WolverNight fanzine - n° 53, novembre 2020

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NUMERO 53 - Anno 30°- Dicembre 2020 Redazione: Via Pianezza 2 , Mergozzo (VB) 28802 WN è stampato in proprio. Direttore Responsabile: Leicester Bangles

N° 53

PREZZO cartaceo offerta minima € 3,00 PREZZO pdf offerta minima € 1,00 da versare su PayPal macy69@tiscali.it

Considerazioni “Non sapevo che fosse australiano, e voi ?” UN NOSTRO REDATTORE

NICK CAVE AND THE BAD SEEDS BLIXA BARGELD BAUSTELLE MICK HARVEY “Canzoni contro il panico” WARREN ELLIS (sulle rovine italiane) CONWAY SAVAGE GRINDERMAN MUTE RECORDS THE BIRTHDAY PARTY and Aussie Invasion BAMBARA MOVIE STAR JUNKIES OH LAZARUS FABRIZIO POGGI DIEGO DEADMAN POTRON THE RESIDENTS JAYE JAYLE CAVE A SANREMO TINDERSTICKS HARRY POTTER VINYL RETURN pt. 2 HUGO RACE AND TRUE SPIRIT 15-60-75 (THE NUMBERS BAND) -

Photo by Jesse Frohman

Un ammutinato in paradiso

EDIZIONI VIOLET CARSON


La voce del padrone Da perfetto padre imperfetto mi sono perso la prima visione di certi film di mia figlia. Li ho recuperati con lei durante i sabati sera del lockdown primaverile. Non avendo smesso di lavorare mi è sembrato un buon modo per stare insieme e recuperare un po’ di tempo perduto. Harry Potter, è un pilastro del fantasy moderno e ha ammaliato una generazione di appassionati. All’interno di uno dei film che chiudono la saga di Harry e dei suoi amici spunta “O Children” di Nick Cave And The Bad Seeds. Una cosa che mi era sfuggita e che sul momento non ho nemmeno riconosciuto. Il pezzo fa da sfondo al “lento” che Harry ed Hermione ballano nella tenda persi nelle highlands. Una scena topica in un film “stressante” già dai primi minuti. Una scena semplice e importante, chissà quanti piccoli fans hanno sognato il bacio, fra i due “belli” della saga. E in quel momento a suonare c’è un pezzo di Nick Cave. Un pezzo che rimarrà nel tempo a fissare un momento tenero e inconcludente. Almeno fino al primo remake. Da lì , in pieno WolverNight baustelliano mi sono domandato: ma cosa è diventato Nick Cave adesso? Avevo visto fans adoranti condividerne il dolore, durante il tour di “Skeleton Tree” nella tappa di Assago, avevo appena celebrato “Ghosteen” come uno dei dischi più belli della mia top ten 2019 e più o meno stessa sorte ebbe “Skeleton Tree” nell’anno dei dischi funebri di Bowie e Cohen. E già, cosa è diventato Nick ora ? In cosa si è trasformato dopo il termine di quella che a mio avviso è stata la sua fase “aurea” ? Finita con la pubblicazione di “Murder Ballads” ? Nick Cave si può considerare ora come ora un mostro sacro della nostra generazione ? Abbiamo parlato tanto di lui ma abbiamo anche cercato di offrirvi qualche altro spunto andando a toccare argomenti, autori e dischi che girano attorno al mondo di quel lungagnone australiano. Spero proprio che apprezzerete la nostra buona volontà. Infine. Questo è il numero del trentennale, ll primo n° di WN uscì infatti nel Novembre del 1990, considerando che gli ultimi dieci li abbiamo passati ad oziare, ci sentiamo in forma come degli splendidi ventenni. Buon 2021 allora, ci si ritrova in tarda primavera, sperando di essere fuori dal tunnel pandemico, e magari in compagnia di una bella ragazza. WN n°53 – Novembre 2020 - SOMMARIO Pagina 2

WN – n°53 – NOVEMBRE 2020 – Anno XXX Redazione in carne e ossa: Mauro Giovanni Diluca, Giorgio Ferroni, Michele Griggi, Kurt Logan, Angelo Monte , Alberto Nobili, Agostino Roncallo, Massimiliano Stoto, Lewis Tollani, Sauro Zani. A questo numero hanno collaborato: Michele Anelli, Sergio Bianco, Marco Denti, Dj Kremlino e Massimo “Nana” Toscani Guida Spirituale: Warren Ellis Logo di copertina: Daniele Comello. Progetto Grafico: Kurt Logan.

QUESTO NUMERO E’ DEDICATO A: Phil May Tutte le illustrazioni ed immagini riprodotte, (dove non indicato) sono degli autori o delle persone, agenzie, case editrici detenenti i diritti. WOLVERNIGHT Via Pianezza n° 2 Mergozzo (VB) 28802- macy69@tiscali.it WolverNight è stampato in proprio.

Questo numero è stato stampato in 50 copie Questa in tuo possesso è la n° di 50 1a stampa del 27/11/20

EDIZIONI VIOLET CARSON

NICK CAVE AND THE BAD SEEDS da Pag. 3

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Intro - Una mutazione costante di Marco Denti pag. 3 Cap. 1 - Nick Cave: Con le mie parole di Giorgio Ferroni pag. 5 Cap. 2 - Nick Cave and The Bad Seeds 1984-1996 di Giorgio Ferroni pag. 7 Cap. 3 - Nick Cave and The Bad Seeds 1997-2012 di Massimiliano Stoto pag. 13 Cap. 4 - Fantasmi d’oltre confine Nick Cave da Skeleton Tree a Ghosteen” di Agostino Roncallo pag. 18 Cap. 5 - Su e giù con Nick Cave And The Bad Seeds” Cronache di un fan e disgressioni sulle pubblicazioni dal vivo di Massimo “Nana” Toscani pag.24 Cap. 6 - Grinderman “Breaking Bad” di Dj Kremlino pag. 26 Cap. 7 - I quattro dell’Apocalisse—Blixa, Mick, Conway & Warren” di Giorgio Ferroni, Stoto Massimiliano, Kurt Logan e Sauro Zani pag. 28 Cap. 8 - E voi da che parte state ?– Viaggio nei romanzi di Nick Cave di Marco Denti pag. 38 Cap. 9 - Proposition & Lawless—I film con le sceneggiature di Nick Cave” di Michele Griggi pag. 41 Cap.10 - Rock Covers #2 - Ghosteen di Sergio Bianco pag. 43 Cap.11 - The Aussie Invasion Pt.1 - I buoni frutti che danno semi cattivi - I dischi di The Boys Next Door e The Birthday Party di Marco Massarelli pag. 44 The Aussie Invasion pt.2 - (I’m) Stranded By A Catman -Small and not exhaustive compendium of Australian "punk and alternative" music from the 70ies & the 80ies di Marco Massarelli pag. 46 The Aussie Invasion pt.3 -Earth Needs Guitars - 10 canzoni australiane da non perdere di Michele Anelli pag. 49 BAMBARA: La legge dei gemelli di Dj Kremlino pag. 51 Italians make the blues, punk-blues, folk-blues e psych garage clarinet blues and many others… Interviste a: FABRIZIO POGGI MOVIE STAR JUNKIES DIEGO “DEADMAN” POTRON OH LAZARUS di Massimiliano Stoto pag. 54 TINDERSTICKS: Storie di scatole di fiammiferi e semi cattivi trovati sulla spiaggia di Massimiliano Stoto pag. 63 MUTE RECORDS: Il suono del muto di Massimiliano Stoto pag. 69 Dischi: HUGO RACE AND THE TRUE SPIRIT, THE RESIDENTS, JAYE JAYLE, 15-60-75 THE NUMBERS BAND di Massimiliano Stoto pag. 68 VYNIL RETURN Pt.2: La seconda era del vinile di Michele Griggi pag. 70 NICK CAVE A SANREMO & TITOLI DI CODA di Kurt Logan pag. 72


INTRODUZIONE

NICK CAVE and THE BAD SEEDS

UNA MUTAZIONE COSTANTE Un tuffo nel buio, una porta sulla luce e un rabdomante nei territori misteriosi della fede e della perdizione, che ha saputo rendersi cool in ogni momento: quello di Nick Cave è un “ammutinamento in paradiso”, frutto di una personalità inafferrabile, sfuggente, in perenne movimento lungo direzioni sconosciute, ma fedele all’imprevedibilità. Lo raccontava, tempo fa, lo stesso Nick Cave: “Ho capito che quello di spostarsi è lo stimolo determinante. Non è importante avere un posto particolare dove vivere; faccio in modo di stare attento al lento formarsi delle abitudini e quando mi accorgo che prendono il sopravvento, cerco immediatamente di spezzarle. Questa è la ragione per cui preferisco che la mia vita sia completamente insicura. Non mi piace vivere in alcun posto particolare, né avere una fissa dimora; amo invece spostarmi nello stato confusionale tipico della vita giorno per giorno”. È stato a lungo un clandestino, impigliato nelle ossessioni della droga, fino a decidere di liberarsene per sempre. Una scelta radicale a cui Nick Cave si è affidato altre volte: una mutazione costante, continua, in cerca di qualcosa di impalpabile, forse un’emozione, un senso, un’atmosfera, inseguendo una Wonderful Life, e così è cambiata la musica, dalla furia iconoclasta dei Birthday a Ghosteen, passando per i Bad Seeds e attraverso una carrellata di sirene capaci di ammaliare chiunque: Kylie Minogue, Anita Lane, e Lydia Lunch, e PJ Harvey. Un uomo fortunato, ma l’inizio è a capo di un branco di lupi affamati in cerca di salvezza da una città all’altra (Melbourne, Londra, Berlino, San Paolo, ancora Londra). Un’esistenza sul filo del rasoio, in bilico, ed estrema, in mezzo alla strada, un modo di vivere oscuro e forse vitale nonostante le pulsioni autodistruttive. Con abitudini pericolose, come confessava lo stesso Nick Cave: “L’eroina, per me, era come una bella tazza di tè al mattino. Come sedersi in una comoda poltrona e tirare su i piedi, la sensazione di essere finalmente a casa. Sfortunatamente, smette di esserlo”. C’era una rock’n’roll band caotica e furiosa da guidare e in Re Inchiostro descriveva così i Birthday Party: “Sono essenzialmente un lumacone nomade, e il loro viaggio è len-

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di Marco Denti

to e doloroso e sempre diretto in avanti e la scia bavosa che lasciano è la loro arte e via dicendo ed essi sono a malapena consapevoli dei suoi fini e ciò non ha analogie con altri eccetto noi stessi e non pensiamo di doverci scusare per questo ”. C’era una città da conquistare, a partire da Berlino, vista così da Wim Wenders: “Dietro all’immagine della città odierna, inframezzati, sovrapposti alla città attuale si ergono ancora come congelati nel tempo i cumuli di macerie, le rovine, le facciate annerite dei palazzi, i camini di ieri; ombre debolmente visibili, ma pur sempre spettralmente presenti. E con la stessa sfuocata ma percepibile presenza sono rimasti anche altri spiriti, rimasugli del passato: si tratta di quegli angeli e quei tetri demoni della prima caduta che hanno compiuto le loro nefandezze, che in questo paese e in questa città hanno messo in scena il più atroce degli spettacoli”. Si capisce perché lo scenario di Berlino sarebbe tornato a più riprese: Nick Cave ha cavalcato per anni la tigre condividendo la follia sul palco, poi ha saputo limare, condizionare e convogliare le energie e la definizione delle canzoni, completandole nella trasformazione dei romanzi. Alla radice di tutto “Re Inchiostro si sente un insetto e odia il proprio putrido guscio”, poi ha attraversato una lunga metamorfosi kafkiana, che ha visto come insostituibili compagni di viaggio i Bad Seeds nella parte più importante delle sue esplorazioni e il blues come condizione primordiale che emerge assecondando sequenze variabili e seguendo movimenti non sempre lineari. L’attrazione fatale per l’America, mai nascosta (anzi) fa parte di un background più


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ricco e complicato che viene però digerito a lungo prima di trovare forma nelle canzoni e nelle storie. In questo è stato un cacciatore solitario che si è nutrito di miti e leggende americani, con Flannery O’Connor e Leonard Cohen tra i possibili estremi irrinunciabili. Ma la fonte d’ispirazione principale arrivava da un’altra era. Come scriveva Simon Reynolds in Post punk 1978 -1984, Nick Cave attinge dalle scritture bibliche i termini fondamentali, “peccato, castigo, il cattivo seme, la maledizione”. Nei suoi rituali, che siano le canzoni o i romanzi, penitenza, dolore, misericordia sono parole che ritornano con frequenza e il legame tra l’amore e la fede si può sintetizzare nella frase apocrifa con “il regno è dentro di voi e fuori di voi”. La vocazione resta comunque quel shakesperiano “sondare le profondità dei tempi a venire” e quella che Harold Bloom (il presidente del fanclub mondiale di Shakespeare) definisce “la rappresentazione del dolore” è stata la meta di un viaggio nelle tenebre che, tra istinto e razionalità, si è rivelato una circumnavigazione dell’animo umano. Diceva Nick Cave: “Alcune cose vengono progettate, e ci mettiamo seduti e inventiamo, complottiamo, elaboriamo. Altre sono frutto dell’ispirazione, della poesia”. Con i Bad Seeds, la sua ricerca è diventata qualcosa in più della purezza, dell’immediatezza ed ha cominciato a inseguire le dinamiche del rumore così come quelle dei silenzi. È il motivo per cui all’epoca di Henry’s Dream maturò lo scontro con David Briggs, a lungo produttore di Neil Young, votato a un suono più ruvido ed essenziale, frutto di un approccio molto più sbrigativo, non privo di un suo fascino. Sempre alla ricerca del confronto con i padri putativi del rock’n’roll, ma restio a lasciarsi assoggettare, Nick Cave e i Bad Seeds hanno poi trovato in Let Love In una parziale definizione e insieme una linea definitiva. Da lì nel corso del tempo, le canzoni di Nick Cave hanno virato verso una sorta di oscuro gospel, dove l’elemento religioso è una componente del dialogo ininterrotto tra terrestre e divino, un contrasto continuo dove la figura dell’imbonitore pazzesco si è avviata a trasformarsi in quella di un crooner molto particolare, capace di cantare di “spioni morali alla Casa Bianca” e di avvolgersi in canzoni “come un sudario”. Forse consapevole che “ormai non andiamo da nessuna parte”, il to-

no elegiaco che è emerso via nei suoi album più maturi, con picchi particolari in No More Shall We Part e Push The Sky Away e l’irriverenza che è rimasta intatta e abrasiva nella storia che racconta La morte di Bunny Munro, hanno fatto di Nick Cave una specie di stralunato profeta di fine (e inizio) secolo e così si sono materializzate le parole di New Morning: “Grazie per avermi dato un nuovo mattino così luminoso, tanto intrisa pareva la notte di oscurità e sangue. Non ci sarà tristezza, non ci sarà dolore, non ci sarà una strada troppo stretta. Ci sarà un nuovo giorno, ed è oggi, per noi”. Come direbbe il protagonista di E l’asino vide l’angelo, “sono rimasto nascosto ai margini a osservare, osservare e registrare le sfortunate coincidenze, le disavventure e le vere e proprie tragedie della gente”. È un’attitudine che ha condiviso con i “grandi” che ha ammirato e a cui ha attinto. E l’elenco comprende Johnny Cash, Velvet Underground, John Lee Hooker, Elvis, Suicide, Dylan, Leadbelly, Stooges, Hank Williams. (MD)


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NICK CAVE: Con le mie parole di Giorgio Ferroni

Raccogliendo frammenti di interviste e dichiarazioni si incontra un percorso umano ed artistico intenso e profondo. L’uomo Cave mostra un percorso di maturità e di consapevolezza incredibile associato ad una professionalità impressionante. È un percorso in cui il tormento giovanile si è tramutato in riflessione, la furia distruttiva associata all’urgenza espressiva, del ragazzo australiano che atterra a Berlino in piena frenesia post punk, si trasforma nella professionalità dell’artista maturo che è in grado di lavorare anche su commissione per colonne sonore. Il ragazzo che non riconosce regole e riferimenti è diventato il padre di famiglia che lavora otto ore al giorno per realizzare della musica, musica che certo ha meno impeto di quella con cui ha esordito, ma questo è indubbiamente compensato dall’acquisita consapevolezza dei propri strumenti espressivi. L’arte è anche questo, è contrasto, è equilibrio fra tormento e riflessione. Possiamo apprezzare maggiormente l’uno o l’altro aspetto ma entrambi devono convivere e contribuiscono a definire la persona e l’artista. L’elemento determinante del musicista Cave è senza dubbio l’amore per la musica tradizionale americana: country, blues, gospel, Elvis, Cash, John Lee Hooker. Cave non ne ha fatto mistero anche quando negli anni ottanta era un’icona dei fans del gothic rock e della new wave. Il blues è alla base della sua musica anche quando la proponeva nella forma caotica e dissonante dei primi lavori dei Bad Seeds. In un articolo, su Blow Up n. 56 del 2003, Stefano Isidoro Bianchi afferma che l’importanza di Nick Cave sta proprio nell’avere preservato il senso del blues nella sua forma primordiale ed originaria in un periodo in cui il blues era un fenomeno musicalmente morto. Piano piano quell’impostazione è virata verso modalità più tradizionali, l’aspetto dei richiami alla musica tradizionale del sud degli USA è meritevole di un piccolo approfondimento. “Grinder Man” è una canzone di Memphis Slim ripresa da John Lee Hooker ed il titolo diventa il nome del progetto collaterale di Nick Cave e Warren Ellis. Il brano di Hank Williams “I’m So Lonesome I Could Cry” nell’album di Johnny Cash “American IV” contiene un duetto con Cave. Fra i due c’è una grande stima tant’è vero che Cash in “American III” fa una sua versione di “The Mercy Seat”. In un EP del 1980 i Birthday Party coverizzano “Cat Man” di Gene Vincent.

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Nel DVD “The Road To God Knows Nowhere” si trova una versione del brano di Ella Jenkins “Wade in the Water”. La canzone “Tupelo” è stata scritta usando immagini bibliche per descrivere la nascita di Elvis Presley durante una forte tempesta a Tupelo, Mississippi. La canzone è liberamente ispirata ad un’omonima canzone di John Lee Hooker. Una cover di Elvis “In The Ghetto”, è stata la prima pubblicazione dei Bad Seeds nel 1984. La parte iniziale di “The Good Son” si ispira esplicitamente a " Another Man Done Gone " una delle versioni più famose fu quella di Odetta Holmes. Nelle note di copertina di “City of Refugee" si indica esplicitamente il brano come ispirato da una canzone di Blind Willie Johnson. “Henry Lee” da “Murder Ballads” è la parziale riscrittura di un brano tradizionale intrepretato tra gli altri nel 1929 da Dick Justice e il retro del singolo “Where The Wild Roses Grow” è un altro traditional inciso da Hobart Smith And The Texas Gladden. Altro brano popolare americano di “MB” è “Stagger Lee", noto anche come "Stagolee". Il manifesto più evidente della passione musicale di Cave è l’album di cover “Kicking Against The Pricks” dove vengono, tra le altre, rifatte le canzoni “I’m Gonna Kill That Woman” di John Le Hooker; “Black Betty” di Leadbelly e “Jesus Meet The Woman At The Well” degli Alabama Singers. Altro aspetto che è imprescindibile nella definizione dell’artista Nick Cave è l’essere pervaso da un profondo senso di religiosità, religiosità che si è acuita negli anni; è una spiri-

Nick Cave con I Birthday Party nel 1981


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tualità che rimanda inevitabilmente a quel mondo rurale statunitense che è ben rappresentato anche nel suo primo romanzo del 1989 (“E l’asina vide l’angelo”). Tutti questi aspetti si possono intravedere in modo molto definito nelle citazioni seguenti elencate in ordine cronologico da cui ognuno di noi può costruirsi un suo immaginario dell’uomo e dell’artista. Buscadero n. 77 gennaio 1988. “Elvis è stato il più grande”. “E’ tutta una moda, psichedelia, dark, sixties, glam, tutto Nick Cave e la moglie al funerale una fottuta moda. del figlio Arthur nel 2018 Non mi interessa che musica è, ma come è. Passione, ci vuole passione. Come Elvis, Johnny Cash, Frank Sinatra”. “Non credo in Dio, non me ne frega niente della religione, non credo in niente”. (Intervista di Massimo Scabbia realizzata a margine di un concreto italiano, nel pezzo l’autore descrive un’atmosfera da “Zoo di Berlino” con un artista che non fa mistero della sua tossicodipendenza). Rockerilla n. 141 maggio 1992. “Esistono tre tipi di giustizia, quella divina, quella umana e quella interiore”. “Come religione sono anglicano. Un anglicano non troppo convinto a dire la verità”. Rockerilla n. 166 giugno 1994. “A casa mia c’è musica ad ogni ora del giorno e della notte. Non ascolto quasi mai i miei dischi e specialmente i più recenti. Continuo a sentire quantità industriali di blues e di spirituals dei quali non mi stanco mai”. Rumore n. 50 marzo 1996. “Io scrivo due tipi di pezzi. Uno molto personale e facilmente identificabile: scrivo in prima persona e parlo di tutte le complicazioni che ci sono nei miei rapporti con gli altri. C’è poi un altro tipo, fatto di piccole storie messe in musica. Si tratta per lo più di esercizi academici. Bado molto al linguaggio, alle potenzialità della rima ecc.”. “Leggo moltissimo la bibbia e sono totalmente affascinato dalla figura di Cristo. Per me è la metafora perfetta di un essere umano in lotta con il concetto di fede”. Nel 1996 due canzoni di Murder Ballads ricevono la nomination per gli awards di MTV; Cave rispose con una famosa lettera “Sono sempre stato del parere che la mia musica è unica ed individuale e vive alle spalle del regno occupato da coloro che vogliono ridurre ciò ad una mera competizione. Io non sono in competizione con nessuno.” in cui chiedeva di revocare la nomina (nel 2000 accetterà invece il premio Tenco in Italia esibendosi live in quattro brani). Nel 1998 Nick Cave scrive un’introduzione ad una edizione della Introduzione al Vangelo secondo Marco pubblicata in Italia da Einaudi: “La compassione gemma ed irrompe attraverso alcune incrinature dell'affanno

(dell'angoscia) nero ed amarissimo. La tua rabbia smette di aver bisogno di un nome. Smetti di cercare consolazione (conforto, requie, pace) spiando un Dio che colpisce tremendo un'umanità derelitta mentre impari a dimenticare te stesso e il mondo.” Rumore 2001. “Non mi piace considerare il passato, non ho nostalgia di quei giorni (il suo passato artistico nda), preferisco guardare avanti”. “Ho un mio ufficio, dove sto da solo; mi siedo e aspetto che le canzoni arrivino. E poi arrivano veramente. scrivo ogni giorno della settimana, dal lunedì al venerdì; quello è il mio mestiere. Essere autore di canzoni è una responsabilità che va onorata ogni giorno”. Da quando credi in Dio: “da sempre direi, in un modo o nell’altro: è cambiato nel corso del tempo. C’è stato un momento in cui avevo un legame fortissimo con la Bibbia, in particolare con il vecchio testamento, che ha avuto un impatto tremendo su di me: quest’idea dell’umanità che si fa piccola di fronte alla tirannica onnipotenza divina. Ecco su quello ho cambiato punto di vista: adesso preferisco il nuovo testamento, dove Dio è puro concetto, una forza tranquilla e misteriosa, quasi malinconica...” Blow Up n. 56 febbraio 2003. “I Birthday Party erano per certi versi un gruppo comico, non lo dico in maniera squalificante, lo dico con orgoglio”. “Devo ammetterlo, penso che alcuni di quei dischi, probabilmente quelli dei Bed Seeds, avevano un pochino... la mano pesante”. “io non bevo e non vado nei bar, lui non frequenterebbe i musei, “Perché mai dovrei volere una conversazione con questo soggetto che non riesce a stare in piedi? Perché mai questo soggetto che non si regge in piedi dovrebbe averne una con un tizio che ogni giorno va in ufficio?” (risposta alla domanda su come pensa si potrebbe svolgere un incontro con il sé stesso del passato). “Personalmente ritengo non ci sia nessun valore o dignità nell’aggrapparsi disperatamente alla propria gioventù, provarci sempre più con intensità a mano mano che si invecchia… proprio come le persone più giovani dovrebbero rifiutare l’idea di uniformarsi ai più anziani, così i più anziani dovrebbero fare lo stesso con i giovani”. “la musica che ascolto dall’inizio alla fine da Nina Simone a Bob Dylan, a … tutti sono fondamentalmente impantanati a scrivere canzoni d’amore”. Bluw Up n.149 ottobre 2010. “Spesso si è detto che non c’è senso dell’umorismo in quello che faccio, mentre probabilmente sono uno dei pochi autori in giro che si siede e scrive di proposito una canzone comica”. (GF) 10 canzoni scelte e commentate da Nick Cave su Melody Maker nel 1990.

1) Bob Dylan- Knocking On Heaven’s Door “Butterei via in un minuto tutto il mio repertorio per averla scritta” 2) Elvis Presley – How Great Thou Art 3) The Saints – This Perfect Day 4) The Reels - This Guy’s In Love With You The Loved Ones 5) Alabama Singers - Daniel Saw The Stone 6) Einsturzende Neubauten – Durgitesteirs 7) Velvet Underground- Heroin 8) Leonard Cohen- Avalanche 9) Van Morrison - TB Sheets 10) Suicide- Harlem/Sister Ray Says John Lee Hooker- I’m Gonna Kill That Woman. “Potrei citare milioni di canzoni di John Lee Hooker”


CAPITOLO 2

NICK CAVE AND THE BAD SEEDS: 1984-1996

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di Giorgio Ferroni

Gli album del Nick Cave solista segnano un percorso artistico che si muove con continuità da oltre trentacinque anni senza passi falsi. Come è piuttosto ovvio i lavori degli esordi sono molto diversi da quelli recenti, anche se la passione per le radici musicali della tradizione statunitense è un elemento imprescindibile che definisce quella continuità a cui facevamo riferimento, questa passione nel corso del tempo si tramuta inevitabilmente dalla giovanile irrequietudine alla matura consapevolezza, ma costituisce il cardine della sua proposta musicale. Proposta che si sviluppa nella tensione fra una forma caotica e dissonante di blues e le ballate intrepretate da “crooner” con grande maestria. Negli esordi prevale la prima attitudine e la seconda diventa preponderante andando avanti nel tempo; entrambe sono però assolutamente presenti e necessariamente complementari in tutta la produzione di Cave. Nick è indubbiamente una personalità straordinaria che nel tempo si è dimostrato capace di gestire e controllare il lato oscuro e distruttivo della sua indole. Cave è un artista che si è dimostrato tranquillamente in grado di comporre ed intrepretare una ballata romantica al pianoforte oppure di scatenare un baccanale rock degno del Jim Morrison più furioso. Questo fa di lui indiscutibilmente uno dei più grandi animali da palcoscenico della storia del Rock (con la R maiuscola). Il suo gruppo, i Bad Seeds con le sue personalità forti – Bargel, Harvey, Adamson, Ellis - non è assolutamente trascurabile nella riuscita complessiva degli album pubblicati, ma è lui con le sue interpretazioni Shakespeariane virate in blues a sostenere, definire e qualificare il tutto, con i suoi testi fortemente evocativi e la sua carismatica presenza scenica.

“Avalanche”. I Bad Seeds spesso non suonano semplici canzoni, sono una specie di orchestra volutamente sgangherata che realizza un contesto sonoro che serve a sostenere emotivamente la voce di Nick, questo mette in scena una sorta di tragedia teatrale in musica. Un esempio chiaro di questo modo di esprimersi del gruppo è il brano omonimo. “From Her To Eternity” che è staticamente sull’accordo di Do minore. Le progressioni di accordi sono il movimento che caratterizzano la natura del brano. Se decidiamo di restare implacabilmente su un accordo minore determiniamo nell’ascoltatore un senso di smarrimento che deriva dalla “non direzione del brano”. Il ruolo della batteria (molto alta nel mix del brano) non è ritmico, interviene in modo sporadico ed è utilizzata per sottolineare i passaggi fondamentali del testo. Il testo della canzone è in gran parte recitato; in sintesi la voce è la narrazione di una storia e i musicisti creano un’atmosfera per dargli enfasi; non è semplice musica è una sorta di rappresentazione teatrale in cui Nick Cave troneggia da indiscusso protagonista. Nel 1987 i Bad Seeds compariranno nel film di Wim Wenders, “Il cielo sopra Berlino”, interpretando dal vivo il brano che racconta una storia di disagio urbano molto cupa. Questa musica è un blues primordiale suonato da musicisti post punk, un blues fortemente caratterizzato dalle

1984 - From Her To Eternity (MUTE Rec., LP, UK, STUMM 17)

È un disco caotico ed espressionista di fortissimo impatto che è introdotto da una cover rantolante del brano di Leonard Cohen

Photo by Stanley Green NICK CAVE AND BAD SEEDS - S.FRANCISCO ‘84 BLIXA, NICK, HUGO, BARRY e MICK


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1985 – The Firstborn Is Dead (MUTE Rec., LP, UK, STUMM 21)

chitarre dissonanti di Blixia Bargeld e di Hugo Race, dalle incursioni percussive di Mick Harvey e dal basso imponente di Barry Adamson. Cave e Harvey venivano entrambi dai Birthday Party mentre Barry Adamson aveva suonato nei Magazine. Bargeld era il leader del gruppo industriale Einstrunzende Neubauten. Con questa formazione sembra praticamente impossibile suonare del blues e invece è il suono più blues che si potesse immaginare nel 1984. Negli anni ottanta l’idea del blues nell’immaginario collettivo era quello di una musica patinata che flirtava con il jazz e veniva suonata al festival di Montreux. Questo blues “caveiano” si rifà invece direttamente ai suoi esordi rurali ed istintivi, ma filtrando il tutto attraverso una sensibilità molto europea, all’epoca i Bad Seeds erano infatti di stanza a Berlino e hanno come membro permanente Blixia Bargeld del gruppo industriale rumorista degli Einstürzende Neubauten.

Il secondo album musicalmente riprende il linguaggio del lavoro precedente ma è più strutturato e meno caotico. Il singolo “Tupelo” fa vedere bene questa evoluzione; come “From Her to Eternity” è costruita su una struttura musicalmente estremamente semplice con un accordo di Mi minore ripetuto ossessivamente con una piccola variazione nel ritornello. La batteria rientra però nel suo ruolo ritmico e viene rimessa ad un livello più basso nel mixaggio. Anche il cantato rientra nei ranghi in una struttura convenzionale pur mantenendo il tono solenne e quasi religioso. Nick Cave non ha mai fatto mistero della sua ossessione della figura di Presley, “Tupelo” inizia con un rombo di tuono che è il richiamo all’alluvione che sconvolse Tupelo che è la città natale di Elvis. Anche il titolo dell’album (il primogenito è morto) è un richiamo alla storia di Presley il cui fratello gemello morì poco dopo il parto. Il testo ambienta la nascita di Elvis durante una tempesta che annuncia il secondo avvento di Cristo/Elvis (Where no bird can fly no fish can swim, Until The King is born). Il brano si riallaccia anche ad un’omonima canzone di John Lee Hooker che tratta proprio della storia della tempesta che sconvolse la citta nel 1936, quando Elvis aveva un anno. Altri brani che caratterizzano l’album inquadrandolo più chiaramente nelle coordinate musicali del sud degli Stati Uniti sono i blues quasi standard di “Black Crow King” con il Call and response fra Cave e la band e “Knockin' On Joe”. C’è anche lo spazio per la consueta cover, questa volta tocca a Dylan con “Wanted man”. La chiusura è affidata ad un altro brano recitato nello stile “Caveiano” “Blind Lemon Jefferson” che è un evidente omaggio all’omonimo bluesman americano. Complessivamente, a mio giudizio, è un lavoro qualitativamente leggermente migliore del precedente che eccedeva nell’enfasi del lato selvaggio della band. È un album comunque molto molto crudo e diretto ma è

In questo strano incrocio fra Berlino e il delta del Mississippi sta il senso del disco, sembra un connubio improbabile, eppure questo archetipo del blues americano, privato dei suoi fronzoli, condito in salsa teutonica e registrato in un’enclave ad un passo dal muro che divideva in due Berlino funziona. Trasuda tensione e passione, trasmette inquietudine ed alienazione, insomma è una musica estremamente vitale. In fondo non era così improbabile, il blues originale è una musica rurale e primitiva, suonata da musicisti autodidatti e con una strumentazione scarna, è una musica di spettri e di superstizioni, in questi aspetti ha molte analogie con la musica industriale europea che nasce nei contesti post industriali di degrado urbano, e dunque di marginalità sociale, ed è suonata con strumenti impropri e comunque con modalità primitive. L’altro estremo in cui si muove Cave è invece rappresentato dal singolo “In The Ghetto” che precede la pubblicazione dell’album e compare nella versione in CD del 1987. È una cover abbastanza fedele di un brano di Elvis Presley. Nick all’epoca era molto apprezzato da tutti i fan del gothic rock alla “The Cure” forse per via dell’aria emaciata e dei capelli cotonati, questo nonostante non facesse segreto della sua grande passione per il blues e per Presley che per i “Dark” dell’epoca erano una vera e propria Kryptonite. L’album è una messa in scena drammatica in sette atti che disegna un quadro unitario di cupa e nevrotica ossessione, non è di semplice ascolto, non è musica che si può sentire la mattina appena svegli (con buona pace di chi crede che certi tipi di musica vadano bene per ogni periodo ed occasione della vita). È un disco di rifiuto e di ribellione che non può lasciare indifferenti, si può non essere in sintonia con la sua narrazione, ma questa è un'altra storia. Nell’album troviamo accreditata come corista (non si sente un granché a dire la verità) anche Anita Lane, che oltre che essere l’amante di Nick Cave aveva collaborato alla stesura di alcuni testi nell’ultima fase dei Birthday Party. Tornerà poi nel 1996 per una comparsata in “Murder Ballads”.


anche quel poco più a fuoco che rende il suono più definito e meno claustrofobico. Probabilmente è il giusto equilibrio fra furore ed espressività che lo rende il più riuscito della fase del “Cave Iracondo”. 1986 – Kicking Against The Pricks (MUTE Rec., LP, UK, STUMM 28)

È l’album che certifica agli appassionati del rock del periodo l’amore di Cave per la musica americana. Il nostro è ritratto in smoking avvolto dal fumo su un fondale di velluto rosso, ma sfoggia con disinvoltura una chioma degna di un Robert Smith. A parte “The Hammer Song” che è un brano del 1972 di “The Sensational Alex Harvey Band”, gruppo glam di Glasow, e “All’Tomorrow Party” che è dei Velvet Underground, si tratta di canzoni prese dal repertorio classico di blues, country, gospel etc.. Non sono rifacimenti anonimi, sono brani filtrati dall’enfasi dei Bad Seeds e del loro capo banda, il loro stile del periodo è troppo forte e personale per passare sottotraccia, ma rispetto ai due capolavori precedenti manca qualcosa. Il brano a cappella di Leadbelly Black Betty è eccezionale (si trova solo nell’edizione in CD), anche altri pezzi funzionano molto bene, ma non mi avvicinerei all’ascolto del gruppo a iniziare da questo disco (e parlo per esperienza diretta). Il singolo scelto per lanciare l’album è stato il brano “The Singer” di Johnny Cash. 1986 – Your Funeral... My Trial (MUTE Rec., LP, UK, STUMM 34) È il disco registrato nel momento più scuro per Nick, quello in cui la sua tossicodipendenza potrebbe spingerlo oltre il limite della sostenibilità e spezzarlo, ma così non sarà. È un altro gran disco in cui continua il suo percorso musicale. Il brano iconico è “The Carny” che è la consueta rappresentazione in musica di una storia che sembra descrivere una scena del film di Tod Browning “Freaks”. Leggendo il testo sembra proprio di avere a che fare con una sceneggiatura scritta per un film. Il personaggio di questo film è l’imbonitore di un circo e la particolarità sta anche nel fatto che tutta la scena descritta si basa sulla sua assenza (nessuno vide l’imbonitore andarsene); è il racconto di come i nani del circo sono incaricati di seppellire il cavallo dell’imbonitore che è sparito, il cavallo è un ronzino pelle e ossa e con la gobba chiamato dolore (a bow-backed nag that he named “Sorrow”). Il racconto è sostenuto da un lugubre mar-

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cetta da circo ed è semplicemente straordinario nella sua efficacia espressiva che rimanda inevitabilmente ai lavori di Brecth e Weill (è un brano che si colloca nelle coordinate di “Alabama Song”). Cave ha una grandissima capacità narrativa e a riprova di questo negli anni si cimenterà con successo nel ruolo di sceneggiatore per il cinema. La registrazione dell’album è stata eseguita nei mitologici studi Hansa di Berlino, il produttore Flood ricorda come la Berlino dell’epoca fosse parte integrante delle sensazioni veicolate dalla canzone. Il Brano che dà il titolo all’album è un altro caposaldo della tracklist, un lento caracollante con un’introduzione straziante di pianoforte.

1988 – Tender Prey (MUTE Rec., LP, UK, STUMM 52) Il brano manifesto del disco è indubbiamente “The Mercy Seat” (Il trono della misericordia) uno dei brani di punta del repertorio di Cave & C. È un altro dei quei brani nel solco della rappresentazione teatrale Caveiana in musica, il soggetto della tragedia messa in scena è quella di un condannato a morte che aspetta di essere giustiziato sulla sedia elettrica. Musicalmente si alternano parti recitate e parti cantante su una base scura. Nel video promozionale il condannato a morte è intrepretato in modo molto inteso dallo stesso Nick che declama recitando le parti parlate in una scenografia che ricostruisce una cella ripersa in bianco e nero. Come nel testo della canzone Nick porta sulle nocche della mano sinistra la scritta EVIL (Like My Good hand I tatooed E.V.I.L. across it's brother's fist; That filthy five! They did nothing to challenge or resist.). Le parti cantate sono invece sottolineate dalle riprese a colori con il gruppo che suona in uno studio di ripresa. Il testo è ricco delle consuete allusioni religiose, nell'Antico Testamento, il trono della misericordia è infatti anche il simbolo del trono di Dio sull'Arca dell'Alleanza. È una canzone che Cave ritiene imprescindibile nel suo repertorio, tant’è che viene sempre suonata nei suoi concerti. (The Mercy Seat è stata scritta da un posto molto diverso, un posto meno consapevole – Nick cave 2010). Alla sua stesura musicale ha collaborato Mick Harvey e negli anni è stata ripresa da diversi artisti fra cui Johnny Cash. Da ricordare anche altre belle canzoni come “Jump Up The Devil” che sembra un blues scritto da Brecht e Weil (Ahimè Ahimè Che vita disgraziata, Sono nato il


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giorno In cui la mia povera madre è morta, Mi hanno tagliato fuori dalla sua pancia con un bisturi affilato, Mio padre fece un balletto Con la levatrice ubriaca) e “City of the refuge” (faresti meglio a correre verso la città del rifugio) sottolineata e caratterizzata dall’uso dell’armonica a bocca e con una bella chitarra distorta che lavora in sottofondo. È un altro disco che funziona molto bene, solido e cupo che si caratterizza per avere messo in campo una maggiore varietà stilistica e un uso frequente dell’armonica a bocca suonata dallo stesso Cave. Ci sono anche dei brani lenti condotti dal pianoforte che sono anticipatori del mood che si svilupperà nel successivo album (“Watchin Alice”; “Slowly goes the night” e “New Morning”). Il secondo singolo dell’LP è stato il disincantato e quasi pop “Deanna” che si distacca in maniera netta dalla sua produzione. 1990 – The Good Son (MUTE Rec., LP, UK, STUMM 76) È uno di quei dischi di cui puoi parlare male solo se sei un talebano consacrato alla sharia del rock. Uno di quelli che se non sentono chitarre distorte con batterie pestate hanno dei mancamenti e che inorridiscono sentendo un arrangiamento d’archi. In sei anni Nick cave si è completamente ricostruito e realizza uno di quei dischi che stanno bene in tutte le discografie. Grande scrittura, arrangiamenti superbi, grande interpretazione. I Bad Seeds in una delle loro migliori formazioni, con Bargeld, Harvey e Congo Kid Power. È un album che sembra non avere niente a che vedere con gli esordi eppure sono praticamente le stesse persone, ma il loro modo di vedere il mondo e di cantarlo è cambiato. Per certi versi rappresenta il punto d’arrivo della prima parte della carriera di Nick Cave. Nella produzione arrivano alcune novità degli arrangiamenti importanti per sezione archi (ad essere precisi li avevano già iniziati ad usare in “Mercy Seat”) e l’uso massiccio del vibrafono suonato da Harvey. Sono generalmente il piano ed il vibrafono a sostenere la melodia nei nove brani del disco. I sermoni recitati vanno nel dimenticatoio ed emerge un grande cantante che sa tenere la scena con una maestria unica. Le canzoni sono una più bella dell’altra e la recensione potrebbe anche finire qui, ma vale la pena parlare di alcune canzoni. “Foi na cruz” comincia con un’introduzione di chitarra acustica che viene seguita da un canto corale, che lascia a bocca aperta perché non è in inglese, è un salmo cantato in portoghese (Foi na

cruz, foi na cruz, Que um dia Meus pecados castigados em Jesus - Era sulla croce, era sulla croce, Poi un giorno i miei peccati sono stati espiati da Gesù). Il secondo brano (“The Good Son”) ha un corale gospel che introduce una strofa intesa che ricorda il tono del Nick dei lavori precedenti, un tono torbido che sfocia in un ritornello che ha una grande apertura melodica sostenuta da un arrangiamento di archi che dà un senso di redenzione. Il testo è un rimando alla parabola evangelica del figliol prodigo. Che cosa è successo? Nick ha definitivamente rotto con la sua storica compagna Anita Lane, ha finalmente chiuso il capitolo della sua tossicodipendenza e si è trasferito a vivere in Brasile con la sua nuova compagna da cui nel 1991 avrà un figlio. È una nuova vita in un nuovo mondo, un uomo nuovo che è in grado di guardare al di fuori di sé stesso e dei suoi tormenti aprendosi al mondo e guardandolo con gli occhi di un padre. Non c’è una canzone sbagliata in questo disco. “Sorrow Child” ha una melodia bellissima nel suo raccontare un quadro in cui “la figlia del dolore sta seduta sulla riva del fiume”. Il tema dell’infanzia torna anche nel quarto brano “The

Wepping song”, un duetto fra Blixia Bargeld che intrepreta il ruolo di un padre che si rivolge al figlio intrepretato da cave (Vai figlio verso l’acqua e guarda le donne che piangono laggiù) per spiegargli come la sofferenza fa parte del ciclo naturale della vita (questa è la canzone del pianto, ma io non piangerò a lungo...). I primi cinque album hanno una discreta omogeneità dal punto di vista della grafica delle copertine, che sono ben caratterizzate da cinque primi piani di Nick Cave, che monopolizzano l’immagine, sono immagini forti, quella del primo album è addirittura inquietante nel rappresentare un ragazzo travolto dal tormento e dalla furia. L’album del 1990 è il primo che raccoglie una novità grafica, ossia la contestualizzazione di un Cave maturo ed inseri-


to in un’inquadratura più ampia ritratto al pianoforte e accompagnato da alcune bambine che appariranno poi nel video del singolo “The ship song”. Quest’ultima è una canzone classica d’amore, realizzata però con una classe rara nel mondo della musica. “The Hammer song” è un pezzo che potrebbe anche stare nei dischi precedenti, con le sue immagini bibliche forti e il tono declamatorio. Segue la delicata “Lament” (Così asciuga i tuoi occhi e volta la testa dall’altra parte, al momento non c’è nient’altro da dire, Ora te ne sei andata via); il successivo brano “The witness song” è l’unico brano dal ritmo sostenuto del disco. La chiusura è affidata ad un'altra canzone d’amore accompagnata solo pianoforte ed archi (“Lucy”). Credo si sia ormai capito che a mio parere è questo il disco di Cave che non può mancare in una discografia.

1992 – Henry's Dream (MUTE Rec., LP, UK, STUMM 92) Pubblicare un disco che replicasse ed uguagliasse “The Good Son” sarebbe stato decisamente complicato. Nel frattempo nel mercato musicale è arrivato lo tsunami del grunge e dei Nirvana ed il pubblico cerca spasmodicamente chitarre pesanti come macigni e ritmi serrati. L’atmosfera del nuovo disco è molto diversa con ritmi generalmente più sostenuti, nel disco esordiscono Conway Savage (RIP) alle tastiere ed il bassista Martin Casey. Savage è un musicista che lascia un’impronta forte e distintiva nel suono dell’album in cui l’organo è spesso protagonista. Ritorna a tratti il tono declamatorio che Cave ha accantonato nel lavoro precedente, infatti il brano introduttivo “Papa Wont Leave You Henry” inizia con chitarra acustica e archi, poi si lascia andare in un racconto scuro con testi espliciti (A fag in a whale-bone corset, Draping his dick across my cheek!) che ci rimanda al Nick Berlinese degli anni ottanta. Photo by Peter Milne

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Nel secondo brano, “I Had A Dream Joe”, dopo un’introduzione corale gospel, sono le testiere di Savage ad introdurre e condurre le danze, Casey ha un bel groove di basso, il ritmo è sostenuto e Bargeld si lascia anche andare (cosa piuttosto rara) ad una specie di assolo di chitarra elettrica slide doppiato da un piano Honky Tonk. L’atmosfera si rilassa nel lento “Straight to you” con l’organo sempre in bella evidenza. Il video clip mostra i nostri eroi sul palco di un teatrino con vari cambi di scenografia (danzatrici del ventre, candele accese, cowboy che cercano di fare giochi di prestigio, et...) mentre fanno finta di suonare in modo da fare vedere che sono in un evidente playback. È un’atmosfera goliardica che sottolinea la leggerezza del brano che pur essendo una classica, che di più non si può, canzone d’amore è semplicemente impeccabile nella sua esecuzione e nella sua interpretazione (PS anche in un brano così una strofa con il classico richiamo mistico ai santi a agli angeli Nick non se la risparmia mai, ma è il suo stile e noi lo amiamo per questo). È un bel disco, che non ripete la magia del predecessore ed è (volutamente) più grintoso, quindi più apprezzabile anche dai puristi del rock (che spacca), ma è un gran bel risultato che si ascolta assolutamente volentieri e che alterna brani di varia atmosfera. Il finale di “Jack The Ripper” ad esempio è una grandissima interpretazione canora di Cave abbinata ad una musica tirata e cupa con un basso in bella evidenza che pompa deciso. Anche l’immagine di copertina che mostra un Nick Cave troneggiante su manifesto stradale con la grinta di un gangster manca il distacco rispetto all’atmosfera quasi angelica del lavoro precedente. 1994 – Let Love In (MUTE Rec., LP, UK, STUMM 123 ) Continuando ad analizzare l’aspetto comunicativo delle copertine si nota come l’ottavo album dei Bad Seeds vuole dare un’immagine molto forte. Nick compare a dorso nudo con il titolo dell’album scritto sul petto. Il colore predominante è il rosso che indica le passioni violente e lo stare a dorso nudo mette in evidenza il suo ruolo maschile aggressivo. Queste pose non sono in realtà una novità, ci sono un sacco di foto simili fatte nel periodo Birthday Party, Cave ha appena 37 anni, ma è già un veterano che si confronta con dei baldi giovani che scalpitano per occupare la scena musicale indipendente, che nel frattempo è diventato un affare molto serio, anche in termini di mercato…I primi anni 90 sono stati gli anni


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delle chitarre pesanti e dei ritmi veloci e anche questo disco si allinea in parte al trend del periodo in cui l’indie Rock diventa un fenomeno significativo. Il 1994 è l’anno di Dookie dei Green day e del successo degli Offspring; anche i REM nel 94 pubblicano un album molto elettrico come Monster dopo la parentesi acustica del 92 di Automatic For The People. Il 1994 è anche l’anno della morte di Kurt Cobain. La musica dell’album risente in parte del trend del periodo, fortunatamente la maggior parte sono legati alla sua modalità classiche; questi pezzi funzionano molto bene come le due canzoni omonime “Do You love me” che aprono e chiudono il disco che sfruttano in parte la stessa linea melodica su testi e ambienti musicalmente diversi. Il brano di apertura è più grintoso con una bella introduzione di pianoforte sostenuta dagli accordi atmosferici di chitarra elettrica e quello di chiusura più lento e atmosferico. In quest’ultimo brano compare per la prima volta come collaboratore dei Bed Seeds Warren Ellis, suonando il violino. Negli anni successivi Ellis diventerà il principale collaboratore di Cave nei Bed Seeds e nei Grinderman. Funziona molto bene anche il classico blues “Red Right Hand” (che gira su 24 e non su 12 battute) con un interessante solo di organo e un bel video promozionale in bianco e nero. Questa canzone racconta una storia torbida di malavita ed è diventata la colonna sonora della serie televisiva “Peaky Blinders” (è una serie che si occupa di una gang di criminali inglesi). Da ricordare anche il singolo “Loverman” che alterna parti lente ad improvvise accelerazioni e che verrà ripresa nel 1998 dai Metallica e nel 2003 da Martin Gore dei Depeche mode. Ci sono però anche alcuni brani, “Janglin Jack” e “Thirsty Dog”, che mettono in campo delle soluzioni musicali con un attitudine quasi punk, con un ritmo più sostenuto del solito; queste canzoni funzionano di meno perché la voce di Nick che è la colonna portante della proposta musicale esce in modo meno convincente. Nick ha una voce fantastica calda ed atmosferica che rende al meglio nei

tempi dilatati, in questi brani veloci perde quell’enfasi che rende i brani inconfondibili. Complessivamente è un bel disco che non perde nel confronto con il suo predecessore, anzi… sicuramente alcune delle canzoni di “Let Love In” sono diventate dei classici, cosa che non si può dire di quelle di “Henry’s Dream” che personalmente apprezzo comunque molto. Comunque Nick Cave non ha mai fatto un disco brutto e la sua discografia ha una qualità media molto alta. In questa discografia direi che entrambi si piazzano molto bene. 1996 – Murder Ballads (MUTE Rec., LP, UK, STUMM 138)

È un disco molto particolare e lo si vede anche dal punto di vista della grafica che per la prima volta non ha in evidenza la carismatica figura di Cave. La copertina è un cupo paesaggio invernale che potrebbe essere usato come illustrazione per una favola dei fratelli Grimm. È una sorta di concept album che si propone di raccontare storie di assassini e di omicidi che si riallaccia alla tradizione del folk anglosassone. I brani “Stagger Lee” e “Henry Lee” sono proprio due riletture di brani tradizionali. Il disco ha comunque la sua caratterizzazione principale nei due duetti con due protagoniste femminili di primo piano come PJ Harvey, in “Henry Lee”, e la pop star Kylie Minogue, in “Where The Wild Roses Grow”. Sono molto belli i due video clip che sono stati realizzati e sono estremamente rappresentativi dell’interazione fra Cave e le due protagoniste femminili. Mentre nel video con Kyle Minogue è Nick a condurre le danze in una scenografia estremamente classica e molto Hollywoodiana, nel video con PJ la situazione si ribalta ed è lei a prendere possesso della scena. In “Where the wild...” Kayle rappresenta la bellezza e l’innocenza sopraffatta dal lato selvaggio ed incontrollabile di Cave. Questa canzone è diventata uno dei grandi classici del repertorio di Nick. “Henry Lee” invece è’ un video molto particolare e significativo pur nella sua semplicità, si tratta infatti di un'unica ripresa in cui compaiono solo i due protagonisti e la loro alchimia è incredibile; il video trasuda sensualità e la tensione fra i due e fortissima. In questo video è evidente che PJ ha carattere da vendere e in qualche modo si percepisce che non è una ragazza che le relazioni le subisce. Fra i due ci fu una breve storia sentimentale e pare che sia stata proprio lei a lasciarlo. È inevitabilmente un disco cupo che descrive una serie di omicidi e nefandezze, il canto corale del brano conclusivo di "Death Is Not The End" (che è una cover di Dylan) diventa quindi una sorta di liberazione che stempera la tensione accumulata nell’ascolto delle precedenti tracce. Nella traccia cantano: PJ Harvey, Kyle Minogue, Anita Lane e Shane MacGowan. È un lavoro interlocutorio e non è certo imprescindibile, ma complessivamente piacevole all’ascolto. (GF)


CAPITOLO 3

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NICK CAVE AND THE BAD SEEDS: 1997-2012 di Massimiliano Stoto La discografia “MINORE” di Nick Cave And The Bad Seeds nasce con l’uscita dell’album “The Boatman’s Call” nei primi giorni di Marzo del 1997. Non vogliatemene se la definisco minore, pur scrivendo l’aggettivo con lettere maiuscole e virgolettato, voglio proprio dire che la ritengo inferiore artisticamente ai dischi di cui ha parlato Giorgio. Li ritengo inferiori, ma li amo tutti, li ascolto piacevolmente e riconosco al leader e ai musicisti che lo accompagnano scelte compositive e produttive non comuni. Insomma per tagliare corto Nick Cave and The Bad Seeds non hanno mai sbagliato un disco. Giorgio lo ha accennato chiudendo il discorso su “Murder Ballads”, che definisce “disco interlocutorio ma godibile”. Ecco, la sintesi del suo giudizio si potrebbe applicare anche al resto della discografia, togliendo però il termine interlocutorio, giacché se dopo “Let Love In” il disco sulle “ballate dell’ assasinio” aveva spiazzato, dopo, tutto è rimasto fermo e cristallizzato. Standardizzato. Certo la scrittura è sopraffina, gli arrangiamenti spettacolari, la produzione è geniale e accurata, l’affabile crooner e il navigato blues man cambiano d’abito a comando, ma la sensazione è che il ragazzo si sia fermato lì. Fino a “Push The Sky Away” che rappresenta un nuovo inizio e prepara il terreno a indiscussi capolavori come “Skeleton Tree” e “Ghosteen”. A me il compito di parlarvi della discografia “MINORE” di Mister Cave, che senza ombra di dubbio potrebbe anche essere la sua più conosciuta e anche quella più rassicurante.

“THE BOATMAN’S CALL” (1997, MUTE Rec., LP, UK, STUMM 142) Se “Murder Ballads” si chiudeva con il pezzo corale non ché cover del contradditorio Dylan di “Down In The Groove”. “Death Is Not The End” era, alla sua maniera, un messaggio positivo, generalista e ben poco consolante. “The Boatman’s call” comincia con un pezzo in solitudine al piano “Into My Arms” e con un testo che è di fatto una canzone d’amore per una donna di cui si è perdutamente innamorati. C’è una donna in ogni canzone di questo disco e tendenzialmente chi scrive si rivolge a lei da innamorato, confidente, amante. I toni non si alzano mai. E’ un disco che di fatto si va ascoltare molto piacevolmente. Prova ne è anche la seconda traccia in programma “Lime Tree Arbour” dove entra la band, e l’organo contrappunta le trame di pianoforte. “People Ain’t No Good” comincia con il piano e viene sorretta dalla band ma non mi convince pur riconoscendogli una trama credibile. “Brompton Oratory” è un grande classicone del disco, viaggia su un’anima d’organo e una ritmica di batteria minimale. “There Is A Kingdom” è debole ed è una delle poche canzoni della storia di Cave, dove non mi piace nemmeno


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la sua voce, eccessivamente dolciastra. “(Are You) The One That I’ve Been Waiting For?” e “Where Do We Go Now But Nowhere ?” restituiscono un po’ di pathos. La prima è costruita su pochi accordi di chitarra e ha una ritmica ridotta all’essenziale, mentre la seconda nasce dal piano e muore sul violino di Ellis. Ballatona epocale, questa, che sfiora i seiminutisei, dove c’è tutta l’essenza pura del Nick Cave più distillato. Perfetto nel suo saper interpretare alla perfezione pezzi del genere con la sua voce profonda e drammatica. E poi gli svolazzi tzigani di Ellis qui al suo primo vero ruolo da protagonista nei Bad Seeds. “West Country Girl” è il pezzo più tirato del disco, violino e chitarra che si sfidano nell’intro, ritmi da duello sotto il sole di Tucson e voce intimidatoria da sermone domenicale. “Black Hair” è solo voce e fisa. La canzone più nera del disco. Una delle più belle. Recitata più che cantata. “Idiot Prayer” ci riporta a certe sonorità di “The Good Son”, è questo il pezzo, forse il primo del disco, in cui si sentono tutti i Bad Seeds, fianlmente chiamati a essere se stessi e non a suonicchiare. “Far From Me” è un bel pezzo minore, uno di quelli che non si fanno ricordare ma che misurano la stoffa degli interpreti, anche qui piano, organo liquido, ritmica d’accompagnamento e violino di Ellis a dominare la seconda parte del pezzo. A chiudere “Green Eyes” che, ad essere onesti, ce la poteva anche risparmiare. Un bel disco ma non eccelso.

“NO MORE SHALL WE PART” (2001, MUTE Rec., LP, UK, STUMM 164) esce nel del 2001, in Aprile. Un disco, prevalentemente, di racconti e passeggiate in posti attorno a William Blake e Charles Dickens. Abbastanza scuro e sinistro da rendere il messaggio esplicito fin da subito, “l’apparente bellezza nasconde sempre brutture”. Tanto per fare un esempio, sul finale della canzone che apre il disco, la bellissima, “As I Sat Sadly By Her Side”, Nick canta “…i dolori gli si accumulano accanto, brutti, inutili ed esagerati”. Il trittico iniziale è da capogiro, fra la già citata “As I Sat Sadly By Her Side”, “And No More Shall We Part” e “Hallelujah” non saprei quale scegliere e solo con queste se ne vanno diciotto dei sessantotto minuti del disco. Disco lungo quindi. Dopo l’assolutamente prescindibile “Love Letter”, non me ne vogliano Harvey e Ellis da cui pare sia stata “salvata” in quanto il capo ne era arcistufo, parte “Fifteen Feet Of Pure White Snow” cucinata “alla cacciatora” dagli antichi Bad Seeds. In “God In The House” Cave dà il meglio del suo recitato/cantato dickensiano supportato da Ellis. “Oh My Lord” e i suoi setteminutietrenta è sbattuta dagli antichi furori dei Seeds più devastanti e dal violino di Ellis oramai strumento protagonista nella band. La parte finale del disco è caratterizzata dal pianoforte infatti “Sweetheart Come”, è una vecchia ballata (accreditata addirittura a Cave/Adamson) per piano e violino, “Sorrowful Wife” è una ballata per solo piano e finale fiammeggiante, “We Came

Photo by Anton Corbijn


Along This Road” è una ballata per piano e archi romanzati, e a chiudere “Gates To The Garden” e “Darker With The Day”, altre ballate per piano, che nel cantato sono aiutate dalle sorelle Kate e Anna McGarrigle. Un disco caratterizzato da piano e archi quindi, tutti arrangiati dalla ditta Harvey & Ellis, il cui elevato valore è dettato dalla scrittura di testi, musiche e arrangiamenti. “The Good Son” è irraggiungibile ma siamo da quelle parti. “NOCTURAMA” (2003, MUTE Rec., LP, UK, STUMM 207) Dopo due album registrati negli studi di “Abbey Road” a Londra, “Nocturama” viene registrato in un tempo relativamente breve nel Marzo del 2002 a Melbourne in Australia per poi uscire nei primi mesi dell’anno successivo. E’ un disco contraddittorio nel senso che riflette sicuramente tutte le caratteristiche compositive dei Bad Seeds e del loro leader, ci sono le ballate e le tirate punk blues, quello che non c’è a mio avviso, sono le canzoni, che non sono tutte all’altezza della fama di Nick Cave. E’ un disco a cui manca un orientamento ed è fatto sicuramente con tantissimo mestiere. Non mi sento però di bocciarlo in toto, lo ritengo però l’ultimo gradino della discografia dei nostri. Tra gli episodi da citare, sicuramente le tre ballate iniziali e la spesso criticata “Bring It On”, che a me piace molto invece. Certo è molto semplice e furba, ma è un brano che nella discografia del nostro non trovi praticamente mai, e col senno di poi non mi sembra tanto meno furba della celebrata “Palaces Of Montezuma” dei Grinderman. E poi è cantata con Chris Bailey dei The Saints, quindi è anche un bel gesto di amicizia. Anche “Rock Of Gibraltar” è di un buon livello, come la conclusiva “Babe, I’m On Fire” che mantiene un furore irrefrenabile per quattordici minuti in un flusso di coscienza dylaniano prestato al punk blues. Il resto è solo tanto mestiere. “ABBATOIR BLUES/THE LYRE OF ORPHEUS” (2004, MUTE Rec., LP, UK, STUMM 233). Registrato a Parigi e prodotto con Nick Launay, come il precedente, il primo disco doppio di Nick Cave And The Bad Seeds conta 17 pezzi per una durata che supera di poco gli ottanta minuti. E’ un disco che mette pace fra Cave e

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i fans, in molti erano stati delusi da “Nocturama”. In effetti è un disco di qualità decisamente migliore, si respirano i vecchi tempi, i Bad Seeds sono più selvaggi e i cori del London Community Gospel Choir rendono molte canzoni assolutamente convincenti oltre a dare un tocco diverso. La fulminante “Get Ready For Love”, “Hiding All Away”, “There She Goes, My Beautiful World” per esempio guadagnano immediatamente da questa novità. La prima parte del disco ha anche testi molto lunghi, “Nature boy” che è un pezzo quasi indie rock, dove Cave gigioneggia con tutto il suo “savoir faire” e Conway Savage suona il piano strizzando un occhio agli Stones più honky tonk, dura 5 minuti….Dicevamo dei Bad Seeds dei primordi. Appaiono nitidi in “Get Ready For Love”, in “Hiding All Away”, nel lamento di “Fable Of Brown Ape” e nel controllato furore di “Cannibal’s Hymn” che in altri dischi sarebbe solo diventata l’ennesima bella ballata alla Nick Cave. Nel mazzo ci stanno la title track “Abbatoir blues” e “Messiah Ward” mentre “Let The Bells Ring” non mi dice proprio niente nel suo tentativo di essere a metà tra una ballata e una sfuriata elettrica. Incompiuta. La seconda parte denominata “The Lyre Of Orpheus” comincia con una rilettura divertentissima, nel testo, del mito di Orfeo e Euridice. Il pezzo è un blues cristallino, le parole di Cave che sono molto ironiche e confermano così la famosa dichiarazione di PJ Harvey a proposito del lato ilare dell’australiano che contraddice l’impressione scura che si ha di lui. Ed eccovi un paio di estratti dalla traduzione di Anna Mezzanotte dal sito nickcave.it ”Orfeo strimpellò


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fino a che le sue dita sanguinarono / arrivò fino a un Sol 7 minore / svegliò Dio dal suo profondo / profondo sonno / Dio era un suonatore importante in Paradiso / O Mamma O Mamma / Dio prese un martello gigante / e lo scagliò con un urlo tonante / si abbatté violentemente sulla testa di Orfeo / e lo sbatté giù dentro un pozzo / O Mamma O Mamma” e poi “Euridice apparse tutta macchiata di sangue / e disse ad Orfeo / Se ti metti a suonare quella fottuta cosa qui giù / te la ficcherò su nel tuo orifizio / O Mamma o Mamma”. C’è un grande lavoro di Warren Ellis nelle canzoni di “Lyre Of Orpheus”, si sente parecchio, che armeggia con i suoi strumenti (violino, bouzuki, flauto, mandolino) e le infarcisce e caratterizza con piccoli particolari. E’ il violinista che sostituisce Blixa Bargeld, per la prima volta assente, come spalla di Cave. Ma alcune canzoni a me non convincono appieno, alcune sono sufficienti o appena sufficienti ad essere buoni. Parlo di “Breathless” fra le peggiori assieme alla seguente “Babe, Your Turn Me On” e a “Spell”. Meglio invece la lunga ballata “Easy Money” che ha molto fascino pur non essendo fra le sue migliori e la cavalcata di “Supernaturally”. Delle due gemelle che chiudono l’album “Carry Me” e “O Children” ne parla Kurt in chiusura, io aggiungo solo che sono due canzoni disturbanti, in cui la mano di Ellis si sente a dovere e dove l’uso del coro è determinante. In definitiva un bel disco che poteva anche essere migliore se si fossero tagliati 4/5 pezzi abbastanza inutili. “B-SIDES & RARITIES” (2005, MUTE Rec., EU, LCDMUTEL 11). Di solito nelle discografie preferisco non parlare di questo tipo di raccolte, per questa faccio un’eccezione, perché qualche frase la merita. Non voglio certo perdermi nella descrizione dei tre dischetti che sono contenuti nel box o digipack che potete recuperare, ma sappiate che all’interno tra covers, versioni alternative e rarità quello che emerge è il Nick Cave più istintivo e i Bad Seeds più selvaggi. C’è qualche perla e tanta buona roba, più di qualcosa poteva rimanere nel cassetto e un cd doppio sareb-

be bastato. Comunque è una raccolta che consiglierei a chiunque possieda almeno un tre dischi del nostro, in definitiva un prodotto non solo per fans accaniti, direi medi. “DIG, LAZARUS, DIG !!!” (2008, MUTE Rec., LP, UK, STUMM 277). L’andamento psych-blues, il basso di Martin P.Casey tenuto molto alto, un mood sonoro che lega tutti i pezzi, rendono questo disco un treno che viaggia spedito in una landa abitata dai soliti spettri di Nick Cave, che in questo giro abbraccia la chitarra elettrica e abbandona il pianoforte, il suo strumento eletto. Mi viene da pensare che se non avesse preso le vie pianistiche che da “The Good Son” in avanti hanno caratterizzato tanti pezzi di Nick Cave, la strada intrapresa in questo disco sarebbe stata quella che Cave e la band avrebbero battuto, magari non avrebbero raccolto nemmeno una minima parte de il successo che si sono conquistati ma credo proprio che sarebbero finiti a fare ripetutamente e ossessivamente questa roba. “Albert Goes West” credo sia la canzone più scadente dell’album, con le sue venature psichedeliche pseudo sixties, non mi convince per nulla. Il resto come detto è roba dal valore un po’ altalenante ma fissata in un idea di suono. Certo non ci trovate le consolanti ballate al piano e il Cave più istrionico, ma una band che fa una cosa, quella, dall’inizio alla fine. Non ci sono altri album della band così. Per questo motivo “Dig, Lazarus, Dig !!!” non è un capolavoro ma senza ombra di dubbio un disco coerente.


“PUSH THE SKY AWAY” (2012, BAD SEED, LP, EU, BS001). Non proprio un disco di canzoni. Ma di sicuro la prima pietra o se preferite le fondamenta su cui si ergeranno “Skeleton Tree” e “Ghosteen”. Distante galassie dal suono del precedente disco “Push The Sky Away” è caratterizzato da un elegiaco suono freddo e distante, non fatevi ingannare da alcune belle trame, di romantico qui non c’è nulla…e Cave ha intrapreso la sua personale discesa all’inferno. Dalla morte del padre in un incidente, quando lui era appena diciotenne, Nick ha continuato a raccontarci il dolore, la morte, il senso della perdita mascherati dalle sue grandi capacità di scrittura. Ma ha solo girato intorno al buco nero che aveva dentro. Per colmarlo ci ha buttato il blues, il punk, Elvis, Dickens, Blake, il Brasile, Berlino, la droga e tutte le sue storie d’amore, ma il buco non si è mai riempito….e con questo disco ha incominciato a “scendere nell’abisso per affrontare il leviatano” (questa l’ho presa da Bianconi). Cosa volete che vi descriva ? Un dolore ? Un inferno di ghiaccio ? Non ce la faccio. Ma una cosa ve la dico, avendo dimestichezza con la musica di questo gigante e dei suoi sodali, un disco del genere prima o poi doveva uscire, perché in molti passaggi li senti che sono lì nascosti nella nebbia i nostri Bad

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Seeds. Perché lo senti che il lavoro di una band non nasce e muore ad ogni disco, ma ogni disco è un percorso di crescita e evoluzione. E anche di sottrazione. Questo è un disco dei Bad Seeds più di quanto appaia e si dica, nelle parti più nascoste vien fuori tutta la loro storia, la loro esperienza, il loro suono e la loro evoluzione. Poi certo la mano di Ellis è determinante ma pur in edizione ridotta quasi all’osso, Blixa è lontano, Savage fa solo i cori, viene recuperato al basso Barry Adamson ma solo per un paio di pezzi, sanno concepire un disco che sa accompagnare la loro guida spirituale nelle sue viaggio più oscuro. Quello che purtroppo Cave non si aspettava è che una volta giunto sul fondo avrebbe dovuto cominciare a scavare perchè il reale viaggio di dolore era appena cominciato. Se non si è capito un capolavoro. Conclusione veloce. Ritengo la discografia pubblicata da Nick Cave And The Bad Seeds fra il 1997 e il 2012 dal valore complessivamente buono. Il gruppo e il suo leader carismatico hanno prodotto sicuramente un capolavoro “Push The Sky Away”, un grande disco “No More Shall We Part” e uno più che buono “Dig, Lazarus, Dig !!!” e inciso, sparse in dischi comunque non meno che sufficienti, almeno una dozzina di grandi canzoni. (MS)


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FANTASMI D’OLTRE CONFINE Nick Cave, da Skeleton Tree a Ghosteen

CAPITOLO 4

di Agostino Roncallo

“Skeleton Tree”, il penultimo album di Nick Cave,

Loops, Cori; Thomas Wydler – Batteria; Mar-

si presenta in una confezione del tutto minimali-

tyn P. Casey – Basso; Jim Sclavunos - Per-

sta: la copertina nera riporta solo i titoli delle otto

cussioni, Vibrafono, Campane [Campane Tu-

canzoni in un carattere verde molto simile a quel-

bolari], Cori; George Vjestica - Chitarra acu-

lo dello schermo di un computer IBM d’altri tem-

stica, Cori. Mancano Mick Harvey, che ha

pi. La busta interna ci mostra un Cave ritratto

lasciato la band nell’ormai nel 2009 e Blixa

mentre usa il pianoforte come fosse uno scrittoio,

Bargeld fuoriuscito nel 2004.

è l’unica immagine dell’artista in questo disco

La morte del figlio Arthur sembra aver ripor-

registrato da Nick Launay e Kevin Paul e mixato

tato il tema del lutto al centro della sua musi-

da Nick Cave, Warren Ellis, Jim Sclavunos, Ke-

ca anche se la composizione dei pezzi di

vin Paul e Jake Jackson.

“Skeleton Tree”, stando a quanto ha dichia-

Cave scrive testi ricchi di suggestione e compo-

rato lo stesso Cave nel documentario che

ne la musica insieme a Warren Ellis, il violinista

racconta la lavorazione del disco, “One More

del gruppo Bad Seeds con il quale collabora or-

Time With Feeling”, in realtà è cominciata

mai da anni. La line-up dei Bad Seeds in questo

prima della tragedia.

disco è: Nick Cave - Voce, Piano, Piano Elettrico

Nella prima composizione, “Jesus Alone”, la

(Wurlitzer), Sintetizzatore, Vibrafono, Cori; War-

musica è scarna, essenziale, caratterizzata

ren Ellis - Sintetizzatore, Loops, Piano Elettrico ,

dal suono di sintetizzatori che creano atmo-

Piano, Chitarra Baritono, Violino, Viola, Batteria,

sfere cupe e notturne. Inizialmente ci trovia-


mo di fronte a un parlato ipnotico che lievita tuttavia nella parte finale: “Sei un vecchio uomo se-

duto accanto al fuoco / Sei un velo di lacrime che si alza dal mare / Sei un ricordo lontano nella mentre del tuo creatore / Non vedi? / Con la mia voce / ti sto chiamando.” “Rings of Saturn” è una allucinazione che racconta di una medusa che arriva in alto e si lascia dondolare come il sogno di un bambino dagli anelli di Saturno. Un’immagine efficace accompagnata da una musica potente, circolare, evocativa. Non mancano tuttavia riferimenti agli aspetti

più dolorosi del vivere sociale: “O forse ho un nodo alla gola troppo stretto per finire di bere e ingoiare il dolore / Pensavo che la schiavitù fosse stata abolita / Com'è possibile che sia sparita e si sia ripresentata? “ Un piano Wurlitzer ci introduce poi in “Girl in Amber”, un pezzo bellissimo e intensissimo per le sfumature della voce di Cave e per la coralità che l’accompagna, costruito intorno alla splendida immagine di una ragazza intrappolata nell’ambra:

“E se vuoi sanguinare, sanguina pure / E se vuoi sanguinare, non dire una parola / allontanati soltanto, e lascia che il mondo giri.” Un mondo che gira come la stessa canzone di Nick e come un disco, ascoltato nel 1984 (ma quale sarà il riferimento?): “E se vuoi andartene, non respirare / E se vuoi andartene, non respirare, non dire una parola / E lascia che il mondo giri.” “Magneto”, altro brano notevole, allude al passato da eroinomane di Cave. Qui il suono è molto

profondo, un unico respiro, e lo stupore nasce nel cogliere tra gli effetti del synth, il suono di una chitarra acustica, pulitissimo e dolcissimo. Liricamente è molto intensa la parte conclusiva: “Di amore, io amo, tu ami, io amo, tu ami, io rido, tu ami / Mi muovo, ti muovi, ti muovi, e ancora una volta con sentimento / Io amo, tu ami, io rido, tu ami / Ci siamo recisi a vicenda il cuore e tutte le

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stelle sono spruzzate e schizzate sul soffitto”. Si arriva così ad “Anthrocene” dove la ritmica incalzante dipinge uno scenario apocalittico e riflette sul modo in cui gli esseri umani hanno stravolto il clima del pianeta Terra. Lo sviluppo del brano porta in evidenza la limpidezza del pianoforte accompagnato, per contrasto, d percussioni giocate sulle tonalità basse. Dal punto di vista contenutistico, il testo pare un invito a resistere al degrado del pianeta: “Dai,

forza / trattieni il respiro finché non sarai al sicuro / La via del ritorno è lunga e ti sto pregando / di venire a casa adesso, vieni a casa adesso. “I Need You” è un brano guidato da un cupo sintetizzatore, ha un incedere marziale e una coralità in crescendo. Nell’album la parola “love” ricorre in modo ossessivo e c’è un perenne senso di perdita, di distacco: “Ho bisogno di te / Perché nulla importa davvero / Nella

notte siamo deragliati come un treno.” “Distant Sky” è una composizione arricchita dalla splendida voce femminile di Else Torp: “Andiamo adesso, mio caro compagno / Partiamo per cieli lontani / Guarda il sole, il sole che sorge / Guardalo sorgere nei tuoi occhi.” L’album si conclude con la bucolica di “Skeleton Tree”, una canzone catartica, ambientata una domenica mattina. Per la prima volta, emerge un piccolo spiraglio di luce, dopo


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tanta tenebra: “Domenica mattina, albero scheletrico / schiacciato contro il cielo / La TV nervosa / brilla bianca come fuoco / E ho gridato, ho urlato / per l'oceano intero / Ho gridato, urlato / che tutto ha un prezzo / E va tutto bene ora.” Nel finale sembra svanire velocemente, lasciando intatto il senso di turbamento provato all’inizio dell’album. Fare paragoni non è mai corretto ma, timidamente, è difficile resistere alla tentazione di pensare che “Ghosteen” sia l’album più bello di Nick Cave. Ma non solo, siamo in presenza di un’opera d’arte dal valore simbolico per più motivi, in primis per i temi trattati. L’artista ha qualcosa di profondo, qui, da comunicare e la composizione non è un gioco ma pura espressione di un’identità, di un sé alla ricerca di una spiegazione del mistero della vita e del modo di esprimerla attraverso la musica. Morte e resurrezione sono infatti i contenuti di un disco dedicato al figlio Arthur, di 15 anni, morto quattro anni prima. Anche il precedente album Skeleton Tree era stato da molti collegato a questo evento ma, come ha affermato lo stesso autore, esso era stato invece composto prima della morte del ragazzo. “Ghosteen” è un disco doppio, registrato tra la California, Brighton e Berlino, ricco d’immagini bibliche. Il primo cd, secondo quanto ha spiegato

Cave, sono le “canzoni dei bambini”, il secondo quelle dei “genitori”. Difficile dire perché ma cer-

to vedremo di tentare una spiegazione. I pezzi del primo disco sono davvero essenziali: voce, pianoforte, tastiere che creano un evocativo “tappeto” sonoro. Ma ciò che colpisce è soprattutto la voce, una voce interiore, oscillante tra il parlato, il cantato e il sussurrato, una voce che viene dal profondo del cuore e che sembra spezzarsi improvvisamente nell’impossibilità di proseguire. E davvero, le canzoni hanno uno sviluppo anomalo, non possiedono una vera e

propria chiusura ma si interrompono come se la tensione fosse insostenibile. Sotto l’impulso di un lutto personale, Nick Cave trova nuove strade compositive verso inesplorate regioni di confine. Ma non si deve dimenticare il ruolo del gruppo che da tempo segue questo artista: i Bad Seeds. Warren Ellis, leader nascosto, ha una profonda sensibilità che gli permette di dialogare con l’universo di Cave, di interpretare ciò che l’artista intende comunicare. A lui si devono arrangiamenti

mai banali, quasi che la musica diventasse lo specchio di un’intimità, la sua realizzazione. L’album si apre con “Spinning song”, i sintetizzatori lanciati nell’etere ad accompagnare la voce dell’artista che gradatamente diventa un coro che, con andamento circolare, si alza da terra e diventa falsetto. La composizione è dedicata a Elvis Presley, è lo stesso Cave a spiegarlo:


“Mentre uscivo dal cinema, rimasi con queste tre immagini: il volto mortificato, striato di lacrime di

Elvis; la sua testa che pendeva in triste accettazione; e le sue braccia con il cappuccio distese in trionfo. Queste sono le tappe del passaggio di Cristo sulla croce, l’angoscia, la sofferenza e la risurrezione, un viaggio che ci accoglie tutti, nel tempo. Elvis ha continuato a esibirsi fino alla fine. Ai miei occhi, era una specie di angelo, terribilmente umano ma divino nella sua forza che toccò così tanti cuori. Era fallibile e simile a Dio allo stesso tempo. Si è crocifisso sul palco a Las Ve-

gas, centinaia e centinaia di volte. I suoi ultimi anni sulla terra sono stati tristi e soli ma le sue esibizioni a Las Vegas erano epici trionfi della trascendenza umana, gli angeli guardavano dall’alto colui che era caduto così in basso, e poi alzarono lo sguardo verso dove era asceso.” Nick Cave rivede, nell’esperienza di Elvis, la vicenda di suo figlio e la canzone, è una dichiarazione d’amore per entrambi, un testo che tocca i vertici del lirismo nel finale: “Ed io ti amo / io ti

amo / la pace verrà / arriverà la pace, a suo tempo / un tempo verrà / verrà un tempo per noi”. La seconda traccia è “Bright Horses”, il brano inizia con un piano, un sintetizzatore e un coro in falsetto, nessuna percussione, poi entra la voce

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di Nick ed è una voce intensissima, profonda e piena di sfumature. Quando la voce cessa il coro riprende fino a sovrapporsi e a salire di intensità con un ritmo circolare, i volumi si alzano, si dilatano fino a spegnersi in un finale che parla di un ritorno, qui la voce di Cave è ancora accompagnata dal pianoforte: “Oh, il treno sta arrivando, ed io sto qua a guardare / Sta riportando il mio bambino / Sì, ci sono cose difficili da spiegare / Ma il mio bambino sta tornando a

casa, col prossimo treno”. Il terzo brano “Waiting For You” inizia con un pianoforte picchiato, l’attesa disperata è concentrata tutta nel battito delle dita sul quel piano: “Guidammo attraverso la notte, il vento le scompigliava i capelli / Parcheggiammo vicino a una spiaggia nell'aria fresca della sera / A volte è meglio non parlare / Il tuo corpo è un'ancora che non chiede di esser levata.” La vita, nel testo di Cave, ha ancoraggi che non possono essere rimossi; quel figlio è ancora dentro di lui e quel legame è così forte da lasciare una certezza, quelle del ritorno: “La tua anima è la mia àncora, che mai vorrei levare / Dormi ora, dormi quanto hai bisogno / Perché io ti sto aspettando / Sto aspettando il tuo ritorno.” “Night Raid” inizia con rumori di fondo, un pianoforte ricco di effetti, una sorta di battito metallico giocato sui bassi, alla voce di Nick Cave si sovrappone un coro nel quale spicca un’angelica voce femminile. Il testo è molto lirico e contiene una citazione della Pietà di Michelangelo: “C'è un quadro di Gesù fra le braccia di sua madre / Finestre chiuse, auto-


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mobili che ronzano giù in strada / La fontana pulsava nella hall del Grand Hotel”. Il pezzo successivo, “Sun Forest”, inizia invece con una lunga introduzione del sintetizzatore che crea un effetto elegiaco e sognante, portandoci in una atmosfera rarefatta; ritroviamo qui l’immagine fiabesca della copertina del disco: “Giacevo nella foresta tra le farfalle e le lucciole / Cavalli lucenti ed alberi fiammeggianti.”. Poi la voce sale, un coro di voci la segue e il refrain possiede un’intensità coinvolgente e drammatica: “Una spirale di bambini sale verso il sole, verso il sole / In ogni gradino dorato, una spirale di bambini sale verso il sole.”. Siamo all’apice di una composizione bellissima. Nel finale c’è uno stacco, entra una voce in falsetto che chiude il pezzo con accenti di notevole lirismo: “Io sono affianco a te / Cercami nel sole / Io sono affianco a te, sono dentro di te / Nella luce del sole / Nel sole”. Poi “Galleon Ship”, un canto gospel in cui si parla di resurrezione: è un brano che trasmette maggiore serenità e sembra una versione aggiornata di “When The Ship Comes In” di Bob Dylan. L’effettistica è anche qui molto accentuata, inizialmente la sensazione è straniante e il coro ha un impasto di voci più caldo. Nel finale il suono del pianoforte è invece pulito, danza leggero sulle ultime note e su un testo che racconta di un viaggio verso il cielo: “Mio amore prezioso / Staremo a guardare i galeoni / Roteare intorno al sole mattutino.” “Ghosteen Speaks” è un dialogo, musicalmente strut-

turato in un crescendo ritmico, con il sintetizzatore a fare la parete del leone, si aggiungono

poi i cori in un climax ascendente di suggestiva intensità lirica: “Credo che i miei amici si siano riuniti qui per me / Penso che si siano riuniti qui per me / Per essere affianco a me / Cercami, cercami / Io sono affianco a te, tu sei affianco a me / Sei affianco a me, cercami.”. Il primo cd si conclude con “Leviathan”, il Leviatano è un mostro marino dalla leggendaria forza che dal punto di vista allegorico rappresenta spesso il caos primordiale, la potenza priva di

controllo. Vi sono alcune percussioni dal suono cupo e profondo, poi nella seconda parte il refrain diviene corale e intensissimo, è una circolarità che sale verso l’alto in un paesaggio marino e surreale: “È immenso e selvaggio ed è profondo come il mare, il mare / E ora il sole affonda nell'acqua, ora, ora / Amo il mio bambino e il mio bambino ama me”. Il secondo CD si apre con “Ghosteen”, la titletrack dell’album. Qui il tema non è più quello dei

figli ma quello dei genitori e in effetti il testo racconta di tre orsi che guardano la televisione. Mamma orsa tiene in mano il telecomando, papà orso fluttua nell’aria e il piccolo orso non c’è più. È andato sulla luna su una barca. Il riferi-


mento è ancora una volta il figlio Arthur, precipitato da una scogliera nel luglio del 2015 mentre era

sotto effetto dell’LSD. Il pezzo dura ben 12 minuti con un arrangiamento maestoso ed elegante su cui Cave inizia a cantare solo dopo 4 minuti. Si giunge così al penultimo pezzo, “Fireflies”, un monologo che si distende su un tappeto musicale a tratti cupo ma anche intriso di romanticismo. Il finale si conclude con una domanda che sembra provenire dagli stessi genitori del ragazzo: “Noi siamo qui e tu sei dove sei”. In “Hollywood”, l’ultimo brano, arrangiamenti or-

chestrali e loop elettronici aprono la strada alla voce di Cave, che rievoca la vicenda di Kisa

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Così la donna, iniziò a girare di casa in casa non riusciva a trovare una famiglia che non avesse perso almeno un familiare. Alla fine realizzò che nessuno è immune alla morte. I protagonisti di questo secondo disco sono dunque genitori che come Nick Cave hanno perso un figlio, la prospettiva dunque cambia e lui utilizza storie diverse per raccontare il suo dolore. L’album si conclude con questa strofa: “È un lungo cammino, la ricerca della pace mentale / Ed io sto aspettando il giorno in cui arriverà la mia pace”.

Gotami, protagonista di una delle più famose parabole buddhiste. Kisa era la moglie di un ricco commerciante e quando la sua unica figlia morì era così disperata che chiese a chiunque se qualcuno potesse aiutarla. Allora un anziano le disse che aveva visto il Buddha e gli aveva suggerito che se lei avesse voluto salvare la propria bambina avrebbe dovuto trovare semi di senape bianca

in una casa in cui non fosse morto mai nessuno.

“Sotto il cielo di Memphis” è il nuovo progetto musicale di Michele Anelli. Michele è in giro da più di trent’anni, ha diviso la sua carriera fra passione per il rock’n’roll e l’impegno civile, parlando frequentemente nei suoi pezzi di tematiche sociali in particolar modo legate al mondo del lavoro. Il nuovo progetto consiste nella produzione di un 45 giri, già registrato ai famosi Fame Studios in Alabama e di un vinile/cd con otto pezzi da registrare in Italia con i Goosebumps Brothers. Per avere maggiori dettagli su come poter sostenere l’operazione potete seguire il profilo facebook di Michele Anelli o il sito www.produzionidalbasso.com dove il progetto è spiegato minuziosamente.

(AR)


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SU E GIU’ CON NICK CAVE AND THE BAD SEEDS

CAPITOLO 5

Cronache di un fan e disgressioni sulle pubblicazioni dal vivo

di Massimo “Nana” Toscani Photo by Peter Milne

"Amare Nick Cave non vuol dire amare una canzone o un album, ma amare un personaggio, un discorso, un metodo: una maniera assai rara di combinare felicemente riservatezza e passione, cuore e intelligenza, successo e amore per i fan." Analizzare la carriera live del Nostro è alquanto impegnativo quindi ho deciso umilmente di percorrere la strada dell'esperienza personale. Primo concerto visto fu al Rolling Stones di Milano nel maggio 1989 per il tour di "Tender Prey" con Thomas Wydler alla batteria, Mick Harvey chitarra, Blixa Bargeld chitarra e voce e Roland Wolf alle tastiere. Un concerto energico, poderoso, senza un attimo di tregua con Nick che vomitava parole in pieno stile punk, con quello sguardo demoniaco che ti fissa e tu non hai nessuna via di uscita, sei suo prigioniero. Ricordo benissimo una infuocata versione di "Deanna" ma soprattutto "The Mercy Seat" che diventerà un classico dal vivo ed è anche una delle ultime canzoni scritte in coppia con Mick Harvey. Passano 12 anni e rivedo il Nostro nel giugno 2001 per il tour di"The Boatman's Call". Con questo tour trovo che Nick Cave abbia due anime live, quella più rock e quella più intimista e religiosa. L'anima rock sostenuta alla grande dai Bad Seeds con l'acquisto del violinista/polistrumentista Warren Ellis che prenderà sempre di più il ruolo di leader nei Bad Seeds e con un Blixa Bargeld sempre più nella parte di ospite di lusso dove ogni volta che tocca la chitarra sembra un'altra band nella band. Al contrario quando Nick si siede al pianoforte per canzoni come "God is in the House" nel pubblico cala un silenzio di tomba dove perfino respirare può sembrare rumoroso. Passano gli anni ed ogni volta che Nick viene in Italia non faccio mai mancare la mia presenza fino al concerto del Forum di Milano nel 2017. Ed è il concerto perfetto! Tutta la band sul palco è vestita con un elegante completo nero come il suo front-man che can-

ta quasi sempre fuori dal palco su una passerella attaccata alla transenna dove ci siamo noi con altre decine di mani protese che vengono toccate, sfiorate, strette anche con una certa forza, portate al petto per sentire il suo cuore e usate per essere sorretto quando si lascia andare letteralmente sulla gente. Il concerto inizia con le tenebrose "Anthrocene","Jesus Alone" e "Magneto" da "Skeleton Tree" ma con "Higgs Boson Blues" esplode letteralmente come una bomba, se nei primi tre brani Nick camminava solamente avanti e indietro fissando occhi, toccando e stringendo mani, con questo brano comincia a buttarsi sul pubblico (posso dire di aver preso una ginocchiata in testa da Nick Cave!). "Can you feel my heart beat? BOOM BOOM BOOM" grida Nick ed il pubblico schiavo del suo volere ripete "BOOM BOOM BOOM" trascinando il pezzo in un finale da brividi con il solo basso ad accompagnare questo mantra, mentre prende decine di mani e le porta sul suo petto, nel suo cuore. Sembra già di aver raggiunto l'apice della performance ma "From Here To Eternity" fa capire quale affiatamento hanno i Bad Seeds: energici, poderosi, infuocati, rabbiosi e perfetti con un Warren Ellis che suona il violino come una chitarra e sembra posseduto da un Hendrix a sua volta posseduto da un demone folle, il perfetto compagno di musica ed alter ego di Nick e poi Marty Casey al basso, Thomas Wydler alla batteria, Jim Sclavunos alle percussioni, Conway Savage alle tastiere, George Vjestica alla chitarra e Larry Mullins all'altra batteria. "The King Was Born In Tupelo!" grida


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Nick ossessivamente nel brano "Tupelo" ricordando a tutti che il rock'n'roll è nato e morto con Elvis, e come si fa a non essere d'accordo con Lui. A seguire "Jubilee Street" con un finale lasciato ai Bad Seeds al limite del noise più estremo con una spruzzatina di psicadelia. Ora è il momento di quattro ballate al pianoforte; "The Ship Song", "Into my Arms", Girl in Amber" e "I Need You", in particolar modo "Into My Arms" viene cantata da tutto il palazzetto ed è la canzone perfetta da dedicare ad una donna o per essere usata come colonna sonora ad un funerale. Il pubblico è appagato, soddisfatto, felice e turbato nello stesso momento ma non è finita. "Red Right Hand", "The Mercy Seat", "Distant Sky" cantata con la soprano Else Torp e "Skeleton Tree" concludono un concerto straordinario e la sensazione è che nessuno pretenda di più da un performer come Nick Cave, eppure arrivano i bis con "The Weeping Song" dove verso la fine della canzone l'ultima barriera tra performer e pubblico viene abbattuta, Nick scende dal palco e si incammina in mezzo alla gente per raggiungere una pedana dove chiama a raccolta il suo pubblico a battere le mani a tempo come un direttore d'orchestra...estasi...delirio...e sulla murder song "Stagger Lee" fa salire sul palco un centinaio di persone ed il colpo d'occhio è fantastico; da una parte la platea e dall'altra la gente sul palco che copre addirittura la band e Lui al centro a cantare insieme "Push the Sky Away" a concludere un live pazzesco. Se non avete mai visto Nick Cave & The Bad Seeds avete una lacuna da colmare, uno degli artisti più intensi che una persona possa sognare di vedere dal vivo. Grazie Nick. (M ”N” T)

DISCOGRAFIA LIVE

1993 - LIVE SEEDS. Primo album live registrato parte in Australia e parte in Europa. Straordinaria versione di “Mercy Seat” oltre al duetto vocale tra Nick e Blixa su “Weeping Song”. 2007 - THE ABATTOIR BLUES TOUR. Registrazione del tour tenuto nel 2004 in varie città europee con un brano registrato a Milano, “Easy Money”. 2008 - LIVE AT THE ROYAL ALBERT HALL. Testimonianza del concerto del 19 e 20 maggio 1997 per il tour di “The Boatman's Call” 2013 - LIVE FROM KCRW. E' un live registrato durante una trasmissione radiofonica a Los Angeles. 2020 - IDIOT PRAYER ALONE AT ALEXANDRA PALACE. Concerto per solo piano e voce registrato nel mese di giugno a Londra in periodo di lock down. Performance pensata inizialmente come concerto in streaming ma fortunatamente viene poi pubblicato anche sui classici supporti. Nei 90 minuti veramente intensi pesca dal suo repertorio oltre ai classici anche brani minori mai suonati prima, un paio di brani dei Grinderman ed un inedito dal titolo "Euthanasia. Disco consigliatissimo.


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GRINDERMAN “BREAKING BAD”

CAPITOLO 6

di Dj Kremlino

Capita di voler rompere schemi, di rovesciare percorsi, di cambiare rotta. D’altronde per chi incide un disco, ad inizio della sua carriera solista, come “Kicking Against The Pricks” del 1986 fatto di sole cover (bellissimo ed emozionante anche a 34 anni di distanza, e tra i miei preferiti), problemi a mettersi in gioco e a rischiare non ne ha mai, evidentemente, avuti E non assilla più di tanto il motivo, la scintilla che ha mosso Nick Cave a cambiare sound e a tornare all’assalto frontale dei primi anni con un’attitudine (punk?) alla The Birthday Party, con il progetto Grinderman: “crisi” di mezza età di un cinquantenne (di allora)? Voglia di andare controcorrente rispetto a chi si aspetta il (solito) disco (bello di norma) di ballate rock noir? Scelta prettamente artistica? Decidete voi. Sicuramente il cambiamento ha giovato perché, a mio parere, era da “The Boatman’s Call” (disco di dieci anni prima del 1997) che la qualità compositiva di Nick Cave era scesa a livelli non eccelsi con dischi che avevano, forse, soddisfatto i fan ma che non molto avevano aggiunto alla sua fantastica carriera. “Devo alzarmi per scendere e ricominciare tutto da capo / scendi nel seminterrato e urla” è il suo annuncio/ manifesto che apre il primo dei dischi (l’omonimo “Grinderman”, sempre per Mute Records, 2007), prodotto con questa nuova denominazione. Una svolta chiara, voluta e coraggiosa la sua, perché mollare vie sicure e di (buon) successo e mettersi a fare musica più rumorosa, ostica, ritornando a imbracciare una chitarra elettrica e farla suonare in maniera stridente, con un’ approccio diretto e senza fronzoli, può risultare rischioso: per possibili paragoni impietosi con le nuove leve e/ o il pericolo, magari, di uno zoccolo duro di fan che ti giri in parte le spalle.

Ma qui oltre a look (i baffi a manubrio all’ingiù da biker, lo sguardo torvo, l’atteggiamento spavaldo del nostro nelle foto della “nuova” band già dicevano tutto), la sua attitudine divertiamoci e (ri)facciamo casino con sonorità grezze di blues, garage e rock’n'roll chitarristico sono accompagnate da un carico di mestiere e professionalità, acquisito nella sua lunga carriera, che hanno reso il progetto apprezzabile, una vera band, e non un clichè irritante. Con un nome nuovo anche per affermare che, i Grinderman, erano una band e non un gruppo che accompagnava Nick Cave e in cui, i protagonisti di questo progetto (sei anni di vita circa dal 2006 al 2011 per due dischi, un remix (!?), alcuni tour, intervallati dalla produzione di “Dig, Lazarus, Dig !!!“ di Cave And The Bad Seeds del 2008), di fatto sono alcuni degli stessi Bad Seeds, segno di un cambiamento sì ma non di una rivoluzione (Warren Ellis al violino, chitarra e molto altro, Jim Sclavunous batteria e percussioni, Martin P.Casey al basso). Da segnalare che Mick Harvey, tra i suoi principali punti di riferimento nella band fin dai The Birthday Party, rompe proprio in quel periodo il più che ventennale rapporto con Cave, affermando che “parte del mio lavoro è sempre stato il cercare di rendere le canzoni come delle sfide, eccitanti per il pubblico. Ma ormai sentivo come questo non mi fosse più permesso. Quindi quando ho realizzato non ci fosse più futuro, ne sono uscito“; una critica diretta a Cave accusato di concedere troppo al pubblico in chiave di sonorità più mainstream e di snaturare il sound più artistico e meno diretto della band. Sarà pure vero per Harvey, ma Grinderman si apre con un trittico di sberle ben assestate, e tutt’altro che mainstream che, se fosse stato mantenuto nel resto del disco, avrebbe portato al capolavoro assoluto: l’assalto tribale di “Get It On” sembra infatti una outtake incendiaria uscita dalle migliori incisioni di Jon Spencer Blues Explosion (e tutto l’album ha in effetti quella matrice), seguita a ruota dal basso assassino di “No Pussy Blues” che, declamando di un rifiuto di una donna alle (sue?) avance sessuali, si sfoga con furore e chitarre acide con il pedale wha wha portato al punto di fusione, fino alla psicotica e graffiante “Elettric Alice” con un incedere traballante, originale e schizzato della chitarra. E se il pezzo che dà il titolo al disco è una elegia blues in musica, un canto lamentoso e stridente, che però non


regala molto, nella successiva “Dept Charge Ethel” si ritorna a spingere sull’accelleratore con una bella e veemente mazzata di blues elettrico per poi affrontare “Got Tell The Woman”, un brano (se pur intelligente e spettrale) che suona come un riempitivo. E dopo questa parte centrale del disco, un po’ traballante, si riprende quota con una bella e suadente ballata dal sapore rollingstoniano “(I Don’t Need To You) Set Me Free”, per proseguire ancor più convinti con “Honey Bee (Let’s Fly To Mars)” dove tastiere a mille accompagnano un’esplosione ritmica vorticosa e un testo da fuori di testa, con la dolce e minuta ballata alle tastiere di due minuti di “Man Of The Moon” fino ai due ottimi pezzi finali, l’incedere cupo e sghembo di “When My Love Comes Down” e la scoppiettante “Love Bomb” guidata dal violino elettrificato di Ellis. “Grinderman” sembra, ascoltandolo tutto di un fiato, un disco registrato e suonato in pressa diretta, quasi una live session, ed in questo sta la sua essenza e la sua forze espressiva grazie anche all’ottimo lavoro di produzione svolto da un grande come il britannico Nick Launay (che aveva già lavorato con Cave nei The Birthday Party e per lo stesso “Dig, Lazarus, Dig!!!”, oltre che a vantare numerose e prestigiose collaborazioni con Public Image Ltd., Gang of Four, Virgin Prunes, The Church, David Byrne, Girls Against Boys, Maxïmo Park ecc. fino agli anni nostri con quel grande gruppo che risponde al nome di Idles). Il seguente “Grinderman 2” (sempre prodotto da Launay) del 2010 non cambia, di molto, le coordinate. Se nel primo in copertina c’era una (per niente simpatica) scimmietta, ora è un lupo con un ghigno malevole, piazzato nel soggiorno di casa (vostra?) a darci il benvenuto in sonorità in cui il blues va leggermente in secondo piano e il rock(‘n’roll) prende spazio con un groove sporco e dinamico e sonorità che fanno riferimento in autori anni ’90 come Jack White (con i suoi ex White Stripes) e come (appunto) Jon Spencer Blues Explosion. Rispetto al precedente è però un album meno riuscito, non per la direzione intrapresa, ma per la presenza di alcune canzoni deboli, soprattutto nella parte centrale, come la rarefatta “When My Baby Comes” che non decolla e non convince del tutto, la sussurrata, gracchiante e poco calibrata “What I Know”, e poi con “Evil” che suona cattiva e la psichedelica “Kitchenette” che, però, non vanno molto oltre il semplice esercizio di stile. Il resto è di ottima fattura, a partire dall’ottimo uno/due inziale, con “Micky Mouse And The Goodbye Man” guidata dagli ululati (nel vero senso della parola) di Nick Cave e da chitarre granitiche e furiose quasi stoner, dalla abrasiva e ossessiva “Worm Tamer”, da “Heathen Child” con un riff entusiasmante di chitarra (che avrebbe però richiesto, a mio parere, un’esplosione furente e non un taglio così trattenuto del pezzo), e la parte finale con “Palaces Of Montezuma”, una bella, onesta ed elettrica ballata in crescendo a metà strada tra i Bad

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Seeds e i Rolling Stones per chiudere con “Bellringer Blues”, con un ritmo che cattura e con la sua elettricità tagliente che non ti molla sino alla fine. Un disco meno a fuoco del precedente che però ha regalato alcune perle che, unite al primo disco, (a leggere le recensioni) hanno dato fuoco a un seguente live tour intenso e convincente. Da segnalare anche l’uscita successiva di “Grinderman 2 RMX”, un album di remix che ha visto all’opera, nel rivisitare i pezzi del secondo disco, artisti del calibro di Josh Homme, UNKLE, Robert Fripp, A Place To Bury Strangers, Nick Zinner di Yeah Yeah Yeahs, Factory Floor tra gli altri. Il disco è stato abbastanza bistratto dalla critica (giustamente) anche se, in un paio di casi, le nuove interpretazioni si fanno preferire all’originale perché ridanno più incisività ai pezzi del disco. Come nella versione di Robert Fripp di “Heathen Child” che qui diventa Super (come nel titolo aggiunto) e riposiziona il portentoso riff del pezzo dandogli il vigore che meritava, o nella versione iperumorosa di “Worm Tamer” dei A Place To Bury Strangers; il tutto però accanto ad alcune brutte cadute come le inascoltabili versioni remix proposte da Josh Homme, Silver Alert e Michael Cliffe House. In attesa del terzo disco dei Grinderman (“How to play Grinderman in four easy pedals” scrive in un tweet Warren Ellis, ad ottobre 2019, inquadrando nella foto i suoi pedalini), rimane la sensazione che questa band non abbia voluto essere (e non sarà?) un semplice diversivo per Cave, il suo “breaking bad”, il voler (re) indossare una seconda pelle per non scordare (a se stesso, a critica e fan) che in lui non c’è solo il lato da poeta maledetto della musica e/o un apprezzato romanziere (magari un pò imborghesito, come lo accusava il suo ex-socio Mick Harvey), ma anche un rocker feroce, selvaggio, rumoroso, senza tanti fronzoli e menate. Probabilmente una abito meno elegante ma (maledettamente) più divertente dà indossare, forse anche per lui. (Dj KREMLINO) PS: ”Breaking Bad" - gergo del Sud USA: cambiare di colpo, cominciare a darci dentro senza pensare alle regole né alle conseguenze


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“I quattro dell’Apocalisse”

CAPITOLO 7

di Giorgio Ferroni, Massimiliano Stoto, Kurt Logan e Sauro Zani

Photo by Mote Sinabel

Photo by Katy Beale

Photo by Ross Waterman

Blixa Bargeld

Photo by Joël Saget

Mick Harvey

Conway Savage

Warren Ellis

Attorno a Nick Cave sono girati nel corso degli anni fior di musicisti che hanno cesellato, arricchito e in molti casi scritto insieme a lui, pagine migliori della sua musica e reso i Bad Seeds un gruppo unico e irripetibile. Abbiamo selezionato fra i molti, quattro di essi. Due Bargeld e Harvey con Cave dalla prima ora e due Savage e Ellis subentrati in corso d’opera. Se i primi due e Ellis hanno fama di essere musicisti geniali, poliedrici, dotati di un gusto non comune e anche con personalità spiccate (fra questi ci stava benissimo anche il batterista Jim Sclavonus), Savage è sempre stato più nell’ombra, quasi un comprimario o un turnista, ma il suo tocco delicato al piano e alle tastiere ha supportato il suono della band in tanti dischi e in altrettanti tour oltre ad essere amatissimo da Cave. Conway è scomparso nel 2018 e come molti suoi compagni d’avventura ha pubblicato qualche disco, che di fortuna ne hanno avuta poca, e che più avanti scopriremo.

Blixa Bargeld

di Giorgio Ferroni

Partendo dal tema assegnato dal direttore ritengo che sia utile capire il ruolo di Bargeld nei Bad Seeds e nella produzione di Nick Cave, più che approfondire il suo lavoro con gli Einstürzende Neubauten, questo anche per ovvie ragioni di spazio, perché gli EN sono un gruppo con una storia ed una produzione molto importanti che proseguono fino ad oggi. Bargeld negli anni si è anche proposto come solita e in alcune collaborazioni, come il progetto con il musicista tedesco Alva Noto, indicato con l'acronimo ANBB e due album con il musicista italiano Teho Teardo. Gli EN sono fondati a Berlino da Christian Emmerich (vero nome di Blixa) con F.M.Einheit (Frank Strauss) e N.U.Unruh (Andrew Chudy, originario di New York) entrambi percussionisti, sono semplicemente il gruppo rumorista industrial più famoso al mondo e le loro performance live sono straordinarie e leggendarie. Hanno una discografia che inizia nel 1980 con varie autoproduzioni, il primo vero album è “Kollaps” che esce nel 1981; è un album disarmonico e rumorista, declamatorio e teatrale, nichilista e radicale. È un vero manifesto espressionista che non può passare inosservato: percussioni autoprodotte da attrezzi e scarti industriali. Chitar-

re distorte, bassi che sembrano dei martelli pneumatici. Trapani e seghe circolari che creano rumorismi assortiti. Il secondo album “Zeichnungen des Patienten O. T.” (1983) è un lavoro che continua nel solco dirompente dell’esordio ed è complessivamente di livello superiore, è quasi unanimemente riconosciuto come il loro miglior disco. È stato dedicato al pittore austriaco Oswald Tschirtner che viveva in un ospedale psichiatrico e firmava le opere con le proprie iniziali. A questo punto nel 1984 Blixa Bargeld entra nei Bad Seeds portandoci tutto il peso di un’esperienza artisticamente già ben definita e significativa ed è su questo che ci soffermiamo. Un primo ragionamento sull’influenza di Bargeld nei Bed Seeds si può iniziare ad abbozzarlo semplicemente attraverso l’analisi delle note di copertina degli album. Lasciando perdere le canzoni che sono accreditate a tutto il gruppo, che è ragionevole pensare che siano state composte in modo collettivo, Bargeld è accreditato come coautore della musica assieme a Cave in alcuni brani, in alcuni di questi possiamo pensare che sia stato determinante. I brani sono: “Cabin Fever!” da “Form Her To Eternity”. È un brano che potrebbe tranquillamente essere nel repertorio degli Einstürzende, un riff ripetitivo su cui si innestano i rumorismi delle chitarre elettriche e delle percussioni. Se ascoltiamo un brano degli


EN tipo “Kollaps” ci troviamo grossomodo sulle stesse coordinate. È strutturalmente un blues, sostenuto da un riff secco di chitarra elettrica, è un brano primordiale e rumoroso finché si vuole, ma è un blues ed è abbastanza paradossale che venga cofirmato da uno dei protagonisti della scena musicale europea alternativa che aveva nell’affrancamento dagli standard musicali anglo americani uno dei suoi caposaldi. Se si sente il rumorismo percussivo che accompagna il crescendo del pezzo si sentono non poche assonanze con le soluzioni industriali degli EN. “Black Crow King” da “The Firstborn is Dead” Per questo pezzo vale lo stesso ragionamento, la struttura armonica è leggermente più articolata, il cantato stavolta è un blues classico con il dialogo fra solista e coro, ma la batteria di Mick Harvey non è molto distante dalle percussioni realizzate con strumenti di lavoro degli EN. “Stranger Than Kindness” da “Your Funeral” è accreditata a Blixa Bargeld e Anita Lane, non compare come autore Cave. Sembra un brano dei Joy Division accompagnato da una chitarra acustica e da una elettrica slide. La sezione ritmica viene mixata ad un livello basso. Negli album a cui ha partecipato, Blixa si è sempre occupato dei cori, realizza anche un duetto canoro nel già citato brano “The Weeping Song” del 1990, bel brano e bella interpretazione anche di Blixa Bargeld che è un discreto cantante ed è un ottimo frontman quando si esibisce negli EN. Il suo ruolo principale nei Bad Seeds è comunque quello di chitarrista elettrico, tecnicamente solista. In realtà Bargeld non è certo un virtuoso dello strumento e nei dischi dei Bad Seeds ci sono raramente parti strumentali chitarristiche particolarmente significative. Una delle tecniche che utilizza più frequentemente è quella dello slide, che è una tecnica classica del blues che però viene molto utilizzata anche in tutte quelle situazioni in cui la chitarra elettrica diventa un elemento utilizzato per realizzare sonorità metalliche, quindi anche nel rumorismo e nell’industrial. Dati alla mano si può pensare che il ruolo di Bargeld è stato più marcato nella prima fase del gruppo, mettendo in campo una sensibilità per le sonorità dissonanti che erano tipiche della sua produzione con gli Einstürzende, questa sensibilità negli anni si è affievolita conducendo il sound del gruppo verso soluzioni più convenzionali. Anche gli EN hanno seguito questo percorso che da terroristi sonori antisistema li ha trasformati in performer eleganti di mezza età. È un percorso che non

Einstürzende Neubauten

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tutti riescono a mettere in campo, si chiama “invecchiare con stile”. In conclusione Blixa Bargeld non è stato un elemento secondario nella storia dei Bad Seeds, il suo ruolo, non è certo imprescindibile come quello di Mick Harvey, ma è stato probabilmente meritevole dell’introduzione di quella sensibilità europea iconoclasta berlinese che ha caratterizzato la prima fase del gruppo, almeno fino al 1988. Nel recente libro di Paolo Bertoni sugli Einstürzende l’autore parla del fatto che negli anni si è trovato a pensare che la sua partecipazione di Blixa ai Bad Seeds fosse principalmente un espediente per sbarcare il lunario. La mia impressione è che sia stata invece una collaborazione fra spiriti affini che hanno messo in campo una sinergia ed un’empatia personale molto forte, ottenendo degli splendidi risultati artistici. Così come il blues post punk dei primi Bed Seeds risente della furia iconoclasta teutonica Bargeldiana, così l’elegante cantante degli ultimi Einsturzende che si esibisce nei teatri europei riflette la classe e l’innata eleganza del grande interprete australiano. Negli anni ottanta Blixia e Nick avevano sicuramente lo stesso approccio destrutturato e declamatorio al canto, capire quale dei due abbia avuto il ruolo predominante non è certo semplice, ma possiamo pensare che i due si siano influenzati a vicenda. Per cercare di capire qualcosa in più del personaggio, ho fatto una cosa semplicissima, ho guardato il profilo Spotify degli EN e ho trovato una playlist “Kochen mit Blixia” (le canzoni che Blixia ama ascoltare mentre cucina) e ho avuto subito una sensazione di grande simpatia per questo elegante tedesco di mezza età in leggero sovrappeso che non ha assolutamente atteggiamenti misantropi o nichilisti e si presenta con un elegante grembiule nero da cucina con il logo degli EN. Mi sembra un uomo che è egregiamente sopravvissuto al dramma della giovinezza con stile e positività. Anche le canzoni della sua playlist riserva delle grandi sorprese, oltre ai brani del suo gruppo troviamo Peggy Lee, Luis Amstrong, brani di colonne sonore, un country di Kevin Ayers; un rag time pianistico di Jelly Roll Morton et…


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Da questa playlist ho anche scoperto un brano in cui Blixia canta in italiano, si tratta di una cover del brano “Da soli si muore” di Patrick Samson del 1969, realizzato nell’ambito delle sue collaborazioni con Mauro Theo Teardo, la canzone è a sua volta una versione italiana del brano “Crimson and Clover” degli Shondelles con il testo italiano scritto da Mogol (Nel gioco dei sette gradi si separazione sarebbe uno spasso collegare Tupelo di Nick Cave alla canzone del sole di Battisti passando per Kollaps degli Einstürzende ). Blixia è indiscutibilmente il leader maximo degli Einstürzende Neubauten e ne ha plasmato negli anni la carriera, che continua fino ad oggi senza interruzioni, è infatti del 2020 l’album “Alles in Allem”. Ad oggi hanno pubblicato 36 album di cui 13 in studio, 11 live e 7 raccolte. Hanno collaborato al cinema, anche con colonne sonore, al teatro, ad istallazioni artistiche di vario genere. Oltre agli album già citati, vale la pena ricordare: “80-83 Strategien Gegen Architekturen”, una raccolta che riunisce praticamente tutte le prime produzioni del gruppo, pubblicate su vari supporti. Il terzo album “Halber Mensch” che allarga lo spettro sonoro del gruppo. Il disco del ‘94 “Tabula Rasa” introdotto dal singolo quasi danzereccio “Die Interimsliebenden” che si colloca dalle parti dei Nine Inch Nails. In generale EN è un gruppo che nel tempo va verso la “normalizzazione” del suo suono e introduce testi in inglese che risultano meno “spigolosi” di quelli in tedesco. È un gruppo di artisti che ha iniziato a suonare in un ex mattatoio abbandonato diventato centro della cultura underground berlinese ed attualmente si esibisce anche in teatri e musei. Nel 2014 ha pubblicato un'opera musicale ispirata allo scoppio della prima guerra mondiale dal titolo “Lament” , per realizzarlo gli EN hanno effettuato un grande lavoro di recupero su registrazioni, risalenti al periodo 1914-1916, di prigionieri di guerra detenuti in uno dei primi grandi campi di internamento nei pressi di Berlino. Insomma delle personalità forti e assolutamente rilevanti non solo in ambito musicale, ma artisti eclettici che hanno saputo mettere in campo una proposta culturale di primissimo piano. (GF)

Einstürzende Neubauten

Mick Harvey di Massimiliano Stoto Nel rock è una storia sentita e risentita. Due giovani si incontrano al liceo e formano una band. Quante volte ve l’hanno raccontata? Centinaia come minimo. Anche per Nick e Mick è andata così. Pensate se non avessero preso la strada che sapete, magari con quel nomignolo, Nick & Mick, avrebbero potuto avere un futuro in balera o aprire una lavanderia. Una trentina d’anni vissuti fianco a fianco, qualche volta anche pericolosamente. Anni passati a suonare e magari a sopportare gli eccessi e le lune del vulcanico capo. Ecco Mr. Harvey mi è sempre sembrato il Charlie Watts della situazione. Proporzione: Watts sta a Jagger/Richards come Harvey sta a Cave/ Bargeld? Posato, misurato, dotato tecnicamente, intelligente, ironico e sempre sul pezzo. Mai una piega. Uno per tutti i Bad Seeds e tutti i Bad Seeds per uno anche perché per anni si è occupato personalmente del management del gruppo. Musicista poliedrico fin dall’inizio della carriera, sia nei Boys Next Door che nei Birthday Party. Nel primo disco dei Bad Seeds suona piano, organo, chitarra, batteria e fa i cori. Così come nel secondo. Nel terzo ci aggiunge la chitarra acustica, il basso e il vibrafono e via così ad aumentare. In “Murder Ballads” non si sa cosa non suoni. In “No More Shall We Part” arrangia gli archi con Warren Ellis, con grande sollievo di Nick, che nell’intervista a Paola De Angelis apparsa su Alias, il supplemento del sabato de Il Manifesto, dice testuali parole: ”Di certe canzoni ero stufo, non sapevo che direzione fargli prendere, “Love Letter” era fra queste. Mick e Warren si sono rinchiusi in una stanza e l’hanno salvata”. L’intervista non l’ho trovata su internet il ritaglio è ricomparso, opportunamente direi, all’interno del libretto del cd in cui lo avevo infilato. Mick Harvey forma con Blixa e Nick, l’asse portante dei Bad Seeds almeno fino a “The Good Son”, poi nel gruppo entreranno altri musicisti, Casey e Savage per primi, e lentamente le cose prenderanno una piega diversa. Un uomo di grande cultura musicale, raffinato e sentimentale, che matura nel corso degli anni uno stile non certo riconoscibile ma che porta la sua musica, i suoi arrangiamenti, la sua tecnica, la sua produzione a essere sempre garanzia di grande qualità. Un uomo che di fatto si è sempre “nascosto” dietro al suo grande capo e al suo mestiere. Pensate che solo una decina dei brani dei Bad Seeds porta anche la sua firma, tra questi “Tupelo” e “Red Right Hand”, e tra i gruppi precedenti anche meno, solo le “Peel Sessions” dei Birthday Party sono di fatto accreditate a tutti i componenti del gruppo, tutto il resto è di fatto firmato Cave/Howard, non necessariamente insieme. Una caratteristica, questa che si evidenzia nella discografia del nostro. Tutta edita da Mute Records e spalmata tra colonne sonore, dischi di cover di Gainsbourg e dischi di cover non di Gainsbourg. Non è proprio così che va, ma la battuta era bella e la differenza vera e propria è


molto sottile. Sul sito di Mick Harvey la sua discografia è divisa in tre blocchi, “Soundtracks”, “Gainsbourg” e “Solo Albums”. Io quest’ultima categoria l’avrei denominata “Americana” perché di fatto Harvey ha l’impostazione classica che musicalmente racchiude l’immaginario a stelle e strisce, solo molto più sobria e riflessiva. Ma vado con ordine cercando di non dilungarmi. Le colonne sonore occupano una buona fetta della discografia dell’artista australiano, ne ha fatte parecchie, per film, documentari, cortometraggi, televisione. Alcune in collaborazione con Cave e Bargeld, una con Cave e Ed Clayton Jones e le altre in solitaria. Rimarcherei, per amor patrio, quella agreste e sognante di “Alta Marea” il film Lucian Segura ambientato nelle campagne tra Rovigo e Ferrara e tratto dal racconto di Gianni Celati “Giovani umani in fuga”, le tracce si possono trovare nel cd “Alta Marea & Vaterland” che raccoglie oltre i sette pezzi del film italiano anche tutti i lavori svolti da Harvey in Germania fra ‘87 e il ’92. Devo dire che questa è una raccolta molto bella. “Ghosts…Of The Civil Dead” e “To Have And To Hold” sono le due che firma con Nick e Blixa, molto scura e industriale la prima, molto morriconiana la seconda, che è impreziosita dal brano di Bob Dylan “I Threw It All Away” interpretato meravigliosamente da Scott Walker e chiusa in maniera anomala dal pezzo rap di Keety General. Entrambe sufficienti comunque. “And The Ass Saw The Angels” è firmata da Mick, Nick Cave e E.C.Jones per il reading del primo romanzo di Nick Cave, da noi tradotto in “E l’asina vide l’angelo”. I primi quattro pezzi sono eseguiti da Nick Cave mentre gli strumentali sono firmati da Harvey e da Jones. E.C. Jones è stato chitarrista, principalmente nei The Wreckery con Hugo Race e più defilatamente in altre band minori del giro australiano. Alla voce, ma non in tutti i pezzi c’è Katy Beale, che in seguito eseguirà molti ritratti fotografici di Mick Harvey e ne diventerà la consorte. Tutti i pezzi sono molto cupi e tesi, divisi tra minimalismo, echi industrial e ambient. Duris-

Mick Harvey - 1974

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sima arrivare fino in fondo. “Australian Rules” sono le musiche per il film di Paul Goldman del 2002 sul calcio australiano e vincitore nel 2003 del premio “audience” al Festival “Schermi d’amore” di Verona, qui l’emoticon con gli occhi sbarrati ci starebbe benissimo. Colonna sonora più varia in cui non mancano momenti ambient minimalisti, abbozzi di pezzi tra rock e pop come “Grand Final First Half”, e “Grand Final Second Half” e tirate di chitarra affilate come lame. Meglio la seconda metà della tracklist, dove l’uso di piano, synth, chitarre e archi è più marcato, l’ultimo pezzo “End Titles” è molto rappresentativo di quanto detto e anche molto bello. Non mi sento dire che sia un pezzo fondamentale però ha più di un passaggio molto interessante. “Motion Picture ‘94-‘05”, come lascia presagire il titolo, è una raccolta di lavori fatti per documentari e “short film”, equamente divisi fra produzione australiane ed europee. Forse per la sua natura di raccolta risulta essere più varia e anche interessante, estremamente da consigliare per una prima infarinatura dell’artista e i suoi lavori a corredo di immagini, assieme alla prima raccolta “Alta Marea & Vaterland”. In un paio di pezzi per il lungometraggio “Go For Gold” di Lucian Segura appaiono Nick Cave e Warren Ellis. Infine quest’anno, in Aprile, è uscito “Waves Of Anzac / The Journey”, che segna il ritorno di Harvey alle colonne sonore dopo più di dieci anni. Questo disco raccoglie diciasette pezzi, tredici musicano il documentario che ripercorre la storia del nonno di Sam Neill il celebre attore di “The Piano” e altri importanti film, che sbarcò a Gallipoli in Turchia, durante la prima guerra mondiale con le truppe dell’ANZAC (Australian New Zeland Army Corps). I restanti quattro pezzi musicano “The Journey”, che non è un colonna sonora ma sono dei pezzi registrati con il The Letter String Quartet con la finalità di supportare i richiedenti asilo in Australia. Persone finite nel programma “offshore” del governo che di fatto vengono internate sulle isole di Nauru, Manus Island e Christmas Island nell’oceano Pacifico. La versione digitale dell’album contiene quattro pezzi in più tratti da due cortometraggi del 2016 e 2018. Venendo alla musica ho trovato il disco molto bello. Essenziale l’uso degli archi, nel sottolineare gli aspetti drammatici della storia di guerra, sia nel parti più ricche, quindi con più strumenti, che in quelle in solitaria, per esempio il pezzo d’apertura “Turkish Theme”. Pianoforte, chitarra acustica, organo, qualche synth fanno da arricchimento a una colonna sonora dove i contrappunti melanconici importanti sono tutti assegnati agli archi. Pezzi che rispetto al passato sono notevolmente più scritti, evoluti e costruiti. Nell’ambito di questo genere un disco molto bello. Esaurito l’argomento colonne sonore veniamo al pianeta Gainsbourg. Quattro dischi dedicati al repertorio dello chansonnier, ma non solo, ebreo francese appaiono una cosa fuori dal normale. Ma la rilettura anglofona di Harvey, oltre che seria e rispettosa è fatta con stile, misura e grande capacità. Rileggere in inglese l’opera del autore parigino è un progetto folle alla cui base non ci può essere che un grande amore. Ma non solo di amore trattasi perché alla base del lavoro di Harvey c’è la sfida delle sfide, ovvero far conoscere, com-


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Photo by Katy Beale

prendere e si spera apprezzare la musica e le parole di un autore, anglofono in niente, ai sudditi sua maestà. Un sfida che ha dell’epico solo nel concepirla. “Intoxicated Man” (1995), “Pink Elephants” (1997), “Delirium Tremens” (2016) e “Intoxicated Women” (2017) vincono la contesa, con la serietà e la competenza di Mick Harvey che giocano un ruolo basilare assieme all’umiltà del nostro che nella ristampa dei primi due dischi in edizione doppia del 2014, ammette che nella trasposizione inglese molti virtuosismi linguistici di Gainsbourg sono andati inevitabilmente persi e non poteva essere altrimenti. Ma a noi interessa la musica e la validità della proposta. Questo è uno di quei casi che, a parte le canzoni di Gaingsbourg che sanno anche i sassi, tutto il resto, che in molti si conosce poco o niente, lo senti fatto da Harvey e pensi ma questo che ci è stato a fare con Cave per vent’anni? Non ho lo spazio per dedicarmi ad ogni singolo disco, ma sappiate che se foste incuriositi e doveste imbattervi in uno qualsiasi di queste produzioni, l’acquisto è consigliato e meritevole. Magari con l’edizione doppia del 2014 portate a casa il meglio, cioè i primi due lavori, ma anche i due seguenti e pubblicati più recentemente, non si fanno disprezzare proprio per nulla. Prima di chiudere una nota di colore musicale. Una caratteristica di Gainsbourg era scrivere per cantanti femmine, sono celebri molti suoi duetti. Ma chi prende il posto delle varie Jane Birkin, Brigitte Bardot etc etc…nei dischi di Mick Harvey? Nei primi due dischi la fa da padrone Anita Lane, nel terzo ci sono Xanthe Waite e Katy Beale e infine nel quarto ci sono Andrea Schroeder, ancora la Waite, Kan Channty, Jess Ribeiro, Lindelle Jayne Spruyt e Sophia Brous. E per chiudere ecco gli album americani o, meglio, di musica “Americana”. Prima ho fatto la battuta delle covers non di Gainsbourg ebbene ditemi se ho torto. Passano otto anni tra il secondo disco di cover del francese e questo “One Man’s Treasure”. Dodici pezzi, solo due firmati da Harvey, le restanti tutte cover che vanno da Tim Buckley, Jeffrey Lee Pierce, Guy Clark, Lee Hazelwood, Nick Cave, Bambi Lee Savage e altri. Lui suona tutto da solo, ma non è un disco acustico, è accompagnato solo da violino, viola e violoncello. Un disco che non gli dai neanche un penny, fin dalla brutta copertina, e che si rivela essere un scrigno ricchissimo la cui gemma più luminosa è senza dubbio la voce di Harvey, baritonale, evocativa, rassicurante. Lo stesso succede due anni dopo nel 2007 con “Two Of Diamonds”, disco magari un po’ meno riuscito del precedente ma sempre di grande livello interpretativo, con il nostro che ci propone la solita carrellata di covers che coinvolgono pezzi di PJ Harvey, Emmylou Harris, de il grande soulmann Bill Withers, di tre monumenti australiani come Chris Bailey dei Saints, Dave McComb dei Triffids e James Cruickshanck dei The Cruel Sea e dei Loved Ones anche loro australiani ma meno conosciuti. C’è un brano dei Crime and City Solution, uno co-firmato dal grande compositore Elmer Bernstein e udite udite un pezzo dei Mano Negra che quando l’ho letto non ci volevo credere. “Out Of Time Man” non è riuscitissima o perlomeno non aggiunge nulla al pezzo di Manu Chao, ma il solo fatto che ci provi

ti fa pensare che questo è un campione. Due brani presentati sono originali e firmati da Harvey, e questa volta non è solo, c’è una band a supporto tra cui Thomas Wydler dei Bad Seeds alla batteria. Quattro quinti della formazione che registra l’album, registra poi il live “Three Sisters – Live At Bush Hall” tenutosi a Londra a fine Marzo del 2007 e pubblicato nell’anno seguente. Un bel live che si divide in parti elettriche sostenute e alcune più rilassate, dove Harvey canta molte canzoni degli ultimi due dischi e qualcuna di Gaingsbourg. Risultato, come detto, convincente e che testimonia la credibilità artistica di Mick Harvey anche dal vivo e soprattutto come cantante. Veramente molto bello. Nel 2011 esce “Sketches Of The Book Of The Dead”, quello che senza ombra di dubbio è il suo disco più bello. In solitaria, al ritorno in patria dopo il termine delle registrazioni “Let England Shake” di Polly Jean, siamo nell’agosto 2010, Mick che aveva già abbozzato qualche canzone sul dolore dovuto alla perdita di alcune persone care, sente che è arrivato il momento di chiudere quel discorso. Ad accelerare il percorso ci si mette anche la scomparsa di Rowland S. Howard, l’altro Birthday Party importante, alla fine del 2009 e con cui Mick era tornato a fare musica da poco. Tutto questo decanta e nei tre mesi che rimangono a chiudere l’anno 2010, Harvey scrive e registra tutti i pezzi. Canzoni che parlano di perdite, di occasioni mancate, di sfortune, di paure e speranze, di case abitate da spettri del passato. Con la musica a commentare con lo stile del folk, del blues e della tradizione. E’ tutto materiale scritto da Harvey e suonato da lui a parte pochi contributi di Rosie Westbrook, Xanthe Waite e J.P. Shilo. Un disco bellissimo. Gli ultimi due dischi della sezione “Americana” di Mick Harvey sono “Four (Act Of Love)” e “The Rise And Fall Of Edgar Bourchier And Horrors of War”. Il primo raccoglie materiale “romantico” quasi tutto scritto da Mick più alcune cover come al solito. C’è un duetto con PJ Harvey su un pezzo della stessa, un pezzo dei Saints, uno di Roy Orbison e “Young Lovers Do” di Van Morrison in una versione pazzesca e il classicone jazz “Summertime in New York”. Harvey è di nuovo in solitaria, non lo abbandonano solo la Westbrook e J.P.Shilo. Tutto perfetto e fatto con il solito stile ma forse manca un po’ di anima e coerenza d’insieme a questi brani. Il disco sembra un riempitivo, una cosa messa lì per fare qualcosa tant’e vero che dura poco più di mezz’ora, e comunque sto parlando di un disco che per me è abbondan-


temente sufficiente. Nel secondo Mick Harvey musica la storia di questo poeta Edgar Bourchier, personaggio inventato dallo scrittore Cristopher Richard Barker, in un concept che descrive gli orrori di tutte le guerre, in questo particolare caso la vicenda è ambientata durante la prima guerra mondiale. La raccolta di canzoni, che privilegiano prevalentemente degli arrangiamenti folk rock, non è di scarso valore, anzi, tutt’altro. Essendo però un concept la conoscenza della lingua è fondamentale e il rischio è quello di perdersi gran parte del senso dell’opera è elevato, si prega di avvicinarvisi solo dopo meditazione e cotta per la musica di Mick Harvey. Chiosa finale. Si potrebbe parlare di Mick Harvey nei Crime and City Solution. Si potrebbe parlare dei dischi prodotti a PJ Harvey o delle tracks per il Jeffrey Lee Pierce Sessions Project per rimanere sulle tre cose tre , più di valore che ha fatto oltre i Bad Seeds e oltre le cose a suo nome. Senza contare tutte le altre che sono tantissime. Se a questo punto a qualcuno viene da farsi la domanda più ovvia, e cioè, ma come mai in quarant’anni di carriera ha fatto un solo disco di canzoni sue? La risposta la affidiamo alle parole del suo sito ufficiale “Ha sempre pensato a se stesso principalmente come un collaboratore”. Uno che sa stare al proprio posto, prezioso come il sole. Uno che, chiunque ci abbia lavorato insieme, deve ringraziare. A cominciare da quel suo amico di liceo. (MS)

Conway Savage di Kurt Logan L’ho scritto nell’introduzione a questi pezzi, Sclavonus avrebbe meritato di stare fra Bargeld, Harvey e Ellis. Fra quei musicisti eclettici e poliedrici che hanno dato qualcosa di più ai Bad Seeds e a Nick Cave. Con Conway non si tratta però di misurarsi con la tecnica o l’estrosità. Qui l’unità di misura è l’anima. Conway Savage viene grande al pub, nel senso che i genitori ne gestiscono uno. Nella sala da pranzo c’è un piano e Conway si esercita lì, fin da ragazzino. Sviluppa una tecnica da autodidatta che di fatto non lo abbandonerà mai e un indole sempre triste, rarefatta, riflessiva che di fatto marchia a fuoco la sua musica. Passa gli anni ottanta a suonare in diverse band, sia come membro effettivo che come collaboratore poi arriva la chiamata di Nick Cave che lo vuole per il tour che promuove “The Good Son”. Non uscirà più dalla band fino al 2017 quando gli viene diagnosticato un tumore che lo porterà via un anno dopo. Personaggio sarcastico, amava scherzare se stesso e gli

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altri, uno che si faceva ben volere, un bohémien, un personaggio poetico e istrionico, quasi d’altri tempi. Nella band lascerà un vuoto enorme. Savage lascia una discografia non molto prolifica e abbastanza sconosciuta. Se dovessi fare un paragone con quello che la sua musica mi trasmette in certi passaggi, per farvi capire meglio farei il nome di Jason Molina. Solo che Conway suona il piano. Nel primo Ep, del 1993, che porta il suo nome e ci presenta quattro pezzi, in studio ci sono anche Harvey e Casey. Curioso che nel pezzo tradizionale che apre la mini raccolta, “Fair And Tender Ladies”, il piano sia praticamente assente, è un pezzo evocativo, rarefatto dai forti echi epici. “To Dark To See” è una ballata mid tempo sconsolante con organo e arpeggi di chitarra, “Say In Aint So” è un blues sgangherato dove spunta il piano, c’è ancora l’organo e l’armonica di Chris Harrington. “When The Moon Is Gone” è una lacinante canzone solitaria per cuori schiacciati sotto un Tir. Impossibile darne un giudizio categorico, diciamo che è indicativo del personaggio. Nel 1998 esce “Soon Will Be Tomorrow” il disco scritto a due mani con Suzie Higgie e concepito intorno al ’95 ma che comparve sul mercato solo quando la cantante risolse dei problemi contrattuali con la sua precedente band. Nonostante la Higgie interpreti le sue canzoni, che sono nettamente la maggioranza, e Savage le sue due, il disco non ne risente. I due autori interagisco, cantano e suonano uno nei pezzi dell’altro. C’è un pezzo co-firmato dai due e anche una cover. E’ folk rock con qualche inflessione celtica, è un lavoro onesto e sincero. A cuore aperto. I due pezzi che Conway interpreta al piano sono bellissimi e tutta la sua classe e la sua bella voce emergono in un bagno di profonda solitudine che sfiora il Shane MacGowan più sobrio che possiate immaginare. Non si può dire, purtroppo, che “Nothing Broken” il suo esordio pubblicato nel 2000 sia un disco completamente riuscito. Solo a sprazzi emerge l’indole poetica che contraddistingue l’autore. I pezzi si adagiano in un indolente ispirazione country & western che non si addice all’autore. I pezzi sono una serie di ballate, molte anonime con intro strumentali spesso lunghi per il minutaggio della canzone e che hanno da dire il giusto senza alcun guizzo particolare e soprattutto senza la minima tensione. Da salvare “Old Soul With A New Hole”, “Only Ghosts” e “These Are The Waves”. Nel 2004 esce “Wrong Man’s Hand” quello che a mio avviso è il disco più bello di Savage. Ancora spalleggiato da Mick Harvey e Martin P.Casey, come nel precedente, il disco che dura poco più di mezz’ora racchiude tutta l’essenza pianistica di Savage, tutta l’indole solitaria e disperata che possiede. Provate ad ascoltare la cover di “Bring It On” del Nick Cave di “Nocturama” e vi renderete conto di quello che vi sto dicendo. Tutti gli interventi degli altri musicisti sono ridotti all’osso e sono funzionali alle canzoni. Un lavoro di sottrazione rispetto al disco precedente. Una gemma incastonata nella miniera delle produzioni perdute. La raccolta “Rare Songs & Performance ’89-‘04“ e il “Live in Ireland” confermano le cose migliori che ho scritto di Savage, il suo essere essenziale nel suonare e nel cantare rimarrà la sua dote peculiare e questi due dischi lo dimostrano mirabilmente, soprattutto perché contengono il primo molti pezzi dal vivo, tra cui una versione live di “Streets Of Laredo” , con Harvey e Casey, e il secondo ci consegna il concerto intero al Glens Centre di Manorhamilton nell’Ottobre del 2008,


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tratto dal tour irlandese. Il 24 Settembre 2018 il batterista Jim Sclavonus, ha dedicato un’intera puntata del programma che conduce su Soho Radio alla musica di Conway Savage, potrebbe essere un bel modo per avvicinarvisi, qui vi riporto il link https://www.nickcave.it/extra.php?IdExtra=140 Voglio concludere con una piccola storia, non mia, uscita nel momento della dipartita di Conway e pubblicata sul sito ufficiale di Cave che ho scovato sulla stessa pagina del sito italiano www.nickcave.it che vi consiglio caldamente di visitare per qualsiasi cosa decisamente più approfondita vogliate sapere su Cave e la sua band. La storia è questa: "In una nottata di bevute, alle quattro del mattino, al bar di un hotel di Colonia, Conway si mise al piano e cominciò a cantarci “Streets of Laredo”, con il suo stile dolce e malinconico. Il mondo si fermò per un momento. Non c'erano occhi asciutti, nella famiglia. Addio Conway, non ci sono occhi asciutti nella famiglia”. (KL)

Warren Ellis

di Sauro Zani

Diverse cose accomunano Nick Cave e Warren Ellis. Poco di estetico, molto in termini di sensibilità musicale e gusto per l’atmosfera, in particolare quella più malinconica, sofferente e disturbante. Certo, poi c’è l’Australia, maEGOKID di Grazia, non è certo il patriottismo il catalizzatore dei loro rispettivi talenti! L’inizio della collaborazione tra Warren Ellis e Nick Cave risale al 1993, quando Ellis prende parte alle registrazioni di 2 tracce dell’album Let Love In: l’oscura ballata della siccità Ain’t Gonna Rain Anymore e quella dell’insicurezza di coppia Do You Love Me (part 2). Una partenza in punta di piedi: Ellis viene invitato alle sessioni per far parte di un piccolo ensemble d’archi, nemmeno come solista (!) e il suo debutto con i Bad Seeds si limita a poco più che qualche arcata di sottofondo. Il nostro ha però già una discreta carriera alle spalle - formazione come violinista classico all’università di Melbourne, polistrumentista, artista di strada in Europa, fondatore degli indimenticabili e mai abbastanza celebrati Dirty Three (con Mick Turner e Jim White), alcolista impenitente – e si sente profondamente onorato dell’attenzione ricevuta da Cave: “Allo studio di registrazione Nick aveva i suoi testi appesi su tutte le pareti. Dato che gli addetti alle pulizie continuavano a toglierli dal muro, aveva pensato

bene di appenderne altri con scritto: "non toccate la mia roba" incollati dappertutto. Il testo appiccicato su tutto il muro era quello di "Let Love In" racconterà Ellis anni dopo a NME a proposito del suo primo incontro con Nick Cave. “C’erano 2 sessioni di registrazione in corso, Nick era molto eccitato e sfrenato (“wild”). Ma anche incredibilmente gentile, creativo e produttivo. Mi è stata aperta questa finestra su questo laboratorio creativo che mi era sembrato così misterioso come ascoltatore e ne ero tremendamente eccitato". Fa quasi tenerezza l’umiltà e la fascinazione con cui Ellis si accosta ai Bad Seeds. Nell’album successivo – Murder Ballads (1996) – Ellis è nuovamente presente su The Curse of Millhaven una sorta di giga scatenata dove il nostro si esprime con la fisarmonica (!), dimostrando quella poliedricità e plasticità che è un po’ sempre stata la cifra dei componenti dei Bad Seeds. Da qui in poi, diventa parte integrante e presenza fissa dell’ensemble, facendo progressivamente emergere la sua personalità, il suo stile sonoro e, non da sottovalutare, il suo standing e la sua immagine esteriore – quella di un guitto, un folletto o un demone barbuto – che ben si addice alle atmosfere noir e retrò della band. In ogni caso, per Ellis non è semplice imporsi in quella conventicola di singolari musicisti, dalle spiccate individualità, cementate dalla frequentazione di una vita: Mick Harvey è con Nick Cave dai tempi dei Boys Next Door, 1973 o giù di lì; Blixa Bargeld dal 1984; insomma, tutta gente affiatata, con tanto mestiere alle spalle e all’apice della carriera. Ma il nostro eroe evidentemente ha i numeri e si impone. La sua presenza diventa oltre che fissa anche sempre più evidente, sia nei lavori in studio – da The Boatman’s Call (1998) Ellis compare come membro ufficiale della band e non più solo come ospite - sia nelle performance live, grazie alla singolare presenza scenica che lo porta spesso al centro dell’attenzione, anche se si mostra timido e scorbutico, tanto da voltare la schiena al pubblico nelle parti in cui il suo violino tiene la scena. Come prevedibile, l’occhio di bue si concentra comunque su di lui e il pubblico impara ad apprezzarne sempre di più le performance. Il tocco diabolico di Ellis è sicuramente uno dei fattori che contribuiscono a sostenere la qualità di lavori di Nick Cave & the Bad Seeds dalla seconda metà degli anni ’90, evitandogli di (s)cadere nel cliché dell’eterna copia di se stessi, un rischio molto reale e concreto per un ensemble maturo e alle prese con forme espressiva tra le più “tradizionali” e frequentate (il blues, il rock, le ballate malinconiche,…). Un rischio non del tutto fugato, ma almeno mitigato. In questo contesto, è Ellis il principale carburante creativo dietro la moderna incarnazione dei Bad Seeds: quella di interpreti di una mondanità altera che attraverso una musica che ha la caratteristica di essere spesso un’interpretazione classica e manieristica dei più tradizionali stilemi della musica popolare occidentale (dal folk al blues passando per Kurt Weil), mantiene però la capacità di esprimere un sapore irriverente e disturbante, sublimandosi in un suono fuori da collocazioni temporali o geografiche, in grado di riportare alla luce emozioni e stati d'animo sepolti nel profondo, sempre nuovi, sempre sublimi. Questa musica più che portarci qualcosa di nuovo, ci trascina in profondità per ritrovare qualcosa che è sempre stato lì, sedimentato nel profondo da ascolti e suggestioni raccolte chissà dove e chissà quando e che, opportunamente sollecitate, riprendono senso e riacquistano


forza evocativa. E quindi Ellis si ritaglia progressivamente il suo posto al sole (sigh!) con una carica creativa che lo porta addirittura a superare i confini del gruppo verso qualcosa di più sperimentale e rumoroso, in quello che fu uno dei side-project dei Bad Seeds dagli sviluppi sonori e creativi di maggior successo: nel 2007 prende parte all’avventura Grinderman (omaggio a Grinderman Blues di John Lee Hooker) con Nick Cave, Jim Sclavunos alla batteria e Martin P. Casey al basso; saranno pubblicati 2 album, molto ben accolti dalla critica (soprattutto il primo) prima di sciogliersi nel 2011 e lasciare dietro di sé i cocci fumanti di chitarre, violini e batterie tritate dalla furia di quattro over-50enni ad alto tasso di testosterone, oltre ad un postumo e trascurabile Grinderman 2 RMX. Ma ancora non basta. La strabordante iperattività di Ellis – un vero horror vacui, il suo – lo porta a intraprendere una collaborazione per certi versi ancora più intima con Nick Cave, una collaborazione spesso esclusiva, a due, sulla musica per film e teatro. Del resto, l'interesse di Cave per le colonne sonore dei film è documentato fin dalla fine degli anni '80 con la partecipazione al soundtrack de Il Cielo Sopra Berlino e Ghost of the Civil Dead, accreditato al trio Cave-Harvey-Bargeld, ma è con Warren Ellis che ha davvero ampliato i suoi orizzonti in questo campo e ne ha fatto un prolifico filone verso cui incanalare il suo talento. Nel 2005 infatti viene composta dai due la colonna sonora per il film The Proposition (La Proposta) scritto dallo stesso Cave e diretto da John Hillcoat. E’ il primo capitolo di una lunga serie di produzioni di musica da film che proseguiranno fino ai giorni presenti. I numerosi lavori della coppia per il cinema, tuttavia, condividono un'affinità con gli album in studio dei Bad Seeds, per le sfumature sonore e per la sensibilità descrittiva. È una parte della discografia di Cave che si potrebbe correre il rischio di trascurare, (s)qualificandola pregiudizialmente come minore, derivativa, quasi un’espressione solo parziale del talento dei suoi autori, come se senza i film i pezzi risultassero ridondanti o incomprensibili. Ma così non è: il corpus delle composizioni per cinema ha un’ampiezza e profondità espressiva che rende queste colonne sonore indipendenti dai loro complementi visuali.

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Hanno un senso anche isolate da essi, anche come composizioni autonome in quanto costruite quasi sempre in maniera impeccabile. Cave ed Ellis hanno sfornato colonne sonore a ritmo sostenuto negli ultimi quindici anni e hanno accumulato una grande quantità di lavori, per lo più strumentali. È una discografia che seduce per prossimità i fan dei loro lavori precedenti o principali, ma a cui accostarsi anche al netto da pregresse esperienze con NC&BS: vale la pena farsi cullare dagli arrangiamenti d'archi di Ellis, vale la pena immergersi nelle loro colonne sonore, per lo più minimali e atmosferiche, e che in un certo senso riportano Ellis proprio là da dove era partito, alle sperimentazioni strumentali a base di arpeggi di pianoforte (una volta erano le chitarre), contrappunti di batteria o sorde percussioni, bordoni di archi. Si è smorzata la furia e il gusto per le impennate dissonanti e tachicardiche. E’ rimasto il senso profondo di un suono che vuole soprattutto suggestionare, evocare e meravigliare. Di seguito un breve excursus sui lavori per certi versi più significativiin ambito di musica per cinema/TV firmata Cave-Ellis. [2005] Nick Cave & Warren Ellis - The Proposition Colonna sonora del film The Proposition scritto da Nick Cave e diretto da John Hillcoat. Western del 2005, scritto da Cave, conferma in pieno la poetica di Nick Cave, tanto che sembra possa essere uscito direttamente dalle Murder Ballads del 1994: morte, violenza, omicidio, tradimento familiare gli ingredienti oscuri che richiedono una colonna sonora coerente col clima emotivo. Il risultato è un lavoro interessante, per certi versi paradigmatico e fondativo di un modus operandi in fatto di colonne sonore da parte delle coppia Cave-Ellis: la colonna sonora è composta quasi esclusivamente da temi strumentali caricati con archi lamentosi e delicate melodie di pianoforte. I testi sono minimi e quando Cave canta è più un gemito sottile che sembra fondersi con gli strumenti piuttosto che agire come fondamento della canzone. Ci sono alcune tracce esclusivamente d'atmosfera (i vari temi denominati Thing suggeriscono proprio questa idea di abbozzo, oppure Martha’s Dream), ma si possono cogliere scorci di interesse nelle tre parti di The Rider, dove i sussurri inquietanti di Cave completano l’angoscioso lamento delle corde di Ellis, fino a vere proprie ballate convenzionali come The Rider’s Song. [2007] Nick Cave & Warren Ellis - The Assassination of Jesse James By The Coward Robert Ford Colonna sonora del film The Assassination of Jesse James By The Coward Robert Ford di Andrew Dominik. Si tratta della Colonna sonora probabilmente più conosciuta di Cave e Ellis. Siamo sempre dalle parti di The Proposition per quanto attiene strumentazione e sonorità, anche se qui l’angoscia cupa viene mitigata da un’atmosfera meno inquieta, ma che in ogni caso riflette la tensione di un film sempre profondamente drammatico. Ciò che rende così eccellente L'assassinio di Jesse James è la sua complessità e organicità, come se prendesse tutto il meglio di Cave ed Ellis – finanche di quello a venire - e lo legasse assieme in un'elegante colonna sonora piena di alta drammaticità e melodie di pianoforte struggenti. Da un punto di vista strumentale, il pianoforte di Cave risulta qui maggiormente al centro delle composizioni: in Song for Jesse per pianoforte e celesta, ma soprattutto in What Must Be Done, lenta ballata per pianoforte che si intreccia con un Ellis insolitamente pacifico, dolce e consolatorio.


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Al contrario, tracce come Cowgirl e Carnival sono dominate dal violino di Ellis, in una forma che riporta alla tradizione in stile Americana e alle prime tracce dei Bad Seeds. In What Happens Next troviamo infine conferma del mestiere e del talento del duo, grazie a una frenesia vorticosa di timpani martellanti e un bordone d’archi impiegati come nel più classico ed elegante canone della musica da cinema. [2010] Nick Cave & Warren Ellis - The Road Colonna sonora del film The Road di John Hillcoat Arriviamo al terzo capitolo di quella che idealmente potremmo identificare (assieme a The Proposition e a The Assassination of Jesse James) come una trilogia cinematografica (di cui Cave è sceneggiatore) e musicale non ufficiale, accomunata da temi ricorrenti quali la lealtà, la famiglia, la propria coscienza alle prese con dilemmi terribili e insolubili, sullo sfondo di un paesaggio desolato e incombente sia esso l'implacabile vastità dell’outback australiano di The Proposition, le fatiscenti città del West attraverso le quali Jesse James conduce la sua vita vagabonda o le devastate lande post-apocalittiche di The Road. Il mito occidentale del progresso rappresentato dal pioniere e dalla frontiera viene ribaltato e rimpiazzato da una torbida nebbia morale che sembra essere il miasma che sgorga da queste lande di desolazione, metafora potente e implacabile di una condizione umana che è da sempre al centro della poetica di Cave. Dal punto di vista squisitamente musicale, troviamo qui sviluppati in maniera ancora più compiuta i tratti salienti delle opere precedenti: strumentazione minima, note di pianoforte distanziate per accentuarne la drammaticità, violino debole e triste e l'occasionale fisarmonica discordante che danno forma a composizioni che piuttosto che apparire mutilate e incompiute senza immagini ad accompagnarle, evocano panorami nello spazio tra gli strumenti che sono sorprendenti e commoventi quanto le scene di celluloide per accompagnare le quali sono state scritte. La title track è bellissima, nel suo essere tenera e struggente, un pezzo che ricorda le atmosfere di No More Shall We Part, uno dei primi album a cui Warren Ellis ha collaborato come Bad Seeds. Con Mother, Memory e The Beach siamo alle prese con i momenti più introspettivi e romantici, The Church è perfetta nel suo minuto e mezzo di laconica poesia. Per contrastare tutto questo splendore ci sono un paio di tracce che si fanno strada rumorosamente attraverso due

delle scene più terribili del film, Cannibals e The House: la prima impiega tamburi primordiali e pugnalate casuali di violino; nella seconda, un muggito dissonante di tubi sotterranei si insinua furtivamente, trasformandosi in una frenetica pista rumorosa densa di paura e adrenalina – siamo dalle parti dei Liars, per intenderci. [2012] Nick Cave & Warren Ellis - Lawless Colonna sonora del film Lawless diretto da John Hillcoat e scritto da Nick Cave La sceneggiatura di Nick Cave per il film di gangster contrabbandieri Lawless è stata anche l’occasione per un'altra colonna sonora firmata da lui stesso e da Ellis, questa volta però con un nutrito e prestigioso gruppo di artisti a supporto da Emmylou Harris a Mark Lanegan, da Ralph Stanley a Willie Nelson - alle prese con una serie di cover in versione countryhillbilly. Ad un ascolto decontestualizzato, questa colonna sonora potrebbe sembrare un album di cover country-blues firmato Grinderman, il progetto parallelo ma più rumoroso dei Bad Seeds. Cave ed Ellis si trasformano per l’occasione nei punker in declinazione bluegrass dandosi un nuovo nome d’arte, The Bootleggers, mentre vari cantanti iconici si uniscono a loro per coprire una gamma di classici pop e rock. Forse il pezzo forte di tutto il lavoro è rappresentato dalla composizione originale di Cave-Ellis, Cosmonaut, così che quando le note ariose della voce di Emmylou Harris risuonano in esso si emozianano anche gli ascoltatori meno sensibili. Vanno ricordati poi Ralph Stanley che fornisce la voce in una cover di Sure 'Nuff' N 'Yes I Do di Captain Beefheart, mentre Mark Lanegan degli indimenticati Screaming Trees è presente in una delle due versioni country (!) di White Light / White Heat dei Velvet Undergound. Lo sradicamento del brano dalla New York di Lou Reed e Sterling Morrison ai Monti Appalachi, imprevedibilmente, funziona e soprattutto il testo è assolutamente coerente e credibile. Gli artisti dotati di mestiere e di talento riescono a fare esattamente questo. [2016] Nick Cave & Warren Ellis - Mars Soundtrack della serie tv Mars prodotta da Ron Howard e Brian Grazer per National Geographic Il tema dello spazio profondo e della fantascienza sono sempre stati uno degli ambiti più fecondi e intriganti in tema di colonne sonore. Certo però che Cave e Ellis alle prese con una colonna sonora di fantascienza sembra proprio… fantascienza. Ovvero qualcosa di così lontano dalla sensibilità dei


due, da sempre rivolti all’introspezione e a temi sonori che affondano profonde radici nella classicità (blues, folk, rock) e nella ruralità (outback australiano, west americano). Ma ancora una volta i due spiazzano e si rivelano capaci di imprevedibili reinvezioni del proprio stile, confrontandosi con stile e intelligenza con sintetizzatori ed elettronica, rivelandosi in composizioni tra le più eteree mai scaturite dalla fucina Cave-Ellis, degne di comparire accanto alle opere di Eno e Aphex Twin. In questo lavoro Cave e Ellis si cimentano con l’esplorazione di una vasta gamma di suoni: chitarre distorte che stridono ruffiane in Space X, arpeggi di tastiera spezzati su Space Station e grandi dosi di suono sintetizzato, che suggeriscono e riempiono il vuoto dello spazio. In Planetarium, i droni pieni di sentimento sono alla base di colpi di archi sintetizzati simili a fiati. La traccia si sviluppa magnificamente, con sottili evoluzioni e fraseggi che creano un senso sia di anticipazione che di quiete. Come si addice a una colonna sonora di un film, non ci sono voci, a parte l'apertura Mars Theme e la chiusura Life on Mars, entrambe le quali avrebbero ben figurato appese allo Skeleton Tree. L’impressione generale è infatti quella che Mars fosse un prodromo, uno studio per l'ambiente sonoro che ha reso l'acclamato album Skeleton Tree del 2016 di Nick Cave & the Bad Seeds così intensamente atmosferico. Quale sia venuto prima non è chiaro, ma è sufficiente dire che entrambi abitano la stessa atmosfera sonora di colore scuro e super carica di suggestioni. (SZ) DISCOGRAFIA Per chi volesse approfondire ulteriormente, di seguito una discografia aggiornata della musica per cinema/TV firmata Cave-Ellis. Colonne Sonore firmate da Nick Cave (senza Warren Ellis): [1987] Nick Cave, Blixa Bargeld, Mick Harvey 2 brani nella colonna sonora del film “Wings Of Desire” (“Il cielo sopra Berlino”) di Wim Wenders [1989] Nick Cave, Blixa Bargeld, Mick Harvey - “Ghosts...Of The Civil Dead” Colonna sonora del film “Ghosts...Of The Civil Dead”, film di cui Cave è co-autore, diretto da John Hillcoat. [1996] Nick Cave, Blixa Bargeld, Mick Harvey - “To Have And To Hold” - Colonna sonora del film “To Have And To Hold”, film scritto e diretto da John Hillcoat.

Colonne Sonore firmate Nick Cave & Warren Ellis: [2005] Nick Cave & Warren Ellis - “The Proposition” Colonna sonora del film “The Proposition” scritto da Nick Cave e diretto da John Hillcoat. [2007] Nick Cave & Warren Ellis - “The Assassination of Jesse James By The Coward Robert Ford” Colonna sonora del film “The Assassination of Jesse James By The Coward Robert Ford” girato da Andrew Dominik. [2009] Nick Cave & Warren Ellis - “White Lunar” “White Lunar” è un disco targato Nick Cave & Warren Ellis. Si tratta di un lavoro idealmente compost da due dischi: Il primo, contenente estratti da tre film: “The Proposition”, “The Assassination Of Jess James By The Coward Robert Ford” e “The Road”; il secondo disco si compone di brani estratti dai film “The Girls of Phnom Penh” e da “The

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English Surgeon”, più alcuni inediti dagli archivi del duo. [2010] Nick Cave & Warren Ellis - “The Road” - Colonna sonora del film di John Hillcoat [2012] Nick Cave & Warren Ellis - “Lawless” - Colonna sonora del film diretto da John Hillcoat e scritto da Nick Cave [2012] Nick Cave & Warren Ellis - “Days Of Grace (Dias de Gracia)”, film del regista messicano Everardo Valerio Gout. Nick Cave e Warren Ellis ne hanno curato gran parte della colonna sonora... [2014] Nick Cave & The Bad Seeds - “20,000 Days on Earth” Vinile da 10 pollici contenente due brani, pubblicato in occasione dell'uscita nei cinema di “20,000 Days on Earth”. [2014] Nick Cave & Warren Ellis - “West Of Memphis” Colonna sonora dei film di Amy J. Berg uscita per il Record Store Day 2014. [2015] Nick Cave & Warren Ellis - “Loin des Hommes (Far From Men)”. Nick e Warren alle prese con la colonna sonora di questo film del regista David Oelhoffen, ambientato durante la guerra franco-algerina nel 1954. [2016] Nick Cave & Warren Ellis - “Mars” Soundtrack della serie tv prodotta da Ron Howard e Brian Grazer per National Geographic. [2016] Nick Cave & Warren Ellis - “Hell or High Water” Colonna sonora del film di David Mackenzie, che ha tra i protagonisti Jeff Bridges e Chris Pine. [2017] Nick Cave & Warren Ellis - “War Machine” Soundtrack del film con Brad Pitt, diretto da David Michôd. [2018] Nick Cave & Warren Ellis - “Kings”


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“E voi da che parte state?”

CAPITOLO 8

Viaggio nei romanzi di Nick Cave di Marco Denti Ci vuole un bel coraggio ad affondare, e l’oceano letterario in cui sguazza Nick Cave è molto più vasto e multiforme di quanto appaia in superficie perché contiene un tessuto profondo e animalesco che riesce a riproporre con forme ipnotiche e avvolgenti. La stratificazione della scrittura ha origine nelle idiosincrasie di Nick Cave, riassunte così: “Ho

idee filosofiche che non è facile tradurre in pratica. La principale è che le leggi che presiedono la vita di tutti quanti non mi riguardano; non dovrebbero valere per nessuno, ma non tutti credono in se stessi al punto di capire e accettare la propria diversità”. I riferimenti sono emersi ben presto, a partire da “Jack’s Shadow” in “You Funeral, My Trial” dove cantava: “Cacciato dalle luride segrete, dentro un chiasso completamente diverso, scaraventato dalle loro istituzioni dentro un chiasso completamente diverso. E la sua ombra presto divenne una moglie, e i figli afflissero l’ultima parte della sua vita finché una notte afferrò un coltellaccio e s’intrufolò in città e snidò la propria ombra”. Ispirata da Jack Henry Abbott, l’autore di “Nel ventre della bestia” (un libro indispensabile) che diceva che “al fondo, gli uomini hanno dei principi; le volgarità sono acquisite”, “Jack’s Shadow” inaugura quella che può anche essere vista come una galleria degli orrori (e dei dolori), ma sempre seguendo la regola fondamentale, scritta ancora da Jack Henry Abbott, per cui “niente che tocchi il cuore umano è assurdo”. Allora in “From Here To Eternity” ci sta anche “Cabin Fever!” dichiaratamente ispirata da “Moby Dick” e “Saint Huck” che assembla Huckleberry Finn ed Elvis. La solitudine degli eroi e dei personaggi è una visione trasmessa attraverso il tempo, assecondando la complicità di Wim Wenders: secondo il quale “le storie

sono impossibili e che è impossibile vivere senza storie”.

Scavando tra i miti americani, la prima svolta narrativa è Bline Lemon Jefferson in “Re Inchiostro” che porta nel cuore del Delta: “Stupitevi, ora, per come l’inclinarsi del sicomoro verso terra somiglia al curvarsi della schiena del vecchio”. Bline Lemon Jefferson subisce un mondo svuotato di luce, che pure trabocca di suoni. Sente il tronco contratto del kudzu attaccare il robusto ceppo principale del sicomoro. Ascolta e sente gemere gli antichi rami dell’albero mentre esso cede alla trama assassina del rampicante. Sente affiorare lentamente le radici dal terreno mentre l’albero viene estirpato. Ascolta, ora, il suono del proprio corpo incatenato, lo scricchiolio delle costole e della spina dorsale, le membra imprigionate e i polmoni che anelano aria, soggiogato e inceppato e colpito dalla dolorosa gragnuola di colpi della vita”. Bline Lemon Jefferson è, naturalmente, Blind Lemon Jefferson e, seguendo le sue peregrinazioni, Nick Cave, rappresenta il blues come un esorcismo: “E

adesso qui, attraversata e lasciata alle spalle Memphis col sole rosso sangue che mi divorava la nuca e l’anno era il 1929. Ebbi, quel giorno, l’occasione di sentirmi un angelo con tanto di ali, nero e cieco, seduto su un cassone negli isolati periferici di Elysium, spulciando acari e pidocchi dalle mie tristi piume e pizzicando sulle corde, per voi, una ninna-nanna sulla schiena di un fesso”. Attorno al Delta per anni Nick Cave si perde con una storia, “Swampland”, che sarebbe

presto andata incontro a una trasformazione fondamentale. Ricordava Nick Cave in Re Inkiostro II: “Nel 1985 mi trasferii a Berlino dove mi

misi in testa di scrivere un romanzo. Per i tre anni seguenti mi rinchiusi in una stanza a Kreuzberg e lo scrissi. Lo intitolai E l’asina vide l’angelo. Parlava di un giovane eremita pazzo e muto di Euchrid Eucrow il quale, essendogli stata negata la facoltà di parlare, alla fine esplode in una rabbia catartica e mette in ginocchio la comunità religiosa in cui vive. La storia, ambientata nel sud degli Stati Uniti e narrata attraverso la voce o non-voce di Euchrid Eucrow, era scritta in una sorta di parlato-pensato iperpoetico, non fatto per essere detto, un linguaggio ibrido che era in parte biblico, a volte oscenamente


riverente e altre volte riverentemente osceno”.

Ne esce un romanzo turbolento, denso e greve: E l’asina vide l’angelo, risente in maniera evidente della tradizione gotica della letteratura americana dell’asse che va da William Faulkner, a, soprattutto Flannery O’Connor. E per Nick Cave non è soltanto un’acrobazia geografica perché come diceva Wim Wenders “ogni viaggio dall’Eu-

ropa in America è più di un passaggio da un continente all’altro: è un viaggio nel tempo”. Succede tutto a Ukulore, una contea immaginaria che deve molto a Swampland ed è “un posto

dove le anime normali non osano andare, dove la foschia s’alza e resta appesa al soffitto intrecciato di rami e rampicanti come un cielo finto; dove alberi alti e sottili sembrano piegarsi per adorarmi e un milione di ombre ammassate si scontrano e girano, scontano e girano, dal tronco al cespuglio, muovendosi in oscure manovre velate da spruzzi di vapore”. Euchrid Eucrow dice che la palude lo “succhia di carne in carne”, e si capisce in uno dei passaggi più intensi, dove racconta la dedizione del padre per le trappole: “Erano tutte fatte in casa e avevo

presto capito che incarnavano il suo insopprimibile e atavico odio per il mondo. Raccoglieva scarti metallici dal cumulo di rottami: pezzi di carrozzeria d’auto, coperchi di ruote e paraurti, cavi elettrici e tasselli di sostegno, molle e serpentine, chiodi arrugginiti, scatole di vernice, contenitori di benzina, cilindri d’acciaio, tubi di rame e piombo, viti e bulloni, vecchi pentolini, posate, pannelli di metallo, cavi d’acciaio, catene e cuscinetti a sfera. Li trattava con cesoie, lime, pinze, forbici da lattoniere, fuoco e acqua gelida, martello incudine e magli di piombo. Li scaldava, piegava e martellava fino a dar loro forme mostruose. Oppure li affilava in punte sinistre, saldando zanne di latta e chiodi piallati su pesanti fauci nere ricavate da coperchi d’acciaio o da pezzi di binari e paraurti irrobustiti con pietre e bulloni. Costruiva anche la molla, il lucchetto e il

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grilletto”. L’assemblaggio non è tutto, anzi: “Le trappole non avevano un tratto comune. Se vi era, stava nel fatto che tutte erano inutilmente crudeli e tutte crudelmente ingegnose; persino alle trappole più piccole, quelle per topi o scorpioni, era sotteso un ingegno feroce. Ed era una, la caratteristica più evidente; erano costruite per trattenere e mutilare, mai per uccidere”. La

trappola è soltanto l’inizio (il resto va scoperto da sé), poi prende il sopravvento il ricordo di

“albe, crepuscoli, lune e tramonti del tempo in cui la valle intera lavorava al raccolto, il ricco premio d’oneste fatiche e buona salute, il dono munifico d’un amore umano e divino” e infine ecco che tutto “il mondo di Euchrid, in un’eco di rime, tremolò nella luce”. Il protagonista è colto da un delizioso tremore, da brividi di gloria con

“il sangue mi fumava e ronzava nelle vene, innalzando un canto pulsante. Il cuore non perdeva un colpo e aggiungeva tamburi alle pulsazioni, le pompe del piacere impazzite e sonanti, la carne ridotta a un caldo ammasso di fango”. Più

dell’intricata trama è l’atmosfera in cui sopravvivono gli ukuliti, condita da tre anni di pioggia e con l’apparizione degli angeli (un elemento visionario che accompagna Nick Cave da quando ha frequentato “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders, seguito poi anche in “Così lontano e (così vicino). Molto dipende da quello che sosteneva Henry Corbin, richiamato spesso da Harold Bloom in “Visioni profetiche”: “L’uomo, per sua

intima natura, è legato al sistema delle realtà superiori, anche se ordinariamente questo sistema dei mondi supremi a lui sembra qualcosa di naturale al modo in cui la sua duplice esistenza, che prevede materia e spirito, nella sua globalità a lui sembra ovvia. L’uomo non si meraviglia affatto di quei passaggi che deve fare continuamente nel mondo dell’azione, dal regno dell’esistenza materiale a quello dell’esistenza spirituale. Per di più, il resto degli altri mondi che penetrano anche nel nostro può sembrarci parte di un qualcosa di naturale”. In una lettera di addio “saremo uniti in un mondo migliore, poiché ne abbiamo conosciuto entrambi uno triste e terribile”. Le connessioni letterarie sono continuate nel tempo, con le citazioni del “Paradiso perduto” di John Milton in “Red Right Hand” e probabilmente con le parafrasi di Shakespeare (“Se è proprio amore, dimmi quanto”) in “Do You Love Me?”, due delle più trascinanti canzoni di “Let Love In”. Ma la sua opera letteraria miglio-


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re, resta “Murder Ballads” anche se è un disco, perché ha saputo rileggere “Stagger Lee”, il mito secondo Greil Marcus in “Mystery Train”: “In

gamba, libero, più tosto del diavolo e fuori dalla portata di Dio, per coloro che seguirono la sua storia e in questo modo ne divennero parte, Stack-o-Lee fu definitivamente l’immagine forte di un uomo libero”. Ma la versione di Nick Cave è

proiettata nel futuro ed è definitiva perché, più del fuorilegge e dell’omicida, quello che cercava Cave era un’estensione della personalità. Nelle “Lezioni di letteratura” Nabokov scriveva “che la

vita umana sia solo la prima puntata del romanzo dell’anima e che il segreto personale di un individuo non vada perduto nel processo di dissoluzione terrena, diventa qualcosa di più di una congettura ottimistica, e anche di una questione di fede religiosa, se teniamo che solo il senso comune esclude l’immortalità”. Ecco: Nick Cave

attinge a un mondo unidimensionale, o almeno molto omogeneo: tutto ruota intorno all’amore e alla fede, due temi che sono correlati e saldamente legati tra loro nella visione cattolica. Ma nella percezione di Nick Cave, la costante delle immagini bibliche, sia nelle canzoni che nei romanzi, porta a una collocazione dell’amore (soprattutto dell’amore) e della fede in zone circondate d’ombra. Il più delle volte sono proprio i lati oscuri che solleticano l’interesse di Nick Cave, che li indaga senza paura. Come scriveva in “The Mercy Seat”: “Interpreto i segni e catalogo.

Un dente annerito, una nebbia scarlatta. I muri sono cattivi. Neri. Quasi abissali. Sono il respiro fetido alle mei spalle”. Le immagini sono già in-

tense nelle canzoni e diventano prorompenti con “La morte di Bunny Munro”, dove la ragione-

vole ossessione per Kylie Minogue, si associa a quella per Kate Moss e Avril Lavigne. Il passaggio che la riguarda è un momento significativo, dato che a Bunny Munro “confusamente, gli

sembra che la somiglianza con Avril Lavigne non sia solo casuale, ma soprannaturale. Con un impetuoso pulsare di sangue, si sente risucchiare in un vortice di connessioni e capisce che la ragazza fatata che ha davanti, con le sue labbra azzurrognole, il rivolo di sangue chiaro nella piega del braccio e il letale armamentario di siringa ipodermica e cucchiaio annerito sul tavolino di fronte, è in effetti la collisione accelerata di tempo e desiderio, la coalescenza di tutte le particelle rotanti del bisogno, come il pulviscolo attorno alla lampadina, vivificate dal suo dolore depravato. In quella stanza oscura e appartata, Bunny ha oltrepassato lo specchio e varcato il confine stesso della morte, di quella ragazza e forse anche della sua”. La spontanea perversio-

ne e l’inevitabile inadeguatezza di Bunny Munro ci ricordano, come diceva James Ellroy, uno degli scrittori preferiti di Nick Cave, in “Perfidia” che “il mondo è un posto strano e incasinato” e allora l’innocente e il colpevole, il giudice e l’imputato, meritano l’ultima parola e sarà inevitabilmente un appello, quello di Nick Cave:

“Consideratemi curioso, ma c’è un interrogativo che mi divora. Qual è il vostro ruolo in questa storia? Sì, sto parlando di voi, voi sinistri e silenziosi ascoltatori. Dite un po’, da che parte state?” (MD)


CAPITOLO 9

“The Proposition & Lawless”

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I film con le sceneggiature di Nick Cave di Michele Griggi Nick Cave è un personaggio, come dire, mega, è un cantautore che ormai ha al suo attivo decine di albums e collaborazioni, è un autore di colonne sonore, un attore, è anche uno sceneggiatore, e Dio sa quante altre cose, al momento non mi risulta che sia anche un regista, ma forse si e comunque prima o poi vedrete, arriva anche li. Nick Cave è australiano, lo sapevate? Io no. Lo pensavo inglese, sicuramente europeo, con quel suo gusto per il vestire bene e quello stile un po’ dark, avrebbe potuto essere tedesco, di Berlino, avrebbe potuto essere di New York, per associazione di idee Cave mi rimanda a Lou Reed e da lì a David Bowie, un trio così avrebbe potuto produrre collaborazioni da premio Nobel per la musica e letteratura. Comunque, siccome amo Nick Cave soprattutto per i suoi vecchi album, per esempio “Your Funeral... My Trial”, “Let Love In”, “Henry’s Dream” e per la piccola parte (faceva se stesso?) in “Il cielo sopra Berlino”, ma ero a digiuno sulla sua carriera di sceneggiatore, oltre al fatto che non lo ascolto più molto, sorry Nick, ho svolto qualche ricerca, mi ci sono perso. Amici, per approfondire Nick Cave ci vuole un anno sabbatico, forse prima ho scordato che è pure scrittore, come scrittore non mi piace tanto, lo ammetto, nella oscura mente di Nick troppe voci, troppi fantasmi, la genialità gli esce a fiotti, troppa roba. La carriera, per il momento abbastanza breve e sospesa, non si sa più nulla da circa otto anni, di Nick come sceneggiatore, nasce dalla sua amicizia con John Hillcoat, ovviamente australiano come lui. Cave partecipa come co sceneggiatore e attore nell-esordio di Hillcoat “Ghosts…of the Civil Dead” e nel seguente “To Have And To Hold”, stiamo parlando della fine degli anni ottanta per il primo e del ‘96 per il secondo film. È solo nel 2005 però , che Cave scrive, tutto da solo la sceneggiatura del film di Hillcoat “The Proposition - La proposta”, ad oggi sicuramente la sua migliore prova come sceneggiatore, mentre il regista secondo me ha dato il meglio con l’adattamento per il cinema del romanzo “La strada”, di Cormac McCarthy. “The Proposition” è una sorta di western australiano, ambientato in paesaggi desertici, in mezzo ad una natura molto ostile. Abbiamo gli inglesi che hanno iniziato a colonizzare questo enorme paese, hanno avuto gioco facile nel soggiogare la popolazione indigena, i pacifici aborigeni, una razza che

aveva saputo rispettare e trovare un equilibrio in queste terre veramente inospitali. I colonizzatori trovano molto più difficile invece piegare la terra alle loro esigenze, che a quanto pare sono di replicare usi e costumi inglesi in mezzo al deserto, missione impossibile come insegna la storia, direi che fatico oggi a pensare a qualcuno di meno British di un australiano, a parte Nick Cave. In questo film, tratto da un romanzo, come praticamente tutti i lungometraggi di Hillcoat, abbiamo un capitano di polizia, Stanley, il quale deve sgominare una gang ribelle guidata dal terribile e apparentemente invincibile Arthur Burns, gang che si è nascosta tra le rocce lontano dai centri abitati. Burns ha due fratelli, Charles e Mike, che non fanno più parte della banda e vivono in una fattoria con altri membri della famiglia, Stanley con un pretesto attacca la fattoria in una sparatoria che è l’inizio del film, spettacolare e violento come piace a Nick Cave che nelle interviste dice anche che nelle sue sceneggiature è in genere più violento di come poi il film esce fuori. Compiuta una strage e catturati Charles e Mike il capitano Stanley fa una proposta a Charles Burns, da qui il titolo del film, se ucciderà per lui il fratello Arthur, lui non farà impiccare Mike il giorno di Natale, una settimana dopo. Non vi svelo più di questo, se non che sulle tracce di Arthur c’è anche il personaggio meno presente ma più inte-


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ressante del film, un cacciatore di taglie, invero piuttosto anziano, interpretato da John Hurt. La cosa più interessante del film è il rapporto al limite della sopportabilità e probabilmente anche oltre, tra l’uomo, il colonizzatori inglese, e la natura selvaggia e inospitale dei territori australiani, con il caldo e gli insetti che la rendono invivibile, al tempo stesso però c’è la cocciutaggine dei coloni che tutto sopportano pur di piegare il territorio alla propria volontà. Sappiamo che l’Australia era il nuovo mondo dove in tanti sono andati per ripartire da zero, molti erano quelli che ai margini della società e della legge nel Regno Unito, venivano incentivati a emigrare. Il seguente e più recente film di Hillcoat sceneggiato da Cave è “Lawless”, anche questo tratto da un romanzo, narra una storia vera, al termine del film si vede una foto con i veri volti dei protagonisti, e anche qui assistiamo alla lotta tra le forze dell’ordine e i fuorilegge, ovviamente simpatizzeremo per i fuorilegge, anche qui abbiamo una famiglia con tanti fratelli, i Bondurant, che nel 1929, durante il proibizionismo e alle soglie della grande depressione, produce whiskey nella contea di Franklin, in Virginia. Whiskey molto apprezzato e acquistato anche dalle forze dell’ordine, almeno finché le alte sfere della polizia inviano sul posto un vice sceriffo violento e con delle turbe sessuali, e non iniziano a chiedere il pizzo ai produttori. L’unica famiglia a non piegarsi sarà quella dei Bondurant, guidata dal fratello di mezzo Forrest, del quale si dice sia praticamente immortale e si narrano improbabili gesta di sopravvivenza. È un film spettacolare e divertente, con poca profondità e personaggi e situazioni un po’ da fumetto, il che ci piace, ma al cinema non funziona benissimo, comunque vale la pena la visione e non annoia. In questo film Nick Cave ha curato anche la colonna sonora, scrivendo le musiche e le canzoni, coinvolgendo nel progetto alcuni amici musicisti di un certo calibro, per cui forse la cosa più interessante è andare a ripescare la colonna sonora per scoprire che ci cantano e suonano per esempio Mark Lanegan, Emmylou Harris e Ralph Stanley, che, parlo da ignorante, dovrebbe essere un signor qualcuno nel Country, e c’è anche Willie Nelson, lui sono sicuro che è qualcuno. Otto anni sono passati da “Lawless” e non risultano altre sceneggiature di Nick Cave che siano diventate dei veri e propri film. Quella per il remake di “The Crow” è in sospeso per problemi di produzione e quella di “20.000 Days On Eath” è sostanzialmente un documentario sulla sua giornata lavorativa. La sua ultima apparizione da “attore” è del 2016 per

una collaborazione con Wim Wenders, “Les beaux jours d Aranjunez”, giustamente nel ruolo di un musicista. In conclusione, che dire, il Nick Cave sceneggiatore mi appare come una promessa non ancora mantenuta, me l’aspetto prima o poi, riuscire a mettere in scena qualcosa di completamente suo, la trasposizione sullo schermo dei cinema di un suo romanzo o qualcosa di scritto appositamente, affidato ad un amico regista o magari con lui stesso dietro alla cinepresa, forse un canale TV delle nuove generazioni tipo Netflix o Apple avrà la genialità di commissionargli una serie, vanno molto le cose un po’ oscure che scavano nell’immaginario e nella psiche, Nick sarebbe perfetto, alla fine è un Neil Gaiman che ha preferito gli strumenti musicali come primo mezzo per esprimersi, ma che va molto d’accordo anche con….penna e calamaio. Artista amato veramente a 360 gradi, gli vuole bene il metallaro come il discotecaro, Nick Cave non ha nessuna intenzione di smettere di stupirci e intrigarci. (MG)

Nick Cave per Wim Wenders


CAPITOLO 10

Rock Covers # 2

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“GHOSTEEN” Nick Cave And The Bad Seeds di Sergio Bianco Il ricordo delle immagini sognate, a volte, e estremamente nitido e particolareggiato come se la nostra vista, nel sogno, si potenziasse di capacita superiori. Il dipinto che appare nella cover dell'opera musicale di Nick Cave, e un'immagine onirica ricca di dettagli e di simboli. Si tratta del primo disco dell'artista dopo la morte del figlio quindicenne. I testi della composizione grafica sono sfondati in bianco, espressi con carattere Albertus distanziato e cadenzato in modo sapiente. Il titolo GHOSTEEN (fantasmino) e disposto in orizzontale, al centro del quadrato. Il primo elemento, che appare in modo non visibile, e la croce. La croce e l'incontro tra materia (orizzontale) e spirito (verticale). In relazione con la linea orizzontale del Titolo, tracciando, come nel segno cristiano della croce, la linea verticale centrale del quadro risalta l'agnello, illuminato da un raggio abbagliante. L'origine della luce, compenetrata con la colomba in volo, evoca lo Spirito Santo. L'agnello rappresenta il sacrificio dell'innocente. Il Cristo che dona la vita per redimere i peccati del mondo. La morte ingiusta del figlio e utile a comprendere il mistero della vita. Il quadro si divide in due spazi. Sopra e movimento. Sotto e fermezza. Tale fermezza, in termini fotografici, e colta con tempi di apertura minimi per cristallizzare i dettagli, senza dinamica. Nello spazio soprastante scaturisce, dal centro, un branco di cavalli bianchi al galoppo che eleva schizzi di acqua. La corsa dinamica dei cavalli libera nel cielo i celesti volieri, pappagalli e aironi, in coppia come un'entita unica. Lo schizzo genera un arcobaleno appena percettibile ma presente alla sorgente del fiume. Piu che un branco di cavalli mi piace pensare che sia il ricordo del branco pensato dal cavallo solitario che cerca una sua trasformazione interiore per avvicinarsi al divino. Nello spazio sottostante appare Lui, il cavallo bianco che apparteneva a quel branco. Il ciuffo della criniera evoca la forma in evoluzione dell'unicorno. Nel mito, l'unicorno puo essere avvicinato solo da una vergine e ha la virtu di purificare le acque. L'unicorno bianco compie il rito della purificazione delle acque, ovvero la purificazione dei dolori del passato. In quell'istante nessun animale beve. Scimmie sugli alti rami pavoni fenicotteri e fiere, e magari una coccinella invisibile, sono tutti immobili, insieme alla natura, in attesa di un segno. L'agnello, con le orecchie istintivamente ben tese, si rivolge al lettore e comunica la sua attenzione nei confronti di chi e vivo ed osserva l'opera, in quel momento. Il quadro e quindi un diaframma tra vivi e morti, tra passato che non torna e presente. Il fiume, con il suo percorso, connesso al pi greco, e il filo degli eventi che dalla sorgente porta al mare. L'acqua e l'azione dello spirito santo che, nel battesimo, rappresenta la nascita verso il divino. Nel caso particolare, chi perde un figlio inizialmente non riesce a farsene una ragione. Col tempo, si puo convincere che questa perdita sia un sacrificio utile per capire un progetto piu ampio. Il figlio perso e il sacrificio per una esistenza ricca di particolari ma ancora statici, senza vita, finche non avviene il momento della purificazione dell'acqua ovvero dell'accettazione piena del passato. Il quadro, nella sua fermezza, anticipa uno splendore che forse accadra. E un fermo immagine che diventera dinamico generando un miracolo che non ci e dato modo di vedere. (SB) Sergio Bianco, grafico, è autore de “I Codici della Logogenesi”: https://www.logogenesi.it/codici-della-logogenesi


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The Aussie Invasion pt.1

CAPITOLO 11

“I buoni frutti che danno semi cattivi” I dischi di The Boys Next Door e The Birthday Party di Marco Massarelli

L’esordio discografico su lunga distanza di Nick Cave, Mick Harvey e soci avviene dopo alcuni anni di concerti infuocati, risse con gli astanti e sbronze colossali; ma come spesso accade lo studio di registrazione e una “montagna troppo alta da scalare” per dei totali neofiti e quindi “Door, Door” del 1979 risulta un disco quasi totalmente privo di quella furia iconoclasta di cui narrano le cronache dell’epoca. Un disco carino, se si vuole molto carino, ma nulla piu; con la voce di Cave che ancora non ha trovato la sua strada maestra e le strutture musicali che non sono nemmeno lontanamente quelle stordenti e lancinanti che arriveranno di li a poco. C’e dentro di tutto, tutto il meglio che girava in quegli anni, ma nessun brano esce in maniera prepotente e soprattutto convincente, ad esempio il tentativo post-punk di “The Voice” sfregiato da quel sassofono del tutto fuori tema, il power-pop slavato e privo di emozione di “Brave Exhibitions”, il brano a-la-Devo “Roman Roman” dove mancano, pero, del tutto ironia e follia… tanto per citarne alcune. Non tutto e “da buttare”, in “Somebody’s Watching” si inizia a percepire la teatralita della voce di Cave, su un pezzo che oscilla perfettamente fra power-pop e punk-wave o nel vaudeville totalmente ubriaco di “Dive Position” dove fa capolino anche il pianoforte pulsante ed ossessivo (uno dei marchi di fabbrica della sua produzione futura) anche se in forma decisamente embrionale e “I Mistake Myself” un ballata gotica del tutto deviata impreziosita da una chitarra taglientissima a meta strada fra Joy Division e Gang Of Four. Londra, un anno dopo. Essere nel centro del mondo musicale, entrare totalmente nel vortice furioso e furibondo di una citta che ingloba, mastica e risputa in ogni momento novita esaltanti e fresche deve aver fatto molto bene ai

Ragazzi Della Porta Accanto, che tornano in patria per dare seguito a “Door, Door”, ma che in realta seguito non e… per nulla. “The Birthday Party” e un disco che segna un radicale cambiamento di marcia e soprattutto lo studio di registrazione non e piu assolutamente un ostacolo, un nemico, anzi ascoltando “Hats On Wrong” si ha appieno la sensazione di un incredibile flusso di coscienza da parte della band, che si lascia andare ad una piece deviata in totale liberta, così come in “The Air Shirt” fondono perfettamente il piu tagliente post-punk con la wave dei Cure ed il gothic dei Bauhaus, anche se Cave inizia a salmodiare le sue litanie invece di cantare, inizia ad urlare, latrare e contorcere i pensieri. “Riddle House” e il perfetto anello mancante fra la morte di Bela Lugosi dei Bauhaus, il Fuoco al Cairo dei Cure e gli incubi sonori dei Sister Of Mercy di “First And Last And Always”. In tutto il disco si sente un particolare amore per il rumorismo di Glenn Branca e le sue Theoretical Girls, dove anche il sax trova finalmente una sua perfetta collocazione come in “Guilt Parade. A mio avviso, pero, il brano piu incredibile (ascoltato con il senno del poi) e “Cat Man”, che non sfigurerebbe per nulla su nessuno dei primi dischi di Cave con i Bad Seeds; qui finalmente la sua voce prende la forma adulta e compiuta che conosciamo e soprattutto lui riesce a padroneggiarla perfettamente, nella maniera sghemba e sporca che lo ha reso l’Artista grandioso che e. 1981 l’anno della svolta, definitiva e senza ritorno. “Prayers On Fire” e IL disco dei Birthday Party che stanno cercando di diventare i Bad Seeds, anche se


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Barry Adamson e soprattutto Blixa Bargeld sono ancora abbastanza lontani. La sua voce e sempre piu potente ed evocativa, così come la sua teatralita assume le forme e le strutture che saranno uno dei marchi di fabbrica della sua carriera, allo stesso modo in cui le composizioni musicali iniziano ad essere quella miscela di tensione e nervosismo che ne connotera l’opera per anni. Un disco clamoroso, anche a distanza di 40 anni e di molti dischi venuti dopo, va ascoltato attentamente, al buio e a volume assordante… niente sara piu come prima, la sola iniziale “Zoo-Music Girl” vale il prezzo del biglietto. Garantito. Il capitolo finale “Junkyard” del 1982 risente pesantemente delle continue frizioni all’interno della band, dell’uso smodato di alcool e droghe e di una stanchezza compositiva che lo rendono un disco pesante e lento, in cui si sente la costante ricerca di Cave ed Harvey di qualcosa di nuovo, ed in questo caso quello che balza (al mio) orecchio e una massiccia iniezione di musica industriale, sia quella degli inglesi Throbbing Gristle che quella dei tedeschi Einsturzende Neubauten (tanto che Blixa di li a poco si unira a loro per le ultime date dal vivo, per poi diventare membro fisso e portante dei Semi Cattivi)… “She’s Hit” e la titletrack “Junkyard” ne sono un esempio perfetto. Non mancano assolutamente brani post-punk folgoranti come “Hamlet (pow, pow, pow)”, deliri rumoristi come “Big-Jesus-Trash-Can” o ballate storte e deviate come “6’ Gold Blade”; che rendono “Junkyard” un disco molto interessante, ma che a mio avviso finisce dentro al cono d’ombra che formano il precedente “Prayers On Fire” ed il successivo “From Her To Eternity” a firma Nick Cave And The Bad Seeds, ma questo e il nuovo capitolo di tutta un’altra storia, che come per il passaggio da The Boys Next Door a The Birthday Party anche in questo caso Cave ci regala un’anticipazione dei sui futuri progetti, rilasciando nel 1983 un extended play dal titolo “The Bad Seed” prima del formidabile ed evocativo epitaffio “Mutiny!”.

THE BOYS NEXT DOOR Albums

Door, Door – 1979 (Mushroom) The Birthday Party – 1980 (Missing Link)

Singles & EPs

These Boots Are Made For Walking b/w Boy Hero – 1978 (Suicide) Hee Haw E.P. – 1979 (Missing Links) Scatterbrain b/w Early Morning Brain (Models) – 1979 Crystal Ballroom Records) Shivers b/w Dive Position – 1979 (Mushroom) Happy Birthday b/w Riddle House – 1980 (Missing Link)

THE BIRTHDAY PARTY Albums

Prayers On Fire – 1981 (Missing Link) The Birthday Party – 1982 (Missing Link) – Originally released in 1980 as The Boys Next Door Junkyard – 1982 (Missing Link)

Singles & EPs

Mr.Clarinet b/w Happy Birthday – 1980 (Missing Link) The Friend Catcher E.P. – 1980 (4AD) Photo by Gianluca Moro Release The Bats b/w Blast Off – 1981 (4AD) Nick The Stripper E.P. – 1981 (Missing Link) Drunk On The Pope’s Blood b/w The Agony Is The Ecstasy (Lydia Lunch) – 1982 (4AD) Dead Joe (Flexi Disc) – 1982 (Masterbag) The Bad Seed E.P. – 1983 (4AD) Mutiny! E.P. – 1983 (Mute) The Friend Catcher E.P. – 1983 (4AD)

Compialtions & Live Albums

It’s Still Living (live) – 1985 (Missing Link) A Collection… (compilation) – 1985 (Missing Link) The Peel Sessions – 1987 (Strange Fruit) The Peel Sessions II – 1988 (Strange Fruit) Hee-Haw (compilation) – 1989 (4AD) Mutiny! / THE Bad Seed E.P. (compilation) – 1989 (4AD) Definitive Missing Link Recordings 1979-1982 (5 CD boxset) – 1991 (Missing Link) Hits (compilation) – 1992 (4AD) Live 81-82 (live) – 1999 (4AD)

Videos

Pleasure Heads Must Burn – 1983 (Ikon) Mutiny! The Last Birthday Party – 2008 (Mute Song Ltd.)


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The Aussie Invasion pt.2

“(I’m) Stranded By A Catman” Small and not exhaustive compendium of Australian "punk and alternative" music from the 70ies & the 80ies. di Marco Massarelli Brisbane è l’epicentro “del terremoto punk” australiano……...I The Saints di Chris Bailey incidono il singolo “(I’m) Stranded” nel settembre del 1976 (qualche tempo prima del travagliato e chiassoso esordio discografico di Sex Pistols a Londra, tanto per intenderci) e dichiarano che una nuova generazione di giovani, insoddisfatti, annoiati e arrabbiati stava covando anche sotto le ceneri di una terra ricca e tranquilla come quella australiana. Al loro fianco si muovono The Leftovers, The Survivors e Fun Things, decretando la scena del Queensland come una delle più fervide, violente e depravate dell’intera nazione. Di li a breve, come in tutto il mondo musicale “anglofono” il punk divenne immediatamente “post” e nella terra dei canguri esplose una scena “garage” florida ed estremamente eterogenea, con pochissime rivali nell’intero globo, e da Brisbane, in particolare, si fecero notare The Screaming Tribesmen. Ma il gruppo “”underground”” che più di ogni altro ha lasciato il segno più evidente nella “storia del rock” sono stati sicuramente The GoBetweens, anche se per raggiungere il successo (ricordate “Cattle And Cane”…) hanno dovuto/voluto trasferirsi nella Terra di Albione, trasformando il loro angolare “post-punk” in un più morbido e sinuoso indie-folk, tanto caro ed “à la page” in Gran Bretagna. Non lontano da Brisbane, nella cittadina di Gold Coast troviamo una delle più importanti e misconosciute band australiane… Seven Ballerinas. Purtroppo autori di un unico singolo (datato 1981) “Sometimes I Feel b/ w Circles” sono stati (a sentire i resoconti e le critiche) una live-band pazzesca ed innovativa, con un sound wave-goth che tentava di mescolare i Joy Division ai

The Saints

Bauhaus, tanto per capirci. Se Brisbane è stata l’epicentro del terremoto, le scosse più intense (e durature nel tempo) si sono avvertite nella capitale, dove nella seconda metà degli anni 70 i Radio Birdman sono apparsi. Deniz Tek è cresciuto ad Ann Arbor nelle vicinanza di Detroit (nel Michigan), patria di Stooges ed MC5 (ogni commento spero sia superfluo) e nei primi anni 70 si trasferisce a Sydney. La sua prima band (TV Jones) non lo soddisfa e presto ne viene escluso; ma con l’amico e surfista Rob Younger decide di formare quella che qualche anno dopo il giornalista musicale Massimo Padalino ebbe a definire “piccola orchestra hard” capace di conferire dinamiche sonore fra le più strabilianti, ad un pugno di canzoni, pregevolissime per qualità scrittorie. La scena della capitale è molto viva e variegata, ma a parte i Birdman non ci sono grossi nomi, fatta eccezione per Hellcats, non tanto perché lasciano qualche particolare segno, ma soprattutto perché erano guidati da Ron Peno, deus exmachina dei futuri Died Pretty; band che più di ogni altra, rappresenta (almeno nel mio immaginario) la


perfezione del suono australiano, dove la più profonda malinconia britannica trova sfogo nelle immense distese desertiche americane, ma con quell’urgenza viscerale tipica delle bands della Terra dei Canguri, ed il loro esordio “Free Dirt” del 1986 ne è l’esempio più fulgido; continuando sulla strada intrapresa ed indicata qualche anno prima da The Church, band che più o meno consapevolmente riporta e “mordenizza” sonorità pop-psichedeliche degli anni 60, al pari e contemporaneamente a gruppi californiani come Rain Parade, The Dream Syndicate, Green On Red, The Long Ryders; una sorta di neopsichedelia che da quelle parti è divenuta famosa come “Paisley Underground”. Come dicevamo, la scena punk della capitale non è particolarmente degna di nota, mentre con il volgere del decennio un manipolo di giovani da vita ad una delle scene “garagepunk” più potenti e infuocate di sempre, The Hard-Ons, The Hoodoo Gurus, The Cockroaches, Celibate Rifles, The Sunnyboys; senza dimenticare The Stems e The Stonefish di quel “mostro” di Dom Mariani. Anche due supergruppi come INXS e The Midnight Oil muovono i loro primi passi nel sottosuolo della capitale nella seconda metà degli anni 70, anche se presto il loro sound si distaccherà ampiamente portandoli ad un successo planetario incredibile, ma il primo singolo di Hutchence e soci, “Simple Simon”, rimane un vero e proprio gioiellino power-pop. Da Perth (estremo sud-occidentale dell’isola) arrivarono pochi, ma ben udibili, segnali di questo nuovo “movimento”, ma con un fervore ed una lucida follia con pochi pari. Il più importante segno lo hanno lasciato The Scientists del leggendario Kim Salmon, con il loro esordio “The Scientists (a.k.a. The Pink Album)” del 1981, una

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sorta di “post-punk” viscido, in controtendenza con quello secco e schematico (quasi marziale) che si stava sviluppando nel resto del mondo, tanto da far più volte ripertere a Salmon che lui è stato il primo ad usare la parola “Grunge” riferita alla (sua) musica, e certo i componenti di bands come Mudhoney, Tad e The Jesus Lizard devono essere d’accordo con lui. The Triffids invece sono i fautori di un suono molto meno spesso, rispetto a The Scientis, tanto che la loro musica è molto più “pop” con venature più oscure e malinconiche, scandagliate in lungo ed in largo dal loro leader David McCombs, con risultati che a volte fanno pensare che il gotha dell’indie britannico degli 80 abbia tratto più di qualche ispirazione da loro, The Smiths, Lloyd Cole & The Commotions, The Housemartins; solo per citarne i pesi massimi. Menzione speciale per il supergruppo Beasts Of Bourbon, attivo ad intermittenza dal 1983 ad oggi, formato da una pletora di fenomenali musicisti e soprattutto performers, Tex Perkins (Dum Dums), Spencer P. Jones (The Jimmys), Jim Baker (Hoodoo Gurus e The Scientists), Kim Salmon e Boris Sudjovic (The Scientists) ed autori di quel capolavoro “alt-blues” che è “The Axemen’s Jazz” del 1984. Ed arriviamo alla fine di questo breve, ma intenso e vorticoso viaggio. Destinazione Melbourne. Melbourne è la città dove il giovane Nicholas Edward “Nick” Cave si reca dalla rurale Warracknabeal (che gli ha dato i natali) per studiare, ma è soprattutto la città che gli permette di incontrare il suo sodale Mick Harvey con il quale forma la sua prima band nel 1973 e che rimarrà senza nome fino a tutta la prima metà del 75, anno in cui terminano la Grammar School e decidono di chiamarsi “The Boys Next Door” per le loro esibizioni live.Il sound è fortemente influenzato dall’esplosione della cosiddetta scena punk australiana, con The Saints e Radio Birdman a farla da padroni, ma il segno distintivo di Cave e soci, prima ancora del sound (i loro cavalli di battaglia sono cover dilaniate di “Blitzkrieg Bob” dei Ramones e “Gloria” dei Them) è il modo di cantare del frontman, un vero e proprio marchio di fabbrica (che lo accompagnerà nel bene e nel male fino ai giorni nostri). Con l’arrivo del 1977 il sound della band si è perfezionato e delineato in una sorta di violenta new-wave ante-litteram, con pezzi propri ad “esaltare” appieno la furia iconoclasta dei testi e del cantato di Nick Cave; brani come “Masturbation Generation” e “Sex Crimes” ne sono fulgidi esempi. I Boys incidono il loro primo singolo nel 1978 (La cover di “These Boots Are Made For Walking” di Nancy Sinatra e Lee


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Hazelwood) e nel 1979 uno split-single con i Models di Sean Kelly (altra grande band indie della città) e il loro primo singolo autografo come lancio dell’imminente album “Door, Door”; lato A è “Shivers” brano scritto dal chitarrista Rowland S. Howard e che permetterà alla band di balzare agli onori della cronaca, la canzone verrà infatti censurata da tutte le radio “mainstream” della nazione, in quanto nel testo si fa esplicitamente riferimento al suicidio. Cave scrive il brano “Dive Position” per il lato B. Ma di li a poco, la band decide di traslocare “baracca e burattini” a Londra, decide di cambiare nome in The Birthday Party e di immergersi totalmente in un nuovo percorso musicale… che dal punk-wave delle origini si dirige in territori molto più cupi e malsani, incorpora violenti e torridi blues, inquietanti sessioni rumoriste, una tetra aurea gotica, finanche accelerazioni furiose molto prossime all’harcore… insomma un’ampia gamma di tutte le sfaccettature del male di vivere disponibili nei primissimi anni 80; con alcuni “semi” e germogli degli sviluppi futuri che prenderà la scrittura compositiva e narrativa di Cave, una su tutte quella “Catman” contenuta nel secondo disco dei The Boys Next Door, intitolato The Birthday Party, che è anche il primo disco omonimo della “nuova” band… dipende tutto da che latitudine (o meglio emisfero) lo si guardi. A Londra (con frequenti ritorni nella madre-patria) The Birtday Party incidono tre LP (dal 1980 al 1982 per l’etichetta Missing Link (distribuzione della mai troppo lodata 4AD) con la formazione che pian piano si sfalda e ricompone (Tracy Pew, Phil Calvert e Rowland Howard lasciano e Barry Adamson, Blixa Bargeld e Des Hefner entrano anche se non ancora in pianta stabile) in quella che diventerà Nick Cave & The Bad Seeds, con il solo Mick Harvey a continuare il sodalizio con l’amico Nick, a testimonianza di quanto non sia per nulla semplice avere a che fare con lui, personaggio camaleontico e geniale ma ostico e scostante. Un paio di album “live” ed una serie di raccolte (tutto postumo) testimoniano l’incredibile furore iconoclasta e schizofrenico della band il tutto perfettamente riassunto nel loro secondo lavoro in studio, quel maestoso ed evocativo “Prayers On Fire” del 1981. Come dicevo, siamo arrivati alla fine di questo “tour” per le terre australiane, senza dimenticarci che a Melbourne, in quegli anni, erano attivi anche Lisa Gerrard e Brendan Perry con lo pseudonimo di Dead Can Dance, una band talmente sublime, da non essere etichettabile.

10 ANNI IN 10 DISCHI DISCOGRAFIA PARZIALE, MA ESSENZIALE AD UNA LETTURA “RAGIONATA” 1977 – The Saints – (I’m) Stranded (EMI) 1977 – Radio Birdman – Radios Appears (Trafalgar) 1980 – INXS – INXS (Deluxe Records) 1981 – The Scientists – same (a.k.a. The Pink Album) (EMI Custom Records) 1982 – The Church – The Church (Carrere) 1983 – The Celibate Rifles – Sideroxylon (Hot Records) 1984 – Hoodoo Gurus – (Stoneage Romeos) (Big Time) 1984 – Beasts Of Bourbon - The Axemen’s Jazz (Green Records) 1986 – Died Pretty – Free Dirt (Citadel) 1986 – The Moffs – The Moffs (Citadel)


The Aussie Invasion pt.3

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“Earth Needs Guitars” 10 canzoni australiane da non perdere di Michele Anelli

Hoodoo Gurus: “Bittersweet” Negli anni ottanta non si era così veloci a comperare le novità discografiche, la comunicazione era differente e fu così che “Mars Needs Guitars”, del 1985, lo comprai due anni dopo insieme al loro terzo lavoro, “Blow Your Cool”. Poco importa: nel 1987 iniziava l’avventura con gli Stolen Cars e il garage, pop/rock/punk, entrava direttamente nel corpo senza chiedere permesso. “Bitterweet” è la canzone perfetta, l’intro sincopato di chitarra ritmica, la voce, a tratti calda a tratti roca, di Dave Faulkner, l’intreccio di chitarre con Brad Shepard, una sezione ritmica incalzante e i cori di sottofondo sono la testimonianza della facilità con cui gli Hoodoo Gurus sono in grado di confezionare piccoli gioielli garage-pop. Così tra Chelsea boots, Fender Telecaster, capelli lunghi, camice con i pasley iniziò la mia gurusmania. Visti dal vivo negli anni ottanta a Milano, rigorosamente sotto il palco, sono tuttora tra i miei ascolti preferiti. Nel 2010, nel video di “Crackin’ Up” (dall’album, “Purity Of Essence”) non hanno più i capelli lunghi ma il tocco è rimasto intatto.

Scaletta Live Hoodoo Gurus al Prego di Milano il 14 Luglio 1987

La playlist non è esaustiva, non ha un ordine preciso, se non l’emozione che mi lega a ognuno dei dieci brani, ed è molto personale come tutte le playlist nate su cassette Tdk, Maxell, Basf ecc. e pertanto legata a un determinato periodo di tempo. Mancherà sicuramente il vostro cantante preferito o la band dei vostri sogni ma non preoccupatevi, siete sempre in tempo a mettere su Spotify le vostre scelte, nel frattempo faccio andare il mio nastro…

Died Pretty: “Life To Go” Maggio 1987, io e Giorgio Feltrin, che dal mese precedente mi stava dando le prime indicazioni su come suonare due note di fila con il basso, eravamo in una sala dell’oratorio di Meina. Benedetti dal Creatore stavamo suonando i brani più semplici che potevo permettermi, immaginandoci già future rockstar (non è vero però volevo scriverlo!). Tra “Coldturkey “di John Lennon e “Fortunate Son” dei Creedence Clearwater Revival c’era questo brano dei Died Pretty. In questo caso mi sento di poter scrivere “Dio solo sa come lo suonavo!”. Un brano incredibile con un groove di partenza di batteria che ho sempre amato. Il crescendo emotivo della voce di Ronnie Peno tra scorribande di chitarre, svisate di piano e rullate intense e mai banali, porta direttamente negli enormi spazi australiani, volando a bassa quota (soffro di vertigini) tra deserti, fattorie isolate e città polverose.

The Stems: “At First Sight” Il prolifico leader Dom Mariani ha confezionato, con l’album “At First Sight Violets Are Blue”, un delizioso concentrato di garage pop. Chitarre e organo come se piovesse. Due accordi, riff da imparare a memoria e melodie irresistibili. Il brano d’apertura (casualmente l’ennesimo di questa sconsiderata playlist) è una ballad melodicamente perfetta. Le chitarre byrdsiane, il sottofondo d’organo, una linea vocale bellissima sono il prontuario su cui studiare una musicalità senza tempo.

Radio Birdman: “Murder City Nights” canzone dalle venature sixties ma suonata con l’urgenza chitarristica cara agli Stooges. Un sound che ti proietta dalle parti dell’hard-rock’n’roll. Parte il brano e schiacci sull’acceleratore perché sai che hai due minuti e ventidue secondi per arrivare in nessun posto. Però ci vai comunque solo per farti spingere dalla forza compositiva dei Radio Birdman. Chitarre a cascata, drumming tiratissimo e voci urlate al microfono come se il mondo finisse sui colpi in coda al brano.

The Saints: “Wild About You” lo so, non è dei Saints ma sono molto legato a questo brano dei Missing Links. Probabilmente il più impegnativo e divertente che suonavo ai tempi degli Stolen Cars. Complice anche il fatto che lo eseguivamo a velocità Ramones ovvero fuori dal consentito per mani come le mie. Datato 1977 è il punto di partenza imprescindibile per il punk australiano e tra i migliori esordi punk di sempre. Un brano come “Orstralia”, da “Eternally Yours” del ’78, racchiude la semplicità di un giro garage-punk con un testo che critica lo stile di vita australiano. Nel 2014, i Saints, sono stati oggetto di curiosità e ricerca nel momento in cui Springsteen, con tanto di sezione fiati e Tom Morello al seguito, ha pubblicato una versione della loro “Just Like Fire Would”.


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The Church: “Under The Milky Way” sul finire degli anni ottanta, mi ero innamorato di questa ballad dal sapore pop folk che racchiude la bellezza di una canzone senza tempo. Ancora oggi, a ogni ascolto, mi lascio cullare dalla dolcezza del brano. Messa vicina a “Killing Moon”, degli Echo & The Bunnymen, è la porta per un mondo lisergico costellato di ballate folk. La versione acustica, pubblicata nel 2004, ribadisce la qualità e il fascino della canzone.

The Go-Betweens: “A Bad Debt Follows You” la canzone introduce un album fondamentale “Before Hollywood” per conoscere questo combo che ha raccolto molto meno di quanto meritasse. Un basso leggermente distorto, le chitarre velatamente acide e tutto si dissolve nel momento in cui entra la voce calda di Robert Forster. Poco meno di due minuti e mezzo, e si intravede subito la capacità che hanno di plasmare differenti stili musicali creandone uno adattato alle loro emozioni.

The Triffids: “Love And Affection”

dal sapore vagamente Velvet Undergorund, per scelta di accordi, durata e approccio musicale, chiude un album che ho sempre apprezzato più di ogni altra loro produzione. Registrato in un capannone, sostanzialmente live, con suoni grezzi, per nulla edulcorati in fase di mix, quasi fossero delle prove, contiene anche una canzone che darà titolo al più famoso e considerato “Born Sandy Devotional” che è, a tutti gli effetti, un album di considerevole raffinatezza pop folk. Di “In The Pines” mi ha sempre colpito quel senso di immediatezza e semplicità, di intima emozione condivisa senza fronzoli.

The Celibate Rifles: “Strange Day Stranger Nights”

premio a una delle copertine più tamarre di sempre, con una scelta improbabile di font in copertina, per una band dedita a un quanto mai efficiente punk’n’roll. L’album “Roman Beach Party” ce li consegna grezzi ed energici. Il brano è riassuntivo delle chitarre e della vena compositiva semplice e diretta di cui l’album è pervaso. I classici tre minuti da ascoltare con il volume costantemente alzato.

The Beasts Of Bourbon: “Door To Your Soul Mohawk Baby” canzone dal sapore vagamente alla Cramps, con una voce vicina al Tom Waits dalle notti insonni, è una miscela ipnotica di rock blues. Band dal sound magnetico dove chitarre ruvide, drumming ossessivo e voce dal ringhio incorporato sono la costante. Probabilmente, in qualche zona australiana, hanno trovato delle paludi in stile bayou dove sperimentare canzoni altamente voodoo, di cui tutto l’album “Sour Mash” ne è pervaso.

THE BEASTS OF BOURBON

HOODOO GURUS


“BAMBARA: la legge dei gemelli”

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di Dj Kremlino Photo by Daggers For Eyes

Nel 2016 ho ascoltato il loro secondo disco per caso, semplicemente perché in una recensione di poche righe emergeva che la band era formata da due gemelli. E io ascolto sempre le band formate da gemelli. Retaggio (insensato ovviamente) che arriva dall’adorazione (musicale) per i due Reid dei Jesus and Mary Chain. Qui i due gemelli fan Blaze di cognome, Bathe e Reid (che ricorre!) di nome e sono la base di questa interessante e poco conosciuta band che, dal 2010 circa, ha regalato ottime sensazioni e un percorso musicale in forte crescendo. La loro presenza su questo numero dedicato in gran parte a Nick Cave non è certo un caso. Tra le maggiori influenze (volute o meno, poco importa) c’è LUI, in maniera evidente (anche nel cantato/recitato) soprattutto nelle ultime produzioni, anche se sarebbe riduttivo collocarli nella categoria epigoni, perché in loro c’è di più. A partire da altre influenze rumorose e oscure (Swans, Gun Club, Jesus Lizard, ecc.), per un suono che è partito da sonorità più post punk e noise per arrivare a un deragliante songwriting rock noir, e a una qualità dei dischi che li eleva nettamente al di sopra della media. Hanno all’attivo tre EP e quattro album. Pur arrivando dalla città natale dei R.E.M., formandosi nel 2010 ad Athens in Georgia, il terzetto (con i gemelli c’è l’amico e compagno di scuola di sempre William Brook-

shire al basso) trova in New York la loro casa a partire dal 2013. Il primo EP “Dog Ears Day” (bel titolo non c’è che dire!), si muove incerto ma non in maniera banale tra diverse sonorità: a nastro ricordano Slint, Unwound, Deerhunter, A Place To Bury Strangers uniti a uno slancio emo velato e oscuro che pervade i sei pezzi per 25 minuti. Roba distorta, disturbante, primitiva che, pur in presenza di una produzione limitata e poco dinamica segnala, con il senno del poi, il preludio a una band capace di crescere (e molto). Un fatto che non avviene (il crescere, intendo) nel disco d’esordio del 2013 “Dreamviolence” che, in gran parte, si perde letteralmente in suoni distorti autoreferenziali, con un collage di caos rumoroso e dissonante, abbastanza confuso e poco incisivo: più un esercizio di stile che di sostanza. Ma che la band non fosse un fuoco di paglia lo si poteva percepire dall’asset centrale del disco, con tre pezzi come “Nail Polish”, “Train Daze” e “Bar” che lasciano intuire (anche se in maniera poco cristallina) le possibilità di crescita della band. Anche il successivo EP “Night Chimes” del 2015 (cinque pezzi per tredici minuti senza proferir parola) è poco più che un compitino di (rumoroso e sterile) stile, mentre il primo salto decisamente in avanti, in termini di qualità, arriva con il secondo disco del 2016 “Swarm” uscito, per l’etichetta Arrowhawk, con un po’


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di ritardo sui tempi previsti a causa dello smarrimento (o furto) di un loro PC contenete gran parte del lavoro! “ Swarm” è un ottimo disco, oscuro, rumoroso, urticante e cattivo, guidato dall’incedere del basso martellante dentro a strutture musicali, questa volta, più “accessibili”. Lo si sente già nelle quattro (ottime) canzoni che aprono il disco. In “Clearing Out The Weeds” le chitarre taglienti ci portano in un piccolo e profondo incubo degno dei migliori Birthday Party, mentre “Her Sister Touya” è un pezzo sincopato, esplosivo e abrasivo, presagio e preludio delle forti emozioni di una murder ballad epocale, senza tempo, clamorosamente bella e disperata come “Ann III Son” che, nel suo maestoso incedere, lascia graffi, morsi, ed altre “dolci” ecchimosi sulla pelle dell’ascoltatore, per arrivare al disperato e malefico incedere metallico di “Black”. Ed anche se tutto non è a fuoco (alcuni cedimenti all’auto compiacimento mutuato da “Dreamviolence” nella parte finale con “I Cant Recall” e in “In Bars” rimangono) nel complesso il resto del disco si fa apprezzare grazie alla sua forza ed intransigenza. Come nella corsa deragliante (ed entusiasmante all’ascolto) di “Filled Up With Night”, dall’incedere cow/blues/punk e un cantato disperato e funesto che recita “ho avuto ancora una volta quel sogno / in cui ci trovavamo nel parco accecato dalla luce / poi il sole si oscurò / e il cielo si trasformò in notte / le stelle ci tagliarono come coltelli da macellaio” o in “I Don’t Mind”, un’altra riuscita ballata malata, sino a “It’s Nothing” martellante come i migliori Swans sanno essere. Un disco ricolmo, forse a tratti troppo, di tensione che cresce ascolto dopo ascolto, che non si scarica mai e, per chi ha voglia di avvinghiarsi ed abbandonarsi alla loro densa oscurità, che cattura come in una trappola claustrofobica dove tutto è perso e lancinante. Mr. Talbot leader degli Idles ha definito il loro terzo long plain, intitolato “Shadow On Everything”, come il suo album preferito del 2018, portandosi poi la band nei mesi pre lock down in giro con loro in tour (e se gli Idles non sapete chi sono è un problema facile e altamente consigliato - da risolvere: basta ascoltare almeno i loro due ultimi grandi dischi, ne han fatti tre, per una delle migliori nuove band di post punk in giro per il mondo). Un disco quasi come un concept ambientato

Photo by Sacha Lecca

in un paesino da qualche parte della periferia rurale Americana, dove i testi horror e visionari di Reid Bateh assumono dimensioni visionarie nel loro descrivere gli stessi luoghi (un bar malfamato chiamato Red Tide), con la presenza di alcune figure ricorrenti (Elsa, Jack, Josè ecc.) e citazioni che collegano tra loro diverse canzoni. Nei testi la morte e il sangue la fanno da padrona tra situazioni paranoiche, con adolescenti che si fanno di meth (non a caso sarebbe stata una giusta colonna sonora per certi passaggi della serie tv “Breaking Bad”), dove cervi muoiono nel cortile di casa come nella formidabile “Doe-Eyed Girl”, in cui un giro di basso cavernoso introduce un vorticoso e psicotico piccolo film dell’orrore, dove la protagonista Elsa è anch’essa vittima di una sorte simile “Jack corre verso la Cadillac / vede Elsa gorgogliare sotto di essa, i suoi occhi fissi completamente vuoti / Rotolando intorno alla sua testa contratta “. Il disco cresce e matura il loro approccio nel cesellare la loro mutante e plumbea forma musicale qui proposta in chiave meno noise ma ancor più blues/core e, come sempre, con quell’impeto post-punk che li caratterizza e con la lacerante voce di Reid Bateh. E se sono i tamburi gotici e tribali di “Dark Circle” che accompagnano e guidano questa gelida ballata intrisa di sintetizzatori dal suono alieno, se di “Doe-Eyed Girl” ho già scritto sopra, è l’andamento western psicotico e metallico di “Josè Tries To Leave” a chiudere il grande trittico iniziale con i suoi testi noir alla James Ellroy dove “la chiesa si profila all'orizzonte come il guscio essiccato di un antico insetto” e “le ombre sembrano solo più scure di questi tempi”, per non lasciare nessuno spazio a buone nuove. “Night’s Changing” sono due minuti prelevati dalla colonna sonora di Blade Runner e pure il resto del disco prosegue su grandi livelli, come nell’assalto rumoroso di “Monument”, nell’incedere oscuro di “Door Between The Heat” che ricorda dei Joy Divison depravati, nei ritmi glaciali e al rallentatore di “Steel Dust Ocean”, dove sono i Jesus and Mary Chain a fare capolino, con un testo sussurrato in cui “vedo il cambiamento sul tuo viso / e voglio venire con te, ma lo so / sarò solo ovunque”, arrivando a “Sunbleached Skulls” dove si gusta un pezzo che Nick Cave avrebbe voluto certamente scrivere. Si finisce senza un calo, senza un cedimento, con “Wild Fire”, con la ballata ancestrale di “Backyard” dove un po’ di apparente sollievo viene concesso dall’angelica voce di Lyzi Wakefield che canta “farò finta


che tu sia morto / e prenderò quello che hai lasciato nella mia testa”, sino alla chiusura di “Back Home”, un ritorno in una casa dannata in cui “le creature si trascinano sul terreno bagnato / dirette verso il loro cimitero / anni di arrampicata, anni di morte / sulle ossa di antichi giganti / e una collina si forma dal fango della morte”. L’ultimo e recente capitolo è “Stray” (uscito in quest’anno 2020 per la Warf Cat), ed è un disco che cauterizza sulla pelle dell’ascoltatore la loro indelebile matrice, appollaiata sinistramente sulle spalle di Tom Waits, Leonard Cohen e del di LUI Nick Cave (in chiave Henry’s Dream) ma riproposta in una versione violentata dai Cramps. Un accostamento impegnativo, non c’è che dire, ma che loro interpretano con un’urgenza minacciosa, pesante e ossessiva, dando una lettura personale con quel (solito) approccio post punk che li caratterizza e, in seconda linea, un costante tappeto di tastiere gotiche e decadenti. A mio avviso miglior disco ad oggi (inizio ottobre) del 2020 (non sono il leader degli Idles ma fidatevi lo stesso), dove basta l’apertura di “Miracle” a inquadrare lucidamente il tutto: una qualità di scrittura pregevole per un pezzo intriso di classicità, che parte come una ballata distorta con l’incedere cupo del basso e che, piano piano, si aggroviglia in un rigurgito violento e grintoso di chitarre distorte. Inutile dire che i testi e il sentimento dell’album è quanto mai buio e doloroso, guidato da presagi di morte, come in “Heat Lightining” una cavalcata fragorosa dove la batteria è selvaggia e le chitarre senza freni, il tutto per urlare che “la pioggia non si ferma in un giorno / non è possibile, non finirà finché ogni bara non nuoterà”. A seguire la dolce danza suadente (di morte) di “Sing Me To The Street” che disvela il peggio delle azioni che gli esseri umani possono compiere “sai che Cole è stato assassinato / circa un anno fa / bene, Claire ha avuto il loro bambino / e stasera l'ha annegato nella vasca da bagno / dicendo la morte ci troverà tutti”, per poi arrivare al cataclisma catartico di “Serafina”, una velocissima surfsong in chiave dark con i riff delle chitarre a ricordare dei Black Rebel Motorcycle Club sotto anfetamine, dove tutto (letteralmente, anche nei testi)

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brucia e divampa. Ma sono tutte le 10 canzoni (classiche 10 canzoni) a non mollare la presa, a perseguitarci come un incubo, a rendere imprescindibile l’ascolto e a lasciarci spiazzati e sfiancati. Perché è doloroso, pericoloso, non semplice attraversare la loro musica, come in “Death Croons” dove chitarre sature di riverbero sono accompagnate da un incessante martellamento della sezione ritmica su un recitato senza sosta che ulula “della morte che ordina da bere / qualcosa di rosa con ciliegie e un bordo di zucchero / dice "assicurati che sia dolce" / prende il portafoglio dalla tasca della camicia / e due denti d'oro tintinnano nel suo bicchiere vuoto”, per proseguire martoriati dai colpi della delirante “Stay Cruel” con quella tromba inquietante sullo sfondo, e dalla storia maledetta di “Ben e Lily” per un testo doloroso e tormentato che potrebbe uscire da “Nebraska” del Boss, anche se qui la chitarra non è acustica, ma un assalto all’arma bianca. E se la tranquilla “Made For Me” e la tormentata “Sweat” pur essendo (molto) belle non aggiungono nessun tassello al mood del disco, è la finale “Machete” che riassume la potenza visionaria della band, in una marcia ferale senza fiato verso l’abisso, sia sonoro che nei testi, chiudendo degnamente un disco, a mio modo di ascoltare, clamoroso. E’ indubbio che i Bambara siano una band che ha dentro di se ha una molteplicità di rimandi, di citazioni, di derivazioni, di influenze, di stili abbastanza evidenti e già ascoltati ma la sensazione è di trovarsi davanti a un gruppo ricco di guizzi creativi, di canzoni travolgenti e dannate, una profondità che tocca l’anima, una voglia di essere impenetrabili in cui, sopra tutto, c’è la voce di Bateh che, rubando una citazione, “condivide un tono baritono simile a quello di Nick Cave ma colorato con la teatralità di Leonard Cohen, la pericolosità di Peter Murphy e l'ululato di Lux Interior”. Cantano di morte ma sono uno dei gruppi più vitali in circolazione, una perfetta colonna sonora per quest’anno di (dis)grazia 2020. (DJ KREMLINO)


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Italians make the blues, punk-blues, folk-blues e psych garage clarinet blues and many others…

Interviste a: FABRIZIO POGGI blues MOVIE STAR JUNKIES punk-blues DIEGO “DEADMAN” POTRON folk-blues OH LAZARUS psych garage clarinet blues di Massimiliano Stoto Nell’ambito del numero su Nick Cave, che come artista ha marcati rimandi al genere definito “blues”, se siete fin qui sopravvissuti, vi presento, quattro nomi fra gruppi e performer, che con stili differenti fra loro si rifanno allo spirito della musica originaria del Sud degli States. Sono artisti che, in qualche caso, possono essere accostati fra loro anche se non è necessario. Quello che hanno in comune è che tutti hanno pubblicato dei dischi in questo anno, a detta di tutti disgraziato. E allora visto che è un anno disgraziato, indolente, triste, piegato su stesso etc etc...non sia detto che un vecchio blues del Delta non finisca per salvargli l’anima….(vale anche se chi lo suona è di Voghera).

Photo by Riccardo Piccirillo

# 1-FABRIZIO POGGI

Un bluesman made in Italy, questo è Fabrizio Poggi. Un bluesman con una fama e una bravura acquisita e riconosciuta sul campo, (è stato candidato a un Grammy Awards solo due anni fa, ed è arrivato secondo dietro ai Rolling Stones), oltre ad aver ottenuto diversi riconoscimenti in ambito Blues a livello internazionale. Insomma un fuoriclasse che si è fatto da solo, appassionandosi a una musica dolorosa e magica, fin da ragazzo. Il suo “For You”, disco uscito per Appaloosa Records quest’anno, mi ha colpito perché non è il classico disco da atmosfera. Il disco che sfoderi nelle serate invernali buono solo a stare in sottofondo. E’ un disco, con cui non ho legato subito. Ma che con gli ascolti ha acquistato sostanza e profondità. Un disco onesto e sensibile, caratteristiche che superficialmente si tende a non valutare. Oltre alle evidenti capacità musicali sue e di

chi suona con lui e che produce, per la prima volta un suo disco, Stefano Spina. Si perché Fabrizio nella sua carriera ha pubblicato più di venti dischi e scritto tre libri su contadini, armoniche e bluesmen. Fabrizio ha sessant’anni e con una carriera pazzesca, ancora in corso, si è fatto intervistare e ci ha messo l’entusiasmo di un ragazzino. In un fuori scena dell’intervista, con io che insistevo su un pezzo che non mi ha convinto dell’album, lui mi ha detto questo: “Una

volta un vecchio bluesman mi disse una cosa molto interessante, se non ti piace una canzone può essere che non sia stata scritta o cantata per te”. Saggezza del Sud, semplice e chiara come un bicchier d’acqua.


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monica, trovare dischi non è stato facile. C’è voluta tanta passione e coraggio e anche un po’ di incoscienza, decidere di prendere una strada in salita non è mai facile. WN: Com’è la gente che vive nella terra del blues ? FP: La gente che vive nella terra del blues è uguale a noi. Io penso sempre che siamo molto più uguali a noi di quanto pensiamo. Le cose che emozionano gli uomini ad ogni latitudine e longitudine sono le stesse. Sono persone semplici….forse hanno meno barriere culturali di noi….visto che mi hanno accolto e mi hanno permesso di esprimere quello Photo by Riccardo Piccirillo che avevo dentro, attraverso una musica che non era la mia ma che ho cercato di far diventare mia, sempre con umiltà, sempre in punta di piedi e infine mi hanno regalato la gioia più grande, toccare il loro WN: Sei considerato uno dei migliori blues man italiani, cuore con la mia armonica. E’ gente bellissima forse solo per hai alle spalle una carriera fantastica e importante, coquesto. struita attraverso, dischi, esperienze e collaborazioni fatte sul campo...negli Stati Uniti intendo… puoi spiegarci che cosa è il blues ? FP: Per me il Blues, e lo dico sempre anche durante i miei concerti, è un miracolo che gli afroamericani hanno saputo tirar fuori dal loro dolore infinito. Uomini e donne che dalle acque fangose del Mississippi hanno tiratofuori questa musica, che è la madre di tutte le musiche. Gente straordinaria che ha inventato una musica che è una medicina. Una medicina capace di guarire tutte le tristezze e di toccare miracolosamente persone diversissime tra loro, in ogni parte del mondo. WN: Tra le tue collaborazioni e tra i tuoi incontri quali sono quelli che ti hanno dato di più ? FP: Sono davvero tante le emozioni che ho avuto durante il mio lungo percorso musicale. Ho suonato con molti dei miei eroi. Ho sfidato i Rolling Stones al Madison Square Garden, io che da ragazzo avevo il loro poster in cameretta e se mi avessero allora che un giorno sarei stato al fianco di Mick Jagger, Elton John e gli U2 non ci avrei mai creduto. Credo però che la più grande soddisfazione me l’abbia data una signora, tanti anni fa in un paesino sperduto del Mississippi dove avevo suonato che mi si avvicinò e toccandomi la spalla mi disse: ”Hey man !! You touch my heart !!. Quella signora mi diede la Laurea, se ci fosse l’università del Blues, e forse quello è stato il momento più bello e toccante della mia carriera, là in quel posto sperduto tra i campi di cotone di quella regione. WN: Sei stato candidato a un Grammy e a altri riconoscimenti internazionali tipo il Blues Music Awards….sono soddisfazioni…. FP: In qualche modo mi ricollego alla domanda precedente. Non mi ero mai prefissato traguardi. Sono andato ben oltre le miei più rosee aspettative di ragazzo di provincia cresciuto in una terra in cui non succedeva nulla e dove trovare informazioni su come suonare l’ar-

WN: Il tuo strumento è l’armonica….il sottotitolo di un tuo libro recita “L’armonica il violino dei poveri” che attitudine bisogna avere per suonarla ? FP: Non sono stato io a definirla così, furono i contadini che andavo a intervistare e che sapevo la suonavano. Quando ho scritto quel libro per ragazzi decisi di tenere quella definizione. E’ lo strumento che ho scelto o forse, come si dice, è stato lui a scegliere me. Io so solo che da ragazzo sono stato affascinato dal suono di questo strumento che per me è straordinario e poi quando ti innamori di qualcosa o di qualcuno spiegarlo diventa sempre complicato. WN: Hai scritto anche altri libri però….su i cantastorie, su musicisti blues e sulle armoniche a bocca….conosci la materia non solo musicalmente…. FP: Innanzitutto non mi considero uno scrittore ma un musicista che scrive. Ho aspettato anni che qualcuno scrivesse quei libri e poi l’ho fatto io. L’ho fatto perché per lungo tempo avevo raccolto, con fatica, storie e informazioni che desideravo condividere affinché gli altri non facessero la stessa fatica che ho fatto io. Poi penso che l’armonica e il tipo di musica che ho scelto di suonare, blues e dintorni, abbiano una storia importante e significativa che bisogna conoscere per andare oltre all’imitazione, all’emulazione. Per essere più sinceri e credibili nell’offrirla al pubblico, credo che si senta se tu conosci la storia che c’è dietro quella canzone. WN: Veniamo al tuo ultimo disco “For You”…..ad un primo impatto non ti nascondo l’ho scambiato per il solito disco di blues patinato….stavo cercando degli artisti con dischi appena usciti, da intervistare per questo numero e non mi aveva convinto molto….ma bisogna dare tempo al tempo ci sono tornato sopra e mi ha convinto….non è il solito disco blues da serate invernali e caminetto…ma ha atmosfere, varietà e toni musicali diversificati, un sensibilità particolare…penso per esempio a un pezzo come “My Name Is Earth”…. FP: Sono contento che il disco alla fine ti sia piaciuto. Questo è il mio ventitreesimo album, è il primo disco in cui mi sono


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affidato a un produttore esterno che è Stefano Spina. Oneri e onori li divido a metà con lui, che credo abbia fatto un ottimo lavoro. “My Name Is Earth” è un brano che ho scritto a quattro mani con lui, io ho scritto il testo e lui la musica. Ci tengo a dire che anche con questo disco, proseguo nel portare avanti il mio impegno civile unendolo ai temi ecologici e proprio con un brano come questo. E’ ora che tutti gli artisti prendano posizione. WN: E poi ho la sensazione che dischi del genere nascono perché si è bravi, si ha qualcosa da dire, ci sono grandi musicisti e professionalità, ma soprattutto c’è spirito, anima, cuore questa è una cosa che si sente proprio nelle tracce del disco…. A questo proposito “It’s Not Too Late” secondo me ne è il simbolo….

FP: Viviamo tempi difficili e io ti ringrazio per le tue parole. Cercare di andare in profondità è quello che cerco di fare ogni volta che mi approccio a un disco o a un concerto. Il brano che citi nella domanda è una canzone di speranza dove c’è questo dialogo fra padre e figlio, il padre cerca di infondere coraggio in questi tempi difficili. E’ un pezzo che è stato concepito in un momento in cui nulla lasciava presagire quello il tempo che stiamo vivendo. Eppure il disco e quel pezzo in particolare, e tu hai fatto bene a notarlo, sono diventati qualcosa di resiliente. Ma d’altronde il blues è una musica resiliente, perché da sempre è una musica che infonde forza, speranza e fiducia e sono contento che tu l’abbia colto. WN: Ti cimenti in tanti traditional nel tuo disco, come fai a sceglierli….a me piace tantissimo l’arrangiamento elettrico e scorticato di “Don’t Get Worried” e l’atmosfera rarefatta e scura di “I’m Goin’ There”…. FP: Ma diciamo che io ho da sempre questo “state of mind”, questa mentalità. Io cerco sempre delle canzoni che siano già state scritte, più sono antiche, più sono state usate e più mi attraggono. Mi diverto a smontarle, ricostruirle e rivestirle e questa è una cosa che va ben oltre la cover e diventa una vera reinterpretazione nel vero senso della parola. I brani che citi sono pezzi che infondono, e qui mi ripeto, coraggio e speranza. Sono blues antichi e molto spesso le cose antiche hanno un’attualità incredibile e quindi ho cercato di farle e di proporle in “For You”. WN: Mentre se devo trovare un neo al disco ti direi il pezzo di Eric Bibb, non che sia fatto male o sia un brutto pezzo….però forse lo trovo troppo romantico ? FP: In molti hanno definito quel pezzo come una delle più belle canzoni d’amore scritte, quindi che tu la trovi eccessivamente romantica è normale…..magari ci risentiamo fra quarant’anni (Fabrizio ipotizza che io sia giovane, purtroppo non è così. Ndr). Io a vent’anni non avrei scelto e cantato quella canzone, ma adesso che ne ho sessantadue si. Perché se leggi il testo capisci che non è una canzone sentimentale in senso classico, ma può essere benissimo dedicata anche a persone con cui non condividiamo un sentimento d’amore fisico. La puoi dedicare a un amico come al tuo gatto, senza cambiare una sola parola. Poi è chiaro che i gusti sono gusti.

Un aneddoto…sono amico di Eric Bibb, e se c’è una cosa di lui che so, è che non è generoso in fatto di complimenti… ebbene lui mi ha detto: ”Fabrizio “For You” l’hanno interpretata in tanti ma tu sei andato a cogliere l’intenzione che avevo quando l’ho scritta e la interpreti meglio di me”. Naturalmente questa è un iperbole, ma mi ha fatto molto piacere. WN: Una variante a una domanda che ho fatto a tutti gli altri artisti di queste interviste….il blues in italiano come viene ? FP: Sono stati fatti diversi tentativi di fare il blues in italiano. Il problema è che la lingua fa parte della musica. Il blues, come molti sanno, è nato nei campi di cotone cantato a cappella con l’uso esclusivo della voce e di quell’inglese che duecentocinquanta anni fa parlavano gli schiavi. Non era nemmeno inglese, era una lingua piena di parole tronche, di inflessioni, di modi di dire. E’ una musica cresciuta con quella lingua, se si toglie quella lingua si toglie gran parte di quella che è l’essenza del blues. Si può fare quello che si vuole ma secondo me non si può fare in maniera coerente. WN: Infine….sei un purista del genere come giudichi quegli artisti, maggiori o minori che possano essere, che sulla contaminazione con il blues ci hanno costruite carriere….Nick Cave fra questi…. FP: Non credo di essere un purista del blues e qualche anno fa sono stato criticato per questo. Io sono contemporaneo a me stesso, ascolto tante cose e queste cose certe volte entrano nella musica che faccio. Certi miei dischi e certe mie canzoni sono più o meno vicine al blues classico o più o meno lontane. Il blues è la madre di tutte le musiche ed è un miracolo che sia sopravvissuta per tutto questo tempo e che sia riuscita a contaminare o a farsi contaminare senza perdere il suo spirito originario. Io rispetto qualsiasi proposta musicale specialmente se c’è di mezzo il blues. Se penso alle persone che più di due secoli fa inventarono questa forma d’espressione per lenire una vita assolutamente misera e disperata, il solo sapere che la loro musica ha dato vita a migliaia di musiche, artisti e canzoni credo gli strapperebbe un sorriso che, devo essere onesto, avrei tanta voglia di vedere.


# 2 - MOVIE STAR JUNKIES

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E’ una storia lunga quindici anni quella dei Movie Star Junkies, da Torino, Italia. Lo specifico, che sono italiani, perché non sembra vero. Molte recensioni dei dischi del gruppo fanno spesso raffronti con il punk-blues, e il nome dei Birthday Party salta fuori spesso. Io li ho conosciuti soprattutto per il loro ultimo disco “Shadow Of A Rose” (Teenage Menopause, 2020), dove questa caratteristica c’è ed è evidente, ma non è la principale o Photo by Lawrence Watson

meglio non è l’unica. E’ un bel disco questo ritorno della band al disco lungo, dopo qualche tempo in “enpasse”. Le ragioni di questo rallentamento le scoprirete leggendo l’intervista che Stefano Isaia, il cantante della band, mi ha piacevolmente concesso. Come dicevo sopra, la storia dei MSJ è parecchio lunga e polverosa, è fatta da cinque album, ep, split e quant’altro. Un movimento costante su è giù da pulmini e da palchi. Ma è anche la storia di una musica indomabile che si fonde con l’essenza punk, l’anima blues e come leggerete anche con la letteratura. WN: Attivi dal 2006, cinque dischi alle spalle e una serie infinita di split, compilation e collaborazioni…a distanza di così tanto tempo il fuoco sacro del punk blues arde ancora dentro di voi … SI: Si nonostante tutto non si è mai spento, negli anni ci sono stati molti cambiamenti nella band, cambi di line-up, membri che si sono trasferiti all’estero…ma alla fine quello spirito iniziale da teenager cazzoni in furgone è rimasto invariato, e quando ci incontriamo per le prove o per andare in tour non dobbiamo fare finta di volerci bene. Sicuramente la droga aiuta. WN: A quale dei vostri dischi siete più legati e quale secondo voi ha centrato pienamente le vostre aspettative ? SI: Io personalmente son molto legato a “A Poison Tree”, ma sicuramente “Son Of The Dust” é stato un disco fondamentale per tutti e che ha rappresentato un punto di svolta… Registrato per la prima volta interamente in presa diretta, in un periodo molto fervido per la band: nel 2012 eravamo più in tour che a casa. WN: Nella vostra musica ci sono tanti elementi il punk blues in primis, ma anche tanti echi di musica americana “A Poison Tree” ne è intriso p.es., a rimarcare un fascino e un’attrazione verso un immaginario musicale molto forte… SI: Nei primi anni eravamo molto influenzati dalla scena australiana, Scientists, The Saints … In seguito le nostre influenze musicali hanno attraversato varie fasi, da Neil Young all’american folk piu’ recente, Bill Callahan su tutti. WN: D’altronde avete intitolato “Melville” il vostro primo disco…. SI: Si l’ossessione per certi scrittori americani ci ha portato a scrivere dei veri e propri concept album, come Melville appunto. Melville e Faulkner sono i miei scrittori preferiti.

WN: Ma la letteratura vi affascina perché poi c’è la poesia di William Blake musicata e che dà il titolo al vostro secondo album SI: I nostri album sono pieni di riferimenti letterari, in “A Poison Tree” oltre a Blake ci sono rimandi a Hawthorne e Conrad, “Evil Moods” si ispira alla scena hard boiled (Hammett, Thompson, Cain), nel piu’ recente “Shadow Of Rose” ci sono echi di Hubert Selby Jr. “Son of The Dust” invece come dicevo è stato un disco a se. Ogni canzone è parte di un lungo racconto che ho scritto nel 2012, ispirato da alcuni romanzi di uno scrittore questa volta italiano, Eraldo Baldini, che ha ambientato storie nella bassa ferrarese, una specie di New Orleans nostrana. WN: Per tornare al vostro immaginario americano c’è “Montgomery Clift” su “Junkyears”, un attore anti conformista….omaggiato anche dai Clash…. SI: Quel pezzo l’ha scritto Vinz, all’epoca non sapevo neanche chi fosse Montgomery Clift… non lo so manco adesso ahah WN: Ho fatto a tutti la stessa domanda…come si fa a proporsi in un genere come il vostro, dove certamente la proposta sonora e le capacità sono importanti, ma anche la lingua in cui lo fai lo è….vi interessa che il vostro pubblico capisca quella che cantate ? L’inglese può essere un limite per voi oppure non è più un problema ? SI: Ho sempre scritto in inglese, mi trovo meglio con le rime, con la musicalità delle parole…I testi son stati molto importanti per noi, li abbiamo sempre inseriti negli album ed è una cosa che i nostri fan han sempre apprezzato. Ho provato a confrontarmi con l’italiano ma non fa per me, nonostante ascolti anche molti italiani, Conte ,Battisti ,Carella, Pelosi…


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WN: Nel parlare della vostra musica spesso Nick Cave viene tirato in ballo….secondo voi una certa parte della sua carriera ha influenzato una componente della vostra musica e cioè il punk blues ? SI: Durante i primi anni e’ sicuramente stato una ispirazione, soprattutto i primi album o i Birthday Party. WN: Veniamo a “Shadow Of A Rose” come mai questo titolo ? SI: E’ un album incentrato su figure femminili che vivono ai margini della società. Molti brani parlano di donne e ragazze al limite, prostitute (nel brano “Violence”), ragazze madri e transessuali, come in un romanzo di Hubert Selby Jr appunto. WN: E’ un disco che arriva dopo sei anni da “Evil Moods”….un tempo molto lungo in cui avete prodotto solo il 12” “You Pretty Fangs” e lo split con i Cut….come mai così tanto tempo ? SI: Nel 2014 il nostro bassista si è trasferito a Berlino e ha lasciato la band, mentre il batterista si è trasferito a Lione dove vive tuttora. Abbiamo continuato a suonare live con un altro bassista ma per scrivere un album è stata fondamentale l’entrata di Krano nella band, nel 2018. Inoltre dal 2014 al 2020 ognuno di noi ha fatto uscire molti album con altri progetti, io coi LAME, i Love Trap e i Talky Nerds, Vinz con gli Heart of Snake, Boto con oAxAcA e Krano col disco R.I.P. WN: Pubblicato in Francia da Teenage Menopause Records dopo tanti anni a pubblicare in Italia avete trovato una possibilità oltralpe ? SI: In realtà in Italia abbiamo pubblicato ben poco. Prima degli Lp abbiamo fatto uscire singoli per etichette francesi, americane, neozelandesi ,il nostro primo 7” pollici è per l’olandese A Fistful Of Records. I nostri album a parte “Son of The Dust” sono usciti per la svizzera Voodoo Rhythm Records. Con la Teenage Menopause ci conosciamo da molti anni, e l’idea di fare un disco insieme ce l’avevamo già da un pò. Abbiamo sempre suonato più all’estero che in Italia, fin dai nostri primi tour nel 2005. WN: Ho trovato “Shadow Of A Rose” più morbido in certi parti, penso a pezzi come “Song Of A Silent Snow”, “East End Serenade”, che hanno un taglio quasi indie rock e sembrano strizzare l’occhio a un certo rock chitarristico oltre che ad

Photo by Tom Major

avere un cantato più pulito e onirico. Mentre alla title track e a “Violence” viene consegnato il compito di flirtare con l’America più westernata…Diciamo che sul disco nuovo gli animi cominciano a scaldarsi bene solo da “Your Beauty Tortures” e poi con “The Others Than You” e “Opium” è un crescendo che vi incanala su binari a voi cari….direi incandescenti…. SI: Sicuramente questo è un album “colorato” e pieno di sfumature, ci puoi trovare i Movie più lo-fi e rumorosi di “Melville” come quelli più soft e folk di “Son Of The Dust”. WN: Se ti chiedessi di fare una cover di Nick Cave And The Bad Seeds che canzone sceglieresti ? SI: “Up Jumped The Devil” WN: E infine …..Torino la vostra città….a memoria non ha una grande tradizione di band punk-garage-blues.....tanti generi, tanti grandi artisti, underground o meno, ma questo genere mancava un po’… da dove nasce l’esigenza di proporre queste genere e com’era la vita musicale in città prima del covid SI: Ho avuto la fortuna di crescere nella Torino dell’ hardcore e degli squat, ma anche del garage punk di Cave Dogs, Two Bo’s Maniacs e Killer Klown, che quando muovevo i primi passi come batterista della surf band Introducers sono stati un pò i miei padrini, ricordo a 16 anni di aver aperto per Two Bos Maniacs e Tim Kerr (Monkeywrench, Jack O Fire), di aver visto i Man or Astroman e Andrè Williams in locali che manco esistono più, nonostante Torino sia ancora una citta dove tutte le scene convivono e collaborano, questo è molto bello e tuttora molto stimolante.


# 3 - DIEGO “DEADMAN” POTRON

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Diego è un personaggio. Lo potete immaginare solo guardandone le foto. Ha un passato musicale burrascoso che dal metal core lo ha portato a evolvere la sua proposta solitaria di one man band, inizialmente in una primitiva forma di stoner blues, poi in un blues rurale e con l’ultimo “Ready To Go” in un folk blues sostenuto, a volte, dal piano di Alessio Capatti. Delle tre, la proposta di mezzo, quella che si rifà all’album “Winter Sessions” è quella che mi è piaciuta di più, ma “Ready To Go” mi ha convinto a sentirlo e proporgli di dire la sua in questo speciale, perché a mio avviso aveva delle cose da dire. “Ready To Go” (Rivertale Prod./Femore Prod., 2020) è un album di canzoni tranquille che abbandonano le vesti del blues più scarno per abbracciare sonorità più rotonde e notturne. “E’ venuto così” ha detto Diego nell’intervista, quasi scusandosi per l’accaduto, Lui non lo sa che sul dondolo quest’estate, in certe sere, il suo disco zittiva tutti i grilli. Non diteglielo, se no si monta la testa. un’aria western. Mi sono ricordato della versione dei The Hormonauts e quindi ho cercato di farne una versione più nelle mie corde, ho quindi tolto tutti i belletti della versione originale e ho lasciato solo lo scheletro disossato.

Photo by Claudio Romani WN: Dal tuo soprannome “Deadman” si possono intuire molte cose della tua musica. Non in tutte le canzoni nuove ma in certi passaggi il film di Jarmusch e la colonna sonora di Neil Young emergono….sto parlando di umori, sensazioni, atmosfere…. DDP: Lo pseudonimo “Deadman” proviene esattamente come dici tu dal film di Jarmusch. L’avevo visto al cinema quando era uscito. Sono un grande amante sia di Neil Young che di colonne sonore in genere. Il commento musicale mi ha sempre molto affascinato. In questo caso il matrimonio ha dato un risultato incredibile. La storia del film è poi magnifica… questa sorta di inesorabilità degli eventi mi aveva molto colpito, tanto da farmi un tatuaggio sulle dita con la scritta “Deadman”. A quei tempi suonavo il contrabbasso con Mauro Ferrarrese che è un grandissimo bluesman, ed è stato proprio lui ad iniziare a chiamarmi così. WN: La tua cover di “Staying Alive” le rappresenta tutte queste cose…..già perché una cover dei Bee Gees ? DDP: La cover è uscita proprio in quest’ottica di umori, sensazioni e atmosfere come dici tu. Avevo programmato di mettere su “Ready To Go” una cover, ma non questa, stavo lavorando a un brano di Cindy Lauper “The Goonies ‘R’ Good Enough”. Poi ho visto un documentario sui Bee Gees, che conoscevo solo per i singoloni famosi, e l’ho trovato molto interessante. “Staying Alive” è un bel film, che mi piace molto, è molto amaro ed è molto bello il contrasto tra la spensieratezza di una certa immagine e l’amarezza della reale condizione sociale. Ho letto il testo della canzone che pur essendo abbastanza leggero mi comunicava

WN: Il tuo progetto nasce principalmente come “un uomo una band”, sei un solitario? stai bene da solo? DDP: Sto bene da solo sia umanamente che artisticamente, ma non sono un orso solitario, amo la socialità. Dal punto di vista musicale mi sono abituato a suonare in solitaria e continuo a farlo. Per “Ready To Go” mi sono confrontato con Alessio Capatti che ha suonato i pianoforti sul disco. Nonostante i pezzi fossero più che impostati, un orecchio esterno che potesse darmi un consiglio mi serviva, e il suo aiuto mi è stato più che prezioso. Ho sempre suonato anche in band di vario genere, che andavano dal cantautorato al metal core, non è che odio suonare con una band, ma questa cosa la faccio da solo mi dà soddisfazione e ho intenzione di continuare. WN: In “Ready To Go”, il tuo ultimo disco, certe parti si sono un po’ ammorbidite….come si è detto c’è Alessio Capatti ai pianoforti….c’è in atto una trasformazione da blues man a folk singer? DDP: Si è un passaggio non forzato direi. In “Electro Voodoo” , che era quasi un disco stoner di un “onemanbad” classico, quello che mi interessava maggiormente era curare l’impatto sonoro che riuscivo a generare. In “Winter Sessions” mi interessava fare una cosa più asciutta mentre “Ready To Go” è uscito così, forse le canzoni stesse chiamavano una soluzione di questo tipo. WN: Cosa cerchi di raccontare nelle tue canzoni? Sembra che tu sia molto legato all’uso dell’inglese, magari anche solo per gli ascolti che hai frequentato, non trovi che per il tipo di musica che fai far capire cosa canti sia importante? Come affronti questa cosa? DDP: L’uso dell’inglese è dovuto a una forma di abitudine e formazione, dovuta agli ascolti che ho fatto e voglio fare. Mi piace molto anche la musica italiana ma nel tipo di musica che faccio quello che ascolto viene eseguito tutto in inglese. I testi parlano di cose molto disparate ma sempre di cose successe sul serio o che fanno riferimento alle mie passioni letterarie. “Moore Land” per esempio è una sto-


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riella di fantasia che ha riferimenti in Lovercraft e King, c’è questa coppia che si trasferisce in un posto e la donna incontra degli spiriti e la cosa non finisce bene. C’è “Mr.Choppy” che è una canzone per bambini, è buffa è simpatica, ma anche lì sotto sotto, c’è questo Mr. Choppy che aiuta i bambini a risolvere i loro problemi usando un’accetta. A me piace scrivere storielle, tante parlano di Carnate, il mio paese che è una specie di personaggio, se non proprio il paese, la geografia spesso per me è un personaggio delle canzoni. WN: Sono rimasto colpito dal pezzo “Death Comes To Your House” su “Winter Sessions”, il tuo secondo disco, un pezzo magnifico….ce lo spieghi? DDP: E’ una rivisitazione, abbastanza estrema, di un antichissimo spiritual le cui prime trascrizioni sono di inizio ‘800. E’ un pezzo molto bello, a me piace molto perché è ipnotico e ripetitivo come molti inni e canti religiosi dell’epoca. Ripete sempre lo stesso concetto se non con piccole variazioni. Questo pezzo, secondo me, è un po’ il capostipite di tanti pezzi che sono poi stati fatti. Come spesso succede nel Blues, ma anche nel Gospel, ci sono tutta una serie di pezzi che non sono cloni di pezzi più vecchi ma sono arricchimenti. Questo è uno dei principali, da questo come da tanti altri, sono poi usciti un’infinità di pezzi in duecento anni. E’ una rivisitazione sia del testo che della musica, il commento musicale è completamente distrutto e incendiato. L’origine di questo pezzo è proprio questa, ho tanti libri di canzoni, di testi, inni, anche roba di cowboy, testi di Alan John Lomax. Sono cose un po’ da topo di biblioteca ma le amo molto. WN: Già che ci siamo…non mi è sfuggito il titolo “Carnhate”, una storpiatura del nome del tuo paese. Il posto dove si vive e magari si nasce, è sempre un posto da odiare e da cui fuggire? DDP: In parte ti ho risposto prima….”Carnhate” perché la Brianza, per chiunque sia anche passato anche una sola volta, è un posto un po’ strano, gioia e dolore. Io sono molto legato al posto dove sono nato, cresciuto e alla fine tornato. Secondo me non è un posto da cui fuggire ma, come tutti i posti da cui si proviene, va capito e con cui, qualche volta, bisogna far pace. WN: Hai girato mezza Italia e mezza Euroa suonando, questo continuo movimento cosa ti ha dato a livello umano e artistico? Non ti chiedo a livello economico perché si sa che a fare il bluesman si fanno i milioni…. DDP: Dal punto di vista economico yacht e case di lusso garantite. Per me suonare, è suonare dal vivo, amo molto fare dischi, “Ready To Go” l’ho registrato tutto io e il lavoro di studio mi piace tantissimo. Però per me suonare vuole dire esibirsi dal vivo. Quest’ultimi tempi, aldilà di tutte le difficoltà che tutti hanno avuto, è stato molto difficile proprio per questo motivo. Non contiamo poi il fatto che suonando qualcosa riesci a racimolare e ti sostieni, quindi anche dal punto di vista economico è stata una botta….ma il fatto di non poter fare l’unica cosa per cui ci siamo impe-

gnati gran parte della nostra vita è difficile e frustrante. Il live è tutto. E’ il coronamento dell’impegno, del lavoro, dello studio….anche quello nel Bar più scalcinato, dove sono solo in cinque ad ascoltarti è una bella soddisfazione ed è il traguardo. WN: Realizzeresti un disco di sole cover? Se si di quale artista? Potrebbe essere Nick Cave ? DDP: Il discorso di un disco di cover mi ha stuzzicato negli ultimi tempi, per dirti la verità, ma non di cover di un solo artista. Ho tante cose che mi piacciono e una cosa che mi viene proprio naturale è fare cover che centrano poco o niente l’una con l’altra. Ti ho già detto prima del pezzo di Cindy Lauper e durante la quarantena ho registrato delle altre cose, ho fatto per esempio una versione super folk con l’ukulele baritono di “Halloween” dei Misfits, una versione western alla Johnny Cash. Mi piace fare le cover, ma solo se riesco a prendere qualcosa dentro pezzi che non hanno grande attinenza con il mondo del folk, del blues o dell’americana.


E’ folgorante la proposta degli Oh Lazarus, un trio pavese ad alta adrenalina blues. “Sailing” (Off Label, 2020) è il secondo loro disco e viene dopo “Good Times” uscito nel 2015. Sono stati etichettati come fautori di un gothic blues, che pur nemmeno immaginando cosa possa essere, non ritengo che si adatti ad una proposta certamente rurale ma anche fresca, solare e divertente. Qualche oggetto adattato a strumento percussivo, chitarra e Cecilia Merli a clarino e voce. Ecco, il clarino è una sorpresa, perché è un suono che in un disco del genere non ti aspetti, perché procura allegria e effervescenza alla proposta. Poi quando il gruppo deve pestare non si tira indietro e il disco risulta essere, in conclusione, divertente e serio allo stesso tempo e a mio avviso molto valido. Come ? Volete un’etichetta ? Psych Garage Clarinet Blues senza ombra di dubbio…..altro che gotico.

WN: Non ho ascoltato il vostro primo disco “Good Times”, mi racconti in cosa si è evoluto “Sailing” il vostro secondo disco, uscito a Maggio? Cecilia: A differenza del primo disco, “Sailing” è la foto della band live. Dopo aver fatto quattro anni di concerti sentivamo la necessità di fermare su vinile quello che eravamo nel 2019. Il disco è stato registrato in presa diretta al Casemate Studio da Marco Alberto Matti. Fare un disco in presa diretta è sempre stato un sogno che avevamo nel cassetto. WN: Le canzoni di “Sailing” nascono da influenze diverse “Lies” è un rockblues potente e scarno, “Summer City blues” è un folk roots ruspante mentre “Last Farewell” è pura stoffa velvettiana…siete solo in tre nella band….passioni personali che si fondono insieme o direzioni prese con consapevole incoscienza ? Simone: Direi passioni personali che si fondono insieme… sicuramente i nostri gusti musicali diversi contribuiscono alla resa finale in termini di suoni e scrittura. Io sono più legato al mondo del folk blues e della chitarra primitiva americana, Daniele invece ascolta molto rock e punk. A completare la torta Cecilia che spazia dal pop al jazz. WN: La domanda nasce perché ascoltando il disco sono rimasto spiazzato qualche volta. Per esempio, da “Last Farewell”, di cui abbiamo detto, passiamo a “Cecilia” che ha un sound robusto e distante dall-

# 4 - OH LAZARUS

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canzone precedente…non pensate che questo possa disorientare chi vi ascolta? Daniele: Volevamo chiudere con un po’ di potenza prima delle track finali di congedo. WN: Comunque la cosa che colpisce molto di alcune vostre canzoni è l’uso del clarinetto, non propriamente uno strumento da rock blues….ma magari da Jazz, Swing, anche Liscio o da Banda Musicale…. L’uso che ne fate è molto intelligente a mio avviso e dona al tutto un tocco di spensieratezza…penso a “Bottle Of Pain”…Usate una strumentazione particolare per comporre e suonare i vostri pezzi ? Daniele: oltre al clarinetto e alla chitarra resofonica avevamo una batteria composta da solo barattoli di latta e una valigia Samsonite. Con il passare del tempo abbiamo deciso di lasciare le latte perchè diventava complicato gestirle in situazioni live. Per ora abbiamo tenuto la nostra Samsonite. WN: Una battuta sui testi. Cantate in inglese, certamente una parte di comunicazione si perde, ma come tanti musicisti penso che apparteniate a un immaginario di ascolti che si esprime in quella lingua e credo che vi piaccia esprimervi cosi e che sia anche giusto. La domanda è, cosa bisogna metterci dentro al testo per essere credibili? Pensate in italiano e scrivete/cantate in inglese che tipo di magia usate per fare un buon pezzo? Cecilia: i testi di solito partono da storie personali e vengono scritte e pensate direttamente in inglese. Come dicevi per noi l’inglese è la lingua della musica che ascoltiamo. Prima dell’uscita del primo disco avevamo tentato di proporre una serie di pezzi in italiano ma per noi diventava complesso arrivare a scrivere tutto un album in italiano. WN: Chiudete il disco con un tradizionale “Oh Death” e con “Keep Your Lamp Trimmed And Burning” di Blind Willie Johnson non proprio due canzoncine…avete una buona conoscenza di pezzi traditional o blues ?


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Simone: i due pezzi scelti sono capolavori che facciamo dal vivo ormai regolarmente da diversi anni. Per me hanno un significato profondo. Ancor di più in questo periodo. Per quanto riguarda il folk blues è una genere che ho sempre ascoltato e amato molto. WN: Il vostro è un vinile da avere, perdonatemi non solo per la musica registratavi sopra, ma anche per la stupenda cover di Nana Dalla Porta….con cui avevate già fatto la copertina di “Good Times” Simone: Nanà è un artista incredibile che ha costruito insieme a noi l’immaginario visuale di Oh Lazarus. Vi invito ad andare a iscrivervi al suo profilo instagram (hGps://www.instagram.com/oktopus_sapiens/) WN: Amate Nick Cave ? Se foste obbligati a fare tre suoi brani quali scegliereste e perché? Daniele: Amiamo tantissimo Nick Cave. Chi non lo ama? Avendo a cuore le “Murder Ballads” probabilmente rifaremmo per intero il disco omonimo. Tornando ai tre pezzi, li prendiamo da tre periodi diversi: “Blind Lemon Jefferson” da “The Firstborn Is Dead” (1985), “Crow Jane” da “Murder Ballads” (1996) e infine “Jubilee Street” da “Push The Sky Away (2013).

WN: Infine il Ticino nasce dalle mie parti…..è fiume che ispira il Blues ? Cecilia: Siamo all’incrocio tra Ticino e Po e la nostra sala prove si trova a Voghera sul fiume Staffora. Sicuramente l’ambiente dove viviamo influisce molto sulla produzione musicale. (MS)

...dal n°52 -

I POSSIBILISTI: Ancora BAUSTELLE !!!

In merito al quesito che ponevano nella rubrica “I Possibilisti”, sul numero scorso, e sul fatto che i Baustelle siano meglio quando canta la ragazza, abbiamo ricevuto una mail da Laura di Riparbella (PI) che ci scrive testuali parole “Gentile Redazione e carissimo Direttore non dite cazzate !!! I Baustelle sono un buon gruppo che potrebbe diventare meraviglioso e sublime se Francesco e Claudio maturassero il coraggio di cacciare quella gatta morta. Hanno ampiamente dimostrato di essere musicisti e autori meravigliosi. Vogliamo parlare di “Forever” ? Bene, mi auguro che l’usurpatrice venga cacciata e mi venga restituito il ruolo che mi spetta di diritto, dopo la cacciata dai famosi provini di Montepulciano, vent’anni e più fa. Cordialmente sempre vostra Laura.”


STORIE DI SCATOLE DI FIAMMIFERI E SEMI CATTIVI TROVATI SULLA SPIAGGIA

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Gli incroci pericolosi fra le band di Stuart A. Staples e Nick Cave di Massimiliano Stoto C’è il terzo pezzo di “Nocturama”, “Right Out Of Your Hand”, dove il modo di cantare di Nick Cave fa aleggiare per la mia stanza il fantasma di Stuart A. Staples. C’è quel pezzo sul finire del primo dei Tindesticks, “Raindrops”, che contiene tutto il pianismo del Nick Cave di “The Good Son” e anticipa di almeno dieci anni il lavoro per cui Warren Ellis è diventato famoso e s’è preso i Bad Seeds. C’è, come direbbe Bugo, quel sentimento westernato sia nei Bad Seeds, che nei Tindersticks. Un sentimento più affermato e riconosciuto nel gruppo “australiano” e più “indie”pendente nel gruppo originario di Nottingham. Stuart Staples, come Cave, è affetto dal “croonerismo” di molti grandi e ingombranti interpreti americani (Elvis? Cohen? Cash?), ma anche inglesi (Ferry? Walker? e perché no? Ian Curtis), anche se la sua voce baritonale è più tremolante e meno determinata di quella di Cave. Ci sono poi i fedeli scudieri dei due leader. Ci sono le colonne sonore per film, opere teatrali e installazioni. E se vi dicessi che nei duetti vince, alla grande, Staples? Quello fra i Bad Seeds e i Tindersticks è un legame che nasce da subito. Durante il tour di “Henry’s Dream”, denominato “Live Seeds” e da cui verrà estratto il primo disco dal vivo dei Bad Seeds, i Tindersticks sono il gruppo spalla di Nick e soci in Inghilterra. E’ Blixa Bargeld che consiglia alla giovane band il Conny’s Studio a Colonia in Germania per le registrazioni del secondo disco, ed è presumibile capire perché, certi passaggi della musica del gruppo hanno rimandi “cosmici” palpabili, soprattutto nell’uso dell’organo. I Conny’s Studio erano stati creati da Conny Plank, primo produttore dei Kraftwerk, e poi di quasi tutti i gruppi fondamentali del Kraut Rock. I Tindersticks registreranno proprio lì, tutte le basi del secondo disco per poi completare il lavoro al ritorno in patria. Insomma ce n’è a sufficienza per fare un collegamento e c’è abbastanza materiale per spostare i riflettori dal gruppo di Nick Cave a quello di Stuart Staples, anche perché i Tindersticks sono gente da copertina, non sono degli sfigati incompresi, è gente che sfiora il trentennale di carriera e che nella propria proposta musicale ha concentrato, come vedremo, più arti, tra cui la pittura visto che gran parte delle cover dei loro dischi sono realizzate da Suzanne Osborne, moglie di Staples e affermata pittrice. Non batterò dettagliatamente la carriera dei nostri, ma voglio offrirvi l’opportunità di apprezzarne il percorso artistico, affinché possano essere un “piatto” da conoscere e ascoltare, nel “menù” di questo numero. La formazione del primo disco, quello per intenderci della donna che danza, è costituita da i membri che provenivano dalla città di Robin Hood, dove già tre di loro Staples, Boutler e Hinchliffe suonavano insieme, e quelli aggiuntisi a Londra, città dove il gruppo effettivamente si forma. Nel 1993 esce il

TINDERSTICKS

primo omonimo album, considerato con il secondo omonimo album, non è un refuso, tra i dischi più belli della band. E’ in effetti un bel disco, che ammalia e spiazza, semplicemente perché contiene molti suoni che non ti aspetti. C’è il chitarrismo indie, gli arrangiamenti degli archi in bella mostra, la tromba di Terry Edwards, gemella di quella di Del Crabtree degli Animals That Swim, gli effetti di chitarra, il piano, il violino, l’organo e la voce di Stuart che nel contesto sembra aliena. Ma come canta questo? Passaggi notturni e tirate americane, echi “mariachi” e vocazione soul per una sconfinata brughiera. Pezzi lirici e abbozzi scheletrici. Un immaginario romantico, spiazzante e per certi versi decadente. Prendete un pezzo come “Whiskey And Water” ed avrete tutto quello che ho detto. Nel secondo omonimo, foto di uomo (è Neil Fraser, il chitarrista) in bianco nero con scritte in blu, anno di uscita 1995, le cose sono leggermente più a fuoco anche se le stimmate del gruppo sono quelle. Lo spiazzante inizio di “El Diablo En El Ojo” la dice tutta. Le coordinate sonore sono le stesse ma le idee sono meglio indirizzate e più efficaci, si ascolti il lirismo di “A Night In” e l’arrangiamento di “Talk To Me”, seppur prendendo direzioni diverse hanno un filo che le lega. Poi certamente c’è “Traveling Light” il pezzo con Carla Torgerson dei Walkabouts, che è un pezzo per niente furbo e con un arrangiamento d’archi meraviglioso. Bellissimo il pezzo e il


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disco, che si chiude con “Sleepy Song” che, alla sua maniera, anticipa di vent’anni il Nick Cave di “Push The Sky Away”. “Curtains” è sicuramente un disco inferiore ai primi due. Esce nel 1997, e come gli altri dura molto, più di sessanta minuti. Sicuramente c’è meno ispirazione melodica e le parti memorabili che montavano lentamente in certe canzoni dei primi dischi, sono decisamente meno presenti e meno ispirate. Sono però eccessivamente presenti le parti sinfoniche. Posso capire che l’indolenza della voce di Staples, in un disco senza colpi magici, possa stancare, ma questo è un disco che il più delle volte ti rompe l’anima…. ma che in certe giornate è bellissimo. E’ una raccolta che mette al centro quell’intrattenitore seriale che è Staples, ma che concede pochi guizzi eclettici al gruppo. Penso a bei pezzi come “Bearsuit”, “Let’s Pretend” e la ellissiana e coraggiosa “The Fast One”, che osano interessanti aperture. Non male anche il duetto delizioso con Ann Magnuson in “Buried Bones”, molto migliore di quello con Isabella Rossellini di “A Marriage Made in Heaven” contenuto nell’edizione americana del disco. C’è molto meno coraggio in “Simply Pleasure” del 1999, dove certe canzoni sono abbandonate al mero pop orchestrale, buono solo per stare in sottofondo e altre sono solo ballate impaurite che non vanno da nessuna parte. E’ chiaro che in questa fase Stuart e soci sembrano aver imboccato una via senza ritorno, se “Curtains” in parte si era salvato, qui il rischio è imboccare un binario morto, dischi ben suonati, ben concepiti ma anonimi. Unici pezzi di livello “If She’s Torn” e “CF GF”, sei minuti a testa, dove aleggia lo spettro delle migliori ballate di Cave e “I Know That Loving” salvata dalle coriste. “Can Our Love…” esce due anni dopo e come il precedente dura tre quarti d’ora. C’è un po’ più di azzardo e gli arrangiamenti vanno più verso il soul, l’uso degli archi in modalità sinfonica è limitato e certi pezzi funzionano proprio bene. E’ una sorta di disco “allegro” per le latitudini del gruppo. Penso a “Sweet Release” efficace nell’uso degli archi e supportata da un organo liquido e con Stuart che canta con l’anima. Ma anche la title track e “People Keep Comin’ Around”, l’iniziale e decisa “Diyng Slowly” hanno un piglio diverso, più ispirato. I pezzi sono mediamente molto lunghi, a parte un paio, che stanno intorno o sotto i tre minuti. Di livello anche la desolante “No Man In The World” e la conclusiva “Chilitetime”. Un segno di riscatto. Un riscatto che continua con “Waiting For The Moon” del 2003, durata standardizzata sui 45 minuti, presenta buone canzoni e tanto coraggio vedi “4.48 Psychosis”, una cavalcata furiosa sulle parole sussurrate da Staples e prese dalla drammaturga inglese Sarah Kane. In alcune canzoni Stuart prova anche a cantare in maniera diversa e rispuntano i disturbanti violini alla Ellis e l’anima western di “Just A Dog”, con il duetto ottimo con Lhasa De Sela in “Sometimes In Hurts. Il classico disco bello che, non ripetendo i fasti dei primi due, finisce nel dimenticatoio e la critica, mediamente, lo snobba. “Waiting For The Moon” è l’ultimo disco con la formazione classica dei Tindersticks che è sempre stata costituita da sei elementi, Stuart Staples (voce e chitarra), David Boulter (organo, piano, tastiere), Neil Fraser

(chitarre), Dickton Hinchliffe (Chitarre, Archi e Violino), Al Macaulay (percussioni e batteria) e Mark Colwill (basso) a cui si aggiungevano Terry Edwards e la sua tromba, sempre presenti nei dischi del gruppo. Per dieci anni il gruppo ha prodotto dischi abbastanza standardizzati su un suono e un “mood” classico, orchestrale, dreamy se vogliamo, sussurrato e sofferente, da molti definito anche barocco, ma che non si è più espresso sul livello dei dischi d’esordio. E’ ora di cambiare. Per ascoltare un nuovo disco dei Tindersticks, “The Hungry Saw” bisogna aspettare il 2008, dove la band si ripresenta di fatto come un trio accanto a Staples ci sono i fedeli Boutler e Fraser, e molti altri collaboratori in studio. Le sonorità appaiono più leggere grazie al fatto che gli arrangiamenti degli archi e delle sonorità ad esse legati sono stati ridimensionati notevolmente. Ci sono strumenti nuovi flauto, ocarina, clarinetto e ancora la tromba di Terry Edwards. Cambiare tanto, se non tutto, per non cambiare niente. Alla fine lo sforzo fatto è apprezzabile ma non si discosta poi molto dal passato. E’ un disco ampiamente sufficiente ma non al livello dei precedenti due. Sulla stessa linea si muove “Falling Down A Mountains” del 2010, che presenta qualche atmosfera strumentale in più, qualche approccio più scarno con canzoni più nude e spontanee ma che non “bucano”. Il duetto con Mary Margaret O’Hara in “Peanuts” è bello ma non basta a sollevare un disco che non regala guizzi e si appiattisce lentamente. Non è assolutamente piatto invece “The Something Rain” del 2012, che riporta i Tindersticks dove meritano. Le atmosfere da, ennesima notte persa a scrutare il fondo di un bicchiere, dominano il disco. Essenziali e funzionali alle canzoni, sono gli arrangiamenti che fanno la differenza, tutti ben scritti, tutti affascinanti e capaci di creare un’atmosfera credibile che potrei descrivere, ripetendomi, con tre parole plumbea, notturna e solitaria. Ci sono sforzi espressivi notevoli l’iniziale, lunga e parlata, (la voce è di Boutler), “Chocolate” che riprende il mood di “My Sisters” dal secondo album, c’è Terry Edwards che suona il sax e non la tromba, c’è un pezzo come “Slipin’ Shoes” che flirta con il pop, e poi “Frozen”, “Show Me Everything” e “Medicine” che ti fanno dimenticare la stucchevolezza di “Come Inside” un brano che i Tindersticks ci cascano sempre a farlo e rifarlo. Quattro anni dopo, 2016, “The Waiting Room” alza ancora il livello e ventitre primavere dopo, il gruppo riesce a sfornare un disco che si colloca sullo stesso livello dei primi due. Non c’è “Curtains” che tenga. Una nuova ispirazione, scelte ritmiche essenziali, archi tenuti a bada, piglio cinematico, dolente ma fiero di se stesso. Vogliamo parlare di un brano definitivo come “Were We Once Lovers ?”? E del funk più che sfiorato di “Help Yourself” ? Di “Hey Lucinda”, duetto con la sfortunata Lhasa De Sela ?, e della commovente “How He Entered” ? Potrei continuare, ma chiudo. A ripensarci e a riascoltarlo con attenzione, “The


Waiting Room” forse è il capolavoro dei Tindersticks, perché condensa in un lungo percorso, gli istinti della doppietta ‘93/’95 con il lavoro fatto per le colonne sonore di Claire Denis. Ma per non farci mancare nulla, sotterriamo Nick Cave e i suoi duetti con quello che Staples e Jehnny Beth delle Savages ci regalano, in “We Are Dreamers”, un attimo prima che il disco si chiuda con “Like Lovers Only Can” la canzone che vorrei sempre ballare con la donna che amo. “No Treasure But Hope”, uscito lo scorso anno, è qualche passo indietro al precedente, ma ci consegna un gruppo ispirato e uno Stuart Staples che scrive un disco credibile di canzoni sospese tra orchestrazioni leggere, calde e solari e delicati pianismi. Un disco che ha un riferimento serio nelle produzioni orchestrali e corali degli anni ’60, che ammicca a certi, e molto noti, autori francesi come a leggere influenze esotiche. Che il leader sia in stato di grazia lo conferma certamente un pezzo come “Trees Fall” che mette d’accordo tutti, ma anche l’incalzante “See My Girls”, il pop zuccheroso e romantico di “Pinky In The Daylight”, la ballata semplice “The Old Man’s Gait” come la brillantezza soul di “Tough Love”. Un disco di classe senza ombra di dubbio. C’è poi l’amore per le colonne sonore, che in Nick Cave, dopo un fuoco di paglia iniziale, decolla con la collaborazione con Warren Ellis, mentre per i Tindersticks è amore praticamente da subito. Nel 1996 pubblicano la prima collaborazione, di sette, con Claire Denis, regista francese, musicando le immagini del film “Nénette Et Boni”. Sono pezzi che si sviluppano al piano, suonato da Boutler e Hinchliffe, che hanno Satie nell’anima. Pregevoli inserimenti di organo e glockenspiel le rendono notturne e eteree. Il primo pezzo cantato è “Petitte Gouttes d’eau” che è “Tiny Tears” dal secondo album, ma in un’altra versione e leggermente più corta. Qualche volta i pezzi si sviluppano con la band al completo e altre volte con pochi membri. Cinque anni dopo è la volta di “Trouble Every Day” titolo del film e della canzone che il gruppo scrive apposta. Il pezzo, molto affascinante, viene riproposto tre volte all’interno del cd, in varie versioni. Per quanto riguarda il resto, spuntano gli archi, arrangiati però al minimo sindacale e poi tromba, trombone, arpa e anche contrabasso e qualche bongo a creare una subdola tensione negli strumentali. “Vendredi Soir” del 2002, porta il nome Tindersticks ma è stata realizzata dal solo Dickon HinchLiffe come quella del 2002 per “L’intrus” è stata scritta dal solo Stuart Staples. I dodici pezzi del violinista del gruppo sono composizioni per violini e violoncello con occasionali inserti di tastiere. Mentre gran parte di pezzi di Staples si basano su un teso riverbero di chitarra con varianti a corredo, leggasi tastiere e tromba di Terry Edwards. E’ la nuova formazione dei Tindersticks che confeziona la colonna sonora di “35 Rhums”. Qui i pezzi sono tutti suonati dalla band, l’andamento è malinconico e sentimentale nella pura essenza Tindersticks, con la Melodica e l’Ondes Martenot che si prendono la scena. “White Material” è solo di un anno dopo, e fra tutte, è la colonna sonora più ostica. Le sottolineature, quasi sempre tese delle parti musicali, ben si amalgamano con la trama di un film drammatico ambientato in Africa, ma musicalmente è dura venirne a capo anche perché il suono dei Tindersticks rimane troppo sullo sfondo e compare a tratti nei due episodi intitolati “Children’s Theme 1 e 2”. Tutte queste soundtracks sono

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state raccolte dall’etichetta Constellation in un’edizione molto bella che le ha fissate in cinque cd, più un libretto con scatti tratti dai film, note e commenti in inglese e francese. Su Discogs lo trovate a prezzi stracciati. Nel 2013 c’è poi quella che è, per ora, l’ultima collaborazione fra Claire e i Tindersticks, ovvero la colonna sonora di “Les Salauds”. Qui abbiamo il gruppo alla prese con molte parti elettroniche, una cosa abbastanza inusuale per Stuart e soci, ma dalla resa perlomeno interessante. Brani tesi e scuri, un’atmosfera sofferta, la cover di “Put Yor Love In Me” di Hot Chocolate ad aprire e chiudere il disco. Territori alieni per questo pop group decadente e barocco. Ma l’esperimento non si può dire che sia fallito. Nella mia discografia dei Tindersticks non c’è traccia dei tanti live che hanno pubblicato, e a detta di molti qualcuno anche molto bello. Non c’è mai stata occasione mi vien da dire, anche se mi ricordo molto bene l’entusiasmo che mi procurò il live ai Magazzini Generali a Milano nel Dicembre del ’97. Altra mancanza che mi tocca ammettere, sono i quattro dischi solisti di Staples, che non ho mai ascoltato. E’ tutta roba abbastanza reperibile “gratuitamente”, ma ho preferito non eccedere con la sapienza, anche perché probabilmente non avrebbero aggiunto molto sapore al piatto. Una cosa che fa parte del mio materiale dei Tindersticks è il cd con le musiche dell’installazione permanente al Flanders Fields Museum di Ypres in Belgio. Nell’ambito delle commemorazioni del centenario della prima guerra mondiale, il museo di questa cittadina, completamente rasa al suolo da quattro battaglie combattute sul suo territorio tra il 1914 e 1918, ha commissionato ai Tindersticks la colonna sonora che accompagna i visitatori nel percorso del Museo. Come recita il libretto delle note è musica senza inizio, metà o fine. E’ musica d’ambiente, pervasa da un alone drammatico molto marcato. Tenete conto che in quella zona si sono stimate perdite per 300.000 soldati solo nelle forze alleate, fra questi 250.000 erano soldati del Commowealth. Come recita Wikipedia “Ypres è di fatto una città circondata da una gigantesca necropoli”. Fra i soldati del Commowealth deceduti ci fu anche il tenente colonello Bob Ingham, nonno dell’attore Sam Neil, il cui viaggio per raggiungere la sua tomba a Messines, a due passi da Ypres e a tre da Roubaix, è documentato in “Why ANZAC”, un documentario della TV australiana ABC, la cui colonna sonora, pensate un po’, è firmata da Mick Harvey dei Bad Seeds. E adesso ditemi che i collegamenti fra le due band me li sono inventati io. Ciao ciao negazionisti. (MS)


IL SUONO DEL MUTO

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Brevissima storia dell’etichetta che ha creduto in Nick Cave di Massimiliano Stoto L’etichetta per antonomasia di Nick Cave And The Bad Seeds è stata la londinese Mute Records. Dal primo disco dei Bad Seeds, 1984, fino a “Dig, Lazarus, Dig !!!” (2008), sulla costoletta degli LP si poteva leggere la scritta STUMM, che in tedesco vuole dire muto. Etichetta, al cui interno, Nick Cave e la sua band hanno rappresentato un’anomalia per molti anni. Mute nasce nel 1978 grazie all’intraprendenza, musicale e visionaria, di Daniel Miller, un classe ’51, figlio di ebrei austriaci scampati al nazismo e rifugiatisi a Londra. Un uomo, Daniel, destinato a lavorare nel campo cinematografico e che invece prese tutt’altra strada grazie alla musica. La casa dei genitori, nel dopoguerra, è frequentata da attori e rifugiati austriaci, il padre era infatti un importante figura della scena teatrale viennese, quindi al ragazzo verrà normale appassionarsi al cinema, anche perché il padre, oltre che aver aperto un teatro a Lndra, frequenta abitualmente i set cinematografici londinesi. Appena maggiorenne Daniel si iscrive alla Guildford School Of Art, per studiare produzione televisiva e cinematografica. In quello stesso anno, il ’69, il padre morirà improvvisamente e mentre nel mondo musicale imperversano “Summer Of Love”, Festival , Beatles, Stones e compagnia, Miller scoprì un genere musicale destinato a cambiargli la vita per sempre: il Kraut Rock. Rimane comunque nel mondo del cinema per qualche anno ma coltiva anche la passione per la musica e si manterrà per un certo periodo facendo il DJ. Rientra a Londra in piena era punk e incomincia a produrre musica, per lo più cose al sintetizzatore, che un bel giorno decide di sottoporre al giudizio di Geoff Travis boss del negozio Rough Trade. Quando Travis ordina duemila copie del singolo “T.V.O.D / Warm Leatherette” comincia la storia della Mute Records. I primi anni dell’etichetta sono segnati da uno sviluppo di musiche e da una ricerca di artisti che si muovono nell’ambito dell’elettronica e di quello che verrà definito electropop. Fad Gadget fu uno dei primi, e poi vennero DEPECHE MODE

Silicon Teens, Deutsch Amerikanische Freundschaft, Robert Rental e NON, poco dopo la firma di un primo iconico nome: Depeche Mode. Erano tanti i discografici che giravano ai concerti del gruppo proveniente dalla regione dell’Essex, ma i ragazzi decisero di firmare per Miller che così, senza ancora saperlo, mise a segno il colpo della sua vita. A quel punto per gli inesperti giovinastri destinati a diventare le star che tutti conosciamo, Daniel diventa manager e produttore, una figura quella di producer che saprà fare bene anche con i Soft Cell, c’è infatti lui dietro al 12” di “Memorabilia”, che sfonda nei dancefloor newyorkesi all’ inizio degli anni ’80. La Mute è sempre stata un’etichetta orientata a pubblicare prevalentemente musica elettronica o pop sperimentale, così nei suoi primi anni di vita con l’esplosione del suono del synth e del fenomeno musicale denominato “synth pop” si trovò ad avere parecchi assi nella manica. Depeche Mode su tutti ma anche Erasure e Yazoo, due gruppi formati da Vince Clarke, il principale autore di canzoni dei Depeche Mode, che ad un certo punto abbandonò i suoi compagni principalmente per divergenze artistiche. Ma proprio in quegli anni di grandi successi commerciali, non iperbolici, ma certamente redditizi, considerate che i Depeche iniziano a sfondare negli stadi solo con “Violator” nel 1990, Miller inizia anche a mettere sotto contratto artisti che con il suono classico dell’etichetta


c’entrano poco, sto parlando ovviamente di Nick e i Bad Seeds, ma anche dei Wire, dei Crime + The City Solution, di Diamanda Galas oppure dei Laibach. E si comincia a intravvedere un filosofia, quella cioè di firmare artisti estroversi dalla proposta musicale coraggiosa e non propriamente classica. Più che di un suono Mute si potrebbe parlare di “filosofia Mute”. Miller acquistò anche i diritti del materiale di band come Cabaret Voltaire e Throbbing Gristle, come più tardi anche quello di Buzzcoks, Virgin Prunes e Suicide. Negli anni ’90 l’etichetta va un po’ in crisi, va di moda la prima ondata di Brit Pop targata “Madchester”, la Mute non si fa cogliere del tutto impreparata, ma ha sotto contratto solo gli Inspiral Carpets di “Life”. In quegli anni crolla anche la rete distributiva di Rough Trade a favore delle grandi catene di superstore musicali generalisti. Qualche anno dopo il boss dichiarò che in quegli anni, anche a causa della scarsa vena creativa dei Depeche, la Mute praticamente venne tenuta in piedi dalle ottime vendite di “Let Love In” e “Murder Ballads” di Nick Cave e salvata del tutto quando Moby pubblicò “Play”. Nei primi anni duemila l’etichetta fu ceduta al comparto europeo di EMI per una cifra da capogiro, 23 milioni di sterline. Mute manterrà comunque l’indipendenza operativa e la propria distribuzione. Sarà Goldfrapp, il duo formato da Alison Goldfrapp e Will Gregory, il nome di punta dell’etichetta nel nuovo secolo. Il duo si rivelerà un colpo straordinario che farà vendere a Mute milioni di dischi. Il nuovo secolo porterà con se anche il ritorno delle sonorità elettroniche che Mute saprà ancora una volta cogliere, non dimenticando però le origini del suono dell’etichetta, ovvero quel miscuglio fra elettronica e pop che tanta fortuna portò nei primi anni di vita della label, così quando nel 2014 i New Order firmarono per la Mute tanti cerchi simbolicamente si chiusero. Se fate un giro sul sito della label britannica e date un occhio agli artisti e al catalogo troverete veramente tanti nomi storici dell’indie rock, artisti giovani e performer consumati. Tra le novità Daniel Blumberg mi sembra tra i personaggi più interessanti. Tre dischi all’attivo e tutti usciti su Mute, propone un country sgangherato pervaso da rumorismi tesi e aperture inaspettate, un originale proposta che può spiazzare ma più facilmente incantare se siete abbastanza curiosi e d’orecchio buono. Tenete d’occhio il suo disco “On & On” nelle playlist di fine anno. Ha pubblicato con Mute anche il nostro Alessandro Cortini, che è

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approdato sulla label, solo l’anno scorso con il suo settimo album “Volume Massimo”, dopo molti anni passati con i Nine Inch Nails di Trent Reznor. L‘album è molto convincente con le sue trame costruite prevalentemente con il synth. C’è poi Pole, alias ill producer berlinese che risponde al nome di Stefan Betke, che propone un dub/glitch molto ipnotico. Il suo ultimo disco “Fade” è uscito il 6 Novembre. Ho preso solo tre nomi relativamente nuovi e di livello della Mute Records del 2020. E visto che prima si parlava di orecchio buono…posso dirvi che le uscite di quest’anno di grandi nomi come quelli di Lee Ranaldo, in coppia o in solitaria, e dei Cabaret Voltaire di “Shadow Of Fear”, sono veramente di ottima qualità. Gloria anche per gli anziani allora. In conclusione si potrebbe dire che Mute è stata, ed è, una casa discografica, non direi all’avanguardia, ma sicuramente molto attenta alle sonorità del momento. Ha aperto la strada ai suoni sintetici negli anni ’80 ma poi nel corso del tempo ha azzeccato qualche grandissimo colpo (Moby e Goldfrapp su tutti), senza riuscire più a fare tendenza. Ha dato asilo e fiducia a artisti che sono poi diventati grandissimi, Nick Cave è fra questi, e forse proprio con Nick Cave, Daniel Miller ha fatto la sua più grande scommessa, visto che nel 1984 l’australiano non era praticamente nessuno. Ha continuato, come etichetta, a offrire spunti di grande creatività e ripescaggi ad hoc di gruppi fondamentali come, già detto, Suicide, Throbbing Gristle, Buzzcocks e Einstürzende Neubauten, oltre che a garantire libertà d’espressione e creativa, e riuscire in definitiva a racchiudere tutti gli artisti scritturati sotto un'unica etichetta, che poi è stata pure un filosofia non dichiarata, e che io definirei tranquillamente come Art Rock. Un vestito che a pensarci bene sta benissimo anche al nostro Nick. (MS)

DANIEL MILLER


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DISCHI DI ULTIMA GENERAZIONE

HUGO RACE AND THE TRUE SPIRIT

JAYE JAYLE

THE RESIDENTS

15 60 75 (THE NUMBERS BAND)

di Stoto Massimiliano HUGO RACE AND THE TRUE SPIRIT - Star Birth Star Death

THE RESIDENTS - Metal, Meat & Bone (The songs of Dyin’Dog) (Cherry Red Records, 2020) - 26 tracce, durata: un’ora, 28 minuti e 38”. CD acquistato c/o Papermoon Biella € 26,50

Per parlare compiutamente di questo nuovo disco dei Residents bisognerebbe partire dall’ascolto dei demos originali di Un’ altro disco di Hugo Race. Un altro viaggio immaginifico di Dyin’Dog, misterioso blues man che il gruppo ha scovato chisquesto autore, cantante e chitarrista australiano, per qualche sà dove, e che sono pubblicate nel secondo cd che questa anno vicino a Nick Cave e poi partito per tante destinazioni sia pubblicazione presenta. Solo dopo l’ascolto vi consiglio di musicali che geografiche, fra queste anche il nostro paese, do- giudicare la ripresa degli stessi pezzi fatta dai Residents, a ve si è stabilito per un po’ di tempo. Hugo Race si è incarnato in cui sono aggiunti sei brani originali scritti dal gruppo ma ispiuna miriade di gruppi e collaborazioni, tra queste i True Spirit rati dal blues man stesso, il cui vero nome era Alvin Snow . occupano la parte più importante della sua discografia visto che Conoscendo il gruppo dell’Alabama trapiantato in California con questo doppio hanno accreditato più di quindici dischi. Co- pare tutta una bufala, ma loro potrebbero non essere d’accorme detto un disco doppio, diviso in due parti ben distinte, in do. Sta di fatto che questi ventisei brani, veri o inventati che “Star Birth” ci sono le canzoni, in “Star Death” tutti pezzi diffe- siano, riletti o meno, mi sembrano principalmente un omaggio renti dal primo cd, ma tutti strumentali. Vediamo di farla fuori dell’ensemble al blues del Sud degli States. I dieci brani origisubito….almeno la prima metà delle canzoni di “Star Birth” fun- nali, durata una mezz’ora circa, presentano una band di blues ziona molto bene, c’è un buon piglio rock, un buon drumming, elettrico a supporto di un cantante con una voce alla Tom una bella tensione e decisione. Non si può dire niente di pezzi Waits, per darvi un riferimento diretto. Sono blues oscuri e come “Can’t Make This Up”, “2Dead2Feel”, “Darkside”, “Embyro”, torturati, soprattutto dalla voce, tutte composizioni originali e “Only Money” e la notturna “Heavenly Bodies”, dove potrebbe nessun traditional. Le riletture invece ve le lascio solo immaanche cantare Paolo Benvegnù in inglese, tanto gli somiglia. ginare…geniali, surreali, stravolte…insomma alla ResiRock desertico, belle atmosfere, grande liricità e grandi spazi, dents….che toccano i più disparati generi, dal rock al pop, fino questo comunicano le canzoni. Il problema nasce con gli ultimi al folk, con ovviamente arrangiamenti pazzeschi. Aldilà della pezzi dove si materializza in carne ed ossa lo spirito di Leonard veridicità del tutto, quello che emerge è la “solita” geniale e Cohen, che veramente già nelle canzoni prima aleggiava. Que- intelligente attitudine dei Residents a inventare, rileggere e ste ultime tracce, molto d’atmosfera e un po’ piatte, tendono ad interpretare, non solo il blues, che fanno benissimo tra l’altro, annoiare un po’, anche perché molto simili fra loro. I primi pezzi ma cinquant’anni, ormai, della nostra musica preferita. Se della seconda parte mi convincono molto. Anche qui c’è una avete voglia di ascoltare un’interpretazione del blues non cobuona ritmica che sostiene i brani ed emerge anche un lato mune, qui non vi annoierete. E poi l’operazione in sé, vera o psychblues di Race che nel primo cd è ben mascherato dalla falsa che sia, è curata benissimo con un libretto magnifico veste cantautorale. “Divided”, “Angels Whistleblowin’”, “Love Is che spiega tutta la storia, testimonianze, foto e quant’altro. The Energy” e “Virus Of The Mind” sono in questo senso ottimi Qualcuno ha già scritto che sono matti questi Residents ? pezzi…ma poi, di nuovo, c’è una virata verso lo space rock che pare un po’ fine a se stessa e raggiunge l’apice, molto apprezzato, con il pezzo “Can’t Make Shit Up” e con la seguente “My Little Wars”, ma che stanca un pò. Non è sicuramente una colonna sonora immaginaria questo secondo cd ma molto probabilmente un tentativo di fare un passo verso un certo rock sperimentale. A me il tutto, fra primo e secondo cd, mi è sembrato francamente “troppo”. La classe di Race non è assolutamente in discussione, è uno in giro da quarant’anni ci mancherebbe, e anche in questo cd ci sono molti grandi pezzi, rimane il fatto che su novantasette minuti di musica, una buona mezz’ora, per me, è superflua. A parziale scusante del “troppo” con cui ho definito tutto il lavoro, specifico che l’edizione in cd unisce “Star Birth” e “Star Death” ma l’edizione in vinile tiene separati i due lavori rendendoli acquistabili singolarmente. (Gusstaff Records, 2020) - 24 tracce, durata: 96 minutazzi. CD acquistato c/o Papermoon Biella € 20,90


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JAYE JAYLE - Prisyn (Sargent House, 2020) - 10 tracce, durata: 5 secondi ai 39 minuti. CD acquistato c/o Papermoon Biella € 17,50

Evan Patterson è un ex-chitarrista e cantante post-hardcore proveniente dalla scena di Louisville, città del Kentucky, USA. Con il nome d’arte Jaye Jayle è alla sua terza prova sulla lunga distanza, ma se i suoi due dischi precedenti erano riconducibili a una band con vari elementi e un genere di riferimento, in questo “Prysn”, Evan fa capo solo a se stesso. “Non ci sono veri strumenti suonati in questo disco” recitano le note del cd. Dedito da sempre alla ricerca di “lati oscuri” musicali, in questo disco il musicista americano fa tutto con l’iphone e l’applicazione Garage Band, avvalendosi solo della collaborazione di Ben Chisholm, produttore e musicista. Suoni sintetici, atmosfere cupe e glaciali, un cantato nero figlio tanto di Alan Vega quanto di Scott Walker. Anche le ritmiche sembrano provenire da un mondo cristallizzato. Colpi nel vuoto, distanti e freddi, danno un supporto minimo al cantato e alle poche linee melodiche. C’è tanta elegia, tanta declamazione, tanta evocazione di un potere superiore oscuro e opprimente. “Prysn” nasce prima del lockdown, ma involontariamente o meno, evoca il mondo pandemico che viviamo. Soli, imprigionati, lontani. Con noi solo i nostri cari aggeggi telefonici e tanti amici online. Disco che funziona benissimo e per certi versi anche sorprendente. Non ci sono cadute di stile, non ci sono ruffianate ipercinetiche, ma c’è la rappresentazione di un mondo frantumato nei rapporti minimi. Musicalmente è una sorpresa, perché Patterson soprattutto con il suo cantato filtrato riesce a dare profondità e tono alle composizioni, sia in quelle più angoscianti che in quelle più “synth-pop”. Un’opera in cui parlare di pezzi ha poco senso, talmente appare evidente che il tutto è un ‘unico flusso di coscienza con diverse sfumature. A volte le parti ritmiche prendono il sopravvento a volte invece sono le trame sintetiche a farlo. Ne esce un disco di culto, a livello musicale è come se Burial si fosse immerso nell’oceano del blues e una volta uscito avesse asciugato gran parte delle ritmiche e azzerato la velocità. Una sorpresa, cupa ma gradita, Se Nick Cave oggi, avesse quindici anni partirebbe da qui per costruirsi una carriera.

veniamo alla musica. Cinque “ragazzi”, i fratelli Kidney, Robert alla chitarra elettrica e John alla voce, Bill Watson al basso, Clint Alguire alla batteria, Terry Kidney al piano e all’Organo Hammond e Terry Hynde al sax. Terry è il fratello di Chrissie Hynde dei Pretenders. Come detto blues bianco, elettrico, tosto, vero, onesto, diretto. Voce al limite del canto, quasi recitante in pratica, sax in svolazzi free jazz, piano o organo a supporto, basso roccioso e chitarra se non il top del virtuosismo almeno il top della funzionalità che il genere richiede. infine anche armonica all’occorrenza (quindi spesso). Se desiderate vi parlo di ogni singolo pezzo ma credo proprio che sia inutile, dalla prima all’ultima, che siano più tirate o meno, tutte hanno il fuoco dentro e l’anima, intonsa, risulta non essere impegnata in alcun patto col diavolo. Se è necessario potrei citare l’incendio di “Back To Disaster”, le contaminazioni jazz di “Wolf”, la sfrontatezza di “Red Stick”, il sogno di romantico di “Rosalie” e via a pedalare… perché non citarle tutte è un crimine. La Numbers Band è band da Boar’s Nest o da Bob’s Country Bunker, è la band che non vedrete mai dal vivo, mettetevi l’anima in pace. In Europa sono venuti a suonare alla spicciolata i vari membri e in sporadiche occasioni. E’ una band da cercare, non vi dico di fare i matti e strisciare la carta di credito, ma andatevela ad ascoltare, tanto su Spotify ci sono, e non ve ne pentirete. PS: le frasi in neretto sono tratte dal comunicato stampa che trovate sul sito della band e sono state tradotte da Mr. Google. (MS)

15-60-75 THE NUMBERS BAND - Endure (Outliers On Water Street) (Autoproduzione, 2020) - 10 tracce, durata: 64 minuti di blues. CD acquistato c/o The Numbers Band $ 15,00 + s.p.

Una band di blues bianco con i controcazzi, in giro da quando sono nato (sono del 1969) con al seguito sassofonista free jazz e frontman che pare più recitare che cantare. Per loro ho fatto quello che non facevo da almeno venticinque anni, ho comprato il Cd direttamente alla fonte, negli States, visto che per ora “Endure” non ha una distribuzione europea. Ovviamente, non per godere il viaggio, ma le spese di spedizione, ho anche richiesto “Hotwire” e “Inward City” due dischi precedenti della band. Che dire della proposta musicale? Bè innanzitutto che questo è blues nudo e crudo, eseguito da gente navigata che tratta la materia non con i guanti bianchi ma alla moda dei meccanici d’auto e cioè sporcandosi le mani. Gente dell’Ohio che bada al sodo nella vita come nella musica. Gente che non le manda a dire “Molti fan

hanno l'impressione che la band rimanga ai margini per scelta. In effetti, non è mai stato offerto loro un contratto da nessuna casa discografica del settore, mai.” oppure “La musica "non può essere classificata", "non può essere definita", "è troppo originale". L'industria musicale non riguarda più la musica. Si tratta di vendere prodotti con cui il pubblico può relazionarsi. Dopotutto, è un business. Anche la musica "alternativa" è diventata un'etichetta.” e infine "L'industria musicale, i media e la tellusourvision (TV) stanno definendo per il pubblico americano cos'è buona musica promuovendo solo ciò che è redditizio. Ci viene insegnato a ignorare tutto ciò che non ci è familiare. Noi (The Numbers Band) diamo il meglio alle persone. Il nostro impegno è essere creativi, unici e originali. Definiamo il nostro suono. Non ci sono regole perché non giochiamo. Non siamo dentro per giocare, siamo dentro per la musica. ". Direi che può bastare e

I POSSIBILISTI

Ma possiamo dire che: Questo Nick Cave con tutte le sue menate sulla Bibbia, le sue bestemmie, il peccato originale e quant’altro ci ha preso in giro per anni? LETTORI RISPONDETE NUMEROSI !!!!!!!


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Vinyl Return pt.2 LA SECONDA ERA DEL VINILE di Griggi Michele

Comprai il mio primo 33 giri nell’estate del 1978 durante una vacanza al mare, era “Sono solo canzonette” di Edoardo Bennato, un disco che aveva il pregio di avere la copertina in versione “Gatefold”, cioè si apriva a libro e rivelava al suo interno una storia a fumetti con protagonisti Peter Pan, Capitan Uncino e l’alligatore che si era mangiato la mano del pirata e una sveglia, tra le altre cose. Ovviamente al mare non avevo il giradischi e passai più di una settimana a rigirarmi tra le mani il disco e ad ammirare e leggere il fumetto. Iniziò così la mia carriera di pigrissimo ma assiduo ascoltatore di dischi in vinile, collezionando 33 e 45 giri, con qualche sporadico tradimento a favore delle cassette, che offrivano qualche indubbia comodità, per esempio non dovevi pulirne la superficie prima di suonarla ed era decisamente più semplice e veloce girare il lato per proseguire l’ascolto, però si rovinavano più facilmente e davano decisamente meno soddisfazione, costando quasi come un LP ed essendo così piccole. Anche la qualità del suono non era la stessa. Ho detto però che ero molto pigro, infatti essendo il tipico adolescente che passa le giornate in posizione orizzontale a leggere libri e a pensare a chissà cosa (“and when I’m lying in my bed and I think about life and I think about death”. Cit. The Smiths) mi scocciava parecchio dovermi alzare ogni venti minuti circa per girare e pulire il disco, questo quando non mi addormentavo, chiaro. Causa questa mia pigrizia non ho mai amato fino in fondo i vinili negli anni tra il 1978 e il 1991, quando dopo essermi preso qualche anno per decidermi, ho acquistato il mio primo stereo comprensivo di lettore CD. Il mio primo CD per provarlo (ricomprai “Making Movies” dei Dire Straits) e poi il mio primo CD nuovo che penso sia stato “Nevermind” dei Nirvana. In quel momento per me il CD è stato una svolta, una rivelazione, una benedizione, non dovevi praticamente mai pulirlo, se non in casi eccezionali, c’era tutto il disco, tutto intero su di un unico lato, la musica si sentiva bene, coglievi che non era il suono del vinile, ma “what the fuck”, non te ne fregava niente, molto presto ti saresti dimenticato come suonavano i vinili. Per molti è stato così, per me sicuramente. Ho ascoltato CD per molti anni e ne ho comprati centinaia, avendo attraversato tutta l’era del download selvaggio, incrociando per un po’ anche quella fonte incredibile che è stata Napster (nessun altro come lui dopo, c’era tutto, ma proprio tutto) e della masterizzazione altrettanto selvaggia, i compari di questa fanzine ne sanno

qualcosa, acquistammo persino un masterizzatore esterno in comunità, io non avendo soldi in quel momento, pagai con un baratto, un videoregistratore, altro bel pezzo di antiquariato ormai. Poi, tre anni fa, dopo più di un decennio passato senza nemmeno un impianto stereo degno di questo nome, senza in realtà dare molto peso alla nuova e crescente, almeno a parole, ondata del ritorno del vinile, mi viene voglia di ricominciare a far girare sul piatto quel pezzo di plastica nera rotonda, mi viene questa ispirazione. Potendo spendere qualche soldo, mi do un limite di spesa, mi informo da amiche e amici che ne sanno più di me e metto assieme un discreto impianto composto da giradischi giapponese al quale ho dovuto cambiare la puntina su enfatico invito di un amico Dj, puntina che tutto compreso costa sui cento euro, amplificatore molto buono provvisto di Bluetooth e al quale volendo si collega qualsiasi cosa, dal PC alla macchinetta del caffè, anche se di quest’ultima non sono certo, e due casse che non ingombrano molto, mimetizzabili tra i libri sopra il mobile o tra gli scaffali. A quel punto non mi restava che rimettermi ad ascoltare i dischi in vinile, e magari comprarne di nuovi. Il mio primo esperimento di ascolto è stato “Who’s Next” degli Who, e siccome le mie orecchie non erano da anni più abituate al suono del vinile, la sensazione è stata incredibile, mi sembrava di avere la band in casa che suonava, al completo, erano tornati in vita John Entwistle e Keith Moon per suonare a casa mia, beccati questa Tiziano Ferro (per chi non ha capito ho fatto una battuta sul brano di Ferro dove Raffaella canta a casa sua). Non starò qui a disquisire sulla questione del suono più caldo e più bello del vinile rispetto al cd, sappiate solo che è vero, anche se questo non vuol certo dire che i CD suonano male, anzi. Sulla questione invece che da un certo momento in poi, gli anni 90 decisamente, si è iniziato a produrre musica in modo specifico per il CD e che questo poi abbia creato problemi anche di qualità nella versione LP, che ultimamente ha registrato un ritorno, non saprei. Quanto meno quasi tutti gli artisti fanno uscire (lo facevano anche prima ma i numeri erano ridicoli, poche copie ora anche di un certo valore nel mercato) la versione LP dei loro album, ho notato anche che la durata dei dischi sta ritornando quella più conciliabile con i due lati di un 33 giri. Insomma si, il mercato della musica si evolve, da un lato non si torna più indietro, la musica è digitale, ai più giovani, che ascoltano e spesso anche comprano


I Nomadi oggi

Billie Eilish

musica, l’oggetto fisico non interessa più, cellulare e al massimo piccole casse Bluetooth sono il loro mezzo favorito per godersi che so, l’ultimo album di Fedez o di Brunori sas, o magari Billie Eilish (io ho comprato l’LP però , ah già , ma io non sono giovane, me ne dimentico spesso). Piattaforme streaming offrono tutto con un modico abbonamento, che tutti noi vecchietti abbiamo ormai sottoscritto, ma ci sono anche sistemi gratuiti, insomma tutto in buona qualità e a bassissimo costo, nessun bisogno di ritornare al vinile, il business va avanti e anche se è vero che le vendite dei dischi “old style” aumentano, anche se è indubbio che il CD perde attrattiva e valore, sicuramente qualsiasi supporto fisico, materiale, sta andando verso una quasi totale scomparsa e va bene cosi, come cantavano i Nomadi, noi non ci saremo, salvo il fatto che i Nomadi, ad oggi, ci sono ancora. Ma allora, chi, perché compra ancora i dischi, al punto da far registrare, ma sono solo percentuali, i numeri delle vendite non sono poi così altisonanti, aumenti delle vendite dei dischi in vinile che battono quelle del cd ? Sappiamo che è un po’ una guerra dei poveri, ma è comunque una fetta di mercato che interessa eccome alle multinazionali. Quello che posso dire io è che oggi l’acquirente tipico del disco in vinile ha un’età media di quasi 50 anni, ci sono si giovani che comprano ma credo che il grosso siano persone che non hanno mai smesso di comprare vinile, persone che come me hanno ricominciato a comprarlo, collezionisti, genitori che fanno scoprire ai figli il piacere del vinile e così via a formare un mercato di nicchia che si appoggia molto sulle fiere e mercatini del disco, sui pochi negozi rimasti (ma ogni tanto uno nuovo riapre tentando la fortuna) e ovviamente sulle vendite on line. Io non credo che il vinile sia tornato perché in qualche ufficio qualcuno ha fiutato l’affare e ha pensato di seminare questa moda, questo revival, introducendo qualche vinile nelle edicole e negli autogrill, magari con copie dal basso livello di qualità . Sulla qualità poi, giudicherei caso per caso, stiamo parlando di vinili ormai sempre stampati nel formato di 180 grammi, una volta un vinile di tale grammatura era super lusso, se ne avete, prendete in mano qualche vostro vecchio e glorioso vinile, sono sottilissimi, io ricordo nel mitico negozio di Borgomanero, l’ “Underground”, il commesso mostrare orgoglioso una copia di un disco degli Shellac dicendo “vinile 180 grammi” come se stesse dicendo che era placcato oro. Personalmente ho acquistato vinili in edicola che si sentono molto bene e in autogrill acquistai “VS” dei Pear Jam che si sente alla grande, ho comprato persino un vinile di Nina Simone in un Mediaworld, si trattava di cogliere l’attimo, una stampa si nuova, ma almeno decisamente economica. Quindi, è probabile che dopo qualche decennio di dominio del cd, quando i giovani non acquistano nemmeno più quelli (almeno la massa del pubblico, non le nicchie) essendosi

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digitalizzati sempre più, ci sia stata come reazione, un ritorno parziale ma consistente, in ogni caso dell’ascolto e dell’acquisto del vinile, da parte soprattutto di vecchi appassionati e in qualche caso, io spero con numeri crescenti, di nuovi. Il terreno in cui si gioca la partita, quello più bello, sono le fiere del disco, vi invito a frequentarle, fateci un giro, piccole e grandi che siano, prendetevi il tempo, toccate con mano i dischi, guardate le copertine, chiedete e trattate sul prezzo, decidete se fidarvi o no, prendete confidenza con le logiche ed i meccanismi che rendono un disco costoso e un altro quasi gratis, la bellezza della musica in questo ha quasi zero come valore, per esempio i dischi in studio di Springsteen li portate via per pochi euro, ne girano milioni di copie in ottimo stato, poi magari un album di Loredana Berte degli anni 70 prima stampa italiana chissà, può costare anche cento euro, questa quotazione me la sono inventata sul momento, ma posso dirvi che la prima stampa inglese di “My Generation” se in ottimo stato costa mezzo stipendio di un operaio, mentre la prima stampa UK di “Exile On Main Street” degli Stones mi è costata solo 50, che ho speso con un gran sorriso poco più di un anno fa alla bellissima fiera del vinile di Pordenone. Che dire per concludere, il ritorno del vinile è più una presa di coscienza delle case discografiche e anche degli artisti del fatto che esiste ancora un mercato per quel supporto e che la morte certa del supporto fisico per la musica può essere spostata un po’ più in là nel tempo, c’è ancora da guadagnare, una piccola fetta di mercato che tra l’altro può far guadagnare qualcosa in più agli stessi artisti, ormai rassegnati al fatto che la loro arte, la loro musica la devono far girare quasi gratis nella maggior parte dei casi, guadagnando poi dai live e dallo sbattimento “on the road”. Noi che amiamo ascoltare musica, scombussolatI dalla facilità e dalla quantità che possiamo ascoltarne e alla quale abbiamo accesso con le nuove tecnologie possiamo, se vogliamo, rallentare un momento e apprezzare di più (per me è così ) un singolo ascolto, mettendo in scena quel piccolo rito che, sconfitta l’atavica pigrizia consiste nell’estrarre il disco, posizionarlo sul piatto, farlo girare pulendolo con la spazzolina, poi posizionare la puntina sui primi microsolchi e mettersi comodi ad ascoltare. Il vinile è tornato, il vinile non è mai andato via, non lo so, io sono contento così. (MG)


NICK CAVE AND THE BAD SEEDS “Greetings from Sanremo” WolverNight Records 004 10 tracks - 52’ circa

01 The Ship Song 02 Foi Na Cruz 03 Where The Wild Rose Grow 04 Into My Arms 05 Hallelujah 06 Bring It On 07 O Children 08 Hold On To Yourself 09 Palaces Of Montezuma 10 Push The Sky Away

NICK CAVE A SANREMO

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Dopo aver ascoltato “The Good Son”, Alberto Nobili commentò il risultato con una frase che suonava minacciosa: ”Finirà a Sanremo”. Lo guardammo strano. La prima volta fu con Andrea Occhipinti e Edwige Fenech, pochi mesi dopo la frase di Alberto. Recuperato alla veloce dopo il grande successo del tour di “The Good Son”, per sostituire Rod Stewart che si rifiutò di eseguire i due pezzi concordati e finì per non esibirsi per niente, Nick Cave presentò “The Ship Song” e vista la richiesta di bis sfoderò una “Foi Na Cruz” da antologia. Mai capitato per uno semisconosciuto australiano, trapiantato in Europa e in quel periodo proveniente dai sobborghi di San Paolo. Poi nel ’96, Pippo Baudo, che è sempre stato un uomo di buona memoria, si ricordò dell’esibizione di sei anni prima e lo invitò a cantare sul palco dell’Ariston, “Where The Wild Rose Grow” in duetto con Kylie Minogue, l’album che conteneva il pezzo fu pubblicato proprio in quei giorni. Successo strepitoso, ma questa volta niente bis. E voi pensate che Mike Bongiorno potesse rimanere un passo dietro Baudo? Impossibile. Così a Sanremo 1997, Nick nella prima serata cantò “Into My Arms” in solitaria. Nel 2001 fu Raffaella Carrà a riportarlo, sul palco più famoso d’Italia. In anteprima mondiale e scortato da Warren Ellis, presentò “Hallelujah”, un brano estratto dall’album “No More Shall We Part” che sarebbe stato pubblicato in Aprile. Ancora una volta, praticamente in contemporanea con l’uscita di un disco, nel 2003, il Pippo nazionale ce lo rifila di nuovo. Questa volta però Nick arriva con la band al completo e con un tris di ballerine che scatenano la folla maschile e le ire del casto pubblico collegato in Eurovisone. Il cardinale di Genova vuole la testa del conduttore. Il pezzo che eseguono è “Bring It On”. A questo punto sembra finita veramente, ma è la statura internazionale di Nick Cave che sta montando a livelli inaspettati, così quel buongustaio di Paolo Bonolis lo ripesca nel 2005 dove con l’orchestra e il coro del festival a supporto, e con a fianco i soli Harvey, Ellis e Scalvonus presentano una “O Children” da brividi. Baudo sfida la sorte e nel 2008, lo riporta con la band a fare “Hold On To Yourself”, in quello che sarà per Pippo il suo ultimo Festival. Non sarà invece l’ultimo per Nick, che tornerà con i Grinderman a fare “Palaces Of Montezuma” nel 2011 voluto da Gianni Morandi e con Fabio Fazio nel 2013 per presentare ancora una volta in contemporanea il pezzo che darà il titolo al suo prossimo album “Push The Sky Away”. C’è la base e il coro del Festival, ma il pezzo non è capito. Finisce lì. E’ di prossima uscita, come strenna natalizia il disco, solo per il mercato italiano, che raccoglie tutti i pezzi presentati a Sanremo in nove presenze, cosa mai capitata a nessun artista internazionale. Italians loves Nick. (KL)

TITOLI DI CODA NICK CAVE AND THE BAD SEEDS – O Children (da “Abbatoir Blues/The Lyre Of Orpheus” Mute Records, 2004) “Perdonateci per quello che abbiamo fatto / Era cominciato come un divertimento” Lanciata da “Carry Me” che, come lei, condivide un substrato subdolo, “O Children” va a chiudere il doppio del 2004 accreditato come Nick Cave And The Bad Sees e intitolato “Abbatoir Blues / The Lyre Of Orpheus”. E’ un pezzo di oltre 6 minuti che potrebbe anche andare avanti all’ infinito. Si sviluppa su un giro di chitarra e piano abbastanza semplice, accompagnati da basso, batteria e coro che si libera nel “ritornello” dopo il minuto cinque. A renderla subdola quel refrain iniziale, quel rumore distante e disturbante che non l’abbandona mai e su cui di fatto nasce. E’ un loop di Warren Ellis e sembra il disturbo di una frequenza radio, una presenza fantasma. E’ una parte importante della canzone tant’è vero che nel film è mantenuta e la si ascolta da subito quando Harry la trova cercando qualcosa alla radio. Abbiamo detto all’inizio che anche “Carry Me” ha un substrato simile, questa volta sembra più un suono creato da strumenti tipo viola o violoncello, ma anche qui c’è un intuizione produttiva che caratterizza un pezzo indelebilmente. Altra scelta geniale di “O Children” è limitare a un solo minuto, per di più sfumato, la parte che ho già decifrato come “ritornello” e interromperla prima che diventi stucchevole. (KL)

Other Notes: WolverNight 53 è stato prodotto, mixato e arrangiato da Kurt Logan presso lo studio “Hyde Park House” in via Pianezza n°2 a Bracchio di Mergozzo (VB). Nelle sere e notti del 26 e 28/10/2020, del 4,5,7,8,9,12,13,14,15,16, 19,20,21,23,24,25,26/11/2020 sulle note di: BOB DYLAN - “Rough And Rowdy Days”, JOACHIM COODER “Over The Road I’m Bound”, DENIZ KURTEL - “Music Watching Over Me”, MINERAL - “End Serenading”, PAUL WELLER “Heliocentric”, NEIL YOUNG “Greendale”, THE STONE ROSES “The Remixes”, NEW ORDER “Movement”, FLAMIN GROOVIES “Supersnazz”, ELVIS COSTELLO “Hey Clockface”, IRON & WINE “Beast Epic”, THE PRETTY THINGS “Bare As Bone, Bright As Blood”, TINDERSTICKS “The Waiting Room”, DANIEL BLUMBERG “On & On”, LAMBCHOP “Aw C’mon /No You C’mon”, BJORK “Homogenic” e tutto NICK CAVE.



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