi, nel condannare la presenza nella scuola di Adro, nel bresciano, di centinaia di simboli leghisti, mentre invece, nel caso del crocefisso, da qualsiasi parte politica si continua a negare la semplice e oggettiva, a mio parere, verità. Forse perché l’orgoglio italiano è stato ferito dalle proteste di alcune minoranze religiose (la religione cattolica è diffusa per il 91% circa nel nostro Paese), o magari quel ricorso, il solo immaginare di rimuovere il crocefisso da un muro, viene visto come una forma di vera e propria violenza. Ritengo invece che quello che si dovrebbe considerare è che sarebbe un orgoglio per il nostro Paese poter garantire ad ognuno la possibilità di recarsi in un edificio pubblico completamente spoglio da qualsivoglia simbolo, politico o religioso che sia, poter quindi garantire a tutti la vera libertà. Infatti, a parte quel ricorso di svariati mesi fa, praticamente nessuno si era fatto avanti a richiedere la rimozione del crocefisso. Siamo perciò noi, ora, a dover aprire gli occhi e uscire dal nostro limitato punto di vista egoisticamente incentrato su noi stessi, la nostra religione, i nostri simboli, e concentrarci invece su quella che altro non è se non la più semplice realtà (supportata dalla nostra stessa legge): i simboli possono essere portati su di sé, essere posti in appositi spazi (religiosi o privati); gli edifici PUBBLICI, invece, sono di tutti, perciò non possono, per principio e per nessun altra futile ragione (né perché siamo un Paese a maggioranza cattolica, né perché il crocefisso provochi un effettivo fastidio a chi invece cattolico non è) essere adornati con simboli di nessun genere. Ancora mi stupisco come da considerazioni a mio avviso scontate, perché fondate su una oggettiva verità, possa essere nata una polemica che ancora ha come risultato un nulla di fatto. 9


Riflessioni…….. di Sergio Magalotti

L’empatia è un sentimento che nasce spontaneamente tra alcune persone, difficile costruirla, se poi qualcuno cerca di farlo, magari provando a edificarla con atteggiamenti falsi si ritrova ad aver creato un castello di sabbia … In questa logica quotidiana, odierna, semplicistica “guardare l’erba del vicino e vederla sempre più verde è la considerazione più facile”: uno non si accorge di quante perle ha nel proprio, di quanto è fiorito lo stesso, ma si accorge dell’altro, senza vedere come è pieno di..., ma comunque la vede verde, più fiorita e sicuramente più bella. Questo per riferirsi a qualche battuta di comodo, ma sicuramente non pensata, forse scaturita dall’inconscio, “ha lavorato così bene, vince sempre, i risultati sono tutti i suoi, perché non si trasferisce da noi!”, normale pensare ciò, ma riflettendo, perché deve essere sempre l’altro a dover fare qualcosa, perché non posso essere io qualche volta a dire e riconoscere che forse poteva essere diverso se … dover additare sempre la colpa agli altri e i meriti a se stesso è la considerazione più egoistica, egocentrica, riduttiva. Sembra che qualche volta l’istinto, prettamente del regno animale inferiore, debba prevalere, “mors tua vita mea”, dobbiamo pensare ed essere leoni per poter sopravvivere in questa giungla. Per un “De Cubertiano” come mi ritengo, diventa inaccettabile ciò, l’importante sembra essere la vittoria, non il partecipare. La vittoria prima o poi arriva, non si deve necessariamente pensare alla vittoria come meta finale da raggiungere a tutti i costi e con qualunque mezzo, deve essere una vittoria vissuta, sudata, guadagnata e deve riempire di gioia qualunque passo per arrivarci. Non sono parole di un cattolico professante, ma di un laico prossimo alla pensione, ma con ancora tanto entusiasmo nell’insegnare, come il primo giorno e forse anche di più. Dopo questa breve ma attenta riflessione, nata e forse 10

sognata, in una mattina nebbiosa, posso dire due parole sulla Stra San Florido che è una gara cittadina voluta fortemente dagli insegnanti di Educazione Fisica e dal Distretto Scolastico in una bella realtà che forse senza falsa modestia ci invidiano in tutto il territorio provinciale. Siamo riusciti a costruire un qualcosa di positivo, sociale, di relazione interpersonale fra gli alunni, gli insegnanti e il territorio. Trovare in una gara sportiva chi vuole primeggiare a tutti i costi è “il differente” che ti fa capire se hai trasmesso qualcosa o solo fumo negli occhi, vedere che ciò avviene sempre in maniera più ridotta o quasi assente ti dimostra come stai insegnando. Circa trecento ragazzi correvano per le vie del centro storico, per qualche momento la città ha visto e sentito questi giovani correre, sudare, faticare ma anche gioire. Siamo riusciti a concludere la gara abbastanza bene, “gara bagnata, gara fortunata” chissà se questi detti o luoghi comuni sono da sfatare o meno, fatto è che la giornata è stata magnifica, ci siamo bagnati, abbiamo corso, per qualcuno è arrivata la vittoria per altri no, ma non ho visto un ragazzo triste, non ho visto un giovane che criticava l’altro, ho visto studenti che forse sognavano di vincere, ma hanno detto “ sono arrivato in fondo ce l’ho fatta” . È un bellissimo insegnamento, una riflessione forte, toccante fatta dagli studenti, essere umili per poter apprendere e non solo insegnare. Una collega che per la prima volta ha partecipato a questa corsa ha detto: “non pensavo che una gara che sembrava quasi organizzata alla carlona, potesse avere uno svolgimento così preciso, puntuale e ordinato in tutte le sue fasi, dalla partenza all’arrivo delle quattro gare in programma, vedendo poi l’entusiasmo crescere nei ragazzi e negli insegnanti”.


Scatta l’ora dell’etilomentro e i ragazzi si divertono di più di Cecilia Robellini

Binge drinking, happy hour, rave party. Sono tutti termini che richiamo alla mente una sola cosa: alcool a volontà. Termini internazionali, universali, come la moda che è ormai diventata un “must” per i giovani adolescenti del ventunesimo secolo : l’uso, ma soprattutto l’abuso di alcool. E l’Italia è al primo posto nella classifica mondiale: si comincia a bere a partire dagli 11 anni addirittura, secondo i dati resi noti da un’inchiesta dell’Istat. Un dato che stupisce considerando che la vendita di bevande alcoliche è consentita solo a persone che abbiano già compiuto i 16 anni. Bere perché fa tendenza, perché rende forti, perché è di moda. Bere per sparire, per non esistere o per sottolineare l’opposto, facendo finta di essere chi, senza quell’inibizione data dall’adrenalina che sale e dalla percezione distorta delle cose che cancella qualsiasi paura e timidezza, non saresti mai. Bere per divertimento, per trasgressione, per conformismo, per socializzazione, e a volte anche per noia. Bere per bere, a qualunque ora e senza limiti: dà un gusto diverso alla vita. Già, perché l’euforia, la perdita delle inibizioni e dell’autocontrollo, l’ebbrezza, rendono una realtà così fastidiosa e difficile da affrontare, facile da dimenticare. L’obbiettivo è perdere il controllo, non avere pensieri.

E tutto questo nasconde la fragilità di chi ha paura di restare solo e di non essere accettato; la difficoltà di chi non riesce a relazionarsi in modo diretto e brillante con gli altri; il timore di non essere accettati; la noia di chi ha tutto e non ha bisogno di chiedere nient’altro dalla vita, perché gliel’hanno già fornito, ma ciò lo ha reso solo più debole e incapace di iniziativa. Cosa succede quando questi adolescenti diventano adulti e patentati, e il desiderio di potersela spassare ancora un po’ sopraggiunge anche quando si ha la responsabilità della propria e delle altre vite che si incontreranno per strada? Ecco allora una nuova legge, operativa dal 13 di questo mese, che si aggiunge a quella già in vigore nel Codice della Strada che fissa il limite del tasso alcolemico per i neopatentati pari allo 0,0, mentre per tutti gli altri allo 0.5, se si intende mettersi al volante. I titolari e i gestori di bar e locali che dopo la mezzanotte somministrano bevande alcoliche o superalcoliche, sono obbligati a

mettere a disposizione dei clienti gli etilomentri chimici o elettronici. Gli inglesi chiamano l’ultima bibita “The last one for the road”, frase incerta che può star a significare sia la legittimazione sia il pericolo dell’ultimo bicchiere fatale. È un gioco, quindi. Un gioco che può costare molte vite, ma un gioco. E questa legge ne tiene conto? Tiene conto del sorteggio che si fa il sabato pomeriggio per decidere chi debba prendere l’auto la sera e quindi sì, restare sobrio, mentre nel frattempo, però, tutti gli altri possono tranquillamente sbronzarsi a loro piacimento? Tiene conto del fatto che “giocare con l’etilometro” per vedere chi raggiunge il tasso alcolemico più alto rende ancora più divertente la sbronza? La legge vieta anche di somministrare alcolici al di sotto di 16 anni, ma i ragazzi si fanno furbi e se le comprano al supermercato le bevande superalcoliche: rum e pera, vodka tutti i gusti e via. Il proibizionismo rende più divertente la trasgressione. Quello che bisogna cambiare è la mentalità. L’alcol sembra essere l’unico rimedio alla noia, il sostituto alle nostre passioni, ai nostri desideri, ai nostri progetti ed entusiasmi più sani. E certo, chi non ha mai trovato piacevole divertirsi in compagnia, magari con quel pizzico di disinibizione in più? Questo però non deve diventare il fine dei nostri week-end e delle nostre settimane. Riflettiamo. Perdere il controllo non aiuta. Rende solo più difficile diventare chi non avremo mai il coraggio di essere.

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Direttore: Prof. Andrea Pellegrini. Redazione: Barberini, Borchiellini, Brozzi, Galasso, Gildoni, Giorgi, Marinelli, Mariucci, Palmi, Pazzagli, Ramaccioni A., Ramaccioni G, Robellini, Rondoni, Sideri, Tosti, Valorosi. Progettazione grafica: Ficarra S.

Nemo athleta sine sudoribus coronatur (San Girolamo) Esplode al Liceo Plinio una vera e propria febbre poetica. Copiosa la messe di liriche giunte in redazione. Una sola merita la ribalta della pubblicazione. Corposo e pregnante il suo messaggio di Dante Ridon

E poi dicono che i giovani abbiano smarrito la sensibilità, che siano indifferenti, che pensino solo al proprio interesse e al “tutto e subito”. Ebbene, dobbiamo ricrederci. Nelle loro vene pulsa la poesia. Testimonianza ne è il numero di canzoni, canzonette, sonetti, madrigali, ballate giunto senza soluzione di continuità in redazione. Abbiamo dovuto svolgere un lavoro certosino ed estenuante per stabilire quale dovesse essere pubblicata. L’analisi dei testi è stata dunque minuziosa e attenta, perché complessa è l’interpretazione e l’esegesi di una scrittura poetica. La poesia infatti non si improvvisa, richiede sì ispirazione, ma anche conoscenza del multiforme universo della parola e labor limae. Poeta è colui che possiede una sensibilità fuori dal comune e dalla provincia; poeta è colui che dà al banale una veste nuova; poeta è colui che ammanta la realtà con il sogno. La poesia introduce in un universo parallelo, in una dimensione magica. È estasi, mistica ascesi verso una conoscenza tutta nuova, colta da strumenti nuovi, non più razionali, ma immaginifici. Sono pertanto giustificati gli sforzi di tutta la Redazione, che, tra tanti bellissimi testi, ha deciso di conferire l’alloro a questa delicatissima e tenue poesia, il cui autore si cela nell’oblio dell’anonimato. Il capolavoro si presenta senza un titolo perché esso, coercitivo, limiterebbe la dirompente forza del messaggio. Quello che noi di PLINEWS possiamo fare è sottolinearne la musicalità, le callidae iuncturae, lo stile libero, senza inversioni a ‘u’, la forza psicagogica e psicopatica, la potenza espressiva. La struttura del testo è semplice, figlia di un’attenta supervisione sintattico-formale; l’ordo verborum è calibrato, attentamente ponderato, oseremmo dire studiato, visti i parallelismi che si rincorrono come vezzose farfalle e che culminano nella grandiosa climax finale. Il lettore è così letteralmente preso di peso e scaraventato in un tripudio di sensazioni soprattutto olfattive, dalle quali scaturisce un impulso irrefrenabile, una indomabile tensione a lavarsi di dosso la sporcizia della vita. Come sei bella, ascella. Dopo una ricca sudata ti do una profonda annusata: come si riempie la mia giornata! Gaudente e villosa, sei più profumata di una mimosa, più briosa di una gazzosa, o ascella! E quando lo sito tuo si espande con ferma decisione, allora sì che vado in estatica odorazione!


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