WolverNight fanzine - n°56 novembre 2022

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NUMERO 56 Anno 32° Novembre 2022 Redazione: Via Pianezza 2 , Mergozzo (VB) 28802 WN è stampato in proprio. Direttore Responsabile: Leicester Bangles PREZZO cartaceo offerta minima € 3,00 PREZZO pdf offerta minima € 1,00 da versare su PayPal macy69@tiscali.it N° 56 Fanzine provinciale ma di élite XTC Forse non erano i nuovi Beatles The Dukes Of Stratosphear The Moody Blues Paolo Bertrando Paolo Di Modica Skep Wax Brit-Pop XTC vs Thatcher All’interno REWOLVERNIGHT con: The Rolling Stones Muschio R.E.M. Federico Guglielmi Gianni Lucini Marco Denti Fabio Ruta Anna von Hausswolff

EDITORIALE di Maci and The Wolvernighters

Non siamo mai stati una vera fanzine. Quando ho fatto WN non sapevo nemmeno cos’erano le fanzine. Leggevo da poco le riviste di settore, forse da poco più di un anno e di fanzine non ne avevo mai vista una….certo, essendo uno springsteeniano del mio tempo, ma non della prima ora, sapevo che le fanzine si dedicavano a temi o a artisti specifici e a tutto ciò che a loro girava intorno (qualcuna sul Boss l’avevo anche comprata ...). Da li a farne una specifica ce ne passava però Quando leggevo le riviste mi accorgevo che mi incuriosivano più cose e i dischi che compravo non erano solo metal, solo punk, solo indie. WN è sempre stata una grossa pentola dove abbiamo messo principalmente quello che ci piaceva. Così quando un amico mi ha detto: ”Ma nel libretto sulle fanzine, “Sniffando Colla” uscito per Rumore, WN non c’è !! Come mai ?” Io ho risposto : ”Meno male!!!! Ci mancava anche !!!” E’ una cosa sottile ma importante, le fanzine, quelle vere, erano ben altro e noi eravamo, e siamo, soprattutto quello che leggevamo. Tra il ‘90 e il ‘91 ero un disadattato senza arte ne parte, alla ricerca di una direzione, che credeva che musica e politica, con qualche lettura, potessero risolvere tutto. O quasi. Quando vidi Thee Stolen Cars al Bar Roma a Beura Cardezza pensai, me lo ricordo bene, che finalmente anche certo rock era finalmente arrivato nella mia provincia. Ma c’era già tutto. Ero io che stavo fuori... o troppo dentro alle riviste…..figurarsi concepire una fanzine vera….più facile fare un contenitore avendo come riferimento le riviste. Nonostante WN abbia una bella storia alle spalle, nonostante questa rinascita sia importante, il numero scorso sui CCCP è alla terza ristampa per complessive 170 cp, ritengo utile chiarire, in tempi di facili polemiche, che è giusto non stare su quel libro a fianco di tante altre nostre “sorelle” che hanno incarnato lo spirito della vere fanzine meglio di noi. Per quanto mi riguarda noi siamo sempre stati il giornalino scolastico. Lo spazio è esiguo ma prima di chiudere volevo dire che WN torna un po’ al passato inaugurando da questo numero uno spazio che si chiama “ReWolverNight” dove si parlerà d’altro rispetto al tema principale. Infine vorrei dire che gli XTC sono meravigliosi e sono una bella scusa per parlare un po’ della musica che provenie dalla Terra d

Albione. E’ tutto.

Buon Inverno.

WN n°56 Novembre 2022 Anno XXXII

Redazione in carne e ossa: Mauro Giovanni Diluca, Giorgio Ferroni, Michele Griggi, Kurt Logan, Angelo Monte , Alberto Nobili, Agostino Roncallo, Massimiliano Stoto, Lewis Tollani, Sauro Zani.

A questo numero hanno collaborato: Marco Denti, DJ Kremlino, Flavio Minoggio, Fabio Ruta, Emanuele “Nolo” Marian e Massimo “Nana” Toscani Guida Spirituale: Lord Cornelius Plum Disegno logo di copertina (testata) : Daniele Comello. Disegno Logo interno (pistola): Fabio Minoggio Progetto Grafico: Kurt Logan.

QUESTO NUMERO E’ DEDICATO A: LORETTA LYNN Tutte le illustrazioni ed immagini riprodotte, (dove non indicato) sono degli autori o delle persone, agenzie, case editrici detenenti i diritti.

WOLVERNIGHT Via Pianezza n°2 Mergozzo (VB) 28802 macy69@tiscali.it WolverNight è stampato in proprio. Questo numero è stato stampato in 150 cp Questa in tuo possesso è la n° di 150 1a stampa del 28/10/22

EDIZIONI VIOLET CARSON

Pagina 2 WN n°56 – Novembre 2022 SOMMARIO XTC “Forse non erano i nuovi Beatles ovvero divagazioni sulla critica e gli XTC” di Massimiliano Stoto pag. 3 “Affinità e divergenze fra sua Maestà Margaret Thatcher, gli XTC e noi” di Marco Denti pag. 4 “Hold Me My Daddy Più famosi di Buddha ?” di DJ Kremlino pag. 8 “Da Skylarking all’eternità” di Massimiliano Stoto pag. 14 “I Duchi immaginari” di DJ Kremlino pag. 17 “Dalle parole a altre storie Intervista a PAOLO BERTRANDO” di Massimiliano Stoto pag.19 “A dieci piedi di altezza Intervista a PAOLO DI MODICA” di Massimiliano Stoto pag. 23 “Quando il produttore va in vacanza” di Giorgio Ferroni pag. 26 “Figli e figliastri Il lascito ereditario di Andy Partridge e Colin Moulding” di Emanuele “Nolo” Marian pag. 28 “Io, Justin Hayward, da Swindon” di Agostino Roncallo pag. 31 “Il disastro perfetto di Mr.Parfitt” di Massimiliano Stoto pag. 34 “Skep Wax Records….la nuova Sarah Records?” di Kurt Logan pag. 37 “I Dukes Of Stratosphear e la nuova psichedelia inglese degli anni ‘80 Una playlist” di Kurt Logan pag. 40 “Il loro sciopero, il mio sciopero e i dischi snobbati dal Direttore” di Kurt Logan pag. 43 SOMMARIO REWOLVERNIGHT MUSCHIO intervista a FABIO POGGIANA di DJ Kremlino pag. 46 R.E.M. Trent’anni fuori dal tempo “Automatic For The People” 1992 2022 di Giorgio Ferroni pag. 49 ANNA VON HAUSSWOLFF “La musica eterna di Anna Von Hausswolff” di Massimo “Nana” Toscani pag. 52 FEDERICO GUGLIELMI intervista e recensione del libro “Be My Guru” di Michele Anelli pag. 54 FABIO RUTA “Rotolando ancora” intervista e recensione del libro “Sessanta leccate di rock ‘n’ roll” di DJ Kremlino pag. 57 GIANNI LUCINI intervista e recensione del libro “...e ora pagateci i danni di Woodstock” di Michele Anelli pag. 61 MARCO DENTI intervista e recensione del libro “Storie sterrate” di Michele Anelli pag. 62 “Era solo rock ‘n’ roll, (ma ci piaceva)” Considerazioni su rock e politica di Giorgio Ferroni pag. 63 Dischi di ultima generazione: THE DREAM SYNDICATE, RAVAGERS, THE CHATS, SUEDE, PANDA BEAR & SONIC BOOM a cura della redazione pag. 67 Modulo per la dissociazione pag. 69 Vinyl return pt.5: Il drammatico ritorno del vinile “Il Parnaso ambulante” intervista a FLAVIO ambulante del vinile di Massimiliano Stoto pag. 71 Ritratto d’artista: THE DUKES OF STRATOSPHEAR di Flavio Minoggio pag. 72 + I Possibilisti + XTC cover album + Titoli di coda WolverNight fanzine è su Facebook La cover dell’edizione in A4 di WN#56 “per ben vedenti”

Forse non erano i nuovi Beatles ovvero divagazioni sulla critica e gli XTC

E’ chiaramente una provocazione. Non ricordo di aver letto che gli XTC sarebbero stati i nuovi Beatles. Però la critica con loro è andata giù pesante tanto che il paragone con i baronetti saltava fuori ad ogni articolo. Non avevano scampo i tre di Swindon, chi ne scriveva sentiva la sordida pulsione di fare l’accostamento a tutti i costi. Un esempio. Il primo numero di Rockerilla che ho acquistato nell’Aprile 1989, siglato con il numero 104, in copertina aveva proprio gli XTC che solo un mese prima avevano pubblicato “Oranges & Lemons”. All’interno Elio Bussolino ripercorreva in un articolo non lungo, la discografia del gruppo fino al quel disco. Anche il buon Elio non si dissocia dal modus operandi, non esagera nell’ardito paragone, ma ritiene che “l’accostamento non sia affatto un capriccio cabalistico” e che siano “evidenti e innegabili sul piano formale le analogie fra i due gruppi” sottolineando che “anche la precoce rinuncia all’esibizioni dal vivo” li univa.

Le parole di Bussolino sono solo prese ad esempio, nel tempo ne ho lette di ben più superficiali sul tema, che rimane, ben inteso, un tema intricato. Patridge (1953), Moulding (1955), Gregory (1952), i membri che formano gli XTC “maturi”, quelli che traghettano la sigla dai furori giovanili dei seventies ai primi anni ’90, sono nei sixties britannici ragazzini investiti in pieno dalla beatlemania ma non solo. La musica e l’immagine di Monkees, Small Faces, Pink Floyd, Kinks, Pretty Things, gli Stones di “Their Satanic Majesties Request” e chissà quant’altro li travolge e segna per sempre. E’ inevitabile che al momento di imbracciare degli strumenti la loro “cultura musicale di riferimento” fosse ben chiara e si abbeverasse a una di quelle fonti psichedeliche che in terra d’Albione si trovano ai piedi di ogni collina.

Il gusto pop che contraddistingue molti pezzi dei primi XTC, nel loro guazzabuglio di istinti punk e tentazioni americane ispirate da alcune, non ben identificate, “teste parlanti” è conclamato, ma possiamo dire che sia più marcato di certe cose dei Pet Shop Boys? dei Blur ? dei Charlatans ? degli Oasis ? dei James ? Giusto per fare qualche nome a caso? Quanti gruppi inglesi negli anni hanno dovuto fare i conti con i “Fab Four”? Quasi tutti, ma nessuno come gli XTC. Forse l’unica vera grande somiglianza con gli “scarafaggi” è stata la grande capacità che entrambi i gruppi hanno avuto nello scrivere canzoni, e quando intendo scrivere, intendo proprio il concepire arrangiamenti, parole e melodie. E allora azzardo l’inosabile e vi dico che una parte del repertorio XTC è anche superiore a quello dei Beatles. Attenzione, sto parlando di un paragone impossibile da fare non tenendo conto del contesto epocale in cui i due gruppi hanno agito.

Alla base della rivoluzione beatlesiana europea, e dico europea per ricordare ai britannici, in tempo di Brexit, che i quattro inglesi prima di iniziare a diventare quelli che sappiamo, hanno avuto bisogno di essere “incubati” ad Amburgo, c’è un linguaggio musicale che fu dirompente. Una cosa paragonabile solo a Elvis negli States. Poi il quartetto è cresciuto e maturato fino a scrivere canzoni che fanno parte di dischi che, per me, sono punti fermi. Ma i secondi Beatles sono ben diversi dai primi. Gli XTC invece, emergono in pieno fermento punk, non fanno in tempo a esordire che la Virgin li affida a produttori di grido e li manda in tour in America e in Europa, per la serie “una volta l’etichetta investiva sull’artista”, poi Patridge va in botta a causa di suoi problemi e lì nascono i nuovi XTC, quelli che con calma, finezza e talento confezionano i dischi che sappiamo. Stesso percorso? A me non sembra. Da una parte abbiamo star mondiali che non fanno in tempo a muoversi che scatenano il panico, che ad ogni disco suscitano aspettative e dall’altra un gruppo certamente di prospettiva ma dall’evoluzione simile a tanti altri, con davanti, al momento del ritiro dalla scene, un futuro assolutamente indecifrabile. Il paragone ci sta perché le assonanze melodiche fra i due gruppi esistono, ma sono per lo più similitudini, germogli di piante da frutta di specie diverse. Sapori simili ma non uguali, infatti….“Cerco di sentire la differenza fra limone e lime” cantavano in “Senses Working Overtime.

Quanto non si è detto delle influenze vocali che i Beach Boys e Brian Wilson hanno avuto su gli XTC? Perché salta fuori sempre e solo il nome di Lennon McCartney in contrapposizione a Patridge Moulding come se gli altri contassero poco o nulla nell’economia dei gruppi? Forse perché a volte parlare di una cosa tirandone in ballo una più grande aiuta a farti fare meno ascolti e meno fatica? A servire su un piatto d’argento l’occasione per l’abbinamento la mai nascosta ammirazione di Patridge verso il duo nato sulle rive del Mersey e dispensato in varie interviste e dichiarazioni. Quindi è facile no?

Qui emerge quello che non mi piace della critica, il ridurre tutto ad assonanze a paragoni. Non c’è bisogno di fare esempi chi legge di musica lo sa bene. Anche su queste pagine, io stesso, ho fatto paragoni e associato un gruppo all’altro, un’artista a un altro. La ragione per cui lo si fa è perché vien comodo, perché è facile e sbrigativo e tante volte perché, nel mio caso è la regola, si è a corto di argomenti. L’intenzione di questo pezzo è semplice: trovare un pretesto per stuzzicare la critica musicale. Tutta. Leggo da una vita riviste musicali mentre non leggo praticamente niente sulla rete, riscontro un buon livello dovuto ad una preparazione ed a un’esperienza invidiabili e credo che quel livello sia più alto ora che trent’anni fa, ma ho anche la sensazione che molto di quello che viene scritto si perda fra migliaia di uscite, migliaia di generi, migliaia di parole, migliaia di ascolti (spesso gratuiti) che non ti lasciano addosso nulla o molto poco. Alla critica rimprovero di avere poco coraggio non solo a proporre nuove realtà ma anche a spiegarle, rimprovero l’uniformità di giudizi verso dischi che andrebbero rischiati e lanciati, che non vuole dire valutati meglio perché spesso le recensioni, sono più che complete o meglio lo sono su quelle testate che credono che la recensione sia ancora importante. In queste testate ci sono troppi ottimi dischi, pochi capolavori e nessun disco fondamentale. Strombazzare il nuovo Porridge Radio, il nuovo Dream Syndicate e il nuovo Marracash fra altri trenta dischi ottimi li fa scomparire, c’è bisogno di giudizi più categorici e di rischiare il nome. Non è possibile chiudere una rivista ed essersi segnati venti dischi da comprare in un mese. O il credulone sono io, e ci può stare, o c’è un uniformità di giudizi che non fa staccare nessun disco. Oppure non c’è più un pubblico disposto a recepire, rischiare e spendere e di conseguenza tutto si appiattisce in questo marasma. Sappiamo tutti benissimo che l’unica maniera per appassionarsi a un disco, amarlo, scoprirlo, leggerlo ed entrarci in profondità è compiere l’atto (politico?) di acquistarlo. Non c’è alcuna possibilità di appassionarsi ad alcunchè quando è tutto a disposizione e completamente gratuito.

Io credo che l’impegno di stimati professionisti del settore, che il più delle volte scrivono recensioni e articoli di alto livello in maniera scrupolosa e preparata, debba volgersi più verso giudizi che ci facciano capire quali sono i dischi che meritano e segnano il nostro tempo. Ci vuole più coraggio in definitiva.

Come ci voleva più coraggio a dire che gli XTC erano un’altra cosa rispetto ai Beatles.

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Affinità e divergenze tra sua Maestà Margaret Thatcher, gli XTC e noi

Sono stati inventori di sogni, per dirla con Ian McEwan, uno scrittore che ha condiviso con gli XTC anni caotici e impetuosi, volati via veloci, sull’onda di conflitti e contrasti che erano diventati questioni irrimediabili in cima all’ordine del giorno. Nell’impero della Thatcher, il Regno Unito era in fermento, essendo diventato un’area di esperimenti economici e sociali, condotti con una determinazione brutale, che andava oltre la costruzione della politica. Come se fosse l’annuncio di un destino funesto, sarebbe arrivata anche una guerra a celebrare una forza che nasceva da un luogo reale e ideale ben preciso, per quanto nascosto da una “nebbia idilliaca”, come sosteneva la stessa Thatcher. Le umili origini della “figlia del droghiere” sono alla fonte di una rivalsa che la porteranno a spadroneggiare con una durezza inusitata. Proprio come gli XTC, la Thatcher non è un frutto dei territori londinesi, così rinominati da Martin Amis, ma viene dalla campagna ovvero da Grantham nel Lincolnshire. Nella sua “piccola cittadina di provincia” alla Thatcher bastava e avanzava andare al cinema una volta al mese, per soddisfare un’immaginazione definita da linee di demarcazione ben precise, e intoccabili. In un discorso nella chiesa di St Lawrence Jewry, a Londra, nel marzo 1978, la Thatcher le riassumeva così: “La libertà distruggerà se stessa se non è esercitata entro una sorta di cornice morale, un qualche insieme di certezze condivise, un’eredità spirituale attraverso la chiesa, la famiglia, la scuola. Distruggerà se stessa anche se non ha una finalità”. L’aspetto conservatore è chiarissimo al di là di ogni ragionevole dubbio, così come è altrettanto evidente che queste rigide e insindacabili coordinate non potevano che andare strette alla combriccola assemblata da Andy Partridge e Colin Moulding.

È un po’ come vivere in una serra: Swindon, nel Wiltshire, è una partenza decentrata, fuori dalle rotte abituali. È una città un po’ più grande di Grantham, uno snodo ferroviario che più avanti offrirà l’ispirazione per The Big Express, e se l’aspetto bucolico definisce un quadro che confina (e in gran parte coincide) con quello della Thatcher, e Londinium resta un’astrazione molto lontana, si possono già intravedere i germi di quello che J. G. Ballard vedeva come un “quartiere residenziale dell’anima”, da cui gli XTC troveranno il modo di evadere, pur senza fuggire. Un posto dove secondo Andy Partridge “non esiste cultura giovanile, solo maschere che ti lasciano in affitto” e che troverà la migliore espressione in Grass di Colin Moulding, (“Hanno colpito anche me le cose che facevamo sull’erba”), ma non era tanto un problema di spazi o di architetture, di segmenti urbani o della qualità della birra al pub. Per Andy Partridge e Colin Moulding vale quello che sentiva Benjamin in La banda dei brocchi di Jonathan Coe: “Già allora non era più tanto convinto di quello che gli dicevano i suoi genitori, o i professori a scuola. Era il mondo, il mondo in quanto tale, che

era al di fuori dalla sua portata, tutta quella costruzione assurdamente grande, complicata, casuale, incommensurabile, quella marea incessante di relazioni umane, politiche, culture, storie... Come sperare di riuscire a padroneggiare tutte quelle cose. Non era come la musica. La musica aveva sempre un senso, una logica”. Come avrebbero detto in This Is Pop: “Veniamo dalla parte sbagliata, veniamo da lontano, suoniamo le canzoni troppo forte”. In effetti, gli XTC affrontano ogni canzone come se andassero alla scoperta di un nuovo mondo e al suo interno si muovono come se fosse sempre esistito e così in Set Myself On Fire ricordavano William Shakespeare quando declamava: “Accendi un sogno e lascialo bruciare in te”.

Non è facile, nei paesaggi orwelliani di Real By Reel (“In quest’era di segreti, invadono la nostra privacy, mimi inconsapevoli per spettacoli ministeriali, possono filmarti a letto o mentre fai un bagno, registrare ogni lacrima, ogni risata”) e da lì al sentirsi alieni nel Regno Unito il passo è molto breve. Così la dedizione degli XTC allo spazio e alla fantascienza, più che al futuro, pare destinata a coltivare altri orizzonti. Succede in Another Satellite o in Science Friction, uno dei tanti calembour, in cui cantano: “Guardo fuori dalla finestra la sera, vedo le stelle e mi riempio di paura. Ho la sensazione che qualcuno guardi, non è l’alieno ai piedi del letto, piuttosto la birra che mi circola in testa. Ho la sensazione che qualcosa stia cuocendo, la fantascienza mi brucia le dita”). Detto questo vale sempre quell’opinione di Iain Banks, per cui “il problema di scrivere narrativa è che deve avere un senso, mentre la vita reale non lo fa” e, nello specifico, sentirsi incastrati

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ordinaria amministrazione quotidiana di una smalltown non è una bella sensazione. Motivo per cui in Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, un romanzo ambientato proprio a Swindon, Mark Haddon diceva che “essere intelligenti vuol dire guardare le cose per ciò che sono e utilizzare l’evidenza dei fatti per elaborare qualcosa di nuovo”. Si tratta di sfuggire a quelli che la Thatcher, quando le cose si complicheranno, chiamerà i “morsi della realtà”. Non tarderanno a farsi sentire, e i sensi faranno lo straordinario.

Nonostante Andy Partridge abbia dichiarato di aver votato per la Thatcher perché all’inizio di tutto era una donna e una speranza, lo scontro era molto sottile e su più livelli. Il primo è che, nel suo sfrenato materialismo, la Thatcher riteneva necessariamente qualsiasi cosa senza attinenza diretta alla realtà inutile se non dannosa. Se questo è valso per tutta la musica (un sentimento reciproco, del resto, come si vedrà poi nella storica mobilitazione per lo sciopero dei minatori), lo è stato in particolare per il pop più intelligente ed evoluto, ovvero quello degli XTC, capace di creare universi paralleli e contigui alle drastiche imposizioni della Thatcher sul suolo del Regno Unito. Le parole d’ordine erano “scelta”, “competizione” e soprattutto “libertà”. Proprio l’abuso della parola “libertà” avrebbe segnato tutta l’epopea, condizionando l’espressione, riducendola ai minimi termini e ribaltandone il significato. Un metodo efficace e funzionale allo scopo: poche parole, ripetute ad libitum, fino a diventare ossessionanti e a cancellare il vocabolario degli avversari. La pensava così Henry Winshaw, uno dei protagonisti che allineava La famiglia Winshaw di Jonathan Coe, il romanzo che più di tutti ha interpretato con arguzia l’era della Thatcher: “Non dobbiamo dimenticare che dobbiamo tutto a Margaret. Se il sogno ambizioso diverrà realtà, sarà grazie a lei, e lei sola. È magnifica, inarrestabile. Non ho mai visto tanta determinazione in una donna, un tale coraggio. Si libera dei suoi avversari come se fossero erbacce che le intralciano il cammino. Li elimina con uno schiocco di dita. Sembrava così bella quando ha vinto. Come potrò ripagarla, come si potrà solo cominciare a ripagarla per tutto ciò che ha fatto?”.

La domanda è naturalmente retorica: i piani della Thatcher per ogni singolo Nigel del Regno Unito riguardavano decisione, ambizione, denaro, alla fine soprattutto quest’ultimo come se ne avvide Hanif Kureishi: “Con la Thatcher l’Inghilterra è diventata una nazione squallida dove l’unica cosa che conta sono i soldi”. Non è soltanto l’opinione del narratore inglese, amante dei Beatles e degli Stones. Anche lo storico Tony Judt nel fondamentale Postwar. La nostra storia 1945 2005 inquadrava così la situazione: “Dal punto di vista economico, quindi, la Gran Bretagna thatcheriana era un paese più efficiente. Ma sul piano sociale subì un crollo, che ebbe conseguenze catastrofiche sul lungo periodo. Disprezzando e smantellando ogni tipo di risorsa collettiva, insistendo tenacemente su un’etica individualista che ignorava qualsiasi bene non quantificabile, la Thatcher arrecò gravi danni al tessuto connettivo della vita pubblica britannica. I cittadini furono trasformati in azionisti, e le loro relazioni reciproche e con la collettività misurate in termini di beni economici anziché di servizi e obblighi. Ora che tutto

era finito nelle mani di compagnie private, dalle aziende di trasporti al rifornimento di energia, lo spazio pubblico divenne una piazza di mercato”. Ed ecco che gli XTC cantavano Cynical Days (“Aiutami a superare questi giorni di cinismo”) dove il protagonista si domandava, inoltre: “Cosa ci facciamo in questa guerra civile?”, e devono esserselo chiesto in molti in quegli anni. Sarebbe arrivata un’altra guerra, quella delle Falklands, come punto di non ritorno, a celebrare l’apice del potere della Thatcher, senza più nemici o alternative.

In cima alla Chain of Command reagisce all’invasione della junta argentina delle piccole isole in fondo all’Atlantico con la presenza di spirito di un comandante in campo di un impero ormai scomparso. Al contrario il lato pacifista degli XTC resisterà nel tempo: da Into The Atom Age a Generals And Majors, (“Maggiori e generali, sembrano sempre tanto infelici senza la loro guerra”), da Living Through Another Cuba fino a Melt The Guns, con l’accorata conclusione dove si spera di “fondere i cannoni e non desiderarli mai più”. La guerra per le Falklands porterà in superficie lo spiccato militarismo delle amministrazioni Thatcher che risolverà con la forza ogni controversia (e da cui non sarà esente anche la Cool Britannia di Tony Blair, quando invaderà l’Iraq nel 2003, insieme a George W. Bush) e gli XTC resteranno fedeli alla linea non violenta con War Dance (“E risuscitano Churchill, e rivogliono la leva obbligatoria, alimentano la febbre di potere e gloria, per una Union Jack nauseabonda. Sì, parlo di questa danza di guerra, romanza patriottica, e so che tutti voi poeti avete già assistito a un simile agitarsi di giovani cuori, nella prima guerra mondiale”) in Nonsuch. Una canzone che, da un punto di vista estetico, ricorda come gli XTC siano stati una fonte di ispirazione tanto per The The quanto per la Dave Matthews Band. Sembrerebbe strano, ma non c’è niente di abbastanza bizzarro nel mondo degli XTC, perché come diceva Jonathan Coe in La pioggia prima che cada: “Forse il caos e la casualità sono l’ordine naturale delle cose”, e qui si incontra quel gusto per l’imprevedibilità che ha distinto gli XTC. Per dire, la loro versione di All Along The Watchtower è direttamente proporzionale a quella di Satisfaction dei Devo che, pur con tutte le distanze e le differenze geografiche e non, hanno molto in

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comune. A partire dai ritmi serrati e sincopati, che saranno uno degli elementi distintivi nella musica degli XTC, arrivati dalle influenze africane e caraibiche, e parte di una varietà ricchissima mutuata attingendo dalle esplorazioni dei Talking Heads e anticipando di gran lunga i Radiohead.

D’altra parte, la Thatcher pretendeva di colonizzare l’immaginario popolare riducendolo a uno schema limitato e stringente: casa, patria, lavoro, fede e, più di tutto, la famiglia come nucleo fondamentale e inamovibile della politica nonché della morale. Con la proprietà privata, e la proprietà azionaria, come destinazioni ultime, di cui si sarebbero conosciuti i frutti finali (e letali). Le divagazioni degli XTC avevano un raggio molto più ampio: se i Clash sono stati la principale forma di opposizione (insieme ai Jam e a Billy Bragg), ideologica, diretta, spontanea, grezza, gli XTC hanno rappresentato una ricerca più sottile, acuta, intraprendente. L’esplorazione di una dimensione invisibile. Dall’arte del nonsense alla meraviglia di arrangiamenti inusuali, si sono distinti per un lavoro tutto attorno e dentro il concetto del pop, che deve essere evanescente, per essere pop. A lungo gli XTC sono stati collocati a fianco dei Beatles ed è giusto così perché l’articolazione del pop passa obbligatoriamente da lì. I Beatles hanno formato il DNA di tutto il pop, quella sensazione che può esserci un altrove, un altro mondo possibile, che è possibile immaginarlo (se non altro), e l’immaginazione è tutto nel pop. L’ascendenza, l’attitudine, il gusto e anche le strategie sonore sono quelle, ma vale la pena considerare nello stesso modo una stretta parentela, forse anche più profonda, con i Kinks, sia nella versione più ruvida e garage sia in quella più evoluta di Village Green Preservation Society, una visione panoramica e molto dettagliata che incrocia la natura pastorale della campagna degli XTC.

sembrare ambedue le cose a seconda del momento del punto di vista. Ponendo al centro dei suoi interessi l’elemento del divertimento, l’esplosione pop non annodare in genere fra i suoi ideali un cambiamento del mondo nel senso politico del termine, tuttavia può produrre importanti mutamenti temporanei che lasciano al mondo la capacità di tornare, se vuole, sui suoi passi. Energie enormi (le energie della frustrazione, del desiderio, della repressione, dell’adolescenza, del sesso, dell’ambizione) trovano uno scopo proprio grazie all’esplosione pop e vengono indirizzate, organizzate e liberate da un’unica e pervasiva entità culturale. Un’entità che deve a sua volta adattarsi ed espandersi con elasticità, rapidità e fantasia per poi correre verso mille direzioni diverse contemporaneamente, che deve assimilare, proporre, sostenere e legittimare nuove ipotesi in ogni campo anche a costo di giudicarle superate un istante dopo (un elegante giro di parole per dire quanto sia grande in questi casi il rischio dell’effimero)”.

Gli XTC non sono stati “un’esplosione pop”, come l’ha definita Greil Marcus parlando dei Beatles: troppo raffinati e isolati per diventare davvero popolari in anni turbolenti e furiosi, troppo colti e ironici per assecondare gli standard necessari alla corresponsione della televisione e da lì delle masse telecomandate. Non identificabili o collocabili, anche disordinati, in un certo senso, e comunque unici per il gusto degli effetti a sorpresa nel creare una diversa percezione della realtà, questa, sì, la grande, infinita eredità dei Beatles più a livello concettuale, che musicale. In quello gli XTC sono sempre stati esemplari: liberi dai luoghi comuni, dalle costrizioni, dalle etichette e impagabili nello schivare le direttive dell’ordine costituito, soprattutto in anni in cui lo standard, da un punto di vista musicale e non, pareva ineludibile. Le Istant Tunes degli XTC rappresentano un caso a parte, fuori da ogni schema e, nell’arco di un intero decennio, che coincide con il tempo ridisegnato dalla Thatcher, hanno dato forma a una visione spesso surreale, ma alternativa alla realtà, anche perché sono stati un gruppo indecifrabile, tale da non poter essere collocato in uno schema o in un ordine preciso, ma capace di restituire alle canzoni la dignità che gli spetta.

In un modo o nell’altro resta il valore intrinseco del pop spiegato così a suo tempo da Greil Marcus: “Pur senza l’impatto di una rivoluzione, un’esplosione pop va molto al di là di un semplice cambiamento di stile, per quanto possa

La canzone è proprio il mondo degli XTC dove hanno costruito una dimensione parallela, cresciuta disco dopo disco. Le trasformazioni degli XTC rimangono sorprendenti, capaci di passare dalla nervosa elettricità dei primi dischi, con una carica ritmica ineguagliabile, a orchestrazioni più complesse e/o rarefatte che hanno avuto il loro zenith in Skylarking, o così anche nella deviazione psichedelica dei Dukes of Stratosphear o nell’ispirazione colta con Travels In Nihilon di Alan

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Greil Marcus

Sillitoe che ha lo stesso titolo del suo romanzo, dove Nihilon è una nazione immaginaria con non pochi punti di contatto con il Regno Unito thatcheriano. La singolarità degli XTC si ritrova anche nell’insolita formula del trio più uno, che in qualche modo ha funzionato lo stesso: il batterista non sarà mai parte del gruppo: dopo Terry Chambers, si sono susseguiti, tra gli altri, Pat Mastelotto, Dave Mattacks, Prairie Prince, Pete Phipps a conferma del luogo comune che il batterista è sempre un problema. Senza dimenticare le frequenti controversie interne ed esterne che hanno consentito comunque ad Andy Partridge di trarre un bilancio credibile: “Penso che come gruppo pop abbiamo ottenuto tutto ciò che era possibile, con l’unico rammarico che i nostri singoli continuano a non avere alcun successo”. È andata così.

La lunga transizione della Thatcher finirà il 22 novembre 1990, un Big Day che segnerà soltanto il passaggio di testimone in cui si tramanderanno anni di grandi trasformazioni economiche, culturali e politiche. Dopo di lei, bisogna aggiungere, andrà anche peggio, e l’unica forma di resistenza è rimasta quella espressa dall’indomabile protagonista creato da Alan Sillitoe che in La solitudine del maratoneta diceva: “Sono un essere umano e ho dentro di me pensieri e segreti e un accidente di vita”. Gli XTC si ripresenteranno con Nonsuch, uscito il primo aprile 1992 e concluso da Books Are Burning. Diceva Andy Partridge: “Sono molto orgoglioso di questa canzone. Amo i libri, sono oggetti sacri, e chiunque li distrugga è feccia. Di solito sono i regimi spaventati a farlo, è il loro modo per sostenere di avere ancora il controllo. Ma quello che rappresentano non ha speranza all’inferno. Distruggere pensieri, sogni e un tentativo di comunicare, è un crimine”. Si capirà ben presto che il problema non era soltanto la Thatcher, quando divenne manifesta la violenta intolleranza verso Salman Rushdie per I versetti satanici, che aveva già i suoi precedenti con I figli della mezzanotte. Come disse Ray Bradbury in Fahrenheit 451: “I buoni scrittori toccano spesso la vita”, e questo è uno di quei casi perché Salman Rushdie aveva davvero osservato l’intimo dell’esistenza umana: “Gli esseri umani non percepiscono le cose per intero; non siamo dèi, bensì creature ferite, lenti frantumate, capaci solo di percezioni fratturate. Esseri parziali, in tutti i sensi della parola. Il significato è un edificio instabile che costruiamo con frammenti, dogmi, ferite infantili, articoli di giornale, osservazioni casuali, vecchi film, piccole vittorie, gente odiata, gente amata; questo forse avviene perché la nostra idea di realtà è costruita su materiali talmente inadeguati che la difendiamo a spada tratta, anche fino alla morte”.

La fatwa contro Salman Rushdie, ricorda che ci sono tempi ancora più complessi e difficili, pericolosi, quando si bruciano i libri che invece gli XTC rileggono di volta in volta assicurando alle canzoni pop, una veste di rara intelligenza, sempre spiazzante. La risposta potrebbe trovarsi dentro quel capolavoro di Dear God, una canzone che sfiora la perfezione perché come diceva Salman Rushdie: “Sì, le formule magiche a volte possono funzionare”. XTC è una di quelle e va ricordato almeno che Ray Bradbury diceva: “Non c’è nulla di magico,

nei libri, la magia sta solo in ciò che essi dicono, nel modo in cui hanno cucito le pezze dell’universo per mettere insieme così un mantello di cui rivestirci”. Forse vale anche per le canzoni, se vi capita di sentire le fantastiche dodici corde di Then She Appeared o This World Over perché coltivando in proprio contraddizioni e attriti, gli XTC hanno cercato angolazioni insolite, facendo uso del linguaggio pop in modo intelligente, lasciandolo evolvere. Come scrisse Hanif Kureishi in Il Buddha delle periferie “Avrei detto addio al mio mondo, dovevo farlo se volevo progredire”. Quello degli XTC e in particolare di Andy Partridge e Colin Moulding è stato un osservatorio particolarmente instabile, ma proprio per questo altrettanto acuto. Come dicevano in Senses Working Overtime negli XTC “c’è cibo per pensatori” ed è così che, come scriveva Ian McEwan in Espiazione, “ecco da cosa nasceva quella sua sensazione prossima alla felicità. Forse non era poi così debole come aveva sempre creduto; dopotutto, ci si misura rapportandosi agli altri, non esiste alternativa. Di quando in quando, in modo assolutamente involontario, arriva qualcuno e ti insegna qualcosa sul tuo conto”. Con gli XTC l’occasione si presenta sull’onda di chitarre taglienti, armonie impossibili, ritmi ossessivi e il ricordo di lunghi anni in cui le canzoni erano l’unica via di fuga.

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Andy Patridge photo by Kevin Nixon

Hold Me My Daddy”

Più famosi di Buddha ?

Per capire dove “collocare” gli XTC basterebbe un particolare: avete mai ascoltato un loro pezzo come colonna sonora di qualche importante produzione cinematografica o televisiva?

Ok, va bene, dovreste conoscere i pezzi degli XTC innanzitutto per rispondere alla domanda (anche se la loro musica è talmente peculiare che, ascoltati alcuni brani, li riconoscereste subito, nel caso vi fossero sfuggiti).

Comunque, stavo scrivendo, mai ascoltati in qualche serie TV di successo? Probabilmente No.

Potete trovarli però con “Hold Me My Daddy” come sigla finale della settima puntata (quarta serie) della Fantastica Signora Maisel (imperdibile e divertentissima tra l’altro, su Amazon); una serie di nicchia, irriverente, con battute a raffica per quelli che amano la risata sferzante e surreale alla Woody Allen e, forse, irritante (la serie intendo) per quelli che adorano le battute sguaiate e popular alla Friends. Un particolare certo, ma che li “colloca”, che segnala come la loro pop music, così elettrizzante e compiuta, sia rimasta, inspiegabilmente (ma non troppo), tutto sommato di nicchia nella storia della nostra musica preferita. Nonostante le tonnellate di pezzi fantastici, orecchiabili e al limite della perfezione. Una perfezione che però è fatta (anche) di cesello, di particolari, di dissonanze, di necessaria attenzione all’ascolto per entrare nel loro mondo, appunto, non sguaiato e ridondante.

Perfezione Pop, ma non popolare. Un mistero difficile da risolvere, capire perché gli XTC non siano diventati più famosi di Buddha (il paragone con Gesù

Cristo era già occupato, come ben sapete, da quelli di Liverpool) e che, temo, questo nostro numero speciale sulla loro musica non sarà in grado di risolvere, e nemmeno di invertire il loro “infausto” destino: perfezione (ma non per molti).

Negli anni imperanti del post punk e della nascente new wave, gli XTC (in quasi perfetta solitudine) si misero sulle spalle il peso del lato pop di quella scena. Con le loro melodie raggianti e vivaci, i testi acuti, il loro senso dell'umorismo furono in grado di mettere su vinile una ingente, variegata, e mostruosamente intelligente, quantità di melodie, qualitativamente migliori di molti loro coetanei più famosi, provando a compensare (senza riuscirsi ovviamente) con la loro deriva pop quell’atteggiamento cupo e no future delle band dell’epoca.

Che poi siano anche, per inciso, eredi di certi Kinks e Beatles e i padrini del BritPop della prima ondata (basta ascoltare loro e poi i Blur) e pure della seconda, della terza ecc. li rende ancora più intriganti e necessari. Un vero critico scriverebbe seminali. Io, più semplicemente, vi suggerisco di FARLO per VOI. Non perdeteveli.

La successiva, e piccola, disanima dei loro primi dischi non comprende approfondimenti sui testi e sul ruolo dei (rinomati) produttori dei loro dischi, visto che altri “notabili” vi deliziano di questi aspetti (sempre su queste pagine).

La canzone più bella la togliamo. “White Music”

Devo ammettere che anche la band si è impegnata ad evitare con cura (non so se volutamente o meno) scelte che li rendessero popolari (come non sottolineare l’abbandono dell’attività concertistica dal 1982!).

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Non si capirebbe altrimenti la folle scelta di non inserire nel loro disco d’esordio “White Music” (gennaio 1978), un pezzo riuscitissimo come “Science Friction” infilato nel loro 45 giri d’esordio ma non ripreso nell’LP (e, ad esseri sinceri, anche il retro dello stesso 45g “She’s So Square” è superiore a un paio di pezzi presenti nell’album).

“Science Friction” è un brano che illuminerebbe una notte piena di nebbia di Swindon (chissà che cazzo di nebbia c’era li nella loro città natale …), per un intro che colpisce con quel tasto di pianoforte ripetuto che irrompe nel nostro cervello e apre a un brano eccitante (ed eccitato), nervoso, melodico e adrenalinico come in una fantastica versione pop dei Talking Heads.

Invece niente, messo in un angolo (lo trovate nella consigliatissima edizione in CD con alcuni pezzi in più “figli” della stessa session di registrazione) a favore di un paio di brani abbastanza piatti e poco riusciti, a mio modo di vedere, come la confusa “Cross Wires” e la banale “Do You What You Do” .

Per fortuna dal lotto non tolgono altri due brani (dalla penna di Partridge) di grande levatura: il manifesto “This Is Pop?” una deliziosa dichiarazione di intenti in antitesi al delirio punk di quei mesi (come essere sul pezzo!) e la memorabile “Statue of Liberty”, dall’andamento gioioso e frizzante.

Nozione di merito anche per una incredibile versione destrutturata della dylaniana “All Along The Watchtower” (smontata e rimontata in chiave XTC, ascoltatene il finale), per un album che rincorre post punk, pop e new wave, con melodie pungenti e vivaci su ritmiche scheletriche, in una sinergia abbastanza riuscita di tastiere bizzarre, basso pulsante e chitarre aguzze e svogliate allo stesso tempo.

Insomma tanta aria fresca in questo disco d’esordio, se pur imperfetto, che segnala(va) ai più attenti (ascoltatori e critici) una band che avrebbe lasciato il segno.

fondatore, il bassista Colin Moulding, con un lento ma inesorabile lavoro ai fianchi, forse dettato dalla convinzione (nei fatti incontestabile dal punto di vista numerico) di una sua maggiore capacità di saper scrivere belle canzoni. Fatto sta che già dopo l’uscita del secondo disco Go2 (ottobre 1978) il tastierista Barry Andrews lascia (o viene spinto a lasciare) la band. Non so se ci sia un rapporto di causa effetto ma la ridondanza delle tastiere squillanti e “fastidiose” presenti nel disco, che suona come una bulimica versione pop dei Devo, annega quel (poco) di buono in termini di composizione. Il livello è davvero mediocre, anche se un lavoro di campionamento dei singoli pezzi, regalerebbe a piene mani molte idee e spunti che, però, durano uno sprazzo per poi annegare in un disco a tratti imbarazzante.

Probabilmente la fretta, anche della casa discografica (la Virgin), che li spinse a uscire solo dopo sei mesi dall’esordio, non aiutò certo a creare un disco con una identità apprezzabile.

Basta ascoltare i tre pezzi di apertura “Meccanick Dancing (Oh we go)”, “Battery Brides (Andy Paints Brain)” e “Buzzcity Talking” dove le buone intenzioni melodiche dei ritornelli, super orecchiabili e accattivanti, sono seppellite da una produzione pasticciata che letteralmente circonda queste idee di suoni confusi e tastiere invasive.

Insomma, dimentichiamo il secondo, se non al di là di una copertina che fece, ai tempi discutere (1).

“Go2” - Dimentichiamo il secondo.

Che poi, il paragone con i Beatles, non sempre regge (nel senso che alcuni critici li hanno eletti ad eredi dello scettro dei fabfour). Non fosse altro che Lennon/McCartney si sono divisi equamente il lavoro mentre il buon Andy Partridge, disco dopo disco, mise in un “angolo” l’altro membro

Si cresce“Drums And Wires”

Se nei primi due lavori la loro essenza si stagliava in un approccio nevrotico se pur in chiave pop, in questa terza prova sulla lunga distanza (in soli due anni), piantano vistosamente i tasselli sui quali incardinare la cornice dei leggiadri suoni con cui li conosciamo (e li veneriamo) oggi, definendo una loro strada più variegata e (quasi) pienamente matura.

Insomma qui gli XTC crescono, vanno oltre l’approccio post punk, abbracciando pienamente la new wave in chiave pop, iniziando a diventare pretendenti (credibili) allo scettro (qualitativo) di Re del (new)Pop.

“Drums And Wires” (Agosto 1979) è però musica non fa-

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cilmente catalogabile, seppur espressa con brani di “alienante” immediatezza, moderna (per i tempi) ricomposizione di suoni in cui si miscelano segnali avant pop, funk, art rock e dove, sotto una coltre di adorabile delicatezza beatlesiana, si vede uno sguardo rivolto al futuro come nella scoppiettante e sincopata “Helicopter”, che “inventa” un sound indie rock che Artic Monkeys, Franz Ferdinand, Bloc Party ecc. faranno propri quasi trent’anni dopo.

E’ il disco che segnala lo status di possibile grandezza del gruppo esprimendo quell’energia compositiva che alimenterà anche dischi di maggiore qualità in futuro: una dichiarazione di intenti del quartetto di Partridge, Moulding, del talentuoso chitarrista/ tastierista Dave Gregory (sostituto di Andrews) e del batterista Terry Chambers (già presente nelle altre prove), per una band già da ammirare ed osservare per la sua traiettoria musicale in partenza per scalare vette vertiginose. Insomma, potete iniziare da qui, ricordando la produzione affidata a un giovanissimo Steve Lillywhite (il produttore per eccellenza degli anni ’80) per un disco che non disdegna (troppo) accanto a pietre miliari di quel fantastico 1979 come Fear Of Music dei Talking Heads, Unknown Pleasures dei Joy Division, Metal Box dei PIL, Entertainment! di Gang Of Four ecc. E poi, più semplicemente, ci sono le canzoni, una bella sequenza di canzoni spigolose che lasciano il segno: come l’incipit affidato a “Making Plans For Nigel” dalla melodia primitiva, la già citata seminale con le chitarre “grattugiate” di “Helicopter”, l’andatura sghemba e vacillante di “Day In Day Out” e quella sbarazzina e in levare di “When You’re Near Me I Have Difficulty”, la dolce ballata “Ten Feet Tall”, le chitarre aspre incastrate su frammentazioni ritmiche di “Roads Girdle The Globe”, i coretti gasati e sopra le righe di “Real By Reel”, la pulsante “Millions”, il finale jazzy di “That Is The Way” con tanto di sax, la divertente e veloce “Outside World”, la marziale ritmica di “Scissor Man” (ripresa come cover anni dopo quei folli dei Primus e che sottolinea delle influenze, non scontate, che hanno seminato in giro per il mondo), il surreale crescendo di “Complicated Game”

Le ho citate tutte perché il disco non ha momenti davvero deboli, come testimoniato dalla successiva versione CD (consigliatissima e il vinile costa troppo!) dove ci son tre canzoni in più, tutte e tre pazze, eclettiche e irresistibili come “Life Begins At The Hop”, “Chain Of Command” e “Limelight” che rimarcano il sano masochismo commerciale della band nell’escluderle dall’album (sono presenti su 45 giri) e la loro statura compositiva di primordine.

Troppo intelligenti? “Black Sea”

Come una cannonata, i brani del quarto disco “Black Sea” (Settembre 1980) filano in continuità con l’album precedente, non fosse altro per la produzione sempre affidata a Steve Lillywhite (che produrrà nello stesso anno l’esordio di U2 e Psichedelic Furs!), per un disco forse più classicamente rock e compatto in cui, questa volta, non escludono i gioielli fatti uscire su 45 giri dall’album.

Moulding firma solo due episodi del disco (segno che la leadership di Partridge è diventata legge nel gruppo se per scelta o necessità come vostro oracolo non sono in grado di rivelarlo) e sono entrambi azzeccatissimi come “Generals And Majors” dalla melodia fischiettante (e incredibilmente seducente) che si eleva

e ti cattura e va a braccetto con la ritmica, qui meno spigolosa, e l’altrettanto divertente e saltellante “Love at First Sight”.

Il rimanente a firma Andy colora e porta il disco in una dimensione più eccentrica, dove convivono la maestosità barocca e pompata di “Towers Of London”, il nervosismo un po' spastico di “Rocket From A Bottle”, l’andatura da marcetta intrisa di genialità pop e psichedelica che fa sembrare “Sgt. Rock (Is Going to Help Me)” una out take di ottimo livello da Sgt. Pepper’s (si proprio quelli là di Liverpool), “Travels In Nihilon” che suona oscura ed ermetica, “Living Trough Another Cuba” con un canto nevrotico e andature caraibiche, il pop irresistibile e unico nel ritornello di “Burning With Optimism’s Flames” paludato in schizzati e gioiosi giochi ritmici, sino all’iniziale “Respectable Street” altro brano godibilissimo disseminato da volute dissonanze che obbligano sempre a più ascolti per svelare la genialità del tutto, come in gioco perverso e loro incontestabile marchio di fabbrica.

Nulla è scontato nel loro suono, sembra esserci una (malata?) ricerca di come complicare cose semplici (buona la prima? Mai!), come in una spasmodica ricerca della perfezione che pezzi, apparentemente scontati, come “No

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Language In Our Lungs” e “Paper And Iron (Notes And Cloins)” son lì a dimostrare, nell’obbligare ad aguzzare l’udito alla ricerca di un suono che riveli qualcosa (che c’è) di più profondo e interessante.

Black Sea è un disco molto maturo, forse sottovalutato nella discografia XTC, e che vale la pena di riscoprire strabordante di idee e canzoni ricche di talento creativo, pur rimanendo troppo intelligente (ok, l’ho scritto) per entrare in contatto immediato e diretto con il grande pubblico.

(A)rte con attitudine pop. “English Settlement”

La copertina ritrae Il Cavallo Bianco di Uffington, la grande figura stilizzata presente sul pendio di una collina nell'Oxfordshire (lunga 114 metri e alta 34, incisa al suolo con solchi nel terreno profondi un metro fino a mettere a nudo il sottostante gesso bianco).

Una figura rupestre del passato che si staglia sul verde oliva della copertina (il verde dei prati su cui si posa la figura nella realtà), per una musica che decide di tirare il freno, meno irruente e spigolosa, più armoniosa, discostandosi (anche se non di molto) dalla nevrotica attitudine degli album precedenti, con colori più pastosi, un minor dosaggio di elettricità nelle chitarre (per un Andy Partridge felicemente, immaginiamo, attratto dai toni sinuosi e ariosi della sua nuova di allora 12 corde); un atteggiamento di chi sembra essere cresciuto per diventare (giovani) adulti, pur con brani sempre carichi di quella eccentricità che li caratterizzano e li rendono unici.

Molti critici lo definiscono il loro capolavoro: ciò che è sicuro è che il doppio vinile di English Settlement (Febbraio 1982), è sicuramente tra le vette raggiunte dalla band, forse importante perché lega le anime delle due “versioni” XTC, il passaggio definitivo verso la maturità: dal produrre della musica pop con ambizioni artistiche al produrre (A)rte con attitudine pop. Un cambio di paradigma e di statura.

Dei quindici brani due terzi sono sempre sulle spalle dell’azionista di maggioranza Andy Partridge che (la butto li), insieme a Elvis Costello è determinabile come uno dei principali e magniloquenti autori inglesi degli anni 80 e 90.

Brani autoprodotti splendidamente dalla stessa band assieme a Hugh Padgham, già loro ingegnere del suono nei dischi precedenti, per un lavoro che suona impeccabile e sembra non appartenere a nessuna era musicale, tra dolci chitarre acustiche ed elettriche che danzano in precisa armonia con la sezione ritmica, a volte funky, frenetica ed ossessiva a volte rilassata; e gli incantati lavori al basso di Collin Moulding si fondono con il cantato sincopato di Partridge formando dinamiche musicali che, per la maggior parte delle tracce per un’ora e 15 minuti, sono prive di imperfezioni. Perfette. L'album si apre su un ritmo caldo e intrigante di chitarre acustiche sostenute da un battito vigoroso di tamburo che miscela una voce suadente per un pastorale lievemente psichedelica: una intro meravigliosamente variegata “Runaways” (per un sound che ritroveremo molti anni dopo in band loro debitrici: un nome tra i molti, la Beta Band) e che incardina il mood che si staglia in tutto il disco. Si prosegue con la straordinaria marcia briosa e altezzosa (e più “classicamente” new wave alla XTC) di “Ball and Chain”, per poi arrivare a “Sense Working Overtime” la canzone che ha raggiunto la posizione più elevata in classifica nelle chart di vari paesi, entrando nella Top Ten del Regno Unito. Un pezzo che al posto di partire e afferrare l’ascoltare con la sua irresistibile melodia, per quasi un minuto si nasconde dietro ad una nenia che cresce, piano, verso il pathos del ritornello con il suo riff di chitarra acustica su un ritmo primordiale e la voce strozzata di Patridge, disegnando quel classico pezzo che (i boomers di oggi) fanno ripetere nell’impianto cd in auto (io l’ho ancora) per almeno sette volte di fila. Eppure, loro, questa perfezione, la nascondono per un buon minuto, giocando con l’ascoltatore (“ehi … vieni a scoprirla... non te la facciamo facile”).

Il resto è da scoprire, tra brani ipnotici con parti ritmiche che si intrecciano, urli primordiali e voci distorte, maestosi ed intensi ritornelli, tracce succinte e nervose, slanci melodici e stravaganti, ritmi di chitarra ska, ballate sbilenche, linee di basso sinistre su assoli di un sassofono stridulo, semplici ma non scontati arrangiamenti rock and roll, ritmi vagamenti africani, atmosfere psichedeliche (che anticipano le loro successive composizioni come Dukes of Stratosphear) e composizioni che sembrano delle (splendide) jam.

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C’è tutto questo (e molto di più ovviamente), perché ad ogni ascolto affiorano nuove sensazioni in questa gemma splendente.

Un disco che è anche spartiacque dal punto di vista del loro essere band, perché la vita on the road senza sosta di quegli anni a partire dagli esordi in poi (ad esempio dal 1980 al 1981 gli XTC fecero un tour in Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti anche come opening act per i Police), si interrompe il 3 aprile del 1982 a San Diego dove gli XTC suonano per l’ultima volta dal vivo. Non certo per la loro scarsa vena (unanime il riconoscimento di una loro dimensione on stage di grande levatura), ma per la combinazione paralizzante di ansia e panico da palcoscenico, che portarono il frontman Andy Partridge a mollare e gli XTC a pubblicare album per molti anni a venire senza una dimensione live. Una dimensione negata, quella live, che oltre ad inevitabili conseguenze sulla loro visibilità (e sul loro conto in banca) decreterà anche l’uscita dalla band del batterista Terry Chambers (e d’altronde che ci sta a fare una batterista in una band che non suonerà mai più dal vivo?), sostituito da allora da turnisti.

Non è un incidente di percorso. “Mummer” Sorvolo velocemente sulle grane economiche e legali che discero, anche, dalla scelta di non suonare dal vivo tra litigi e vie legali con il loro manager, lavoretti per mantenersi, nuova ridiscussione del contratto con la Virgin, pochi soldi e molti debiti, serate live disastrose dal punto di vista organizzativo (in Italia nel 1978 saltarono le date e non vennero pagati, a causa dell’omicidio del Presidente del Consiglio Aldo Moro perpetuato dalla Brigate Rosse, e che fermò il paese intero). Una seconda metà di 1982 che Andy Partridge passa a superare le sue crisi (compresa una cura per la sua dipendenza dall’abuso di Valium) e a cominciare a scrivere i nuovi brani dell’album Mummer (Agosto 1983), in cui dei sedici brani presenti nella versione in CD (dieci sull’LP originale) ben tredici sono a sua firma. (Jeremy Lascelles, dirigente della Virgin a Patridge dopo l’ascolto dei provini del disco: «componi qualcosa di più simile ai Talking Heads, con un sapore più internazionale, un fascino più elementare»). Ecco, appunto. Il contrario.

Considerato un disco minore (e ci sta), nella versione originaria su LP con dieci brani, contiene però almeno cinque canzoni di grande livello creativo, e il resto non si può certo definire mediocre o poco interessante. Certo l’andatura del disco è ancora più rilassata e bucolica del precedente, sicuramente in controtendenza con le sonorità spigolose del rock e della new wave di quegli anni; un disco fuori dal loro tempo (questo sì) ma non certo un disco fuori dal tempo. E se la Virgin non seppe come promuovere questo difficile e incasellabile album (che si piazzò lontano dalle alte posizioni nelle charts), a noi tocca solo il compito di rispolverarne le fragranti melodie.

Basta ascoltare di fila, dopo la splendida, surreale e curiosa intro orientaleggiante e in acido di “Beating Of Hearts”, tre pezzi immaginifici di fila come “Wonderland” autentico e soffice pop disegnato da dolci tastiere (con tanto di echi di grilli e dolci uccellini sullo sfondo), “Love On A Farmboy's Wages” una vera delizia folk pop per una cartolina in chiave pastorale dalla campagna inglese e il pop barocco ed elegante di “Great Fire”. Senza dimenticare, tra le composizioni più riuscite il pop jazzato di “Lady Bird” e la frizzante “In Loving Memory Of A Name”, il resto è comunque ricco di spunti e buone sonorità se pur meno qualitativo, per un album che nel complesso non merita certo di essere derubricato a incidente di percorso.

Non sottovalutatelo “The Big Express”

Altro album considerato minore nella loro discografia è anch’esso, però, un disco da non ignorare, perché “The Big Express” (Ottobre 1984) ha al suo interno una manciata di canzoni davvero notevoli.

Diversamente dal suo precedente ha un impostazione più rock (se possiamo metterla così), un suono più squillante e uptempo con una batteria in primo piano quasi sempre martellante, con una andatura più “metallica” anche perché, nelle intenzioni, doveva trattarsi di un concept album più o meno autobiografico, ispirato alla loro (industriale) città natale, Swindon, e al suo sistema ferroviario, gli Swindon Works. E l’andatura marziale da convoglio ferroviario (a vapore ovvia-

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Colin Moulding

mente) in effetti è caratterizzante del disco, basta ascoltare la squillante “Shake You Donkey Up” quasi in stile country, o l’iniziale “Wake Up” con un suono (come per quasi tutto il disco) caratterizzato da molte sperimentazioni e arrangiamenti più corposi, o la martellante come una allegra marcia militare “All You Pretty Girls” (e indimenticabile, perché ti si insinua nella mente e non la molla) e la più suadente e ombrosa "Seagulls Screaming Kiss Her, Kiss Her".

A risaltare è anche il pezzo più tranquillo dell’album, che chiude il lato A dell’LP, “This World Over”, una ballata di rara bellezza (tra le loro migliori canzoni di sempre), provocatoria e senza speranza, con testi post apocalittici sul tema della guerra fredda (e della deterrenza nucleare) in cui si evocano vivide immagini di un mondo prigioniero di leadership sconsiderate (ovviamente quanto mai attuale visti gli scenari di guerra in Ucraina fuck Putin ). Insomma, il lato A è quasi perfetto, mentre la seconda facciata, poco a poco, perde qualità (non tanto compositiva), nella quale però si salvano, alla grande, la divertente e gioiosa “(The Everyday Story of) Smalltown” che parte con un Kazoo e finisce trionfante tra trascinanti tamburi che si fondono con dei pomposi ottoni e la misteriosa e stilosa “You’re The Wish Are I Hade”, che farebbe degnissima figura nel miglior materiale di Sir. Paul McCartney.

Le restanti (poche) quattro canzoni si impantano in una produzione davvero “pesante” che imprigiona la dinamicità di pezzi comunque ben scritti e che, forse, avrebbero

richiesto altra cura; come la jazzata “I Remeber The Sun” e la delicata “I Bought Myself a Liarbird”.

Per capirci: anche in un disco considerato “minore” c’è un pozzo enorme ricolmo di qualità da cui abbeverarsi; una dote davvero non comune nelle band degli ultimi decenni, dove si contano sulle dita di una mano quei gruppi che hanno prodotto molti album con un livello qualitativo mediamente notevole.

Anche qui, nella versione su CD (o nella vostra libreria on line) troverete tre pezzi aggiuntivi che però, come la parte finale del disco, soffrono di una produzione troppo pomposa e sopra le righe.

E siamo solo arrivati a meno della metà della loro discografia: qui entrano in scena i Duchi e altri album da coccolarsi. Ad altri il compito di cantarne le gesta.

Dj Kremlino

(1) Una copertina con un lungo testo sul modello “scemo chi legge”, per catturare l’attenzione del pubblico. Il design fu affidato allo studio Hipgnosis (famosi per le copertine dei Pink Floyd).

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Dave Gregory

Da Skylarking all’eternità

di Massimiliano Stoto

Cosa abbia rappresentato “Skylarking” nella discografia degli XTC è abbastanza noto agli appassionati. Messi alle strette dalla casa discografica, dopo le vendite “deludenti” dei dischi precedenti, Partridge e Moulding accettano di farsi produrre da un personaggio come Todd Rundgren, un produttore “americano” come da imposizione dell’etichetta. Musicalmente non lo conoscono molto bene, ma Dave Gregory, che dei tre lo conosce meglio, è sicuro che possa essere l’uomo giusto per mediare fra le esigenze del gruppo e quelle della casa discografica. In effetti il buon Todd è un personaggio che ha fino ad allora sfoderato un gusto pop ecclettico e sulla carta sembrerebbe il tipo giusto anche a uno come me. Si fanno convincere anche se, come al solito, è Partridge che mostra le resistenze più importanti….cederà… ma ”sente” che qualcosa non andrà bene. La produzione del disco si sviluppa negli States, nei rinomati studi di Rundgren, dalle parti di Woodstock. Pronti partenza, via e nascono già tensioni basate esclusivamente su quali canzoni lavorare. Poi altre divergenze, isolamenti, difficoltà primordiali nel comunicare e quant’altro. Il disco uscirà nell’autunno del 1986, con un difetto di mixaggio corretto poi anni dopo e finalmente riporterà il gruppo nelle grazie della Virgin visto che vendette molto bene e soprattutto rilanciò gli XTC sul mercato americano, rilancio che quattro anni culminò nella clamorosa esibizione al David Letterman Show.

In un’ideale triade di dischi degli XTC, “Skylarking” c’è sempre. Il cosiddetto ultimo periodo del gruppo quello che va dal 1986 al 1992 può essere rappresentato solo da questo disco e senza perdere tempo a organizzare una gara. Mentre sugli altri della discografia si può tranquillamente disquisire e io fra “gli altri” sono di quelli che sce-

glie “Drums & Wires” e “English Settlement”, sull’ultima parte di carriera effettivamente no. Ma tornando al disco, se è vero che dalle peggiori tensioni nascono poi le idee migliori e i capolavori, “Skylarking” è un degno rappresentante della categoria. Il culmine del percorso intrapreso un decennio prima. Probabilmente il termine capolavoro è esagerato ma l’etichetta di “grande disco” non gliela toglie nessuno. La canicola estiva di “Summer’s Cauldron” e “Grass” i due brani che aprono l’album, tenuti insieme dal cicalio dei grilli sembrano un unico brano di sei minuti, una mini suite che omaggia i Beach Boys e che prosegue in “The Meeting Place”. Visto che la casa discografica voleva un suono americano cosa c’è di meglio che omaggiare la primaria fonte ispirativa made in U.S.A. del gruppo, ovvero il parentado del signor Brian Wilson. Con “That’s Really Super, Supergirl” si torna invece agli eleganti XTC di “English Settlement” e “Ballet For A Rainy Day” è un altro omaggio alla congrega californiana che con “1000 Umbrellas” forma un altro binomio indissolubile, senza una esisterebbe l’altra? Un pezzo bellissimo fortemente contrappuntato dagli arrangiamenti degli archi di Dave Gregory, uno dei migliori della raccolta. “Season Cycle” è un parto beatlesiano con innesti vocali ispirati ancora dai “Californian boys”. “Earn Enough For Us” ha un incidere deciso e tambureggiante, uno stile che ritornerà nei dischi futuri, difatti un pezzo “semplice” che si fa notare ma che in sostanza è uno dei più deboli del disco. ”Big Day”, in parte, è figlia del pezzo che la precede ma è più pacata e la piega “orientale” che prende sul finale la fa apprezzare di più. Per me uno strike assoluto del disco è “Another Satellite”. Un pezzo costruito sulla vocalità e ben poche altre cose, sognante e semplice da risultare assolutamente perfetto. “Mermaid Smile” è ancora un grande pezzo che mostra un arrangiamento delle parti vocali fantastico e un’interpretazione altrettanto all’altezza, sul finale il pezzo viene un pò più riempito nell’arrangiamento e acquista ancora più spessore. Altro grande pezzo è “The Man Who Sailed Around His Soul”, brano che ha le stimmate dei grandi pezzi stilosi adatti a “crooner” consumati da casinò e infatti la melodia è ispirata dalla “Nature Boy” di Nat King Cole . “Dying” quieta ballata ci trasporta nella psichedelica campagna inglese, la veste è sognante e come tanti pezzi di questo disco sembrano legati ad altri questo sembra tirare la volata, con il canto del gallo, a quella “Sacrificial Bonfire” che si rifà alla tradizione inglese, brillanti gli archi, grande incede-

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re narrativo e affabulatorio che si chiude nella ripetitività dell’incipit iniziale. Ma “Skylarking” dovrà molto delle sue fortune a “Dear God” pezzo “scandalo” che all’inizio non fu incluso nella scaletta dell’album. Il pezzo sistemato sul retro del 45 giri di “Grass” fu oggetto di un grande successo radiofonico, soprattutto negli Stati Uniti, e nelle stampe successive fu incluso ai danni della povera “Mermaid Smile” lanciando definitivamente il disco verso ottime vendite. “Dear God” è un grande classico della band di Swindon ed è effettivamente un pezzo accattivante, memorizzabile e “pieno” di tante cose quasi tutte belle, dalla voce introduttiva di Julie Dree, dal riff al ritornello, all’interpretazione di Partridge, agli archi, al finale in levare, a me non piace solo la batteria che trovo troppo invadente e “alta”. Dovendo essere onesto capisco anche che possa piacere molto come pezzo, ma per quello che “Skylarking” è, ovvero un disco basato molto sulla vocalità, lo trovo un pezzo a sè, come è anche “Earn Enough For Us” che però è decisamente molto meno interessante.

Il primo disco degli XTC per cui ho speso i miei soldini è stato “Oranges & Lemons” ed è un disco a cui sono legatissimo un po’ perché come succedeva negli ormai lontani vecchi tempi essendo una cosa per cui avevi investito soldi sudati, finiva che non si collocava da qualche parte a fare da arredamento, ma veniva spesso adagiato sul piatto o, una volta religiosamente passato su cassetta, ascoltato sull’auto e un po’ perché la copertina mi piacque tantissimo. Un disco in “technicolor” fin dalla sgargiante cover che fa decisamente a pugni con gli scatti introspettivi in bianco e nero all’interno e realizzati dalla fotografa Sheila rock. Un disco che comprai a scatola chiusa e con l’entusiasmo di scoprire questi nuovi Beatles come da strombazzamento della critica. Un disco di grande stile e qualità musicale, come tutta la parte finale della carriera degli XTC ma che ora ridimensionerei un pochino segando parte del mio entusiasmo giovanile. La colpa dove sta? Da nessuna parte credo, se sapete cosa state per ascoltare troverete queste mie disgressioni un po’ troppo severe, perché il disco ha un elevata qualità di arrangiamenti, idee e canzoni ma forse nessuna vera sorpresa e questo fa rientrare il duo compositivo principale del gruppo, fra quelli che di schifezze ne han scritte veramente poche ma che alla lunga, come in un perfetto matrimonio, si finisce per amare per abitudine. Questo mi ha portato a credere fermamente che gli XTC dopo “Nonsuch” abbiano fatto benissimo a decidere di non fare più dischi e chiudere, con stile, un percorso che si è evoluto e ha avuto più di un picco memo-

rabile. E’ un disco che mi piacque e mi piace ancora ascoltare, mi diverte, si fa cantare e di conseguenza ricordare, è intelligente è raffinato è radiofonico ma non mi sorprende più. Altri dischi lo fanno ancora. Anche degli XTC. Dopo “Skylarking” il mercato U.S.A. era diventato molto ricettivo nei confronti dei tre inglesi così la Virgin pensò di affidarli nuovamente a un produttore, Paul Fox, americano e dall’attitudine molto pop. E’ una persona più alla mano di Rundgren e per certi versi anche molto più inesperta tanto che ad un certo punto le decisioni di Andy Partridge sono dominanti. Le cose procedono bene all’inizio ma si protraggono un po’ troppo, così la Virgin si stressa perché il budget aumenta, rispedisce prima i famigliari e poi il gruppo a Swindon e affida il missaggio finale alle trenta dita di Paul Fox, Ed Thacker e Dave Gregory. In Inghilterra Andy e Colin troveranno una grana con il vecchio manager e altri problemi economici che finiranno per incidere sulla loro vita e anche sul titolo del nuovo disco che si intitolerà “Oranges & Lemons”, il titolo e infatti ispirato da alcuni passaggi di una filastrocca settecentesca molto nota in Inghilterra. Il disco vendette molto bene e fu un lavoro che alla fine rese tutti molto soddisfatti, la critica lo accolse bene ma non benissimo ma d’altronde dopo “Skylarking” ci poteva stare. I quindici pezzi sono suddivisi su quattro facciate che si aprono con “Garden Of Earthly Delights” e si chiudono 65 minuti dopo con “Chalkills And Children”.

Il disco è scritto in gran parte da Andy Partridge, sono suoi infatti 12 dei 15 pezzi presentati. Il primo pezzo schiude uno scrigno di suoni e colori, a dimostrazione delle tante cose che ci potete trovare ed è l’ideale porta d’ingresso del disco, con le sue semplici arie arabe e quel messaggio ben augurante scritto da Andy Partridge per il figlio Harry, un consiglio a godersi la vita ma anche a non trasformare il passaggio su questa terra in una perenne gita al paese dei balocchi. Contiene grandi classici della band come “Major Of Simpleton”, “King For A Day” che sembra un pezzo dei Tears For Fears e la forzuta “The Loving”, le interessanti “Here Come President Kill Again” e “Hold Me My Daddy” ma anche tanti pezzi con stili ritmici diversi come per esempio “Across This Antheap”, “Poor Skeletons Steps Out”, “Scarecrow People”, “Miniature Sun” a cui aggiungerei il finale “sudafricano” alla Paul Simon “Graceland” di “Hold Me My Daddy” ma ci troverete anche l’adorabile “Merely A

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Man”, la dimenticabilissima “One Of The Milions”, la maldestra “Cynical Days” la divertente “Pink Thing” e chiosa finale, bellissima a mio parere, di “Chalkhills And Children” che è uno straordinario omaggio a Brian Wilson. Come ho scritto sopra il disco non mi sorprende più molto ma ho anche pensato che tutto questo può essere anche dovuto al livello molto alto a cui Moulding e Partridge mi hanno abituato e una riflessione ulteriore che dovrei fare è la seguente: ma se “Oranges & Lemons” fosse l’esordio di una band di provincia inglese, invece che l’undicesimo capitolo di una storia lunga venticinque anni, ne sarei così poco entusiasta oggi?

Con “Nonsuch” si può fare lo stesso identico ragionamento. Disco scarso? Macchè !!! Brutte canzoni? Neanche per sogno !!! Sorprese? Poche. Il trio di Swindon concepisce il suo canto del cigno con l’ennesimo disco lungo, sono diciassette i pezzi della raccolta per altri sessantre minuti di musica. Un disco che presenta il solito livello alto di scrittura, arrangiamenti e tecnica. “Nonsuch” è un disco che a me piace molto soprattutto nei pezzi minori piuttosto che per quelli più noti. Mi spiego “The Ballad Of Peter Pumpkinhead” è sicuramente un overture accattivante e appiccicosa, uno di quei pezzi adatti allo Springsteen coverizzatore di qualsiasi cosa. Magai un giorno di passaggio al County Ground di Swindon, il Boss, manderà in brodo di giuggiole il pubblico di casa, eseguendo questo brano dei “local hero svindoniani” per eccellenza, e mi darà ragione. Ma “The Ballad Of…” è soprattutto un pezzo molto ruffiano come lo è “Dear Madam Barnum” e come lo è “The Dissapointed”. Fra i pezzi orecchiabili “Crocodile” li batte tutti, forse dà l’idea già dall’attacco di non essere un pezzo da prendere troppo sul serio e risulta, per questo, molto godibile e poco stucchevole. C’è qualche omaggio a McCartney di troppo, sentire “Humble Daily”, “Rook”, “Holly Up On Poppy”, “Then She Appeared”, “Wrapped In Grey” situazione questa che in passato non si era mai verificata così palesemente. Ci sono i bei pezzi scritti da Moulding, solo tre purtroppo, “The Smartest Monkeys”, “War Dance” e “Bungalow” con quest’ultima che è un omaggio palese a Paul Buchanan dei Blue Nile, e c’è una seconda parte che si apre con “Omnibus”, decisamente migliore della prima e che definirei anche più coraggiosa e sperimentale a partire proprio da “Ominibus” stessa, dalla straniante “That Wave”, dalle due facce di “The Ugly Underneath” e dalla chiusura sublime di “Books Are Burning” dove l’autore è Andy Paul McPartridge. Scherzi a parte,

qui Partridge si fa prendere un po’ la mano nell’omaggiare Sir Paul ma è innegabile che il pezzo sia un gran bel pezzo. “Nonsuch” non deluderà le attese, venderà bene e come al solito la critica sarà molto benevola (a ragione) nei confronti del trio e cosa succedo dopo è complicato ma forse più semplice di quanto si pensi. Non sono un tuttologo degli XTC e non mi inerpico in ricostruzioni fantasiose o scopiazzature che in rete si trovano a iosa, mi permetto di pensare che la perseveranza di Partridge nel rifiutarsi di suonare dal vivo, vecchie condizioni contrattuali mai risolte o risolte male, quelle nuove da ridiscutere, il nuovo progetto di Partridge, una sorta di nuovo gruppo fantasma alla fine fecero in modo che il sodalizio si spezzò. Solo che ad averne la peggio fu il gruppo la cui carriera di fatto si troncò in quel momento. Ci sarà ancora qualche sussulto, i due volumi di “Apples Stereo” per esempio, meglio il primo che il secondo, ma niente di più. Emersero anche, dopo la fine del rapporto con la Virgin, tensioni anche fra i tre di Swindon e da lì le cose non si ripresero più. Lascio ai puristi e agli esperti, come faccio sempre, il tempo di parlare di raccolte, progetti e produzioni varie dei membri del gruppo, non lo faccio per spocchia ma per il semplice fatto che non le ho mai comprate e non le conosco per niente. In chiusura ci terrei a sottolineare una cosa che rileggendo tanti articoli e recensioni su riviste del tempo e su internet non ho trovato da nessuna parte. Ma come diavolo cantavano Andy Partridge e Colin Mouding? Che voci avevano? Quanto è contato nell’economia di una loro canzone l’interpretazione vocale? E quanto poco ce ne siamo accorti? Tanto della loro grandezza è passata anche da qui e sarebbe ora di rendergliene il giusto merito.

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I Duchi immaginari

Già vendi “pochi” dischi. E cosa ti inventi?

Un mini album, “25 O' Clock”, con sei (deliziosi) brani spacciati per canzoni ritrovate di una fantomatica band (The Dukes of Stratosphear) degli anni ’60. E’ l’idea (folle ed ironica) degli XTC (o meglio del boss Partridge) che debutta nei negozi per di più il 1° aprile (!) 1985, sempre per Virgin Records, e che vede i “baronetti” Sir John Johns, The Red Curtain, Lord Cornelius Plum e E.I.E.I. Owen (rispettivamente Andy Partridge, Colin Moulding, Dave Gregory e il fratello Ian, occasionalmente reclutato a occupare il posto del fuoriuscito Terry Chambers), concepire un album di pura psichedelia anni ’60.

Un giochetto mascherato che funzionò per alcuni mesi fino alla scoperta della voluta beffa musicale (e la cosa, altrettanto sorprendente, fu che il mini album vendette di più di alcuni dischi ufficiali degli stessi XTC).

A leggere quanto riportato dalle cronache le registrazioni (a conferma della bizzarria dell’operazione) dovevano osservare tre regole ben specifiche: 1) seguire pedissequamente le convenzioni della psichedelia degli anni 1967 e 1968; 2) non più di due registrazione consentite per incidere i brani; 3) utilizzare dove possibile attrezzature vintage e strumentazione dell'epoca.

Un progetto che nasce dalla fissazione e dal background di Andy Patridge per i suoi ascolti adolescenziali ricchi di quei suoni di band inglesi come Pink Floyd, Moles, Tomorrow, e che vide la luce in realtà alcuni anni dopo la sua ideazione (assieme a Dave Gregory, anche lui grande fan di quelle sonorità); un ritardo causato dalla ritrosia della casa discografica che intravedeva nel progetto un insuccesso commerciale. Indizi che fanno capire come i Dukes, se pur discograficamente attivi con solo un paio di dischi, hanno rappresentato qualcosa di più di un semplice diversivo nella vita degli XTC.

Vale la pena di sottolineare che il progetto usci in un periodo in cui il recupero della psichedelia era in UK ancora in divenire ed era agli albori con il Paisley Underground negli USA (insomma, anticipatori come sempre), ed il risultato è a dir poco convincente, finendo per piazzare i

due lavori dei Dukes ai livelli più alti della produzione XTC.

Basta perdersi in questi sei brani con gioia (allucinogena), nei suoi riverberi, nelle cavalcate elettriche alla Electric Prunes, nelle tastiere tremolanti, negli arrangiamenti intagliati con certosina precisione da artigiani del suono, nei dolci e malati rumorismi, nelle sue chitarre stranianti, negli echi fuzz, nei nastri incisi al contrario (da veri citazionisti!), nell’armamentario strumentale classico fatto di farfisa, gong, mellotron, clavicembali, sitar e chissà quant’altro; un tentativo (forse) megalomane ma riuscito di provare a inglobare tutti gli album psych degli anni '60 dentro di se.

Avrebbero persino indossato in studio, durante le incisioni, calzoni a zampa d’elefante, camicie paisley e cappelli di feltro per entrare nella “parte”, ed il risultato finale segnala una band immersa pienamente in quei suoni e con un songwriting killer che non lascia scampo, basta ascoltare la torrida “Your Gold Dress” o la magistrale e commovente “The Mole For The Ministry”.

Il sottoscritto non aveva “saputo” del loro mini LP, ma la fantasmagorica allegria di “Vanisghing Girl”, che apre le danze sul successivo disco del 1987 Psonic Psunspot (con un bel vinile viola colorato e copertina apribile), me la ricordo davvero bene!

Un pezzo che ho succhiato fino al midollo, ascoltandolo centinaia di volta ed alzando il culo dal divano e la puntina dallo stereo per risentirlo, per quei tre minuti esatti di perfezione pop con davvero pochi equali.

Chiunque abbia ascoltato “25 O'Clock” sente nel suo successore un andamento “meno” carico di pura psichedelia e meno ricco delle tonnellate di riferimenti presenti in quelle sei canzoni, ornate e modellate su specifici canoni e artisti degli anni '60, così ricco e denso di suoni sino a letteralmente scoppiarne.

Ovvio che fa anche gioco la mancanza dell’elemento sorpresa, rispetto al suo predecessore, e “Psonic Psunspot” non suona allo stesso modo, ricco com’è di tonalità più pop se pur imbevute in evidenti suoni sixties; in compenso continua anche una certa dose d’ironia del progetto, come indica il titolo con due P maiuscole ad anticipare e a

rendere impronunciabili le parole sonic sunspot (come nella migliore tradizione del linguaggio fumettistico di Eta Beta!).

Insomma, se il mini è più fedele alle fonti a cui si ispira, il secondo disco dei Dukes ha comunque tutte canzoni (stra) convincenti con colorazioni trippy, dilatate e luccicanti che qualsiasi orecchio da fan della psichedelia riconoscerebbe in

mondiali, grazie appunto a queste influenze sixties e hippy che troveranno terreno fertile nei nuovi suoni di fine anni ’80, persino nel modo di vestire (da cui il nome baggy, ovvero i jeans larghi e svasati in fondo, mischiati ai nuovi look da rave).

un lampo, grazie a una varietà di canzoni che ricordano molte band di quel periodo (i Kinks in "Vanishing Girl", i Byrds nella baldanza introversa di "You're My Drug", i Beatles nella marcetta irresistibile di “You’re A Good Man Albert Brown” e via così).

Ma al di là della forma rimane il contenuto che, ancora una volta, segnala canzoni da primi della classe. Se della fantastica apertura del disco ho già scritto, il resto non è da meno, sottolineando innanzitutto l’ultimo pezzo “Pale And Precoius” che in realtà contiene di fatto due canzoni in una, con la prima parte contraddistinta da una dolce e malinconica ballata dal sapore lennoniano e che poi si trasforma, in pochi secondi e con una andatura magniloquente, in un brano dal sapore natalizio (con tanto di campellini) per una versione scintillante dei migliori ed immensi Beach Boys, per poi concludersi tornando al suntuoso incipit. Un brano straordinario che racchiude, se volete, in pochi minuti la genialità compositiva di Patridge.

E in mezzo a queste due perle ci trovate un mondo, nel vero senso della parola, dalle sfumature dei Pink Floyd dell'era Barrett di “Have You Seen Jackie" per un’andatura alternata tra il marziale e l’etereo, al groove denso e contagioso di “Collideascope” che piano piano sale e ti prende, sino alle bitelsiane “Shiny Cage” con quel sapore orientale da Fabfour in trascendente meditazione da Maharishi Mahesh Yog e la spumeggiante e più classica “Brainiac’s Daughter’s”, sino alla suadente “Little Lighthouse” demo che arrivava dalla registrazione di “Skylarking”.

I Dukes, ancora una volta, per la loro musica e come nel “formato” XTC, hanno anche inevitabilmente influenzato moltissime band, inglesi soprattutto, che negli anni successivi troveranno una ribalta, e non solo nazionale.

I Dukes anticipano, di fatto, l’onda mancuniana ed acid house, con il ritorno anche a sonorità baggy fino allora bistrattate dal punk e dal post punk, e che si riverseranno nelle chart inglesi e

I Dukes (e gli XTC) se pur ebbero un limitato numero di fan, svilupparono un esteso ascendente sulle band a seguire, visto la loro scelta musicale peculiare, finendo per essere riferimento (voluto o meno) nel corso degli anni di gruppi più giovani, gli Shamen, i Charlatans, Kula Shaker, Badly Drawn Boy o gli Stone Roses che ebbero John Leckie per produrre il loro memorabile album di debutto, scelta evidentemente dettata dal suo lavoro svolto con i Dukes nei due dischi (accreditato produttore sulle note come Swami Anand Nagara, nome sannyasin di Leckie quando era un seguace di Bhagwan Shree Rajneesh… tutto torna no?).

Il mondo è cambiato da allora e con loro le persone (e noi), si scresce, si diventa (magari) più borghesi, ma questo non avviene magicamente con l’ascolto della musica dei The Dukes Of Stratosphear che ribalta anagrafe e forma riportando tutto, anche se per pochi minuti, a tempi celestiali che furono, facendoli sembrare (ed essere) degli splendidi teenager usciti ora dallo spazio/tempo di quegli anni. Godiamoceli per sempre, o per quel che sarà.

Dj Kremlino ps

Per chi vollese spendere pochi euro c’è una versione in CD che contiene tutte le canzoni dei due dischi, intitolata “Chips From The Chocolate Fireball” .

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XTC Dalle parole a altre storie Intervista a Paolo Bertrando

Nello stesso periodo in cui la redazione ha deciso per gli XTC come argomento principale di WN#56 ho comprato il libro “Brian Eno. Diario. “A Year With Swollen Appendices”. Negli stessi giorni ho ripreso in mano, per rinfrescarmi la memoria sulle vicende della band di Swindon, il vecchio libro “XTC testi con traduzione a fronte” edito da Arcana Editrice, con il numero 34, nel 1992. Le due cose apparentemente non sono legate ma un punto in comune lo nascondevano: il traduttore. Per entrambi i testi, in un caso un vero racconto di vita e nell’altro “solo” canzoni, il nome che le aveva trasposte in italiano era quello di Paolo Bertrando. Ho scritto all’editore del libro di Eno, Jaca Book, e la gentilissima Sig,ra Laura Molinari, mi ha permesso di mettermi in contatto con Paolo con cui poi a Giugno abbiamo fatto questa bellissima intervista. Fare un’intervista a qualcuno che ha vissuto il mondo degli XTC in contemporanea e nell’ambiente “inglese” o vicino a esso ci risultava molto difficile, così abbiamo pensato che il traduttore di testi per una collana storica come quella di Arcana Editrice e un fans come Paolo Di Modica, nell’intervista che segue, avrebbero potuto dire cose molto interessanti sull’argomento e dare letture diverse su quello che questo gruppo è stato e ha rappresentato.

WN: Ciao Paolo la prima cosa che ti chiedo è quella di presentarti voglio dire ti occupi di musica, sei un giornalista ...un traduttore ?

Paolo: Io sono un ex giornalista del mondo musicale oramai molto molto ex. Ho collaborato a diverse riviste negli anni ‘70 e ‘80. Ho cominciato collaborando a Re Nudo e poi ho scritto per tante altre era un periodo in cui testate ce n’erano tante, aprivano e chiudevano velocemente, altre sono anche rimaste e continuano a pubblicare come il Buscadero su cui ho poi scritto i miei ultimi pezzi. Dopo di che mi sono laureato in medicina e nella mia vita successiva ho fatto lo psichiatra e lo psicoterapeuta che è quello che faccio ancora tuttora. Nonostante sia ancora oggi un appassionato di musica non sono più riuscito a seguirla professionalmente. In quel periodo mi interessava tantissimo tutta quella musica che era un po’ ai margini della scena rock essendo un po’ eccentrica e particolare quindi sto parlando di Robert Fripp, Brian Eno, i Soft Machine, Robert Wyatt, Gong. Ma anche tutta la parte post punk e new wave l’ho sempre trovata molto interessante, e poi personaggi come Frank Zappa o Captain Beefheart li ho adorati. Ho sempre avuto una predisposizione per tutta quella musica poco catalogabile. Nel post punk mi piacevano i Pere Ubu o i Residents. Mi piaceva l’eccentrico tutto quello che stava fuori dalla linea di tendenza principale e in questo ambito gli XTC mi sono interessati subito, perché erano mi sono sembrati strani e particolari fin dall’inizio.

WN: Gli XTC alla fine ti sono piaciuti molto. Se sei finito a tradurre i loro testi per una collana così importante devi essere andato ben oltre una conoscenza da “interessato”...

Paolo: Ho tradotto tante cose per Arcana. I testi di Brian Eno, dei King Crinson, di Elvis Costello, di Sting e dei Police fino a Laurie Anderson e David Byrne

WN: Quando faremo qualcosa su Costello ti ricontatteremo allora….

Paolo: Costello è stato una mia grande passione, specialmente il primo Costello. Poi, secondo me, si è intrombonito con gli anni. All’inizio era molto fresco. Ma il mio è un pregiudizio perché penso che se uno fa un disco con Burt Bacharach è un po’ andato.

WN: Hai sentito il suo ultimo disco ?

Paolo: No quello no. Anche se devo dirti che gran parte dei dischi di Costello da un certo periodo in poi, esclusi quelli con i quartetti d’archi, li ascolto una volta e poi non riesco

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più ad ascoltarli, anche se non sono malvagi. Tutti hanno fatto boiate, Dylan negli anni ‘80 ha fatto dei dischi orrendi per esempio, e questi di Costello non è che siano male ma li ascolto e mi annoio.

WN: Torniamo agli XTC allora Paolo: Ho un particolare che probabilmente non interessa a nessuno e che non mi succede di ricordare con tutti i gruppi che ho ascoltato e conosciuto, mi ricordo benissimo quando li ho ascoltati per la prima volta. Io e un mio amico facevamo i recensori di dischi e ricevevamo le bracciate di vinili nuovi dalle case discografiche. Uno di questi fu “White Music” ci mettemmo ad ascoltarlo insieme e andammo al piano superiore della stanza dove eravamo soliti ascoltare i dischi e fummo subito colpiti da queste canzoni in vena molto new wave che avevano dei tempi veloci ma che avevano sullo sfondo qualcosa di leggermente storto. La versione, veramente bizzarra, di “All Along The Watchtower” è il simbolo di quello che voglio dire. E’ una versione veramente creativa, chi dopo Jimi Hendrix, poteva farne una versione decente o tentare di farne una credibile ? Ci riuscirono loro, che non avevano, allora, delle particolari abilità tecniche. Fecero una versione frammentata e spezzata che mi colpì e mi piacque subito. Oppure “Science Friction” una canzoncina divertente, veloce, leggera con tutte le cose giuste al posto giusto. In quel momento, era il 1978, nonostante fossero ancora un gruppo dentro alle convenzioni del post punk si sentiva che ne erano già fuori. Questo è quello che mi è piaciuto subito di loro, questo stare sul limite, questo loro modo di fare una musica ascoltabile, non facevano cose alla Residents o alla Cpt. Beefheart quindi musica storta tanto, ma stavano dentro a quell’ascoltabilità in maniera un po’ deviata.

WN: A proposito di “All Along The Watchtower” ci può stare l’apparentamento con la “Satisfaction” degli Stones coverizzata dai Devo ?

Paolo: Si certo, anche se la cover dei Devo è uno smontaggio completo mentre quella degli XTC a me sembra più rispettosa. Con rispettosa intendo che gli XTC riservano un trattamento da fans o da amanti al pezzo al brano di Dylan, mentre sui Devo non giurerei che amassero il pezzo degli Stones ahimè ho avuto l’occasione di intervistare i Devo tantissimi anni fa ma questa cosa non gliel’ho chiesta accidenti !!!

WN: Come mai sul libro dei testi dell’Arcana c’è un doppia introduzione? Una tua e una più corposa di Riccardo Bertoncelli?

Paolo: Semplicemente perché Bertoncelli era il direttore della collana e ci teneva a fare l’introduzione. Dal canto mio anche io ci tenevo. Non fu una cosa concordata, fu una cosa imposta. Mi disse “Hai voglia di tradurre i testi degli XTC?

Bene, io però faccio la prefazione”. Ho potuto solo rispondere “obbedisco” e cogliere l’occasione di fare quel lavoro. D’altronde sottoscriverei in toto tutto quello che ha scritto lui in quel libro.

WN: Tra l’altro sul numero di Rockerilla uscito nell’ Aprile del ‘92, in occasione dell’uscita di “Nonsuch”, c’è una versione alternativa di quella prefazione di Bertoncelli, pubblicata con il fine, credo, di lanciare il libro.

Paolo: Mi cogli di sorpresa perché questo non l’ho mai saputo, ma probabilmente lì deve essere successo che gli hanno chiesto un pezzo e lui ha voluto spingere il libro in uscita.

WN: Tornando agli XTC preferisci il primo periodo o il secondo ? Paolo: Senza paragone il primo periodo. Perché in quegli anni avevano una vivacità e un’inventiva che poi non hanno avuto più. Il primo disco è un disco piacevole, non si può dire che sia un capolavoro però è molto bello e molto fresco come tante opere prime. Il secondo disco in Italia non è stato neanche stampato ed è passato sotto totale silenzio ed è un peccato perché è un disco estremamente interessante, l’ultimo dove c’è Barry Andrews a suonare l’organo. Questo strumento aggiungeva qualcosa ai pezzi dei primi XTC, ho la sensazione che il gruppo fosse un ensemble ancora più compatto con l’organo ed è un peccato che Andrews fuoriesca dal gruppo, di fatto se ne va perché gli rifiutano un sacco di pezzi, ma la cosa curiosa è che finisce a suonare con Robert Fripp nella Leaugue Of Gentlemen, dove non immaginarono nemmeno l’idea di fargli scrivere qualcosa. Infatti quando gli XTC vennero in Italia per presentare non mi ricordo più quale album, e l’uscita dell’organista non era stata ancora del tutto elaborata, qualcuno fece una domanda a proposito e Colin Moulding rispose:“ Non è che noi l’abbiamo licenziato, se n’è voluto andare lui perché non eravamo interessati alle sue composizioni”. Tra l’altro su “Go2” ce ne sono due e sono proprio tra le meno interessanti del disco. Poi aggiunse: ”Se n’è andato per andare in posti dove suona e basta, come quando era con noi...mah !!!”. Erano molto perplessi sulla cosa e da quello che ho capito io è stata un’iniziativa sua quella di uscire. Per me i vertici assoluti della produzione degli XTC sono “Drums & Wires” e “Black Sea”, sono i miei preferiti.

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WN: Non ho idea della stampa estera, ma quella italiana ha esagerato nel paragone XTC uguale Beatles ?

Paolo: Un pochino si ma ci sono dei motivi. Il paragone non tiene perché i Beatles sono stati il gruppo più influente della storia del rock e gli XTC no. Le conseguenze di una musica hanno molta importanza e se provi a immaginarti le musiche di questi due gruppi disperse nel vuoto capisci che se quella dei Beatles diventava subito mainstream proprio perché l’avevano fatta i Beatles, quella degli XTC no. Io capisco l’idea della somiglianza perché effettivamente c’è e si nota nella caratteristica di produrre delle cose che dal punto di vista melodico e compositivo sono estremamente gradevoli. Anche se, devo dire, gli XTC hanno sempre messo qualcosa di particolare nei propri pezzi, ma anche questa è una cosa che anche i Beatles erano bravi a fare, i pezzi dei baronetti a noi sembrano molto ovvi ma in realtà contengono sempre degli accorgimenti che li rendono leggermente scentrati. Ciò che nei Beatles era particolare con il tempo è diventato un luogo comune perché poi i loro dischi li abbiamo ascoltati a ripetizione e questo per gli XTC non è avvenuto.

WN: Nel libro dell’Arcana, nella tua introduzione ai testi rimarchi due cose, a proposito del paragone con i Beatles, che vale la pena rileggere :”Non c’è innanzitutto quel radicato amore del rock ‘n’ roll che era stato carattere basilare dei Beatles e ne c’è il carattere colossale dei quattro di Liverpool”.

Paolo: Questa è una verità parziale perché il tempo ci ha rivelato che i Beatles avevano radici più nere di quanto pensassimo. Con la pubblicazione dei nastri della BBC scopriamo che avevano come nume tutelari più Chuck Berry e Little Richard che Elvis o Eddie Cochran. Magari l’hai già visto ma se non l’hai ancora fatto “Get Back” di Peter Jackson, fa vedere come lavoravano. Una volta Ringo Starr disse :”I Beatles sono una grande piccola rock ‘n’ roll band” spiegando che per scaldarsi si mettevano a suonare i brani degli anni ’50 e poi su quelle basi costruivano i pezzi nuovi. E’ per questo che le basi dei Beatles sono sempre molto forti e molto ritmiche. Gli XTC questo non ce l’hanno, gli XTC vengono da un altro tipo di tradizione, anche quando stanno dentro a una modalità post punk ti accorgi che quel modo di essere post-punk è una citazione e poi secondo me gli XTC sono post moderni e lo sono perché qualunque genere musicale usino, e loro ne usano tanti, ci giocano senza starci veramente dentro, ne sfuggono, è sempre una citazione ed è, per concludere, quella degli XTC un’operazione sottilmente intellettuale.

WN: A pagina 38 scrivi a proposito dei testi degli XTC: “C’è un’altra caratteristica dei Beatles, tenuta sempre in sott’ordine dai quattro di Liverpool, confinata in buona misura all’intimità e ai “Christmas Album”, un uso delle parole da parte di Partridge e (in minor misura da Moulding) come perversioni minime del linguaggio quotidiano”. Qui non ho capito bene cosa volevi dire. Paolo: Volevo dire che man mano che la carriera degli XTC va avanti, nei testi usano sempre di più i giochi di parole, non fanno del citazionismo, ma usano le parole in maniera deviata.

Questo nei Beatles c’è molto meno. Lo fa John Lennon in alcuni pezzi ma non in tutti, i Beatles cercavano di essere più vendibili e quindi utilizzano di meno questo sistema. Gli XTC ci stanno dentro di più in questo modo di scrivere i pezzi perché gli XTC hanno sempre voluto essere un gruppo ai margini, mentre i Beatles no.

WN: Nel libro indichi tre fasi dei testi scritti dagli XTC, una prima fase più punk, una intermedia diciamo da “lavori in corso” e una più matura definita e consolidata per gli ultimi tre album. Ci vuole la lente di ingrandimento per fare un lavoro del genere come hai fatto ?

Paolo: Ora che sono passati trent’anni dall’uscita del libro tutto questo mi sembra molto ovvio….ma allora fu una cosa diversa. Innanzitutto fu fatta una scelta di testi , Bertoncelli ne scelse un po’ e io scelsi quelli delle canzoni che mi piacevano di più. Trovandoti davanti a una serie di testi che vanno dall’inizio alla fine ti rendi conto delle differenze. Quello che fai per cercare di tradurli è trovare una quadra tra una versione che sia il più possibile fedele e una che al tempo stesso riesca a conservare un pochino della musicalità delle parole. Questa è una cosa molto difficile perché le parole stanno su una musica, se cambi lingua e pensi di voler mettere parole con lo stesso significato sulla stessa musica ti rendi conto che non puoi farlo. Quindi ti adatti e cerchi una via di mezzo fra una versione che non sia letterale e una che non può allontanarsi troppo. Intanto che fai questo ti vedi passare davanti questi testi e ti viene facile fare un paragone fra le parole. Fin quando ti ascolti i dischi o meglio, leggi i testi mentre ascolti i dischi, non te ne accorgi perché fai meno attenzione alle parole e sei più attento a come le parole stanno insieme alla musica. Quando sono andato a leggermi i testi dei Dukes Of Stratospear mi sono reso conto di quanto fossero leggeri e di quanto fossero adatti al clima generale di quel progetto. Musicalmente quelle sono pagine tra le più divertenti che hanno scritto, si devono essere divertiti un mondo a fare quei dischi, a fare il pezzo che è uguale ai primi Pink Floyd, quello che è uguale ai primi Kinks, in “The Mole Of Ministry” il basso è suonato con lo stesso stile melodico di Paul McCartney e questo è anche abbastanza riconoscibile. Mi sono veramente stupito di questa cosa dei testi dei Dukes. La musica è molto immaginifica e ti induce a sentirli più complessi di quello che sono ma, per chiudere, penso anche che certe differenze le noti perché è il lavoro stesso che fai che ti spinge, inevitabilmente, a separare il testo scritto da quello associato alla musica.

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Photo by Allan Ballard

WN: Gli XTC hanno sempre lavorato con fior di produttori come mai nessuno ha mai veramente inciso sulla loro musica?

Paolo: Io credo che loro non abbiamo mai voluto e allo stesso tempo mai avuto bisogno, di uno che mettesse le mani sulla loro musica. Rundgren è stato forse il solo che ci ha provato con tutte le problematiche che ha provocato. Ho pensato sempre che un ottimo produttore per loro sarebbe potuto essere Brian Eno e che l’abbinamento potesse essere stimolante. Però Eno è uno che interviene tanto e forse questo non sarebbe piaciuto. Io so che Eno ha prodotto il primo album dei Devo, lo so perché lo racconta lui stesso, ed è stato un braccio di ferro costante. Lui voleva sempre aggiungere qualcosa e il gruppo voleva togliere quello che lui metteva. Alla fine Eno non fu soddisfatto e Jerry Casale trent’anni dopo riconobbe che forse sarebbe stato meglio lasciarlo fare per ottenere un disco più stimolante. Io penso che gli XTC volessero, scientemente, evitare questa cosa. Ma questo è solo il mio pensiero. Forse con “Skylarking” ci hanno voluto provare anche se non ne erano convinti già prima di cominciare sta di fatto che a me quel disco mi sembra un po’ troppo laccato, c’è troppa glassa sopra la torta.

WN: Gli XTC sono anche considerati i padrini naturali del Brit Pop, sei d’accordo? Se così fosse come ha fatto un gruppo che non ha mai raggiunto la fama degli Oasis a tramandarsi nelle nuove generazioni?

Paolo: Hai detto bene “se così fosse”. Perché potrebbe trattarsi solamente di radici simili. E’ come in genetica, una volta in genetica si pensava che gli umani fossero i discendenti degli scimpanzé ma in realtà è una cosa che non è assolutamente vera, il fatto che gli umani e gli scimpanzé si somigliano è perché hanno un antenato in comune ma non hanno mai avuto una linea di discendenza successiva. Secondo me è una cosa simile. Gli XTC richiamano a tutte quelle radici che rispondono ai nomi di Beatles, Kinks e tutti i vari rappresentanti del rock inglese leggero, melodico e amabile degli anni ‘60 e che è stato completamente spazzato via e negato, prima dal progressive e poi dal punk, e loro sono stati i primi, all’inizio degli anni ‘80, a richiamarsi a quel genere. Per me i Blur e gli Oasis si rifanno a quel rock melodico inglese addirittura più che gli XTC stessi. Non mi sembra di aver mai letto un’intervista dove qualcuno di quei gruppi dice :“siamo stati influenzati dagli XTC”, poi magari l’hanno detto in trecento e io non l’ho letto, e nel caso mi sbagliassi chiedo scusa, però non lo ricordo.

WN: Volevo chiederti una cosa sul testo di “No Language In Our Lungs” perché sul libro scrivi a proposito del rock degli XTC come di: ”un rock costruito per parlare di se stesso, e testi rock che parlano di testi rock si veda l’esempio magnifico del testo di “No Language In Our Lungs”….puoi approfondire questo pensiero ? Paolo: Io sono sempre stato un appassionato di questi giochi ricorsivi, di cose che si ripiegano su stesse, mi interessa tantissimo capire come il linguaggio parla del linguaggio, quelle cose che dicevano i post strutturalisti francesi, Roland Barthes etc etc. Quando in “No Language In Our Lungs” dice: “Non c’è linguaggio nei polmoni per dire al mondo come stiamo / Non c’è ponte di pensiero / Né connessioni di cervelli né modo d’esprimere quello che pensi” è chiaro che quella canzone sta parlando del tentativo di dire qualcosa e sta parlando si se stessa. E’ come se l’autore dicesse: “Io mi rendo conto che non è possibile dire veramente delle cose però intanto quelle cose che non posso dire le sto dicendo” o ancora “la creatività ha un limite ma attraverso la creatività io posso trascenderla e quindi posso fare una canzone sull’impossibilità di fare una canzone”. In piccolissimo è Samuel Beckett quando dice: ”Non posso andare avanti, non posso andare avanti, andrò avanti” alla fine de

“L’innominabile” il terzo romanzo della trilogia . Nel loro piccolo gli XTC fanno la stessa cosa che è una cosa che aveva fatto anche Robert Wyatt nel brano “Signed Curtain” che trovi nel disco “Matching Mole”, e dove il testo è basato sul fatto che è la canzone che dice che stai cantando una canzone, alla fine Wyatt dice: ”Non importa non fa male / significa solo che ho perso la fede in questa canzone / Perché non mi aiuterà a raggiungerti”. Tornando al testo mi piaceva molto questa idea di superare un’impossibilità con un atto creativo.

WN: Tradurre i testi vuole dire anche entrare in contatto con chi li ha scritti, non mi riferisco a un contato fisico ma mentale. Che idea ti sei fatto delle due personalità principali che hanno scritto e retto gli XTC lungo tutta la carriera, ovvero Andy Partridge e Colin Moulding?

Paolo: Partridge era sicuramente il più eccentrico, il più bizzarro e il più portato ai giochi di parole. Moulding invece era quello che aveva più il senso dell’insieme musicale. Il fatto che avessero questo tipo di differenza di personalità è stata una delle cose che ha fatto pensare a tanti critici che somigliassero ai Beatles, con pietra angolare del paragone la dualità Lennon McCartney. Solo che negli XTC, nemmeno dopo la separazione e qualche lite, non c’è mai stata quella lotta per la supremazia che c’era tra Lennon e McCartney, nel senso che Colin Moulding non è mai stato quello che ha cercato di essere più creativo di Andy Partridge, si bilanciavano molto bene però e Partridge era sicuramente quello più prolifico e trainante.

WN: Il posto dove sono nati e cresciuti e dove hanno vissuto per gran parte della loro vita ha influito sulla loro musica? Perché questa storia della provincia inglese torna spesso quando si parla di loro

Paolo: Ha influito di sicuro e ha mostrato limpidamente che per gli XTC “vendere” era importante ma non la cosa principale. Se vuoi “vendere” devi toglierti dal posto di provincia e andare subito a Londra. I Beatles sono corsi subito a Londra e Liverpool l’hanno vista poche volte dopo il 1963. Rimanere a Swindon ti fa rimanere più fedele a quelle che sono le tue radici e questo non è un male, ma non ti fa entrare nel commerciale e forse non ti aiuta a evolverti più di tanto. Questo è quello che mi sono sempre chiesto quando penso alla loro carriera che non è durata poi molto se ci pensiamo bene. Forse rimanere a Swindon è stato tranquillizzante e corrisponde molto al carattere di Partridge. D’altronde Partridge è uno che smette di esibirsi dal vivo perché ha gli attacchi di panico e quindi vuole vivere nel suo mondo protetto, la conseguenza è che il mondo protetto non ti aiuta a evolverti.

Seguono i ringraziamenti e i saluti e la rivelazione da parte di Paolo di una dedica di Andy Partridge sulla copia del suo libro l’unica, mi dice, di un mio libro con la dedica di qualcun altro. Dopo l’uscita lo intervistò e lui gli scrisse: “Grazie per il duro lavoro che hai dovuto fare sulle parole. Ora ti puoi riposare.” E queste parole, aggiunge, ti danno l’idea del personaggio, una persona molto simpatica e piacevole.

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XTC A dieci piedi di altezza

Intervista a Paolo Di Modica

Come ho anticipato nell’ introduzione dell’intervista a Paolo Bertrando ho voluto sentire, per questo nostro viaggio nel mondo degli XTC, anche la parola di una fans. Ma Paolo non è solo un fans della band di Swindon ma un vero esperto della loro storia. Basta spulciare il sito italiano www.10ft.it che ha dedicato a Partridge & C. per capire la capillarità della sua passione e quanto impegno e lavoro può essere costato tutto questo. Non si poteva non chiedere un intervento a uno dei massimi esperti ixtisitologia in Italia.

WN: Ciao Paolo benvenuto sulle pagine di WN la prima cosa, ovvia, che voglio chiederti è come nasce la tua passione per gli XTC. Paolo: Alla fine degli anni ‘70 conosco una ragazza inglese che al momento del suo ritorno in Inghilterra mi lascia un tesoretto di cassette. Mi piaceva già la musica e seguivo tanti gruppi ma molti nomi della nuova scena non li conoscevo per niente. Le cassette erano di Jam, Costello, Joe Jackson, Talking Heads, Joy Division insomma quello che poteva andare nella Londra di quegli anni e fra queste c’era anche “Drums & Wires” degli XTC. Gli XTC mi risultano un po’ ostici all’inizio, come credo a tutti quanti al primo ascolto perché non sono diretti. Qualche tempo dopo mi ritrovo a fischiettare il motivo di “Ten Feet All”, sul momento non riesco a ricordarmi dove l’avessi ascoltata, ne vengo a capo e trovo stupendo il pezzo e il disco. Ancora oggi mi domando come mai certi dischi non fanno questo effetto subito. Da quel momento è stato amore, è stata una scintilla. Ho subito recuperato i due dischi precedenti e poi ad ogni uscita mi informavo attraverso le riviste che all’epoca erano l’unica maniera per seguire i gruppi. La carriera degli XTC è stata lunga e quello che posso dire a riguardo è che è stata sorprendente perché, per me, ogni disco era più bello del precedente. Certo è un gruppo che richiede pazienza nell’ascolto dei propri dischi, pazienza che viene sempre ripagata per bene devo dire. Sono un gruppo che ti ripaga con il tempo, altri gruppi sono più comete, riescono a comunicarti subito determinate emozioni, gli XTC hanno bisogno di tempo.

WN: Paolo Bertrando qualche pagina prima di questa dice una cosa quasi contraria alla tua quando parla del suo preferire l’istinto comunicativo che aveva la loro musica nei primi dischi.

Paolo: Può essere però devo dire che era una questione di suono. Un suono figlio di un’epoca e di una stagione, quella del punk che aveva modificato le regole. Ad un certo punto le case discografiche si sono accorte che anche chi non sapeva suonare poteva vendere dischi. Era l’impatto la cosa principale. E la stessa cosa successe con gli XTC. Sono d’accordo con lui su questo. La prima parte della loro carriera è freschissima, “White Music” stesso è freschissimo. Dopo “English Settlement” per me gli XTC sono cresciuti dal punto di vista compositivo e musicale, hanno perso la freschezza ? Si certo, ma questo è successo a tutti.

WN: Dopo la fuoriuscita di Terry Chambers non hanno più avuto un batterista fisso ma si sono affidati volta per volta a dei turnisti. Ha influito questa scelta sul suono del gruppo secondo te? Paolo: Chambers se n’è andato dopo “English Settlement” voleva suonare dal vivo e di fronte ai problemi di Partridge si è arreso e ha preferito andare a suonare in Australia con una band che si chiamava Dragon e durò qualche anno. Per risponderti io credo di no, che la scelta di non sostituire Chambers con un altro batterista fisso non abbia influito sul suono che avevano e volevano fare. A parte che si sono alternati sempre dei grandi batteristi e poi a quel punto della carriera inserire una figura nuova nel gruppo non avrebbe avuto senso a livello di intesa soprattutto. Io credo che il nucleo portante degli XTC fossero loro tre sotto tutti gli aspetti, il suono erano loro.

WN: Come hai fatto a coltivare questa passione negli anni in cui tutto era molto meno a disposizione di oggi, sto parlando sia dei materiali discografici, sia dei contatti con altri fans, dei viaggi che immagino avrai fatto insomma raccontami

Paolo: Non sono mai riuscito a vederli dal vivo. Sono andato in Inghilterra più volte perché i fans degli XTC fino a prima del Covid organizzavano dei raduni abbastanza importanti. Negli anni ‘70 e ‘80, quando i negozi di dischi funzionavano a dovere, li frequentavo molto spesso e, a partire dalla X, scartabellavo tutto quello che c’era. Abitavo a Bologna quindi in una città che ne aveva parecchi. Ero alla ricerca di tutto dai 45 giri ai bootleg. Ho la fortuna di poter andare anche in Olanda e Germania dove ho trovato delle cose che degli XTC difficilmente potevi trovare da noi. Era un’opera di ricerca archeologica, nei negozi ci stavo

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ore. Adesso è tutto disponibile con un paio di click. In epoca pre internet non mi confrontavo con nessuno, erano già pochi quelli che conoscevano gli XTC, figurati quelli che ne compravano i dischi, giravano tante cassette e io stesso facevo il messia cercando di farli conoscere agli amici. Il resto lo apprendevo dalle riviste, tutte quelle che uscivano in Italia all’epoca senza particolari distinzioni.

WN: Inghilterra a parte quali sono i paesi dove gli XTC sono più seguiti ?

Paolo: Sicuramente Stati Uniti e Giappone. Ma anche in Italia ci sono parecchi fans. Di questo io me ne sono accorto solo dopo aver fatto nascere Ten Feet All (sta parlando del sito, primo riferimento per ogni fans italiano che si rispetti, ndr). Li ho conosciuto persone, ti faccio i nomi Roberto Galli, Alberto Repetti, Egidio Sabadini, Alberto Castagna, con cui sono in contatto tuttora e con cui ho stretto amicizie fantastiche che sono andate e vanno oltre la musica. Il sito è nato nel 1998 ed è stato segnalato sul sito ufficiale degli XTC per tanti anni fino a quando non hanno fatto un restyling di questo e allora hanno scelto di non dare riferimenti di questo tipo. Ed il sito è stato il parafulmine che ha attirato a me tanti fans che non avrei mai potuto conoscere. Il sito è diventato molto importante addirittura mi contattò la rivista Rolling Stones per inserirvi una loro pubblicità…..all’inizio pensavo fosse uno scherzo di un amico. Nel 2017 ho avuto un riconoscimento enorme che mi ha dato una soddisfazione immensa quando, il produttore del documentario sugli XTC di Sky Arts, mi contatta perché ha visto sul sito delle tavole che ho fatto ispirate alla cover di “Oranges & Lemons” e mi chiede se gliele posso prestare. Io rispondo che le tavole sono vecchie e hanno una risoluzione inadeguata da mettere in un video. Finiamo per accordarci che rifaccio la cover del disco ampliandola ai lati e di fatto ricostruendola e con una risoluzione che ci potevano fare un manifesto. Alla fine il mio lavoro diventa la copertina del documentario (la potete vedere qui sotto, ndr) e addirittura Steven Wilson dei Porcupine Tree, colui che ha rimasterizzato alcuni dischi degli XTC, lo mette come sfondo della sua pagina web. Il sito mi è costato molto lavoro ma mi ha anche dato tante soddisfazioni, devo dire che molta della sua completezza la devo a tanti giornalisti italiani che mi hanno aiutato, mandandomi del materiale da loro redatto , che mi era sfuggito.

WN: Da fans come convivi con la tua band che non produce più ? Hai qualche speranza che dal cassetto salti fuori qualcosa ? Paolo: Le speranze purtroppo non sono rosee, il gruppo si è sciolto e non credo che abbiano la voglia di rimettersi insieme. Partridge sta facendo dei lavori, ogni tanto fa uscire delle demo. Moulding e Chambers sembrava volessero fare qualcosa insieme ma pare sia naufragata anche questa idea. Non ci sono i presupposti perché loro

tornino a suonare insieme. Da parte di Partridge io penso che ci sia, adesso come adesso, solo la voglia di vivere in maniera defilata. Ti racconto una cosa, quando sono andato a Swindon e mi sono confrontato con altri fans inglesi, da buon italiano, ho proposto di andare a casa di Partridge e suonargli al campanello ipotizzando che qualcosa sarebbe accaduto, magari sarebbe uscito. Tutti gli altri mi hanno guardato come se fossi matto, avevano un profondo e rigoroso rispetto per la sua privacy e le sue sofferenze che mi ha messo in imbarazzo. In quell’occasione ho capito quanto i fans degli XTC rispettino questa sua scelta di vivere così lontano dal clamore.

WN: Una domanda che ho fatto anche a Bertrando e che in parte è legata alla tua risposta di poc’anzi nella storia degli XTC ritorna spesso il fatto che loro sono sempre stati legatissimi alla propria città, questa città lontana dal chiasso e profondamente provinciale quello che ti chiedo, visto che ci sei stato, è se questo posto ti è sembrato così ideale e necessario per scrivere le canzoni che hanno scritto ?

Paolo: Swindon è stata la loro forza perché li ha tenuti uniti. Sul fatto che sia il luogo ideale non saprei cosa dirti perché non ci sono stato per tantissimo tempo ma solo per brevi periodi. Il mio approccio a Swindon è stato perfettamente in linea con il nomignolo che ha, ovvero “la sanguinaria Swindon”. Quando con Roberto Galli mi sono recato lì per la prima volta, durante un giro in centro di sera, non ho mai visto un concentrato così alto di risse, sangue e polizia. Ad un certo punto ce ne siamo andati, perché senza aver fatto nulla, c’erano alcuni personaggi che se la volevano prendere con noi solo per il gusto di fare rissa. Anche se in certo periodo per Swindon gli XTC erano delle star della musica rock devo dire che quel posto con la sua gente poco invasiva li ha in un certo modo protetti e lasciati lavorare, soprattutto dopo l’abbandono delle esibizioni dal vivo. In Italia non so se sarebbe stata la stessa cosa.

WN: Essere riusciti a sopravvivere rinunciando a fare concerti nel mercato discografico degli ann’80 è stato un miracolo, anche se allora gli artisti vendevano di più e magari si potevano concedere di suonare meno dal vivo, che ne pensi?

Paolo: Sono d’accordo che sia stato un miracolo, senza la visibilità che danno i concerti riuscire a fare i dischi che hanno fatto per tutti quegli anni non può essere stato che quello. C’è però da dire che dopo il concerto di Parigi, dove Partridge sta male e da lì decide di non fare più concerti, il batterista molla ma gli altri due, Moulding e Gregory, rimangono. Lo fanno perché sono due persone miti che capiscono cosa sta succedendo al loro amico. E questa è la parte umana del miracolo che spiega molte cose su di loro e sul loro rapporto.

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WN: E poi visto che le carte erano già abbastanza scompaginate perché non creare ancora un po’ di confusione e fare un altro gruppo sotto mentite spoglie?

Paolo: Hanno voluto fare un omaggio alla musica che ascoltavano da ragazzini. Posso dirti che a me quei due dischi mi esaltano, sono due composizioni freschissime che viaggiano da sole e che non mi stanco mai di ascoltare. Un omaggio a un periodo d’oro della musica ma anche alla loro adolescenza.

WN: Ma è vero che dopo l’uscita di “Nonsuch” Partridge propose un progetto analogo, più pop diciamo e con un nuovo nome?

Paolo: Si è vero ma ce n’era anche uno prima di cui ricordo poco e non mi sbilancio perché non voglio dire cose non sbagliate. Di sicuro dopo “Nonsuch” con la casa discografica i rapporti sono andati a rotoli e tutto è naufragato. Loro li per sette anni esercitano nei confronti della Virgin un vero e proprio sciopero, una cosa che nella musica si è vista ben di rado.

WN: Credi che in quel momento fra di loro fossero d’accordo o qualcuno avrebbe accettato le nuove condizioni? Perché poi di fatto dopo quel disco gli XTC non esistettero più ?

Paolo: Partridge era inteso come leader soprattutto all’inizio della carriera. Nel 1992 le decisioni le prendevano insieme e nel braccio di ferro con la Virgin, che sappia io, erano tutti dalla stessa parte.

WN: Mi piacerebbe parlare delle fanzine che raccontavano, in tempi al giorno d’oggi inimmaginabili, le gesta del gruppo. Ne conoscevi qualcuna ?

Paolo: Si principalmente Limelight e Little Express che usciva in Nord America. Di Limelight conservo tutti i numeri. Erano dei bellissimi lavori dove c’era ricerca e inventiva, d’altronde fare una fanzine nell’era pre internet ti dava la misura di quanto uno potesse essere appassionato.

WN: Abbiamo provocatoriamente intitolato il nostro speciale “XTC: Forse non erano i nuovi Beatles” tu che ne pensi di questo paragone che è ritornato spesso nella loro storia ?

Paolo: Si, spesso se non sempre, gli XTC vengono accostati ai Beatles. Ma anche ai Kinks o ai Beach Boys. Sono band con cui i principali membri del gruppo sono cresciuti, dal momento che crescendo fai il musicista e fai un genere che per certi versi è una evoluzione delle cose che facevano quei gruppi è naturale che qualche somiglianza/assonanza ci possa essere. Ma quello che io trovo speciale nella musica degli XTC è che Partridge, principalmente lui, si diverte volta per volta a sciupare delle canzoni che sono potenziali hit con divagazioni e

quant’altro che risultano essere delle autentiche zavorre per chi non ha orecchie ben allenate. I pezzi più melodici dei Beatles, le loro hit, e quelle degli altri gruppi che ho citato non sono così, per gli XTC invece si. Questa è per me la grande differenza che li smarca decisamente dai Beatles.

WN: In questo lavoro di rilettura e devo dire anche di riscoperta della carriera degli XTC mi sono sorpreso ad apprezzare una caratteristica che raramente, se non mai, è emersa quando si è parlava di loro. Ma come cantavano Andy Partridge e Colin Moulding?

Paolo: Sapevo che Partridge registrava la sua voce su sei piste diverse e poi le univa e lo ha fatto soprattutto per i dischi dell’ultimo periodo e invece di Moulding mi sono sempre domandato dove prendesse la voce perché ne ha sempre avuta poca però sai in studio la resa è sicuramente diversa. Si sono compensati perfettamente, Moulding aveva una voce più vellutata e Partridge più spigolosa ma hanno reso, anche per questo particolare, gli XTC una band unica.

WN: Su “Nonsuch” uno degli ultimi pezzi in scaletta è “Bungalow” e li Moulding canta meravigliosamente un pezzo, che secondo me è un omaggio a Paul Buchanan dei Blue Nile perché lo imita alla perfezione Paolo: Ma Moulding è sempre stato uno che nascondeva molto le sue doti e quando prima facevo riferimento alla mitezza e alla sensibilità che celavano non lo facevo a caso...pensa che all’inizio della loro carriera il favorito della casa discografica come front man era lui ma Partridge era oggettivamente più adatto

chissà però che storia sarebbe stata

Photo by Sheila Rock
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XTC: Quando il produttore va in vacanza

Riflessioni su produzione e industria discografica di Giorgio Ferroni

oggetto di questo numero di WN, ossia gli XTC hanno avuto la fortuna di lavorare con diversi produttori importanti e noti anche al grande pubblico. Nel mondo della musica spesso i produttori sono relegati in seconda fila, ma alcuni sono diventati delle vere icone, come Rick Rubin, Brian Eno, Steve Albini ed altri.

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Per quanto riguarda gli XTC i loro primi due album sono stati registrati con John William Leckie, produttore e ingegnere del suono che ha iniziato a lavorare negli anni '70 negli Abbey Road Studios di Londra ed ha collaborato, tra gli altri, con John Lennon, George Harrison e Pink Floyd. Nel 1978 lascia gli Abbey Road e produce diversi album per Simple Minds e Magazine, oltre che il primo singolo dei Public Image Ltd.

Il terzo album “Drums end Wires” ed il quarto “Black Sea” sono stati invece gestiti da Steve Lylliwhite, che ebbe un ruolo molto importante nel collaborare a molte delle produzioni new wave della fine degli anni settanta inizio ottanta. Celeberrime le sue produzioni dei primi tre dischi degli U2, ma si ricorda anche il magnifico terzo album di Peter Gabriel. Contemporaneamente lavora anche con Simple Minds, Big Country, Talking Heads, Rolling Stones e Pogues.

Altra celeberrima produzione associata agli XTC è stata quella dell’album “Skylarking” affidata a Todd Rundgren, fra i suoi lavori album di New York Dolls, Grand Funk Railroad, Hall & Oates, Meat Loaf, The Tubes, Patti Smith, The Psychedelic Furs e Bad Religion.

Ciò detto, chiediamoci quanto è percepibile il ruolo di questi produttori nella discografia degli XTC?? La domanda non è di facile risposta, perché dipende da un numero incredibile di variabili e di situazioni difficilmente valutabili. In generale in redazione siamo tutti piuttosto convinti che gli XTC avessero una personalità ed una capacità di scrittura già molto definita, ragion per cui la mano dei produttori, pur importanti e famosi, si percepisce in un modo certamente non invasivo, fatta forse l’eccezione del lavoro di Rundgren su “Skylarking”, album che si caratterizza anche per avere questo missaggio in continuità fra le tracce.

In alcuni situazioni non è certo stato così; se restiamo nell’ambito dei lavori di Steve Lylliwhite con gli U2 la differenza fra i primi tre dischi, molto “gaelici” con queste chitarre squillanti che troviamo anche nei Big Country, e i dischi prodotti da Eno e Lanois (da “Unforgettable Fire” in poi) si sente eccome.

Molto dipende anche dalle regole di ingaggio di un produttore e questo attiene anche alla relazione fra il gruppo e la casa discografica che comunque mette i soldi e ha un ruolo non trascurabile nel progetto. In alcuni casi la produzione è scelta a tavolino dall’etichetta per avere un suono adeguato al mercato, in altri casi, tipicamente quelli in cui l’artista è nelle condizioni di potere scegliere, sono i musicisti a chiedere alla casa discografica un professionista in grado di garantire un certo tipo di sonorità.

In conclusione, quanto incide il ruolo della produzione sul risultato finale non è quasi mai dato saperlo con precisione. Il pianista Glenn Gould già nel 1966 in “The Prospects of Recording” faceva notare come per l’ascoltatore fosse sostanzialmente impossibile capire dove finisse l’azione del musicista e dove iniziasse quella del produttore e del tecnico. Si può sostenere

che la musica registrata sia in ogni caso un processo complesso in cui entrano diversi soggetti a cominciare anche dai turnisti che spesso intervengono nel processo della registrazione in studio.

Il fascino della musica sta anche nell’essere un processo spesso collettivo, che non riguarda solo le persone che vi partecipano, ma attiene anche agli strumenti musicali e tecnologici, agli accorgimenti con cui viene realizzata ed anche ai luoghi in cui la musica viene registrata.

Come sarebbe stata “Come ay You are” dei Nirvana, senza il timbro del chorus Small Clone della Electro harmonix? The Edge avrebbe composto gli stessi brani se non avesse avuto a disposizione i delay per manipolare la sua chitarra? Esisterebbe la Trap senza l’autotune?

Nelle registrazioni ogni ambiente è diverso dagli altri e ogni studio di registrazione ha il suo riverbero che ne caratterizza il suo suono. La musicista di avanguardia Pauline Oliveros con il suo gruppo Deep Listening Band, ha portato questo concetto all’estremo usando come dei veri e propri strumenti degli ampi spazi di risonanza e riverbero come caverne, cattedrali e grandi cisterne sotterranee. È indubbio che alcuni studi di registrazione, come gli Abbey Road o gli Hansa di Berlino, abbiano avuto un feeling particolare che ha caratterizzato la musica che vi è stata prodotta.

Nella narrazione della storia dei Beatles si usa spesso l’immagine secondo cui, nella seconda parte della loro carriera, quando si dedicarono completamente alla registrazione abbandonando le esibizioni live, usarono lo studio di Abbey Road come “uno strumento musicale”. Lo storico del rock Doyle Greene definisce lo "studio come strumento compositivo" ossia come un processo in cui la musica viene prodotta attorno a costruzioni in studio piuttosto che con il metodo più tradizionale di catturare una performance dal vivo. In questo ambito si inseriscono anche tecniche quali l'incorporazione di suoni non musicali, la sovra incisione, il montaggio di nastri, la sintesi del suono, l'elaborazione del segnale audio e la combinazione di esecuzioni segmentate (take) in un insieme unificato. Alcune produzioni sono molto trasparenti, soprattutto in ambito indie, in cui ci si limita a portare l’artista in studio e registrarlo in presa quasi diretta. Il ruolo di Spot, storico produttore delle SST record è un buon esempio di questa pratica; i dischi dei Meat

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Todd Rundgren & Andy Partridge

Puppets e degli Husker Du sono in questa dimensione del “buona la prima” e per quanto pieni di imprecisioni ed approssimazioni sono eccellenti esempi di come anche senza troppi fronzoli si possa realizzare un ottimo lavoro che cattura l’energia e la freschezza del lavoro dei musicisti.

Altre produzioni lasciate in mano direttamente ai musicisti sono invece semplicemente sbagliate. Continuo a pensare che la scelta di Mould e Hart di autoprodurre “Warehouse: Songs and Stories” sia stato un errore clamoroso, per il semplice fatto che essendo i due già in competizione si sono probabilmente limitati a sgomitare per mettere in evidenza il loro ruolo, tanto è che nel missaggio il basso semplicemente sparisce, sommerso dalla batteria di Hart e dalle chitarre di Mould. Spesso è il produttore a sembrare non adatto alla collaborazione con il musicista, in questo caso si cita spesso il secondo disco del Clash “Give 'Em Enough Rope” con Sandy Pearlman alla produzione, sul cui ruolo il batterista Topper Headone disse “Se avessimo saputo in anticipo il risultato, non l'avremmo fatto. Ci sono un sacco di effetti. Persino sul suono della batteria c'è un effetto di phaser. Quando abbiamo sentito i commenti che parlavano di un sovraccarico di produzione, abbiamo capito che, sì, forse era vero”.

Al contrario alcune incisioni fantastiche non sarebbero semplicemente concepibili senza l’apporto di tutta una serie di contributi collaterali. “Transformer” di Lou Reed è indubbiamente profondamente segnato dalla produzione e dalla post produzione di Mick Ronson e David Bowie. Ma che cosa sarebbe il brano “Walk On The Wild Side” senza il contributo del turnista Herbie Flowers, bassista, suonatore di tuba e musicista poliedrico, che viene accreditato come l’autore e l’esecutore dell’accompagnamento di basso che caratterizza il brano. Flowers ha suonato con artisti come Paul McCartney, Cat Stevens, David Bowie e T.Rex. Le sue linee di basso sono diventate famose in brani capolavoro quali “Space Oddity”, “Rebel Rebel”, “Dandy In The Underworld” e “Perfect Day”. Come suonerebbero oggi quei brani senza il suo contributo? Non è dato saperlo, ma probabilmente in modo molto diverso. “Loveless” dei My Bloody Valentine vede accreditati ben 14 ingeneri del suono, Kevin Shields ha sempre dichiarato che si limitarono a preparare il tè, ma dubito che sia vero, anche perché la produzione costò alla Creation circa 250.000 sterline nel 1991.

Howling Wolf comincia ad incidere dischi a quaranta anni suonati quando viene portato a Chicago da Leonard Chess, senza il ruolo di quest’ultimo come produttore e discografico molta della musica rurale del sud degli Stati Uniti non si sarebbe probabilmente registrata e non avrebbe avuto l’importanza che oggi tutti le riconosciamo. Anche i Sex Pistols non si sarebbero mai costituiti se Malcom McLaren non avesse orchestrato, assoldando il diciannovenne John Lydon, la realizzazione di un gruppo che incarnasse in qualche modo l’estetica del suo negozio di vestiti londinese. Anche i Clash si formarono nel 1976 grazie al lavoro del manager Bernie Rhodes, che reclutò il cantante chitarrista Joe Strummer che era allora membro di un altro gruppo: i 101'ers. Sul ruolo di George Martin con i Beatles o di Andy Warhol con i Velvet Underground poi si sono scritte delle vere e proprie enciclopedie.

Le industrie discografiche investivano e sapevano prendersi dei rischi e riuscivano anche a darsi i tempi e i modi giusti per costruire le loro proposte artistiche. Il giovane David Bowie dopo l’inizio della sua carriera solista ha dovuto aspettare ben cinque anni per avere una Hit in classifica, il brano in questione è “Space Oddity” pubblicata nel 1969 per la Philps/Mercury. Nei giorni nostri, probabilmente, nessuna casa discografica continuerebbe a investire per un tempo così lungo senza avere dei ritorni economici significativi. “Space Oddity” era il decimo singolo pubblicato da Bowie che esordisce con il 45 giri “Liza Jane” pubblicato nel 1964 con il nome “Davie Jones with The King Bees”. Forse senza un ruolo così importante e lungimirante delle case discografiche Bowie dopo i flop dei suoi primi dischi avrebbe cambiato mestiere.

La produzione però non si limita all’aspetto strettamente legato alla registrazione, i produttori discografici erano/sono anche persone in grado di setacciare i club per proposte che avessero un mercato potenziale. Fatto questo serviva stipendiare i musicisti per permettergli di mantenersi mentre componevano ed anticipare poi i soldi per la registrazione, la produzione, la distribuzione e la pubblicità del prodotto. In quel mondo c’erano (oggi un po’ meno) grandi personalità che, a volte, pur non essendo musicisti avevano comunque un grandissimo senso artistico.

Il fatto che oggi si investa poco, se non pochissimo, nella produzione e nella registrazione della musica ha cambiato il mercato; anche il semplice fatto che passando la musica principalmente attraverso lo streaming in un ascolto occasionale, veloce e spesso gratuito, non conviene investire troppo tempo e risorse. Fatto salvo per tutto quello che viene veicolato da strumenti come i Talent che sono probabilmente le nuove “case discografiche” a cui il mercato fa riferimento.

Il contatto diretto fra artisti indipendenti e pubblico resta e migliora per certi versi grazie alla rete; ma siccome il mercato discografico tradizionale è finito è finita anche la musica come la intendiamo noi e dischi come “Loveless” dei My Bloody Valentine o “Transformer” di Lou Reed non se ne pubblicheranno più, semplicemente perché costa troppo realizzarli in rapporto a quello che è il potenziale ritorno economico.

Herbie Flowers
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Malcom McLaren

XTC: Figli e figliastri

Non il miglior periodo per tracciare con la dovuta completezza l’albero genealogico di un’importante casata del Regno britannico, signora mia. Eppure, se i patriarchi sono arcinoti, e i padri essendo i signorotti da Swindon protagonisti del numero di WolverNight che con la giusta dose di gelosia tenete tra le mani, è più complicato individuarne gli eredi. Certo è che lascito e legati compresi nel presumibile testamento olografo redatto dalla ex coppia di fatto Partridge/Moulding non può essere cercato nella sola Albione, e che nel mare magnum di artisti, bande, menestrelli e aventi causa tra i più assortiti ossessionati dalla parabola XTC può essere disagevole pescare i pesci grossi se non proprio quelli più saporiti. Tuttavia, setaccio in mano, ci pare di poter individuare i migliori cultori della materia abitanti il globo terracqueo, certo figli legittimi dei Nostri, e ci perdonerete se contravveniamo al consacrato principio di diritto civile secondo cui mater semper certa, pater numquam

A riallacciare i nodi intricati dei rapporti famigliari furono certo i Blur di Damon Albarn e Graham Coxon, la miglior band insieme ai Teenage Fanclub uscita dal Regno in tutti gli anni Novanta, considerato che le altre due candidabili, gli Stone Roses e i La’s, avevano finito di scrivere le pagine che li resero immortali un secondo prima dell’autodistruzione già alla fine degli anni Ottanta. E dunque Damon, bello, educato, talentuoso, colto, uno che già nei primi anni di liceo per impressionare le compagne di classe girava con un violino in una mano e il Capitale di Carlo Marx nell’altra, riallacciò i fili della controversa vicenda del pop patrio in tempi sospettissimi. Il vuoto di potere, da quando le classifiche resero inaccessibili i propri piani alti ai grandi signori del secondo Impero britannico, e dunque durante i tortuosi anni ’70 in cui vaghi vagiti di pop chitarristico sembravano udibili, per quanto sommessi, solo dalla parte opposta dell’Atlantico, fu lunghissimo. Albarn, sopravvissuto senza troppi traumi alla diaspora del cosiddetto post punk prima, e della dance da grandi magazzini poi, rimise all’improvviso la melodia colta in cima a charts occupate da capelloni, chitarroni, amplificatoroni e camicie di flanella. Lo fece passando dal pertugio più stretto, senza strizzare gli occhi ai famelici A&R delle multinazionali del disco. Se l’intera epopea Blur è stata contrassegnata da una miscela pop intricata, complicatissima, fatta di sfumature chic, arrangiamenti barocchi, linee vocali imprevedibili, progressioni di accordi fluorescenti, è soprattutto nella prima fase, e massime in “Parklife”, che il gran riassunto delle istanze scioviniste britanniche raggiunse un quoziente alchemico pressoché miracoloso. I Kinks e gli XTC, mattinate passate a sonnecchiare davanti agli speakers corners gettando le briciole ai piccioni. Sunday Roast e acuminate riflessioni davanti alla solita medication, l’ennesima pinta al pub. Lo specchio dell’isola madre alla fine del secolo. Se l’eredità è una cosa seria, gli eredi sono gravati da oneri gravosi. Albarn e Coxon presero di peso Ray Davies, Andy Partridge e Colin Moulding, per traghettarne verso il nuovo millennio il bagaglio culturale. Un bagaglio, peraltro, pieno di sterline. Perché la battaglia con quell’altra band famosa sarà anche stata persa ai botteghini, ma nondimeno, parafrasando l’allora bassista della band Alex James intento a valutare il peso sociale del capolavoro “Great Escape”, 4 milioni di copie vendute, “l’album non sarà popolare come Morning Glory, ma se sali su un autobus almeno una persona che l’ha comprato la trovi sicuramente”.

Per il resto assecondando la volontà della direzione, che mi ha improvvidamente affidato il compito di perlustrare gli scantinati si

fa in effetti una certa fatica a ricercare, e figuriamoci a trovare, titolari di quote del patrimonio XTC che abbiano potuto condurre una vita agiata grazie alle loro doti artistiche. Eppure, essendo la vita un viaggio sperimentale fatto più o meno volontariamente, quanta qualità legata a Swindon negli ultimi tre lustri abbondanti, a voler studiare bene i testi di seconda mano. E come si accennava, a volte è necessario allontanarsi parecchie miglia da Albione per trovarli. Attraversare oceani e continenti, per magari poi ritrovarsi sulla west coast americana, e fare la conoscenza di Ben Eshbach e Kiara Geller.

Gli Sugarplastic, fondati a Los Angeles alla fine degli anni Ottanta, sono stati il gruppo di credo fondamentalista XTC forse più dotato in assoluto. Solo quattro album tra il 1995 e il 2005, almeno due capolavori (l’esordio “Radio Jejune” e il terzo disco di studio “Resin”) e addirittura una comparsata major, con il prelibato “Bang! The Earth Is Round” pubblicato da una Geffen che poi non ci pensò molto a scaricare la band viste le vendite non esatta-

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Il lascito ereditario di Andy Partridge e Colin Moulding di Emanuele “Nolo” Marian
Blur Sugarplastic

mente entusiasmanti. Decisioni amministrativo/commerciali che per nulla intaccano il sommo talento di Eshbach, uno che ha poi virato verso la musica per cinema e che per diletto ha reinterpretato in chiave cerebral chitarristica l’opera magna di Debussy. Folgorato sulla via di Paul McCartney e dei Pixies di “Doolittle”, l’incompreso autore da L.A. ha ammesso di aver passato molte delle migliori ore della propria giovinezza chino sul vinile di “Drums & Wires”. Durante le registrazioni di “Resin”, al desk è stato addirittura convocato Andy Metcalfe, già bassista nei Soft Boys di Robyn Hitchcock, un altro che, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, ha tenuto ben salda in mano la torcia del pop psichedelico inglese nonostante il mare in tempesta.

Ci sono poi i figli riconosciuti, quelli per cui Andy Partridge si è speso di persona. Esattamente come XTC e Sugarplastic, anche Steve Eggers e Thomas Walsh sono divisi dall’Atlantico. Residente a Toronto, Ontario, Eggers è il deus ex machina dei fantasmagorici Nines, in effetti più un’esperienza privata che una band vera e propria. Con alle spalle una discografia ormai chilometrica tra album di studio, partecipazioni, collaborazioni e raccolte più o meno ufficiali, il geniale polistrumentista canadese usa confezionare demo partendo da una base di pianoforte minimale; una base da cui germogliano infiorescenze tra le più disparate, e volendone ricercare i riferimenti, certo gli XTC sono tra i più costanti. Partridge è stato coinvolto direttamente nella vicenda, in particolare nell’excursus che ha condotto al parto di “Calling Distance Stations” (2006), album in cui ha partecipato direttamente alla stesura della conclusiva Receiving Me. Sincero fan da più di vent’anni della band, il patriarca non ha mai mancato occasione per sostenerne gli sforzi. Le sue esternazioni più recenti riguardano l’ultimo disco di studio dei Nines “Reflections”, pubblicato un paio di anni fa: “Amo il tuo ultimo lavoro ha fatto sapere a Eggers , lo ascolto spesso mentre dipingo”. Che tenerezza.

bacchetta magica con la quale trasfigura marcette pop di limpido respiro toytown in irresistibili nenie psichedeliche in cui i Dukes Of Stratosphear, peraltro ancora lontani dall’immaginazione degli stessi protagonisti quando Newell imbracciò la chitarra per la prima volta, incontrano il Syd Barrett di “Madcap Laughs”, del quale Martin, a buona ragione, può rivendicare il ruolo di erede. Se “Parklife” era il compendio dello sciovinismo brit intento a guardare al nuovo millennio, “The Greatest Living Englishmen” laddove il sottotitolo “Featuring The New, Improved Andy Partridge” dovrebbe chiarire il quadro della situazione è il bignamino della seconda generazione psichedelica marchiata dalla Union Jack. Di Newell, oltre alla programmazione solista e ai Cleaners From Venus, è obbligatorio segnalare due album nascosti dallo pseudonimo Brotherhood Of Lizards e in particolare il secondo, “Lizardland”, uscito nel 1989.

Thomas Walsh vive invece a Dulino, dove da quasi vent’anni dirige con piglio sicuro le faccende dei Pugwash. Otto album nella loro discografia, oltre a svariati singoli, ammantati da una capacità di scrittura un bel po’ sopra la media. La psichedelia tenue degli XTC di “Nonesuch”, trapunta qua e là di elementi folk pop che rimandano all’esperienza dell’amico fraterno Neil Hammond, proprio quello dei Divine Comedy. In effetti Walsh ed Hannon hanpersino diviso la stanza per confezionare il progetto Duckorth Lewis Method, il cui unico album, omonimo, qui approfittiamo per suggerire. Penna occasionale al servizio delle scorribande di Walsh, Partridge ha persino scritturato i Pugwash per la sua etichetta Ape. Se state leggendo queste pagine non dovreste perderveli.

In Inghilterra, perché è giusto tornare lì, da circa quarantacinque anni si agita un genietto senza posa. Lo conoscete tutti, o perlomeno dovreste. È sbucato all’inizio degli anni Ottanta con una serie di cassettine a nome Cleaners From Venus, dunque coevo di Partridge e Moulding, poi ha fatto fagotto e infilato la strada solitaria. Si chiama Martin Newell, cantastorie dall’Essex provvisto di

Gli spazi sono angusti e il tempo corre, stringe ed è tiranno, ma una capatina nei pressi del Vallo di Adriano tocca farla. Da Sunderland, due acquazzoni di ecsatsy tra i più significativi del primo decennio del nuovo secolo. I Field Music sono un gruppo sconosciuto solo per chi si impegna scarsamente nell’approvvigionamento. Fondati dai fratelli Peter e David Brewis, il progetto era sorto con l’intento dell’estemporaneità, e invece, seppur con qualche coerente pausa di riflessione sparsa qua e là, sono arrivati negli anni nove dischi lunghi e una raccolta di materiale sparso, tra i quali si distinguono l’omonimo debutto e l’eccezionale “Plumb” (2012) addirittura vincitore di un Mercury Prize. Pop come potevano essere pop gli XTC di Oranges and Lemons e art come potevano essere art i Wire, ma dentro, scartabellando nella vasta produzione, si trova un po’ di tutto: Steely Dan, una spruzzata di pop progressivo che ci tenta di chiamare in causa i Gentle Giant; i Beatles dei singoli attorno al Magical Mystery Tour, folk destrutturato e a tratti pastorale un po’”English Settlement” e persino qualche azzardo funk miracolosamente coeso all’opera. Sta tutto insieme quasi per caso, sospeso su un equilibrio apparentemente precario. Eppure funziona. Da Sunderland, più volte coinvolti in collaborazioni con gli stessi Field Music, a un certo punto del 2004 spuntarono i Futureheads. La stampa di settore, al solito affamata di compartimenti stagni, volle forzarli nel grande insieme delle novelle star intente a sbranare il mercato della nuova ondata alternativa, post garage punk dei primi anni duemila. Ma con Strokes, Libertines, Franz Ferdinand e Interpol centravano poco o nulla. Troppo sofisticate le melodie, e un po’ di arte sbarazzina, evidentemente un po’ troppa per i gusti delle charts, spettinava le loro gemme. Non sarebbe durata,

The Futurheads

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anche perché l’indirizzo artistico dopo il primo, omonimo, eccezionale debutto, cambiò radicalmente e forse troppo presto. O troppo tardi, chi lo sa. Il loro gusto per le melodie inusuali era un pizzico ambizioso per essere digerito dalle Major dalle richieste standardizzate sulle batterie para dance e i ciuffi post Morrissey, e non se ne fece nulla. Difficile mettere la camicia di forza della musica globalizzata a quattro scapestrati del Nord che per scegliersi il nome si ispirarono a “Hit To Death Of The Future Head”, gigantesco album intriso dei pasticci acidi di Wayne Coyne uscito nel 1992.

notevole EP “Pain/Pleasure” nel lontanissimo 2008. Pura ossessione XTC attraverso le deformazioni imposte dall’atlantico. Tim Simmonds, il capo della banda, per ringraziarmi della modesta recensione del lavoretto che allora scrissi, mi invitò perfino a Brooklyn. Soggiorno a sue spese. Partridge Sound, grandi emozioni, e un divano a New York. Con Swindon sempre ben presente sullo sfondo.

DISCOGRAFIA ESSENZIALE

The Sugarplastic “Radio Jejune” (1995, Sugar Fix Recordings)

The Sugarplastic “Resin” (2000, Escape Artist)

Pugwash “Almond Tea” (1999, Velo)

Pugwash “Jollity” (2005, 1969 Records)

The Nines “Calling Distance Stations” (2006, Tas Gold)

Martin Newell “The Greatest Living Englishman” (1993, Cherry Red)

Tantissimi i nomi di pregio che saranno esclusi da questa carrellata, incompleta per forza di cose, ma sarebbe delittuoso in questo contesto lasciar fuori i Sun Sawed in ½, barocchissimo, imprevedibile e multiforme progetto di Tim Rose e del fratello Ken da St.Louis, Missouri, con alle spalle una discografia corposetta adorata dai fanatici dell’ambiente power pop, e i Dowling Poole, forgiati dalla penna e dal talento dalla controversa coppia formata da Willie Dowling, già negli Honeycrack, e da Jon Poole, esplosi una manciata di anni fa grazie all’esordio “Bleak Strategies”. Saving It All For a Saturday, brano simbolo ivi incluso, potrebbe essere il miglior pezzo mai scritto dagli XTC uscito negli ultimi dieci anni.

The Futureheads “The Futureheads” (2004, WEA International)

Field Music “Plumb” (2012, Memphis Industries)

The Sun Sawed in ½ “Fizzy Lift” (1997, Not Lame)

The Dowling Poole “Bleak Strategies” (2014, 369)

Minster Hill “Minster Hill” (1999, autoprodotto)

Dogs Die In Hot Cars “Please Describe Yourself” (2004, V2)

Servirebbero altri quattro numeri per affrontare più approfonditamente lo spinoso argomento dell’eredità Partridge/Moulding, e rischieremmo comunque lo sconfinamento nella superficialità. Per ora, se accidentalmente si volesse cercare un’ultima provvista nel ripostiglio più nascosto, un ascolto finale lo daremmo agli oscurissimi Actual Facts da Brooklyn, che mi fecero gentile omaggio del

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XTC:

Io, Justin Hayward, da Swindon

quasi

Gli XTC e la loro città. Provincia inglese, lontana dalle sirene dei grandi centri e dalle loro mode. Tre storie ma avrebbero potuto essere benissimo quattrocentomila. Cominciamo dal più “famoso”…..si fa per dire.

Questa storia potrebbe iniziare nella primavera del 1962 quando, dalle ceneri degli Offbeats, nascono a Swindon gli Whispers, con Jeff Bull alla batteria, Nigel Norman al basso, Tony Cole alla chitarra ritmica e Justin Hayward alla chitarra solista. Swindon è una città culturalmente viva, qui inizieranno la loro carriera anche gli XTC nel 1972. Uno dei luoghi abituali degli Whispers era il Ferndale Club, un club molto frequentato: qui Justin amava esibirsi con la sua Gibson ES335 quando aveva solo 15 anni, era infatti nato il 14 ottobre 1946 a Dean Street, Swindon, Wiltshire. Nel tempo diventerà songwriter, cantante e chitarrista del gruppo rock Moody Blues nel periodo 1967 1974 ma anche il compositore più prolifico di diversi singoli di successo internazionali della band. Aveva studiato alla Shrivenham School nel Berkshire e alla Commonweal School di Swindon e suonava in diverse band già all'età di 15 anni quando acquistò la sua Gibson, una chitarra che compare in quasi tutti i suoi dischi nel corso della sua carriera, e un amplificatore Vox AC30. Tutte le chitarre precedenti erano poco soddisfacenti e lui che era un tipo preciso continuava a modificarle senza tuttavia trovare mai una soluzione appropriata. Quando si esibiva in club e sale da ballo amava molto suonare canzoni di canzoni di Buddy Holly, la cui musica, che passava dal pop al rockabilly e al rock and roll, era molto apprezzata dai giovani negli anni cinquanta.

L’anno successivo, era il 1963, all'interno degli Whispers vi furono molti cambiamenti, con Chris Richardson che subentra alla batteria di Jeff e Mike Greenland che sostituisce Tony Cole. Nel frattempo Tony Bowd, giornalista musicale della rivista Swindon & District Review, inizia a interessarsi alla band diventandone il manager, e questo ha permesso di spargere la voce e far conoscere il gruppo a un pubblico più ampio. Per Justin tutto questo era molto emozionante e stimolante.

Poi nell'agosto 1964, Nigel Norman decide di lasciare la band e viene rimpiazzato da Dave Miller. Era un periodo molto confuso perché c'era nella zona un'altra band conosciuta come The Whispers, guidata da Robb Storm: il risultato era che i fan uscivano di casa per andare ad ascoltare i loro beniamini per accorgersi poi, con grande delusione, di essere andati al concerto della band sbagliata! Insomma, era arrivato il momento di adottare un nuovo nome, e nel mese di novembre gli Whispers diventarono gli All Things Bright, gruppo composto da Justin, Chris, Mike e Dave Miller. Come spesso accade, la scelta del nome fu alquanto casuale: Justin si trovava a casa di Chris quando, sfogliando un libro di inni per bambini del 1848, il suo sguardo finisce su All Things Bright and Beautiful, un inno anglicano con parole di Cecil Frances Alexander: lasciamo stare il “beautiful” disse allora e teniamo il resto, tutte le cose sono luminose!. Gli All Things Bright qualche soddisfazione la ebbero, furono infatti il gruppo spalla incaricato di aprire concerti dei The Hollies e di Brian Poole and the Tremeloes. Justin era molto ingenuo all’epoca, al punto che all'età di 18 anni firmò un contratto editoriale di otto anni come autore di canzoni con l'artista di skiffle e produttore discografico Lonnie Donegan, una scelta di cui Justin in seguito si pentì poiché significava che i diritti su tutte

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Storie dalla piccola Inghilterra, da Swindon al nulla...o
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Breve storia del cantante/chitarrista dei Moody Blues di Agostino Roncallo

le sue canzoni scritte prima del 1974 sarebbero sempre stati di proprietà della Tyler Music di Donegan. Ma nel febbraio 1965 Justin decide di proseguire la carriera come membro del trio di Marty Wilde, facendo così precipitare gli All Things Bright in una vera crisi. Se volevano continuare, avrebbero dovuto trovare nuovi musicisti. Si presenta Dave King (affettuosamente soprannominato Ninger) che diventa la voce solista nell'aprile 1965 e, mentre completava i suoi studi a Londra, rientra nel gruppo anche Nigel Norman, che nel frattempo ha imparato a suonare la tastiera. Justin d’altronde era alla ricerca di nuove esperienze e un giorno, dopo aver visto una pubblicità sul Melody Maker, si propone come chitarrista per Marty Wilde dando vita, insieme alla moglie di Marty, al gruppo The Wilde Three. Ad ascoltarli oggi si ha la sensazione di una band decisamente beat, soprattutto nei cori, e quindi collocabile in un’era precisa. Pochi gli elementi di novità.

Per Justin, così come per tanti altri musicisti, il Melody Maker rimarrà a lungo un importante punto di riferimento e nel 1966, dopo aver risposto a un altro annuncio questa volta inserito da Eric Burdon dei The Animals, viene contattato da Mike Pinder dei Moody. Così, nel giro di pochi giorni, Justin si ritrova a sostituire Denny Laine, cantante e chitarrista dei Moody Blues in partenza. Inizialmente, come è naturale che sia, Justin si adatta al vecchio repertorio della band ispirato al blues ma il suo contributo artistico inizia a farsi sentire con la sua canzone “Fly Me High”, che era un singolo della Decca all'inizio del 1967: si tratta ancora di una composizione di stampo beatlesiano di cui esiste una registrazione di French TV (https://www.youtube.com/watch? v=V_GdcGnaCf).

Non poteva bastare per entrare nelle classifiche, ma è certo che da quel momento i Moody Blues prendono una nuova direzione

rispetto al suono R&B che avevano prodotto fino a quel momento. Il ghiaccio era dunque rotto e il rock trascinante di “Leave This Man Alone” verrà utilizzato come lato B del successivo singolo prodotto dal gruppo per la Decca, accompagnando “Love And Beauty” di Pinder (1967) presente sul lato A. Questo fu il primo disco dei Moody Blues con il Mellotron, strumento sviluppato proprio a Birmingham, città che ha visto la nascita dei Moody, in pratica l'antenato dei moderni campionatori poiché la pressione di ciascun tasto innesca la riproduzione di un segmento di nastro magnetico su cui è stato precedentemente registrato il suono. Il mellotron fu adottato da numerosi gruppi rock e pop tra la metà e la fine degli anni sessanta: i Beatles lo usarono in particolare nel singolo di successo “Strawberry Fields Forever” (1967) mentre il tastierista dei Moody Blues Mike Pinder lo ha ampiamente utilizzato nell'album del 1967 “Days of Future Passed”

L'integrazione di Justin Hayward nei Moody Blues insieme all'uso del Mellotron da parte di Pinder sono forse i due fattori che hanno determinato la svolta del gruppo portando al successo commerciale e al riconoscimento della band come una delle grandi novità della musica pop di quegli anni. “Days of Future Passed” fu uno dei primi album di rock sinfonico e diede origine ad alcuni singoli scritti da Justin come “Tuesday Afternoon” e “Nights in White Satin”, una canzone a dir poco bellissima che ha venduto oltre due milioni di copie, entrando nelle classifiche e venendo registrata da molti altri artisti tra cui i Nomadi, che ne fecero una cover dal titolo “Ho difeso il mio amore”. Di essa esiste una registrazione a Parigi di recente restaurata (https://www.youtube.com/watch?v=cs4RG9u8IVU). Va inoltre detto che “Cities” fu una delle prime canzoni a tema ecologico, un pezzo bellissimo caratterizzato da una psichedelia avvolgente. Justin non era tuttavia quella che si dice una primadonna, era senza dubbio la voce solista nelle sue composizioni, ma sapeva an-

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The Moody Blues

che svolgere il ruolo di co protagonista nelle canzoni degli altri membri della band, tra cui “Dawn Is A Feeling” di Pinder e “Nothing Changes” di Edge. I tentativi dei Moody Blues di trovare un altro singolo di successo durante il 1967 68 portò alla registrazione di altre tre composizioni di Justin “Long Summer Days” , “King and Queen” e “What Am I Doing Here?”, tutte rimaste inedite ma poi pubblicate insieme a brani inediti di Pinder e Lodge nell’album della Decca “Caught Live Plus Five” (1977) che comprendeva anche una registrazione dal vivo del dicembre 1969 di un concerto alla Royal Albert Hall, registrazione quest’ultima pubblicata contro la volontà del gruppo. Già all’epoca le etichette discografiche avevano poche remore nel cavalcare l’onda del successo.

“Your Wildest Dreams”, “I Know You're There Out There Somewhere” e “English Sunset”. In pratica 20 dei 27 singoli del gruppo post 1967. Ha anche una carriera da solista, il suo primo album al di fuori dei Moody Blues, “Blue Jays”, una collaborazione con John Lodge, ha raggiunto la top five del Regno Unito nel 1975. Da questo album è stato estratto il singolo “Blue Guitar”, bellissimo, registrato con la 10cc come band di supporto; qui Justin rivela le sue grandi qualità di chitarrista.

Ma vorrei parlare anche della registrazione del 1978 di “Forever Autumn (https://www.youtube.com/watch? v=77rinB5pYqA) inserito nella versione musicale del “The War Of The Worlds” di Jeff Wayne che raggiunse anch’essa la top five del Regno Unito. La particolarità di questo doppio album di 90 minuti è nell’alternanza di parti narrative (il racconto dell'invasione extraterrestre a Londra, all'inizio del XIX secolo, secondo la testimonianza di un giornalista interpretato da Richard Burton) e di parti musicali. L'album è una vera e propria opera rock, considerata rivoluzionaria soprattutto per la sua parte musicale con l'utilizzo di orchestra d'archi e sintetizzatori. Tra i singoli di successo ci saranno in particolare proprio “Forever Autumn” e “The Eve Of The War”. Jeff Wayne aggiornerà l'album alla fine del 2012, una nuova versione composta da riarrangiamenti e nuovi interpreti (l'attore Liam Neeson assume il ruolo centrale del giornalista).

Justin amava anche collaborare con Ray Thomas alla scrittura delle composizioni ma ha scritto molte canzoni con John Lodge per i Moody Blues, in particolare “Gemini Dream” (un successo nelle classifiche statunitensi). In generale ritengo che le canzoni di Justin abbiano caratterizzato gli album Moody Blues nel periodo post Mike Pinder, quindi da “Long Distance Voyager” (1981) in poi; le sue canzoni, oltre alla sua voce solista e alla sua abilità alla chitarra , sono state un fattore importante nel lavoro della band determinandone il successo. Ha scritto davvero singoli per i Moody Blues tra cui “Nights in White Satin”, “Tuesday Afternoon”, “Voices In The Sky”, “Never Comes The Day”, “Question” , “The Story In Your Eyes”, “Driftwood”, “The Voice”, “Blue World” ,

Nel 1974, i Moody Blues decisero di prendersi una pausa di quattro anni ma nel frattempo Justin ha continuato a lavorare con Lodge e il produttore Tony Clarke, utilizzando musicisti dell'etichetta Moody Blues, Threshold, e nel 1977 registra il suo primo album da solista “Songwriter”; in seguito pubblicò un raro singolo “Marie” accompagnato sul lato B da “Heart Of Steel” (Decca F13834) nell'aprile 1979, entrambi i brani furono successivamente inclusi tra i bonus sulla ristampa in CD di “Songwriter” nel 2004.

Nel 1989, con il produttore arrangiatore Mike Batt, Justin ha pubblicato “Classic Blue”, un album di composizioni pop con l'orchestrazione arrangiata da Batt. L’album includeva una cover del successo dei Led Zeppelin “Stairway To Heaven” . Nel 1996 Justin arriva a pubblicare un nuovo album “The View From The Hill” e una registrazione dal vivo, “Live in San Juan Capistrano”, nel 1998. Nel 2018 Justin Hayward è stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame come membro dei Moody Blues e nel 2022 è stato nominato Ufficiale dell'Ordine dell'Impero Britannico per i servizi all'industria musicale.

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Il disastro perfetto di Mr. Parfitt

Le cotte per certi gruppi negli anni ‘90 erano pazzesche. Io su molti dischi degli ‘80 sono arrivato tardi ma conservo ancora nel cuore l’emozione e la passione per dischi usciti nel decennio successivo, di band che poi non sono andate da nessuna parte. Mi sembravano tutti meravigliosi. Fra queste gemme “Heaven Scent” dei Perfect Disaster brillava di luce propria. Fu il loro ultimo disco e senza dubbio col senno di poi il più scontato. Ma per me fu bellissimo. Gli XTC con in Perfect Disaster non c’entrano nulla se non per quella provenienza anonima da un luogo indecifrabile, tant’è vero che le cronache riportano una collocazione di Phil Parfitt a Brighton ma, in precedenza nei momenti caldi della carriera, in un luogo indecifrato fra il Bedforshire e l’Herfordshire. Particolare che può voler dire tutto o niente. Appunto.

La storia dei Perfect Disaster è abbastanza normale e simile a quelli di tanti gruppi di talento che si sono persi, non sono stati capiti, non avevano le conoscenze giuste, non sono stati fortunati. Ma normale è l’aggettivo giusto per legarli anche ai luoghi da cui provengono, città di provincia, vita consueta, ritmi tranquilli, il pub, il vento, la pioggia e poche eccezionali novità, d’altronde da quelle parti non si usa dire ”No news good news” ? Phil Parfitt si forma nel giro punk londinese sul finire degli anni’70, vari gruppi qualche 7’ e poche soddisfazioni. Incontra Dan Cross, chitarrista, mentre vaga sotto a un palco dove Phil sta suonando “Femme Fatale” dei Velvet Underground, fra i due nasce subito l’intesa visto che la passione per i protetti di Andy Warhol appartiene a entrambi. Finalmente una base solida da cui partire anche se nonostante un indirizzo, una formazione stabile e un’ attività live degna di tale nome, di opportunità non se ne presentano. Il caratterino di Parfitt non è dei più morbidi e in quanto a modestia ne ha in piccole quantità così si trasferisce con il gruppo in Francia, per sfuggire alle dinamiche discografiche britanniche dove finalmente la Kampa Records nel 1985 gli pubblica l’esordio omonimo. Il gruppo è composto da cinque elementi Parfitt molla la chitarra e si dedica a voce e sax, Dan Cross e Alison Pate sono alle chitarre, John Saltwell al basso e Malcolm Catto alla batteria. Non è un esordio da mal di testa ma cristallizza, almeno nei pezzi più lenti una propensione a concepire un rock ipnotico vagamente romantico e decisamente introspettivo i Perfect Disaster che verranno, quelli più maturi si scorgono in lontananza in pezzi come “In The Pink”, “New Beginning”, “Memories”. Non i pezzi migliori ma quelli su cui

si svilupperanno molte trame, ben più rilevanti, in futuro. C’è troppo sax e molto poco pop e con l’esordio non andranno molto lontano.

EGOKID

“What Could I Do/Given The Opportunity” è il brano più accattivante e con “What’s Happening To Me” strizza l’occhio agli Smiths, la prima ha più classe la seconda nasce con un po’ di mestiere. Poi c’è il chitarrismo di “Dawn In The Dark Woods” contrappuntato dai bei passaggi di un organo sixties, suonato dal batterista organo sixities su cui i Charlatans, poco tempo dopo, ci costruiranno i primi passi della loro meravigliosa carriera. Curiosità la data di folgorazione per i Perfect Disaster è segnata sul calendario del Dicembre ‘90, WolverNight è appena nato e il numero 124 di Rockerilla uscito in quel mese regala la copertina ai Charlatans di Tim Burgess, e un bel pezzo retrospettivo sui nostri eroi di Carlo Costamagna…. come si suol dire due piccioni con una fava.

“Hiding From Frank” è segnata dagli svolazzi free del sax ma non si fa assolutamente voler bene. “In The Pink” ha una solida ispirazione velvettiana , “New Beginning” è una ballatona sui generis, “Teddy Edward” è un pezzo tirato e torbido l’unico dove il sax fa una parte di livello. “Keep Loves Feet On The Ground” è una canzoncina con tanto stile da venderne, peccato che la parte strumentale nel mezzo sia troppo lunga, “Memories” una ninna nanna in punta di Velvet U. e a chiudere si trova “Stetson” brano energico che assomiglia ad alcune cose australiane del periodo con chitarre affilate che incrocia-

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no, provate a indovinare, un sax. Dello stesso periodo sono l’impeccabile cover di “Over You” dei Velvet Underground e la ripresa di due brani del passato di Parfitt, “Something's Got To Give” degli Orange Disaster e “Cucumber Sandwich” degli Architets Of Disaster. Finiscono tutte insieme sul maxi singolo, con il pezzo che apre l’album, che stampa sempre Kampa nel 1985. Il disco d’esordio è abbastanza acerbo lascia intravvedere una non comune personalità, ma fece capire qualcosa solo quando tutte le carte in mano a Mr.Parfitt furono scoperte. Così il disco non portò granché. Anzi tolse... perché Catto, Saltwell e Pate mollarono il colpo, Alison Pate è accreditata su “Asylum Road” ma la scritta “Love and thanks to Alison” lascia intendere ben altro. Al loro posto Josephine “Jo” Wiggs al basso e Matin Langshaw alla batteria.

chi al distensivo e delizioso jingle jangle di “Whats The Use Of Trying” e alla ripresa di “The Night Belongs To Charlie” in una versione più lunga, più secca e più drogata. “Asylum Road” è un disco che in quegli anni passò sottotraccia in tutto quel marasma di splendide uscite, il mio consiglio è quello di riscoprirlo in qualsiasi modo.

Il disco però qualcosa muove la Glass Records di David Barker, gli stampa due singoli e una nuova versione dell’esordio, con copertina differente, e la cover dei Velvet Underground. Entrambi i 12”, tre pezzi il primo e quattro il secondo sono accreditati in pratica alla vecchia formazione con il solo cambio del batterista. “Bluebell” è molto bello. Dal pezzo omonimo a “Trigger Happy” e a “Exploring Nowhere” sono tre pezzi di velvelvettiana e anfetaminica fattura, con incroci pericolosi con Cure, Jesus & Mary Chain e Ride. Insomma i suoni che saltavano fuori dall’Inghilterra in quel periodo. Molto meno bene invece i quattro pezzi di “Hey Hey Hey”. Molle la title track, “The Night Belong To Charlie” si salva con il suo rumorismo sixties, comunque la migliore delle quattro, “That’s What My Doctor Says” si aggrappa al solito salvagente velvettiano e “Elusive Dream” è imbarazzante. E’ evidentemente che in questo periodo il gruppo stesse cercando una direzione, indeciso fra accodarsi al suono del momento o intraprendere una strada più cantautorale. Ci vorrà il passaggio alla Fire Records per voltare pagina, prendere una decisione e diventare grandi.

Basterebbe il brano che apre “Asylum Road”, “The Crack Up” a portare aria fresca e chiarire che i Perfect Disaster hanno trovato una direzione, che certamente si nutre di essenza velvettiana e luminescenza sixties ma ha un suo status in quel particolare momento musicale che l’Inghilterra tutta sta vivendo, investita com’è da quella tempesta sixties che tante belle sensazioni procurerà ai più attenti ascoltatori della musica di quelle parti. E dopo l’apertura la delizia di “Stop Crying Girl”, le chitarre acide che si inseguono in “All The Stars”, la semplicità svagata di “Call It A Day”, la forza energetica di “In Conference Again”, la malsanità acida di “Mooncraters”, la bellezza smagliante dell’antisingolo per eccellenza di “TV (Girl On Fire)” che apre il lato B del disco e l’acquarello autunnale di “In The Afternoon” per poi riprendere quota con il rock ‘n’ roll strumentale, chitarristico e rumoroso di “Evil Eye” prima che il compito del gran finale toc-

Nello stesso anno di “Asylum Road”, esce il singolo di “TV (Girls On Fire) con un inedito e quello di “Time to Kill” supportato anche da un video promozionale. “Time To Kill” è un pezzo che tenta di emulare i Jesus & Mary Chain ma perde la sfida sul nascere. Anche questo singolo contiene un inedito. Nel 1989 esce finalmente “Up” il secondo disco di livello del gruppo. E’ un disco molto meno istintivo del precedente, più equilibrato e più compatto. Partenza sprint con la sfrontatezza di “’55” con i chitarroni in bella evidenza, una voce convincente, sezione ritmica tosta e tortuose parti strumentali per quasi cinque minuti di accecanti abbagli psichedelici. Non è da meno, come energia, la più semplice e similmente strutturata “Shout”. “It Doesn’t Matter” è magnetica e vocativa ma rallenta lo slancio iniziale assieme al lungo brano (unidici minuti), quasi uno strumentale, diviso in tre parti “Down (Here I Go) / Down (Falling) / Down (Down)”, la prima solo acustica, la seconda cantata e la terza è in pratica la ripresa della prima, più estesa però, con l’aggiunta del violoncello suonato dalla Wiggs. Con “Hey Go” si riparte su i ritmi frenetici dell’inizio e il brano è un ottimo rock ‘n’ roll anfetaminico. Ancora con “Go Away” le atmosfere diventano rarefatte e rallentate, per un brano che sfiora il Lou Reed più intimo ed è cantato con il pensiero rivolto a Nico. La cavalcata finale di “B52” che sfiora i tredici minuti è una meraviglia acida che si vorrebbe non finisse mai. Similitudini con i Velvet Underground, a parte, i Perfect Disaster dimostrano con “Up” di saper scrivere e suonare e di aver finalmente raggiunto una maturità piena. Che poi non riescano a infilare un singolo che sia valido questa è un’altra faccenda.

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A proposito di singoli o, meglio, di pezzi per un singolo “Mood Elevators” avrebbe anche le stimmate giuste ma fu pubblicato su un 12” e inopinatamente non sul disco che di li a poco sarebbe uscito, ovvero “Heaven Scent” . Il pezzo ha quell’andamento dancey che tanto caratterizzerà la scena denominata “Madchester”, il tipico cantato indolente e ottime chitarre che tessono lisergiche trame sixties...insomma le carte in regola per stare tra i purosangue di quella scena ma evidentemente le cose non dovevano andare così. Ho un'altra tesi a riguardo e cioè che le cose non sono andate come superficialmente si sperava perché il gruppo di Parfitt e Cross in fondo era tutta un’altra cosa e quella scena la lambiva solamente. Così il disco che mi fa innamorare di questo “disastro perfetto” esce nel 1990 e, affetti a parte, si ridimensiona un po’ al cospetto dei due dischi precedenti.

Non è certamente un brutto disco, anzi, ma rispetto ai precedenti si ha la sensazione che canzoni e suono si siano, come dire, normalizzati. C’è poco fuoco in questi pezzi e un po’ di introspezione in più. “Rise”, che apre il disco è un nuovo tentativo di guardare là verso i fratelli Reid dei Jesus & MC, ma convince cosi così e dopo di essa l’indolenza della rarefatta “Father” non aiuta a rendere l’inizio del disco indimenticabile. Meglio “Wires” subdola e rumorosa, un po’ troppo scanzonata “Takin’Over” ma è con “Where Will You Go With Me” e “Little Sister” che il disco pianta un’inchiodata cantautorale improvvisa e un po’ troppo lunga. Le ballate di Parfitt sono sempre venate di rumori e di un romanticismo veramente ripiegato su stesso, la decina di minuti che questi due pezzi ci impiegano a dispiegarsi sembrano, oggi, un po’ troppi. E poi arriva “Shadows” che non accelera molto, ma almeno ha un disvelamento più vivace e si fa apprezzare molto di più inacidendosi col passare dei secondi. “Sonner Or Later” mostra il solito trucchetto velvettiano di una canzone spinta con la solita sezione ritmica serrata e la chitarra grattugiata ma francamente è molto debole. “It’s Gonna Come To You” rallentata, incendiaria e anche stordente chiude il disco in maniera impeccabile. Perché questo disco mi colpì così tanto ? Probabilmente essendo arrivato su molte cose in ritardo mi ha investito con i suoi sapori sixties, preminentemente velvettiani, e una buona dose di suoni aggiornati ai tempi che correvano. Mi ha comunque abbastanza incuriosito e esaltato da scoprire le cose fatte prima dal gruppo, e questo è comunque un merito, ma come già detto, i due dischi di mezzo della discografia dei Perfect Disaster sono i migliori, e per cominciare l’ascolto vi consiglio di partire da lì. Dopo questa uscita c’è solo il tempo per il 12” di “Rise” che recupera dei pezzi già pubblicati e piazza di inedito la sola “Lee”.

Dopodiché lo scioglimento è servito, Jo Wiggs raggiungerà le Breeders di Kim Deal, si erano conosciute durante dei concerti in cui i Perfect Disaster avevano fatto da gruppo spalla dei Pixies. Poche altre cose per gli altri membri del gruppo e sorprendentemente anche per Dan Cross il chitarrista che tanto è stato nell’ombra nella storia del gruppo da nascondere l’importanza che lui ha avuto per questa band.

Il ritorno di Parfitt nella mia vita è dovuto alla recensione di “Mental Home Recording”, disco uscito nel 2020, e letta sulla rivista Blow Up. E’ stato un flash risentire quel nome scomparso da trent’anni, recuperato il summenzionato CD e il precedente “I’m Not The Man I Used To Be” del 2014 mi sono trovato davanti un cantautore, alla fine è arrivato lì, abbastanza in forma devo dire. Smessi i panni loureediani, in solitaria o accompagnato, dimostra un’ottima classe e una discreta ispirazione.

Nel disco del 2014 c’è qualche vecchio amico dei Perfect Disaster che suona nei brani, mentre in quello più recente gli artisti che lo accompagnano non sono accreditati a parte Alex Creepy Mojo, artista francese, che lo ha aiutato nelle registrazioni. Entrambi i dischi sono molto introspettivi e mi sento di consigliarli solo a chi è abbastanza ricettivo su questo tipo di musica, sono suoni solitari, quieti e vagano dentro un’anima irrequieta. Sono arrangiati in maniera minimale e ovviamente non vanno proprio bene per tutte le occasioni. Dimostrano però che Parfitt è comunque stato ed è, un ottimo scrittore di canzoni, ispirato dal Lou Redd velvettiano per i Perfect D. e da Nick Drake, prevalentemente, per la sua carriera solista e solitaria. Non ha avuto particolare fortuna nella sua carriera con la band, forse per non essere riuscito a scrivere una vera hit o per aver fatto delle semplici scelte sbagliate o fuori tempo massimo. Chi può saperlo ? Quello che a me rimane della sua musica e dei suoi dischi è una sensazione di onestà e dedizione verso un suono e un’ispirazione che, anche nelle pagine più deboli, riesce sempre a incantarmi.

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XTC:

Skep Wax Records

...la nuova Sarah Records ?

Quando il direttore mi ha incaricato di trovargli una storia di provincia inglese, mi ha specificato che la voleva attuale. Niente storie vecchie ha detto. Ho mugugnato un po’ e siccome fra me e lui è sempre amore e odio, e ultimamente mi sta sulle scatole non poco, gli ho trovato una storia che è nuova ma sa di vecchio.

Sono arrivato a conoscere Skep Wax Records grazie alle tracce lasciate dal gruppo Swansea Sound e dal loro disco “Live At Rum Puncheon”. Ho scoperto un po’ di cose sul sito della casa discografica e vari gruppi di cui avevo solo sentito parlare ma non sapevo uscissero su questa etichetta. Etichetta relativamente giovane fondata da due membri degli stessi Swansea Sound, ex degli stimatissimi Heavenly e di altri gruppi, Amelia e Rob sono anche membri attivi dei Catenary Wires, i loro nomi per intero? Amelia Fletcher e Rob Pursey. Skep Wax pubblica diverse band, tutte legate a un passato glorioso di un’etichetta di Bristol piuttosto famosa fra gli appassionati e meglio conosciuta come Sarah Records. Non aggiungo tanto su di essa perché il nostro collaboratore Lewis Tollani sta lavorando ad uno speciale che pubblicheremo appena pronto nel 2023. Due parole sono però d’obbligo, perché Sarah Records è considerata una label importante, sia nell’ambito di quel genere definito come “Guitar Pop” e sia per essere stata, fino a quando ha pubblicato a metà degli anni ’90, un’etichetta fortemente indipendente che è riuscita nella non facile impresa di creare una scena attorno a sé. Quando durante l’anno passato, prima con dei singoli e poi con dei dischi nuovi, sono arrivati “Birling Gap” dei The Catenary Wires, il summenzionato disco dei Swansea Sound e “Dreaming Kind” dei The Orchids, molti fans di vecchia data non credevano ai propri occhi ed orecchi.

Ma in queste pagine volevo parlarvi di una raccolta che suggella questo ritorno o questa reincarnazione. “Under The Bridge” esce nella primavera di quest’anno e raccoglie vecchie e nuove band che gravitavano nell’ambito della Sarah Records. Con vecchie intendo gruppi che hanno mantenuto la sigla originale e con nuove intendo proprie nuove band di vecchi membri di quel giro. Inglesi e non. Ce n’è per tutti gusti. La raccolta è molto bella e potrebbe appassionare sicuramente chi sa cosa aspettarsi da questi artisti ma anche chi, come me, non conosceva nulla dell’etichetta di Bristol. Come vedremo il tipo di offerta è molto varia ma un aspetto è comune a tutti i gruppi di questa raccolta, mi riferisco al carattere fortemente indipendente che li contraddistingue, una sorta di sacro fuoco DIY.

Alcune band sono storiche e con le line up del tutto uguali o simili a quelle originali, sto parlando di The Orchids, The Wake, Even As We Speak, Secret Shine, Boyracer, St Cristopher. Poi, ci sono gruppi più recenti, in cui si sono evolute formazioni diverse: Jetstream Pony e The Luxembourg Signal (entrambi ex Aberdeen), The Catenary Wires e Tufthunter (entrambi ex Heavenly), Soundwire (ex The Sweetest Ache), Leaf Mosaic (ex Sugargliders), Sepiasound (ex Blueboy) e Useless Users (ex Action Painting/Secret Shine). Insomma un bel panorama di storie vecchie e nuove che andiamo a scoprire in rigoroso ordine di apparizione.

THE LUXEMBOURG SIGNAL “Travel Through Midnight “

Il pezzo è scritto dai membri dei The Luxembourg Signal ma è cantato da Betsy Moyer. La formazione della band americana è composta dalla cantante Beth Arzy (ex Aberdeen), i chitarristi Johnny Joyner e Kelly Davis, il batterista Brian Espinosa, il tastierista Ginny Pitchford e il bassista Daniel Kumiega. Il pezzo è molto bello, non ci poteva essere apertura più degna per una raccolta di questo genere, tre minuti e mezzo di pop sognante e chitarristico.

EVEN AS WE SPEAK “Begins Goodbye” Band australiana che presenta un brano di pop punk leggero e godibile con qualche sorpresa loro sono Julian Knowles a chitarre, basso e tastiere, Matt Love a tastiere, drum loops, cori, Anita Rayner alla batteria, Mary Wyer alla voce. Il gruppo era uno dei capisaldi di Sarah Records e infatti la prima scrittura del brano risale a quei tempi.

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Storie dalla piccola Inghilterra, da Swindon al nulla...o quasi #3
Photo by Alison Wonderland Amelia Fletcher e Rob Pursey

LEAF MOSAIC “Bullet Train”

Questo duo proviene dall’Australia ed è formato da Josh Meadows e Matthew Sigley. Tra i due è Josh ad essere stato legato alla Sarah Records in quanto è stato il cantante degli Sugargliders. Hanno avuto qualche esperienza insieme in altri gruppi ma con i Leaf Mosaic stanno cercando di avere un approccio musicale più elettronico. Il brano ha cadenze ritmate ma tutto sommato molto sofisticate ed eleganti, un bel giro di chitarra Rickenbacker lega il tutto e se non fosse per la voce maschile si penserebbe agli Stereolab molto volentieri.

THE ORCHIDS “I Don’t Mean To Stare” Eccoli i campioni di Sarah Records: The Orchids. Un brano tranquillo che racchiude un’ intro gaelica e ritmi più “caldi” per non dire sudafricani. Un brano semplice, molto piacevole e moderno, uno di quelli scritti dopo la ripresa delle attività nel 2004, già conosciuto dai fans, come altri brani del gruppo, ma mai uscito ufficialmente. E’ stato sistemato a dovere solo nel 2021 dal produttore Ian Carmichael per finire su questa raccolta e sul disco uscito quest’anno e intitolato “Dreaming Kind”. Per la storia The Orchids sono Ronnie Borland, James Hackett, Chris Quinn, John Scally, Keith Sharp.

ST CHRISTOPHER “Stornaway”

Pezzo acido e psichedelico questo di Glen Melia, scritto durante il lockdown. Forse un po’ troppo ossessivo e ripetitivo, però non estremamente lungo e quindi tutto sommato digeribile. Melia qui suona tutti gli strumenti e rappresenta la band in solitaria. Come avrete capito è un pezzo che non mi ha colpito molto.

SECRET SHINE “Lost In The Middle”

Con i Secret Shine le atmosfere sono decisamente diverse tra slanci “shoegaze” e parti più rumorose spuntano melodie evocative e un motivetto semplice e diretto forse un po’ troppo semplice. Giudicate voi. Rimane il fatto che il gruppo della bassista Jamie Gingell e dei fratelli Dean e Scott Purnell, entrambi chitarristi e della vocalist Kathryn Smith ha festeggiato nel 2021 il trentennale dalla nascita, probabile che qualche credito sarebbe opportuno darglielo.

BOYRACER “Larkin”

Questa band capitanata da Stewart Anderson è stata, ai tempi, una delle ultime ad essere messe sotto contratto dalla Sarah Records. Stewart ora vive in Arizona e oltre a suonare gestisce un’ etichetta che si chiama Emotional Response. Il pezzo che suona con Cristina Riley è un pezzo garage acido che fila spedito come un treno ma che probabilmente ha il difetto di non essere suonato con una vera band. Il risultato mi sembra certamente funzionale all’idea che c’è dietro ma trovo difficoltà a immaginarmi questo pezzo suonato in due dal vivo.

JETSTREAM PONY “Strood McD F.C”

Questo brano è un portento. Si farà cantare e ballare molto. Nasconde le caratteristiche scontate di un genere che potete chiamare come volete da power pop a guitar pop, passando da punk melodico. Le definizioni vanno bene tutte. Intro che cattura l’attenzione subito, aggancio melodico repentino che hai già sentito miliardi di volte ma non ti stanca mai e un basso slabbrato che tiene in piedi tutto. Semplicemente bella. Beth Arzy alla voce ed ex Aberdeen, Trembling Blue Stars e The Fireworks nonché presente anche nei The Luxembourg Signal in questa stessa compilation, Shaun Charman a chitarre e cori, Kerry Boettcher al basso e Hannes Müller alla batteria sono i responsabili di uno dei pezzi più memorizzabili della raccolta.

TUFTHUNTER “Monsieur Jadis”

Il Kent si affaccia sul mare e dall’altra parte c’è Calais e la Francia. Inevitabile curiosare e magari scrivere una canzone nella lingua degli amati/odiati abitanti d’oltre Manica. Peter Momtchiloff è un ex membro degli Heavenly, altro gruppo perla della Sarah Records, che qui viene supportato da Jessica Griffin alla voce mentre Peter invece suona tutti gli strumenti. Il pezzo è una canzone deliziosa supportata da chitarra acustica, batteria d’accompagnamento e misurati assoli di chitarra elettrica. Elegante, magica e sospesa nel tempo.

USELESS USERS “Wish You Well”

Questo è una specie di supergruppo visto che è formato da Christopher e Kevin House degli Action Painting!, dalla cantante dei Secret Shine, Kathryn Smith, e dalla batterista degli Even As We Speak, Anita Rayner anche se in questo pezzo non suona. Il pezzo si discosta un po’ dai pezzi ascoltati finora, non è un pezzo costruito sulle chitarre, ma su una ritmica incalzante dove voce, organo e una leggera chitarra svelano un pezzo claustrofobico che angoscia e affascina allo stesso tempo.

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The Orchids Jetstream Pony

I Soundwire provengono dal Galles, sono guidati da Simon Court che ai tempi di Sarah Records cappeggiava gli The Sweetest Ache. Con Simon nei Soundwire ci sono la chitarra solista di Pete Moore, quella ritmica di David Jones, il basso di Adam Freeman e la batteria di Jack Starkey. Il pezzo è molto convincente anche se ricorda certe cose degli Spiritualized suonate però più velocemente. Ci sono potenti ingredienti “psyche” e “shoegaze” in questo pezzo e se qualcuno non sa che vuol dire posso tradurre spicciamente in “musica pop drogata”.

sembra scontato, ma non ci posso fare niente, è una delizia pop melodicamente ineccepibile. Scritta per “Birling Gap” ma esclusa in quanto ritenuta troppo leggera in realtà svela un testo che parla di abusi e lascività maschile. Lo stesso titolo “Wall Of Sound” è riferito a Phil Spector e a tutte le cose che si sono sapute sul suo conto. Detto questo il brano è meraviglioso. The Catenary Wires sono Ian Button alla batteria, Fay Hallam cori e tastiere, Andy Lewis al basso, Rob Pursey chitarra e cori e Amelia Fletcher alla voce.

THE WAKE “Stockport”

Non ci poteva essere conclusione migliore. “Stockport” è un pezzo fragoroso e affascinante classe immensa e stimmate tipiche del miglior pop da anticlassifica che il Regno Unito, ehm...scusate la Scozia, ogni piè sospinto, sfodera. Gerard ‘Caesar’ McInulty leader dei The Wake è ben considerato da quelle parti tanto da vantare collaborazioni con Bobby “il re dei debosciati” Gillespie dei Primal Scream e con Vini Reily dei The Durutti Column. Ora la sigla The Wake la porta avanti come un duo assieme a Carolyn Allen. Una classe infinita e una scoperta sbalorditiva.

SEPIASOUND “Arcadian” Sepiasound è il progetto solista di Paul Stewart ex Blueboy. Un brano difficilmente collegabile, musicalmente, con gli altri presenti in questa raccolta. Il brano è infatti uno strumentale quieto e naturalistico, dove Paul suona tutti gli strumenti necessari. Musica da film ? Musica per passeggiate in campagna ? Probabilmente si, ma di cose così c’è n’è tante. A parte le doti di polistrumentista dell’autore poco d’altro da segnalare, emozionalmente parlando intendo.

THE CATENARY WIRES “Wall of Sound”

L’album “Birling Gap” dei The Catenary Wires è stato il primo album uscito per Skep Wax, Amelia Fletcher e Rob Pursey hanno così testato la loro nuova casa discografica con l’uscita del terzo album di questo gruppo che esordì con “Red Red Skies” nel 2015. Ex membri dei miti Sarah Rec. per eccellenza, ovvero degli Heavenly, i due hanno in piedi parecchi progetti, uno di questi si chiama Swansea Sound e non è un progetto da poco. Ma tornando al pezzo dire che è bello

La chiosa finale su “Under The Bridge” è positiva. L’operazione di recupero di band e artisti che hanno fatto parte di un’etichetta, pur importante come la Sarah Records, non è una di quelle cose che saltano in cima alle pagine delle cronache musicali. Il lavoro è artisticamente molto valido e curato in ogni aspetto, ma rimane una rimpatriata fra vecchi conoscenti che sono sempre stati ai margini dell’industria musicale e il successo l’hanno visto con il binocolo. Non voglio essere frainteso ma pur essendo tutta gente onesta e brava è comunque gente che è in giro almeno da trent’anni e ha raccolto finora quello che ha potuto. Ora, come ha detto Amelia Fletcher in un’intervista: “Il fine di Sarah Records non era quello di stampare dei 7” pollici per vederli quotati e venduti nel tempo a 50 sterline, ma era riuscire ad avere l’organizzazione di una major agendo in una dimensione più piccola e con la soddisfazione di fare tutto da soli.” chiarito questo concetto non so cosa Skep Wax possa fare di meglio e qualche altra domanda me la faccio: ”Perché ritirare tutta questa gente fuori dall’armadio ? Per semplice amicizia e nostalgia ? Per avere nuovi 7” pollici da iper quotare in futuro ? Per il semplice gusto di provarci di nuovo ?”. Anche se si tratta di rock ‘n’roll, fatto anche bene tra l’altro, non posso non chiedermi se queste operazioni non sono altro che rigurgiti di un’epoca che non tornerà più o forse l’ennesimo sbaglio di uno che il disco l’ha comunque comprato.

Pagina 39SOUNDWIRE “Another Sun”
Soundwire

XTC: I Dukes Of Stratosphear e la nuova PSICHEDELIA inglese degli ‘80 (una scusa per parlare di canzoni)

di Kurt Logan

La scena psichedelica inglese degli anni ‘60 ha gruppi conosciuti in ogni angolo del globo. Molti adolescenti che sono cresciuti in Gran Bretagna in quegli anni e che poi si sono messi ad armeggiare con chitarra, basso e batteria negli anni ‘70 si sono trovati a scrivere canzoni e dischi che, usciti negli anni ‘80, avevano nel DNA una forte traccia psichedelica. Verrebbe da dire che gli anni ‘60 non sono mai morti. Una decade indimenticabile, che pur offrendo meno di quella successiva a livello musicale, è riconosciuta nell’ambito dell’arte in generale come la migliore del secolo scorso. Negli anni ‘80 c’è un po’ un ritorno alle sonorità dei sixties in tutti i generi musicali da quelli più commerciali, il pop, a quelli più di nicchia come il garage e il beat e la psichedelia.

Andy Partridge (1953), Colin Moulding (1955) e Dave Gregory (1952) gli XTC sotto mentite spoglie assieme al fratello di Dave, Ian (1954) ad un certo punto degli anni ‘80, per puro divertimento, scrivono due dischi che si rifanno alle musiche che, da adolescenti, li avevano incantati e per cui erano finiti a suonare. Lo fanno perché sono ispirati e per divertirsi, ma per altri la scelta è più seria, specifica e nascosta . Quella che segue è una raccolta di canzoni estratte dai dischi neopsichedelici che ho sul mio scaffale, proposte in rigoroso ordine alfabetico. Nulla di esattamente completo e dettagliato, non vogliatemene, ma come sempre sono le canzoni che ci fanno ricordare gli album. Sono le canzoni che fanno la differenza. Non lo ammettiamo perché è tremendamente figo dire: ”Kilimanjaro dei Teardrop Explodes ce l’ho!!!”, anche se poi c’è più polvere su quel disco che sotto al divano, ma ci ricordiamo dei dischi, dove li abbiamo acquistati e di molte situazioni che ci girano intorno, solo grazie ad esse. Per una dettagliata discografia essenziale sulla neo psichedelia inglese nella decade degli anni ‘80 vi consiglio di recuperare i numeri # 237 e #239, del Febbraio e Aprile 2018, della rivista Blow Up di cui vedete riproposte le copertine in questa pagina.

Sotto i riferimenti delle canzoni ci sono gli anni di nascita dei principali compositori

BREATHLESS “Across The Water”

da “The Glass Bead Game” (Tenor Vossa Rec., 1986)

Dominic Appleton ( ), Gary Mundy (1963).

Il pezzo che apre il primo disco dei Breathless mi aiuta ad avere un incipit perfetto per questa raccolta. Cinque minuti di scintillante magia psichedelica, un pezzo straniante che rivela un gruppo che sarà capace di coniugare le esperienze lisergiche dei Pink Floyd con la new wave dei Joy Division. Voce, chitarra, basso e tastiere emergono lentamente attraverso l’acqua e quando arriva la cassa della batteria il pezzo è pronto per liberarsi.

THE DUKES OF STRATOSPHEAR “My Love Explodes” da “25 O’Clock” (Virgin, 1985)

Sir John Johns (1953), Red Curtain (1955), Lord Cornelius Plum (1952), E.I. E.I. Owen (1954).

Il gruppo per cui sono arrivato a redigere questa pazzia. “My Love Explodes” è un pezzo facile potrebbe pensare qualcuno, e negarlo sarebbe del tutto sbagliato, ma le domande che riabilitano questa traccia sono: quanto è letteralmente esplosiva ? Quanto profumo lisergico e selvatico emana ? Quanta pura essenza sixties riescono a clonare quei perfettini degli XTC sotto mentite spoglie ? Quanti gruppi di disperati che nemmeno il giornale locale si degnava di denunciarne le cronache e i cui nomi fra cinque secondi non ricorderemo più ci sono ficcati in questi quattro minuti scarsi ? Ho detto tutto.

ECHO AND THE BUNNYMEN “Crocodiles” da “Crocodiles” (Korova, 1980)

Ian McCulloch (1959) Will Sergeant (1958)

La chitarra acida di Will Sergeant , sotto il martellamento di voce, basso e batteria, è quasi costretta in un angolo in questi due minuti e quaranta, ma nelle ritmiche e negli slanci graffianti è totalmente una chitarra sixties. Questo è un particolare che spesso non è considerato quando si parla del gruppo di Liverpool, che invece ha saputo interpretare la new wave dell’epoca con forti tinte psichedeliche.

THEE HYPNOTICS “All Messed Up” da “Come Down Heavy” (Situation Two, 1990)

Jim Jones ( ), Ray Hanson ( ).

Uno dei due pezzi che spalanca le porte su questo disco che arriva a metà del 1990. Non il migliore dell’album ma certamente uno dei più rappresentativi di una raccolta che esprimeva tutta l’energia dello psycho rock duro, che fu molto seguito sul finire degli anni ‘60. Il pezzo si sviluppa per quasi cinque minuti, tra accelerazioni, assoli, effetti

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e un cantato degno del caso. Senza ombra di dubbio il disco è un padrino di tanta roba scesa dalla Scandinavia nel decennio successivo.

Thee Hypnotics

MY BLOODY VALENTINE “Off Your Face”

da “Glider” 12” Ep (Creation, 1990)

Kevin Shields (1963).

Il brano che chiude l’Ep del 1990. Una canzone straordinaria, sussurrata da Bilinda Butcher autrice del brano con Shields. Un pezzo luminescente che vorrebbe essere pop sulla falsariga, passatemela, dei gruppi femminili anni ‘60 prodotti da Phil Spector, talmente è piena di suono, ma che dopo i due minuti viene letteralmente gambizzato da un “rumore” che gli entra di lato e lo fa a pezzi. Formidabile.

OZRIC TENTACLES “Eternal Wheel”

da “Erpland” (Dovetail Records, 1990)

Ed Wynne (1961).

Ottominuti e più di scorribanda psyche con citazioni Hawkwind abbastanza evidenti. Da questo punto di vista gli Ozric sono stati dei maestri negli anni ‘90 anche se con il tempo la voglia di sperimentare si è un po’ affievolita, facendo rientrare il gruppo in canoni più standardizzati rispetto al concetto di “nuova psichedelia”. Rimane il fatto che il primo e il secondo disco sono assolutamente di livello e ampiamente da considerare nel genere neo psyche anche e solo per il fatto che era vent’anni che nessuno suonava più cosi e il loro “mood” era assolutamente contemporaneo.

OUTSKIRTS OF INFINITY “Eastern Spell” da “Lord Of Dark Skies” (Woronzow, 1987)

Bari Watts (1953), Nick Saloman/Bevis Frond (1953). Da questo disco, che trae ispirazione completamente dal passato con influenze palesi per la musica di Hendrix e Cream, propongo questo brano strumentale suonato con sitar, tablas e dholak giusto per ricordare come negli anni ‘60 il ricorso a strumenti e sonorità orientali fosse una trovata che pagò e che caratterizzò la fase psichedelica della musica che amiamo. Non che veda collegamenti importanti ma se pensiamo che dieci anni dopo questo disco, nel 1997, i Cornershop firmano “When I Was Born

For The 7th Time”, disco d’oro nel Regno Unito, che è un album caratterizzato non poco dalle sonorità e dalla cultura indiana, posso azzardare che qualche merito la scena neopsichedelica l’abbia avuto, anche solo per aver riproposto certi suoni. E poi che si può dire dei due principali firmatari della sigla? Musicisti che nella pentola della psichedelia ci sono cascati da piccoli.

PRIMAL SCREAM “Loaded” da “Loaded” 12” Ep (Creation, 1990)

Bobby Gillespie (1962), Andrew Innes (1962), Andy Weatherhall (1963).

Porterei “Screamedelica” sull’isola deserta e nient’altro. Ma il disco del 1992 è una congiunzione di Ep tra cui questo, che sulla facciata A presenta il pezzo sopracitato. Trattasi di psichedelia danzabile, il lavoro di quei “malzabadati” (cit. Mamma) dei Primal, una band che si ispira palesemente alla cultura sixties, trattato dalle sapienti mani del DJ Andrew Weatherhall. Un innesco probabilmente ispirato dagli Shamen, leggasi fra due canzoni, che fissa un inno splendente per le nuove generazioni. L’andamento dinoccolato, la voce di Gillespie azzerata assieme alle chitarre, fiati e cori soul a cascata, la voce di Peter Fonda tratta dal film “I selvaggi”……. “Loaded” è una liberazione.

THE SEERS “Sun Is In The Sky” Da “Psych Out” (Cherry Red, 1990) Spider McCallum ( ), Kat Day ( ) , Leigh Wildman ( ). Il molto divertente disco dei Seers è il classico esempio di come alla fine di quella decade i suoni psichedelici erano alla ribalta. In un disco che presenta una serie di ottime canzoni che vengono rivelate toccando vari generi anche la psichedelia ha la sua parte. Il brano assolutamente più rappresentativo è quello che ho scelto, una sorta di balzo temporale in una solare Londra di fine anni ‘60. Un brano travolgente, dal giro iniziale, ai cori, all’ indimenticabile ritornello e alla lisergica coda finale.

THE SHAMEN “Sweet Young Thing” da “In Gorbachev We Trust” (Demon, 1990)

Colin Angus (1961), Will Sinnott (1960). The Shamen condividono con i Primal Scream gli inizi di carriera dediti alla culto dei sessanta, ma la band di Colin Angus e Will Sinnott capisce prima di tutti che la commistione tra “nuovi” ritmi e la sensibilità sixties che hanno nel DNA può essere una direzione in cui muovere la neo psichedelia…..e ci si buttano a capofitto senza tornare più indietro. L’abitino “industrial” con cui rivestono la canzone dei Monkees, seconda traccia in scaletta dell’album è emblematico.

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The Shamen

THE SOFT BOYS “I Got The Hots”

da “Underwater Moonlight” (Armageddon, 1980) Robyn Hitchcock (1953)

Quella sorta di nuovo menestrello che è stato Robyn Hitchcock ha avuto il merito di fare quello che sapeva fare senza ambire a nessuna particolare contaminazione. In apparenza è stato così però il guascone qualche traccia l’ha lasciata e una buona parte di questa canzone si rifà nel sound a quei Joe Jackson e Graham Parker che nei misconosciuti rivoli del cosiddetto “pub rock” rendevano la Londra di quegli anni un terreno fertile a tutto. L’altra parte di canzone è una cosa che più Velvet Underground non si può e che nemmeno Phil Parfitt ha osato fare.

SPACEMEN 3 “Transparent Radiation”

da “The Perfect Prescription” (Glass Records, 1987)

Peter Kember/Sonic Boom (1965)

Jason Pierce/J Spaceman (1965)

Dal secondo disco degli Spacemen 3 propongo la cover dei Red Crayola, già uscita sull’Ep dello stesso anno e intitolato “Transparent Radiation”, ma in una versione più lunga che dura 21 minuti, mentre sull’album viene ridotta a dieci. Gli Spacemen 3 sono un gruppo che oltre a contribuire alla scena neopsichedelica si affermano come uno dei gruppi più importanti del genere di sempre. La loro musica allucinata e espansa che sa anche di rock sperimentale ha radici storiche importanti che qui diventa lunga spiegare. Rimane un pezzo incredibile questo, di una band altrettanto incredibile che solo loro potevano rispolverare.

THE STEPPES “See You Around”

da “Drop Of Creature” (Voxx, 1986)

Jim Fallon (1961).

Ho conosciuto The Steppes con “Harps & Hammers”. Avevo una cassetta TDK che dividevano con i Primal Sceam di “Sonic Flower Groove” che ascoltavo con godimento. Quando sono andato a scovare le prime cose del gruppo dei fratelli Fallon le ho trovate ancora più valide. Il gruppo si può banalmente racchiudere in quella cerchia che si ispira al meglio della musica british dei sixties, con un ampio raggio di azione che va dai Beatles ai Kinks e dai Cream ai King Crimson. Il pezzo è uno di quelli più semplici del disco, ho cercato di bilanciare quando ho scelto le quindici canzoni, in modo da non avere troppi pezzi cervellotici e nemmeno troppi leggeri. E’ una delizia melodica perfetta, lisergica e fresca a tal punto da dubitare che la sua scrittura sia avvenuta negli anni’80.

The Teardrop Explodes

THE TEARDOPS EXPLODES “Pure Joy” da “Wilder” (Mercury/Zoo, 1981)

Julian Cope (1957)

Chiudiamo queste quindici proposte stazionando nella città dei Fab Four, con due gruppi che da li provenivano. Il gruppo di Julian Cope e soci è un gruppo che musicalmente sta nel guado, preso in mezzo dall’ondata post punk che imperversa in quegli anni in Inghilterra e a Liverpool massicciamente e le ispirazioni sixties psichedeliche che appartengono al front man e che tanto caratterizzeranno la sua carriera solista. La musica ne risente? Si e no mi viene da dire anche se a volte catalogarli diventa arduo. Tra le tracce psyche che disseminano i loro dischi ne ho scelta una dal secondo “Wilder”, che ha un riff sixties talmente killer da far fatica a riprendersi anche se il brano non dura nemmeno due minuti.

Manco l’avessi fatto apposta la chiusura finale tra l’epico e l’eccentrico di “Somesay” dei Wah! sembra la canzone perfetta. In realtà non è la più rappresentativa di un disco che ha caratteristiche “strane”. Peter Wiley per cominciare era in un gruppo con Cope e McCulloch, due destinati a scriverne di pagine importanti, lui invece potrà vantarsi di aver scritto “solo” questo disco, un album che recupera i suoni prettamente sixties e li ricolloca nel suo tempo. Le chitarre sono in bella evidenza, basso e batteria in primo piano, le tastiere sono propositive e tutte queste caratteristiche segneranno molto rock dell’epoca, anche quello più commerciale. Infine molti pezzi hanno una creatività bizzarra e straniante e forse è proprio lì va cercata la vena neopsichedelica del disco e del gruppo. Un disco tanto minore quanto importante.

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Spacemen 3
Wah!

XTC: Il loro sciopero, il mio sciopero e i dischi snobbati dal Direttore

Quali diavolerie sono nascoste dietro le quinte del grande mondo dell’industria musicale. Cosa è celato quando entrano in ballo contratti, diritti, case discografiche, manager, autori etc etc.. Prendiamo i Maneskin, ho l’impressione che siano dentro a una cosa più grande di loro. Più grande del loro talento, delle loro canzoni, di tutto quello che potevano desiderare Una cosa vissuta con una felicità di facciata. Prendiamo gli XTC….. quaranta anni fa, esce “Nonsuch” che vende ma non stravende, come era capitato a “Oranges & Lemons” e “Skylarking”. Il gruppo non guadagna abbastanza perché alla fine degli anni’80 ha circa 800.000 dollari debiti per costi dovuti a problemi legali e contabili. La Virgin si impegna a saldare il debito ma li obbliga ad accettare un contratto da esordienti. Vendono bene ma nonostante questo, i soldi che guadagnano bastano appena per vivere, sembra assurdo ma è così. Decidono di chiedere alla Virgin un contratto più consono al loro rango, sono il gruppo che è con l’etichetta da più tempo e credono di meritarselo. Ma non sarà così. Partridge allora per stemperare la tensione propone, sulla falsariga dei Dukes, un progetto simile di “bubblegum pop” dove inscenerebbero una compilation di gruppi anni’ 60. Alla Virgin non ci sentono proprio e loro entrano in sciopero. Passano cinque anni al termine dei quali l’etichetta cede e gli XTC sono finalmente liberi. Si accasano alla piccola Cooking Vinyl. Andy nel frattempo non ha mai smesso di scrivere canzoni e ha molte idee in testa, il problema è che non tutte coincidono con quelle di Colin e Dave. A proposito anche Colin non ha mai smesso di scrivere. Così si trovano un gran numero di canzoni per le mani, recuperano come produttore Haydin Bendall, con cui lavorarono ai loro esordi e individuano come studio adatto alle registrazioni quello di Chris Difford, il cantante degli Squeeze. Fanno una costosa pre produzione con parti registrate con la London Philarmonic orchestra agli Abbey Studios, scelgono i brani e una volta iniziate le registrazioni si accorgono che lo studio non è all’altezza, che lo devono pagare e che, non potendolo fare, gli vengono requisiti i nastri dei pezzi su cui hanno lavorato fino a quel punto. Il disco verrà poi finito tra i Chipping Norton Studio nell’Oxfordshire e il garage di Colin Moulding ed uscirà nel Febbraio ‘99 con il titolo di “Apple Venus Volume 1”. Avrà anche un seguito intitolato “Wasp Star (Apple Venus Volume 2)” che uscirà un anno dopo.

Ma ora stacchiamo un attimo e parliamo del mio sciopero. Perché dovete sapere che se WN#56 non l’avete avuto tra le mani in estate è solo perché mi sono messo di traverso, in quanto il direttore, di questi ultimi dischi non ne voleva proprio sapere. L’avete letto il suo pezzo sull’ultima parte della loro discografia ? Avete letto come li liquida ? Questo uomo è un pazzo perché “Apple Venus Volume 1” è un disco bellissimo. Visto che l’impaginazione la curo io l’ho minacciato: ”se non trovi la maniera di parlarne io WN non lo chiudo”. Siamo quasi venuti alle mani. Ma dopo tre mesi in cui non ho fatto niente, la corda si è spezzata, ha ceduto e mi ha detto di fare quello che volevo. Ho vinto, ho scritto questo pezzo e l’ho sistemato alla fine della parte XTC di questo numero proprio per mettere in maggior risalto la sua svista epocale.

Avete presente delle canzoni nude? Ecco non siamo proprio al nudo integrale ma gli XTC di questo disco hanno svestito per bene le 11 canzoni che riempiono l’album. C’è meno pomposità, meno arrangiamento e tutto è ridotto all’essenziale. Cosa c’è stato dietro a questa storia? Quale era il segreto del loro suono? Ecco che qui ve lo mostrano, senza trucco e senza inganno. Gli XTC nudi e puri. Trasparenti. Pronti per l’ultima recita degna del loro rango.

La scrittura dei due geniacci è la base di tutto. Si può essere d’accordo con quello che dice nell’intervista Paolo Bertrando a proposito dell’istintività dei primi XTC, ma è altrettanto innegabile che l’artigianato musicale che hanno sviluppato nel tempo è un’arte che in pochi sono riusciti a replicare. E se qualcuno ha fatto meglio è solo perché di cognome faceva Bacharach, Wilson, Lennon McCartney, Newman. In questo disco il duo ha lavorato per sottrazione, ha tolto e ridotto a comparse quasi tutti gli altri musicisti. Dave Gregory compreso, che infatti se ne andrà tristemente. Nonostante il disco non nasca in una situazione che definirei serena quello che comunica è proprio questo: serenità. O liberazione.

L’introduzione in punta di piedi di “River Of Orchids”, la sua leggerezza che la rende un pezzo sfuggevole, sognante, una libellula che danza sopra un fiume di orchidee. Un pezzo lungo e magnifico, dove gli archi fanno da contrappunto alla voce, con il sostegno di una tromba. “I’d Like That” qui si sfiora il “pop da classifica”, solo che c’è un problema il pezzo è suonato in acustico, supportato da ben pochi suoni che riempiono. “Easter Theatre” è uno dei pezzi più belli del disco. Ancora gli archi a introdurre, poi la tromba a supportare assieme a un bella chitarra elettrica. La canzone arriva anche librarsi con un suono compatto e tutt’altro che scarno, ma è solo un inganno pop perché un paio di momenti più strumentali la riportano a terra. “Knights In Shining Karma” Altro pezzo lento, sognante, sorretto da chitarre e tastiere e arrangiamenti vocali di classe. “Frivolous Tonight” è il pezzo più cantabile, una sorta di

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marcetta quadrata, una delizia per palati fini dediti al culto dei baronetti. “Greenman” ha gli archi in gran evidenza e rispolvera le melodie orientali che già in passato avevano arricchito alcune canzoni del trio. “Your Dictionary” pezzo quasi acustico suonato in solitaria che poi si svela grazie a piano e melodie vocali che omaggiano i Beach Boys. “Fruit Nut” è un delizioso pezzo da avanspettacolo, “I Can’t Own Here” e i suoi cinque minuti e mezzo sono un incanto pop, tra orchestrazioni libere e melodie che raggiungono picchi dove si mostrano senza vergogna per poi sprofondare in abissi, riprendersi e risalire. “Harvest Festival” ballata al piano che si sviluppa in levare tra archi e pesanti citazioni maccartiane. A chiudere il finale crepuscolare di “The Last Balloon”, wilsoniana fino al midollo, costruita su poco altro che le parti vocali, una tastiera e una tromba che nel finale si concede un assolo importante.

Come detto sono canzoni spogliate da un bel po’ di musica, idee e strumenti. Di norma tutto queste canzoni sarebbero state più pompate, sovraincise, riarrangiate. Ma in questa veste, così asciutte, così essenziali, riacquistano una dimensione importante, una bellezza primigenia, sono un trucco leggero su un volto bellissimo. Gli XTC di questo disco, manco ne avessero bisogno, dimostrano la propria assoluta grandezza.

mica. E’ un disco dove la batteria è in bella evidenza, forse nasconde un po’ le magagne di canzoni che non sono proprio indimenticabili ma è un disco che è decisamente coerente. Non presenta particolari colpi di genio ma pur presentando canzoni che sono state recuperate e rivestite alla veloce ha un suo perché. Sono d’accordo sul fatto che sia il disco meno riuscito degli XTC ma non proprio così impresentabile. Come detto ha una coerenza e una direzione che mantiene per cinquanta minuti e tutto sommato risulta essere più che gradevole. Se il volume uno merita di stare fra il meglio della produzione XTC, il volume due no, ma almeno conferma lo stile e la classe pura dei duchi di Swindon, se nessuno si offende (leggasi Direttore).

Purtroppo però il gruppo non c’era più e di lì a poco tutto sarebbe finito. Cercando di mettere un po’ di ordine nella discografia degli XTC negli ultimi anni possiamo dire che “Homespun” è il disco uscito nel 1999 a Ottobre e presenta i demo di “Apple Venus (Volume One), “Homegrown” è una cosa simile ma si occupa del secondo volume. Entrambi i dischi hanno visto uscire poi nel 2002 delle versioni strumentali di se stessi. Inutile dire che sono uscite dedicate ai fans e nulla aggiungono all’arte della band.

Tante coppie di autori si sono lasciate male, non c’è bisogno di ricordare nomi e cognomi ma nel caso degli XTC, questa fine del rapporto fra Partridge e Moulding mi ha sempre colpito maggiormente. Le ragioni possono essere diverse. La loro storia è caratterizzata da molte rinunce, qualche sfiga, fregature discografiche e caratteracci (quello di Andy in special modo) immaginarmeli lontani in una città così piccola mi rattrista perché sono stati dei miti assoluti con una carriera che, disco per disco, si può dire solo ritenere immacolata.

“Everything decays

Forest tumbles down to make the soil

Planets fall apart

Just to feed the stars

And stuff their larders

And what made me think we're any better

Of course it all unweaves”

Quattordici mesi dopo, nel maggio del 2000, esce “Wasp Star (Apple Venus Volume 2)” . E’ un disco che ha una filosofia per certi versi simile al precedente, le sovrastrutture e gli arrangiamenti sono ridimensionati ma è un disco che suona più semplice, è un disco ruffiano, è un disco svagato è un disco rock ’n’roll mio Dio!!!!!. Chitarre e batteria girano che è un piacere. Sembra assurdo ma è così. Prendiamo per esempio gli attacchi dei pezzi, quasi sempre sono ideati per essere diretti, per rubare subito l’attenzione. Sentite l’intro secca di “Playground”, quello di “Stupidly Happy” con la batteria raddoppiata da quella elettronica in un giochetto tipo Eels, quello rampante di “In Another Life”, il riff semplice e acustico del blues di “Boarded Up”, quello ruffiano già sentito altre volte di “I’m The Man Who Murdered Love”, quello sostenuto e danzabile di “We’re All Light”, quello da rock sinfonico di “Standing In For Joe” e quello da rock di frontiera di “Wounded Horse” e poi c’è quello caribico di “You And The Clouds Will Still Be Beautiful” dove sembrano scimmiottare i Police e quello da stadio di “The Wheel And The Maypole”. Rimangono fuori “Church Of Women” sul finire del disco, ballatona dove la batteria non attacca subito e “My Brown Guitar” che è l’unico pezzo che può essere associato al passato come sviluppo e dina-

And what made me think we'd last forever
Was I so naive?
Brano estratto dal testo di “The Wheel and the Maypole” , il pezzo che chiude “Wasp Star”
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The Rolling Stones R.E.M. Sonic Boom & Panda Bear Federico Guglielmi The Chats Marco Denti The Dream Syndicate Gianni Lucini Fabio Ruta Anna von Hausswolff Ravagers Suede MUSCHIO Pagina 45

MUSCHIO intervista a Fabio Poggiana e recensione di “ACUFENE³”

di DJ Kremlino

I MUSCHIO sono un trio strumentale post heavy rock, nato a Verbania a fine 2011. Il progetto prende forma con Fabio Poggiana alla chitarra, Rino Sorrentino alla batteria (già insieme nei Leo Minor) e prima rispettivamente nei Wood (Pogio) e nei C9 (Rino) assieme ad Alberto Corsi l’altra chitarra ed ex Mauve.

I MUSCHIO danno vita a un suono pesante e particolare che mescola post hardcore e noise. Dalla primavera 2012 hanno prodotto tre dichi e suonato in Italia con band come Appaloosa, Clarky’s Bacon, Uochi Toki, Lento e preso parte a concerti e festival importanti. Nel 2021 tornano in studio con Fabio Intraina con cui hanno registrato e mixato gli otto brani nel suo Trai Studio di Inzago (MI); il mastering è invece stato affidato a La Maestà Studio di Giovanni Versari. Nella primavera 2022, grazie alle label I dischi del Minollo, Tutto il nostro sangue, Taxi driver Records e Muratore Noise vede così la luce “Acufene³”. Un’occasione non solo per scrivere della band e della loro musica ma, approfittando della lunga militanza pluridecennale di Pogio nell’undergound rock italiano, provare a fare un excursus sui cambiamenti avvenuti e sulle prospettive della nostra musica preferita.

WN: Partiamo dai Muschio. Onestamente il terzo disco ha visto una crescita netta rispetto ai precedenti. A me sembra più intenso, centrato, più profondo, Insomma un disco che continua un percorso di crescista evidente. Solo una mia impressione o anche tu hai avuto la stessa sensazione? Sai, di solito si cerca sempre di difendere tutti i dischi prodotti.

Fabio: Si, credo che Acufene sia un passo avanti rispetto ai precedenti, con più ricerca e contaminazioni, non sei il primo a farcelo notare. Questo è il terzo disco in dieci anni dove via via abbiamo cercato suoni nuovi e soluzioni sempre varie. Personalmente ritengo questo atteggiamento una esigenza vera e propria, ovviamente senza stravolgere il progetto. Molti brani risalgono a prima del lockdown, i rimanenti sono stati scritti subito dopo.

WN: In ambito undergorund la scelta che, come band, avete compiuto nel 2012 di suonare senza basso e soprattutto senza un cantato non era nuova ma nemmeno perseguita

da molte band. Ora sembra che un pezzo consistente legato all’evoluzione della musica pesante preferisca, come voi, ridurre al minimo le parole e lasciare uscire furiosamente la propria sola musica. All’inizio è stata una scelta consapevole? Come l’avete gestita nel corso di questi dieci anni?

Fabio: Direi una scelta più che consapevole; d’altronde il progetto Muschio segue quello dei Leominor, anch’essi senza parti vocali. All’epoca, chiuso il capitolo Wood venni fulminato dall’ascolto di varie band post core strumentali come Isis, Pelican, Red Sparowes e i giapponesi Envy, tutte band dedite quasi completamente all’heavy strumentale. Con i Muschio e l’ingresso di Alby (ex Mauve), l’intento è stato di uscire (un po') dagli schemi e clichè imposti dal genere per arrivare a più persone possibili, lavorando oltre che alla composizione dei brani, su suoni ed effettistica. Questo lavoro rende quasi superfluo l’uso del cantato, anche se ci divertiamo ad ogni disco inserendo una piccola parte di voce per vedere l’effetto che fa…

WN: Nel disco i vostri pezzi tutti senza voce (a parte uno, l’eccezione che conferma la regola) c’è una centralità dei riff di chitarra che si poggiano sulla batteria. Pochi fronzoli e tanta sostanza, mi verrebbe da dire, pur però non risultando mono(tono). L’idea di stare dentro il pezzo, di non lasciarsi andare in (troppe) derive o arrangiamenti complessi (magari fini a sé stessi), è alla base della vostra scrittura per una scelta consapevole o è una scelta naturale che deriva dall’approccio che avete in sala prove e che non volete snaturare in fase di registrazione?

Fabio: La nostra idea di musica è quella di catturare l’attenzione di chi ascolta senza tediarlo troppo con lunghissime intro o code finali tipiche di molte band “post” qualcosa… cerchiamo di portare e termine un brano con partiture semplici da sequenziare, la cui durata non supera i cinque minuti. Un’altra cosa per noi importante è la registrazione in studio che avviene sempre in diretta. Se vieni in sala prove sentirai i pezzi così come su disco dove le sovra incisioni sono rarissime. Questa modalità di lavoro da un senso di reale che ci piace molto.

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WN: Nel solco di una musica rock che poco (o per nulla) si è evoluta negli ultimi venti anni, un giornalista importante (e bravo) come Simon Reynolds nel suo libro Retromania ha scritto che la musica pesante è stata tra le poche in ambito rock a provare a trovare strade nuove negli anni duemila, grazie alle contaminazioni che ha saputo creare. Il vostro suono ne è una dimostrazione. Avete anche voi sensazione che la musica pesante sia stato in grado di andare oltre i soliti cliché?

Fabio: Penso che nella musica “pesante” ci siano più margini dove cercare nuovi spazi sonori. Non so se è una questione di scelte coraggiose o altro ma rispetto ad altri generi tutte le derive del metal di oggi dimostrano che si può ancora creare del nuovo, per fare un nome direi Ornanssi Pazuzu. Il nord Europa fa scuola in questo. In ambito indie ho seguito con interesse la scena di Bristol negli ultimi anni, dagli Idles agli Heavy Lungs o gli americani Protomartyr con influenze post punk/wave.

WN: Pogio, tu hai ormai trent’anni di esperienza in alcune band underground e hai vissuto quindi da protagonista l’evoluzione della scena di questi anni. Cosa ti sembra che sia mutato in questo ambito in linea generale?

Fabio: Domandona nostalgia… i cambiamenti sono stati abissali per molte ragioni. Alcuni aspetti sono molto migliorati, altri decisamente peggiorati. Negli anni 90 c’è stata a mio parere una passione e un fermento irripetibili con forti legami tra band, gestori, centri sociali e pubblico. Seppur con mezzi limitati ogni piccolo live era un evento molto partecipato. Le barriere di oggi tra i vari generi underground non esistevano e nascevano band di giovanissimi in continuazione, anche per spirito di emulazione verso quelle più affermate. I live nei locali erano eventi cool dove trovavi un pubblico eterogeneo, mentre oggi gli eventi sono mirati ad appassionati di un genere. Questo è comunque un discorso complesso che andrebbe analizzato a fondo ripercorrendo la storia e i cambiamenti di usi e costumi generazionali. Di contro ai tempi registrare un disco e fare promozione

era un’impresa quasi eroica. Gli studi di registrazione erano pochi, piuttosto cari e con competenze “mainstream”, quindi ottenere il suono che pensavi era quasi impossibile. I 2000 hanno poi segnato un importante svolta, più mezzi, più tecnici preparati e più comunicazione con l’uso di internet che prima era agli albori. Il Web, vera e propria rivoluzione che però ha snaturato la genuinità di prima, colmando la fame di ricerca e la voglia nella gente di recarsi ai live, le nuova generazioni crescevano senza questa esigenza e i risultati oggi sono evidenti a tutti.

La scena è tenuta in piedi da pochi grandi appassionati un po’ attempati ahimè… ovviamente oggi non è tutto così negativo, una band ha mezzi in abbondanza per fare dischi e promuoversi, può vendere dischi in formato digitale e ottenere consensi in tutto il mondo, ma deve essere consapevole che la propria musica ha ormai un potere economico molto meno rilevante del passato, le etichette indipendenti di un tempo non esistono più e molti locali che puntavano sui live hanno dovuto cambiare strategie operative. Ne consegue che i maggiori sforzi economici ricadono sulle stesse band.

Recensione

MUSCHIO – Acufene³ (Muratore Noise, 2022)

8 tracce per 42 minuti circa

Come ho già avuto modo di scrivere nella prima domanda dell’intervista il loro terzo disco vede “una crescita netta rispetto ai precedenti… più intenso, centrato, profondo”.

D’altronde son passati anche quasi sei anni dal precedente del 2016 e, grazie ad una attività live che non hanno mai abbandonato (Covid permettendo), hanno evidentemente accresciuto la loro osmosi che trova in queste otto tracce una sintesi davvero convincente. Muri di chitarre (senza voce) e una sezione ritmica

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(senza basso e solo batteria) vorace e oscura sono il loro marchio di fabbrica, che si fonde con una forte sensazione di libertà creativa nell’approccio alle composizioni, maestose e massicce, in grado di amalgamare noise, post hardcore, post core, sludge e quindi rumorose (eccome), ma al contempo piene di particolari, riverberi, suoni ipnotici e profondi quasi catartici.

Insomma tutto l’armamentario migliore della musica pesante di questi anni: Melvins, Oneida (quelli meno psichedelici) e certi passaggi dei One Dimensional Man degli inizi potrebbero essere termini di paragone al loro approccio, ma una loro personale impronta (soprattutto se si ascoltano anche i precedenti dischi) emerge nitida.

L’aspetto molto positivo è che ogni brano ha un forte carattere e una sua riconoscibilità: l’hardcore rallentato, metallico e furioso di “Sicario”, l’incedere ipnotico e vorticoso di Califfo, l’andatura ossessiva di “Tramontana Scura” e “Agata” (pezzi da una distopica discoteca metal del 2034), la quiete metalambient che precede la tempesta di “FFF” (l’unica con il cantato sofferto e riuscito di Rino), l’elegia commovente (dedicata a) “Dave Cooks”, la furiosa e classicamente heavy “Ohmega” sino alle chitarre affilate di “Macelleria Messicana” con un climax di attesa che esplode inevitabilmente in un intensissimo finale.

Nessuna sbavatura, nessun calo di tensione, nessun brano riempitivo. Ottimo disco!

dal n°55 - I POSSIBILISTI: Ancora G.L.FERRETTI !!!

In merito al quesito che si poneva sul numero scorso, in cui si azzardava una ipotetica uguaglianza fra D’Alema, Veltroni e Giovanni Lindo Ferretti, condizione che i tre avevano ragione di condividere solo perché individuati come presunti volta spalle della sinistra, ci ha risposto Roberto da Bozzolo (MN) ”In molti hanno tradito la sinistra e di solito sono state persone che con il lavoro non avevano nulla da spartire. Non voglio certo dire che questi tre benemeriti non lavorino, ma rispetto a quello che faccio io nelle campagne del mantovano hanno lavorato un giorno per ogni anno della loro vita. Ho la casa piena di fotocopie a colori di album di figurine, dischi inutili che sono cantilene nemmeno tanto consolatorie e soprattutto non ho una barca a vela parcheggiata sul fiume Oglio. Tradire la sinistra? Ma non contatemi balle. Questi nemmeno le si sono avvicinati e il peggio è che da quando è morto Enrico, sono stati i migliori che abbiamo avuto. Tanto che cosa vogliamo e abbiamo da insegnare? Tutti belli divisi, tutti belli sapienti, tutti belli “green” e “smart” che se ci mettono in dieci in una casa, oltre a non decidere niente facciamo la fine degli indiani della Christie perché ci facciamo fuori tra di noi. Noi già. Noi speciali, noi unici, noi formidabili che l’unica cosa che ci è rimasta è la Resistenza, benedetto sarà il giorno in cui la chiameremo con il suo nome: Guerra Civile. Tanto unici e primi in tutto che la prima donna Presidente del Consiglio l’hanno eletta loro, i neri. Saluti, non romani, a tutti voi bella gente“. Non saprei cosa aggiungere.

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Trent’anni fuori dal tempo

R.E.M. “Automatic For The People” (1992 - 2022) di Giorgio Ferroni

Quando ancora si compravano i supporti fisici che contenevano la musica, spesso succedeva, per tante ragioni, a volte comprensibili, a volte no, che questi finivano sugli scaffali ad impolverarsi. A volte erano semplicemente album mediocri se non brutti. A volte eri invece tu che non eri strutturato per ascoltare quella musica. Altre volte perché quel particolare disco, in quel particolare periodo, non incrociava il gusto prevalente dell’epoca. Quest’ultimo è il caso dell’ottavo album del R.E.M. “Automatic For The People”, pubblicato giusto giusto trent’anni fa. All’epoca fu giudicato non benissimo dalla critica e fu sottovalutato dai fan (fra cui il sottoscritto) che dopo qualche ascolto lo ripose nel fatidico scaffale, mentre sullo stereo continuava a girare altra musica. “Automatic” però piano piano ha recuperato, sia nella stampa che fra gli appassionati del gruppo americano, il suo giusto posto sul podio nella classifica dei migliori album del quartetto di Athens Georgia. Se guardate su Spotify, noterete che quattro su dieci delle canzoni più ascoltate sono tratte proprio da questo album.

Vediamo di capirne i motivi: Una questione è indubbiamente che “AFTP” usciva appena un anno dopo lo straordinario successo di “Out of time” il disco che trasformava un gruppo da palazzetto dello sport in delle rockstar da stadio. “OOT”, pubblicato nel marzo del 1991, è il disco che contiene “Losing my religion”, è un album da quindici milioni di copie vendute che diventa

numero uno nelle classifiche Usa. Ora dopo trent’anni, “OOT” mostra tutti i suoi limiti, ed il suo essere un disco che inseguiva l’ascoltatore con motivi orecchiabili (ma senza grandi contenuti emozionali) mettendo in campo anche un paio di duetti, che sono un classico aggancio per acquisire visibilità: improbabile quello con il rapper alias KRS One dei Boogie Down Productions in “Radio Song” e innocuo quello con Kate Pierson dei B52 in” Shiny Happy people”. “Losing My religion” e “Country Feedback” restano due grandi pezzi, ma “OOT” è un lavoro complessivamente invecchiato male, con brani non sempre all’altezza, a partire dall’inutile strumentale “Endgame”. È il disco in cui tra duetti, strumentali e brani dove canta Mick Mills, Michael Stipe è meno presente e questo non è un bene perché i R.E.M. si sono sempre caratterizzati per il suo timbro particolare e le sue grandi doti interpretative.

Altro problema è che il 24 settembre del 1991 veniva pubblicato “Nevermind” dei Nirvana e quindi il pubblico degli appassionati del 1992 vuole chitarre con il distorsore e cantanti che urlano in faccia al mondo la loro rabbia ed ovviamente l’industria discografica cerca di dargli quello che vuole. Nel 92 si pubblicano “Dirt” degli Alice in Chain; “Dirty” dei Sonic Youth; “Dust” dei Faith No More; “Blues For The Red Sun” dei Kyuss; “Check Your Head” dei Beastie Boys... et L’essere non perfettamente allineato al trend del momento di “AFTP” porta come ovvio dei riscontri, come detto, non eclatanti, probabilmente anche in conseguenza di ciò il suo successore (“Monster” del 1994) svolta fortemente in un ambito più legato al grunge e all’hard rock in generale, ma, pur essendo un album assolutamente valido, non sarà certo imprescindibile nella produzione della band.

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Tornando al 1992 i REM buttano in campo un album strano fin dalla copertina grigia e dal titolo, che pare sia ispirato dal nome di un ristorante. Nel momento forse di massima diffusione dell’indie rock con le sue sonorità forti e dissonanti e con l’ingombrante presenza del suo predecessore difficilmente superabile, per quanto riguarda l’impatto sul pubblico, i Rem il 5 ottobre se ne escono con un disco in gran parte acustico, intimista, cupo e con arrangiamenti orchestrali (di John Paul Jones dei Led Zeppelin).

In quell’anno, lanciare un disco con un singolo come “Drive” non è certo la migliore delle strategie commerciali, ma il brano è stupendo: un semplice arpeggio acustico lento sottolineato da una fisarmonica, che accompagna lo scorrere della narrazione, che trasporta verso una sezione di archi sontuosa sostenuta da una chitarra distorta. È un brano che trasuda nostalgia, per il tempo che è passato, c’è l’esplicito riferimento all’immaginario del rock (What if you rock around the clock), ai ragazzi liberi a cui nessuno può imporre quello che vogliono (Hey kids, where are you? Nobody tells you what to do, baby), ma tutto è inserito in un contesto musicale che non ha niente a che vedere con la spensieratezza di Buddy Holly e che ti suggerisce di fare il punto su quello che eri e quello sei diventato. C’è anche una versione CD singolo che comprende anche due inediti (It's A Free World, Baby; Winged Mammal Theme) ed una cover del brano di Leonard Cohen “First We Take Manhattan”.

“Try Not to Breathe” è uno dei pezzi più belli in assoluto del gruppo, ed è un pezzo sulla morte. Racconta di un uomo che alla fine della sua vita “cerca di non respirare” perché decide che sia l’ora di morire; ha avu-

to una vita piena e vuole scegliere per il suo interlocutore “gli occhi che voglio che tu ricordi” (I will try not to breathe, This decision is mine, I have lived a full life, And these are the eyes that I want you to remember). È una canzone sulla fine, ma anche sulla speranza infatti il protagonista cerca comunque dal suo letto di morte qualcosa per volare sopra la sua tomba (I need something to fly over my grave again) e anche la musica è un andante 12/8 in tonalità di Sol maggiore.

“The Sidewinder Sleeps Tonite” è un pezzo brioso con un bell’arrangiamento orchestrale e l’organo in evidenza ed è il terzo singolo estratto dall’album.

“Everybody Hurts” è un altro brano che resta nella testa pur nella sua semplicità del ritmo lento in 6/8 con la chitarra arpeggiata che si appoggia sugli archi, ancora una volta sostenuti dalla chitarra elettrica; è stato scritto dal batterista Bill Berry e tratta del tema della consolazione alle tristezze della vita attraverso il contatto umano. Il videoclip è molto bello: in un ingorgo stradale i conducenti mostrano (attraverso dei sottotitoli) tutte le loro paure e le loro frustrazioni, e in questo momento di terribile ed immobile quiete i Rem iniziano a muoversi fra le auto bloccate come una sorta di spiriti consolatori (sullo stile degli angeli del cielo sopra Berlino), a questo punto le persone scendono dalle auto e iniziano insieme a camminare andando avanti tutti insieme accogliendo l’invito a non mollare che troviamo sottolineato nel crescendo musicale del brano.

“Sweetness Follows” è un brano lento sulla separazione e sulla dolcezza che è ancora da venire, dove c’è un bell’inserimento del feedback della chitarra a riempire in modo profondo lo spazio lasciato libero dalle poche note dell’accompagnamento. Non ci sono percussioni, è un brano intenso, non banale, che inizia con un’affermazione forte (Readying to bury your father and your mother, What did you think when you lost another? Pronto a seppellire tuo padre e tua madre, cosa hai pensato quando ne perderai un altro?).

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Nel disco ci sono due brani dedicati a due icone decisamente anticonvenzionali dello star system americano: l’attore Montgomery Clift e il comico Andy Kaufmann. Un’introduzione acustica con un accompagnamento di fisarmonica conduce la traccia dedicata a Montgomery Cliff che è “Monty Got a Raw Deal” mentre “Man on the Moon” è la bella traccia che omaggia Kaufmann. Quest’ultima veniva eseguita in tutti i concerti del gruppo ed è una delle canzoni più famose dei REM, con un ritornello che resta in testa (“if you believed they put a man on the moon; If you believe there's nothing up his sleeve; Then nothing is cool”) e una bella ritmica di chitarra. Sarà il secondo dei singoli dell’album.

L’album si congeda con due brani lenti:

“Nightswimming” è un brano orchestrale con un’introduzione al pianoforte ed un bellissimo arrangiamento d’archi e orchestra. Una stupenda canzone sul tempo che passa che racconta di come questo sia passato rendendoci diversi, a volte fortunatamente migliori, Stipe parla con il cuore “della paura di essere scoperti” di “fotografie sul cruscotto scattate anni fa”. Stipe inizia la sua carriera di cantante nei primi anni ottanta nascondendosi dietro le parole, mormorandole, storpiandole per non farle riconoscere. Ora è un uomo adulto di trentadue che ha fatto i conti con sé stesso e non ha più paura di mostrarsi al mondo, né come cantante né come persona.

Montgomery Clift

“Ignoreland” è il brano “politico” del disco ed è uno dei pochi brani ritmati e con le classiche chitarre rock in primo piano e rimanda un po’ ai tempi di “Document” e di “Green”; mentre “Star Me Kitten” torna al mood lento con l’organo e in un’atmosfera condotta da una linea melodica quasi da ninna nanna in cui Stipe sciorina un testo oggettivamente esplicito (“Just fuck me kitten, You are wild and I'm in your possession, Nothing's free so, fuck me, kitten”)

Anche la seguente e conclusiva “Find the River”, guidata dall’organo e dalla chitarra acustica, è un’altra canzone magnificamente intrepretata che racconta il tempo e il cambiamento e lavora sul contrasto fra la strofa cupa (Devi andare in missione in città, Dove le persone annegano e le persone servono) e il ritornello arioso che nella ripresa racconta come finalmente le cose cominciano ad andare nel verso giusto.

Un album maturo ed intenso, un classico degli anni novanta che potrebbe però essere stato scritto in un qualsiasi altro periodo e quindi resta, giustamente, (lui si) fuori dal tempo.

Andy
Kaufman
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La musica eterna di Anna von Hausswolff

Mi sono sempre piaciute la musiche che arrivano dal nord Europa, paesi molto prolifici in materia di suoni di ricerca e musica estrema. Che la scena musicale scandinava in questi ultimi anni sia più viva che mai non sono io a dirlo ma la qualità dei prodotti che arrivano alle nostre orecchie. Inutile fare un elenco di tutte le band o di tutti i solisti ma di questa preziosa fucina di talenti un nome da segnare sull'agenda dei miei preferiti è sicuramente Anna Von Hausswolf.

Anna è nata a Goteborg nel 1986 ed è chiara fin dagli esordi la sua attitudine a spingere la sua musica verso l'inconsueto ed il classico nello stesso tempo riuscendo a suonare contemporaneamente accessibile, autentica e spudoratamente affascinante. Ci ha abituati inoltre ad immergerci nei suoi dischi come fossero viaggi per fare esperienza tra passato, presente e futuro, suoni che vanno dal folk nordico ai suoni classici, dal post punk all'avanguardia ed assemblati con grazia ed eccezionale perizia. Poi possiede una dote vocale innegabile piena di trasformismo e sperimentazione che la fanno variare dalla dolcezza che ricorda molto Kate Bush alla violenza sonora in stile Diamanda Galas, ma la ciliegina sulla torta è l'uso dell'organo a canne da chiesa che ha assecondato

il desiderio di Anna di sperimentare la propria scrittura elaborando uno stile epico, decadente e pienamente riconoscibile.

L'esordio discografico segna il 5 febbraio 2010 con un EP dal titolo"Track Of Time", ballata folk melanconica e nostalgica sul passato e sulla perdita di cose e persone tutta contenuta in un video stupendo e commuovente dove Anna rende un tributo a suo nonno suonando anche un' armonica a bocca ricevuta da lui in regalo in punto di morte. Questa canzone anticipa l'album "Singing From The Grave" dove si muove libera e sicura con la sua voce a tratti dolce e delicatamente pop ed a tratti oscura ed ammaliante meritandosi il titolo come giovane promessa del folk scandinavo.

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Ma è con il secondo disco che Anna è passata da songwriter talentuosa ad artista monumentale. La sua curiosità e la sua passione per Tchaikovsky ed il black metal l'hanno spinta molto lontano lasciando alle spalle ogni tipo di restrizione espressiva. "Ceremony" esce nel 2013 ed ormai Anna può essere considerata una protagonista di primo piano della scena dark contemporanea alla pari di musiciste del calibro di Chelsea Wolfe, Zola Jesus, Darkher, Julia Holter o Agnes Obel. Con questo disco si ha una svolta nella sua musica, oltre ad usare come strumento principale un organo a canne ha ormai trovato un punto di equilibrio tre dark, folk, doom ed ambient capace di atmosfere lugubri ed improvvisi crescendo che sfociano in affascinanti melodie. Dopo questo disco Anna Von Hausswolf coltiva la sua passione per il black metal ed il drone rock collaborando in futuro anche con il gruppo dei Sunn O))).

musica sulla sparizione, sulla morte e l'aldilà ma anche sulla rinascita come nel video sopracitato dove la vediamo uscire da una tomba come una specie di zombi.

Il terzo disco "The Miracolous" esce nel novembre del 2015 ed è ispirato dal libro di Walter Ljungquist intitolato "Kallan" che ha stimolato Anna a ritrovare il fascino delle foreste e dei paesaggi scandinavi ed il risultato un disco dove l'organo da chiesa è assolutamente protagonista ma ben supportato dalle chitarre di Joel Fabiansson e Karl Vento e dalla batteria di Ulrik Ording. Tutto il sound del disco echeggia di atmosfere oscure piene di phatos, composizioni originalissime che richiamano suoni alla prima 4AD ed anche, grazie all'organo, influenze dei grandi minimalisti come Philip Glass o Terry Riley. Basta ascoltare l'iniziale "Discovery" e le darkissime "Evocation" e "Pomperipossa" per rendersi conto della maestosa scrittura della Hausswolf. Ormai conscia delle proprie potenzialità e consacrata come una delle realtà piu affascinanti del momento nel 2018 esce il suo quarto album "Dead Magic" che personalmente considero il suo miglior lavoro, basta vedere il video di "The Misterious Vanishing Of Electra" per innamorarsi del sound della nostra eroina. Nel disco si possono percepire echi di Diamanda Galas, degli Swans ed anche dei nostrani Goblin e come afferma la Hausswolf "Dead Magic" è una sorta di riflessione in

In questo periodo di grazia compositiva Anna con un nuovo disco alza l'asticella della sua musica sconfinando in territori nuovi. "All Thoughs Fly" è un lavoro interamente strumentale eseguito e registrato solo sull’organo a canne della chiesa Orgryte New Church di Goteborg ed è interamente dedicato al Sacro Bosco di Bomarzo (Viterbo). Il risultato è stupendo con l'organo unico protagonista e con qualche effetto creato esternamente, nell'opera ci si può trovare dalla musica cosmica elettronica anni '70 al minimalismo alla Philip Glass, da un'armonia lucente al limite della commozione di "Dolore di Orsini" alla oscurità più estrema di "Outside the Gate" dove ci vedo anche similitudini con i Sunn O))). Nel 2022 l'ultima uscita della Nostra con la pubblicazione di "Live at Montreaux Jazz Festival" registrato nel 2018 con brani da "The Miracolous" e "Dead Magic". Fu Nick Cave a volere Anna Von Hausswolf come spalla ad alcuni suoi concerti e potete immaginare che serata stupenda possa essere stata. In Anna Von Hausswolf vedo una donna coraggiosa che si affaccia decisa verso il futuro, capace come poche altre di avere un suono decisamente proprio e con un talento che non lascia dubbi, ed è per questo che va assolutamente ascoltata

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Federico Guglielmi Be My Guru

Crac Edizioni - 350 pagine - 20 euro

Pubblicato in contemporanea, con l’ultimo eccezionale album degli Hoodoo Gurus (Chariot of the Gods), il libro di Federico Guglielmi ci riporta, con non poca emozione, agli anni ottanta quando un certo tipo di musica australiana mise l’acceleratore e cominciò a sfornare una serie di dischi indimenticabili. Il contenuto si basa su recensioni, articoli e interviste apparse in origine su riviste quali Mucchio Selvaggio, Velvet, Rumore, Rockerilla, Audioreview e Blow Up diventando una splendida occasione per proporre, in modo antologico, un’approfondita e dettagliata visione dei gruppi australiani e neozelandesi che furono protagonisti di un vero boom creativo. Durante la lettura risalta in modo solare come siano stati capaci di sviluppare una propria identità nel mondo del rock’n’roll a partire dagli imprescindibili Saints e dai fondamentali Radio Birdman. La scrittura di Federico prosegue con i progetti collaterali della band dei Birdman di Deniz Tek e Rob Younger, fornendo tutto il necessario per comprendere quanto dirompenti fossero e quanto ben di dio abbiano seminato.

Nel corso delle successive pagine si susseguono le recensioni di innumerevoli 45 giri, 12 pollici e album, in cui spesso echeggia il nome di Rob Younger, presente in una serie infinita di band che si sono avvalse del suo incredibile talento di produttore. Il libro è altresì impreziosito da una nutrita serie di recensioni e interviste inedite e da alcuni aggiornamenti resisi necessari per completare il quadro sonoro e storico di quegli anni. (Ri )leggere di Stems e Sunnyboys o “scoprire” i neozelandesi Chills è stato oltremodo bellissimo. Una menzione merita il terzo capitolo, in cui scorrono le storie di gruppi come Celibate Rifles, Church, Died Pretty, Go Betweens, Hoodoo Gurus e Triffids. Una carrellata emozionante che ripercorre dettagliatamente le loro

vicissitudini tra recensioni, interviste e approfondimenti. Sono dischi che ci hanno accompagnato nel corso degli anni e che ancora oggi suonano, instancabilmente, tra le mura casalinghe. È stata una lettura entusiasmante che ha avuto la particolarità di farmi recuperare alcune “perle” mancanti come l’album dei New Race, con l’esplosivo live The First and the Last e il mini album dei Triffids, Raining Pleasure. Da fan degli Hoodoo Gurus non posso che essere felice di questa accoppiata. Be My Guru esalta la capacità giornalistica di Federico Guglielmi, un intenditore e un entusiasta, uno che ci ha condotto in territori musicali inesplorati dandoci la possibilità di scoprire canzoni senza tempo.

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BE MY GURU” Recensione del libro e intervista all’autore FEDERICO GUGLIELMI

INTERVISTA

WN: Com’è stato ripercorrere i tuoi scritti sulla scena australiana degli anni ‘80 e riproporli “colmando alcuni buchi” in un libro?

Federico: In generale, molto bello. Non per le riletture a volte un po’ imbarazzanti, quanto per il piacere di riascoltare un sacco di vecchi dischi che in alcuni casi prendevano polvere da decenni, perché ci sono sempre troppe nuove uscite da ascoltare e troppo poco tempo. Ho con gioia ritrovato tanta musica dinamica, eccitante e freschissima, perché il buon r’n’r non invecchia mai. Per quanto riguarda i buchi, all’epoca avevo scritto di tante cose, ma ovviamente non di tutte: c’erano pure i miei colleghi, mica potevo fare tutto io. Così, oltre a correggere alcune imprecisioni presenti nel materiale d’epoca, ho studiato bene la situazione e ho aggiunto alcune decine di recensioni e un paio di articoli su band imprescindibili come Church e Go Betweens, delle quali curiosamente non avevo nulla.

WN: Sul numero 85 del Mucchio (febbraio 1985) hai scritto la recensione di “Stoneage Romeos” degli Hoodoo Gurus citando quanto riportato sulla loro copertina “se vi piace questo album aiutate il gruppo: dite ai vostri amici di comprarne una copia e non registratelo”. Sarebbe fantastico, rapportando la frase al giorno d’oggi, poter dire a tutti “dite ai vostri amici di comprarne una copia e non ascoltarlo su Spotify!”. La musica “liquida” come ha cambiato, se l’ha cambiato, il tuo lavoro?

Federico: Su questo tema potrei scrivere un libro, sul serio, ma sarò sinteticissimo: ha cambiato tutto, peggiorandolo a livelli impensabili. Faccio solo due esempi: si recensisce sui file, senza avere in mano “gli oggetti”, con relativa disaffezione nei confronti del disco fisico; e poi chiunque, senza alcuno sforzo né reali competenze, può fare quello che io faccio per lavoro dagli anni ’70. Probabilmente lo farà peggio, ma tanto nel marasma attuale della comunicazione sembra che la qualità quasi non conti.

WN: Rimanendo in tema Hoodoo Gurus (sono un loro fan totale…) ho letto sull’ultimo numero di Classic Rock l’intervista e la recensione che hai fatto del loro ultimo album. Amo la loro intera discografia e leggendo traspare, sia nella recensione che nell’intervista, un’energia pazzesca. Quanto è ancora bello divertirsi con il rock’n’roll?

Federico: Aggiungerei che il nuovo “Chariot Of The Gods” è un album davvero molto riuscito, all’altezza dei capolavori storici del gruppo. Con il rock’n’roll mi diverto ancora, ma devo ammettere che l’eccitazione non è più quella assoluta di un tempo. Ascolto certa musica da più di mezzo secolo, credo sia comprensibile… e poi sono troppo, troppo schifato da tutto quello che è diventato il mercato e l’ambiente in cui lavoro. Questo, inevitabilmente, si riflette sulla passione, anche se faccio di tutto per tenerla viva. Rispetto a quando avevo venti o trent’anni avrò perso tipo il 25/30% delle mie emozioni.

WN: Sul tuo blog “L’Ultima Thule” compare la dicitura “dove la musica è ancora una ragione di vita”. La caparbietà e l’ostinazione con cui fai (e facciamo) un certo tipo di cose pensi che sia ancora di attualità per le nuove generazioni?

Federico: Mah, ho più di qualche dubbio. Non credo che tra quanti mi seguono ci siano molte persone con meno di trentacinque anni sul groppone, e tra tutti i giovani che conosco quelli che vivono la musica e la cultura musicale nello stesso modo in cui l’abbiamo sempre vissuta io e i miei coetanei sono mosche bianche. È normale e anche giusto così.

WN: Dal 1977 hai fatto un percorso enorme durante il quale hai avuto anche momenti difficoltosi. Hai un’indomita passione che ti sorregge. Ma quante energie ci vogliono per non farsi trascinare a fondo? Dico questo perché, seguendoti sui social, capita che ti rivolgi pubblicamente, a chi ti legge, un po’ costernato di fronte a comunicati stampa, articoli copiati, rapporti deteriorati con certe persone e così via.

Federico: Sì, ho i miei momenti di disappunto e disagio… disagio anche profondo, a volte. Ma poi puntualmente mi riprendo, capita sempre qualcosa che mi re-

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stituisce la voglia di dare una ulteriore chance a tutto l’immondo carrozzone.

WN: E l’avventura sotto il nome di Freddie Williams? Magari non tutti sanno di questo tua uscita discografica e della scelta di avere un formato di vinile, in poche copie, particolare e poco utilizzato.

Federico: Ho iniziato a pensare a fare un disco già negli anni ’80, ma alla fine non concretizzavo mai l’idea perché la ritenevo ad alto rischio di fraintendimento. Lo immagini, no? “Ma chi si crede di essere, ora vuol fare pure il cantante?”. Man mano che si avvicinava il mio sessantesimo compleanno, però, mi convincevo sempre più che sarebbe stato divertente legare il disco alla ricorrenza. Ho contattato i Plutonium Baby, che erano la band perfetta per quello che avevo in mente, e ho predisposto il tutto: quattro cover di punk californiano dei ’70 per un 7 pollici in vinile fucsia tirato in 270 copie. Un gioco, certo, ma realizzato con la professionalità che credo sia una delle mie doti principali… anche se, lo devo dire, prima di entrare in studio non avevo mai cantato in vita mia, a parte le tre prove in cantina fatte per rendermi conto se ne fossi in grado o no. Ma sapevo di esserlo, me lo sentivo.

WN: In questo numero di Wolvernight, il tema principale sono gli XTC. So che sei un loro grande fan, al contrario del sottoscritto (ma sono sempre pronto a ricredermi). Quali sono i brani che consiglieresti a chi come me ha sempre faticato ad innamorarsene? So che è riduttivo, ma brevemente vorresti indicarmi i loro tre album migliori e perché?

Federico: Come si fa a non amare gli XTC? Per quanto riguarda gli album, direi “Drums And Wires”, “English Settlement” e “Skylarking”; il primo per la brillantezza pop wave, il secondo in quanto prova di maturità a 360°, il terzo per la ricchezza del sound. Scegliere singoli brani è arduo, di straordinari ce ne sono in quantità. Se devo indicarne uno, che sia “Dear God”, anche per il testo magnifico.

WN: Hai iniziato con la tua attività in radio e quando ne parli, anche delle tue trasmissioni in RAI, noto sempre quella serietà ad affrontare l’argomento con scelte di scalette mai banali e la speranza, un giorno, che si possa ritornare all’ascolto radiofonico di playlist scelte e non imposte. Ti piacerebbe ritornare a un tuo programma?

Federico: Il problema non è avere un programma, con tutte le radio che ci sono non penso proprio incontrerei difficoltà. Il guaio è che nessuna paga, e quelle che

pagano non sono interessate alla radio che voglio fare io in quanto inadatta alle platee generiche, quelle che vogliono solo grandi successi, musica più o meno “di massa” e presentazioni brevi e ammiccanti. Io pratico un altro sport.

WN: Ho alcuni dischi della High Rise. A memoria Fasten Belt, Blackboard Jungle, The A Number Two. Oggi avresti voglia di rifare un’esperienza da discografico?

Federico: Ho già dato. È stato bellissimo, producendo dischi che forse altrimenti non sarebbero mai usciti, poter restituire al r’n’r una piccolissima parte di quello che mi ha dato, e nulla mi importa di averci perso dei soldi. Oggi, a parte che non ho proprio capitali da investire né tempo ed energie per dedicarmi a un simile progetto, temo che i risultati per forza di cose esigui in termini numerici - mi darebbero frustrazioni delle quali faccio volentieri a meno.

WN: Per chiudere: nel 1994, sulle pagine di Rumore, hai recensito il mio primo album con The Groovers, “Songs For The Dreamers”) e lo scorso anno, sulle pagine di Blow Up, il mio ultimo “Sotto il cielo di Memphis”. Quasi trent’anni e siamo ancora qui a disquisire di musica e questa volta mi trovo a “farti parlare”. Il mondo musicale (e anche quello non musicale) è cambiato. È differente l’approccio e le varie modalità di fruizione. Nella rubrica Opinioni di Classic Rock mi pare che sei molto legato a un certo mondo e modo che ci ha fatti diventare grandi rimanendo ragazzi che si emozionano ancora per un vinile, una copertina o una fotografia ma che soffrono la modalità caotica che sta imperversando. Giusto?

Federico: Giustissimo. Ci sono legato e voglio rimanerci legato il più possibile, ma so bene di essere destinato all’estinzione. Ho fatto il mio tempo, come i dinosauri. Mi consolo pensando a quanto me la sono goduta. E comunque, citando il Maestro Guccini, “ho tante storie ancor da raccontare, per chi vuole ascoltare, e a culo tutto il resto”.

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ROTOLANDO ANCORA

Fabio Ruta è (stato) un giovane agitatore sociale negli anni ’90 del nostro territorio (Verbania per intenderci), tra battaglie per centri sociali, manifestazioni studentesche e politiche, iniziative per i diritti, per la legalizzazione delle droghe, promozione di riviste ecc. È lì dove ci siamo conosciuti e frequentati (molto). Nelle battaglie, si sarebbe scritto una volta. Ovviamente conoscevo la sua passione per il r’n’r dei sixties (e non solo) e i suoi tour sulle orme dei leggendari Rolling Stones ma, mai, mi sarei aspettato un suo libro su di loro. Anzi due tomi per circa 500 pagine intitolato Sessanta leccate di Rock and Roll uscito a giugno per la casa editrice Edizioni Underground.

WN: Dargli spazio è stato giusto oltre che ovvio, come ovvia è la prima domanda: ma come ti sei messo in testa di fare questo immane sforzo (e solo chi come me ci mette ore e ore a scrivere sei misere paginette per la fanza, può immaginare l’impegno per realizzare un progetto come questo)?

Fabio: Il progetto del libro è nato un giorno durante il lockdown, ero di ritorno da una interminabile coda al supermarket con distanziamento, mascherine, misurazione della temperatura. Uno di quei giorni in cui le sirene delle ambulanze continuavano a fischiare. Tempi duri. Ma gli Stones, cazzo, erano tornati a darmi forza. Il brano “Living in a Ghost Town” pensato profeticamente prima dello scoppio della pandemia, fotografava il tempo presente. Le Città deserte.

WN: E ai pochi (esistono?) che non conoscono la loro storia come descriveresti, in estrema sintesi, il loro dispiegarsi nel corso degli anni?

Fabio: Gli Stones sono una “Time Machine” che ha attraversato, narrandole, sei decadi. Dagli anni della Swinging London, del beat e della British Invasion, passando per i rumori di guerra del Vietnam, la sex revolution, le proteste del sessantotto, gli happening e le controculture degli anni Settanta, le trasgressioni e le droghe, le luci dei club degli anni ’80, i megatour mondiali, per arrivare agli anni Venti di questo nuovo millennio ed alle “città fantasma” nei lockdown e questi terribili nuovi rumori di guerra nel Vecchio Continente. Attraverso queste decenni hanno mantenuto la loro identità di più grande rock and roll band del mondo, con le radici nel blues e la capacità di confrontarsi con i nuovi generi ed i cambiamenti. Il 2022 è l'anno del sessantennale della band che ancora, sul palcoscenico, non ha rivali. Loro per noi fans

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Intervista a FABIO RUTA autore del libro “Sessanta leccate di rock ‘n’ roll” di DJ Kremlino
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sono eterni. E lo sarà sempre il ritmo di Charlie, come il segno che lasciò Brian. I Rolling Stones ci hanno raccontato una splendida bugia, alla quale è stato bello credere. L'illusione che si può essere per sempre ribelli, liberi e giovani. E a quella bugia vogliamo credere ancora un po'. Tenercela stretta come la loro musica, colonna sonora delle nostre esistenze. Come un tatuaggio sull'anima…

WN: Dal punto di vista dei contenuti, invece, cosa possiamo aspettarci di trovare nel tuo libro?

Fabio: È articolato in due volumi e scrivo della “macchina del tempo” degli Stones, metafora che mi è stata suggerita da un passaggio di uno dei più bei libri di Stephen King, 22/11/63. In quel romanzo parla di un viaggio nel tempo, attraverso una “porta temporale”, in cui il protagonista tenta di salvare la vita a John Fitzgerald Kennedy. Attraverso quell’espediente narrativo l’autore dipinge, come in un affresco, l’America di quegli anni, evidenziandone lo scarto con la realtà dei giorni nostri. Una storia meravigliosa che mischia fantascienza, giallo, spy story e ricostruzione storica. Ma il punto è un altro, il protagonista del romanzo, ad un certo punto, canta in macchina “Honky Tonk Women” e viene smascherato dalla donna che è con lui perché quel brano verrà inciso solo anni dopo e ha un testo che ogni radio dell’epoca avrebbe censurato. King ha quindi associato gli Stones al viaggio nel tempo: un’immagine bellissima che ci accompagna e che ha, in qualche modo, ispirato questo stesso libro. Nel mio lavoro si parla della discografia ufficiale, delle carriere soliste, dei bootleg, dei live in Italia, della filmografia e delle colonne sonore, della poetica dei loro testi e della bibliografia essenziale. Del segno che hanno lasciato nelle culture giovanili e nel demolire ogni stereotipo legato all'invecchiamento. Delle radici musicali e della loro influenza su generazioni di band ed artisti, del rapporto con moda, arti visive e molto altro ancora. Cerco di tenere la narrazione sugli Stones e sulla loro musica agganciata alle cose che sono accadute intorno, guardando dall’oblò della loro “time machine”. Osservando i cambiamenti tecnologici, dal bianco e nero e dal registratore a nastro Philips con cui Richards ha inciso nel dormiveglia il mitico riff di “Satisfaction”, sino all’Iphone con cui Jagger ha completato il suo brano più recente “Strange Game”. Tenendo d’occhio fenomeni sociali e aspetti simbolici che il rock ha solcato, sviluppando onde e correnti che vanno dal Beat (Bitt) Italiano, sino al

Garage, all’Hard rock ed a mille generi che senza la scintilla di band come gli Stones (e i Beatles, gli Animals, gli Who ecc.) non sarebbero esistiti. Non è un caso se le canzoni degli Stones sono state coverizzate dalla Equipe 84 e da Caterina Caselli, sino ai Saxon ed ai Motorhed e oltre. O se, per restare agli incroci con la storia italiana, vanno dallo citazione in “c’era un ragazzo…” di Morandi, sino al reclutamento dei Maneskin per aprire la data di Las Vegas nello scorso Novembre.

WN: Ho visto che sono presenti molte interviste anche a personaggi davvero interessanti.

Fabio: Si, ho avuto il contributo di molti, attraverso dialoghi a artisti, discografici, scrittori, giornalisti, studiosi, fan tra cui Fabio Treves, Ezio Guaitamacchi, Mauro Zambellini, Massimo Bonelli, Sugar Blue, Pau dei Negrita, Franco Fabbri (storico membro degli Stormy Six), Andrea Lenti, Isy Araf, Jacopo Ruozzi, Andrea Pagano, Bignami e Cadei (per la mostra di chitarre rollingstoniane), Oliviero Toscani, Laura Albergante, Pino Scotto, Francesco Paoletti, Laura Pacelli, Monica Fioletti, Pablo Echaurren, Roberto Neri, Luca Mattioli, Andrea Paoli, Paolo Mottana, Laura Fedele, Marcello Milanese, Steve Sperguenzie, Michele Anelli, Maurizio Solieri, Massimo Gori, Arturo Stalteri, Ignazio Marino e Mimmo Catricalà. Nel libro ci sono anche molto foto (tra gli altri) di Renzo Chiesa, Oliviero Toscani, Giuseppe Verrini. Le Illustrazioni di copertina con ritratti di Mick Jagger e Brian Jones sono di Simone Lucciola e abbiamo un ritratto di Charlie Watts di Aly Mastrorilli. La prefazione è dell’amico e compagno Paolo Del Vecchio. E

Massimilioano Stoto che parla della fanzine

last but not least

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Live in Milano Stadio S.Siro dal nostro inviato Fabio Ruta

Un concerto degli Stones comincia molto prima del suo inizio, dai primi rumors sulle possibili date, alla corsa per accaparrarsi ì ticket, all’attesa che è già pregustazione dell’evento. E non finisce con l’ultimo bis, prosegue con la ricerca delle recensioni, dei video, delle foto, dei bootleg. È un rituale a cui siamo abituati noi fans, ma in questa occasione c’era qualcosa in più. Il tour del sessantennale tocca Milano dopo anni di stop ai grandi eventi live determinati dalla emergenza sanitaria. E Mick Jagger, che sulla soglia dei 79 anni si riprende in tempo record dal Covid in pochissimi giorni e con sole due date saltate, ha dell’incredibile. Si temeva che anche la data di San Siro venisse annullata o posticipata. Oppure che si tenesse sottotono, con il frontman non ancora in perfetta forma fisica. Invece Mick è un ciclone: canta, corre, balla, ancheggia, salta, suona l’armonica. “Move like Jagger” all’ennesima potenza. In uno show che si apre con il doveroso tributo a Charlie Watts, “The Heartbeat”. “The glue that heald The Rolling Stones together”, come venne definito sulla prima pagina del “The Daily Telegraph” del 25 Agosto 2021, giorno successivo alla sua morte. Dietro alla postazione di Drumming ora siede il suo amico Steve Jordan, già collaboratore degli Stones e membro degli X Pensive Winos, la band del lavori solisti di Keith Richards. Il suo battere è potente ed impeccabile, ma non è Charlie. Ed è giusto così, lo stile è come una calligrafia ed è meglio un diverso originale, che un falso d’autore.

Lo stadio di San Siro il 21 Giugno si è riempito di 56.000 formichine di generazioni diverse, migliaia di t shirt con l’iconica “tongue & lips” disegnata per una manciata di sterline agli inizi degli anni settanta dallo studente d’arte John Pasche e divenuto uno dei brand più noti della storia. Ispirato da una illustrazione in cui la dea indiana Kali faceva le “boccacce” e ritagliata sulle carnose e sensuali labbra di Jagger. Un simbolo che incarna lo sberleffo, lo spirito irriverente ed antiautoritario, la infuocata sessualità e sensualità che da sempre contraddistingue l’immagine degli Stones. Sin da quando il loro Pigmalione, l’eccentrico Andrew Loog Oldham, coniò lo slogan “lascereste uscire vostra figlia con uno dei Rolling Stones?”. Tra le bancarelle del merchandising e in coda al bar si sentono molte persone parlare con idiomi dell’est Europa, penalizzato dalla guerra tra Russia ed Ucraina, tanti fan dell’est hanno ripiegato sulla data italiana per non perdersi questo storico tour. In una giornata caldissima l’uni-

co refolo d’aria è dato dalle coreografiche Ola che si innalzano per acclamare gli Stones, dopo la apertura piacevole dei Ghost Hounds. L’avvio del concerto è sparatissimo con “Street Fighting Man” brano sessantottino scritto sull’onda delle manifestazioni di protesta (“cosa può fare un povero ragazzo se non cantare in una rock and roll band, perché nella sonnolenta Londra non c’è nessun posto per un combattente di strada”) seguita a ruota da una incalzante versione di “19th Nervous Breakdown”.

La scaletta sarà incentrata soprattutto su brani del repertorio degli anni sessanta e settanta. Le uniche eccezioni sono “Start Me Up” (dei primi anni ottanta) e”Living In A Ghost Town”, brano profeticamente scritto prima dello scoppio della pandemia, ma perfettamente descrittivo dei lockdown e delle città deserte. Uscì nell’aprile del 2020 con un video che appunto immortalava piazze e strade deserte, in un clima che ricorda la apocalittica serie Tv “The Survivors” degli anni settanta. La band è a tutta palla, Ron Wood è ipervitaminico. Energia pura. I riff di Keith sono quelli di sempre, il suo graffio sonoro è riconoscibile tra migliaia d’altri. “Tumbling Dice” è il tributo al loro album capolavoro del 1972, inciso durante il loro esilio francese nelle umide e torride cantine di Villa Nellcote, periodo mitico fotografo magistralmente dagli scatti di Dominique Tarlé. Il quarto brano in scaletta è forse

THE ROLLING STONES
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uno dei momenti più toccanti del concerto: “Out Of Time”, una ballata del 1966 portata per la prima volta quest’anno in tour. Mick Jagger raggiunge il piccolo palco circolare in mezzo al pubblico, attacca a cantare e lascia fare al pubblico in delirio che intona all’unisono un coro di decine di miglia di voci. È un caleidoscopio di memoria, di ricordi, di vissuti. Si canta a squarciagola, le lacrime arrivano agli occhi e la vista si offusca un po’. Si butta fuori in un fiato tutta la merda accumulata in questi anni di forzato (sebbene giustificato è necessario) isolamento, la frustrazione, la tristezza. Ed è di nuovo la gioia di potersi “assembrare” e provare le stesse emozioni di altri come te, nello stesso momento è nello stesso posto. “Baby, baby, you’re out of tiiime, baby, baby, baby, you’re out of tiiime…” ma l’intero spettacolo è una girandola impazzita che ripercorre la storia ed il suono della greatest band in the world. Quel blues e rock delle origini che ha saputo sporcarsi e contaminarsi con altri generi, bagnarsi nelle atmosfere country e reggae, reggere l’urto del punk e della disco. I brani cantati in totale saranno 19, su un palco “che sembra il quinto girone dell’inferno” dice Mick scherzando. E “alla faccia di chi ci vuole male” ricorda sornione Keith.

“Dead Flowers”, “Wild Horses”, “You Can’t Always Get what You Want” (brano incluso nella colonna sonora del film “il grande freddo”), “Honky Tonk Women”, “You Got The Silver” (cantata da Richards), “Connection” (cantata da Richards), “Miss You”, “Midnight Rambler”, “Start Me Up”, “Paint It Black”, “Sympathy For The Devil”, “Jumpin’ Jack Flash”… Si conclude con una versione strepitosa di “Gimme Shelter” duettata con la bravissima Chanel Haynes ( che verrà “licenziata” dalla produzione del Musical su Tina Turner di cui era protagonista proprio per avere disertato una data allo scopo di raggiungere gli Stones a Milano) e l’immancabile “Satisfaction”, che avrà sempre vent’anni ed incarna oggi come allora quel senso di insoddisfazione e frustrazione adolescenziale

che immagino molti di noi, se non tutti, hanno provato almeno una volta nella loro vita. Manca all’appello uno dei brani più amati degli Stones, “Brown Sugar”. Già esclusa dal precedente tour nordamericano. Un testo controverso che parla di sesso e schiavismo e che in origine avrebbe dovuto intitolarsi “Black Pussy”, con riferimenti alle droghe (Brown Sugar è anche una qualità di eroina). Questa scelta è comprensibile in un tempo in cui il politicamente corretto si sta affermando (non di rado con fastidiosi eccessi di “cancel culture”), anche se appare del tutto chiaro che i testi delle canzoni degli Stones non possono essere interpretati in chiave letterale.

Mentre ce ne torniamo verso il parcheggio di Lampugnano vedendo sciorinare il pubblico in uscita tra i truck food (ribattezzati da alcuni fogli locali come “i luridi”) ho chiaro in mente un pensiero. Mi avvicinavo al concerto di Milano con un misto di gioia e di malinconia, immaginando che questo potesse essere l’ultimo di una serie di loro show che ho avuto la fortuna di vedere. Tornavo a casa con la sensazione opposta. Ho visto tanta energia e tanta forza che mi fanno prevedere nuovi tour degli Stones che infatti pare verranno presto annunciati. D’altronde dovrebbe essere in dirittura d’arrivo un album di inediti. Un album che dovrebbe contenere ancora alcuni brani incisi con Charlie Watts ed altri, successivi, con Steve Jordan. Il nuovo disco è atteso da moltissimo tempo, ma pare che l’estate del 2023 sia il momento giusto. E già non vedo l’ora di ascoltarlo in auto, se possibile con i finestrini aperti e l’aria di di mare che invade l’abitacolo. Quindi non resta che dire: “ci becchiamo alla prossima ragazzi”.

Fabio Ruta Classe 1972 (anno di uscita di “Exile On Main Street” e “The Rise And Fall of Ziggy Stardust and The Spiders Of Mars!”). Appassionato di Rock, Arte, Cinema e laureato in Scienze dell’Educazione e In Consulenza Pedagogica e Ricerca Educativa. Lavora da molti anni come Educatore nei servizi sociali. Negli anni ‘90 fu tra i promotori della rivista “Fogli Sensibili”. Ha scritto diversi interventi su testate cartacee e Online, occupandosi in particolare di tematiche legate a welfare, laicità, diritti civili, antiproibizionismi.

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“...e ora pagateci i danni di Woodstock

Recensione del libro e una domanda all’autore GIANNI LUCINI

Gianni Lucini

… e ora pagateci i danni di Woodstock!

Segni e Parole - 359 pagine - 15 euro

Fin dalla copertina, e dal titolo, il nuovo lavoro di Gianni Lucini, cattura e ammalia. 366 storie belle da leggere. “...e ora pagateci i danni di Woodstock!” è un libro sorprendente, che in modo naturale fa coesistere i Rolling Stones con Natalino Otto, Rino Gaetano con i Sex Pistols, il jazz con il folk, il rock’n’roll con l’hip hop senza soluzione di continuità. Eppure non c’è mai un attimo di confusione perché personaggi, eventi o dischi, nel loro susseguirsi, sono raccontati in modo suggestivo.

Un lavoro lungo e accurato che fonda le sue radici nel 1999, dopo una telefonata del compianto direttore di Liberazione Sandro Curzi che, in accordo con Rina Gagliardi, consegna, sulle pagine del quotidiano, uno spazio autonomo a Gianni Lucini. Ed è così che il 6 luglio iniziò “Rock e Martello Story”. Non pensate sia un semplice “calendario” da leggere, come suggerirebbe il numero delle storie corrispondenti a un anno bisestile. È decisamente qualcosa in più. Sono storie reali, fatti accaduti nel quotidiano vivere, o morire, in un intervallo di tempo lungo pressoché un secolo. Ogni storia potrà essere successivamente approfondita perché lo spazio giornaliero dedicato a ognuna va, nel libro, da una mezza pagina a un massimo di due, ma sono storie che hanno il pregio di essere subito apprese, che vivono di luce propria, che ti sorprendono nei ricordi e nella scoperta di qualcosa di cui non eri a conoscenza. Un caleidoscopico mondo musicale dove puoi apprendere che il batterista Louie Bellson è stato l’inventore della “doppia cassa” o di come un duo israeliano, Esther & Abi Ofarim, il 9 marzo 1968 con un brano degli anni venti, intitolato Cinderella Rockefalla, arrivò al vertice della classifica dei singoli più venduti in Gran Bretagna.

Ma non c’è solo musica in questi 366 racconti, benché essa sia il comune denominatore, Gianni Lucini è riuscito sapientemente a coniugarne i risvolti sociali, le giornate difficili, le notti insonni, i sogni impossibili, le peripezie per sopravvivere alle ingiustizie politiche e musicali che hanno coinvolto, in epoche differenti, i vari personaggi protagonisti di vite vissute fino in fondo che, nella maggior parte dei casi, hanno visto bruciare il proprio tempo. Il libro intriga, commuove, sorprende. La rubrica su Liberazione è durata a lungo tantoché è auspicabile pensare a un futuro secondo volume. Almeno lo speriamo, perché l’amore per la musica che ha Gianni Lucini trascende ogni steccato e ci invoglia ad approfondire le storie che sentiamo a noi più vicine.

WN: : Com'è stato riprendere in mano le storie pubblicate che hanno contraddistinto in modo indelebile un periodo della tua attività di giornalista?

Gianni: Ogni storia è un ricordo complesso che mi fa viaggiare ne tempo. In qualche caso, quasi tutti per la verità, ricordo quando l’ho scritta, che cosa accadeva e magari perché l’ho scelta tra altre possibili. È un’emozione difficile da descrivere come tutte le emozioni. L’unica certezza è che non le ho trovate coperte di polvere perché il tempo non lascia segni su nessuna di esse.

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sterrate

Marco Denti

Storie sterrate

DENTI

Jimenez Edizioni - 319 pagine - 18 euro

Vulnerabili, sognatori, fragili, pazzi, scostanti, timidi, pessimisti, solari e potrei continuare con ancora una manciata di aggettivi adattabili alla varietà di personaggi scandagliati nell’anima da Marco Denti. Un libro senza confini da rispettare dove il musicista è scrittore e lo scrittore, musicista. Tutti alle prese con le proprie ansie, vicissitudini, dubbi, debolezze e tutti sulla strada, nella polvere, alla ricerca di orizzonti quasi mai ben definiti. Dallo “strano universo parallelo della mia esistenza” di Mark Oliver Everett (in arte Mr. E degli EELS) a “tutti i personaggi di tutte le storie, anche se immaginari, sono espressione delle mie emozioni” di Rickie Lee Jones, Denti è riuscito a esporre, con lucidità, il variegato mondo che collega lo spirito musicale a quello letterario e viceversa. Ricercando decine e decine di connessioni tra musicisti e scrittori, l’autore riesce a catturare l’attenzione fornendoci una miriade di dettagli dai quali emerge tanta bellezza benché le inquietudini, nemmeno troppo velate, degli artisti a volte sfiorino alcune pericolose inclinazioni distruttive che, fortunatamente, non sempre portano a una deriva senza ritorno.

La scrittura, come sottolinea Marco, è una necessità primordiale per John Trudell che dice “è quello di cui abbiamo assolutamente bisogno: esprimere i nostri sentimenti e capirci, conoscerci, ritrovarci. Dobbiamo farlo non c’è alternativa, non c’è possibilità di nascondersi. Essere quello che diciamo e dire quello che siamo: è questa la via”. Parole universali e bellissime che si sposano bene con quelle di David Byrne quando asserisce che “sono la musica e il testo a suscitare l’emozione dentro di noi, e non il contrario. Non siamo noi a fare la musica, ma è la musica a fare noi”. Quando parla del libro Io sarò qualcuno di Willy Vlautin, precedentemente musicista con i Richmond Fontaine, Marco sintetizza benissimo la storia del protagonista Horace Hopper: sognare di partire per essere diversi, e poi ritrovarsi altrove, uguali. Una perfetta definizione per un romanzo che John Doe (X, The Knitters) definisce “completo e meravigliosamente devastante”. Si parte con Laurie Anderson e si termina con Lucinda Williams, in mezzo Stan Ridgway, Graham Parker, Tom Waits, Hunter S. Thompson, Chuck Berry, Stephen King, Lou Reed, Jim Carroll e tantissimi altri. In appendice una bibliografia che farebbe impallidire una biblioteca e una corposa discografia, a cui attingere, per farsi trasportare dentro le storie. Un libro in cui perdersi e, alla fine, ritrovarsi meno soli.

WN: Com'è stato scegliere e "assemblare" tutte le storie pubblicate nel libro ripercorrendo le vicissitudini degli autori attraverso l'uso della scrittura sia essa in forma di racconto o di canzone?

Marco: È un processo che si è definito da solo. Ho cominciato compilando una prima lista. C’erano Patti Smith, Nick Cave, Jim Carroll, Steve Earle, ognuno con le sue peculiarità, ma è stato Leonard Cohen a indicarmi la direzione con il suo continuo riflettere sulla scrittura, sulla parola, sull’immagine e nello stesso tempo con il suo rapporto animalesco con la vita. Alla fine che si tratta di musica o letteratura, mi sono lasciato trascinare, in modo disordinato, emotivo, del tutto personale, dalla bellezza generata da questi artisti, ognuno a modo suo. Evitando la dicotomia bello/brutto e cercando di capire cosa potessero dirmi o non dirmi. Per esempio, un artista generoso (fin troppo) come Springsteen mi ha lasciato perplesso perché quando ho letto la sua autobiografia sembrava già la seconda volta, essendo storie che avevamo sentito a lungo, nel corso degli anni, e ho provato a spiegarmi e a spiegare i motivi di questa sensazione. Ho scoperto lati prosaici, e divertenti, di un intellettuale raffinato come John Cage, che sapeva coltivare un’intelligenza sconfinata con curiosità e ironia. E così, più per istinto che per altro, si è sviluppata una trama invisibile, ma che si sviluppa in profondità, tra Chuck Berry e Stephen King, Warren Zevon e Hunter Thompson, Lou Reed e Suzanne Vega, Neil Young e Bob Dylan. Ho riascoltato un sacco di dischi, letto e riletto, preso appunti e sottolineato, ma nella sostanza non ho fatto altro che seguirli alla scoperta della bellezza, che ha molti modi per presentarsi.

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“Storie
” Recensione
del libro e una domanda all’autore
MARCO

ERA SOLO ROCK ’N’ ROLL, (ma ci piaceva)

Considerazioni su rock e politica di Giorgio Ferroni

Vorrei fare una premessa per evitare eventuali fraintendimenti. Mi sento un partigiano nel senso gramsciano del termine, ossia sono una persona che ha scelto la “non indifferenza” e di conseguenza ha scelto da che parte stare. Essere “non indifferenti” comporta anche un rischio che è quello di giudicare il mondo attraverso la semplificazione concettuale della dicotomia bene male, mettendosi nel punto di vista di chi guarda il mondo dal punto di vista del giusto; mentre il mondo è più complesso e frastagliato delle semplificazioni in cui ci troviamo incastrati. Spesso scopriamo che quei concetti che pensavamo assunti come assoluti semplicemente non valgono nulla per altri e quindi non sono lo strumento giusto per misurare quello che vediamo.

Questo vale in generale, ma visto che qui si prova a parlare di musica, andiamo al concetto centrale: Una delle semplificazioni fuorvianti se si pensa alla musica è che se fai/ascolti rock sei per forza di sinistra. In buona sostanza riscontriamo una propensione a pensare che il “Rock” sia una cosa che attiene al progressismo, anzi che sia uno dei principali elementi caratterizzanti il progressismo. Insomma se ti piace il rock sei una persona che crede nei valori della solidarietà, sei tollerante, favorevole ai diritti civili, alla liberalizzazione delle droghe leggere e all’internazionalismo, meglio se terzo mondista. Quello che non è rock è reazionario, razzista, borghese, proibizionista e chi più ne ha più ne metta

Procedendo per analogia è abbastanza normale che in molti si tenda inconsciamente a pensare che se la musica veicola dei contenuti di sinistra/progressista/ comunista (aggiungere aggettivi a piacere) abbia un valore di base a prescindere dal valore musicale/ artistico. Se poi vogliamo pensare che chiunque ascolti musica rock sia una persona che vale pena frequentare, dovremmo fare mente locale a quanti appassionati di rock siamo stati costretti a sopportare nella nostra vita. Ma torniamo al tema della relazione fra musica e politica.

In Italia, più che altrove c’è un’identificazione forte e importante fra musica e politica, soprattutto per alcune generazioni. Un bel sito di recensioni musicali “rockemartello.com” (dello stimato Gianni Lucini) ha questo titolo di presentazione: ”Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo”.

È una definizione che centra molto bene la questione, perché dice, giustamente, che questa appartenenza ad uno schema di valori è valido principalmente per alcune generazioni, quelle che si sono formate fra gli anni settanta e ottanta. Il problema è che queste generazioni e quindi tutti i ragionamenti sull’identificazione fra rock e cultura politica di sinistra riguarda persone fra i 50 e i 70 anni e pensare di usare ancora quei criteri per misurare la qualità della musica più o meno recente ci porta fuori strada rispetto all’analisi di “quel che resta del rock”. Quello è un concetto molto legato a quelle generazioni e alla società europea, principalmente a quella italiana, questo in quanto in Italia abbiamo avuto il Partito Comunista più forte d’Europa, cosa che sarebbe semplicemente fantascienza negli USA e in UK dove

Gianni Lucini
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hanno un’idea della politica che è molto diversa dalla nostra. Che ci sia stata una correlazione sentimentale forte fra chi praticava il rock in Italia e la struttura organizzativa del PCI (o in generale la sinistra antagonista) è abbastanza evidente e noto. Le feste dell’Unità sono state fino ai primi anni novanta uno dei pochi luoghi fisici in cui si organizzavano degli spazi in cui le varie band underground avevano la possibilità di trovare un palco. Erano anni in cui la politica aveva risorse da investire e sponsorizzava sovente manifestazioni musicali. Una rimanenza delle consuetudini di quel periodo lo troviamo ancora nel tradizionale concerto del primo maggio dei sindacati CGIL CISL UIL che insistono da diversi anni nel perseguire (legittimamente) il loro obbiettivo di sostituirsi ai partiti (evaporati e dissolti nel web) nell’occupare quel poco che resta della organizzazione politica in Italia. Il concerto del primo maggio ha assunto negli anni una vera e propria “mitologia”, dando spesso vita ad un coacervo di luoghi comuni che Elio e le Storie Tese dissacrano magnificamente nel famosissimo brano “complesso del primo maggio” (citazione Ma comunque prima di cantare una canzone balcanosa Ricorda di fare una cosa, lanciare un'invettiva contro il capitalismo). Il clima complessivo del concerto dei sindacati ci fornisce da tempo un’idea molto chiara dei danni incredibili che si possono fare mischiando politica e musica in modo scriteriato.

un ruolo di centralità nell'esprimere il sentimento condiviso. La musica ha spesso avuto la capacità di cantare la società e le sue contraddizioni, lo ha fatto mirabilmente Dylan ad esempio con” The Times They Are a Changin'” del 1964, un disco straordinario per come riesce magicamente a catturare la sensazione di come il mondo e la società VOLESSERO CAMBIARE, Dylan è quasi profetico nel testo che anticipa la rivoluzione culturale che verrà nel 1968. In Italia lo hanno fatto in tanti, a volte con risultati eccezionali come gli Area in gran parte dei loro dischi, basta pensare ad Airbait Macht Frei (il lavoro rende liberi il motto sui cancelli dei campi di concentramento nazisti) pubblicato nel 1973, che è un lavoro ancora fantasticamente godibile, vuoi per la qualità della musica e dei musicisti, vuoi per il valore della rappresentazione politico sociale dell’epoca. E’ un disco che si apre con un brano gigantesco come “Luglio, agosto settembre (nero)”, ma questo, come abbiamo detto, era tanto tempo fa... e gruppi come gli Area non sono mai caduti nel luogo comunismo della semplificazione concettuale; in loro c’era visione, musicalità e poesia.

Ricollegandoci al tema principale, emergono dunque delle necessità concrete e improrogabili: Quella di evitare di usare la musica per parlare di politica, a meno che non sia strettamente necessario, che si traduce con “solo se si ha qualcosa di veramente significativo da raccontare evitando di riciclare stereotipi musicali e politici”. Bisogna poi assolutamente evitare, come si evita la peste, di usare la politica per catalogare la musica. Usare la politica oggi per parlare di musica, ossia dividere il mondo in categorie attraverso i gusti musicali o l’appartenenza ad una scena, è semplicemente un obbrobrio. Intendiamoci, non è sempre stato così, quando la musica era importante e non era solo intrattenimento, era un elemento catalizzatore della comunità e ha assunto

Aggiungo che purtroppo anche nel (più o meno) recente passato, nascosto dietro questo schema concettuale della necessità di immedesimazione fra rock e cultura progressista si è creato un contesto che ha permesso che, sotto l’ombrello ideologico del politically correct e dell’impegno sociale, si siano prodotte quantità incredibili di musica di bassa o bassissima qualità. Ovviamente vale anche in senso inverso, nel senso che siamo pieni di musicisti, non propriamente dotati, che si sono ritagliati un minimo di visibilità schierandosi nello scomodo campo del nazionalismo conservatore, che comunque qualche spazietto lo mette a disposizione; inoltre visto il livello dei competitori, bastava veramente poco per emergere nel

Elio al concertone del 1° Maggio 1991
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campo del “Rock di destra”. (A tale riguardo consiglio la visione su Youtube del documentario Nazirock Come sdoganare la svastica e i saluti romani 2008).

Se giudicassimo poi la qualità della musica usando come unico criterio l’appartenenza ideologica del musicista che l’ha prodotta potremmo anche avere delle sorprese.

Facciamo qualche esempio: Maureen Tucker, la batterista dei Velvet Underground è salita agli onori della cronaca perché nel 2010 ha esplicitamente appoggiato il Tea Party nell’opposizione alle politiche di Barack Obama. Ian Curtis dei Joy Division era un fervente sostenitore del partito conservatore inglese e di Margareth Thatcher. Gli stessi Joy Division erano fortemente criticati per via della loro immagine fortemente legata all’iconografia nazista. Johnny Ramone in occasione dell’entrata del gruppo nella R’n’R Hall of fame ha dichiarato “Dio benedica il presidente Bush e Dio benedica l'America”. James Brown è sempre stato un elettore repubblicano e nel 1968 diede un formale e importante appoggio al Repubblicano Nixon. Siouxsie Sioux, la cantante dei Siouxsie and the Banshees, in un’intervista si auto definì senza troppi fronzoli una “fascista”. Dovremmo dunque buttare nel cassonetto i dischi dei Velvet; Unknows Pelasure; Rocket to Russia; Live at the apollo di James Brown; Juju dei Banshees et.. in quanto prodotti di artisti reazionari??

Questi esempi potrebbero essere considerati l’eccezione che conferma la regola, ma è ragionevole pensare che, essendo generalmente un ambiente in cui prevale l’appartenenza all’ambito liberal, i conservatori in senso classico siano molti di più di quelli

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che vengono percepiti dal pubblico. Se poi ci dirigiamo in un ambito musicale che vira verso il Metal e la musica estrema abbiamo uno smottamento abbastanza visibile verso una esternazione molto più sfrontata. Phil Anselmo dei Pantera durante un concerto ha apertamente inneggiato al white power che in USA attiene alla mai risolta questione razziale. Lemmy dei Motorhead ha fatto sfoggio in abbondanza di vari cimeli nazisti e ha fatto collezione di dichiarazioni non sempre limpidissime a riguardo delle sue ideologie (ammesso che ne abbia mai avuta una). Tralascio, anche per scarsa conoscenza, il mondo oscuro del Death Metal scandinavo con i suoi corollari pagani e di cronaca nera, ma ricordo che anche nella sazia e monotona Italia il metal estremo ha spesso radunato persone ed atteggiamenti “complicati”. I meno giovani ricorderanno che, al non troppo lontano (dal VCO) Nautilus di Cardano al Campo, si ritrovavano le cosiddette “Bestie di satana”; si trattava di un gruppo di appassionati di gruppi metal stile Slayer che si dedicarono a vari riti satanici degenerati in alcuni omicidi.

Le persone poi cambiano e cambia la loro percezione del modo. Winston Churchill nei suoi aforismi affermava “Mostratemi un giovane conservatore e io vi mostrerò qualcuno senza cuore. Mostratemi un vecchio liberale (inteso come progressista/laburista) e vi mostrerò qualcuno senza cervello”. Il noto teppista inglese John Lydon che nelle sue performance come cantante dei Sex Pistols si dichiarava un anticristo anarchico alla veneranda età di 64 anni, nel 2020, ha dichiarato candidamente di essere un sostenitore di Donald Trump (è cittadino statunitense e quindi vota).

Per discutere di come misurare la qualità delle proposte musicali in base alla presunta appartenenza politica dell’artista sia fuorviante, possiamo ricolle-

Maureen “Mo” Tucker Lemmy

garci al numero 55 di WN, li raccontavamo che una parte del successo dei CCCP negli anni ottanta era legato al fatto che molti avevano erroneamente percepito i CCCP (di Reggio Emilia) come un gruppo ideologico legato alla Sinistra che si rifaceva alla tradizione del Partito Comunista. In realtà erano assolutamente un gruppo post ideologico che cantava lo smarrimento generazionale, tanto è vero questo che il gruppo, con la sua immagine pubblica che richiamava ad un immaginario sovietico, era tollerabile anche dai tanti fan del gruppo che si riconoscevano politicamente in modo esplicito nella destra fascista. Per inteso i CCCP sono stati un grandissimo gruppo e si sono meritati tutto il loro successo. Abbiamo discusso nello scorso numero di WN di come invece i coevi Disciplinatha (Bolognesi) che per opporsi all’omologazione culturale che il PCI aveva sempre esercitato in Emilia Romagna mettevano in campo divise e rimandi al ventennio fascista, furono letteralmente ostracizzati e trovarono uno spazio significativo solo nel 1991 grazie al contratto che gli procurarono gli ex CCCP Zamboni e Ferretti che, assunti ormai al ruolo di santoni della cultura alternativa (quindi cultura di sinistra nell’immaginario collettivo) sdoganarono il gruppo garantendo un meritato spazio alla loro proposta musicale.

ad un verso de “La collina dei ciliegi” che parla di planare sopra un bosco “di braccia tese” che fu interpretato come un riferimento al saluto romano. Altro verso incriminato fu "O mare nero o mare nero" da "La canzone del sole". Da qui il povero Lucio è da sempre tirato per la giacca da diversi esponenti della politica di destra italiani come esempio di italica virtù.

Negli anni 70 80 nell’ambito musicale si pretendeva che gli artisti mettessero in campo un’adesione quanto meno formale ad un sistema di valori che era quello progressista. David Bowie nel 1976 al confine fra Polonia e URSS fu trovato in possesso di libri nazisti, la questione ebbe un seguito quando Bowie tornando a Londra fu visto fare il saluto nazista. Forse anche per questo Bowie era visto con un certo sospetto nella comunità ortodossa del rock. Pensiamo alla polemica che negli anni 70 si fece su Lucio Battisti. Negli anni 60 e 70 se le canzoni non erano politicizzate, in un contesto di sinistra culturale, l’autore era bollato come fascista, o se andava bene come qualunquista. In questo clima battisti fu accusato di essere un fascista anche in riferimento

Che ci fosse anche un clima di pressione molto forte legato all’richiesta di adesione allo schema culturale di riferimento dominante, ce lo racconta chiaramente anche Edoardo Bennato che in “Sono solo canzonette” (1980) canta che “gli impresari di partito mi hanno fatto un altro invito, mi hanno detto che finisce male se non vado pure io al raduno generale della grande festa nazionale” e chiude con la strofa “Ma che politica, che cultura, Sono solo canzonette, Non mettetemi alle strette” L’Italia è un paese molto strano, Churchill (sempre lui) diceva che: “Gli Italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.” Il che è da intendere che in fondo siamo caratterialmente tifosi, ed essere tifosi è una cosa solo apparentemente profonda, attiene alla sfera emotiva ed inconscia e quindi è sovente una pulsione irrazionale. Lo stesso atteggiamento lo mettiamo in politica e in tanti altri aspetti, fra cui la musica popular. Il pensiero critico non fa per noi Negli ultimi anni mi sto impegnando per smentire il vecchio Winston e cercare di dimostrare che anche in Italia è possibile parlare di musica senza preconcetti che riguardano da un lato un presunto valore aggiunto dal punto di vista dei contenuti pseudo politici e dall’altro l’ostracismo preventivo verso tutto quello che non attiene all’impianto culturale residuale dei nostalgici dell’idea che attraverso la musica si potesse fare la rivoluzione. D’altronde Mick Jagger cantava già nel 1974 che “It's Only Rock 'n Roll (But I Like It)”.

Rassegniamoci quindi serenamente al fatto che il rock è un fenomeno musicale/sociale ampiamente storicizzato che non ha più la funzione sociale di scandalizzare o scuotere le coscienze. Evitiamo di attribuirgli una valenza che ormai non ha più, altrimenti facciamo la figura dei monarchici che presenziano alle manifestazioni con lo stendardo delle “Guardie del Pantheon”.

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David Bowie Lucio Battisti

GET FUCKED SONIC BOOM &

THE DREAM SYNDICATE SUEDE RAVAGERS

THE DREAM SYNDICATE Ultraviolet Battle Hymns And True Confessions (Fire, 2022) - 16 tracce x 45 minuti circa.

In generale nella musica, soprattutto nella musica rock, si tende a realizzare i risultati migliori in giovane età. I gruppi rock che sopravvivono alla loro giovinezza, senza diventare macchiette o caricature impegnate a recitare una parte nella commedia dell'arte, sono veramente pochi. Ho avuto un grande affetto per i Dream Syndicate degli anni ‘80. Li ho sempre considerati un gruppo sensibile ed ispirato, anche se, ad essere sinceri, a volte un po' approssimativi per tecnica. Sono uno di quei gruppi che starebbero decisamente bene in una retrospettiva di WolverNight. Il mio album preferito del periodo resta sicuramente “Medicine Show” del 1984 che era sorretto da una grande capacità di scrittura del leader Steve Wynn, chitarrista e cantante. Ad oggi mi sento di dire che è un album di canzoni tutte azzeccate ed importanti, anche se a livello esecutivo e di produzione qualcosa non ha funzionato, ma resta tuttora assolutamente godibile nella sua sublime imperfezione.

Tutto ciò per dire che l'ultimo album del gruppo “Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions”, uscito quest'anno con la formazione praticamente originale, (fatto salvo per il chitarrista Jason Victor che proviene dalla band che ha accompagnato Wynn nella sua carriera solista) colpisce positivamente proprio perché per il gruppo non è stata assolutamente l’occasione per replicare il loro standard allo scopo di promuovere ed organizzare un tour per vecchi fan, ma è un disco che mette in campo l’evidente ricerca di soluzioni sonore diverse, più ampie e diversificate (in realtà iniziata con gli album precedenti, in particolare “The Universe Inside” del 2020 e “These Times” del 2019). È un album da ascoltare con interesse, in cui, chi avesse nel frattempo perso di vista la band, farebbe fatica a ritrovare il vecchio gruppo, vuoi per la sonorità, ma anche per il cantato di Steve Wynn che è più profondo, più nasale e che rimanda fortemente alla vocalità di Bob Dylan, il che per quanto mi riguarda non è certo un disvalore, perché ho sempre trovato Dylan un cantante estremamente espressivo. È un suono dilatato sempre sostenuto dalle chitarre che sfoderano una serie di sonorità non scontate. Steve Wynn si conferma anche in questo caso un autore di canzoni di ottimo livello con testi mai banali e molto evocativi. Anche i membri originali, Mark Walton al basso e Dennis Duck alla batteria, appaiono più maturi e sicuri nelle loro esecuzioni, semplici ma mai scontate, che mettono in campo un ampio spettro di sonorità. Manifesto di questa ricerca è il brano iniziale “Where I’ll Stand” che si apre con un arpeggio di sintetizzatore che lascia poi spazio alle chitarre e alla sezione ritmica. Nei brani dell’album vale poi sicuramente la pena di citare l’andamento jazzato di “Damian”, la ballatona dal sapore country sostenuta dalla chitarra slide di “Hard To Say Goodbye”. Bella e grintosa l’autocitazione del Paisley sound anni ‘80 (di cui i DS erano i principali esponenti) nel brano “Try To Get Over”. Molto convincente e significativa dell’ampiezza della tavolozza delle sonorità messe in campo anche la chitarra in stile Robert Fripp del brano “The Cronicles Of You” e le sonorità Kraut Rock di “Beyond Control”. In definitiva un disco da apprezzare, realizzato da un gruppo che non si deve dimenticare e che dimostra di avere ancora molto da raccontare.

Giorgio Ferroni

THE CHATS

Get Fucked (Bargain Bin Records, 2022) 13 tracce x meno di trenta minuti

RAVAGERS

Badlands (Spaghetti Town Rec./Wanda Rec., 2022 10 tracce x meno di trenta minuti

Per quelli che non hanno “tempo” da perdere per capire e approfondire, per quelli che Belushi fa sempre bene a rompere chitarre acustiche di folksinger tristi, insomma per gente superficiale come il sottoscritto, l’ascolto di queste due band è altamente consigliato; visto che i loro dischi saranno sicuramente presenti tra i migliori nella lista di fine anno di quegli uomini/donne che amerebbero (e se lo fate, siete i miei eroi) presentarsi in ufficio con il proprio giubbotto di pelle (perché no? … chiodato) sopra la maglietta dei Dead Boys!

Per i The Chats, come il titolo fa “sottintendere” (Get fucked!) non siamo di fronte a delicati intrecci alla Radiohead, ma a tredici canzoni lanciate a rotta di collo in meno di 28 minuti.

Li adoro (e anche voi abbracciate il culto) perché sono anche loro fan dei Cosmic Psychos (band a cui WolverNight fanzine ha dedicato una copertina molti anni fa), e perché tutti i brani sono portentosi! Li adoro perché suonano "ignorante", veloci e scoppiettanti come colpiti da scariche elettriche (come il loro video di “Struck By Lightning” insegna...).

Li adoro perché fanno punk rock e lo fanno maledettamente bene. In Australia sono “famosi” e giovani (anche se le foto, o l'alcol, dicono altro). Li adoro anche per questo! Allargate le gambe e mulinate le braccia!

E una bomba tira l’altra. Infatti, dall’altra parte dell’oceano rispondono i Ravagers con il loro Badlands. Qui le sonorità lanciate sempre a mille ma si fanno nettamente più rock’n’roll con spruzzate glam che mischiano Turbonegro ed Hellacopters.

Il leader di questa band ha certamente sul comodino della propria “cameretta” la foto di Johnny Thunders e, se ci ag-

Pagina 67DISCHI DI ULTIMA GENERAZIONE
PANDA BEAR

giungete il grande “tiro” di tutti i pezzi, l’ascolto sarà una bella sorpresa. Un esordio da urlo per questa band da Baltimora (se pur non giovanissimi) per dieci pezzi (28 minuti anche qui come i The Caths), con alcuni veri e propri inni salvifici, come l’intro tiratissimo di “Down The Road”, la bordata di “Black Out”, l’anfetaminica “Shake The Reaper” e via così.

Qui non avete problemi: troverete pane per i vostri denti e una vostra preferita tra queste fulminanti e tirate chitarre distorte.

Come per i The Chats: allargate le gambe e mulinate le braccia! Divertentissimi!

SUEDE

Autofiction (BMG, 2022)

11 tracce per 46 minuti scarsi.

Ci sono gruppi che hanno qualcosa di inconfondibile. Nel caso degli Suede la voce di Brett Anderson e il suo modo di cantare sono elementi che rendono il gruppo riconoscibile ora come trent’anni fa. A maggior ragione oggi, con questo nuovo disco, il tempo sembra che non sia passato per niente. Forse questa raccolta di pezzi perde solo in novità, intendo dire che se questo disco fosse un esordio sarebbe un gran bell’esordio, essendo il nono disco in studio, ne hanno fatti anche una sfilza dal vivo, agisce su dei canoni che già si conoscono e quindi siamo portati a considerare le canzoni e la band un deja vu. E’ inevitabile quando sei in giro da così tanto tempo. Rimane il fatto che “Autofiction” è un disco bello, non molto bello, ma a meno che tu non sia un fans, ma solo un appassionato del genere o un neofita può succedere che ti incanti facilmente. Rispolvera un’energia e una freschezza che possiamo solo trovare nei dischi degli anni ‘90, anche se sia “Night Thoughts” (2016) e “The Blue Hour” (2018) avevano detto, in maniera diversa, cose abbastanza importanti a proposito della loro ispirazione. E a proposito di ritorno al passato bisogna segnalare il ritorno di Ed Buller alla produzione che è stato il loro produttore storico, quello dei primi tre album della band, che non lavorava con loro vent’anni. L’inizio è scintillante e muscolare con un tris di canzoni che comunicano energia e pathos, basso e batteria a manetta, chitarre e tastiere in risalto, voce da delirio. Direi pezzi da raduni oceanici. Ma la tendenza di tutti i pezzi è quella di viaggiare spediti e non fare prigionieri, la prima frenata l’ascoltiamo nella ballad “Drive Myself Home”, ed è il sesto pezzo in scaletta. L’unico fra gli undici a rallentare un po’, perché anche “What I Am Without You” si dispiega, dopo un inizio atmosferico, in esplosioni e liricità a profusione, giustificando la sua durata. A chiudere “Turn Off Your Brain and Yell” sei minuti di manifesto marziale, declamatorio e trascinante. Tra i brani migliori sicuramente il trittico iniziale senza alcun dubbio e la scura e tirata “Shadow Self”. Un disco che spero riaccenda i riflettori su questo gruppo che non voglio dire che ai tempi fu sottovalutato, ma che alla lunga ha saputo esprimere una qualità di dischi che ha pochi eguali fra i gruppi inglesi degli anni ‘90.

PANDA BEAR & SONIC BOOM

Reset (Domino, 2022)

9 tracce sui 40 minuti scarsi.

In un numero in cui si è parlato di psichedelia, vecchia e nuova, non poteva mancare un disco che pur non essendo tecnicamente psichedelico, è stato realizzato da due dei massimi esperti in materia. Due di quelli che nel corso del tempo han rinnovato il profumo, lo stile, la visione di questo genere immaginifico. Non mi sono fatto sfuggire quindi l’occasione di recensire questo “Reset”, album cofirmato ufficialmente da Panda Bear e Sonic Boom dopo che entrambi avevano già collaborato insieme parecchie volte ma mai erano usciti dischi con i loro nomi associati. Quindi le responsabilità sono da attribuirsi a scelte comuni. Ho dimenticato di dire due cose importanti, magari scontate, ma necessarie per capire il contesto, la prima è che i due nomi fittizzi nascondono il cantante e polistrumentista degli Animal Collective, Noah Benjamin Lennox (Panda Bear) e Peter Kember (Sonic Boom) cantante e produttore, famoso per essere un ex membro degli Spacemen 3 e la seconda è che oramai da qualche anno entrambi vivono in Portogallo e proprio in questo paese hanno avuto modo di incontrarsi e lavorare più frequentemente. Ed ora parliamo di questo disco che mi è piaciuto molto soprattutto per il fatto che è molto “cantato”. Il virgolettato è d’obbligo perché per il canto Panda Bear, usa uno stile non molto comune che si rifà al verbo dei “ragazzi della spiaggia” di Brian Wilson, ma lo fa in una maniera che a me appare molto fredda e quindi può essere che l’effetto generi sentimenti di amore e odio verso questo suo modo di interpretarlo. Alcune canzoni nascono su campioni di pezzi degli anni ‘50 e ‘60. Ce n’è per diversi gusti da Eddie Cochran agli Everly Brothers, dai The Drifters ai Troogs, a Randy and The Rainbows altre nascono semplicemente dall’ispirazione dei due. Il disco è uno spasso, mantiene per tutta la durata uno stile leggero e crea una atmosfera sognante e rilassata, è incredibile come i due autori dal nulla riescano a costruire queste impalcature sonore. Tra suoni, rumori di ogni tipo e voci sembra di stare davanti a quelle ragnatele perfette che si mostrano dopo quelle pioggerelline leggere figlie della nebbia più che del cielo e che mostrano un’abilità ingegneristica non comune. Qui le delizie sono servite da inizio a fine e si chiamano “Gettin’ To The Point” frizzante, “Go On” subdola, “Everiday” deliziosa, “Edge Of The Edge” spensierata, “In My Body” corale e onirica, “Whirlpool” danzabile, “Danger” romantica, “Livin’ In The After” spassosa, “ Everything’s Been Leading To This” rock ‘n’ robot. Non userei il termine capolavoro perché è probabile che qualcuno venga a casa a prendermi però il disco è molto interessante, lo dico ovviamente senza alcun interesse, consiglio l’acquisto a tutti quelli che sanno di che materia si sta trattando perché è un disco che tocca la tradizione e lo fa con gli “strumenti” del nostro tempo. Per tutti gli altri c’è lo sponsor del Barcellona.

Dj
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Schema di dichiarazione di dissociazione

dicembre 2000, n. 445, in qualità di

DICHIARA

ai sensi e

definizione non adeguata)

DISSOCIA

DA TUTTO QUANTO AFFERMATO IN TALI ARTICOLI

TALE RIGUARDO RIBADISCE CHE

direttore che, a sua volta,

Pagina 69 Allegato n. 1
Il/La sottoscritto/a …………………………………………………….……………………………………….., nato/a a ………………………………..……………………………………., prov. …, il ……………………, C.F. ……………………………, residente in ……………………………………………………………., prov. …, via e n. civ. …………………………………………………………………………………………………., consapevole delle responsabilità penali cui può andare incontro in caso di dichiarazioni mendaci,
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EA
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avrà facoltà di rivalersi sull’articolista; Luogo e data Il/La dichiarante(1) (1) Sottoscrivere la presente dichiarazione con le modalità previste dall’art. 38, comma 3, del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, allegando pertanto fotocopia del documento d’identità del dichiarante ovvero con firma digitale.
WN
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IL DRAMMATICO RITORNO DEL VINILE

“Il Parnaso della bancarella”

Intervista a Flavio venditore ambulante di musica

di Massimiliano Stoto

Mi trovo in vacanza a S. Benedetto del Tronto, qualche anno fa, e capito alla fiera “L’Antico e le Palme”, evento nazionale si può dire, di antiquariato e collezionismo. E’ un'occasione unica per cercare e trovare mobili, dipinti, disegni, stampe, sculture e altri oggetti d'arte, anche molto preziosi. E ovviamente i vinili non potevano mancare. Molte le bancarelle che vendono anche i CD. Conosco Flavio che mi colpisce subito per la loquacità e la cultura che mette in mostra quando un appassionato cerca supporti musicali sulla sua bancarella. C’è del feeling e dopo un quarto d’ora ci scambiamo i numeri di telefono. Dopo due anni di pandemia torno dalle parti di S. Benedetto e ci rincontriamo. Una bella occasione per fare due chiacchere e porre le basi per questa intervista.

WN: Questi mercati che fai sono prima di tutto una passione o un lavoro ?

Flavio: Quello che faccio lo faccio perché mi diverto ed è diventato un lavoro perché mi da da vivere. Imparo cose, vedo cose, conosco persone, conosco situazioni, mi capitano occasioni. Consumo il mio tempo bene.

WN: Hai iniziato presto con la musica? E’ stata una passione da subito?

Flavio: Ho iniziato ad ascoltare musica molto presto, avevo quattordici anni. Ho iniziato con il glam rock, mi piacevano gli Sweet ma il primo amore è stato David Bowie, con cui sono cresciuto. Ero attratto da quella estetica, da quel modo di vivere, di comportarsi che arrivava, ovviamente, da Londra. Io sono del 1960 quindi il glam l’ho preso in pieno.

WN: Riguardo al ritorno del vinile nel tuo lavoro noti che c’è una domanda maggiore rispetto a qualche anno fa o di avere musica in vinile c’è sempre stata l’esigenza?

Flavio: C’è sempre stato un sottobosco di persone interessate al vinile, gente cresciuta negli anni ‘50, ‘60 e ‘70. Adesso la cosa stupefacente è che il vinile è un mezzo, per tanti giovani, per imparare una realtà

differente da quella che io considero “la realtà virtuale in cui vivono”. Hanno ancora la possibilità, con un oggetto magnifico tra le mani, di toccare, annusare, guardare una cosa di un altro tempo. Hanno la possibilità di averne cura. E’ un qualcosa che lega il pensiero alla mano. Molti giovani lo stanno capendo e alla bancarella l’età media dei clienti si è abbassata di molto. Per anni ho visto solo gente più vecchia di me, poi miei coetanei e cinquantenni e a scendere tutti gli altri. Ma ora, il cambiamento è netto, ci sono molti ragazzi in più che acquistano il vinile.

WN: La tua bancarella non è stracolma di roba, hai dischi di diversi generi, di cui sai parlare... ma soprattutto tenuti bene e a prezzi normali…. Flavio: Quello che io propongo è quello che conosco, che ascolto e per cui posso dare un suggerimento, un consiglio, un parere anche negativo se serve. Tutti i dischi che propongo generalmente li conosco e sono stati ascoltati. Il motivo per cui sono pochi è anche questo, non posso ascoltare tutto, ma quello che vendo si. Tieni conto che io durante il giorno 6/7 ore di ascolti le faccio tutte senza dubbio.

WN: Quando ti ho incontrato la prima volta mi hai raccontato che in pratica tu l’estate la passi in auto, in giro per l’Italia, a comprare e vendere dischi...in pratica come essere in tour che ne dici?

Flavio: Io sono un appassionato di musica che non sa suonare. Sono sempre stato attratto dalla vita delle rockstar, l’ho sempre sognata e a modo mio la sto facendo, mio creo le mie piazze, il mio palcoscenico. Hai centrato in pieno la mia filosofia….e in più cerco di farlo nei posti belli, dove mi piace andare e dove è bello anche starci.

WN: Che zone frequenti solitamente?

Flavio: L’Italia praticamente l’ho girata tutta a parte forse il nord est. Ma il napoletano, la Sicilia, Bari, La Liguria ovviamente S. Benedetto sono posti specia-

Pagina 70 Vinyl Return pt.5

li...tieni conto che quest’anno sono partito il primo maggio e sono tornato la prima settimana di Ottobre.

WN: Come fai a integrare il materiale che vendi?

Flavio: Vivendo alla giornata. Spulciando fra altre bancarelle, tramite le conoscenze che faccio, tramite il passaparola ma gran parte delle volte, direi il 70%, viene la gente a portarti il materiale.

WN: Come è successo in diretta questa estate a S.Benedetto, quando sei sparito facendo curare a Enzo e me la bancarella…...

Flavio: Esattamente!!!! Oggi, per esempio sono andato a casa di un signore che aveva 140 dischi in cantina, non esattamente il mio genere, ma fra questi, cinque li ho portati a casa. Il primo dell’Equipe 84, “Tango” di Milva, uno di Eric Burdon and War, uno degli Stones e “Revolver” dei Beatles. Capita spesso che le persone te li portino proprio i vinili e non necessariamente per fare affaroni ma solo per liberarsene. Qualche giorno fa un tale mi ha quasi regalato tre vinili degli Area. La cosa bella di questo lavoro è che ti apre nuovi orizzonti, fai cose e conosci gente che magari facendo lavori più normali, non avresti l’opportunità di incontrare.

WN: Partecipi anche a grosse convention?

Flavio: Non voglio entrare nel circuito delle grosse convention, anche se ci sono delle cose molto interessanti, perché si muovono secondo delle logiche che ammazzano un po’ lo spirito per cui mi sono mosso io. Non mi interessano. Credo che tu intenda cose come Novegro?

WN: Si

Flavio: Non fa per me. Io sono più uno che se arriva il ragazzino che di musica sa, ma fino a un certo punto, e magari ti compra un disco, può essere che io gliene regali un altro per lanciarlo nella musica ancora di più. Mentre invece nelle grandi convention arriva lì tutta gente che ha le idee precise e vuole più che altro fare gli affari. L’affare glielo voglio far fare io alla persone, proponendogli musica buona a un prezzo ragionevole senza essere condizionati da Discogs (uno dei marketpalce più importanti al mondo. NDR). Stai parlando con uno che è un po’ fuori da certe logiche. Per me è importan-

te divulgare questa cultura che sembrava sotterrata, soprattutto ai ragazzi. Per me può aiutarli a uscire fuori da questa realtà virtuale in cui vivono e provare esperienze palpabili, vere, concrete.

WN: Non credi che la vendita di musica su un supporto sia figlia del suo tempo? Negli anni ‘70/’80 era tutto su vinile, dai Beatles a Enrico Musiani, dalle favole di “a mille ce n’è….” alle sigle dei cartoni. Era una massificazione figlia di un certo benessere, ma anche di un tempo dove la diffusione delle registrazioni audio su vinile raggiunse i suoi massimi storici. Ai giorni nostri le cronache ci dicono che quella storia è ormai morta e sepolta, non tornerà più….

Flavio: Non è che deve ritornare, perché è qui che ti sbagli, non è mai morta. E’ morta la vendita di massa ma il resto c’è ancora e direi che si sta riprendendo bene. Nulla tornerà come prima ma finché ci sarà una lampadina accesa c’è speranza. Questa è la mia risposta. L’importante è che le persone ascoltino musica. Se mi chiedi su quale supporto ti rispondo che non mi importa. Io la ascolto in tutte le maniere, sul cd che tanti criticano, sul vinile 180 grammi che tanti criticano, sul computer che tutti criticano. La differenza la fa la passione, se uno si appassiona e vuole approfondire ha la possibilità di farlo e ci sono tante opportunità da cogliere, opportunità che possono dare tante di quelle soddisfazioni che uno nemmeno si immagina.

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Flavio e il suo banchetto

Ma possiamo dire che:

Gli XTC e il TRENO

Swindon uno dei centri nevralgici delle ferrovie britanniche. Polo industriale di notevole importanza dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso per la costruzione e riparazione di locomotive. Una parte degli “Swindon Works”, caduti in disgrazia dalla sul finire degli anni’80, ospitano ora il “Museum Of Gret Western Railway”, abitazioni, il centro commerciale, gli archivi dell’Heritage inglese e la sede del National’s Trust. Con i treni gli XTC ci avevano già provato con “The Big Express”, il disco ispirato proprio alla storia industriale della loro città. Questo è una cosa diversa e più semplice, ma non goliardica, e rinnova la fissa che il trio ha per la ferrovia. Hanno estratto e arrangiato pezzi che appartengono, non alla loro tradizione, ma alla loro cultura e con il solito stile e la grande classe che li contraddistingue ci regalano un disco di cover dove il treno è il soggetto che unisce le canzoni. Sembra registrato ieri, ma probabilmente ha visto le incisioni fissarsi in tempi e studi diversi (le note sono striminzite, come già notato su altre produzioni di WN Records). Passando in rassegna velocemente le canzoni scelte, del disco che vi parlo a fare? E’ una gemma pop imperdibile per chiunque abbia a cuore questo gruppo e la sua musica. Ci troviamo autori e musicisti come Burt Bacharach, Merle Haggard, The Rolling Stones, The Magnetic Fields, David Bowie, Robyn Hitchkock, The Monkees con due pezzi, The Smiths, Rush e Cat Stevens. Una varietà di proposte e autori che disvela, ma non ce n’era bisogno, l’alta formazione musicale, la curiosa e perpetua ricerca di arrangiamenti e suoni, il gusto finissimo di questi signorotti della provincia inglese. Uno dei dischi dell’anno.

Kurt Logan

TITOLI DI CODA: XTC Senses Working Overtime

(da “English Settlement” Virgin, 1982)

Una canzone che se nelle giornate spensierate vi entra in testa, vi rimane da mattino a sera. Contravvenendo alle mie regole personali che preferiscono per queste righe una canzone tranquilla, magari un po’ subdola o tesa, ho scelto questo brano giocoso, in levare che esplode come fuochi d’artificio, con un testo fine e intelligente da fare imparare ai bimbi. Una finestra sul mondo colorato di questo gruppo, un brano che senza dubbio direi di ascoltare a chi del gruppo non ha mai sentito nulla. Qui sono condensati tutti gli XTC, quelli che erano e quelli che saranno. Un gruppo meraviglioso.

WolverNight 56 è stato prodotto, mixato e arrangiato da Kurt Logan presso lo studio

Park House” in

Pianezza n°2 a

racchio

Mergozzo (VB).

molte serate tra il Settembre e l’Ottobre

sulle note di: XTC e Dukes Of Stratosphear, The Perfect Disaster, i gruppi della

Wax Records in special modo Swansea Sound, The Orchids e Catenary Wires, The Moody Blues, tanti gruppi della

inglese, Peter Gabriel “So”, The Clash “Combat Rock”, Luca Carboni “Sputnik”, Area “Parigi Lisbona”, Air “Moon Safari”, Rachel’s “Selenography”, Panda Bear & Sonic Boom “Reset”, Oneida “Success”, Lambchop “The Bible”, Suede “Autofiction”, Ezra Furman “All Of Us Flames”.

I POSSIBILISTI
Gli
XTC non sono stati i nuovi Beatles perché non hanno mai avuto un vero batterista
? LETTORI RISPONDETE NUMEROSI !!!!!!!
WolverNight Records 006, 2022 12 tracks - 41’ circa 01 30 Miles of Railroad Track 02 Blues For Dixie 03 All Down The Line 04 Fear Of Trains 05 5:15 (The Angels Have Gone) 06 I Often Dream of Trains 07 Last Train To Clarksville 08 Locomotive Breath 09 Nowhere Fast 10 Midnight Train 11 A Passage to Bangkok 12 Peace Train Other Notes:
“Hyde
via
B
di
In
2022
Skep
neopsichedelia
Pagina 72

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