WolverNight fanzine - n° 55 gennaio 2022

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N° 55

NUMERO 55 - Anno 31°- Gennaio 2022 Redazione: Via Pianezza 2 , Mergozzo (VB) 28802 WN è stampato in proprio. Direttore Responsabile: Leicester Bangles PREZZO cartaceo offerta minima € 3,00 PREZZO pdf offerta minima € 1,00 da versare su PayPal macy69@tiscali.it

Fanzine provinciale ma di élite

C.S.I.

Cristina Danini Punk Is (Not) Dead ?

Post Punk

FERRETTI

I dischi del Consorzio Vinyl Return pt. 4

DISCIPLINATHA

interviste a:

Giorgio Canali Gianni Maroccolo Dario Parisini Andrea Tinti Paolo Enrico Archetti Maestri

P.G.R. Il Maciste Michele Anelli Ambrogio Sparagna Il Metius & i CCCP live


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EDITORIALE di Maci and The Wolvernighters I CCCP non erano punk !!! Al limite erano post punk. Quindi per entrare nell’atmosfera vi consiglierei di cominciare a leggere questo numero dall’articolo di Marco Denti “La danza differente del Post Punk” a pag. 60. Così entriamo nell’ottica della materia e non facciamo confusione, che forse se n’è già fatta troppa. Un atto dovuto, questo numero, dedicato in gran parte alla band di Ferretti e Zamboni e alle sue importantissime derivazioni, da quelle più riuscite alle meno importanti. Dato in uscita a Dicembre, WN #55, è stato spostato a Gennaio, per riuscire a darvi anche l’intervista che Gianni Maroccolo ci aveva promesso, ma che siamo riusciti a realizzare solo poco prima di Natale. Per non complicarvi la vita e distrarvi dall’apertura dei regali, abbiamo rimandato tutto all’anno nuovo, fallendo così il nostro obiettivo di pubblicare due numeri ad annata. Poco male, potrebbe essere che questo 2022, se la salute ci accompagna, vi porti tre numeri della vostra ‘zine preferita. Replichiamo le 72 pagine del precedente WN quindi, con la questione CCCP e temi derivanti, trattata cercando di non percorrere piste troppo battute. Provando a provocare, difendere e criticare un gruppo di persone che da “Ortodossia” ha sempre fatto discutere. Siamo riusciti in un solo numero ad allineare le interviste a due grandi protagonisti dell’epopea CCCP/CSI come l’accoppiata Maroccolo/Canali e a due grandi protagonisti della scena del Consorzio come Parisini dei Disciplinatha e Archetti Maestri degli Yo Yo Mundi senza dimenticare Andrea Tinti che ha curato per tutto il periodo d’uscita la pubblicazione de “Il Maciste”. Ma siamo riusciti anche a dare un po’ di spazio a quello che accade dalle nostre parti con il ringraziamento al nostro collaboratore e amico Michele Anelli, lo trovate a pagina 3, che nell’ anno appena terminato ha pubblicato “Sotto il cielo di Memphis”, un progetto che abbiamo fatto il possibile per sostenere e che è stato straordinariamente accolto da gran parte della stampa italiana. Abbiamo fatto un breve intervista alla nostra conterranea Cristina Danini che a breve pubblicherà la sua tesi sulla scena punk torinese degli anni ’80 ma soprattutto sono orgoglioso di salutare l’approdo sulle pagine di WN di Luca “Il Metius” Mattioli che su questo numero fa il suo esordio come nostro collaboratore. E’ tutto. Buon Anno.

WolverNight fanzine è su Facebook WN – n°55 – Gennaio 2022 – Anno XXXII Redazione in carne e ossa: Mauro Giovanni Diluca, Giorgio Ferroni, Michele Griggi, Kurt Logan, Angelo Monte , Alberto Nobili, Agostino Roncallo, Massimiliano Stoto, Lewis Tollani, Sauro Zani. A questo numero hanno collaborato: Marco Denti, DJ Kremlino, Flavio Minoggio, Luca Mattioli, Alessandra Freschini e Massimo “Nana” Toscani

Guida Spirituale: Amanda Lear Logo di copertina: Daniele Comello. Progetto Grafico: Kurt Logan. QUESTO NUMERO E’ DEDICATO A: MARCO MATHIEU Tutte le illustrazioni ed immagini riprodotte, (dove non indicato) sono degli autori o delle persone, agenzie, case editrici detenenti i diritti. WOLVERNIGHT Via Pianezza n°2 Mergozzo (VB) 28802macy69@tiscali.it WolverNight è stampato in proprio.

Questo numero è stato stampato in 110 copie Questa in tuo possesso è la n° 1a stampa del 12/01/22

WN n°55 – Gennaio 2022 SOMMARIO “Sotto il cielo di Memphis” di Maci and the WolverNighters pag. 3 “CCCP - Col Cazzo Che Perdiamo…..e abbiamo perso” di Massimiliano Stoto pag. 5 “Conforme a chi ?” di Giorgio Ferroni pag. 7 “Produci Consuma Crepa” di Giorgio Ferroni pag. 10 “C.S.I. - Forma e sostanza” di DJ Kremlino pag. 15 “P.G.R. e altri sentieri: Forma e (poca) Sostanza” di DJ Kremlino pag.20 “Parole, Opere e Ossessioni. CCCP e C.S.I. bibliografia e videografia ” di Lewis Tollani pag. 21 “Riflessioni su un libero cantore” di Alessandra Freschini pag. 23 “Alla scoperta della ballata liturgica” di Agostino Roncallo pag. 25 “In viaggio, volentieri” di Mauro Giovanni Diluca pag. 27 “I dischi del Consorzio” di Lewis Tollani pag. 40 “La forza de “Il Maciste” intervista a Andrea Tinti ” di Massimiliano Stoto pag. 45 “Ho trovato Lazlotoz” intervista a Giorgio Canali di Massimiliano Stoto pag. 47 “Non siamo di destra, anzi siamo buoni” intervista a Dario Parisini di Giorgio Ferroni e Massimiliano Stoto pag. 50 “Volevo fare il marinaio…...” intervista a Gianni Maroccolo di Massimiliano Stoto pag. 54 “Un pomeriggio con….” intervista a Paolo Enrico Archetti Maestri di Michele Anelli pag. 57 “Queste non sono canzoni d’amore: La danza differente del POST PUNK” di Marco Denti pag. 60 “Punk Is (Not) Dead ?” intervista a Cristina Danini di Massimiliano Stoto pag. 65 Dischi di ultima generazione: Murcof, Il buco del baco, IOSONOUNCANE, Simone Locarni, Barbarisms di Massimo “Nana” Toscani , Kurt Logan e Massimiliano Stoto pag. 67 Back in the past….Retropolis Live….”Io e i CCCP” di Luca “Il Metius” Mattioli pag. 69 Vinyl return pt.4: Il drammatico ritorno del vinile - “Dentro al negozio” di Massimiliano Stoto pag. 70 Ritratto d’artista: Giovanni Lindo Ferretti di Flavio Minoggio pag. 72 “Ferretti e il disco con gli Alpini” & Titoli di Coda “Bolormaa” di Kurt Logan pag. 72

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“Sotto il cielo di Memphis” WolverNight ha promosso e sostenuto diversi progetti in passato. Da quando siamo riapparsi sulla Terra, nel Dicembre del 2018, non c’è stata l’opportunità di sposare un vera idea per ritornare ad essere promotori di realtà piccole e locali. L’occasione ce l’ha fornita Michele Anelli, con cui ci conosciamo da anni e con cui abbiamo già collaborato e percorso molta strada insieme da quella piovosa sera ad Arona nel 1992. Forte di un progetto solido, immaginato e realizzato concretamente da solo, costruito giorno per giorno con la passione di chi scrive canzoni principalmente reali e non immaginarie, Michele non ha nemmeno dovuto aprire bocca. Quando abbiamo saputo della campagna di crowfunding e conosciuto l’idea che c’era dietro a “Sotto il cielo di Memphis”, abbiamo capito che era un progetto vincente ancora prima che partisse. Era vincente principalmente per il coraggio che il suo autore mostrava nella sfida a un mercato discografico letteralmente saltato in aria, ma anche per la cura che sapevamo avrebbe usato per completarlo e per cui ci saremmo giocati una mano se fosse stato meno che ottima. E infine c’erano i pezzi che già nella loro versione demo ci avevano convinto. Noi abbiamo semplicemente creduto in tutto questo e partecipato, come tante altre persone. Nulla di speciale ….forse...e qui la storia potrebbe anche finire, magari con un applauso e un bene, bravi, bis. D’altronde in passato altre volte è andata così. E invece no, perché l’accoglienza che molta della stampa nazionale, una summa la trovate a pagina 4, ha tributato a “Sotto il cielo di Memphis” è stata degna del lavoro svolto, della fatica profusa e della qualità musicale proposta. Un giudizio che finalmente ha suggellato la carriera di un’artista INDIPENDENTE a tutto tondo e reso merito a una carriera che spesso è stata a dir poco sottovalutata. Nel nostro piccolo vogliamo ringraziare Michele per la visibilità che ha dato a Wolvernight Fanzine, il nostro logo su una produzione simile rimarrà per sempre a suggellare quello che è stato questo lungo percorso di vita, fra fatiche, rese, sconfitte e resurrezioni: un sogno che è diventato realtà. E se chiudendo gli occhi è facile tornare indietro nel tempo e ricordare le tante volte in cui sotto a un palco ci sentivamo sognatori cantando una tua canzone, caro Michele, sappi che tutto questo tempo non è passato invano. Quella canzone è cambiata, s’è fatta grande, noi non l’abbiamo dimenticata, ma quello che conta di più ora, è il percorso che hai fatto, per trovare tutto quello che per te conta, esiste ed è reale “Sotto il cielo di Memphis”.

Grazie Mick da tutti i Wolvernighters.

Photo by Matteo Anelli

con Michele Anelli


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CCCP Col Cazzo Che Perdiamo

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…….e abbiamo perso di Massimiliano Stoto Ho sostenuto la proposta di una parte della redazione di dedicare un numero di WN ai CCCP Fedeli alla linea, alla loro galassia e alle loro evoluzioni nel tempo. L’ho sostenuta perché ritengo che il gruppo di Ferretti, Zamboni e soci occupi un posto di rilievo nella storia musicale e sociale dell’Italia di un certo periodo. Questo sia per la proposta musicale, a sua volta ispiratrice di tanti gruppi negli anni ‘90, e sia per la comunicativa, verbale e d’immagine, che seppero elaborare ed esporre nell’Italia degli anni’80. L’ho sostenuta anche se, sia CCCP che C.S.I. non me li sono mai filati più di tanto. Ero in ritardo netto sui CCCP, l’unico disco che ho comprato in diretta con il mio tempo è stato il vinilone di “Canzoni, preghiere e danze….” con il bagaglio più importante recuperato in seguito... e con i C.S.I., devo ammetterlo, non è mai stato un grande amore. Per fortuna in redazione non la pensano tutti come me. Ma questo pezzo, che apre un numero veramente ricco di spunti, vuole andare a parare da un’altra parte. Di fatto vuole parlare di politica e per farlo prendo spunto dalla figura di Giovanni Lindo Ferretti. Detto della mia pallida passione per la musica anni ’90 di Giovanni e compagnia, mi fu abbastanza impossibile non seguirne le gesta e registrarne il successo. Ora i più svelti di cervello staranno già pensando alle dichiarazioni politiche di Ferretti, come bastione da cui partire per la solita tirata d’orecchi. Ma devo deluderli perché non sarà così. Negli anni dei CSI sulla cresta dell’onda, mi son trovato a sviluppare un pensiero tutto sommato positivo su GLF, basato perlopiù sulla lettura delle cronache musicali dell’epoca e sulla legge non scritta che chi fa rock è dei nostri. E con dei nostri intendo che è di sinistra. Questo è un particolare non di secondo piano e che è assolutamente scontato per una bella fetta di pubblico che si definisce appassionato di musica rock. Nell’Italia degli anni ‘90, fra Tangentopoli (’92) e Bolognina (‘89-’91), fra “Pantera” (‘89-’90) e Centri Sociali che nascono come funghi, ne volevamo uno anche a Verbania, senza dimenticare la discesa in campo di Silvio Berlusconi (’94) il Consorzio Suonatori Indipendenti pubblicò tre dischi che diventarono un classico del rock italico, andò in tour con

Jovanotti e arrivò a vendere talmente tante copie del suo, di fatto, ultimo disco, da finire in cima alle classifiche di vendita. Sullo sfondo di questo tourbillon di eventi nazionali scorrevano le immagini della fine del comunismo, della prima guerra in Iraq ma soprattutto della guerra nell’ex-Jugoslavia. L’ultima decade del ventesimo secolo fu sanguinosa sotto diversi punti di vista e estremamente drammatica. In Italia “Tangentopoli” rase a zero il concetto di partito politico per come lo avevamo sempre conosciuto. Ma prima di proseguire facciamo un salto nel tempo e torniamo negli anni ‘80….. Nel 1984 esce “Ortodossia” il primo vagito ufficiale di uno strano gruppo punk che coniuga testi ironico/politici a un’iconografia che si rifà all’immaginario sovietico. Il gruppo proviene dalla regione politicamente rossa per eccellenza, l’Emilia Romagna e nello specifico da una delle province più politicizzate per storia, tradizione e anche immaginario, ovvero quella di Reggio Emilia. Ho scritto immaginario non a caso perché nella memoria nazionalpopolare il mito guareschiano di Peppone e Don Camillo (Brescello è in provincia di Reggio) è ancora oggi intatto e accettato in quanto politicamente corretto. Ma se a quel mito sottraiamo un po’ di curia e un bel po’ di ironia otteniamo un pensiero unico spesso invadente….attenzione non stiamo parlando di avanguardie, il manifesto, lotta continua, mozioni, dibattiti ma di sana e profonda provincia….. altro che Black Lives Matter, LGBT e Cannabis Free. Il Ferretti, ormai trentenne del 1984, è fuggito da tutto questo e sta tirando le somme del suo vissuto, non c’è bisogno di fare un viaggio fra i testi per capire cosa ne pensa, basta una pillola da “Emilia Paranoica”: ”Emilia di notti, dissolversi stupide sparire una ad una / Impotenti in un posto nuovo dell’ ARCI”. Quei mondi, il partito e la


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provincia, Giovanni, li ha prima subiti, poi elaborati infine li ha buttati fuori prendendoli anche un po’ in giro. Molti a sinistra, sta cosa, non l’hanno capito ancora adesso, e molti a destra l’avevano invece capita subito, tant’è vero che il gruppo e i suoi concerti erano molto apprezzati da una parte di quell’elettorato. Intanto nel Giugno del 1984 muore Enrico Berlinguer e alle elezioni Europee il Partito Comunista supera, per la prima volta, la Democrazia Cristiana ed è primo partito. E’ drammaticamente paradossale pensare che quell’unica vittoria fu ottenuta nel momento della morte del leader più carismatico che il partito ebbe dopo Togliatti, i maligni dicono che la spinta decisiva derivò proprio da quel tragico fatto, ed è allo stesso tempo fondamentale constatare come di fatto, Ferretti e soci abbiano iniziato a banchettare sul mito del “Partito” proprio nel momento in cui, dopo quella vittoria, cominciò la sua decadenza. Il Ferretti sulla soglia dei quaranta, invece, è tutto un altro personaggio. Innanzitutto più meditativo ma anche, c’è da dirlo, abbastanza popolare, le gesta con Amanda Lear, sul finire dei percorso dei CCCP avevano pagato. E’ un uomo che ha imboccato un percorso spirituale scrivendo buoni testi di canzoni, avendo in testa per farlo, soprattutto Franco Battiato. E’ supportato da un gruppo composto da musicisti di capacità notevole e soprattutto vive questa sua esperienza in un periodo di grande attenzione giovanile per la musica, gli anni ‘90 sono infatti gli anni del grunge, forse l’ultimo vero momento d’oro del rock. Suo malgrado, diventa in quegli anni un riferimento per la sua sensibilità, per la sua poetica, per la sua capacità di parlare apertamente e senza recinti a cui badare. E’ un ruolo che rifugge e di cui viene più che altro investito da altri, rimane il fatto che Giovanni Lindo Ferretti da Cerreto Alpi provincia di Reggio Emilia diventa per tanti ragazzi degli anni’90 un punto di riferimento nell’ambito politico-musicale, contesto ben popolato nel nostro paese fin dagli anni ’70. Questa faccenda del legame fra rock e politica è molto complicata, ancor di più in un paese come il nostro che non ha ancora fatto bene i conti con la propria guerra civile, quindi senza entrare in disgressioni che non ho abbastanza spazio per fare, mi limito a dire che spesso è il pubblico di sinistra che tende ad individuare ed esigere impegno da parte di paladini elettrificati e di chitarra muniti, eletti a simbolo di idee e valori più per acclamazione che per reale presa di coscienza. Con il rischio, mai calcolato bene, di incrociare la strada con personaggi dal management sveglio pronti a sfruttare qualsiasi mezzo pur di scalare la graduatoria. Questa è una classica deformazione che si ottiene quando sposi due condizioni che dai per scontato funzionino insieme. Una cosa a cui, per andarci giù d’accetta, Lucio Battisti non si piegò mai e che incominciò a svilupparsi sul finire degli ’60 e che nel terreno fertile delle agitazioni sessantottine si sviluppò velocemente, aiutando il fenomeno

dei cantautori cosiddetti “politicizzati” ad affermarsi e finendo per agevolare un decennio dopo, o poco più, lo sdoganamento dei simboli e delle pratiche della cultura di massa che il Partito suggellò con l’organizzazione di spettacoli “rock” alle Feste de l’Unità. Spettacoli a cui parteciparono senza problemi anche i CCCP fedeli alla linea. Mi sono trovato a identificare, etichettare e catalogare Ferretti da lontano. L’ho conosciuto attraverso dei pezzi di musica rock e poco più. Sono rimasto spiazzato dalle sue prese di posizione ? Francamente si, perché nella costruzione del mio mondo perfetto avevo bisogno di solide basi, di una quadratura del cerchio, di “qualcosa nella notte” e in questa ricerca un pugno di canzoni, chi le interpretava e “certi valori” occupavano uno spazio rilevante….anche solo per sentito dire. Un grosso errore a prescindere da Ferretti che da par suo era stato chiaro fin dell’inizio “Non fare di me un idolo”, cantava nella prima canzone del primo disco C.S.I., quindi stupido chi c’è cascato. Non voglio certo mettermi a difenderlo, ma nemmeno dargli dell’approfittatore o del pazzo. Diciamo che col tempo mi ha dato l’idea di essere un squatter reazionario che ha sempre saputo benissimo quello che faceva e più che occupare stabili si è divertito a occupare i nostri spazi mentali, a metterli a soqquadro e a renderli molto meno confortanti e sicuri. Lo ha fatto con quelli di sinistra e lo farà con quelli di destra. Se non l’ha già fatto. E’ il suo gioco perché lui è soprattutto un intelligente provocatore. Non spreco un minuto a dargli addosso, non è il fine di questo pezzo e nemmeno, lo giuro e spergiuro, il mio che è invece quello di dire che abbiamo sbagliato mille volte ad associare qualche pellegrino, che ci ammalia con le sue canzoni, alle nostre idee politiche. Errore da non continuare a ripetere in quest’epoca senza ideologie a parte il movimento per la connessione più veloce. Io sono connesso, ergo io sono. Con buona pace del concetto di umana comunità, letteralmente mandato a quel paese. Mi domando perché dovremmo avercela con Manuel Agnelli o Zack dei Rage Against The Machine se domattina si dichiarassero elettori della Meloni o di Trump ? Dovremmo sentirci traditi ? E se lo facessero Fabri Fibra o Neil Young ? Ci sentivamo invincibili sotto a un palco a cantare la prima cosa che vi viene in mente da “The Times Are A Changin’” a “Urlando contro il cielo” passando da “Guns Of Brixton” in realtà stavamo perdendo. E abbiamo perso.


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Conforme a Chi ? di Giorgio Ferroni “Detestiamo il rock non ne possiamo più della sua vacuità della sua onnipotenza del suo essere la musica dei giovani stupidi, dei giovani sfigati, dei giovani ribelli, dei giovani. Non ne possiamo più della disco, del funky, del rap, delle luci colorate, dei fumi, dei lustrini delle paillettes, degli specchi per le allodole, sempre un po' nuovi e sempre uguali…” L’epopea dei CCCP – Fedeli alla Linea - è un argomento che scotta, che va trattato con cautela per molte ragioni: è stato un gruppo importante che ha diviso l’opinione pubblica, è stato amato alla follia e al tempo stesso detestato, è stato esaltato degli ortodossi dell’ ”Indie” e poi criticato per avere scelto di lavorare con una major. Ma soprattutto occorre grande attenzione perché il gruppo è uno dei pochi che in Italia ha veramente rappresentato una generazione ed il suo percorso sociale, con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti, mostrando di sé stesso, e della generazione che rappresentava, tutte le contraddizioni e i limiti, ma anche le legittime e vanificate ambizioni. È un tema dunque delicato, perché supera l’ambito della musica, infatti se parliamo dei CCCP parliamo anche di noi, della generazione silenziosa, parliamo di come siamo cambiati o in alternativa di come saremmo dovuti cambiare. Parliamo di quello che percepivamo ma non comprendevamo e anche di quello che non abbiamo mai nemmeno avvertito. È l’unico gruppo italiano per cui mi sentirei di scomodare il concetto Reynoldiano(1) di “centralità epocale” (ma non quello di “coraggioso futurismo” per tutto quello che diremo poi). Nella seconda metà degli anni ottanta nessuno come loro ha saputo essere la cartina di tornasole di una nazione che stava cambiando radicalmente seppure in una apparente continuità, vivendo in un eterno “presente che capire non sai” (2). Immersa in un dopoguerra che sembrava non devesse mai finire ed invece stava per implodere su sé stesso. Nella musica è importante avere uno stile riconoscibile, e loro lo avevano, ma sono stati più di un semplice gruppo rock, non amavano nemmeno il rock, non lo sopportavano… Avevano l’ambizione di rappresentare il mondo sul palco e nella loro musica e ci sono in parte riusciti. Eppure, non era semplice rappresentare un paese come l’Italia degli anni ottanta, e in generale non è mai stato facile raccontare l’Italia. Si potrebbe anche forzare un po’ la mano e provocare dicendo che raccontare l’Italia, o meglio gli Italiani, non è solo impossibile, ma è inutile… I CCCP l’Italia invece l’hanno raccontata eccome! I CCCP erano una magnifica reale e sanguigna rappresentazione dell’Italia, quindi rappresentavano anche quello che eravamo noi, con tutti i nostri “non sapere” e i nostri “non lo voglio sapere”, che tanto non faceva nessuna differenza…

L’Italia è la nazione occidentale europea che ha avuto nel suo sistema politico post secondo conflitto mondiale il partito comunista più forte, ma contestualmente è stato anche l’unico in cui la sinistra storica non ha mai governato, almeno ufficialmente. È la nazione che ha inventato il fascismo, lo ha fatto culturalmente proprio in modo profondo, così profondo da restarne intimamente intrisa, ma senza capirlo fino in fondo; ed è la stessa nazione che poi ha fatto, apparentemente senza battere ciglio, dell’antifascismo una religione dogmatica. Abbiamo iniziato due guerre mondiali in un assetto strategico di alleanze e le abbiamo finite con quello opposto. È il paese che è “metà giardino e metà galera” (3). Siamo la nazione europea che periodicamente si inventa gli sconvolgimenti politici più strani. La nazione in cui ci siamo lasciati alle spalle il ventennio Berlusconiano, per piombare nell’esperimento sociale più importante del populismo post ideologico che ha portato all’affermazione della “quasi rivoluzione” di Grillo/Casaleggio benedetta da Steve Bannon e Donald Trump. Tornando alla metà degli anni ottanta, in quel tempo che pare ormai lontanissimo, in una nazione che non esiste più, in cui era molto semplice dividere il mondo in buoni e cattivi, in molti (io per primo) abbiamo inizialmente ed erroneamente percepito i CCCP come un gruppo ideologico legato alla Sinistra che si rifaceva alla tradizione del Partito Comunista. Per tanto faticavamo, in quel tempo lontanissimo e tanto semplice, a capire come quell’iconografia, quel richiamo fortissimo all’Emilia, intesa come la “più sovietica delle provincie dell’impero americano” fosse tollerabile anche dai fan del gruppo che si riconoscevano politicamente in modo esplicito nella destra fascista (se riflettiamo un attimo ci ricordiamo tutti benissimo che c’erano ed erano tanti).


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Semplicemente questi fan avevano percepito quello che a molti di noi sfuggiva, ossia l’essere assolutamente e fortemente post ideologico del gruppo e la sua straordinaria capacità di essere dissacranti e non classificabili. Sotto l’iconografia con falce e martello si trovavano già allora, nemmeno così nascosti, tutta una serie di indizi, che forse sarebbe più corretto classificare come evidenze... Come si spiega altrimenti la presenza, non marginale, dell’artista del Popolo Danilo Fatur che lo stesso Ferretti nel documentario “Tempi Moderni” descrive come “grezzo, vitale e Para Fascista”?? Nello stesso video la scelta di includere Fatur nel gruppo viene giustificata con la necessità di “rappresentare la vita reale”. In questa affermazione si coglie un riferimento ad una visione del mondo che è ben sintetizzata dalle teorie di Zygmunt Bauman, il filosofo noto per avere introdotto il concetto della società liquida. Bauman prende atto che nella società post moderna (quella attuale), il pluralismo è irreversibile e le visioni del mondo non sono riducibili ad una sola, dunque è impossibile farne sintesi; ciò detto il nuovo ruolo dell’intellettuale è ormai ridotto a quello “dell’interprete” per consentire un civile confronto fra le visioni plurali del mondo (“noi siamo lo specchio della società in cui viviamo, per cui abbiamo tutti i difetti della società in cui viviamo” M. Zamboni). Era la società moderna (quella che non c’è più) che era figlia del razionalismo, di Freud, di Marx, di Godel, di Einstein, ed aveva una grande fiducia nel progresso umano e sociale. I CCCP sono post moderni e lo erano fin dall’origine della loro saga e quindi non facevano il mio errore di dividere il mondo in modo manicheo in bene e male o in destra e sinistra. Le certezze Ferretti e Zamboni se le erano lasciate dietro le spalle e in questo avevano avuto più coraggio di noi, lasciando già allora il porto sicuro verso l’ignoto. Se non è stato coraggio quanto meno è stata la consapevolezza che la casa delle nostre certezze era bruciata da tempo ed era il tempo di incamminarsi sperando che ci fosse qualche altro rifugio.

In Blow Up N. 57 (febbraio 2003) alla domanda se i CCCP fossero un gruppo nostalgico Massimo Zamboni risponde schiettamente che “I CCCP avevano semmai nostalgia del futuro”. Giuseppe Civati nell’ora già lontano 2009 pubblicherà un libro che si chiamerà appunto “Nostalgia del futuro”, dove si parla proprio dei limiti della sinistra italiana di mettere in campo un’idea della prospettiva storica della società. La parola futuro era (ed è sparita) dal lessico della sinistra italiana. In realtà è tutta la politica italiana che ha smesso di avere un progetto di lunga prospettiva, ma siamo ovviamente più colpiti dal fatto che siano le forze progressiste a non averlo. Paradossalmente l’unico politico italiano che ebbe allora il coraggio di mettere in campo un riferimento esplicito al futuro fu Gianfranco Fini che nel 2010 cercò di fare partire l’unico tentativo (clamorosamente fallito) di mettere in campo un’alternativa al Berlusconismo a destra (il partito Futuro e Libertà). Se il concetto di futuro sparisce cosa resta? Solo il “NO FUTUR”, che altro non è che la fine della storia (The End of History and the Last Man di Francis Fukuyama 1989 – 1992) che qualcuno aveva già raccontato in Inghilterra nel 1977. In un’intervista visibile su You Tube, pubblicata dal Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna nel maggio del 2021, Ferretti dichiara che i CCCP si sentivano “gli ultimi epigoni”(4) delle grandi avanguardie storiche dell’novecento”. I CCCP cantano la fine delle ideologie e il conseguente smarrimento dell’uomo. Non è casuale che Ferretti diventa poi un romantico che idealizza il passato come momento di conforto e di conseguenza riabbraccia la religione cattolica e trova la pace allevando cavalli nella casa paterna a Cerreto Alpi. Semplicemente è la naturale conseguenza del suo percorso umano. D’altronde dopo la rivoluzione arriva sempre la restaurazione. Stefano Isidoro Bianchi (Blow Up N.6 maggio 1996) definisce Ferretti un “antimoderno assoluto, come Pasolini. Come molti eretici di destra, come pochi eretici di Sinistra”. A tale riguardo notiamo come il già citato documentario “Tempi Moderni -Nuovi Forti Interessanti” del 1989 diretto da Luca Gasparini, visibile interamente su You Tube, faccia esplicitamente riferimento nel titolo al film di Chaplin del 1936 che si muove sul tema dell’alienazione che è la prima conseguenza diretta della modernità. Ciò detto occorre anche inquadrare la loro produzione artistica. Iniziamo a dire che “CCCP-Affinità e divergenze” (1986), è un disco fondamentale. È un disco perfetto nella sua imperfezione esecutiva e nella sua tecnica musicale approssimativa e da questo punto di vista è probabilmente l’”Unknow Pleasure” italiano, per il suo essere scarno, semplice e al tempo maestoso ed imponente. Dovrebbe essere studiato a scuola per la sua forza espressiva e la sua capacità di raccontare una comunità complessa come quella italiana, inserita nel contesto della cultura europea che nella metà degli anni ottanta sta subendo una storica ed epocale trasformazione. Come abbiamo già detto, viene spesso catalogato come un disco politico, ma non è un disco ideologico, è un disco sulla fine delle ideologie. I CCCP non cantano di politica, cantano la fine della politica e in particolare della fine della politica della sinistra storica italiana. Per certi versi sono dei profeti, forse inconsapevoli, ma con un istinto chiarissimo.

Massimo Zamboni photo by Francesco Ballestrazzi


Sono dei filosovietici che magnificano l’URSS fra il 1984 e il 1986, pur cantando la fine del comunismo. Il manifesto è nel brano introduttivo in cui i CCCP si dichiarano esplicitamente “Fedeli alla linea che non c’è” (più chiaro di così). Il marxismo ipotizzava l’uomo nuovo, che non sarebbe più stato diviso fra egoismo e perseguimento del bene comune. Dopo la lotta di classe e il trionfo del proletariato si sarebbe arrivati a superare la distinzione storica tra lavoro fisico e lavoro intellettuale, ossia il superamento delle classi sociali. Sempre in CCCP, Ferretti canta “Altro che uomo nuovo”. (In alcuni siti si riporta “nuovo nuovo”, che viene alternato a “uomo nuovo” nella seconda strofa- almeno così mi pare e comunque non cambierebbe il significato complessivo).

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Giovanni Lindo Ferretti Photo by Alfonso Celentano Molti si sono fatti l’idea che i CCCP fossero il catalizzatore dei rigurgiti antagonisti dei vari movimenti di sinistra, ma siamo da tutt’altra parte: Rosa Luxemburg nel libretto “Juniusbroschüre” del 1915, indicava come unica risoluzione possibile per la società la scelta fra il socialismo o la barbarie, Il secondo album dei CCCP (1987) si intitola invece “Socialismo e barbarie”. Il socialismo non è l’alternativa alla barbarie, il socialismo è il suo complemento. Mentre Lenin affermava che “Il socialismo è il potere sovietico più l'elettrificazione di tutto il paese”. Nel brano “Manifesto”, si cita esattamente il contrario ossia che “I Soviet più elettricità NON fanno il Comunismo” I CCCP parlano di un mondo che è finito e che non ha trovato dei nuovi valori di riferimento, proprio come Pier Paolo Pasolini che raccontava di come la civiltà consumistica avesse distrutto le culture particolari e di come l’ideologia avesse solo temporaneamente colmato questo vuoto. Ora con la fine delle ideologie che cosa resta?? Resta il mondo che Ferretti e Zamboni hanno musicato nei loro dischi… un mondo in cui i riferimenti sono finiti e in cui alcuni si sentono POST- ideologici senza nemmeno essere stati ideologici…Intanto Paolo VI non c'è più, È morto Berlinguer, qualcuno ha l'AIDS, Qualcuno il PRE, qualcuno è POST, Senza essere mai stato niente. (Svegliami – 1989) Il primo album è dunque un meraviglioso disco esistenziale che cattura l’irrequietudine di un “Emilia di notti agitate per riempire la vita”, raccontando un Emilia che potrebbe essere un qualsiasi altro paese della provincia Italiana ed è lì la sua forza, quella di mettere in scena il dramma della provincia profonda che è la vara natura della nostra Nazione che è un enorme provincia, anche nelle sue città. Questo perché l’Italia ha rinunciato ad essere una Nazione da molto tempo e si accontenta di essere la periferia di qualcosa altro... Lo stesso ragionamento vale comunque per i suoi successori, anche se il gruppo si apre a raccontare il mondo, lo fa sempre e comunque dal punto di vista della periferia; Zamboni in “Tempi Moderni” racconta che “bastava che l’Emilia diventasse il centro della nostra cultura e un Emilia Allargata comprendeva anche Berlino, il mondo dell’Est e i paesi arabi”. “Epica Etica Etnica Pathos” (1990) è diverso dai suoi predecessori. È il lavoro di un gruppo che sta cambiando ed è in

pratica il primo dei CSI; continuando nei paragoni potremmo definirlo il “Sandinista Italiano” nel suo essere ampio, ricco di influenze di musiche di altri paesi e anche leggermente sfuocato e non perfettamente riuscito. Ma è certamente un disco importante e per certi versi profetico che ha captato quasi nel dettaglio la crisi della società italiana che sfocerà nel ventennio berlusconiano che è ancora da venire, ma che già si poteva percepire. Una frase come “Soffocherai tra gli stilisti, Imprecherai tra i progressisti, Maledirai la Fininvest, Maledirai i credit cards” (Maciste contro tutti) rimanda inevitabilmente alla Milano da bere, al PSI e alla parabola della sinistra italiana, sinistra incapace di capire, da sempre e tuttora, che non sarebbe bastato il crollo giudiziario dei suoi competitori per consegnarle la possibilità di governare il paese. Quando poi nel crescendo epico Ferretti urla “Costanzo Show! Italia olé!” proprio di vedere sorgere dalla cenere della prima repubblica morente Berlusconi con il progetto di Forza Italia che nascerà nel 1994. Se dovessi definire oggi il Giovanni Lindo Ferretti del 1990 userei il termine “Sciamano”, inteso come un uomo che ha la capacità di essere un intermediario. Lo sciamano tribale è il mediatore fra il modo degli spiriti e quello degli uomini, lo sciamano Ferretti è un intermediario fra il pubblico ed il sentimento diffuso ed inconscio della comunità. Ferretti coglie lo “Spirito del tempo” lo Zeitgeist, e lo butta sul palco con racconti forti e crudi. Per inciso, non credo che si immaginasse esplicitamente tutto quello che sarebbe successo all’Italia degli anni 90, ma ha saputo cogliere l’inquietudine attraverso delle metafore che si sono poi rivelate anticipatrici del disastro che sarebbe arrivato. Ferretti, Zamboni, Fatur ed Annarella si possono amare, si possono odiare, ma certo non ci lasciano indifferenti. Ripensare a loro ci aiuta a ripensare a noi stessi e questo è sempre un bene, anche se ci può fare un po’ male… 1 Simon Reynolds è un critico musicale britannico. Famoso per aver coniato il termine post-rock. Ha scritto saggi sul Post Punk, la Retromania et… 2 Dal Brano “Per me lo so” dal secondo LP “Socialismo e Barbarie”. 3 Da “viva L’Italia” di Francesco De Gregori. 4 i discendenti che dei progenitori non hanno né le qualità né le virtù.


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Produci Consuma Crepa di Giorgio Ferroni “Se dobbiamo avere dei conti in sospeso, non è con il rock&roll ma con la storia europea…”

Annarella foto di Luigi Ghirri

La storia dei CCCP è abbastanza nota ed inizia nel 1981 quando due emiliani Giovanni Lindo Ferretti (classe 1953) e Massimo Zamboni (classe 1957) si incontrano per caso a Berlino e decidono di dare vita ad un gruppo musicale che riproponesse “quello che vedevano fare in quei mesi”(1) . Arruolato in un primo tempo un batterista (che presto verrà sostituito da una drum machine) ed il bassista Umberto Negri iniziano a farsi conoscere e a registrare la loro musica ampliando successivamente l’organico con il ballerino Fatur e la soubrette del popolo Annarella.

“Voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia, Voglio un piano quinquennale, la stabilità” Le prime incisioni discografiche ufficiali arrivano fra il 1984 e il 1985 sotto forma di due EP registrati per l’etichetta bolognese Attack Punk. Il primo è “Ortodossia” che contiene tre tracce: “Live in Pankow”, “Spara Jurij” e “Punk islam”. Verrà in seguito ristampato nel 1985 aggiungendo una quarta canzone “Mi ami?”. Sempre nel 1985 pubblicano “Compagni, cittadini, fratelli, partigiani”, con quattro nuove canzoni: “Militanz”, “Sono come tu mi vuoi”, “Morire” ed “Emilia paranoica”. I due EP si possono trovare riuniti in una ristampa in CD. Sono dischi forti e rozzi, sono un pugno nello stomaco; certo non brillano per precisione e qualità del suono, ma hanno l’energia di una locomotiva in corsa e contengono già molti degli elementi musicali che verranno sviluppati nel corso della loro breve ma intensa carriera. Sono di attitudine Punk, ma che hanno come riferimento il suono europeo in particolare il Post Punk Germanico. La drum machine impone ritmi dritti e serrati ed il cantato è agitato e frenetico. “Spara Jurij” mutua il riff di “Sonic Reducer” dei Dead Boys e diventa negli anni un inno ripreso sovente dal vivo (appare anche nel CD live “Maciste contro tutti”). “Punk Islam” è un altro brano iconico che si caratterizza per un riff dall’evidente sapore mediorientale ed inaugura una serie di rimandi all’oriente e al mondo arabo che troveranno ampio spazio a partire dal secondo LP.

“Emilia di notti agitate per riempire la vita”

Il primo album viene pubblicato nel 1986 e riprende le già edite "Mi ami?", "Emilia paranoica" (in versioni rivisitate) e "Morire". Il titolo è il celeberrimo proclama "1964 -1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi - Del conseguimento della maggiore età" e la copertina che riprende l’immagine di Palmiro Togliatti (segretario del PCI morto appunto nel citato 1964) mostra un gruppo che manifesta un immaginario che è ben lontano dagli standard del Rock italiano e anglosassone. Viene stampato, sempre su Attack Punk in vinile rosso, la stampa originale raggiunge quotazioni notevoli (attualmente ben al di sopra dei 150 €) Sono ovviamente disponibili ristampe sia in vinile che in CD, prima con Virgin poi con EMI. Come già anticipato, è un disco intensissimo e importantis-


simo, che pur nella sua semplicità ed approssimazione ha degli spunti di produzione non banali. L’introduzione è affidata alla traccia manifesto “CCCP” che si introduce con un riff lento di basso ed un sottofondo concreto con vari rumorismi incorniciati da un’armonica cupa. Poi parte la drum machine e il brano accelera diventando una furiosa cavalcata punk. Il secondo brano è “Curami” e si caratterizza invece per l’uso diffuso dello xilofono (piuttosto comune in molta produzione new wave anni ottanta). La rilettura della già edita “Mi ami?” si presenta con il guizzo di un’introduzione al ritmo di beghine e la chitarra ritmica in levare che ci conduce in un’atmosfera da balera emiliana in trasferta a Berlino, per poi gettarsi in un classico giro punk. Il testo è ispirato a “Frammenti di un discorso amoroso”, saggio di Roland Barthes. Il richiamo alle sonorità della musica da ballo popolare la ritroviamo anche come interludio del brano più tirato del disco “Valium Tavor Serenase” dove si cita esplicitamente il Secondo Casadei(2) di “Romagna Mia”: “Quando ci penso vorrei tornare alla mia bella al casolare, Emilia mia, Emilia in fiore, tu sei la stella tu sei l'amore”. Solo con il senno del poi (di cui sono pieni i fossi) si è capito che questa citazione non era una semplice provocazione, era un modo di rimarcare la propria identità culturale ed evidenziare il proprio spazio nel mondo, andando avanti nel tempo questa cosa sarà sempre più evidente nella loro produzione; d’altronde i CCCP non hanno mai voluto essere un gruppo “Rock” e non si sono mai fatti problemi nell’usare le soluzioni sonore più disparate. Nel brano “Allarme” troviamo, ad esempio, anche un tango post atomico che descrive uno scenario che ben si assocerebbe ad un futuro distopico in cui “Muore tutto e l'unica cosa che vive sei tu”. “Trafitto” usa anche, per la prima volta, una chitarra acustica ed è un brano in stile Joy Division, lento e cupo che racconta un disagio profondo con un testo di rara intensità narrativa. (“Trafitto sono, Trapassato dal futuro, Cerco una persona”). “Io sto bene” è un brano incredibile che accelera in modo nevrotico fino a raggiungere una sorta di trance realizzando così un perfetto strumento espressionista per raccontare una fase di nevrosi personale; il tutto usando un armamentario musicale molto semplice a cui si aggiunge una cantilena femminile che crea un funzionale contrasto con l’atmosfera ruvida degli strumenti. Il tema esistenziale è il non essere, o meglio la rinuncia a essere e l’accettare che farla finita con qualcuno o con qualcosa ha esattamente lo stesso valore. Un brano che ha segnato senza dubbio la musica “Rock” italiana. Che si può dire poi di “Morire” del suo inizio malinconico e della voce filtrata delle basse frequenze di Ferretti che sembra quella di uno spirito che vuole comunicare con il mondo dei vivi, della sua citazione dei poeti suicidi Yukio Mishima e Vladimir Vladimirovič Majakovskij… Quali altri canzoni possiedono l’intensità di “Noia” e l’incredibile capacità di captare l’esigenza di una generazione che

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aspettava qualcosa che la intrattenesse, ben prima che arrivassero i Nirvana nel 1991(3) . “Emila Paranoica” conclude il disco ed è un incredibile flusso di coscienza che potremmo inquadrare come una “The End” all’emiliana, ambientata fra i circoli dell’ARCI di Carpi e Reggio Emilia. Intervallata da voci femminili isteriche, sostenuta da un basso insistente che si incastra su una batteria con due ottavi in cassa e un quarto in rullante a circa 85 bpm, è un viaggio inquieto nell’attesa di un’emozione sempre più indefinibile. Insomma un altro capolavoro che non ha bisogno di ulteriori commenti.

“Stati di agitazione in me, nelle mie vene, Stati di agitazione e mai niente di più” Il secondo disco, ovviamente attesissimo dai sempre più numerosi fans nel 1987 arriva nei negozi, ma non senza polemiche perché nel frattempo il gruppo ha firmato per una major, la Virgin, scatenando la rabbia dei super Taleban del rock alternativo. I CCCP semplicemente se ne fregano e si autoproclamano “Fedeli alla lira”. Ferretti e Zamboni non hanno mai fatto mistero del fatto di non volersi relegare nella riserva indiana dell’integralismo indipendente, in un’intervista Ferretti racconta di come lui e Massimo Zamboni avessero scientemente concordato che se, dopo un anno dall’inizio della loro attività, non avessero avuto almeno una citazione su “L’Espresso” o “Panorama” avrebbero cambiato strada (4) . C’è di più, c’è la defezione di Umberto Negri, un pilastro della formazione originaria che viene sostituito da Ignazio Orlando, che oltre del basso e della drum machine (come Negri), si farà carico delle tastiere. Orlando è un ottimo musicista che avrà un ruolo fondamentale occupandosi anche della produzione. Nella sua carriera lavorerà poi con diversi musicisti italiani fra cui Luca Carboni. La prima parte del disco si richiama in modo molto evidente all’esordio e alcuni brani fanno già parte del repertorio consolidato del gruppo. L’introduzione con il rifacimento in chiave rock dell’inno dell’URSS (“A ja ljublju SSSR”) è un manife-


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sto apparentemente ideologico che si riallaccia idealmente a quello di “CCCP”. È un brano epico che quando viene suonato live in una tournee a Mosca fa scattare sull’attenti tutti i militari e i poliziotti presenti. La traccia “Per me lo so” è strutturata in modo simile a “Mi ami?” e occupa il secondo posto nella tracklist; la sua introduzione con la chitarra in levare serve a rallentare temporaneamente l’atmosfera dopo la bomba dell’apertura e prima della consueta accelerazione che cita lo slogan della pubblicità della COOP del periodo (La COOP Sei tu, chi può darti di più?), è anche la canzone che riporta “L’eterno presente che capire non sai, l’ultima volta non arriva mai”. “Tu menti” rimanda un po’ nel riff a Submission dei Sex Pistols e quindi è molto probabile che non sia un caso che nel testo si citi “Io sono l'Anarchia, Ecco un altro Anticristo, Ma eri solo carino, proprio carino Pigro di testa e ben vestito.” con riferimento universalmente ritenuto esplicito a Johnny Rotten. C’è anche l’intermezzo di un bel solo di basso che aiuta a movimentare il brano.

Andando avanti troviamo le influenze più disparte: echi di musica araba (“Sura” e “Radio Kabul”) e orientale (“Honk Kong”), ma c’è anche spazio per un fantastico brano in francese, ”Inch'Allah - Ça va” che verrà pubblicato anche come singolo intrepretato in modo sublime da Amanda Lear. I CCCP incideranno a loro volta una cover eccezionale del classico di Amanda “Tomorrow” ed entrambi i brani verranno pubblicati su un 45 giri nel 1988 (i due brani sono stati inclusi nella doppia raccolta postuma “Enjoy CCCP”). È il periodo di maggior visibilità dei CCCP che, sempre con “Tomorrow” e Amanda Lear, arrivano alla comparsata televisiva sulle TV commerciali, e non parliamo di un programma qualsiasi, ma di Super Classifica Show con Maurizio Seymandi che ha anche il coraggio di intervistarli... In conclusione ricordiamo che nella versione in CD di “Socialismo” trovano spazio anche due brani che sono usciti in 45 rpm nel 1987, “Oh! Battagliero” e “Guerra e pace” due divertissement costruiti su ritmi da balera, provocatori ma con gusto.

Danilo Fatur

Il trittico che segue “Rozzemilia”; “Stati di agitazione” e “Libera me domine” rappresenta la parte decisamente più intensa del disco, Il primo brano è la naturale evoluzione di “Emila Paranoica”, il secondo alza la tensione in un crescendo, ossessionato che sfocia mixato direttamente nella ripresa del classico canto liturgico in latino accompagnato dall’organo che dà finalmente un senso di liberazione all’ascoltatore esausto. Il secondo lato del vinile mette in scena la novità di un gruppo che si allontana dai suoi cliché Punk-Wave e si apre al mondo. Sicuramente a tale proposito diventa preponderante il ruolo e la professionalità di Ignazio Orlando. Con il suo lavoro arrivano nuove sonorità, ad esempio l’uso intelligente delle percussioni che diventano meno dritte e più articolate. Anche le tastiere ampliano la loro tavolozza sonora dando luogo ad arrangiamenti più complessi a scapito ovviamente della compattezza della frenesia, il che non è assolutamente un male. Il secondo lato dell’LP si apre con “Manifesto” che è un’altra ripresa dal vecchio repertorio ed

è riferita a Mao Tse Tung e all’eroe popolare cinese Tayung. È un altro brano dall’apertura solenne che cita (rovesciandola) la famosa frase di Lenin su Soviet ed elettricità oltre all’altrettanto famosa frase di Mao “Grande è la confusione sotto il cielo- quindi la situazione è eccellente!” (Mao si riferiva al fatto che il caos della società cinese avrebbe favorito il suo moto rivoluzionario).

“Agli insolenti l'ira, La grazia ai giusti, Magnificat anima dominum…” Dopo tutto quello che è successo fra il 1987 e il 1988 Il terzo album è atteso come la definitiva consacrazione, ma “Canzoni preghiere danze del II millennio - Sezione Europa”, che viene pubblicato nel 1989, raffredda gli animi. Zamboni a riguardo disse(5) che “aveva delle canzoni piuttosto belle, la maggior


parte, ma questa smania di dover fare, di diventare professionali.. non è mai nato del tutto”. Insomma qualcosa non ha funzionato, sarebbe facile addossare la responsabilità a Ignazio Orlando che è l’unico produttore, ma è evidente che il disco contiene anche una serie di brani che erano decisamente trascurabili e sono stati usati per aumentare il minutaggio. Fra questi l’introduzione a cappella del “testamento del capitano” finendo con le conclusive “Vota Fatur” (un brano disco di taglio demenziale cantato da Danilo Fatur) e “Reclame” (in pratica i credits raccontati da Annarella). C’è comunque del materiale molto interessante: l’epicità di “Svegliami”, le pimpanti “And the radio Play” e “Fedeli alla lira” e la ritmata e spagnoleggiante “Roco Roço Rosso” i cui primi versi citano i versi della poesia “Bene!”, scritta dal poeta russo Majakovskij nel 1927 per celebrare i dieci anni della rivoluzione russa. Con un minimo di attenzione si nota che il titolo è una descrizione piuttosto precisa del contenuto dell’album, ci sono le canzoni, le danze e anche le preghiere. Il Brano “Palestina/Madre” è una vera e propria preghiera alla Madonna e NON era una provocazione. Ferretti aveva già dichiarato la sua fede cattolica, anche se ai fans questo fatto passò quasi inosservato. All’epoca si faticò a capire che la Madonna con Bambino in copertina era qualcosa di non accidentale che riguardava il profondo sentire di Giovanni Lindo, che non aveva mai fatto mistero né della sua passata militanza in Lotta Continua come del suo riavvicinarsi alla religione e alla tradizione cattolica della sua famiglia.

“Impreca, Maledice, Parla sussurra canta…” “Epica Etica Etnica Pathos” è un disco inconsueto, è accreditato come l’ultimo disco dei CCCP ma tutti lo considerano il primo disco dei CSI. Se ne è andato Ignazio Orlando e sono arrivati Gianni Maroccolo al basso e Ringo De Palma alla batteria, entrambi escono dalla esplosione della galassia Litfiba. Si aggiungono anche Giorgio Canali alla chitarra e Francesco Magnelli alle tastiere. Sono tutte personalità forti che si inseriscono da protagonisti anche

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nella fase di scrittura delle musiche che era prerogativa di Zamboni. Maroccolo diventa anche il principale produttore ed il suo stile caratterizzerà in modo evidente sia “EEEP” che i successivi lavori dei CSI. Il suono cambia, avere nel gruppo un batterista vero è una novità importante che aumenta molto le dinamiche della musica e le sonorità sono molto lontane da quelle post punk degli esordi. Epica è un disco ampio, vario e complesso, non sempre perfettamente a fuoco. Qualche brano breve e/o strumentale che doveva servire a legare le varie tracce, e dare una sorta di continuità appare fuori contesto o quantomeno non utile alla narrazione. Ci sono delle composizioni sublimi e qualcuna che appare di livello decisamente inferiore (ad esempio “L’andazzo generale”), quindi probabilmente un album più breve e meditato sarebbe stato più conciso e meno dispersivo, ma c’è una grossa urgenza espressiva che incombe. Nel 1989 il muro di Berlino iniziava a traballare sempre più forte, loro lo sanno da molto tempo e capiscono che devono fare in fretta, così nel settembre del 1990 il doppio LP arriva nei negozi. Il 26 dicembre del 1991 l’Unione Sovietica si scioglie e nasce il Consorzio degli Stati Indipendenti che sarà solo il suo pallido ricordo. Il disco si apre con “Aghia Sophia” che è un componimento di oltre nove minuti strutturato su diversi movimenti attorno al tema ricorrente del “Tedio Domenicale”, inizia lento, si sviluppa su un ritmo di tango e poi ha un crescendo che dà un senso evidente al concetto di Epico. Così come è epica la chiusura del brano “Maciste contro tutti” che stavolta dura più di undici minuti e nel suo narrare racconta storie di giovani guerrieri che non hanno paura dei “terrori della notte”. Sono i due perni compositivi su cui si regge il disco, canzoni con cori, arrangiamenti importanti e svariati che alternano varie atmosfere narrate in modo magistrale dalla voce evocativa e profonda di Ferretti. “Paxo de Jerusalem” è la seconda traccia in scaletta, riprende il tema religioso e viene mixato con continuità nel primo degli strumentali che a volte legano le tracce del disco, il titolo dello strumentale è “Sofia” ed è un motivetto suonato dall’organetto diatonico con la registrazione di voci e battiti di mani. Sulla stessa falsariga troviamo anche il tradizionale calabrese “in occasione della festa” che serve ad introdurre in modo mirabile il brano “Amandoti” arrangiato solo per organetto (fatto con le tastiere da Magnelli) e voce. Quest’ultima è una canzone di una grande semplicità e al tempo stesso di una grandissima intensità che verrà coverizzata tra l’altro dalla Nannini e dai Maneskin (quantomeno discutibili i risultati...). Un altro brano sulla falsariga di “Amandoti” è la conclusiva “Annarella”, quasi ingenua con un giro di quattro accordi che si ripete e un assolo semplicissimo di chitarra elettrica, eppure per la magia che si manifesta è una di quelle canzoni che permettono di scomodare il concetto di Phatos. Il testo poi è particolarmente evocativo visto che nel finale recita ripetutamente che “È tutto quello che io ho e non è ancora, Per me, per la mia vita che è tutto quello che ho… Finita” e questa frase chiude non solo il disco ma tutto l’epopea dei CCCP ed è molto significativo nel raccontare, non la semplice fine della carriera di un gruppo musicale, ma la fine di una fase storica.


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Fra le tracce troviamo anche “Al Ayam” un brano in arabo accompagnato da strumenti tradizionali mediorientali che giustifica assolutamente il concetto di Etnico. Da citare anche l’incedere lento di “Depressione Caspica” con Ferretti che narra con un piglio di preghiera un testo molto ispirato (“Se l'obbedienza è dignità, fortezza, La libertà una forma di disciplina, Assomiglia all'ingenuità la saggezza”) accompagnato da delle chitarre importanti ma non invasive. In conclusione di questo disco possiamo dire che: È epico perché attiene anche alla narrazione di grandi gesta. È etico perché discute anche del comportamento dell’uomo di fronte alle scelte fra il bene e il male. È etnico perché canta anche delle culture che non sono proprie del gruppo. Infine crea indubbiamente del pathos ossia suscita emozioni che non sono trascurabili. Indubbiamente tutte qualità che attengono all’intera produzione artistica del gruppo e non solo al suo epilogo. Da qui in poi arriveranno i CSI che avranno un successo inaspettato, portando il “Rock Alternativo” al primo posto delle classifiche di vendita, ma sarà tutta un'altra questione e le storie che racconteranno saranno molto diverse, i CCCP raccontavano la nostra generazione ed il nostro paese, anche dal punto di vista del resto del mondo. I CSI racconteranno altro: Finistere, La guerra in Bosnia, La Mongolia. Lo faranno anche bene, ma è tutta un'altra storia… Io nel frattempo sono tornato in montagna e assomiglio sempre di più a mio nonno…. (G. L. Ferretti 1989) 1 - Documentario “Tempi Moderni”. 1989 2 - ”Romagna mia” è un celebre valzer scritto da Secondo Casadei nel 1954 3 - Il brano dei Nirvana “Smell Like Teen Spirit” recita appunto: “Here we are now, entertain us”. 4 - L'intervista fu realizzata da Pier Vittorio Tondelli e pubblicata su L'Espresso del 18 novembre 1984. 5 - Intervista a Blow Up N. 57 febbraio 2003.

………...dal n°54 -

I POSSIBILISTI:

Ancora Björk !!!

In merito al quesito che si poneva sul numero scorso e che riguardava la comprensibilità delle parole nel canto di Björk, non abbiamo ricevuto lettere a riguardo a parte quella di Mafalda da Vittorio Veneto (TV) che più che dare un contributo si scaglia contro la nostra eroina, svelando una passione esagerata, e forse anche un po’ torbida, per Lars Von Trier e i suoi film. Risparmiandovi gli insulti gratuiti alla “divina” d’Islanda ci concentriamo su l’unico passaggio interessante della sua lettera che è il solo a contenere una riflessione vagamente intelligente: ”Lars aveva già capito tutto quando nella prima scena di “Dancer In The Dark” dove fa dire all’aiuto regista dello spettacolo teatrale la battuta “Canta in un modo strano e non sa neanche ballare!!!”, il regista lo rincuora rispondendogli “Ma è la prima volta che la faceva!!!”. E’ tutto rinchiuso lì….Björk è una limitata e solo voi sapientoni sinistrosi potevate dedicargli lo spazio che le avete riservato. Indecenti. Non vi leggerò più.”


Photo by Claudio Martinez

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C.S.I. - Forma e Sostanza di DJ Kremlino Preludio I° (elezioni ed eletti) Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti Viaggia la polvere viaggia il vento viaggia l'acqua sorgente Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti viaggia Sua Santità C’era una atmosfera particolare quella sera del 22 aprile 1996. La sera prima l’Ulivo aveva sconfitto Il Cavaliere per una manciata di voti e il pubblico (di parte) pareva sollevato e sereno, (quasi) felice. Me compreso, ovvio. Al teatro Smeraldo assisto (da solo) abbarbicato sulla mia poltroncina, ad uno di quei concerti che è ancora vivo nei miei sentimenti (pur essendo uno che non ricorda praticamente nulla). Una di quelle serate dove le emozioni sembrano sgorgare in maniera limpida e diretta come in un rito, in un culto collettivo: altro non si potrebbe scrivere per un concerto dove non un rumore, un respiro, nemmeno uno scartocciare di caramelle arriva dal pubblico durante le canzoni, ascoltate con religiosa concentrazione, come il verbo durante una messa cantata, in cui solo gli scroscianti applausi tra un brano e l’altro ci ricordano che siamo in un luogo laico.

Loro sono immobili, o quasi, nelle loro postazioni, come delle immagini votive, degli eletti, con i suoni delle canzoni e l’incedere monastico della voce di Ferretti che entrano, alternando ferocia e dolcezza, nei cuori di chi ascolta, non lasciando scampo, portando alle lacrime (viste e sentite), portando in uno stato di trascendenza quasi irreale, come dei credenti di fronte al miracolo di una musica che non accompagna per divertire ma, presuntuosa e convinta, si eleva allo stato di arte. Spettatori (credenti) che ascoltando “In Viaggio” (la potete sentire nella versione live del disco “In Quiete”) si arrendono davanti a tanta bellezza, in una versione stravolta rispetto a quella elettricamente (bella) incisa per il disco d’esordio “Ko De Mondo”, in cui solo le tastiere e una chi-

tarra acustica accompagnano le voci uniche alternate di Ferretti e della Di Marco. Il concerto si chiuse (credo?) con “In quiete”, lunga cantilena aperta dalle tastiere di Magnelli che, nella sua semplicità cresce, si amplifica, maestosa e ammaliante, crudele (“dolore che inchioda” sibila Ferretti) per poi spegnersi sul crepitio del pianoforte iniziale. Preludio II° (una live band?) La saggezza è impazzita, non sa l'intelligenza La ragione è nel torto, conscia l'ingenuità Ma non tacciono i canti e si muove la danza Quietami i pensieri e il canto e in questa veglia pacificami il cuore Così vanno le cose, così devono andare Chi c'è c'è e chi non c'è non c'è Chi è stato è stato e chi è stato non è Mi verrebbe, mi viene, lo faccio, lo scrivo: i C.S.I. raggiungono le vette nella loro incarnazione live. In fondo, i C.S.I. nascono come gruppo il 18 settembre 1992 durante l’esibizione a Prato di quello che diverrà il disco “Maciste contri tutti” (1) , e questa attitudine pervade la loro produzione che vedrà altri due dischi dal vivo affiancare i tre ufficiali in studio. Dal vivo sembrano condensare e cogliere in pieno il loro (straordinario) livello qualitativo di musicisti e alcune delle loro esibizioni (al netto delle peculiarità caratteriali di alcuni componenti, che hanno inciso come non mai sulle loro esibizioni) sembrano testimoniarlo. Come (in) “In Quiete” registrato durante una trasmissione per MTV, e dato alle stampe a pochi mesi dall’esordio di “Ko De Mondo”, che testimonia una band in stato di grazia nel rileggere alcuni brani (sia dei C.S.I. che dei CCCP) in chiave elettro acustica. Date un ascolto a “Fuochi nella Notte di S. Giovanni”, una pastorale ballata che gira ipnotica, danzante e incantata, semplice e perfetta. Ed un altro live di spessore è “La terra, la guerra, una questione privata”, registrato ad Alba il 5 ottobre 1995 nella chiesa (e dove se no?) di San Domenico, in cui i C.S.I. eseguono un concerto in onore e in memoria di Beppe Fenoglio, uscito nel gennaio del 1998, in cui dispiegano con


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maestria alcuni loro pezzi e al contempo rendono omaggio allo scrittore che, forse, più di tutti ha saputo dar voce alla storia della Resistenza partigiana. Qui l’umore è cupo, le canzoni finiscono spesso con (lunghe) code rumorose ed elettriche, ad eccezione del pianoforte e le voci sussurrate in “Del Mondo” e “Annarella” che da sole valgono la pena del biglietto (virtuale). Una dimensione in cui si esprimono ad alti livelli, quella sui palchi, ricordando infine anche le due (non certo memorabili) “compilation” Noi Non Ci saremo vol. 1 e 2, che pongono fine, nove anni dopo, alla storia dei C.S.I. e che vedono almeno la metà delle canzoni proposte in versioni live più o meno interessanti. Capitolo 1 (l’ovvio) Il cambiamento è anche di vita nel passaggio dai CCCP ai C.S.I.: bastava capirlo (ovvio) dalla scelta di Ferretti di salire in montagna, abbandonare già alla fine degli anni ’80 la vita bolognese, riprendendo casa nel suo paese montano e appenninico d’origine, con la cresta in mezzo ai valligiani (presumo) attoniti, per iniziare/continuare (era già presente in alcuni testi dei CCCP) quel percorso (controverso – per noi) che lo condurrà al suo personale recupero delle radici montanare e (soprattutto) cristiane: “mi ritrovai in una grande casa, umida, fredda, poca luce e molti spifferi, e arriva la musica che non pensavo, il canto della creazione”. Un salire in montagna seguito poco tempo dopo anche da suo fratello Zamboni che metterà radici nei boschi poco lontano; un salire in montagna con finalità (probabilmente) diverse e che si scontrerà, anni dopo, nel “famoso” litigio berlinese che porrà fine al loro rapporto artistico e umano. E se i CCCP sono stati i cantori provocatori delle (rovine) dell’impero sovietico, del comunismo (italiano) e di quel mondo che aveva visto (da molto tempo ormai) “la fine della spinta propulsiva”(2), i riferimenti culturali e umani dei C.S.I. sono radicalmente dentro la storia della Resistenza italiana e nei valori espressi con la lotta di Liberazione. Lo si legge, senza se e senza ma, nelle scelte musicali, artistiche e negli impegni sociali della band.

Un salire in montagna che sa di Resistenza quindi: tanto vale allargare i confini e costituire una nuova brigata che vede i due leader emiliani dei CCCP Giovanni Lindo Ferretti (voce) e Massimo Zamboni (chitarre disturbate), incontrarsi con il nucleo toscano in uscita dai Litfiba, composto da Gianni Maroccolo (basso) e Francesco Magnelli (tastiere), con cui avevano già collaborato all'ultimo album “Epica Etica Etnica Pathos”, insieme al loro tecnico del suono Giorgio Canali (chitarra, violino) e, successivamente, alla compagna di vita di Magnelli, Ginevra Di Marco (seconda voce). Una Resistenza che diventa anche culturale e di (unità) di produzione con i progetti della loro casa discografica indipendente Dischi del Mulo e Sonica Factory, sino all’unione nel progetto nel Consorzio Produttori Indipendenti (C.P.I.) e de Il Maciste (3). Ed infatti, il nome del gruppo Consorzio Suonatori Indipendenti (pur essendo un acronimo della Comunità degli Stati Indipendenti composta da nove delle quindici ex repubbliche sovietiche tra le quali la Russia - un gioco e nulla più in continuità con la sigla CCCP- ), vuole sotto intendere anche quello: sia un gruppo che guarda e lavora attorno a se cercando di costruire una scena e una organizzazione strutturata, sia come sommatoria di suonatori indipendenti da diverse esperienze. In continuità con i CCCP la nuova band ha uno sguardo fortemente rivolto geograficamente e umanamente ancora ad est, come il viaggio in Mongolia o il loro focalizzarsi sui temi della guerra nella ex Jugoslavia testimoniano. Invece il contesto politico, sociale, umano, religioso (per il solo Ferretti) vede, piano piano, un cambio, netto, con il passato, e la cesura avviene anche in campo musicale (sia dai CCCP che dai Litfiba), con scelte ancora più intransigenti rispetto all’irruente “islam punk” giovanile, con un percorso che nulla concede alla facilità di ascolto, con scelte (consapevoli o meno) che li portano a collocarsi intellettualmente distanti dall’ascoltatore, come se il voler donare qualcosa in più a chi li segue debba vedere un spazio per regalare musica più profonda, più intensa e scevra da (pop) ulismi e (fan)atismi; un atteggiamento di alterità che nei CCCP si era manifestato più a livello visivo e fisico (il filo spinato tra la band e il pubblico in alcuni concerti, le loro provocazioni ecc.) e che qui invece si eleva a livello concettuale e musicale. E per farlo, e per capirlo (per entrarci dentro), la forma mu-


sicale diventa in un certo senso sacrale e spirituale, come una messa (rumorosa a volte) cantata (come nell’incipit già scritto) in cui, “per capire se non hai capito già” (4), bisogna diventare/essere quasi dei credenti, per approcciarsi e lasciarsi conquistare dalla loro profondità Verrebbe da scrivere (provocatoriamente… posso?) musica per radical chic (come me). Capitolo 2 (non il primo) Non fare di me un idolo mi brucerò, se divento un megafono m'incepperò, cosa fare non fare non lo so… Chi è stato è stato e chi è stato non è Chi c'è c'è e chi non c'è non c'è I due dischi prodotti in pochi mesi che danno inizio alla loro ristretta (tutto sommato) discografia sono quello in studio “Ko De Mondo” e, pochi mesi dopo sempre nel 1994, quello live di “In Quiete” (di cui ho accennato sopra). Due dischi di passaggio dal prima al poi. Si fa preferire quello live ma anche “Ko De Mondo” già denota la statura (alta) che la band saprà esprimere al meglio successivamente. Di passaggio perché basta ascoltare “Celluloide”, ancora

intrisa di uno sguardo alle esperienze del duo Ferretti/ Zamboni, e alcuni pezzi non perfettamente riusciti come quello prevalentemente strumentale “La Lune du Prajou” guidato da un giro di basso, o nelle rumorose e industriali “Finistère” e “Home Sweet Home” e nella claustrofobica “Palpitazione Tenue”, discrete composizioni ma, rispetto alle altre, meno convincenti, a cui fanno da corollario brani di buona fattura come la fluttuante “Intimisto” e la litania millenaristica di “Occidente”. L’album però, se pur musicalmente sostenuto da una struttura in continuità rispetto all’ultima opera dei CCCP, con le chitarre che sorreggono quasi tutti i brani, contiene una manciata di brani indimenticabili e straordinari, anche nella loro semplicità, che vanno oltre e costruiscono nuove coordinate. Come l’iniziale ipnotica “A tratti” che finisce martellante e abrasiva, la sognante “Il Mondo” nata da accordi trovati

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all’alba da Magnelli, l’incedere lieve, arpeggiato, suadente di “Memorie di una testa tagliata” primo riferimento alla tragedia jugoslava con le sue guerre, il vortice di chitarre di “In Viaggio” che sale e porta in trance come un ballo derviscio che fa girare (e perdere) la testa… Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti Viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti viaggia Sua Santità … sino alla finale “Fuochi di una notte (di San Giovanni)”, ballata semplice e agreste che si trasforma piano piano in piccola danza tribale tutta in chiave acustica. … e si alzano i canti e si muove la danza così vanno le cose, così devono andare

Capitolo 3 (non il terzo) L’importanza dei C.S.I. nel panorama della musica rock indipendente italiana è stata anche dettata dal fatto che il loro terzo disco del 1997, “Tabula Rasa Elettrificata”, raggiunse (anche se per poco) il primo posto nelle vendite dei dischi in Italia. Una sorpresa per loro (la band), per noi (i fan) e per gli altri (discografici e addetti del settore) che ha fatto scrivere ai tempi (troppe) pagine sul fatto in se che, con il senno del poi, si può derubricare a semplice eccezione (che conferma la regola), visto che la musica rock indipendente italiana (prima e dopo) rimarrà in una posizione di nicchia (e oggi, come ben sapete, ancor di più). Un “successo” quello di “Tabula Rasa Elettrificata” che ha portato a palazzetti dello sport pieni, a un tour come spalla a Jovanotti (coraggioso, Jovanotti intendo) e a qualche introito (immagino) in più ma che, in realtà, testimoniò l’ultimo atto maturo di una band giunta alla fine di un percorso intenso e veloce (in questo molto punk). Un album figlio del viaggio in Mongolia effettuato dalla coppia Ferretti/Zamboni dove però (la Mongolia) musicalmente si sente poco guidato come è dalle chitarre urlanti/ dominanti di Zamboni e Canali; un disco che rasenta la per-


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fezione nel lato A (per chi ne possiede il vinile), immerso nella decadenza di un mondo forzatamente mitizzato, mentre il lato B si “scheggia”, perde coesione, obiettivi e profondità. La prima parte è monumentale. In tutti i sensi. “Unità di produzione” che apre il disco è sovietica, industriale, pesante, apocalittica, una sberla che sveglia, come la seguente

“Brace”, un titolo che si spiega già di per se, spigolosa e profonda, per poi incunearsi in “Forma e Sostanza” (la loro hit!) che, con un giro di chitarra che si inchioda incandescente, gioca con un basso profondo e chitarre wha wha con il grido (involontariamente profetico) di Ferretti “voglio ciò che mi spetta, lo voglio perché mio mi aspetta”, per passare dall’ipnotica e vorticosa cantilena di “Vicini” sino all’immensa “Ongi” che vive sulle due voci in contrasto di Ferretti/Di Marco ("Inondami di vita quotidiana”) e il rincorrersi di chitarre liquide raggiungendo vette lontane e fantastiche. Poi il disco perde leggermente coerenza: le due canzoni con più assonanza al nucleo del viaggio in Mongolia (“Gobi” e “Bolormaa”) non convincono in pieno, con la prima elettricamente new age e la seconda che spreca un intenso e semplice inciso di tastiere e chitarra in un finale caotico fine a se stesso; poi si va verso la conclusione con la cavernosa “Accade” e le finali “Matrileneare” e “M’importa una sega” in cui sembrano due discreti e divertenti pezzi punk made in CCCP (dieci anni dopo), che però non legano assolutamente con la parte iniziale del disco così equilibrata e possente. Capitolo 4 (il secondo, quello giusto. Forma e Sostanza) Occhio cecchino etnico assassino Alto il sole, sete e sudore Piena la luna, nessuna fortuna Ci fotte la guerra che armi non ha Ci fotte la pace che ammazza qua e là Ci fottono i preti, i pope, i mullah L'ONU, la NATO, la civiltà Bella la vita dentro un catino Bersaglio mobile di ogni cecchino Bella la vita a Sarajevo città Questa è la favola della viltà

In fondo, a parte i live, sono “solo” tre i dischi “veri” prodotti dai C.S.I. e, nel disco di mezzo “Linea Gotica” del 1996, raggiungono l’apice della loro straordinaria capacità espressiva, strutturando sonorità (im)perfette indimenticabili. Con un suono spesso privo di una sezione ritmica, questo è l’unico lavoro in cui la dittatura delle chitarre dissonanti di Zamboni/Canali non è più assoluta, in cui trovano un ruolo centrale anche le tastiere e il pianoforte di Magnelli, il basso di Maroccolo e la “seconda” voce della Di Marco che aggiunge molto alla qualità complessiva, come alter ego credibile al salmodiare di Ferretti; è l’incisione in cui tutti i componenti della band sembrano trovare il loro (giusto) spazio. Qui lo sguardo, l’umore è feroce, implacabile, rivolto alla tragedia di (quel) presente, oscuro e terribile come l’orrore che racconta: le guerre nella ex Jugoslavia, ferita inguaribile per la nostra generazione di (ex) giovani adulti, incapaci di trovare risposte (e soluzioni) a un conflitto così cruento a pochi chilometri da casa nostra, spettatori di raccapriccianti e indicibili massacri generati da territorialità / religione / etnia / follia che (ci) pareva impossibile ripetersi nella nostra civile Europa dopo “l’insegnamento” della II° Guerra Mondiale. Di colpo si fa notte, s′incunea crudo il freddo La città trema, livida trema Brucia la biblioteca, i libri scritti e ricopiati a mano Che gli Ebrei Sefarditi portano a Sarajevo in fuga dalla Spagna S'alzano i roghi al cielo S′alzano i roghi in cupe vampe Ed allora rimangono solo le parole e la musica come unico strumento per descrivere le cupe vampe di emozioni e quello sguardo vitreo, sgomento, sulla devastazione (di corpi e anime) generato dal massacro dei civili a Sebrenica, dai cecchini di Sarajevo, dalle fossi comuni di Tomasica, anche con uno sguardo diverso (ancora una volta provocatorio) e fortemente critico contro un pacifismo imbelle che alza bandiere, senza intervenire, senza usare guerra, senza sporcarsi le mani per fermare la guerra. Ed ecco quindi chitarre acustiche e un violino urticante su un tappeto scheletrico ed ossessivo ad accompagnare le tastiere magnetiche e un cantato liturgico dentro una chiesa in fiamme … un basso stralunato e mono(tono) alla


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John Lydon che sottolineano l’urlo di “parole comandate che stanno conficcate in gola e che possono strozzare, meglio sputarle”… un’unica luce che “ti viene(go) a cercare” con la rivisitazione di un pezzo di Battiato che supera l’originale in forza emotiva… chitarre che girano, si intrecciano, e toccano il cielo… slabbrate litanie noise core... un pianoforte glaciale e suadente elevato da una voce femminile che accompagna una accorata preghiera (maschile) “la casa, la chiesa, a modo e per bene / Campana che suona, la notte che viene / Cattolico decoro, cattolico decoro”… riff quasi perversi che fanno da sfondo alla voce spettrale di Ferretti… Dentro il disco ci trovate questo e molto altro. Non ha senso scindere le canzoni. “Linea Gotica” è unico, necessita di un inevitabile sguardo complessivo contemplando le tonalità agli antipodi presenti: intimo e urlante, ossessionante e nitido nella sua spettrale modernità (ancora oggi). Un disco intenzionalmente ambiguo, buio, violento, radicale, difficile da (ri)percorrere e sentitamente malinconico. Un disco superbo, spigoloso, obbligatoriamente da non sottovalutare con un ascolto superficiale, perché richiede applicazione e attenzione. Lo so, non è certo un invito all’ascolto, ma certe cose nella vita non sono facili. Non c’è scampo o scappatoie nel confronto con certe opere (artistiche). Bisogna sbatterci la testa, provarci e riprovarci per capire (“se non l’hai capito già”) (4), per entrarci dentro. Un lavoro su cui aleggia la visibile (ma vana) ricerca di un appiglio, una luce, per capire e dare risposte (che non ci sono) al baratro senza fine in cui l’umanità in quella guerra (in ogni guerra), sembra essersi gettata. Ed ecco, allora, che la ricerca di una redenzione guarda oltre l’umano e si eleva verso il divino. “Linea Gotica” è da mettere accanto a capolavori senza tempo della musica “rock” italiana: al Battiato de “La Voce del padrone”, agli Area di “Arbeit Macht Frei”, al De Andrè di “Creuza De Ma” ecc. (pochissimi altri eccetera ad essere sinceri). I C.S.I. di questo disco stanno in questo nucleo ristretto. Piaccia o meno.

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Ok, potevo farla breve, e scrivere solo queste ultime righe.

Il “resto” della storia vede un violento litigio tra Ferretti e Zamboni in un altro viaggio a Berlino nel primo anno del nuovo millennio. La Berlino che li aveva uniti per formare i CCCP, anni dopo li annichilisce interrompendo il loro rapporto artistico e d’amicizia. Delle motivazioni m’importa una sega (tanto che possiamo farci?) e delle successive derive (molto discutibili!!) di Ferretti verso una visione politica e religiosa (molto) conservatrice (attuale anche oggi con le prese di posizione da orticaria sul green pass) è un terreno per talk show e non può (deve) influire sul giudizio artistico. La fine dei rapporti tra i due è la fine di fatto dei C.S.I. e l’apertura di una stagione di alcuni lavori solisti per Zamboni (e per Ferretti) e per il resto della band la trasformazione in P.G.R. Ma questa è un’altra storia in cui però la “fine della spinta propulsiva” sarà evidente e inevitabile(?). Dj Kremlino 1) Disco che raccoglie quattro brani degli ex CCCP, assieme a pezzi di altre due band (Ustmamò e Disciplinatha) prodotte dal Consorzio Suonatori Indipendenti. 2) Dalla conferenza stampa televisiva del 15 dicembre 1981, dopo la presa del potere del generale Jaruzelski in Polonia, di Enrico Berlinguer segretario del Partito Comunista Italiano. 3) Dopo la pubblicazione di “Epica Etica Etnica Pathos” (1990) i due fondatori dei CCCP Zamboni e Ferretti, decidono di creare una casa discografica per la produzione di artisti e gruppi alternativi, quali Üstmamò, Disciplinatha, Wolfango e Acid Folk Alleanza (AFA). Questa nuova etichetta viene battezzata I Dischi del Mulo. Parallelamente Maroccolo dà vita a Firenze al centro di produzione Sonica Factory (con produzioni come Settore Out e Marlene Kuntz). Tra il 1990 e il decidono di unire le due esperienze discografiche nel progetto Consorzio Produttori Indipendenti (C.P.I.). Il Maciste è stato un trimestrale gratuito che monitorava i lavori del C.P.I., completo di interviste agli artisti e ai produttori offrendo l'opportunità di acquistare in anteprima, o in edizioni speciali e differenti da quelle immesse sul mercato ufficiale, tutte le produzioni del C.P.I.". da Wikipedia. 4) “Vedi cara, è difficile a spiegare, è difficile capire se non hai capito già…” (testo da “Vedi cara” di Francesco Guccini).


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P.G.R. e altri sentieri Forma e (poca) Sostanza di DJ Kremlino

Dopo lo scioglimento degli scarafaggi Lennon e McCartney non hanno mai costruito opere in grado di rivaleggiare con i grandi album della band di Liverpool. Il paradosso è che l’unico (clamoroso) disco prodotto post Beatles è stato inciso da George Harrison ben cinquantuno anni fa (1970) con “All Things Must Pass”, un triplo(!) album di enorme (enorme) fattura! Coprodotto insieme a Phil Spector (e dico tutto)! Ok, prima che scatti la rissa, non voglio entrare nel merito per spiegare questa (però evidente) verità. Ascoltatelo se nel caso vi sia sfuggito (come a me per molti, troppi, anni). L’esempio mi serviva per scrivere che, nello scioglimento dei C.S.I. e nel passaggio ai P.G.R. (tutti presenti meno Zamboni) e alle successive, varie e molteplici, incisioni soliste dei loro membri, un George Harrison non c’è. Potrei fermarmi qui. Però non è politicamente corretto liquidare gli ultimi vent’anni di carriera di questi grandi musicisti con giudizi lapidari e sommari. Però, pur con tutte le buone intenzioni, e una immersione dentro i dischi dei Per Grazia Ricevuta, dei due dischi solisti di Ferretti e dei molti di Zamboni difficile è gridare al miracolo, al grande lavoro, all’opera da sottolineare con granitica certezza. Il disgregarsi del gruppo ha dissolto anche la magia del creare e comporre assieme e la sommatoria dei singoli, evidentemente, andava oltre, testimoniando una alchimia difficile da ripetersi. Nei primi P.G.R. (abbiam capito che gli piacciono gli acronimi) si prosegue il discorso presente nel (non certo esaltante) disco solista di Ferretti di inizio millennio (Co.dex), con la collaborazione del musicista/produttore Hector Zazou. Lontani dalla sostanza delle chitarre (Zamboni non c’è!) verso musica elettronica, etnica e sperimentale soprattutto nel disco omino d’esordio, in cui accanto a pezzi interessanti rimangono cadute pesanti come (ad esempio) in “Tramonti d’Africa”, un pezzo in levare che un po' imbarazza ascoltato oggi. Con l’abbandono della coppia Ginevra Di Marco e Francesco Magnelli, il trio rimasto (Maroccolo, Canali e Ferretti) produce “D'anime e d'animali” più rock oriented e leggermente più centrato come dimostrano alcuni (pochissimi) pezzi come “Divenire” che sembra una (ottima) bside dei C.S.I. Ma il progetto non decolla e continua (solo per necessità discografiche di contratti da rispettare) con un altro album finale nel 2009 “Ultime notizie di cronaca” che nulla aggiunge al debole pulsare creativo a parte la bel-

lissima (per me) e commovente inziale “Cronaca Montana”, a cui si aggiunge “ConFusione - 9 canzoni disidratate da Franco Battiato” che contiene canzoni dei PGR arrangiate e prodotte (in maniera discutibile) dal grande Franco Battiato. Seguiranno opere singole dei vari membri, e un Ferretti che mette in campo negli ultimi dieci anni esibizioni live raccolte anche in quattro dischi dal vivo (bisogna pur dignitosamente campare), nei quali ripercorre le composizioni delle tre band di cui ha cantato le gesta, esibendosi con Ezio Bonicelli e Luca Rossi entrambi ex componenti degli Üstmamò. Diverso il percorso di chi scriveva (in gran parte) le canzoni e cioè di Massimo Zamboni (sempre a guardare i cantanti voi... sempre preferito i chitarristi io…), che nei vent’anni del duemila produce canzoni rockfolk in una decina di dischi solisti (e collaborazioni con Marina Parente e Nada) mettendoci (inevitabilmente) anche la sua voce (tremolante a dire il vero), oltre a comporre numerose colonne sonore e a dilettarsi nello scrivere con alcuni libri (spesso autobiografici). L’ascolto dell’intenso brano “Ondula” tratto da “L’estinzione di un colloquio amoroso” è un velocissimo consiglio per capire se entrare in contatto con la sua proposta (io ho avuto negli anni obiettive difficoltà). E’ inevitabilmente una storia che ha dato il meglio di se dentro i CCCP e i C.S.I. e credo che non possiamo certo lamentarci.


Parole, Opere e Ossessioni CCCP e C.S.I. (bibliografia e videografia)

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di Lewis Tollani FEDELI ALLA LINEA DAI CCCP AI CSI Una storia raccontata da Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni ad Alberto Campo. 1997 – Giunti Gruppo Editoriale – Firenze “Che siamo io e Giovanni a raccontare questa storia può sembrare una specie di arbitrio nei confronti di chi ne è stato protagonista accanto a noi. È il nostro punto di vista, una storia riscritta a nostro uso e consumo” Massimo Zamboni Trovare un libro (ed uno soltanto) che possa esaustivamente ripercorrere le gesta di un personaggio, di una band musicale… di un artista, insomma, è molto spesso esercizio complicato, se non impossibile. Spesso anche le “autobiografie” non lo sono mai totalmente, sovente scritte da “ghost-writers” sotto dettatura, che tendono ad edulcorare la faccenda o quanto meno a romanzarla, partendo da un punto di vista esterno. Nel caso, poi, di due Persone (prima ancora che artisti, musicisti e finanche amici) come Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni (non me ne vogliano i tantissimi eccellenti musicisti ed “artisti del popolo” che hanno incrociato il percorso artistico con loro, di cui cerchiamo di colmarne le lacune con l’estesa ma non totale bibliografia al termine di questo scritto) era un’impresa disperata. “Mi ricordo una passeggiata nel viale centrale di Berlino Est, con tutte le gigantografie dei dirigenti del Partito Comunista ai lati della strada e ovunque altoparlanti che diffondevano musica classica a un volume allucinante, come in un set teatrale. Una storia che ci ha dato la sveglia” Massimo Zamboni Fino a quel fatidico (e per molti aspetti nefasto) 1997. In quell’anno i C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti) scalano tutte le classifiche possibili ed immaginabili, solo qualche anno prima, compresa quella mainstream per eccellenza rappresentata dal rotocalco TV Sorrisi & Canzoni. BOOM. Sembrava una cosa impossibile che anche nella superficie si stessero per accorgere di questo “mondo”, come quasi un decennio prima i Nirvana si erano presi tutto, ora anche da noi la canzone popolare stava per essere soppiantata dall’underground, dalla musica indipendente… da tutto quell’humus sotterraneo che grazie a questa “epifania” non sarebbe più stato loser, nascosto, peculiare… sembrava appunto; ed invece.

“Lo scenario era cambiato: non più L’Impero Sovietico ma l’Europa. “KO de mondo” per noi vuol dire fine della terra. In realtà Codemondo è un paesino in provincia di Reggio Emilia, il cui nome significa ?capo del mondo’.” Massimo Zamboni “Scritto così può anche voler dire “k.o. del mondo”: il mondo occidentale al tappeto” Giovanni Lindo Ferretti Ma come dicevo, sempre in quell’anno fatidico e nefasto, oltre allo splendido album “Tabula Rasa Elettrificata”, Zamboni e Ferretti si concedono come mai prima e grazie alla cura dell’amico giornalista Alberto Campo, dando alle stampe con Giunti Editore questo cartonato gigante (28.5 x 22 cm) contenente gli intrecci di vita che hanno caratterizzato i due protagonisti, dall’infanzia fino all’incredibile primo incontro a Berlino, dalle esperienze politiche giovanili fino al viaggio in Mongolia, vero e proprio spartiacque nelle loro esistenze, oltre che motore pulsante del nuovo (ed ultimo) disco insieme. Parole profuse come da un fiume in piena quelle di Ferretti, che come sempre colpiscono per articolazione del pensiero, mai banale, che fanno da contraltare alle secche ed esiziali rasoiate di Zamboni, per sua stessa ammissione molto più a suo agio con la chitarra che davanti ad un microfono, ma precise e chirurgiche come l’acciaio.


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“Da allora io e Massimo abbiamo sperato di ascoltare musica nuova dotata di uno spirito strafottente come noi immaginavamo fosse quello dei M’importa ‘na sega, ma non è mai successo. A quella mancanza non potevamo che rispondere noi, allora: in fondo era un nostro problema” Giovanni Lindo Ferretti La vita dei protagonisti, raccontata direttamente dai protagonisti. Un vero gioiello, impreziosito dal mini CD “Tabula Rara” contenente 2 brani (allora) inediti “Buon Anno Ragazzi” e la cover dei Nomadi “Noi Non Ci Saremo”, oltre al remix che i Datura avevano fatto per il brano “A Tratti” – “A Tratti Remix (Datura Eucharestia)”. Molto difficile da reperire, oggi, ma ne vale veramente la pena, sempre che siate fortemente motivati nella sua ricerca. “Ma è altrettanto vero che solo noi possiamo scriverla, perché siamo gli unici superstiti, non è rimasto nessun altro” Giovanni Lindo Ferretti PAROLE OPERE ED OSSESSIONI. Qui di seguito, la più esaustiva raccolta di libri che sono riuscito a mettere insieme (non tutti, purtroppo, in mio possesso). Stefania Cubello, CCCP. Addio mondo crudele, intervista a Giovanni Lindo Ferretti, in Blu, n. 41, 1990, 64-67. Gigi Marinoni (a cura di), CCCP - Fedeli alla linea, in Lyrics Books, 1ª ed., Viterbo, Stampa Alternativa, 1990. Gigi Marinoni (a cura di), CCCP - Fedeli alla linea, 2ª ed., Viterbo, Stampa Alternativa, 1998 Alberto Campo (a cura di)Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, Fedeli alla linea. Dai CCCP ai CSI, Firenze-Milano, Giunti Editore, 1997 Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, Il libretto rozzo dei CCCP e CSI. Tutti i testi e scritti inediti, Firenze, Giunti Editore, 1998 Massimo Zamboni, Giovanni Lindo Ferretti, In Mongolia in retromarcia. Giunti, 2000 Massimo Zamboni. In Mongolia in Retromarcia. NdA Press, 2009 (Seconda edizione con illustrazioni di Giacomo Baroni). Massimo Zamboni. Emilia parabolica. Qua una volta era tutto mare. Fandango Libri, 2002 Giovanni Lindo Ferretti , Reduce, Mondadori, 2006 Massimo Zamboni. Il mio primo dopoguerra. Cronache sulle macerie: Berlino Ovest, Beirut, Mostar. Mondadori, 2005 Riccardo Bertoncelli, CCCP Fedeli alla linea, in 24.000 Dischi, Baldini Castoldi Dalai, 2006 Giovanni Lindo Ferretti , Bella gente d'appennino, Milano, Mondadori, 2009 Matteo Remitti e Stefano Fiz Bottura (a cura di), Giovanni Lindo Ferretti. Canzoni Preghiere Parole Opere Omissioni, Roma, Arcana Editore, 2010 Umberto Negri, Io e i CCCP. Una storia orale e fotografica, a cura di Ermanno Guarneri, Milano, Shake Edizioni, 2010 Massimo Zamboni. Prove tecniche di resurrezione. Donzelli Editore, 2011 Giovanni Lindo Ferretti , Barbarico, Milano, Mondadori, 2013 Alessandro d'Urso, Gianni Maroccolo - vdb23/ Storie di un suonatore indipendente, Roma, Arcana editore, 2014 Annarella Giudici, Giovanni Lindo Ferretti e Rossana Tagliati, Annarella benemerita soubrette - CCCP Fedeli alla Linea, Macerata, Quodlibet, 2014 Michele Rossi, Quello che deve accadere, accade. Storia di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, Giunti Editore, 2014 Antonio Contiero (a cura di), Fellegara. Dove sono nati i CCCP Fedeli alla Linea. Una storia per testi e immagini raccontata da Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici, Zeo Giudici, Umberto Negri, Benedetto Valdesalici e tanti altri., Officina del Libro Babel - Ballotta Bertini Contiero, 2015 Massimo Zamboni. L'eco di uno sparo. Einaudi Editore, 2015 Giudici, Zeo Giudici, Umberto Negri e tanti altri., Rimini, NFC Edizioni, 2015 Massimo Zamboni, Vasco Brondi, Anime Galleggianti, La nave di Teseo, 2016 Stenopeica con F. Battiato, G.L. Ferretti e T. De Sio, Nicoletti M. e R. Passuti (2016), Kathmandu: diario dal Kali Yuga (libro + CD), Paris, Le loup des steppes Massimo Zamboni, Nessuna voce dentro - un'estate a Berlino Ovest, Einaudi Editore, 2017 Franco Arminio, Giovanni Lindo Ferretti, L'Italia profonda, Gog Edizioni, 2019. Massimo Zamboni, Caterina Zamboni Russia, La macchia mongolica, Baldini + Castoldi, 2020 Antonio Contiero (a cura di), Fellegara. Dove sono nati i CCCP Fedeli alla linea. Una storia raccontata da Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giovanni Lindo Ferretti , Non invano, Mondadori, 2020. Massimo Zamboni, La trionferà, Einaudi Editore, 2021

VIDEOLABILE Piccolo compendio di immagini. CCCP Fedeli Alla Linea – Tempi Moderni (Nuovi Forti Interessanti) – BMG Video 1992 – VHS Consorzio Suonatori Indipendenti - KO De Mondo (immagini sul finire della terra) – Polygram 1994 – VHS e DVD Consorzio Suonatori Indipendenti - Un Giorno Di Fuoco – Polygram 1998 - VHS


Riflessioni su un libero cantore

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di Alessandra Freschini A proposito di “Non invano” libro di Giovanni Lindo Ferretti, (Mondadori, 2020) Giovanni ha fatto due scelte trasgressive: tornare a vivere nel mistero della presenza di Dio e tornare ad abitare la montagna, il suo luogo natale. Sono scelte trasgressive perché affermano la necessità di radicarsi alla propria identità culturale civile e religiosa e non essere inghiottiti nel non senso dell'immediato e dell'eterno presente, nell'annullamento dell'immaginario, nella glorificazione dell'io. La prima parola per entrare in questi due mondi è silenzio , il tempo del silenzio che permette di stare alla presenza del mistero dell'esistenza e di vivere nello stupore di essere parte di un ciclo cosmico. Lo “scandalo” consiste nel fatto che sono l'obbedienza e la sottomissione alla verità e alla giustizia a essere divine , non la realizzazione e l'emancipazione, tanto che il libero cantore dice che la libertà e una forma di disciplina. Nella preghiera, nell'amore per i cavalli, nell'appartenenza alla Mongolia espressione di energia primigenia, nello stupore di osservare i cambiamenti della natura nelle varie stagioni si impara a dimenticare se stessi a essere presenti a ciò che si fa, a non compiere azioni in modo automatico, a non essere rigidi sui proprio obiettivi e ad abbandonarsi al fluire della vita. Il fascino del selvaggio, dell'incontaminato, della sintonia con il respiro della terra è un altro modo per non asservire la propria coscienza alla schiavitù della città simbolo del tempo artificiale, della lontananza dalla natura, Caino è il fondatore della città, luogo dove la macchia del fratricidio rimane ma diventa anche luogo di rifugio, spazio costruito dall'uomo e si trasformerà in sfida a Dio con la creazione della torre di Babele. La seconda parola è ritualità : la liturgia è uno scrigno – dice Ferretti - in cui la storia dell'uomo è contemplata dalla creazione all'Apocalisse e il rito è un sigillo che certifica l'appartenenza a una tradizione proprio mentre la tecnologia ridisegna il mondo e i suoi tempi creando nuovi riti consumistici accompagnati da un disagio crescente per il singolo che non sa più stare in solitudine e compiere gesti salvifici per sé e per gli altri. Essere cristiani può nel suo caso diventare una scelta trasgressiva nel momento in cui si abbandona alla volontà di un creatore, nel momento in cui sceglie di avere tempo per stare con se stesso, con Dio e con il prossimo perché il peccato consiste sempre nel non avere tempo, nell'arraffare anziché aspettare, nel bruciare le tappe

anziché attendere il momento propizio, insomma un saggio è colui a cui piacciono le cose come sono e lavora sulle cose a partire da questo fondamento. «Risalire sui monti – dice ancora Ferretti - è come oltrepassare una frontiera per accorgersi del collasso di una civiltà e abitare l'Appennino permette di affinare lo sguardo sul NON INVANO di ciò che ci ha preceduto», è come se le persone del nostro passato fossero tutte lì a guardarci tra l'incuriosito e l'infastidito e anche il campanile sia lì a marcare il confine tra i vivi in contumacia, e i morti tutti presenti. Queste due scelte sono la sua risposta personale e sofferta di non appartenenza alla Babele moderna che sfida il divino nel suo delirio di onnipotenza ma di appartenere alla città santa a Gerusalemme. In “Paxo de Jerusalem”, l'autore intona «Gerusalemme santa ad Anastasis per dolorosa via»; la nuova Gerusalemme nasce in contrapposizione a Babilonia città del nuovo impero economico finanziario che vorrebbe ridurre la molteplicità a unità mortificante isolata e controllabile dimenticando la pluralità, l'identità nella diversità. La Gerusalemme che scenderà dall’alto incontrerà la Gerusalemme dal basso abitata dagli eremiti, dai pastori, dalle co-


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munità che prendono luce dall'inconoscibile, che tengono aperta quella soglia di contemplazione dell'impronunciabile, che sanno stare in quella tensione tra il caduco e l'eterno. La necessità di sempre maggiore silenzio di Ferretti va in questa direzione, il tono profetico che si ritrova nei suoi ultimi libri e cd fissa questa identità di chi vuole resistere alla disgregazione contrapponendo un mondo di dignità nella povertà, di resistenza al superfluo, alla mercificazione nella certezza di appartenere a un'altra civiltà: i giusti sono l'alternativa al nuovo impero finanziario mondiale, le beatitudini sono il loro manifesto, per questo la vera trasgressione è essere cristiani, essere fuori dall'eterno presente artificiale in un orizzonte di capovolgimento dei valori che si realizzerà nella città eterna. Gli umili, i diseredati i poveri in spirito, i miti, coloro che lottano per la giustizia abitano già ora “il santuario dal basso” che alimenta “la città dall'alto” e sono coloro che tornano sempre a misurare in base al discorso della montagna tutti i compromessi a cui scendiamo, tengono le beatitudini come sfida costante, come unità di misura. consapevoli che il mondo nella sua lontananza da Dio crocifigge proprio i giusti.

Photo by Angelo Trani

L'orizzonte è la Pentecoste dove ognuno ascolta la Parola nella pluralità delle lingue, orizzonte dove le lingue si comprendono, unico modo di parlare davanti a Dio con un' invocazione univoca. La sua è imbevuta di sapienza biblica che ha recuperato negli ultimi anni, è una lingua che si modella direttamente su quella biblica il lessico e le pause, l'essenza è biblica, lingua ieratica e visionaria che come i profeti coglie il confine che stiamo vivendo e la musica ne puntualizza e amplifica il senso. Durante i suoi concerti musicisti cantore e pubblico si ritrovano in un punto preciso della spazio vuoto nasce una vibrazione, cresce una tensione tra la meraviglia di ciò che non sappiamo e la consapevolezza che qualcosa è passato e si è rivelato. Nelle sue parole si sente l'autenticità di chi è credibile perché temprato attraverso la sofferenza del vivere e il coraggio di chi osa andare contro la corrente dei tempi nonostante gli svantaggi e le accuse. Ma è anche la lingua di chi è innamorato, «lui mi rapisce il cuore, mio Signore e mio Dio», e che costantemente rivolge il pensiero all'unico vero bene. È un cristianesimo che ha la forza di essere visionario, la sua fedeltà è nel dichiarare un'identità, nel sopportare l'opposizione del mondo contro Dio.


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Alla scoperta della ballata liturgica Storia di “Litania”: un concerto, un libro e un cd, di Giovanni Lindo Ferretti e Ambrogio Sparagna.

di Agostino Roncallo do Ferretti che dialoga con Ambrogio Sparagna e il gruppo Vox Clara, del quale fanno parte: Erasmo Treglia: ciaramella, ghironda, violino; Lorenzo Esposito: voce; Clara Graziano: voce, organetto, tamburello e danza; Annarita Colaianni: soprano; Arianna Rumiz: contralto; Vittorio F. D'Amico: tenore; Pietro Albano: basso. Si tratta di un album bellissimo, forse non sufficientemente apprezzato dal pubblico e dalla critica. Per questo siamo qui, a parlarne.

“Quando ho incontrato Giovanni la cosa che più mi ha colpito è stato il suo desiderio di ascoltare. Era così attratto dalle mie storie sui cantori e la musica popolare che rimaneva ore a sentire. Ogni tanto anche lui raccontava. Eccome raccontava! Parlava di pastori, di campanacci per gli animali, di transumanze di briganti. E così fra una storia, un canto, un pezzo di formaggio e un bicchiere di vino abbiamo scoperto che avevamo tante narrazioni comuni e che potevamo cantarle insieme. I nostri spettacoli sono nati così. Ne abbiamo proposti diversi ma quello che ci ha più unito è stato Litania: il nostro omaggio semplice e affettuoso a chi ci ha preceduto. A tutti quelli che con il loro amore ci hanno insegnato il valore della ricerca della semplicità e dell’ascolto della vita del mondo che ci circonda.” (Ambrogio Sparagna, Maranola, Domenica delle Palme 2016). Ambrogio Sparagna parla così della collaborazione con Giovanni Lindo Ferretti e di Litania, un album pubblicato nel 2004, registrazione di un concerto tenuto il 16 ottobre 2004 nel Tempio Valdese di Torre Pellice. Si tratta di un lavoro di ispirazione liturgica nella quale sono presenti alcune parti dell’Ordinarium (Signore pietà, Gloria, Credo, Santo, Agnello di Dio), Inni (Te deum), preghiere (Miserere, Salve Regina, Padre nostro), ma anche canti paraliturgici della tradizione popolare italiana arrangiati da Sparagna e alcune composizioni di ispirazione religiosa di Giovanni Lindo Ferretti (Paxo de Jerusalem, Madre, Intimisto). La tessitura musicale è costruita attraverso un uso articolato delle voci, protagoniste della partitura, che si alternano in un continuo gioco compositivo sia in forma monodica che polifonica. Su questo impianto, accompagnato dagli strumenti musicali popolari (zampogna e ciaramella, ghironda, armonium, organetto, torototela, tofa) e segnato da alcune azioni stilizzate di danza, si muove la voce di Giovanni Lin-

Ma cominciamo da alcune note biografiche. Giovanni Lindo Ferretti, cresciuto a Cerreto Alpi in provincia di Reggio Emilia, è uno dei padri del punk italiano. A Berlino ha incontrato Massimo Zamboni, con il quale nel 1982 fonda i CCCP Fedeli alla linea, ampiamente considerati uno dei più importanti gruppi italiani degli anni ottanta. Scioltisi nel 1990, nel 1992 sempre con Massimo Zamboni e assieme a Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli, fuoriusciti dai primi Litfiba, fonda invece il Consorzio Suonatori Indipendenti (CSI), scioltosi poi nel 2002. Furono questi gli inizi della sua carriera che non fu solamente musicale: come scrittore pubblicò infatti un resoconto del viaggio effettuato in Mongolia con Massimo Zamboni, un libro scritto a quattro mani dal titolo In Mongolia in retromarcia (2000), ma tra i tanti si può anche citare il recentissimo Non Invano (2020). Ambrogio Sparagna, nato a Formia l’8 novembre 1957, è un musicista ed etnomusicologo italiano, autore di numerosi saggi e pubblicazioni sulla musica popolare. Tra le sue attività si può citare la lunga attività concertistica di respiro internazionale realizzata in numerosi Paesi europei ed extraeuropei. In quanto suonatore di organetto, si è distinto anche per il suo significativo impegno nella didattica della musica tradizionale italiana. La scena che doveva presentarsi agli occhi dei presenti quel 16 ottobre del 2004 a Torre Pellice doveva essere davvero particolare: agli anziani frequentanti il tempio valdese si erano uniti giovani alternativi con giacche di pelle nera e anfibi. Non so cosa si aspettassero di vedere questi ultimi e non so la loro reazione quando Ferretti annunciò che quella che stava per cominciare era «una rappresentazione sacra» arricchita da «canti popolari, da testi tratti dal Vangelo apocrifo di Nicodemo, preghiere». Siamo qui per una preghiera, dice Ferretti introducendo il Magnificat, una preghiera cantata secondo i moduli tipici della dorsale appenninica che lega il nord e il sud Italia, una preghiera in una chiesa cristiana e non cattolica. Il testo è in latino (lo stesso linguaggio per perseguitarvi nei secoli, afferma l’artista) con musiche di Ambrogio Sparagna il cui organetto è qui accompagnato del coro Vox Clara. Raramente, forse anche grazie alla registrazione in presa diretta di Cristiano Grassini e Michele “Sem” Cigna, un concerto è stato così intenso e emotivamente coinvolgente.


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Dopo una Ave Maria recitata in latino è la volta di Madre, musica composta da Massimo Zamboni su testo di Giovanni Lindo Ferretti. Il pezzo era già stato eseguito dalla formazione dei CSI ma qui la carica di suggestione è decisamente più intensa. Il concerto prosegue con Sonno sonno, un testo tradizionale interpretato dal soprano Anna Rita Colaianni e musiche di Sparagna, che crea un medley agganciando al cantato una indiavolata Venita alla Capanna accompagnata dalla ciaramella di Edoardo Treglia e il tamburello di Clara Graziano. Interessante per il ritmo e la melodia è Regina degliu cielo di Ambrogio Sparagna, cantata a più voci tra cui spicca quella di Ferretti, il quale afferma: «La mia ben misera predisposizione al canto ha trovato in Ambrogio Sparagna un suo limite. Ci siamo frequentati, con reciproca soddisfazione per alcune stagioni. La sua orchestra di organetti avrebbe meritato doti canore che non posseggo, una lingua del Sud morbida e avvolgente che non conosco e non oso pronunciare tantomeno interpretare, un’attitudine “guascona” al far festa in piazza che non mi appartiene. Oltre al riconoscermi inadeguato alle aspettative suscitate che fare? Mi sono goduto la festa, fin che ho potuto». Estrema modestia è quella di queste dichiarazioni, Ferretti ha una vocalità molto particolare, sicuramente unica e certamente ricca di fascino. Segue Aras Màtei, composizione scritta e cantata da Lorenzo Esposito Fornasari, detto LEF, bolognese classe 1977, cantante, produttore e compositore che ha alle spalle innumerevoli collaborazioni con musicisti di tutto il mondo, partecipazione a band ed esperienze come produttore oltre che come autore di colonne sonore, musiche per la pubblicità e per progetti di video art. Il Miserere torna a essere un canto polifonico grazie all’apporto della corale Vox Clara. Il pubblico appare entusiasta e applaude a lungo e, proprio a proposito di applausi, vale la pena di citare una dichiarazione dello stesso Ferretti secondo

Photo by Patrizia Ruggero

il quale «se il corpo tende al movimento: contenerlo in tensione. Sfidare l’immobile. Non strascicare parole costringendole in melodie accattivanti, mantenerle pure, sferzanti. Inibire, bloccare l’applauso sul nascere. L’applauso disperde e vanifica la tensione. Anche i cavalli che ho ricominciato a frequentare subito dopo ne sono infastiditi, intimoriti quando non spaventati». L’applauso quindi, come spezzatura che scioglie la tensione. Diciamo: forse. In realtà l’applauso corrisponde anche a una pausa durante la quale gli stessi artisti sul palcoscenico hanno bisogno di avvertire quanto il pubblico stia apprezzando: oltre a essere dunque un momento in cui i musicisti hanno la possibilità di riprendere fiato per prepararsi al prossimo brano in scaletta, il plauso diventa anche uno stimolo, un modo per il pubblico di dimostrare il proprio apprezzamento e per i musicisti per verificare la qualità della loro performance. In Madre Maria, il lamento di Ambrogio Sparagna, la voce di Ferretti si impone con una grande carica evocativa, anche nei vocalizzi. La composizione ricorda da vicino, nel timbro, La buona novella di De André. Si nota qui la sinergia con la quale i due artisti hanno si sono trovati e hanno messo in cantiere questo lavoro; Ferretti in particolare rivela di aver avvertito fortemente questa sintonia quando sostiene come ci siano «momenti in cui il ritmo comincia a crescere poi vorticare e, stando nel bel mezzo, par di ascendere al cielo e bisognerebbe spiegare le ali, spiccare il volo. Oppure battere e ribattere punta e tallone del piede per ancorarsi a terra circoscrivendo lo spazio della danza che bacino, busto, spalle, braccia e mani animano in movenze stilizzate e ritualizzate che ammaliano e seducono. Niente da fare, anche se volessi non è la mia storia ma il palco di Ambrogio mi ha riservato una sorpresa: ha fatto di me un cantore, mi ha rigenerato nella mia tradizione: gente di montagna, gente che fa buio avanti sera, gente da basto, da bastone, da galera».


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Il Padre Nostro e il Santo sono capolavori di polifonia in cui la musica di Ambrogio Sparagna trasforma incredibilmente in ballata un canto liturgico. Ferretti recita a seguire le Lorica accompagnato dall’organetto. La “lorica” è una giaculatoria in cui la parola riacquista il suo potere fonico indipendente dal suo significato, grazie a sottili corrispondenze di vibrazioni sonore l’oratore può mettersi in contatto col divino e agire sulla natura e sull’esistente modificandoli secondo la propria volontà ed evitando così il destino avverso; del resto la Lorica nel cristianesimo celtico era la corazza di cuoio indossata dai militi, quindi uno strumento di difesa. Lo stesso Ferretti poi legge il Vangelo di Nicodemo, un vangelo apocrifo con attribuzione pseudoepigrafa a Nicodemo, discepolo di Gesù. Datato al II secolo, è scritto in greco. Similmente ad altri vangeli apocrifi della passione (Vangelo di Gamaliele, Vangelo di Pietro) descrive la passione di Gesù discolpando Pilato. Fa parte del cosiddetto Ciclo di Pilato, una serie di scritti apocrifi più o meno antichi centrati sulla figura di Ponzio Pilato. Si arriva così a L’orologio della passione, scritto e cantato da Ambrogio Sparagna con l’accompagnamento, indubbiamente emozionante, della ciaramella di Erasmo Treglia. Dopo Gloria scritta da Sparagna si arriva a Intimisto, una meravigliosa composizione che Ferretti aveva già registrato con i CSI in Ko de mondo. Ma questa versione esalta le qualità canore e polifoniche del pezzo. Dice a questo proposito Elisabetta Brizio che «drammaticamente profonda è la versione che compare in Litania, per una maggiore partecipazione emotiva di Ferretti cantore, per la sottolineatura espressiva della seconda voce. Il testo è comunque identico: un autentico capolavoro. In Intimisto l’uso emotivo della parola ha esiti più lineari e la forma dell’espressione pare uniformarsi all’immediatezza dell’ispirazione. Vale veramente la pena riascoltarlo, quando si avverte quella indifferibile necessità di allontanare pensieri meschini adombrati di risentimento e di stare in stretto contatto con parole e voci intensissime». Tra un brano e l’altro, Ferretti ama leggere testi sui popoli oppressi: valdesi, ebrei, raccontare di roghi, di forni crematori, della tragedia vissuta dalle popolazioni occitane e ancora di crociate e dell’insensatezza della guerra. È il caso di Occitania, testo in cui Ferretti parla anche di Montségur, l’ultima fortezza catara sulle montagne pirenaiche, un luogo ancora visitabile dove si rifugiarono i resti della popolazione catara e sul quale aleggia oggi, ancora, un alone mistico. Per l’artista è l’occasione di parlare della brutalità dei roghi al tempo dell’Inquisizione e dei campi di sterminio all’interno dei quali i forni crematori vengono definiti come “il progresso dei roghi”. L’umanità, sembra sottintendere amaramente, progredisce sempre.

Paxo de Jerusalem è una delle composizioni di Maroccolo, Magnelli e Zamboni, membri dei CCCP e già registrata nell'album Epica Etica Etnica Pathos uscito nel 1989 per Virgin Music. Ma anche questa versione, dal testo modificato rispetto all’originale, appare forse migliorata acquisendo nella polifonia une energia che stupisce. L’album si avvia poi alla conclusione con una Ave Maria cantata dal soprano Anna Rita Colaianni e seguita da Ed io Giuseppe, recitazione di Ferretti. Si arriva così all’incredibile (è dir poco) Te Deum, estesamente Te Deum laudamus, un inno cristiano in prosa di origine molto antica. Siamo di fronte a un concerto ma anche un libro e un cd, che certamente meriterebbero una riedizione, considerando che la prima ristampa del 2016 è andata esaurita. Ci piace, in questo senso, concludere proprio con le parole di Giovanni Lindo Ferretti: «Di quelle stagioni a garzone del Maestro Sparagna resta un documento, che io non posseggo più, le copie che avevo le ho regalate acquisendo meriti e riconoscenza, ma ora ne sento mancanza. È ora di ristamparlo. È la registrazione di un concerto di musiche e canzoni popolari della devozione cattolica tradizionale. Litania l’abbiamo chiamato perché l’innodìa mariana ne è fulcro. L’abbiamo registrato nel gran Tempio Valdese, uno dei pochi luoghi d’Italia, il più importante, in cui quelle parole e quelle melodie non sono mai risuonate nei secoli».


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In viaggio, volentieri di Mauro Giovanni Diluca

All’inizio è sempre geografia. Parola che mi porta a casa, parola che mi porta via. Basta pensarla, ne nasce storia. (GLF, da “Reduce”, p.41) Nel percorso musicale e soprattutto personale ed umano delle anime dell’esperienza CCCP - CSI - PGR (Giovanni Lindo Ferretti per tutto l’arco e Massimo Zamboni fino ai CSI), i luoghi e gli itinerari che li collegano hanno un ruolo fondamentale. Senza alcuni luoghi, non avremmo avuto i migliori album, e nemmeno la band. Sullo sfondo c’è un’epoca in cui viaggiare è per la prima volta alla portata di molti, sicuramente di giovani volenterosi. Basta alzare il pollice e dormire in sacco a pelo. Una libertà di movimento conseguente al benessere materiale ed economico diffuso, al venir meno dei vincoli della famiglia tradizionale e alla maggiore libertà civile e politica che andava caratterizzando la seconda metà del secolo scorso i paesi del “blocco occidentale”. Una cornice nuova in cui anche uno come Ferretti, nato in montagna da una famiglia che aveva conosciuto ristrettezze e orfano di padre, può essere mandato a studiare in città e lì, incontrare il mondo. Giovanni e Massimo sono originari di piccoli paesi dell’Appennino emiliano in cui il richiamo delle trasformazioni in atto sul pianeta ha la forma di poster propagandistici, come quello cino/mongolo in cameretta di Zamboni, o di reportage televisivi della Primavera del ‘68 che bucano casa Ferretti. Racconti e fascinazioni di un intenso cambiamento sociale arrivano sempre più frequentemente anche attraverso libri, riviste e canzoni. La fantasia e la rivoluzione assediano il potere e la tradizione. Ferretti ricorda spesso questo momento, a posteriori, come quello in cui la “languida catena” delle generazioni, dell’infinita sequenza dei Giovanni e dei Francesco, vissuti con gli stessi nomi e gesti, compiendo lo stesso lavoro più o meno nello stesso modo, e morendo delle stesse malattie, si spezza. È il momento in cui la civiltà contadina/pastorale cede il passo al mondo moderno. “Quando con i primi peli le idee impazzano” non si può resistere: il sangue bolle ai richiami dei nuovi ideali e della storia che cerca i suoi protagonisti. Si parte per conoscere e per contaminarsi, si viaggia ovunque sia possibile e ogni volta che si può: Italia, Europa, Mondo. Trascorsi gli anni della gioventù, si continuerà a viaggiare ma per qualcosa di più simile a un richiamo dell’anima, un “fare vuoto” per riconoscere e accogliere l’altro in sé, realizzando che “viaggiare è essere viaggiati”. Una propensione che faremo nostra seguendo le tappe (e le età) di Giovanni e Massimo.

Comunque, a qualsiasi età, vistosi movimenti o meno, Zamboni e Ferretti sono stati viaggiatori veri. Quelli che partono per incontrare i luoghi, con poco o nulla appresso e alleggerendosi ancor più nel tragitto; quelli che del viaggio poi elaborano riflessioni continue e importanti, intrecciando i fili delle trame percorse. Un modo di fare esperienza dei territori che è nucleo fondante delle loro esistenze e che fluisce nelle canzoni in modo sorprendente, vivido, unico. Il viaggio è la vita ed è la musica, eterno ciclo del tendere a e del ritornare. E’ da quel fare vuoto nella tensione di andare che scaturisce la fervida vicenda di suoni e parole che è stata la musica dei CCCP/CSI/PGR. In viaggio, dall’inizio alla fine e passando per l’apice, dopo l’epico itinerario in Mongolia. Ma andiamo per ordine, procediamo per tappe, che tanto poi il viaggio si ingarbuglia da sé.

IL PIANO PADANO Dammi una mano, dammi una mano, ad incendiare il piano padano Ferretti e Zamboni da ragazzi lavorano e studiano tra Reggio Emilia e Bologna. Negli anni ’70 l’Emilia Romagna è la regione più rossa fuori dai paesi del Blocco socialista. Ferretti frequenta il collettivo universitario, milita in diverse formazioni politiche di sinistra radicale, soprattutto Lotta continua, in bilico tra attività legale e illegale. “Tutto proteso al futuro”, si trova in Portogallo tra le barricate della Rivoluzione dei Garofani, vicino a personaggi di rilievo ed episodi drammatici del terrorismo che ha segnato quegli anni, su tutti l’assassinio dell’amico Alceste Campanile con cui condivideva casa a Bologna. Un’ideologia e una passione politica molto sentite ma sempre vissute con cuore e spirito critico. Questa attitudine lo porterà spesso su posizioni scomode e irriverenti. Col trascorrere degli anni e anche in


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Massimo Zamboni, di famiglia borghese, frequenta la facoltà di Lingue nella città felsinea. Divora libri e musica, specialmente americana, Bob Dylan, Neil Young, Lou Reed, i Jefferson Airplane. Poco propenso alla teoria, abbandona dopo tre mesi il corso di chitarra tenuto all’ARCI di Reggio Emilia da Teo Spagna, fratello della nota cantante. In perenna urgenza creativa, suona continuamente e fonda due gruppi, i Ryna Zine e i Frigo (in omaggio alla rivista Frigidaire), in cui collabora il primo bassista dei CCCP, Umberto Negri.

virtù degli incontri nelle terre di confine che qui trattiamo, avverrà un completo distacco dall’idea social/comunista. Trovandosi “di pelle” triste e stanco del conformismo dell’alternativa, Ferretti finisce ai ferri corti con una “scelta ideologica rivoluzionaria tesa alla soluzione dell’ingiustizia sociale. Giustificata, poi giustificabile, palesemente ingiusta, poi paranoica” che toglie alla società “la componente inquieta, protesa, quindi vitale”. In età matura, fatta “pace con Dio”, troverà nel conservatorismo di ispirazione cattolica lo sguardo a lui più congeniale sulle cose del mondo. Racconteremo alcuni passi di questa guerra personale che lo ha “riportato a casa”, un conflitto aspro e lungo di cui si sente letteralmente un reduce. Tornando al periodo giovanile Giovanni, dopo tre anni di università, grazie a un incontro casuale in autostop, ha l’opportunità di lavorare per il Centro di igiene mentale dell’USL di Reggio. Diventato referente di un gruppo di malati psichiatrici, approfondisce il lato più oscuro e complesso degli esseri umani, a volte devastante per difficoltà. L’esperienza con la psichiatria va annoverata tra quelle che lasciano un’importante eredità del periodo, questa mai rinnegata anzi, coltivata. Nucleo positivo di cui fanno sicuramente parte due incontri con personalità di spicco del mondo accademico e intellettuale. Il primo con il filosofo non allineato, situazionista e dadaista Franco Berardi BIFO è probabile abbia contribuito ad aprire e fertilizzare l’immaginario che produrrà le esibizioni di corpi, quel “teatro primitivo” che saranno i concerti dei CCCP. L’altro, fondamentale, avviene attraverso le lezioni di una figura monumentale dell’etnomusicologia, Roberto Leydi, suo insegnante al DAMS. La musica popolare, la musica rituale e sacra sono già preincise nell’esperienza culturale di Giovanni bambino, “mal che vada ne faremo un cantante” sospirava la sua mamma quando accompagnava lo zio ai matrimoni paesani per intonar quartine di augurio. Leydi e l’etnomusicologia risvegliano un profondo interesse per l’espressività tradizionale e il rapporto tra musica, rito, storia, classi sociali. Un percorso musicale e personale che Giovanni considererà a valle il suo incontro di gioventù più fortunato e che riprenderà nella fase post CSI, nelle vesti di “cantore” di svariate tradizioni musicali italiche. A chi fosse curioso, consigliamo la visione della recente e vivace intervista che ha coinvolto Giovanni Lindo per i 50 anni del DAMS, di cui il nostro fu tra le prime “leve” (1).

Trova un equilibrio tra la vulcanica vitalità di musica e parole nella beat generation, da cui si sente in qualche misura chiamato: “immaginavo che avrei fatto qualcosa legato ai viaggi, senza sapere bene cosa”. E così Massimo gira il mondo, facendo la spola tra Londra, Messico, USA e Guatemala. E’ proprio in uno di questi viaggi che approda nella prima e fondamentale tappa del sodalizio musicale che gli cambierà la vita, decidendo di fermarsi in quella città “spartiacque”, armata e divisa eppure libera, meticcia ed esplosiva.

BERLINO Zum Umsteigen! (Al cambiamento! Cartello fuori dalla stazione di Berlino) Berlino, in quegli anni, è una tensione. Una palla gonfiata al limite, al cui interno si trovano due camere d’aria contrapposte, la pressione che preme, i confini rinforzati. Una parte è come un satellite, porto franco e attrattore di genti assortite in cerca di sé; l’altra è ruvida, armata, più millantata che conosciuta. È una città di vecchi disorientati, giovani sbandati e sempre più turchi a sostituire le manovalanze slave e italiane. ”A Berlino scoprii il mondo moderno: era un posto da film. All’esterno, cioè nell’ex DDR, c’erano i nemici, all’interno non c’era nessuna legge: era il rifugio di tutti i disperati tedeschi, si potevano occupare le case sfitte, non c'erano famiglie, solo i quartieri degli omosessuali, dei turchi e dei giovani. Kreuzberg”, chiosa Ferretti, è “il cuore della nuova Europa”.


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Molta gente arriva a Berlino perché si vive con poco e c’è spazio fisico e creativo per sviluppare le proprie attitudini liberamente. Nei circoli, teatri, librerie “si è del tutto indifferenti agli schemi altrui [...] [e al contempo si può] costruire coordinate di reciprocità e mutua assistenza di cui Berlino diverrà insegnante e portavoce”, conferma Zamboni. Si incrocia molta gente interessante con cui facilmente si trova il modo per sperimentare nuove forme di espressione comune e di socialità. Per esempio, la rassegna Die genialen dilettanten, spettacoli non professionistici che mirano a coinvolgere emotivamente il pubblico, colpisce il duo per il suo spirito essenziale, punk: più che probabile sia tra le fonti di ispirazione per i futuri show dei CCCP. Così come Tuwat, Fà qualcosa nello slang cittadino, una sorta di convention dedicata allo spirito libero e comunitaristico che si respira in città che, per i due emiliani, è pure presagio di un incontro importante che avverrà in quella “psicomegalopoli” di cui stanno per diventare cittadini. Nell’autunno del 1981 Ferretti ha 28 anni, si è preso una lunga pausa dal lavoro con i malati psichici (che poi lascerà del tutto). L’impiego all’USL di Reggio Emilia lo appassiona tanto quanto lo attanaglia. Ci sta male, ha avuto un'ulcera dopo l’altra, quattro operazioni allo stomaco. Ha sospeso l'università, anche se in Germania maturerà l’idea di scrivere una tesi sul punk con Leydi, ed è partito come aveva fatto altre volte (in Algeria, in Jugoslavia...), per un luogo da cui si sente richiamato, con pochi mezzi e soldi in tasca.

Zamboni è in città dall’estate, vive in una casa occupata tra le tante abbandonate. Fa il cameriere “Da Salvo” a Kreuzberg e assorbe, respira e fotografa la città metro dopo metro. Racconterà che "molte delle nostre canzoni sono nate a Berlino: 'Punk Islam' era una scritta che ho visto in giro per la città, 'Fedeli alla Linea' era il nome di un locale”.

E in un locale-discoteca avrà luogo l’incontro che gli cambierà la vita. Massimo sta ballando i Doors e, quando viene presentato da un’amica comune a Ferretti, l’ultima sera in città prima di partire per la Tunisia, “si attua un riconoscimento. Immediato. Non mediato. […] Un sistema a incastro. Formidabile l’ego di coppia, noi. Essere speculari; è tutto quello che ci serve, per superare il Muro”. Inizia così l’avventura dei CCCP. La scintilla divampa presto in fiamma che imprime una decisa svolta alle esistenze dei due ragazzi, e forse anche a quella della musica italiana. Il progetto di tesi di Ferretti si trasforma in un progetto di vita. Nulla sarebbe accaduto senza quella città, muro e porta tra Est e Ovest che fu Berlino fino alla riunificazione della Germania, “la cosa più bella che avesse l’Europa, e che non avrà più, dal punto di vista della creatività e della possibilità di esprimere un’emotività fortissima. Era una situazione abnorme, assolutamente insostenibile. Dava quindi possibilità alle emozioni di uscire“. Kein Berlin, kein CCCP, insomma. A questo punto va detto, prima di proseguire per la prossima tappa, che Berlino fu inizio ma fu anche fine. Nella capitale tedesca, 18 anni dopo, si chiuderà il sodalizio FerrettiZamboni, su cui si è detto tanto e forse tutto. Ferretti: “A Berlino è iniziata la nostra storia e a Berlino si chiude definitivamente. Il disco previsto non si farà più: con Massimo abbiamo scoperto che le nostre strade ormai sono diverse e inconciliabili sia dal punto di vista esistenziale che da quello musicale. Mi dispiace ma non c’è altro da dire”. “Era il decennale della riunificazione, e mentre fuori festeggiavano, io e Giovanni eravamo nel pieno di una crisi personale" dirà Zamboni vent'anni dopo, durante il tour dello spettacolo teatrale/transmediale dedicato alla città "Sonata a Kreuzberg". Massimo resterà molto attaccato alla capitale anche negli anni a venire. Pubblicherà il diario di quel mitico periodo, “Nessuna voce dentro” e, per il ventennale della Caduta del muro, presenterà “Live in punkow”, un reading incontro e attraverso i luoghi emblematici della città, percorsi nel tempo e nello spazio.

A22 Quando lasciano il suolo tedesco, i due non abbandoneranno mai Berlino. Scopriranno di restarci dentro mentalmente, visceralmente e pure a livello fisico perché, spiega Ferretti, Berlino inizia nella Bassa emiliana, esattamente a Carpi, dove comincia la A22, l’autostrada del Brennero. Proprio a Carpi i nostri frequenteranno il Tuwatt, un locale punk in cui assolderanno l’Artista del Popolo, un giovane Danilo Fatur che nel locale si esibisce come barista e spogliarellista. Quando inizieranno a sfornare canzoni, la continuità tra Berlino e Emilia sarà un tratto ben riconoscibile, un distinguo del punk all’italiana. Alla regione che gli ha dato i natali, dedicano la celeberrima “Emilia Paranoica” ma anche “Rozzemilia” il cui testo non lascia dubbi sulla vision patria. “Sazia e disperata / Con o senza TV / Piatta, monotona, mo-


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derna, attrezzata, benservita, consumata / Afta epizootica, nebbia, calce, copertoni bruciati / Cataste di maiali sacrificati. [...] Bi tri quadri penta sex tutti / E tutti sono onesti e tutti sono pari / E tutti hanno le palle democraticopopolari / E tutti sono onesti e tutti sono pari / Dammi una mano, dammi una mano ad incendiare il piano padano [rit] / Provincia di due imperi / Provincia industrializzata / Provincia terzializzata / Provincia di gente squartata / Un quarto al benessere un quarto al piacere un quarto all'ideologia / L'ultimo quarto se li porta tutti via”. L’influenza emiliana si concretizza anche nell’appropriazione di ritmi e fraseggi della tradizione locale, come per la polka antimilitarista “Battagliero”, un omaggio punk all’omonimo famoso valzer emiliano dell’epoca d’oro del liscio. In breve, a dover collocare i CCCP, noi li vediamo ben piantati nella A22. Un evidente ossimoro, trattandosi di una strada ed essendo Zamboni e Ferretti viaggiatori per antonomasia. In effetti però, alcuni posti importanti che cominciano a bazzicare nella fase CCCP, per esempio durante la leggendaria tournèè in URSS(2), porteranno il loro contributo a totale maturazione solo con le successive frequentazioni. Pensiamo a come Ferretti parla della Russia in “Reduce”, delle sue quattro visite in quattro momenti storici significativi per quanto diversi tra loro. Oppure ai viaggi nella exJugoslavia, luogo di transiti, esperienze e ispirazioni importanti, come vedremo meglio in una delle prossime tappe.

FINISTÈRE, BRETAGNA Vistosi movimenti sulla Terra Grandiosi, necessari Futili, patetici Un tempo la fine del mondo conosciuto, la penisola bretone si allunga nell’Atlantico, attraversata da venti impetuosi, popolata da leggende, ballate e boschi incantati. Qui nascono i CSI, in una “sala parto” che è ancora territorio di tensione creativa e di confine, più fine che con, giacché, come vedremo poi, ne uscirà un KO de mondo (3). Intorno, tutto cambia rapidamente. Dopo il Muro cade pure il regime in URSS e la guerra esplode in Europa a un passo, nella amata ex-Jugoslavia. Anche il gruppo si trasforma, diventando decisamente altro: entrano nuovi musicisti, si cambia totalmente tono e musica. Secondo Ferretti si cresce, "c'è bisogno di ripensare il mondo, perché gli anni ‘80 ci hanno distrutti. Solo che la rabbia di un adulto è diversa da quella di un ragazzo. Prima ci riconoscevamo nel punk, ed oggi crediamo che il futuro non sia più nella velocità, ma nella lentezza, nel lasciare scorrere. Per questo la Bretagna, luogo di aria, di spazio, di correnti".

L’esperienza punk, emiliana filosovietica (e non, come ha più volte chiarito dagli interessati, filocomunista) dei CCCP regala album e pezzi innovativi, gustosi, estroversi. In alcuni casi, profondamente toccanti come Annarella, da molti considerata la più bella -e non a torto- canzone d’amore della recente storia musicale italiana. E poi crolla il muro. Sull’autostrada il confine si sposta visibilmente, con le sue tensioni drammatiche, storiche e creative. E’ finito un mondo, è finita la strada, finiscono i CCCP.

Dice Massimo Zamboni a Rolling Stone nel 2019 che “i CSI hanno avuto una nascita romanzesca. Il volo di ritorno da Mosca, la somma delle insoddisfazioni e delle ansie personali coagulata attorno a un'idea forte, il tutto ha causato una moltiplicazione. Io sono stato parte di quella moltiplicazione, esplorando assieme ai miei compagni la bellezza, la fragilità, il potere di avere dato vita a una creatura più grande di noi”. Giorgio Canali, una fondamentale new entry del sodalizio, vive per la maggior parte del tempo in Francia lavorando con i Noir Desir. È anche per questo che il dito puntato sul mappamondo finisce (finisce è il verbo esatto) sulla Bretagna; con una bella carica di tolla sulla faccia, il gruppo chiede e ottiene dalla PolyGram i soldi per andare un mese al maniero di Prajou, Finistère, a comporre il primo album.


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pio in A tratti: Consumati gli anni miei, vistosi movimenti sulla Terra, / grandiosi necessari, futili patetici / Come fare non fare, quando dove perché / E ricordando che tutto va come va / Ma non va, non va, non va../ Non fare di me un idolo mi brucerò, / se divento un megafono m'incepperò, / cosa fare non fare non lo so, / quando dove perché riguarda solo me, / io so solo che tutto va ma non va / non va, non va, non va, non va / Sono un povero stupido so solo che / Chi è stato è stato e chi è stato non è / Chi c'è c'è e chi non c'è non c'è.

MONGOLIA (IN RETROMARCIA) Il vento, l’Oceano e le scure terre bretoni riverberano in pezzi come Home sweet home, nel paesaggio sonoro di La lune du Prajou, con la voce di Ginevra di Marco che accarezza ogni cosa. Sonorità e parole si allontanano decisamente dall’energia punk, aprono verso il paesaggio naturale, entrano in connessione con i cicli del giorno e della notte: “Per passeggiare preferisco all'alba la brughiera, / batte la pioggia bretone sui passi e li rincuora, / per contemplare il mondo l'alto di una duna, / atterrato dal vento cerchio arancione e basso è il sole.”

“La Mongolia somma il mio luogo più lontano e più intimo. Taglio profondo tra il prima e il dopo, non ferita ma sutura tra tutto ciò in cui sono venuto al mondo e ciò che, nascosto, invece di seccare è germogliare. Da lì ho reimparato quello che ero sotto ogni incrostazione cumulato.” “Tutto è nuovo ma niente ci sorprende’ Massimo Zamboni

Anche altri pezzi non strettamente collegati alla Bretagna risentono di questo sguardo obliquo e potente, come l’abbraccio alle tradizioni solari di Fuochi nella notte, o la splendida ballata Del mondo, recentemente cantata da Silvestri e Gazzè a Sanremo e grazie a ciò apprezzata anche da nonni e vicini di casa. L’album che sforneranno a battezzo dell’epoca CSI è Ko de mondo (1994), che è pure un gioco di parole che ancora rimanda all’Emilia, perché Codemondo è un paese della Bassa. È un album che, pur restando in tema di viaggi, spalanca nuovi orizzonti, chiude percorsi ed epoche, sorprende per l’essenzialità languida, il minimalismo di alcuni pezzi e la coralità di altri. Ancora una volta si canta di scelte e viaggi, ma in modo molto differente dal passato, come per esem-

Photo by Claudio Martinez

Da bambino Ferretti prende le misure del pianeta verso est, sull’enciclopedia Conoscere e con la traversata di Michele Strogoff verso la città più fredda della Terra, Irkutsk, Siberia orientale. Zamboni pure è rimasto sedotto dalle immagini della propaganda cinese, specialmente quelle che ritraggono giovani mongoli a dorso di cammello. Scene che portano all’esotica Mongolia, alle brughiere sterminate percorse dai nomadi con le gher (le tende), i cavalli e le mandrie di bestiame. Incantano gli abiti colorati con cui si bardano i discendenti di Attila e Gengis Khan, “barbari” che dominarono su mezzo mondo e che oggi professano lo sciamanesimo o il buddismo tantrico-tibetano. La Mongolia, per anni un’utopia vaga nella testa dei due musicisti, a mano a mano si trasforma in meta agognata, attesa, corteggiata, rimandata e poi servita, inaspettata, su un piatto d’argento dall’associazione Soyombo(4). E’ il momento di partire per un viaggio difficile, quello in cui si cercano risposte a domande scomode. Ferretti si interroga su “Come viaggiare, oggi, nel 1996? Di che senso caricare le nostre aspettative, come sottrarsi alle colpe che sempre accompagnano chi si muove? Forse il modo di esserne esenti o perlomeno attenuare il flusso di infiltrazione e sgretolamento che ogni nuovo


arrivo comporta, sta nell'accettarne la natura profonda, e indifferente nella sostanza. Perché questo abbiamo imparato, che a dispetto di ogni nostro strepito o clamore la Terra rotola via silenziosa nel buio, e delle nostre eco rimane appena un soffio, intermittente”. Una consapevolezza ben radicata e matura, che tornerà sempre, perché “tutto passa e tutto lascia traccia” come canterà poi con i PGR in Cronaca montana. Partire con questa disposizione di spirito permette a Zamboni e Ferretti di fare il vuoto di aspettative, di mitologia, di bisogni da soddisfare: “è nel vuoto che si possono fare gli incontri veri. È nel vuoto che si possono iniziare conti seri. È nel vuoto, al di là dei mille lacci laccetti lacciuoli determinati dalla socialità, che può comparire la propria essenza come immagine altra di sé, ben più profonda, fondante. L'impatto dell’incontro è fulminante. Il tuono nel cielo sereno. Timore. Tremore. Eccitazione. Ansia. Paura. Avventurarsi in quello spazio è accedere alla vita”. Un concetto di vuoto di cui abbiamo già accennato e che è talmente fondante ora, per il gruppo, da essere scelto come titolo dell’album, Tabula Rasa Elettrificata. Elettrificata in omaggio al tempo moderno che ha provato a migliorarci le vite, in Mongolia testimoniato esclusivamente dalla rete elettrica; pali ovunque nella steppa, fragile discontinuità al piano in cui si perde l’occhio.

Il fare vuoto getta un ponte verso un orizzonte perduto eppure mai dimenticato, a un passato che riscoprono, attualizzano. Non lo idealizzano ma ci si confrontano, svuotandosi per un dono all’ospite o un’offerta agli Ovoo buddisti. Lasciando al destino un pezzo di sé, fanno spazio per accogliere “l’altro dentro di sé”. Distacco e presenza, in equilibrio, fanno un’occasione da accogliere...volentieri. C’è una storiella che vale più di tante parole, Ferretti la racconta nel libro-diario scritto a quattro mani con Zamboni, Mongolia in retromarcia; “C’è un buon esempio, quando due fratelli Polo, nel 1200, vengono invitati a Pechino dall’Uzbekistan ed essi, candidamente, rispondono solo con una parola. “Volentieri”. È un “volentieri” verso un sogno di bambino, la Mongolia. L’infanzia del mondo nomade, del mondo che nelle steppe dell’Asia centrale è “Odorante di sangue fertile, Rigoglioso di lotte, moltitudini // Splendeva pretendeva molto / Famiglie donne incinte, sfregamenti / Facce gambe pance braccia / Dimora della carne, riserva di calore / Sapore e familiare odore”. Il viaggio

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porta proprio lì, indietro (in retromarcia), dall’altra parte del pianeta eppure in continuità con lo stesso parallelo (il 45°) di casa Emilia. La steppa è luogo di infanzia letterale, trascorsa nelle dimore familiari del mondo antico, della civiltà contadina o agro/ pastorale che dir si voglia, del vivere con gli animali e con la terra: del mangiare quando si ha fame e dormire quando si ha sonno. I mongoli che incontrano vivono ancora così. Abitano case che si smontano, allevano cammelli, cavalli, ovini e caprini, di cui bevono il latte fermentato e, se esagerano, si sfidano a rotta di colla su fuoristrada UAZ, a slalom tra la merda. Merda che in Mongolia è carburante e, come la neve per gli Inuit, ha cento nomi diversi a definirla a seconda di stati, usi e provenienze. Viaggiano i nomadi senza un centro, spostandosi su percorsi a mente europea incomprensibili. Lo spazio è senza limiti e sembra impossibile, ogni giorno, imbattersi almeno in una tenda o un cavallo. Ogni incontro è la staffetta ininterrotta di una storia, di una informazione, per gente che si stanzia isolata eppure ama incontrarsi; e quando lo fa, come per i giochi del Nadaam, si tiene stretta fisicamente(5). Uomini, donne e bambini cantano bene e spesso, in particolare i canti polifonici, due-tre suoni emessi contemporaneamente da naso, palato, gola. Chiamata anche polifonia delle tre età, è una disciplina apprezzata, richiede allenamento e anni di sacrificio. A Zamboni spiegano alcuni testi: si canta un ricordo legato a una collina, a un bosco caro; per il chitarrista quell’Homij (il canto), riesce a materializzarteli davanti, sei tu che li percorri, sei tu quella foresta dove “tutto è uguale a tutto sempre, e basta la musica adatta per ricordarlo”.

C’è spazio anche per un’ulteriore prova di cosa abbia significato l’esportazione forzata di socialismo e democrazia. Ferretti ne parla appena arrivato a Ulan Batar in treno, con la transmongolica. In un passato recente, i mongoli sono stati massacrati da russi e cinesi. È la “fine del viaggio” per quanto riguarda gli orrori delle dittature connesse al comunismo. Un altro significato di Tabula Rasa, in effetti, è politico, e richiama lo sterminio di genti e culture. Un tempo, la capitale mongola si chiamava Urga, conosciuta come la Città dei cento monasteri. Tem-


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pli rasi al suolo dalla furia di dominio e controllo dei vicini regimi, genocidio culturale ancora in atto nella Mongolia meridionale o cosiddetta “cinese”. A un livello interiore, la Mongolia è un viaggio di svolta dell’anima, di riappropriazione dell’infanzia su un piano magico e simbolico. Si torna a sé nell’incanto di un percorso a spirale, di un Ulzii, una linea decorativa di vesti, edifici e gioielli mongoli che sale, contorta, si piega, crolla, risale, si spezza. Il significato di Ulzii è “Felicità senza limiti”; l’essere, rilassato e risvegliato, nelle pieghe della vita, materiale e invisibile; è un fiume che scorre e “ciò che deve accadere, accade”. Non teme il tempo, indugia, si contorce, vive. Ci si riconosce attraverso “un camminare lento e zigzagante tra l'interiorità e la magnificenza dell’esterno. La volontà dell’essere e di necessità contingenza. Un viaggio di mesi in Siberia insegna ciò che si può imparare d’inverno nelle valli intorno a casa, se lo si cerca”.

Anche le parole di Zamboni nel libro sul viaggio in Mongolia raccontano di questa rivelazione, mentre ci catapultano tra le gher; “Io questa nottata l’ho già vissuta, spalanco gli occhi a questa storia di 35 anni fa, so che tra poco un cavallo tossirà e una donna anziana in ginocchio verserà del latte da un mestolo in alluminio. Questa casa la conosco tutta, so che non ha chiodi, è completamente smontabile e smontata ogni anno, è una dimora estiva nel periodo dell’alpeggio; il tetto è impermeabilizzato dalle cortecce rovesciate delle betulle, rosse, ricoperte di piode di terra ed erba, così da sembrare un prato in aria. La riconosco, è la collina, la capanna di tronchi dove ho abitato tutti i sogni da bambino, assieme ad amici miei, eroi di carta o di celluloide da cui non ci si libera mai. So tutto, conosco tutto ma, credetemi, non mi sento un geometra impazzito in estasi per il selvaggio nel mese di ferie. Mi trovo indisponibile a barattare la vita per dei week-end liberi, ma questo non è un proclama, vale solo per me. Non si tratta di scendere rapide, volare in deltaplano, qua si sta in caduta libera, qua già vivere è uno sport estremo. Delle grandi e supposte garanzie occidentali qua non ce n’è una, questa è una felicità aspra e sanguinante”.

EGOKID

Giovanni lo ricorda con precisione, è stato “in un pomeriggio ventoso, con squarci di sole, in Mongolia, ho pensato che il tipo di vita che stavo facendo doveva finire in maniera radicale”. Ferretti è già tornato dall’86 a prendere residenza al suo paese, Cerreto Alpi, ma di fatto ci ha vissuto poco, senza staccare la spina dalle “smanie vane del mondo”; ora, invece, avverte l’esigenza di starci con l’anima, integralmente, in senso ampio e profondo. In conseguenza di ciò sa che dovrà compiere scelte drastiche, rotture: una di queste è il percorso con Massimo Zamboni. Anche il chitarrista avverte che molte cose stanno cambiando: ciò che deve accadere, accadrà. Intanto però, l’album che registrano al ritorno segnerà, paradossalmente, il successo del gruppo. Tabula Rasa Elettrificata è totalmente impregnato di Mongolia e di ciò che essa ha risvegliato nei cuori e nelle menti degli artisti. Unità di produzione denuncia l’impatto con il sogno tecnologico bolscevico, ispirato da “atea mistica meccanica”; Brace anela all’incontro con la bellezza “mai assillante né oziosa / Languida quando è ora e forte e lieve e austera”; Bolormaa canta dell'omonima giovane contorsionista mongola "Monito terrorista che la retta è per chi ha fretta / Arresa all'amore / Fluida contorta molle resistente / Lascia fluire il dolore / Che la felicità è senza limite / E va e viene”. Un’onda di emozioni arriva dalle acque del fiume Ongii, “Raccontami Ongii che scorri / Incessante preghiera che mormora al cielo / Del tuo monastero perduto, dimmi la bellezza dei gesti e dei colori / Che ti hanno traversato e hai riflesso / Dei bagliori dell'oro, dei fuochi, dei fumi e dei profumi d'incenso / Tra l′eco di conchiglie, trombe, campane, fragore di tamburi di piatti / Lo sgretolarsi tremolante dei gong / Cantami coi pellegrini nomadi gioie e bisogni / E delle carovane sfiancate da Occidente, dall'interno / Dal Nord e dall'Oriente / Cantami dei mercanti i richiami / E della folla il brusio / E l′ooohooohooo di meraviglia ai prodigi / Inondami di vita quotidiana / D′ovvio rumore, stupore / Canta il Capodanno lunare / Viene la primavera, la terra che fiorisce / La vita si rivela / Latte, carne, sangue, nutrimento offerta al tempio / Ed è preghiera il succhiare della bocca / Nei cuccioli d'uomo e animale”.

E infine Gobi, il deserto che amplifica la vastità del Creato. Le chitarre dei CSI ne evocano lo spazio ipnotico. Il canto di Giovanni è un’invocazione: “Quanto è alto l'Universo, quanto è profondo, l'Universo / mille i Nomi di Budda / mille / diecimila / e quello che verrà”. Sì, la Mongolia è terra in adolescenza perenne: il vento e il freddo distruggono gli edifici del passato, la Storia non attecchisce, i bambini non diventano tutti adulti. È del tutto evidente qui perché gli dei, a sentire un uomo progettare, ridono sguaiatamente. Come il mondo arcaico della montagna da cui Giovanni e Massimo provengono e che oggi, più che mai, li chiama. Ci vuole un viaggio nell’altro mondo per ritrovarsi a casa, decidere di cambiare vita e dismettere i panni della rockstar.

I tour di TRE fanno sold out, l’album è in vetta alle classifiche: e le cime portano fatiche, priorità di vita e frenetici spostamenti che stridono con ciò che l’album trasmette, soprattutto con l’idea di “Viaggiare le montagne senza scalarle ma girandoci intorno, sugli antichi sentieri e le strade moderne. Fino al limite degli eremi, mai oltre. [...] Le montagne sono state create per essere abitate e vissute da uomini liberi, tendenti alla solitudine, all’essenza. Giorno dopo giorno al cospetto della potenza del-


la creazione.[...] Il mio viaggiare è lento negli intervalli tra i viaggi e gli spostamenti. Il vero guadagno sta nel perder tempo per trovare altro, cercando un passaggio, un possibile percorso. In camion, in corriera. Il treno per le lunghe distanze scendendo spesso per scacciare la fretta. I mercati. Le camminate, a cavallo. L’esser per casualità, per dono di Dio, ospite. Cercando di essere sorpresa e conforto, non sgradevole confronto, non peso morto”. Inconciliabili. La decisione maturata da Ferretti è quella di “mollare tutto”, dedicarsi alla madre bisognosa di cure, tornare a casa, come si diceva nella precedente tappa, per restarci e riportare le ambizioni nella

misura del possibile. Zamboni tornerà alla terra d’origine e a una vita in connessione con i cicli della terra più avanti nel suo percorso esistenziale p.243 biog; Quando riscriverà dopo anni, il suo “diario” dalla Mongolia, ci confesserà che, in terra d’Oriente, si è creato lo spazio per un'altra scelta importante e trasformativa: diventare genitore. E in Mongolia Zamboni tornerà pochi anni fa proprio con sua figlia Caterina, con cui scriverà un libro e un album/spettacolo, in quella forma ibrida di espressione che sembra sempre più congeniale al poliedrico chitarrista.

EX- JUGOSLAVIA / MOSTAR Brucia la biblioteca degli Slavi del sud, europei del Balcani Bruciano i libri, possibili percorsi Le mappe, le memorie, l'aiuto degli altri S'alzano i roghi al cielo S'alzano i roghi in cupe vampe

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Il tour di TRE viene interrotto dopo i concerti a Mostar nel ‘98. Quella fu un’esperienza intensa e devastante, testardamente voluta da Ferretti e raccontata in più interviste, poi nel cortometraggio e nello spettacolo di Davide Ferrario. Giovanni, dicevamo sopra, è innamorato della ex-Jugoslavia, quella sua geografia e storia di crocevia, tra socialismo non allineato e panorami liminali. “Algeria e Jugoslavia sono i due paesi che m’hanno innamorato negli anni 70, reso felice negli 80 e mi hanno costretto, nell’orrore e nel dolore, a riconsiderarli e riconsiderarmi nei ‘90. Della Jugoslavia amavo il suo destino. fusione. scontro. incontro. Le razze, le religioni, le lingue. La conformazione geografica e la storia. La povertà diffusa e la miseria vinta. Il cambiare repentino degli orizzonti. Dai campanili austroungarici [...] ai porticcioli dalmati, i paesi lastricati dei veneti sulle marine adriatiche. Le foreste scure e le isole assolate. la pianura e la montagna degli slavi un po’ parente povera d’una Emilia in disuso e un po’ Russia in progresso addolcita. Le chiese ortodosse, d’oro, iconostasi, candele incensi e minareti sottili sulle moschee d’Occidente. Il Montenegro come roccaforte montana. [...] Il Kosovo coi suoi monasteri ortodossi così vicini e lontani, antichi e venerabili, da arrivarci in processioni lente e estenuanti. E Macedoni. E vecchi Turcomanni coi

larghi turbanti a tirar pipe e narghilè sui terrazzini di legno. [...] Paese residuale in Europa di tutte le maree umane in viaggio da est a ovest e tutti i contraccolpi di occidente a oriente. Un posto per tutti. Bogomili e atei, gnostici, cattolici, ortodossi, protestanti, mussulmani, ebrei e zingari.” Viaggiata in lungo e in largo negli anni della gioventù, l’ultima volta poco prima dello scoppio delle ostilità in Bosnia. I CCCP sono da poco sciolti, lui e l’amica Grazia partono a fine ‘91 senza un itinerario preciso, meta finale Medjugorje. L’aria è strana, tesa, succederà qualcosa. Il rientro è anticipato. E’ da quel lontano 1991 che nessuno suona più in quella che era l’incantevole cittadina medievale adagiata sulla Neretva, punto di incontro di lingue diverse, di minareti e campanili in armoniosa alternanza. Dopo la guerra Mostar è rigidamente divisa, le case crivellate dai colpi, svuotata. Ferretti va in Bosnia tre volte in un mese e mezzo per organizzare quello che all'inizio doveva essere un solo concerto a Mostar ma che si trasformerà in tre date, all’interno di un progetto di ricostru-


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zione promosso da Emilia-Romagna e Marche, in cui suoneranno anche band locali.

I CSI daranno due concerti a Mostar: uno nella zona est (a maggioranza musulmana), l'altro a ovest, lato croatocattolico della città. E poi un’ultima replica a Banja Luka per il pubblico di cultura serba. “Il sindaco aveva approvato l’idea del concerto unico, ma poi abbiamo capito sulla nostra pelle che era una cosa temeraria”, spiega Ferretti a Repubblica: “Il posto scelto era proprio nella zona neutrale, rasa al suolo dalle bombe e anche la più esposta al pericolo delle mine. Ora abbiamo deciso di fare due concerti gratuiti, il primo allo stadio nel posto più brutto della città, che era un campo di concentramento dove ammassavano i musulmani, il secondo a trecento metri in linea d' aria [...]. Per l’occasione torneranno a imbracciare le chitarre diverse band locali. Non so che musica faranno, forse orribile, ma chi se ne frega. L'importante è ricominciare a fare musica comunque". Mostar è una città devastata che rischia di restare ancora in silenzio quando, il giorno della prima data allo Stadio, piove a dirotto e l’esibizione è giocoforza annullata. Trattare con le autorità è molto complicato e i CSI non se la sentono di suonare solo nella parte Est. Ferretti la spunta, riesce a far slittare tutte e tre le date ma questo, purtroppo, disorienta il già disorientato pubblico. Trentamila posti vuoti nell’arena, per un concerto che sa molto di apocalisse. Va meglio il giorno dopo nella piazza di Mostar Est. Nonostante sia una zona particolarmente segnata dal conflitto, tremila morti fra gli abitanti, il pubblico risponde, si vedono segni di desiderio di normalità e socialità tra le vie, nel giorno del concerto e alla sera. A Banja Luka la location è una discoteca, ma trovandosi in un’enclave, i camion con l’attrezzatura hanno avuto problemi alla frontiera. Si prospetta una serata in playback ma, vista l’esiguità del pubblico, i CSI decidono di suonare live senza amplificazione. A ferite ancora aperte per il conflitto civile appena placato, Bosnia e Mostar in particolare segnano un momento di cambiamento importante per Zamboni e Ferretti, è l’ultimo passo prima della fine dei CSI e del sodalizio umano e musicale tra i due. Ancora una volta, sono i luoghi di tensione e di confine lo scenario prediletto su cui non solo prende forma lo slancio creativo, ma si rendono evidenti i bisogni e le necessità, le scelte rimandate, i conti da chiudere con il passa-

to e il presente. Zamboni conferma che questi luoghi “nello spiazzamento che ci propongono, nella loro crudezza non addomesticabile, diventano perni per l’esplosione delle nostre identità, altrimenti così ben ordinate. Sembrano lì apposta per scardinarci”. È quindi Mostar il passo decisivo verso la decisione, poi "ufficializzata" a Berlino l’anno dopo, del distacco. “Dopo Mostar eravamo tutti coscienti del fatto che stesse per succedere qualcosa, [...] Che la dissoluzione si stesse svolgendo ce ne siamo accorti tutti, al punto che abbiamo interrotto una tournée che andava sempre meglio: cosa vuoi di più, ti pagano sempre di più, suoni sempre di meno, ogni sera sali ed è già finito...però non è quella la filosofia dei CSI. Ci siamo fermati, quindi, ognuno ha ricominciato a dedicarsi alle sue piccole cose”. Successivamente, Ferretti prenderà posizione più volte su ciò che stava accadendo nei Balcani, maturando la sua contrapposizione all’ “antipacifismo conformista” che non aveva permesso ai bosniaci di armarsi per difendersi dal massacro e che poi, col beneplacito del centrosinistra italiano, bombardava la Serbia uccidendo civili. "È stata la guerra che ha distrutto la Jugoslavia a travolgermi”, dichiarerà, “la realtà e l’ideologia che avrebbe dovuto decodificarla erano inconciliabili. Anzi, l’ideologia che sostenevo era un peggioramento dell’esistente”. Zamboni tornerà in Bosnia nel 2007 con il desiderio di riprendere il filo là dove, dieci anni prima, lo aveva smarrito di fronte al conflitto armato e all’esperienza dell’ultimo tour dei CSI, riducendosi al silenzio, alla rabbia, alla frustrazione. L’album che produrrà si intitola “L’inerme è l’imbattibile” e fa parte della sua trilogia sui pensieri negativi che, nell’incontro con Mostar, si sono fusi tra piano personale e universale.

CASA, e dei viaggi più grandi Ciò che era profondo è increspatura in superficie

Prima di “tornare a casa”, seguendo le tracce ora esclusivamente di Giovanni Lindo Ferretti il quale, da cantore efficace dei tempi quale è rimasto, tante e significative di questo tornare ne ha lasciate, un cenno ad altri luoghi toccati dall’avventura musicale nel mondo non può mancare, anche se poco più di un elenco. Della Russia abbiamo già detto di influenze e visitazioni; i CCCP ne hanno cantato inni e parole, Giolindo ne ha scritto in “Reduce” con un riguardo e un affetto filiale. Leggere per credere. Di Maghreb, e in particolare Algeria, abbiamo accennato la fascinazione; Ferretti viene spesso definito un “muezzin” per il suo modo di salmodiare. Geograficamente, il nord Africa è un passaggio verso “l’altro mondo”, l’Africa continentale. In mezzo il deserto: Giovanni è particolarmente affascinato dall’Ahaggar, il massiccio montano nel Sahara algerino che, negli anni, ha lasciato il segno in non pochi grandi narratori, tra cui ricordiamo Maggiani. Sempre in Mediterrano, scoprirà


nel Salento un’alta densità di bellezza naturale e ricchezza culturale. Ça va sans dire, anche il Salento è luogo di confine, una penisola in cui si parla una lingua che è ponte verso l'altra sponda del mare. Il tema del confine ci segue costantemente, anche nell’altro emisfero del globo; in Sud Africa Ferretti si reca diverse volte, è chiamato a partecipare, come esponente della cultura italiana, a importanti eventi culturali della nazione Zulu.

E, per finire, c’è Israele e c’è la Palestina, meta di pellegrinaggi e ricerca spirituale in loco, ma anche, e a volte allo stesso tempo, in spiritus, come Giovanni racconta “I viaggi alla mia età continuano ad essere necessari per osservare il cammino cambiando prospettiva e mutando lo sfondo. Tendono al pellegrinaggio. Sono nutrimento, mutazione, conferma. Tappe sempre più distanziate di una transumanza. È indubbio che il viaggio più lungo del Pontefice Pellegrino Santo Padre Giovanni Paolo II l’ha portato, in Roma, dal Vaticano al Lungotevere in Sinagoga. Pochi passi, non una passeggiata, due millenni a ritroso, nell’infinito eterno. Avanti, indietro, qui”. E qui, davvero, ritorniamo, a casa. Già dalla fine degli anni ‘80, quando frequenta più spesso Cerreto, Giovanni percepisce che delimitare il paesaggio lo sta aprendo a un’esistenza più centrata, a uno sguardo più profondo. Eppure, nei primi anni di rientro, continua con la vecchia vita, fatta di spostamenti nella metropoli immaginaria che ingloba Bologna, Berlino, Firenze e Amsterdam. Lì cerca, senza trovarla, una “comunanza ideale sociale”. La breccia si allarga. Lo spettacolo del cielo e della terra, della luce e del buio, ha iniziato a travolgerlo. Finché tornare a casa non può più essere un abitarla per caso o circostanza, ma per farne dimora di corpo, cuore e mente. A segnare il momento di passaggio, gesti di rottura come la distruzione fisica di stereo di casa e auto: ”mi ritrovai in una grande casa, umida, fredda, poca luce e molti spifferi, e arrivò la musica che non pensavo: il canto del Creatore”.“ Resta quel che serve, a Cerreto: la casa luogo della famiglia, la chiesa luogo della comunità, e poi gradualmente la stalla coi cavalli, “una vita che solo un arrogante può definire “angusta”, eppure questo è il pensiero dominante del nostro tempo.” barbarico Le giornate di Giovanni sono scandite dall’accudimento della mamma malata, con cui recupera un rapporto di

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intima vicinanza, un nuovo amorevole incontro, pur se nella fatica e nel pudore della cura. In paese partecipa alla vita comunitaria, per quel che ne resta; aiuta chi può, frequenta la Chiesa. Scende a valle poco, per cantare, sempre a malincuore e per necessità materiale, consolandosi che anche gli avi partivano per transumanze e migrazioni stagionali. Non è isolamento; in casa “arrivano lettere, inviti, richieste per incontri, c’è sempre un buon motivo, una storia a sostenerli; immagino belle persone. Interessa il percorso di conversione: da un mondo che professa ogni avversione alla Chiesa ritrovarsi, definirsi, cattolico senza alcun aggettivo che attenui la portata. Interessano le motivazioni che sostengono e hanno propiziato la scelta di tornare a vivere in un borgo di montagna, prima lontano e poi sempre più estraneo a tutto ciò che sembra indispensabile. Se accettassi, passerei buona parte dei miei giorni in giro a dare testimonianza delle ragioni di una scelta senza tempo per viverla. [...] Io per parte mia lego il mio destino, per il tempo che mi è concesso, a questo pugno di monti, a questo orizzonte su cui ho aperto gli occhi. Non è una fuga da qualcuno o qualcosa, tanto meno dal mondo, piuttosto il ricollocarsi nel proprio centro Se deve essere qualcosa, sia il gesto semplice e fiducioso di chi riconosce ed accetta la vita come dono”. La montagna si mostra come tensione geologica al Creatore, il crinale è confine fisico/storico ma anche viscerale, olfattivo “le valli ne sono impregnate, immenso incensiere che onora la terra offrendosi al cielo. [...] è netto, all’olfatto, lo svalicare; oltrepassare un confine che è stato geografico e storico: di qua i Lombardi, di là i Toschi. Il burro e l'olio. Di qua una Pianura, ultima propaggine delle steppe, di là il Golfo, il litorale, il Mediterraneo.” I passi di Giovanni ricalcano quelli mossi dal padre e dal nonno. Dopo aver cercato il senso nel mondo esteriore, fuoricentro, Ferretti lo trova tornando a casa, al suo mondo di un’infanzia premoderna, a cavalli, sentieri e rosari. Tornano in mente i versi di Inquieto: “memorie e passi d’altri che io calpesto, su stanchezze di secoli / Gioia che riannoda, dolore che inchioda / Terre battute dai venti infoiati dai monti / Sereno incanto splendente di sole e di bianco / Dense sfumate nuvole di piombo / Grigio verde d'intenso blu / Colpo d'occhio rotondo”.


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Photo by Alfonso Celentano

È evidente che il processo creativo della parola ha cambiato prospettiva, “non tanto liberare fantasia quanto lo sforzo di penetrare realtà, rivelandola, è poesia” chiarisce Ferretti, “L’immaginario comporta espansione illusoria, un appiattimento sulla dimensione orizzontale, ben più affascinante il reale si svela se si accetta il limite. Tensione fra stato di necessità e trascendenza”. Seguendo questo impulso, il tempo del ritorno genererà nuove ricerche e collaborazioni artistiche, in particolare nel mondo della musica popolare e tradizionale (un ritorno da molti punti di vista anche questo) e con il progetto Per Grazia Ricevuta. Nel secondo e terzo album dei PGR, D’anime e d’animali e Ultime notizie di Cronaca, ascoltiamo un’ottima sintesi di questa compiutezza di sguardo, ancora in viaggio, ma dell’anima e delle radici. Passato, presente e futuro sono immortalati in una dinamica ed intima fotografia famigliare nell'omaggio a I miei nonni: Mio nonno siede a tavola, benedice il pane, cibo quotidiano / Chiede, concede perdono / Mia nonna dice sì, no, si deve, non si deve, si può, non si può / Dice quello che sa, lei lo sa e lei sa che io lo imparerò / Adesso siedo a tavola, benedico il pane, cibo quotidiano / Chiedo, concedo perdono / Dico sì, dico no, si deve, non si deve, si può, non si può, a chi voglio bene / La stalla, la famiglia / A chi, di cui io sono responsabile, a chi rendo conto? / Rendo onore a chi mi ha preceduto / Tra mille errori e abominevoli credenze / M'ha fatto vivo, sopravvivere, crescere / Il mondo è complesso, incantevole, difficile [...]

Lo stesso vivido potere descrittivo permea Cronaca montana: Gente che fa buio avanti sera. gente da basto / Da bastone. Da galera. / Risuona la parola detona rimbomba in me cassa armonica: / Far fronte e in marcia tra timori sgomenti e baldanza festante / Certo le circostanze non sono favorevoli / E quando mai / Bisognerebbe...bisognerebbe niente / Bisogna quello che è / Bisogna il presente / Un contagio dell'anima come pestilenza decreta l'evidente. / Il tempo che corre, il tempo moderno / Scivola al piano s'ammassa, s'appiatta. Livella l'odierno / Certo le circostanze non sono favorevoli / Questo è un buon rifugio in campo aspro, scosceso / Eroso e addolcito d'acqua e vento / Bastione naturale in prospettiva ariosa / Terra di passo, di sella, di slitta, mal s'addice alla fretta / Sa che tutto passa e tutto lascia traccia / Certo le circostanze non sono favorevoli / Nato tra i morti, sui monti / Vivo sui monti tra i morti / E non c'è lama che possa recidere la languida catena / Generazione su generazione...

Le produzioni nel mondo della musica popolare e tradizionale partono dall’Appennino tosco-emiliano, attraversando anche molta letteratura locale, per arrivare poi in tutta la terra italica. Una tra le più strutturate si realizza con il musicista Ambrogio Sparagna, sfociando nello spettacolo (e disco) “Litania”. Successivamente, con Teresa de Sio, approderà ai cantori del Sud e allo spettacolo “Craj”.

Va in questa direzione anche l’impresa del teatro equestre che Giovanni ha portato avanti per qualche anno, unendo il suo amore per i cavalli alla necessità di trovare nuove fonti di sostentamento ed espressione, fra punk e tradizione. Il suo progetto si ispira al teatro Bartabas. Un “carrozzone” zingaro e mutevole, nato nel 1984 raccogliendo tradizioni nel suo spostarsi e evolversi nel mondo, “ha la parvenza di un circo ma possiede la ritualità di una cerimonia”. L’Appennino, comunque, resta il fulcro. Da un punto di vista più razionale e storico, Ferretti compirà diverse ricerche, pubblicate soprattutto all’interno di “Barbarico” e “Bella gente d’Appennino” in cui, tra le altre cose, ripercorrerà il viaggio degli “antenati” Goti alla fino in val D’Enza.

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Nelle pagine e nelle parole che negli anni più recenti hanno accompagnato la cronaca della sua vita a Cerreto, Giovanni si mostra pessimista relativamente alla restanza montana: l’Appennino, ricordando l’amato poeta Pier Paolo Pasolini, è una "dorsale del paese, uno scrigno che conserva con sem-


pre più fatica il passato“. Il suo borgo non è più comunità, somiglia invece a un “condominio destrutturato”. Siamo nel regno della frantumazione e il tempo non si può combattere; il territorio è sempre più sfruttato come parco di attrazioni ad uso e consumo.. Una montagna, paradossalmente, mai tanto amata e affollata dai vacanzieri quanto sfruttata e abbandonata, come spiega diffusamente tra le righe di “Barbarico”. Pur amareggiato, Giovanni sembra trovarsi in pace, un sano distacco dalle cose che non può cambiare, chiusa davvero la guerra con Dio e il destino. E anche noi la chiudiamo così, in viaggio e in ascolto sempre dei nuovi mutamenti. Girano i Sufi in tondo nello spazio Nel tempo Salgono in verticale i monaci in clausura Immobili Viaggiano l'alto, il basso senza abbellimenti (Cadono di vertigine…) Strisciano verso il ritmo i tarantolati Schiacciati dallo spazio senza tempo Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti Viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti, viaggia Sua Santità Consumano la terra in percorsi obbligati i cani alla catena Disposti a decollarsi per un passo inerte più in là Coprono spazi ottusi gli idoli Clonano miliziani dai ritmi cadenzati In sincrono Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti Viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti viaggia Sua Santità Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti Viaggia la polvere viaggia il vento viaggia l'acqua sorgente Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti viaggia Sua Santità Viaggiano ansie nuove e sempre nuove crudeltà Cadono di vertigine...

I POSSIBILISTI

Ma possiamo dire che: Giovanni Lindo Ferretti è come D’Alema e Veltroni ? LETTORI RISPONDETE NUMEROSI !!!!!!!

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Note di redazione e bibliografia 1 Per l’intervista sul 50esimo del DAMS: DAMS50 - Incontro con Giovanni Lindo Ferretti https://www.youtube.com/ watch?v=8b2GoIDH4vw 2 Ripercorsa da Rolling Stone qui: urly.it/3fa47 3 Analoga evocazione di confine apparterrà anche al titolo del successivo album, “Linea gotica”. 4 “IMPOSSIBILE TROVARTI STOP PROPOSTA ESALTANTE UN MESE VIAGGIO 5200 KILOMETRI REGIONI ANCHE MAI VISTE DA OCCIDENTALI CON TROUPE TELEVISIVA MONGOLA PROVVISTA TUTTI I PERMESSI STOP CONTATTAMI SUBITO.” (Telegramma del 30 maggio ‘96 a Ferretti da Giancarlo Ventura, Soyombo, Associazione per lo sviluppo della cultura mongola). 5 Il Nadaam è una sorta di olimpiade antica tremila anni e composta da tre sole specialità: arco, cavallo e lotta (quest'ultima, coerentemente con lo spirito mongolo, non ha limiti di peso, spazio e tempo). I corsivi senza indicazioni di autore sono di Giovanni Lindo Ferretti. Dove non esplicitato, alcuni estratti e virgolettati provengono dal quanto mai prezioso “Quello che deve accadere, accade”, storia completa e molto ben scritta di Zamboni e Ferretti, autore Michele Rossi per i tipi di Giunti, 2014. Grazie, Michele. Ho consultato molti dei libri scritti da Giovanni Lindo Ferretti; tra questi, le riflessioni contenute in “Reduce” e “Barbarico” sono state le più importanti nel parlare di luoghi e tragitti. “In Mongolia in retromarcia”, di G.L. Ferretti e M. Zamboni, Giunti, 2000, poi rieditato per la parte di Zamboni, è stato altrettanto fondamentale e un piacere totale rileggere. Altri siti consultati e da cui ho estratto citazioni sono: Rudepravda rudepravda.tripod.com XL https://xl.repubblica.it/personaggi/giovanni-lindo-ferretti/ Rolling Stone https://www.rollingstone.it/artista/giovannilindo-ferretti/


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I DISCHI DEL CONSORZIO di Lewis Tollani Era l'estate del 1994. Nel numero di luglio/agosto del Mucchio Selvaggio c'era in omaggio una cassetta, una compilazione con artisti italiani, dei quali ero completamente a digiuno, riuniti sotto un'etichetta di cui ero completamente ignaro: Consorzio Produttori Indipendenti. Non ne avevo mai sentito parlare, anche perché era nata proprio in quell'anno, dalla fusione dell'etichetta I Dischi Del Mulo e dalla casa di produzione Sonica Factory, fu una vera e propria epifania. Mi ritrovai immediatamente preso dalla intesta e furibonda voglia di conoscere tutto quello che stava dietro e dentro questo progetto, soprattutto folgorato dai due brani presenti nella cassetta a firma Marlene Kuntz... "wow" ricordo nitidamente lo stupore crescere in me "questi suonano come i Sonic Youth, in Italia, in italiano!". L'inverno seguente nella sala Gorky, in via Gorky a Bologna assistetti per la prima volta ad uno show della band di Godano e soci, che aprivano la serata ai "padroni di casa" Disciplinatha tornati dopo un periodo di iato, con un cambio di formazione ed uno splendido disco nuovo. Quella sera tutto mi fu molto più chiaro, I Dischi Del Mulo, la rivista Il Maciste, i C.S.I. che erano l'ultima incarnazione dei CCCP - Fedeli Alla Linea (senza la parte visiva/iconoclasta di Annarella e Fatur) in cui convivevano nuovamente le due anime del gruppo, quella emiliana di Ferretti e Zamboni e quella fiorentina di Maroccolo, Magnelli e Aiazzi (“I Litfiba quelli seri” come ebbe a definirli un amico). Da li in poi mi sono immerso totalmente nella faccenda, seguendo fideisticamente le uscite dell'etichetta, abbonandomi alla rivista e riscoprendo tutto il pregresso, con incolpevole ritardo.

I DISCHI DEL MULO "L'idea che io e Massimo saremmo andati ognuno per conto suo in realtà non ci ha mai sfiorati. Abbiamo tirato il fiato: Massimo doveva sposarsi e io avevo i cavalli a cui badare. Erano problemi contingenti." Giovanni Lindo Ferretti. Il progetto di “scoprire” e lanciare nuove bands nasce durante il periodo di pausa susseguente alla fine dei CCCP-Fedeli Alla Linea, in cui Zamboni e Ferretti si erano ritirati a vita privata, sebbene felici di tornare alla (loro) Terra, questo “stato delle cose” cominciava a star loro stretto, non bastava più e nacque allora l’idea di mettere in piedi un’etichetta discografica per scoprire e promuovere gruppi musicali dell’Appennino Emiliano. Questo progetto prese forma una sera durante un concerto degli En Manque D’Autre, formazione darkwave

Fabrizio Tavernelli

capitanata da Fabrizio “Taver” Tavernelli, con una discreta carriera alle spalle fatta di ben quattro dischi pubblicati fra il 1986 e il 1990; ma anche se la collaborazione con il futuro consorzio sarebbe arrivata solo qualche anno più tardi, dopo un totale cambio di formazione, con il solo Taver presente ed il cambio di “ragione sociale” in Acid Folk Alleanza (A.F.A.). Da subito la forza dirompente di Tavernelli divenne un punto di forza nello sviluppo del lavoro all’interno de I Dischi Del Mulo.


“Per noi Taver vale come un gioiello, perché rappresenta il modo in cui ci piace lavorare: conoscere le persone, intuire in loro delle qualità e valorizzarle. È così che si lavora ai Dischi Del Mulo, trasformando quelle che possono sembrare piccole sciocchezze in idee straordinarie” Giovanni Lindo Ferretti. Nel frattempo una cassettina con ben 80 minuti di musica era arrivata nelle mani di Ferretti, che subito l’aveva passata a Zamboni e dopo un brutale taglio del 70% del contenuto, i due si ritrovarono a parlare con i dirigenti della Virgin, esponendogli il loro progetto e parlandogli di questa nuova band che avevano per le mani di nome Üstmamò. In quel momento la formazione prevedeva solo due componenti Luca ed Ezio, la Virgin diede fiducia incondizionata, senza nemmeno voler ascoltare nulla ed il gruppo sotto la spinta dei loro nuovi produttori, fu convinto a prendere una cantante, ma non una qualsiasi, bensì Mara Redegheri, della quale Ferretti era artisticamente innamorato da tempo; la magia del gruppo che proveniva da Castelnovo ne’ Monti era iniziata. “Gli Üstmamò erano il primo progetto a cui avevamo deciso di dedicarci e per renderlo operativo abbiamo fondato l’etichetta. Era il gennaio del 1991. Poi, all’inizio dei febbraio, tre giorni dopo il mio matrimonio, eravamo già in studio a Firenza con loro” Massimo Zamboni.

Üstmamò

Disciplinatha

Contemporaneamente si erano mossi anche verso la “capitale” emiliana per prendere contatti con i Disciplinatha, che ammiravano molto (la fascinazione di Ferretti per l’iconografia della band era cosa risaputa) anche se avevano la netta impressione che fosse composto da persone, quantomeno, complicate da gestire. Dopo alcuni incontri i tasselli entrarono subito al loro posto e si accor-

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darono per far uscire un 12” con la neonata etichetta. “Per un certo periodo i Disciplinatha sono stati i figli peggiori della “famiglia”, e in quanto tali una della maggiori fonti di soddisfazione per noi”. Giovanni Lindo Ferretti. Era il 1991 e I Dischi Del Mulo si presentavano al mondo con ben due lavori: l’omonimo album di debutto di Üstmamò e il mini-lp in vinile rosa “Crisi di Valori” dei Disciplinatha. Per la terza uscita i due si spinsero in territori molto lontani dal mondo musicale che li vedeva protagonisti, ma entrambi coltivavano un amore viscerale per il movimento chiamato Nuovo Canzoniere Italiano e per un’artista in particolare, la cantante/mondina Giovanna Daffini. Riuscirono nell’impresa di recuperare un bel po’ di materiale inedito grazie all’amicizia con l’etnomusicolo Roberto Leydi, anche lui innamorato delle canzoni della Daffini e di cui possedeva molti nastri che non avevano mai visto la luce. Leydi fu coinvolto e contento di contribuire con il suo materiale alla realizzazione ed alla stampa di “L’Amata Genitrice”. Nel frattempo le insistenze da parte di Maroccolo e Magnelli per tornare insieme a fare musica nuova diventavano sempre più fitte e pressanti (si narra di lettere e telefonate quotidiane), tanto che ad un certo punto i due si convinsero che tornare su un palco, e l’occasione perfetta era serata che stavano organizzando per promuovere gli artisti de I Dischi Del Mulo. Pensarono che sarebbe stata una bella opportunità, anche se non avrebbero mai accettato di salire come CCCP-Fedeli Alla Linea, ne tantomeno avrebbero coinvolto Annarella e Fatur. Si accordarono così per il 12 settembre 1992, una serata all’interno del Festival delle Colline a Prato, con in cartellone Üstmamò, Disciplinatha e… il nome, bisognava trovare assolutamente un nome, che fosse contemporaneamente di totale rottura col passato ed al tempo stesso una sorta di continuità “storica”. Il Muro di Berlino era caduto e l’Unione Sovietica si era dissolta e parzialmente ricomposta nella Comunità Degli Stati Indipendenti (C.S.I.). “Potremmo chiamarci Consorzio Suonatori Indipendenti” disse una sera Ferretti aggiungendo che “suoneremo solamente brani che abbiamo composto insieme, quindi da “Epica, Etica, Etnica, Pathos”. Il nome evocava una sorta di disimpegno fra i membri e richiamava a livello concettuale la fine dell’Impero Sovietico grazie al suo acronimo, tutti furono d’accordo e qualche mese dopo venne dato alle stampe il resoconto sonoro di quella serata. Usciva nei primi mesi del 1993 “Maciste Contro Tutti”.


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SONICA FACTORY In contemporanea a I Dischi Del Mulo, Gianni Maroccolo organizza un centro di produzione musicale a Firenze assieme ai tecnici del suono Marzio Benelli, Gianni Chicchi e Giovanni Gasparini presso lo Studio Emme con il nome di Sonica Factory. Uno dei primi lavori prodotti dalla Sonica è “Il Rumore Delle Idee” dei milanesi Settore Out, edito dalla Black Out (etichetta della Polygram) nel 1993. Oltre alla produzione, Maroccolo e Magnelli si dedicano anche allo scouting di nuove proposte, fra le quali una in particolare attira la loro attenzione, tanto da invitarli a Firenze a registrare un disco presso lo Studio Emme; registrazioni che dopo una lunga gestazioni daranno vita ad uno dei dischi più belli ed importanti della musica indipendente italiana… “Catartica” dei Marlene Kuntz.

quella tipica autoreferenzialità pomposa all’italiana, anzi molto spesso l’autoironia e l’auto-sarcasmo permeavano le pagine della pubblicazione, grazie all’apertura e lungimiranza del suo “direttore” Andrea Tinti. Oltre a tutto questo, nel periodo in cui il consorzio restò attivo (dal 1994 al 1999), in aggiunta ai dischi, a “Il Maciste”, ai concerti, agli eventi, il Consorzio ha pubblicato anche 20 numeri dei “Taccuini – Collana Di Musica Aliena”, che consistevano nella pubblicazione di CD contenenti brani di artisti diversi, con l’artwork disegnato all’uopo dagli artisti Andrea Chiesi e Luca Beatrice. “Taccuini, come recita il sottotitolo, sarà una “collana di musica aliena”. Aliena da logiche di mercato, aliena da mode e generi, aliena da stili e preconcetti, aliena in quanto “altra musica”, anche rispetto alle non certo compiacenti produzioni del Consorzio.” Gianni Maroccolo. Cosa resta da dire ancora per chi non conosce questa meravigliosa ed avventurosa epopea?

CONSORZIO PRODUTTORI INDIPENDENTI Il 1993 è l’anno zero per i componenti del Consorzio Suonatori Indipendenti, che a distanza di tre lunghissimi anni da “Epica, Etica, Etnica, Pathos” tornano ad unire le forze in un nuovo progetto, nato come puro traino all’etichetta fondata da Zamboni e Ferretti, ma una volta riunitisi sopra un palco hanno capito che le loro strade dovevano tornare ad intrecciarsi, così come i due progetti discografici dovevano, naturalmente, confluire in un’unica grande casa, chiamata (mutuando il nome del gruppo) Consorzio Produttori Indipendenti. Nei primi mesi del 1994 esce, ancora per I Dischi Del Mulo (in collaborazione con Black Out) il primo lavoro dei C.S.I. “Ko De Mondo”, nato da un periodo trascorso in totale isolamento dal mondo, nel casale Le Prajou presso Finistére in Bretagna e successivamente immortalato nel live in acustico “In Quiete” registrato durante la trasmissione Acustica del canale Videomusic. Il dado è, ormai, tratto e la macchina C.P.I. inizia a carburare ed avanzare come un treno. Moltissimi gli artisti portati alla ribalta, alcuni che rimarranno come punti fondamentali nella storia della musica italiana, si pensi ai Marlene Kuntz, ai Disciplinatha, agli stessi C.S.I., ma il progetto stesso oltrepassava e travalicava l’importanza degli artisti e della loro musica. Era quella del Consorzio una visione a 360° del mondo dell’arte, che comprendeva l’organizzazione di eventi musicali, sonorizzazioni di film muti, la redazione di un bollettino di comunicazione delle attività dello stesso, denominato “Il Maciste”, un trimestrale completamente gratuito, che aveva come unico scopo quello della promozione dei dischi (che potevi acquistare in prevendita o in edizione speciale), le attività dei gruppi, i concerti, gli avvenimenti artistici; il tutto scevro però da

Il concerto evento tenutosi il 25 aprile 1995 per il 50° anniversario della liberazione dal nazi-fascismo, a Coreggio (provincia di Reggio Emilia) con tutti i gruppi del Consorzio ma non solo (ad esempio parteciperanno anche Skiantos, Mau Mau, Gang, Africa Unite, Settore Out, Modena City Ramblers) chiamati a reinterpretare in chiave “moderna” canzoni partigiane e di lotta, di queste la più famosa rimane “Il Partigiano John” interpretata da Africa Unite. Di tutto questo ne realizzarono anche una compilation intitolata “Materiale Resistente 1945 - 1995”, con le versioni dei brani realizzate in studio; o ancora la due giorni di musica e festa che il Consorzio in collaborazione con il comune di Prato ha realizzato il 25 e 26 giugno 1998, con la partecipazione della gran parte degli artisti del gruppo e denominata “Le Notti Del Maciste”; oppure le due meravigliose colonne sonore realizzate, quella di “Jack Frusciante è Uscito Dal Gruppo” diretto da Enza Negroni e tratto dal romanzo ge-


nerazionale omonimo scritto da Enrico Brizzi, per il quale la colonna sonora è stata curata da Umberto Palazzo. Mentre per quanto riguarda “Tutti Giù Per Terra” di Davide Ferrario, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Culicchia, la colonna sonora è stata seguita direttamente dai C.S.I. che compaiono anche in un cameo nella pellicola, cosi come Mara Redegheri degli Üstmamò. Che altro… ho provato a mettere in fila una discografia “Dischi Del Mulo/Consorzio Produttori Indipendenti” il più possibile esaustiva, segnalandovi a mio insindacabile giudizio, alcuni lavori “minori” degni di nota, ma che per un motivo o per un altro sono rimasti nascosti nelle pieghe del tempo. DISCOGRAFIA. 1991 Üstmamò - Üstmamò Disciplinatha - Crisi Di Valori (mini-lp) Giovanna Daffini - L'Amata Genitrice 1993 Üstmamò, Disciplinatha, C.S.I. Consorzio Suonatori Indipendenti - Maciste Contro Tutti Üstmamò – Üstmamò (secondo disco omonimo) Acid Folk Alleanza - Acid Folk Alleanza 1994 Consorzio Suonatori Indipendenti - Ko De Mondo Yo Yo Mundi - La Diserzione Degli Animali Del Circo Marlene Kuntz - Catartica Disciplinatha - Un Mondo Nuovo Acid Folk Alleanza - Fumana Mandala C.S.I. Consorzio Suonatori Indipendenti - In Quiete 1995 Umberto Palazzo E Il Santo Niente - La Vita È Facile Per questo album che rimane a tutt’oggi uno dei miei preferiti di quel periodo e di quel mondo, riprendo parte di una recensione che scrissi anni fa per il sito online Debaser.it, di cui allego anche il link https://www.debaser.it/ umberto-palazzo-e-il-santoniente/la-vita-e-facile/recensione “Il prodotto con cui ne esce è un disco granitico, un frullato di sonorità care ad Helmet, Shellac, Jesus Lizard, Fugazi… costantemente intrise di lunatica malinconia à la Kurt Cobain, il tutto con un gusto tipicamente mediterraneo e “sense of humor” noir che ricorda un po’ il Flying Circus dei Monty Python. Palazzo non ha nessuna intenzione di essere transigente con l’ascoltatore, nei momenti più difficili della nostra vita si riesce ad entrare in sintonia con lui, ma mai avremo una parola di conforto o di comprensione da questo disco… nonostante il titolo. Una serie di canzoni monolitiche, “Cuore Di Puttana (hardcore)”, la title-track, “Elvira”, “Finalmente Sterile”, “Tu Non Mi Dai Nulla”, “Fata Morfina” suonano come enormi mezzi pesanti lanciati su strade dall’asfalto infuocato, intrise in storie borderline un po’ assurde e sempre in bilico tra realtà e fin-

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zione… “L’Aborigeno” e “Storia Breve” sono gli episodi più spiazzanti del disco, racconti di improbabili personaggi (un barbone da spiaggia il primo ed una ragazza che esce da una discoteca completamente ubriaca la seconda), recitati con voce secca e ferma che non tradisce alcuna emozione per le vicende dei protagonisti.” Artisti Vari - Materiale Resistente 1945 - 1995 Disciplinatha - A Raccolta Yo Yo Mundi - Bande Rumorose Andrea Chimenti - L'Albero Pazzo Andrea è reduce dall’esperienza con il gruppo new-wave dei Moda e da un esordio solista non perfettamente centrato, quando incontra sulla sua strada Maroccolo e Magnelli che lo spingono a registrare un nuovo disco con il loro aiuto. Tra febbraio e marzo del 1994 si chiudono nello Studio Emme di Calenzano a dare forma e vita a questo lavoro di strabiliante bellezza. Folk intimista, quasi etereo, in cui non mancano certo momenti di tensione, quasi nervosism sempre comunque ben bilanciati e mai chiassosi o troppo sguaiati. Un disco che è perfetto per l’imbrunire in un fresco pomeriggio di autunno inoltrato. La collaborazione nella scrittura e nella realizzazione del brano “Ti Ho Aspettato (I Have Waited For You) con David Sylvian, impreziosisce il lavoro, che rimane tuttora un disco meraviglioso. 1996 Marlene Kuntz - Il Vile Disciplinatha - Primigenia AFA - Nomade Psichico Various - Matrilineare Beau Geste/Africa X - Chakà Consorzio Suonatori Indipendenti - Linea Gotica Francesco Magnelli & Gianni Maroccolo - Escoriandoli (Colonna Sonora Originale) Ottorino Ferrari - L'Uomo Dei Secoli Divine - Sortie Boliwar Miranda/Maurizio Dami - A Good Day Artisti Vari - Jack Frusciante E' Uscito Dal Gruppo (Colonna Sonora Originale) Üstmamò - Üst Coro Delle Mondine Di Correggio - Mondariso 1997 Mira Spinosa - Aghàr Piàr Milegha Il Grande Omi – Il Grande Omi Quando ascoltai questo disco la prima volta (ma ancora per qualche anno) non avevo assolutamente le parole per descriverlo. Oggi posso dire, senza nessun dubbio a riguardo, che sia il miglior disco di “post-rock” italiano per distanza… anche se cantano.


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Santo Niente - 'Sei Na Ru Mo'No Wa Na 'I Andrea Chimenti - La Maschera Del Corvo Nero E Altre Storie Roberto Mariani - Plastica, Anamorfica Esistenza Ci S'Ha - La Tarantola Artisti Vari - Tutti Giù Per Terra (Colonna Sonora Originale) Andrea Chimenti/Fernando Maraghini - Qohelet Beau Geste - Il Tetto Del Mondo Marco Parente - Eppur Non Basta Enten Hitti - Giganteschi Pagliacci Del Mondo Solare Wolfango – Wolfango

Santa Sangre - Ogni Città Avrà Il Tuo Nome Un album magico, notturno, fumoso,. cinematografico. Santa Sangre nasce dalla fine dei Carnival Of Fool,”abbandonati” da Mauro Ermanno Giovanardi, cancellano ogni residuo dark-wave e si incamminano lungo strade desertiche e polverose, le strade battute qualche anno prima da Guy Kyser con i suoi Thin Withe Rope, ma invece di addentrarsi totalmente nel deserto e perdersi in quelle distese di sabbia, restano a distanza di sicurezza dalla costa, fatta di luci al neon e realtà chimicamente alterate care al movimento Paisley Underground. Insomma un disco veramente incredibile, irripetibile ed unico alla nostre latitudini, anche se un certo occhiolino strizzato al miglior cantautorato italico non manca, come non manca un incredibile omaggio a Celentano ed alla sua “24000 Baci” in versione quasi surf. Antennah - Il Nostro Labile Equilibrio Saro Cosentino - Ones And Zeros Eh? - Falso Falso, Malvagio Malvagio AFA - Manipolazioni (Progetto Audioalchemico) Dkea - CD Audio Ulan Bator - Polaire Ulan Bator - Végétale Marco Parente - Eppur Non Basta estAsia - Stasi 1998 Radiodervish - Lingua Contro Lingua Üstmamò - Stard'üst Ageo - Trashcan A Fa - Armonico Wolfango - Stagnola Anita Laurenzi/Andrea Chimenti - Cantico Dei Cantici Marco Paolini - Il Milione, Quaderno Veneziano Di Marco Paolini Massimo Fantoni/Francesco Tomei - Barra A Dritto Ageo - Trashcan François R. Cambuzat Et Les Enfants Rouges - Taurisano Cajarc Radiodervish - Lingua Contro Lingua

Here - Brooklyn Bank Progetto estemporaneo messo in piedi da Mauro Teho Teardo e J.F. Coleman dei Cop Shoot Cop con la collaborazione di Lydia Lunch, Scott McCloud dei Girls Against Boys, Martin Atkins dei Ministry e Bill Bronson degli Swans . Una commistione di noise industriale, trip-hop, esperimenti sonori provenienti da alcuni dei peggiori incubi urbani, drum’n’bass e glaciali inserti di elettronica. Provare per credere. Yann Tiersen - Le Phare Terza prova sulla lunga distanza per l’artista bretone. Disco notturno ed un po’ fumoso, costruito attorno al piano ed alla voce di Yann, una musica estremamente cinematografica, minimale fino a diventare quasi astratta, rotta però solamente dai silenzi fra un brano e l’altro. Cinematografica dicevo, questo “Le Phare” infatti arriva qualche anno prima dei successi planetari che il nostro raggiungerà grazie alle colonne sonore de “Il Favoloso Mondo di Amélie” e “Good Bye Lenin!”. Massimo Altomare, Stefano Bollani - Gnosi Delle Fanfole Giorgio Canali - Che Fine Ha Fatto Lazlotòz Various - The Different You - Robert Wyatt E Noi 1999 Marlene Kuntz - Ho Ucciso Paranoia Corman & Tuscadu - Jaune Et Noir


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La forza de “IL

MACISTE”

Intervista a Andrea Tinti di Massimiliano Stoto L’esperienza cartacea de “IL MACISTE” fu uno stimolo incredibile per chi in quel decennio produceva fanzine. Finalmente anche un’etichetta dava importanza alla diffusione cartacea della musica. Un corto circuito che si autopromuoveva attraverso metodi tutto sommato lenti e desueti. La storia del “IL MACISTE” ha avuto un ruolo non marginale nella storia del Consorzio e non andava dimenticata, così per ricordarla ho contattato l’ex-direttore Andrea Tinti.

WN: Come sei stato coinvolto nel progetto “Il Maciste” ? Andrea: Mi ha coinvolto Gianni Maroccolo. Era rimasto colpito da una mia recensione di un album dei Litfiba scritta per Rockerilla. Mi espose la sua idea ed accettai all’istante. Avrei lavorato con artisti che stimavo e c’erano tutti i presupposti perché “Il Maciste” diventasse una bella e grande esperienza editoriale”. WN: “Il Maciste” è stata un’innovazione per la diffusione e promozione dei gruppi e della musica di un’etichetta, a memoria non ne ricordo prima e nemmeno dopo… Andrea: C’erano già stati in passato tentativi, per altro riusciti, legati ad etichette indipendenti, mi ricordo per esempio l’Harpo’s bulletin della bolognese Harpo’s Bazaar ma nessuno con una cadenza diciamo regolare e che si rivolgeva ad un pubblico selezionato e ben definito. “Il Maciste” è stato il primo house organ strutturato come una vera e propria rivista specializzata. Da quella esperienza è nato poco dopo anche il mensile della PolyGram, “Pianeta Musica”, una rivista che arrivava gratuitamente nei negozi di dischi d’Italia”. WN: Non avevate una grafica accattivante ma di sicuro i contenuti erano di livello perché oltre alla promozione fine a se stessa quindi con i dischi etc…le interviste mi sembravano “vere”, quella a Ferretti sul n°3 lo è di sicuro almeno…. Andrea: La stampa a due colori e il numero delle pagine non permetteva di potersi sbizzarrire con una grafica seducente e non voleva farlo. “Il Maciste” era graficamente “povero” ma ricco di testi. Un monolite lanciato, numero dopo numero, nello stagno del music business italiano. Ovviamente essendo un house organ del C.P.I. aveva a cuore tutte le produzioni del Consorzio e tutte le interviste dalla prima all’ultima erano vere. Non si poteva raccontare fandonie agli ascoltatori del C.P.I., lo avrebbero intuito subito e avremmo tradito la loro fiducia. WN: E’ stato veramente, come dicono alcuni addetti ai lavori, un periodo d’oro per l’industria discografica italiana ? Quanto influì su tutto questo il successo dei CSI ? Andrea: Furono belle stagioni. Sembrava che tutto potesse accadere e che qualcosa di duraturo avrebbe scalfito il pa-

norama italiano. I C.S.I. e il lavoro del C.P.I. fu sicuramente un bel traino per molti artisti, che in qualche modo ci hanno creduto. Poi tutto d’un tratto è finito e si è tornati alla normalità. WN: Alla fine “Il Maciste” promuoveva i prodotti di casa propria…ma mi ricordo il bell’inserto “Nomade Psichico” che parlava d’altro…. Andrea: L’inserto del “Nomade Psichico” era curato Photo by Gianluca Moro direttamente da Fabrizio Tavernelli degli Afa, che si occupava di tutti i testi dell’inserto. Una ulteriore finestra aperta sul C.P.I.. WN: Ferretti e Zamboni intervenivano mai in redazione ? Andrea: La redazione era a Firenze dove si svolgevano le riunioni per decidere gli argomenti da trattare nel numero in lavorazione. Ferretti e Zamboni venivano coinvolti a distanza. Si può dire che il progetto de “Il Maciste” era seguito dal versante fiorentino del Consorzio. WN: Pubblicavate anche lettere al vetriolo di chi non amava per niente il Consorzio…. Andrea: Non c’era nessun motivo per non pubblicare chi dissentiva dal lavoro fatto col C.P.I., perché la censura non albergava ne “Il Maciste”. Anzi le lettere al vetriolo davano il giusto impulso per continuare. Si capiva che eravamo sulla strada giusta da percorrere. Se penso a “Il Maciste” in questa epoca schiacciata dai


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al Corriere della Sera) e ad un progetto del Centro Musica di Modena che si chiama Sonda. WN: La musica ti appassiona ancora ? Ci sono gruppi, scene e tendenze nuove che segui e ti convincono ? Andrea: “La musica fa parte della mia vita. Ascolto tante cose per una curiosità innata, anche se ovviamente non tutto quello che sento mi piace o mi spinge al secondo ascolto. Non ho problemi a farmi coinvolgere da un pezzo di Young Signorino, o da un brano di Calcutta, oppure dal sentire Manuel Agnelli che lancia i suoi giudizi dallo studio televisivo di X Factor. C’è del buono in ogni genere musicale, anche nella trap”.

social media immagino una valanga di haters pronti a massacrarti alla prima virgola. WN: L’occasione di sentirti per questo speciale sui CCCP mi dà l’opportunità di chiederti d’altro….visto che ti incontrai tanti anni fa…sulle pagine del più giornale italiano dell’epoca Rockerilla…recensione dei Tampax nell’Aprile del 1990 Andrea: Gli anni ‘90 sono stati l’ultimo periodo “felice” che arrivava dopo la golden age dei decenni precedenti. Con il nuovo millennio tutto è diventato uno spezzatino molto difficile da decifrare. Oggi si è sommersi da informazioni in tempo reale che arrivano da tutte le parti. Troppe informazioni che alla fine ottengono sono il risultato di allontanarti da quasi tutto. Quando leggo le riviste in edicola oggi e trovo ad ogni uscita 150 recensioni, penso che ci sia troppa carne al fuoco. Bisognerebbe selezionare, proporre al lettore la parte più meritevole di attenzione. Anch’io canto sotto la doccia ma non per questo pubblicherò il mio disco. WN: Che background avevi e come ti sei avvicinato al mestiere e a Rockerilla ? Andrea: Sono arrivato a Rockerilla dopo qualche esperienza con altre riviste e fanzine, una su tutte “Urlo”, un magazine dedicato alla scena italiana fatto veramente col cuore. Per Rockerilla scrivevo quasi esclusivamente di artisti italiani, credevo fermamente che c’era altro da poter ascoltare oltre al Festival di Sanremo, senza nulla togliere al Festival della musica italiana. Se anche un solo lettore si fosse incuriosito per una intervista o una recensione avrei centrato il mio obiettivo”. WN: Com’è cambiato il tuo lavoro in tutti questi anni ? Sei sempre nell’ambiente musicale ? Andrea: Negli anni ho scritto per molte riviste specializzate da Blast a Dynamo, passando per Mente Locale, Blu, Punto Zero e per un quindicinale che alla fine è stato la mia palestra “Mongolfiera”. Proprio grazie a quella esperienza sono stato chiamato a collaborare con le pagine regionali de L’Unità. Finita l’avventura del C.P.I. ho trascorso qualche stagione lontano dalla musica scritta per una necessità di respirare aria fresca pur continuando ad ascoltare tantissime canzoni. Oggi collaboro con il Corriere di Bologna (allegato

WN: L’età condiziona il giudizio su un gruppo o un disco soprattutto se è un esordio ?...intendo dire da giovani ci si entusiasma più facilmente ? Andrea: Non credo che l’età condizioni il mio ascolto. Forse perché mi illudo che la musica mi abbia mantenuto giovane. L’entusiasmo ancora oggi non mi manca. Posso trovare stupendo un brano di un sedicenne al suo esordio ma anche il ritorno di un artista che ascoltavo trent’anni fa. La musica ha il potere di sedurti a qualsiasi età. WN: Il rock è morto e sepolto e il digitale ha definitivamente riempito a fossa ? Andrea: Il rock non morirà mai come non morirà mai la musica fatta al computer. C’è spazio per tutti i generi e prima o poi tutto torna alla ribalta. Dicevano che il rap sarebbe durato il tempo di una stagione ed invece è ancora tra noi.

WN: Sei un appassionato di vinile…questo ritorno ti scalda il cuore ? Andrea: Siccome non ho mai smesso di comprare vinili non ho sentito in particolar modo il suo ritorno. Però mi fa piacere che anche i giovani ascoltatori siano tornati ad acquistare i dischi. Mi ricordo ancora un cassiere di una catena di elettronica che guardò, cercando di capire cosa fosse, un vinile che stavo acquistando e alla fine me lo chiese: “Cos’è questa cosa?”. Penso che adesso lo sappia anche lui e magari ne ha una collezione in casa.


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Ho trovato LAZLOTÒZ Intervista a Giorgio Canali di Massimiliano Stoto Ho trovato LAZLOTÒZ, anzi mi ha trovato lui. Una sera, all’improvviso, un messaggio sul cellulare: ”Stasera posso, ci sentiamo intorno alle 22:00 ?”. Era qualche mese che ci provavamo...e quando meno te lo aspetti….lui ti dimostra di essere uno di parola. Il bello di Giorgio Canali è che è uno che mette le cose in chiaro fin da subito, quando mi ha risposto la prima volta ha messo subito in chiaro le cose: ”Ok per l’intervista basta che non sia sulle solite cazzate C.S.I., Ferretti, Zamboni etc etc...anche se francamente non so quando potrò farla”. Giorgio Canali, principalmente chitarrista ma anche un sacco di altre cose, non ha bisogno di particolari presentazioni, se hai WN per le mani in una maniera o nell’altra sai chi è e cosa ha fatto. Nel suo inconfondibile stile secco e diretto ha risposto a domande che volutamente volevano coprire molti aspetti della sua carriera che sono certamente conosciuti ma, a mio parere, fino a un certo punto. Valeva la pena, quindi, ritornarci sopra. WN: Sei d’accordo sul fatto che CCCP e CSI abbiano, in modo diverso, segnato un momento epocale della musica italiana ? Questo secondo te è accaduto per via del messaggio che trasmettevano o per le vostre capacità ? Giorgio: Sono stati due gruppi importanti ma in maniera diversa. Nei primi contava più il messaggio nei secondi le capacità di ognuno fuse insieme. A me i CCCP, da ascoltatore e lavoratore del settore, mi facevano cagare. Trovavo geniali solo i testi di Giovanni. Era una cosa immonda per chi, come me, era cresciuto con il punk vedersi citare, da una certa stampa italiana ignorante, i CCCP come icona del punk italiano. Sta cosa mi faceva incazzare come una bestia. Era un’operazione teatral-mediatica molto triste. Non è la cresta che fa il punk. C’erano cose molto più tese in Italia, una su tutti i Kina, ci siamo intesi ? I CCCP erano una roba completamente fuori dalla norma, la cosa bella loro è che Giovanni aveva una capacità di scrittura e di sintesi di pensieri già visti e sentiti, unica. Non c’è niente da fare. Ferretti per quanto possa essere criticabile è un grande. Sono capitato in mezzo ai CCCP perché abbiamo fatto il loro ultimo album insieme, ma io venivo dall’universo mentale, del punk vero e delle cose assolutamente anarchiche. Mi capitò di lavorare con i Litfiba che in quegli anni lì mi piacevano moltissimo e che, secondo me, sono stati il gruppo italiano più figo degli anni ‘80 e da lì finii negli ultimi CCCP. I C.S.I. invece furono tutta un’altra questione, sono stati grandi. Ognuno di noi, piccole teste di cazzo, aveva un’idea ben precisa e andava nella direzione che riteneva giusto prendere. E come di solito succede quando ci sono delle personalità forti che si affrontano e che si incontrano, le idee divergenti convergono in una miscela esplosiva. Mi viene l’esempio di un gruppo unico, i Tuxedomoon, uno dei più fighi della terra. “Desire” il loro disco dell’81, che a me fa andare fuori di testa ancora oggi è principalmente frutto delle ten-

Photo by Nicola Montanari sioni fra Steven Brown, il sassofonista, e Blaine Reininger chitarrista e violinista. Violini tzigani e fighetti sax newyorchesi hanno generato un album pazzesco. E La cosa che è successa con i C.S.I. era un po’ quella. Ognuno di noi era nel suo mondo e detestava l’universo sonoro degli altri e il cocktail che è venuto fuori è stato esplosivo. WN: Da entrambi i gruppi sono usciti fior di professionisti che hanno lavorato e lavorano nell’ambiente ancora adesso….siglando anche, con le loro produzioni, fior di dischi…. Giorgio: I professionisti devono solo farsi fottere. Il professionismo e la musica non c’entrano un cazzo. Se sei un orchestrale sei un orchestrale se sei un musicista sei un musicista. Questo è un concetto ben preciso. Il professionismo è una cosa che fa molto male alla musica, alla creatività e all’arte. Arte poi è una parola grossa, non voglio usarla né per i CCCP né per i C.S.I. né per i Rossofuoco che è la mia storia attuale. Ma quello che penso dei “professionisti” è questa roba qua. WN: All’inizio della tua carriera sei stato prima di tutto un tecnico del suono….poi il salto sul palco…ci spieghi, di questo lavoro o arte, chiamala come vuoi, che capacità o attitudine devi avere per fare bene una e l’altra ? E’ automatico che se fai bene uno fai bene anche l’altro ? Giorgio: Io sono tuttora un tecnico del suono. Io sono bravissimo a fare quel lavoro lì. Come sono un produttore con i contro coglioni. Io sono bravo a far le cose. Quando si tratta di chitarre elettriche e poco pugnette credo di essere uno dei migliori che puoi trovare sulla piazza. Ritengo che quando ti metti a manipolare troppo le cose fai cagate. Un tecnico del suono bravo, un produttore bravo


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è qualcuno che lascia le cose come sono. Quelli che pretendono di fare gli alchimisti del suono sono dei ciarlatani di merda. Sono molto violento su questo. Anche queste figure che ci sono in giro oggi, i producer, quelli che tirano fuori i fenomeni della trap o dell’hip hop e li modellano a loro immagine e somiglianza manco fossero Dio. Io a sta gente gli dico: “ma vaffanculo !!!”. L’energia viene da un individuo o da una band che ha una sua personalità, il produttore e il tecnico del suono sono quelle figure che in prima analisi devono lasciare intatta l’anima del gruppo e devono cercare di mettere in pratica le idee fighe di qualcuno che ce le ha. Quando ho prodotto il primo album dei Verdena quelli erano i Verdena, non erano i Verdena trafficati da Giorgio Canali. Purtroppo queste figure sono mitizzate al punto che anche un certo tipo di stampa gli da la ribalta. WN: Sei conosciuto come un rocker ma hai avuto anche un interessante approccio elettronico all’inizio degli anni ’80 con Politrio e il disco “Effetto Eisenhower” che ricordi hai di quelle registrazioni e delle influenze di quella musica che proponevate ? Giorgio: Era un esperimento...una cosa nuova. A me gli esperimenti sono sempre piaciuti e con l’elettronica ci vado a nozze. Io oramai sono un vecchio di merda ma l’adsl ce l’avevo attaccata al mio telefono prima che il 98% della popolazione italiana sapesse cos’era. La tecnologia non mi spaventa per niente, sono anarchico, ma ben venga la tecnologia. Il problema è che quando sulla tecnologia arrivano le mani lunghe di chi comanda sono cazzi per tutti. E sta succedendo... di brutto. WN: Nel 2018 come Politrio avete pubblicato un 7” con la cover di “Psycho Killer” dei Talking Heads, era una cosa che avevate in giro e avete rieditato oppure l’avete registrata per l’occasione ? Giorgio: Io non so niente di ‘sta cosa, qualcuno l’ha fatto, probabilmente non aveva nemmeno il diritto di farlo però chissenefrega. Per me la musica deve essere libertà. Punto. WN: Hai amato la new wave ? I Joy Divison sono stati in età giovanile una “cosa che ti è venuta addosso” ? Hai anche messo in piedi uno spettacolo con Angela Baraldi, in cui rendevi a questo gruppo, ma forse più al loro cantante, un omaggio veramente sentito. Cosa ti ha colpito della personalità di Ian Curtis ? Giorgio: I Joy Division, come i Tuxedomoon e i Clash, fanno parte del mio DNA, come tante altre cose ascoltate in gioventù. Era il trentennale della morte di Ian Curtis e Ero Righi ebbe l’idea di mettere su questo spettacolo che doveva tenersi in un’unica data al Museo di storia naturale di Reggio Emilia. Poi di date ne abbiamo fatte 90 o 100. Di quello spettacolo lì abbiamo avuto l’intelligenza di non farci un disco. E’ una roba molto particolare, rifare i Joy Division senza basso e batteria è una sfida notevole e far “cantare” Ian Curtis da una cantante è un’altra sfida notevole. Penso che ci siamo riusciti. Era una roba molto particolare e molto figa e anche molto lontana dall’universo dei Joy Division e della New Wave. WN: Hai vissuto e lavorato in Francia, hai una meravigliosa padronanza della lingua di questa nazione, tanto che il tuo primo disco solista “Che fine ha fatto Lazlotòz ? ” è cantato in buona parte in francese….comporre un pezzo in una o nell’altra lingua ti è indifferente ?

Giorgio: Io ho imparato a scrivere canzoni in italiano cominciando a scrivere canzoni in francese. Mi sono accorto che in francese usavo dei giochi di parole, delle espressioni orribili che avrebbero fatto arricciare il naso a chiunque, senza paura di esagerare. E quando ho capito questo mi sono detto perché non devo farlo anche in italiano ? WN: Vero che coraggio non te n’è mai mancato ma pubblicare un disco metà in italiano e metà in francese è stata una scelta veramente di rottura….considerando anche le banali antipatie che ci legano ai nostri cugini transalpini ancor di più….come mai hai deciso così ? Giorgio: Vivevo metà in Francia e metà in Italia, per me era naturale fare una cosa del genere...tra l’altro quel disco uscì anche in Francia con un’edizione diversa e vendette molto di più, il doppio delle copie rispetto all’Italia, nonostante fossi un illustre semi-sconosciuto. Tra l’altro quel disco e il successivo ci permise di fare anche una sessantina di date in Francia. WN: In quel disco le chitarre sembravano scimitarre. Oltre a te i due dei Marlene, Umberto Palazzo, Salvatore Russo e Serge Teyssot-Gay dei Noir Desir…un disco molto rumoroso…. forse il tuo più rumoroso. Dopo con i Rossofuoco hai fatto dischi più centrati sul songwriting e l’uso della parola è diventato più importante…. Giorgio: Bè c’è la crema dei chitarristi italiani e francesi dentro. Attenzione c’è la crema dei chitarristi fighi, non bravi. Che è diverso. Quel disco l’ho fatto nella maniera che dicevano i Beatles “with a little help from my friends” . In quel disco lì c’è anche Akosh Szelevényi che ai quei tempi era il saxofonista etnico più ricercato d’Europa. Lui si è auto invitato alle registrazioni e ci ha imposto di mettere il sax. Un sax nei miei pezzi non esisteva proprio... io odio il sax come strumento...eppure ha funzionato. E’ stata una cosa magica devo proprio ammetterlo. Sono proprio contento di quell’album lì, sono passati quasi venticinque anni ma mi dà soddisfazione ancora oggi. Magari non è un album coerente e ha delle incongruenze rispetto agli altri che ho fatto però che figata !!!!! WN: Ti faccio una domanda che ho fatto anche a Maroccolo… qual è l’approccio di un musicista verso un disco su cui ha lavorato ? Nei momenti liberi per esempio metti mai su “Canzoni da una spiaggia deturpata” sullo stereo ? Giorgio: No, perché ascolto più volentieri i dischi successivi, perché per me Vasco è migliorato tantissimo soprattutto con i dischi successivi. L’ultimo è un capolavoro. Brondi è uno che mi da delle emozioni e le emozioni sono importantissime. WN: Pur non essendo molto giovane, quel disco mi ha veramente colpito e sono convinto che senza la tua mano e le tue chitarre non sarebbe stato la stessa cosa…..quando hai sentito i pezzi la prima volta cosa hai pensato di avere tra le mani ? Giorgio: Ti smentisco al volo perché vale la stessa cosa che ti ho detto prima per l’album dei Verdena. Mi piace contribuire alle cose ma non essere talmente pesante da deviare le cose. Ti faccio un esempio, io e Gianni abbiamo lavorato insieme su “Colori che esplodono” il primo album dei Timoria, lui era il produttore e io ero l’assistente alla produzione. Quel disco lì è virtuale nel senso che quei Timoria lì non esistevano. E’ una cosa che si capisce soprattutto alla luce degli album successivi. Ci siamo andati giù molto pesanti sugli arrangiamenti e sul suono. Loro erano una roba molto più rock ‘n’ roll, e con rock ’n’ roll intendo una roba più d’istinto e suonata male, e quel disco è tutto tranne che una cosa istintiva e suonata male. Non mi piace il produttore alla Steve Albini che uniforma il suono e si fa riconoscere, mi piace il produttore che ordina le carte sulla tavola e deve far rendere al meglio quello che c’è.


WN: Con il primo dei Rossofuoco hai firmato un disco che di fatto ha anche siglato, un marchio di fabbrica. Un suono che poi abbiamo trovato anche nei dischi che sono seguiti ovvero pezzi tirati, parole schiette e ballate consolatorie il minimo indispensabile….fai questa cosa… la fai molto bene…non temi che alla lunga stanchi ? Giorgio: Se vuoi una risposta veloce e franca ti dico chissenefrega. Neil Young fa lo stesso disco da cinquant’anni e uno è più bello dell’altro. Mark Lanegan uguale. E Springsteen ? Non voglio certo paragonarmi a loro ma perché devo scuotere il culo quando non mi va ? Chi va a cercare troppe cose nuove, secondo me, ha paura di invecchiare. Io non ho paura di invecchiare, sono molto più figo oggi, a sessantatre anni, che quando ne avevo quaranta. WN: Sono sempre attratto dai tuoi dischi, forse perché la sensazione che trasmettono, prima di tutto, è quella di essere trasparenti….ma a livello di scrittura di testi, al di là della schiettezza e della lucida analisi che fanno trasparire a me ha sempre la colpito la sottile e caustica ironia di cui sono pervasi, questa società ti fa incazzare ma anche ridere ? Giorgio: Soprattutto mi fa ridere certo. Il problema è...anzi non è un problema….ma una questione. La questione è capire, se sei in grado di prenderti per il culo o meno. Se ce la fai riesci a passare qualsiasi ostacolo, altrimenti se non hai nemmeno un po’ di autoironia prima o poi vai sotto a un treno. E io sotto a un treno non ci vado. Quindi più che di ironia parlerei di autoironia perché sono capace di prendere per il culo me, le idee in cui ho sempre creduto, i movimenti in cui ho sempre militato. Se non sei capace di fare questo non si sopravvive...specialmente di questi tempi dove certi concetti come la libertà, personale e interpersonale, li stiamo massacrando. E’ una cosa terrificante. “Ma se io avessi previsto tutto questo….” su questa cosa mi rendo conto di essere stato un’idiota perché forse avrei dovuto prevederla….ma personalmente pensavo che prima del 2050 non sarebbe successo e a quel punto io sarei stato comunque già morto. E invece è arrivata prima e ora sono cazzi per tutti perché non ne usciamo più. Il grande fratello è arrivato e ha una minchia enorme. WN: A me è piaciuto molto anche “Nostra signora della dinamite” che però è un disco più “intimo” e “personale”….puoi parlarmene….. Giorgio: Ma non credo più personale di altri miei dischi. Di solito parlo per l’ottanta per cento di me stesso e per il restante di quello che mi circonda. Tenendo presente che spesso le due parti si sovrappongono. Cosa c’è di più politico del concetto di amore ? Non c’è niente. L’amore è politica. Staresti mai con qualcuno che ha delle idee completamente opposte alle tue ?

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WN: Mentre “Rojo” è il tuo disco che amo di più, ci sono tante cose e suoni con cui sono cresciuto, ci sono canzoni che ti prendono subito e c’è “Orfani dei cieli” che è la canzone che vorrei sempre sentire al termine della notte….il classico pezzo che Vasco Rossi e Ligabue non riusciranno a scrivere mai ….altro che certe notti….. Giorgio: L’album è stato fatto in un momento di grazia particolare. Solo due anni prima avevamo editato “Nostra signora...” e non era facile francamente andare aldilà di quello perché è un disco che spacca. E’ venuto fuori così, ho tirato fuori un po’ più di rabbia verso quel micro mondo italiano infestato da Berlusconi e i suoi adepti, che poi sono andati via ma è arrivato di peggio. “Orfani dei cieli” è una canzone di merda con la pioggia dentro. E’ stata pensata per chiudere l’album ed è l’unico pezzo assieme a “La tempesta” registrato a strati. Una cosa rara per i Rossofuoco che solitamente sono molto più istintivi. Fatto sta che dopo quell’album per sette anni non sono riuscito più a scrivere niente. Non avevo più niente da dire. Poi ha cambiato casa, mondo, universo e finalmente mi è venuto “Undici canzoni di merda con la pioggia dentro”. WN: “Venti” invece, il tuo ultimo disco uscito l’anno scorso, un disco lungo… venti pezzi e quasi ottanta minuti…hai messo dentro tutto, tanto, forse troppo ? Giorgio: Eravamo chiusi in casa, avevamo tempo, ci siamo scambiati i file via internet. E’ venuto fuori un album molto particolare che credo sia il mio migliore. WN: Come ti sei trovato a lavorare in questa maniera ? Giorgio: L’avevo già fatto sia con i Rossofuoco che con l’ultimo dei P.G.R. “Ultime notizie di cronaca”, dove con Gianni ci siamo visti si e no due volte in due mesi anche se stavamo a dieci metri uno dall’altro. L’unica differenza quella volta fu che Giovanni venne a casa mia a cantare i pezzi. Certo “Venti” rispetto a tutti gli altri è stato concepito così, ognuno a casa propria, mentre tutti gli altri all’ottanta percento sono frutto di improvvisazioni insieme senza neanche la cuffia in testa e ascoltandosi direttamente dagli ampli e dai tamburi. Senza filtri registrando sempre tutto e costruendo la canzone…. e poi io alla fine metto le parole. WN: Tu sei nato a Predappio, una paese che oltre a ospitare le spoglie di Mussolini, ogni tanto sale alle cronache per vari ritrovi e anniversari che certi nostalgici del ventennio hanno il piacere di onorare….ci torni spesso nel posto dove sei nato ? come vivi la tua visione politica, se ne hai una, con la storia del posto in cui sei nato ? Giorgio: Mussolini ci è nato e ci è sepolto e durante il ventennio ci è passato al massimo una decina di volte. Mio nonno era un suo amico e suo compagno fino a quando è stato socialista. Poi il nonno diventò uno che scriveva sotto al cartello della Via Arnaldo Mussolini “e via anche il fratello !!!!”. Mio nonno era un socialista nell’anima che votò P.S.I. fino a quando nel simbolo c’era falce e il martello, quando li tolsero non votò più. Ora c’è un amministrazione di destra che favorisce questi ritrovi ma Predappio è sempre stata amministrata dalla sinistra, quella vera. Mi ricordo un articolo sul Resto del Carlino di un Sindaco di Predappio che diceva ai fascisti: “State a casa e non rompete i coglioni, ricordatevi che Predappio ha dato i natali, non solo a Mussolini ma anche a Adone Zoli, Presidente del Consiglio nei primi anni ‘60, democristiano che vi piaccia o meno e a Giorgio Canali punk di merda!!!!”. Magari le parole erano leggermente diverse ma il senso era quello.


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Non siamo di destra, anzi, siamo buoni Un ricordo del gruppo e un’ intervista a Dario Parisini dei

DISCIPLINATHA di Giorgio Ferroni e Massimiliano Stoto

I Disciplinatha nascono a Bologna verso la fine degli anni ‘80, e riescono ad attirare l’attenzione della Attack Punk Record (La stessa dei CCCP – CCCP che per i Disciplinatha sono stati ispirazione e per certi versi antitesi) che produce, nel 1988, un mini LP con sei tracce che non passa inosservato. Il titolo è un riferimento ad un discorso di Mussolini (“Abbiamo pazientato 40 anni. Ora basta!”) il cui sample introduce il brano “Addis Abeba”; un brano industrial tiratissimo che rimanda a gruppi come i Ministry che nel ritornello recita “a noi Addis Abeba” (che è la capitale dell’Etiopia conquistata nel 1936 dall’Italia Fascista). Hanno un suono violento e molto chitarristico che si rifà ai gruppi post punk di area germanica e agli sloveni Laibach. Nell’art work ci sono piccole italiane e bambini vestiti da balilla. La scelta di quest’immagine così forte è da ricercare nella volontà di opporsi all’omologazione culturale che il PCI aveva sempre esercitato in Emilia Romagna e non solo. È abbastanza evidente che presentarsi con questa immagine non era certo semplice, soprattutto in Emilia, e questo creerà al gruppo forti critiche e un evidente ostracismo da parte di media e organizzatori di concerti. Il gruppo non trova spazio ed arriva ad un passo dallo scioglimento, ma nel 1991 arriva la svolta grazie al contratto che gli ex CCCP Zamboni e Ferretti propongono ai Disciplinatha con la loro etichetta “I dischi del mulo, label che stampa un EP di due brani (Crisi di valori - Nazioni) in vinile rosa. Essere nel giro degli ex CCCP dà ai Disciplinatha, prima una sorta di legittimità politica a proporsi artisticamente nell’ambito della musica alternativa e poi una grande visibilità che li porta ad essere uno dei nomi di punta dell’etichetta assieme agli Ustmamò.

Il18 settembre del 1992, viene registrato un concerto ospitato dal Centro per l'arte contemporanea di Prato. Parte di questa registrazione verrà poi pubblicata nel 1993 con il nome di “Maciste contro tutti”, sarà la prima incisione ufficiale in cui gli ex CCCP di “Epica” si presenteranno con il nome CSI. Il disco comprendeva quatto tracce degli Ustmamò, tre dei Disciplinatha e cinque dei CCCP/CSI. È stato un disco importante perché rappresentava nei fatti il battesimo del fuoco per la scena rock indipendente italiana, scena che avrà una discreta fortuna nei successivi anni, fortuna certo stimolata anche da un mercato discografico allora fiorente. I tre gruppi realizzarono nel 1993 anche una fortunatissima tournee sold out in diverse città italiane (io ebbi la fortuna di assistere alla data di Milano, il 18 febbraio al Rolling Stones).

In questo periodo la formazione originale dei Disciplinatha aveva subito alcune modifiche e si era stabilizzata attorno a: Dario Parisini (chitarra), Cristiano Santini (voce e chitarra); Simone Bellotti (batteria), Valeria Cevolani (voce) e a Roberta Vicinelli (basso e tastiere). Nella scia di questa “riabilitazione artistica” arriva il plauso della critica e l’apprezzamento del pubblico e nel 1994 anche il primo vero album, il titolo è “Un mondo nuovo” ed è pensato sul tema del cambiamento conseguente al crollo della prima repubblica dopo “Mani pulite”, cambiamento che il gruppo percepisce come fallimentare già in partenza (“Politici incolpevoli, imprenditori e tecnici, Faranno un mondo nuovo, per noi l'ordine nuovo”). L’album ha un discreto successo anche grazie alla presenza della cover del brano di Battiato “Up patriots to arms” che ha un bel video clip in bianco e nero che buca anche lo schermo di Videomusic. La vocalist Valeria Cevolani con l’alternanza della sua voce con quella di Santini caratterizza molto il sound che è complessivamente meno duro e con diverse influenze crossover, ma sempre contraddistinto dalle chitarre incisive e vigorose di Parisini. Nel disco troviamo anche la versione di un brano di Giovanna Daffini “Vi ricordate quel 18 aprile” 1948, lo stesso brano verrà eseguito live dal gruppo nel 1995 a Correggio nel famoso concerto che diventerà poi il documentario "Materiale resistente" di Davide Ferrario dedicato


alla commemorazione della liberazione dai nazifascisti e alla festa del 25 aprile. Nonostante tutto il parlare rispetto alle posizioni politiche del gruppo, la loro partecipazione all’evento per dirla con Ferretti “stava nella logica delle cose”. Dal concerto verrà tratto anche un fortunato CD pubblicato da Mercury con la partecipazione dei gruppi di punta dell’Underground Italiano fra cui CSI, Ustmamò, Gang, Mau Mau, Africa Unite, Marlene Kuntz e, appunto, Disciplinatha. Nello stesso anno la band si esibirà anche nel classico concerto del Primo Maggio a Roma offerto dai sindacati. Nel 1996 pubblicano il secondo LP “Primigenia” che non soddisfa pienamente il gruppo, lo stesso Parisini in un’intervista a Rolling Stones Italia dichiarerà “Primigenia era un bel disco di canzoni, venuto male tecnicamente anche per colpa dell’etichetta di allora”. Di lì a poco il gruppo deciderà di sciogliersi. Nel 2012 viene pubblicato un cofanetto celebrativo che contiene l’intera discografica del gruppo e un documentario “Non è un’esercitazione”. Il documentario (molto interessante) è opera di Alessandro Cavazza e si trova attualmente anche su You Tube. Il gruppo ha diversi estimatori fra cui alcuni intervistati nel documentario citato, ad esempio Jello Biafra (“I Disciplinatha sono l'unico gruppo italiano che vale la pena ascoltare”), Zamboni e Ferretti. Fra il 1999 e il 2000, Parisini ha fatto parte dei Massimo Volume. Nel 2017 Santini e Parisini hanno realizzato un progetto con il nome di “Dish-Is-Nein” pubblicato su Contempo che riprende dei frammenti dalla traccia di Materiale Resistente.

INTERVISTA A DARIO PARISINI WN: La prima domanda ci fornisce l’occasione di agganciarci all’argomento principale di questo numero di WN, come vi siete conosciuti con I CCCP/CSI, cosa vi accomunava e cosa ti ricordi di quegli anni. Dario: Conobbi Lindo personalmente nell’89, l’occasione fu il set di lavoro di un film “La fine della notte’’ di Davide Ferrario. Da giovanissimo ho fatto l’attore, non mi piaceva ma mi faceva gioco sui quattrini, evitandomi il lavoro vero o di “raccontarmela” all’ università alle spalle dei miei. Con quei soldi mi comprai un’auto, che per chi vive in provincia fa la differenza. E mi comprai anche ‘’l’attrezzatura’’, mutuando un termine dai Pink Floyd quando cercavano membri… (dovevano avere l’attrezzatura) ovvero gli strumenti idonei. Conobbi Lindo quindi. La scena del film era una colluttazione, e nel tempo libe-

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ro tra i lavori, gli regalai il mio primo album uscito l’anno prima. Mi contattò mesi dopo chiedendomi di salire al Cerreto, il Tibet dell’Emilia, per parlare. Scrutava coi suoi occhiacci quel vinile alla luce instabile del camino sempre con una MS in bocca, distraendosi dalla cena sul fuoco. Da li nacquero cose. La soddisfazione di essere arrivato a suonare con persone che ritengo musicalmente influenti, per me è stata enorme. Andare in tour con i C.S.I. e fare delle date in cui mancava Massimo, sostituito da me e da uno degli Üstmamò, suonare con Battiato sono stati dei bei momenti. Credo che ci accomunasse il senso di fare musica e del perché siamo qua, che è un po’ diverso dal senso che si è trasmesso ai giovanissimi di oggi, che a mio parere hanno la percezione che fare musica voglia dire apparire. Come andare al Grande Fratello o fare i modelli.

WN: Per molti addetti ai lavori i primi anni ‘90 sono considerati tra i periodi migliori del rock made in Italy tu che li hai vissuti cosa puoi dirmi a riguardo ? Dario: Negli anni 90 per motivi generazionali e politici vi erano tanti spazi in cui fare cose, purché si rientrasse in una definita cornice politicamente corretta…si prestasse il fianco a chi pagava insomma. Come per i giornalisti. Sai che novità…. quando stavo coi Massimo Volume (gruppo accorto a certe dinamiche) ho dovuto fare un concerto a sostegno della campagna elettorale del candidato Sindaco a Bologna, al teatro delle celebrazioni di Bologna (poi si narra del Rock come forma libera contro ogni potere). Sia chiaro, gli artisti pur di esserlo, succhiano cazzi oggi come nel ‘500. Ma al tempo prendevano più soldi ed erano veri talenti. Quella generazione degli anni ‘90, tra promoter, artisti, volontari ecc…han creduto che il bene fosse solo nel loro impianto stereo, senza rendersi conto di esser stati l’Hollywood subito dai loro genitori, trasposto in linguaggio aggiornato e più subdolo. Io non vedo differenza negli effetti tra il liberismo apolide dei centri sociali e quello della grande finanza. Lo vediamo ogni giorno coi negri sottopagati che lavorano per le multinazionali delle consegne al ritmo di reggaeton, che qui piace a tanti. Mi arrendo. Gli anni ’90 erano sicuramente meglio di oggi ma non tanto. Al tempo esisteva un pubblico. Una scena è fatta da gruppi e fruitori. Oggi c’è tanta gente che vuole stare sopra il palco e più nessuno che li va ad ascoltare. E questo cambia tutto. Al tempo, prima che i centri sociali diventassero una fogna politicizzata, e cioè quando si occupavano posti perché si credeva che ospitare forme d’arte che non avrebbero trovato ospitalità in nessun altro posto poteva avere una funzione sociale, c’era anche quella ribalta lì. Questo concetto l’ho espresso nel libro di Giovanni Rossi “Tu meriti il posto che occupi - Storia dei Disciplinatha” (Tsunami Edizioni, 2018, ndr). Poi i centri sociali sono diventati una merce di scambio, io faccio i soldi in nero, tu Comune giunta di sinistra chiudi un occhio perché ti porto i voti. Negli anni ‘90 c’erano più possibilità di suonare a più livelli e questo ha aiutato la nascita di una “scena”, con tante persone e artisti che giravano e creavano una forma culturale e di divertimento. Riguardo alla qualità delle band non so,


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si entra un po’ nel soggettivo. Quando penso a certe band tipo Mau Mau e 99 Posse non penso sia stato un gran periodo, quando penso invece agli Almamegretta, penso di sì perché credo che loro abbiano avuto una grandissima intuizione. WN: I Disciplinatha del primo periodo avevano una connotazione a dir poco ambigua rispetto alla storia di questo paese, in tutti i sensi però, tant’è vero che venivate presi di mira da gruppi di estrema sinistra e destra posso chiederti principalmente che cosa volevate esprimere ? Dario: E’ abbastanza complicato risponderti, non sarebbe uscito un libro di 600 pagine altrimenti per cercare di sbrogliare un po’ la faccenda. A noi l’ambiguità è sempre piaciuta. Un’ambiguità voluta che aveva la funzione di porci in luce non chiara, perché la chiarezza spesso è strumentalizzata. Questo è un paese estremamente illiberale e noi abbiamo cercato di raccontare quanto erano illiberali quelli che stavano dalla parte della libertà. Ti faccio un esempio, vediamo in questi giorni il rancore che la bocciatura del DDL Zan scatena fra quelli che parlano di inclusività, mostra quanto, quelli dell’anti odio siano effettivamente in grado di odiare. A noi questa contraddizione ci è sempre piaciuta metterla in luce. Far vedere che gli alternativi non erano migliori del nemico sul quale si scagliavano. Questo è un paese e un continente perennemente sotto sbornia. Negli anni ’30 le lancette dell’orologio era puntate su certi riferimenti e si cambiavano le parole e oggi è tanto uguale. Quello che volevamo raccontare è questa roba qui. Quando ad un certo punto la politica, i politici, i pedagoghi, i maestri non sono più contati. Non contava quello che nasceva dalla cultura di massa e popolare ma importava quello che dicevano i pubblicitari. E allora mettiamo Oliviero Toscani al balcone per dirci come deve essere l’Uomo Nuovo. WN: Sei cresciuto nella Bologna di fine anni 70 e inizio ’80, ci puoi descrivere che città era a livello di movimenti culturali giovanili ? Dario: Si sono cresciuto lì, anche se vivevo in provincia, e ho sempre studiato a Bologna fin dalle scuole medie. Ero però troppo piccolo per rendermi conto di cosa stava succedendo.

WN: Che città era dopo la strage alla stazione ? Dario: Avevo quattordici anni, ricordo quasi niente, anche se ricordassi bene il dopo non ti risponderei lo stesso perché è il prima che non conosco bene. WN: Sei stato anche tu un fanzinaro e la tua “Fiamma Nera”, come i Disciplinatha, non era tanto compresa e ben voluta…. Dario: “Fiamma Nera” l’avevamo presentata per la prima volta a uno stand delle “Nuove tendenze giovanili underground bla bla bla bla” alla Festa dell’Unità di Bologna quando c’era ancora il P.C.I., che metteva il cappello sopra alle nuove tendenze giovanili. Fu letteralmente cestinata. Pensa a come erano aperti alle nuove tendenze giovanili e ai nuovi generi musicali….. (seguono gustose risate). Fare il fanzinaro mi appassionava, io mi occupavo della parte grafica e della comunicazione tra e per immagini. Le immagini dovevano avere un significato e innescare un corto circuito. I testi li seguivo un po’ meno. WN: I Disciplinatha sono stati tra i primi gruppi italiani a mettere in piedi un live multimediale, avevate costumi, scenografie e facevate uso di video proiezioni di cose da dire evidentemente ne avevate…peccato che eravate spesso messi in cattiva luce a prescindere. Dario: Ho sempre apprezzato le band che suonavano soltanto, ma davano alla loro musica la possibilità di fare da colonna sonora a un immaginario estetico o di pensiero. Banalmente a me piacevano i Kiss, i Rockets, i Devo, forse perché mia madre, fin da piccolo, mi portava con sé alla sera quando andava a ballare. Sono cresciuto con le band di liscio tutte vestite uguali e impostate, che non è tanto diverso da vedere i Devo o i Kraftwerk. Mi è sempre piaciuto pensare che suonare non basta e che devi proporre qualcosa in più, cosa che fanno anche i Laibach da molti anni a sta parte. Tu vedi uno spettacolo intero e non solo gente che suona. I mezzi di comunicazione sono tanti e possono essere interattivi fra loro così la cosa diventa stimolante per chi la fa e per chi viene a vederla. Siamo comunque sempre stati un gruppo povero, quindi avevamo pochi mezzi. E’ sempre stato un problema di costi, sono messinscene che incidono non poco sull’allestimento dello spettacolo, noi ci siamo sempre arrangiati.

WN: Paradossalmente circa una decina d’anni dopo il vostro esordio, o poco meno, passaste dall’essere un gruppo non capito all’essere benvoluto….passare sotto l’ala di Ferretti & c. vi fece guadagnare un “rispetto” da parte di un certo pubblico dei CSI ? Disciplinatha, foto tratta dal box “Tesori della Patria” Dario: Si, dopo anni di fatiche e anche di fermo, per due o tre anni non è uscito nessun disco per problemi nel passaggio da una casa discografica all’altra, passare sotto l’ala di Ferretti, Zamboni e della I dischi del mulo ci ha messo in buona luce verso il pubblico che secondo me ha fatto questo ragionamento: “Ok ci fanno schifo, ma adesso possiamo almeno guardarli”. Ma soprattutto ci ha permesso di proporci a un pubblico più adulto e che non era più la solita nicchia metal che da sempre era l’unica ad averci considerato e guardato con simpatia e senza pregiudizi, perché i metallari sono molto più aperti degli alternativi. Non c’è scampo in questo paese,


hai sempre bisogno di un mentore, qualsiasi cosa tu voglia fare. C’è sempre bisogno di qualcuno che garantisca per te. WN: E alla fine anche la stampa, che in certi momenti più miope non poteva essere, con il tempo vi ha sdoganati… Dario: La stampa fino a quando eravamo in attività è passata da ignorarci completamente, attaccarci e recensirci per dovere perché proprio doveva farlo. Ci sono voluti 20/25 anni perché un intero mondo ci riscoprisse e addirittura ci esaltasse. Per un certo mondo, in questo momento, noi siamo delle vacche sacre. Meglio tardi che mai in questo paese spesso succede. Pensa al pittore Ligabue che vita di merda ha fatto e ora com’è considerato. E questo mi da anche la possibilità di giudicare me stesso e di parlare di me stesso, grazie anche a interviste come questa, con una maggiore lucidità ed evitando la forma del revisionismo che non mi piace molto. WN: A suggellare lo sdoganamento è arrivato il bellissimo box uscito per Contempo Records che raccoglie tutto il materiale pubblicato dai Disciplinatha…..questo tipo di prodotto magari fa un po’ a pugni con l’istinto e a proposta punk che vi contraddistingueva all’inizio ? Dario: Non credo che vada a cozzare con gli istinti punk dei nostri esordi. Già prima di passare a quella tragedia che è stato il CD, negli anni ’90 facevamo delle cose, dal punto di vista estetico e costruttivo, un po’ particolari. Il primo Ep per I dischi del mulo “Crisi di valori”, si apriva in quattro parti a formare una croce. Il cofanetto è un oggetto molto bello, consono alla nostra estetica. Su questo sono molto sereno.

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WN: Una cosa strabiliante e funzionale del disco omonimo di Dish-Is-Nein è la collaborazione con il Coro Alpino Monte Casilio, veramente funzionale alle atmosfere del disco e dei pezzi…..già con i Disciplinatha avevate avuto una collaborazione simile dal vivo con lo stesso coro e uno di mondine se non ricordo male….ti piace questo tipo di espressione canora ? Dario: Non sono un falso modesto ma ti assicuro che fra le cose che ho fatto quelle che preferisco sono il primo dei Disciplinatha e il primo dei Dish-Is-Nein. Quest’ultimo in particolare è il disco che preferisco della mia produzione. Ho sempre amato il neo folk e un certo tipo di atmosfere cupe, belliche e post belliche, e ho sempre apprezzato i cori alpini. Quando posso vado alle rassegne, lo faccio almeno dagli inizio del duemila. Una di quelle volte mi è venuta l’idea di sonorizzare un famoso canto “Bandiera nera”. Avendo fatto, per problemi di salute, parecchie risonanze magnetiche ho sempre amato anche quei suoni, tanto che tutte le volte che finivo avevo in mente sempre qualche pezzo. Così siamo riusciti grazie a un primario matto e compiacente a registrare i suoni della risonanza magnetica e a unirla al coro alpino. La tradizione corale italiana l’ho sempre apprezzata molto, dalle mondine agli alpini, che sono due differenti militarismi in qualche modo, ma sono anche cose uniche. Prendere delle cose dalla nostra tradizione musicale e fonderle con l’industrial alla Laibach e alla Einstürzende Neubauten è una cosa che mi è sempre piaciuto fare.

Dish-Is-Nein

WN: “L’unico gruppo italiano che vale la pena di ascoltare” la frase iconica di un antieroe per eccellenza come Jello Biafra sembra essere il suggello di una carriera o un’esagerazione. Dario: Sulla frase di Jello Biafra a furia di fare copia e incolla qualcosa si è perso. Io credo che lui intendesse dire: “L’unico gruppo italiano interessante” e credo si riferisse in maniera molto aperta anche ad un discorso che superava la proposta musicale. Però ti dico altrettanto sinceramente che quando hai venticinque anni e senti queste parole da uno dei tuoi idoli un bel po’ di piacere lo provi. Ora, ridimensionando un pochino quelle parole, non voglio certo auto flagellarmi…..(risate).

WN: C’è qualcosa all’orizzonte per Dish-Is-Nein l’ultimo gruppo in cui si è incarnata una parte dei Displinatha, il lockdown vi ha ispirato del nuovo materiale ? Dario: Al momento c’è ben poco in quanto il lockdwn ci ha completamente messo a terra. Avevamo cominciato un tour e fatto le principali città italiane del centro nord, ovvero Roma, Milano e Bologna. Quando le cose sono un po’ migliorate per vari motivi, per lo più personali e famigliari, ci siamo bloccati nuovamente. Speriamo di ritrovare le energie per ripartire anche perché abbiamo già un prodotto pronto che deve essere solo stampato e promosso.

WN: Ti sei fatto un’idea di questa storia “pandemica” e anche di cosa ne avrebbero scritto e cantato i Disciplinatha ? Dario: No opinioni non ne ho a riguardo. E’ la cosa più controversa e inedita che ci poteva capitare. Ti dico solo che ho dovuto minacciare denunce all’Ospedale per ottenere un tampone post mortem a mio padre e dimostrare che non era morto per covid ma per un’ altra patologia. L’ho fatto perché non sono un coglione e perché non avrei potuto fare un funerale cristiano, con altre persone e soprattutto me l’avrebbero bruciato e sarebbe finito nelle statistiche terroristiche dei TG. Io posso dire solo questo per esperienza personale. Di altre cose non so. C’è già troppa gente che parla.


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Volevo fare il marinaio…... Intervista a Gianni Maroccolo

Come spiegato nell’editoriale abbiamo voluto su queste pagine le parole di Gianni Maroccolo a tutti i costi. Credo che come musicista non abbia bisogno di presentazioni e nella stessa maniera credo che debba essere testimoniata la serena gentilezza di spirito, irriproducibile a parole, che ha caratterizzato tutta l’ora che abbiamo trascorso al telefono. Veramente una bellissima esperienza e un sentito ringraziamento al Sig. Gianni e allo staff dell’ufficio stampa.

WN: I CCCP sono stati un gruppo seminale nel panorama musicale italiano, forse più per il messaggio che per la musica in sé, o meglio, per la mescolanza fra uno e l’altro….però io ritengo che i Litfiba 1982-1986 musicalmente avessero qualcosa di più. Aldilà del mio parere… ritiene che ai lavori dei primi Litfiba sia stata data finora un’importanza più marginale, quando si parla di rock italiano ? Gianni: Per quanto si fosse contemporanei e si fosse condiviso molto, le storie dei due gruppi viaggiavano su binari diversi. Non sta a me giudicare o pensare, quanto sia stata valorizzata o meno la storia dei Litfiba. Io credo che questo spetti alle persone che hanno amato quel gruppo e i loro dischi, attraverso i momenti, i pensieri e le sensazioni che hanno vissuto. Io penso che il periodo in cui ho condiviso la storia dei Litfiba sia un periodo che venga riscoperto di continuo e questo anche al fatto che Piero e Ghigo sono riusciti a portare avanti magnificamente la storia del gruppo. Personalmente non mi sento dire che manca qualcosa o mi manca qualcosa. I riconoscimenti sono una parte del viaggio, la parte più importante è averle fatte quelle cose. Una cosa che mi fa sorridere di quel tempo è che, siccome l’Italia è un paese di fazionisti, si era creata quella situazione che se ascoltavi i CCCP non potevi ascoltare i Litfiba e viceversa. Si era creato quel dualismo, inesistente, come per altre storie. WN: Lei è stato il produttore del disco “Epica Etica Etnica Pathos” l’ultimo disco dei CCCP, da molti considerato il primo disco dei C.S.I.. Si conosce tanto se non tutto di dove e come fu registrato ….le chiedo un ricordo di quei giorni e cosa prova a distanza di trent’anni a riascoltarlo, sempre che lo faccia…. Gianni: Lo faccio devo essere sincero, ogni tanto lo faccio. Sempre, per qualche anno, dopo che produco un disco o lo registro come musicista, ci ritorno su. Sono pochi però i dischi su cui ho lavorato che mi emozionano dall’inizio alla fine. Quello è un disco che ancora oggi mi trasmette le stesse sensazioni che mi dava quando lo stavamo registrando e l’impressione principale, ovvero quella di essere davanti a una pietra miliare di certa musica italiana, ce l’ho ancora oggi. Un disco importantissimo nato poco dopo il mio abbandono dei Litfiba e iniziato a registrare senza che nessuno avesse la consapevolezza che sarebbe stato l’ultimo dei CCCP. Mi ricordo che durante una passeggiata con Zamboni, nei vigneti attorno alla villa dove registravano, lui mi propose addirittura di entrare nei CCCP, io risposi che non me la sentivo perché loro erano un gruppo importante e io avevo appena chiuso un’avventura decennale altrettanto importante e avevo un po’ di paura. In realtà dopo qualche mese nacquero i C.S.I. e come hai detto te, senza che lo sapessimo, “Epica…” si manifestò come il primo disco dei C.S.I. . Ho un ricordo bello e uno triste di quelle registrazioni, quello è bello è che un laboratorio creativo costantemente vivo, un flusso di idee che non si fermava mai, infatti non era nelle

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di Massimiliano Stoto

nostre intenzioni fare un album doppio ma ci arrendemmo all’evidenza quando ci rendemmo conto che le idee erano molte e che valeva la pena metterle tutte e non lasciare indietro nulla. Quello triste è legato al momento in cui fummo chiamati io, Giorgio, Magnelli ad assistere ad una riunione dei quattro CCCP, al cui termine si sciolsero. Per non parlare di Ringo che il giorno dopo la fine delle registrazioni ci lasciò. Avevamo terminato tutto, mancava solo la batteria di “Annarella”, fece appena in tempo. I testi di Giovanni poi erano profetici, i tempi che stiamo vivendo, quello che ci sta accadendo, lui l’aveva previsto in tempi non sospetti e con grande anticipo. WN: Quindi anche “Catartica” finisce sullo stereo ogni tanto ? Gianni: Be certo è un fiore all’occhiello. Io ho un rapporto di amicizia e stima con i Marlene da quando ci portarono i primi provini. “Catartica” è un disco fondamentale per la musica italiana. Io non ho prodotto direttamente il disco, ero soltanto il loro discografico, però ho dispensato tanti consigli. E mi ricordo che in tutti i modi ho detto a Cristiano che “Lieve” nel disco ci doveva essere, loro non lo ritenevano un pezzo all’altezza. Chiamai anche Ferretti e gli dissi di provare a parlarci anche lui. Alla fine si convinsero. WN: Le è piaciuta la cover di “Amandoti” eseguita dai Maneskin e da Manuel Agnelli a Sanremo….io l’ho considerata un po’ eccessiva….mentre mi è parsa più centrata “Del Mondo” riletta da Max Gazzè e Daniele Silvestri….si può dire che il rock alternativo italiano dei ’90 è arrivato a Sanremo anche con i maestri….dopo che aveva ospitato gli allievi Marlene Kuntz e Afterhours ? Gianni: Soddisfazione di sicuro. Due omaggi del genere fatti sulla ribalta sanremese per giunta nella stessa sera, sono un bel riconoscimento senza dubbio. Si, mi sono piaciute, non entro nel merito degli arrangiamenti perché li reputo scelte soggettive, ma tutto sommato le ho trovate giuste. L’irruenza rockettara di una band giovane e la misura di due artisti navigati le ha degnamente rappresentate secondo me. Il bello è che due pezzi del genere siano riusciti ad ottenere una ribalta televisiva di quel tipo, devo dire che è stata una cosa molto inaspettata. WN: Beau Geste subito all’inizio della sua carriera, Deproducers in questi ultimi anni, il progetto “Alone”…. musiche di supporto a immagini, storie, ambienti cosa le piace più di questo creare musica a supporto di qualcosa, la parte creativa o spirituale ?


Gianni: Sono due aspetti legati fra loro. La parte spirituale credo sia solo una conseguenza delle esperienze che si sono fatte e di conseguenza la parte creativa viene da sé. Per le cose che hai imparato sviluppi un tuo approccio alla vita e la musica è una conseguenza, soprattutto quando fai dei dischi, i concerti sono un’altra cosa. Quando fai dei dischi sei condizionato da quello che sei. Una parte di me è sempre stata attratta dalla trascendenza, dalle religioni, dalle filosofie di ogni genere e tipo, ho sempre cercato di comprendere e mettere in pratica nella vita quotidiana ciò che ho appreso. La musica è una conseguenza, non è il contrario. Spero che le persone che si sono appassionate alla mia musica possano essere stimolate da essa ad andare al di là della vita materiale che viviamo tutti i giorni, perché grazie a Dio non siamo solo materia. WN: E’ anche un’artista molto inclusivo, non si contano le collaborazioni, i progetti a cui ha dato vita e vissuti con tanti artisti….le piace molto confrontarsi, collaborare, scoprire….è un continuo viaggio il suo…. Gianni: La scuola musicale brasiliana degli anni sessanta e primi settanta sosteneva che: “la vita è l’arte dell’incontro”. Una vita unicentrica ti porta solo a chiusure, a chiuderti in te stesso e a chiudere la mente. L’incontro e il confronto, anche con persone che vivono lontano da te, che parlano un’altra lingua o che la pensano diversamente, che hanno costumi e usanze diverse, ti possono solo arricchire. Nell’accettare le differenze ci si arricchisce, non ci si separa. La società moderna prova di tutto, a creare dicotomie fra gli esseri umani, a metterli gli uni contro gli altri, a esasperare il dualismo fra le persone. Io ho sempre pensato il contrario, che facciamo parte di un qualcosa più grosso di noi, che non comprendiamo e che sarebbe bello godersi questa cosa. Questo per me vale nella vita come nella musica. Non esiste un Maroccolo fuori dalla musica, io sono un tutt’uno. A me la musica mi stimola, per me è una cosa seria, è una cosa alta, e mi stimola ancora di più crescere, confrontarmi, sperimentare, a stare da soli nel proprio orticello le cose non accadono. Le cose accadono solo attraverso l’incontro, che a volte può diventare anche uno scontro, ma chissenefrega vale sempre la pena di provarci. Nei gruppi in cui sono stato ho potuto fare tante cose ma quando la cosa diventava troppo ripetitiva e cominciava quella fase creativa dove reiteri te stesso, io tendevo a uscire dal branco e girare come un cane sciolto in attesa di fare l’incontro successivo. Fin che avrò fiato e salute io sarò sempre così nella vita. Per me tutto va condiviso e bisogna cooperare fra esseri umani. E lo stesso vale per la musica, che va condivisa non solo con chi l’ascolta ma soprattutto va condivisa fra musicisti.

WN: Ad emblema di quanto ha detto la sua collaborazione con Claudio Rocchi credo sia stata un’esperienza unica, intendo sia dal lato professionale che spirituale. Gianni: Quel disco lì, quella condivisione e collaborazione che abbiamo avuto per circa quattro anni, nasce proprio dalla voglia di confrontarsi. Nessuno avrebbe scommesso che una cosa del genere potesse accadere. Negli anni ottanta quando vivevo l’esperienza con i Litfiba lui era a fare il monaco. Io di Claudio conoscevo pochissimo, a parte l’album “Volevo magico” di lui non sapevo niente, gli anni settanta per me sono stati a lungo un grande mistero. Eppure non ci sono stati pregiudizi, è bastato conoscerci, avere voglia e desiderare questa cosa. Come dicevo prima, una volta fatto questo, la musica è venuta di conseguenza. Un rapporto umano bellissimo e unico.

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WN: Marlene Kuntz Howie B e Gianni Maroccolo a fare da comun denominatore….come nascono certe collaborazioni stima reciproca, incontri fortuiti in aereoporto, empatia….. Gianni: Sono quelle esperienze che si fanno quando si ha un po’ di tempo. Ci si conosceva da tempo e appena abbiamo trovato un teatrino che ci ha ospitato abbiamo cominciato a produrre un po’ di roba con l’obbiettivo di stare alla larga dal vincolo delle canzoni. Si trattava di improvvisare e fermare queste improvvisazioni. Poi l’abbiamo pubblicato su disco e quella pubblicazione è stata una sorta di provino per le poche date che abbiamo fatto con quei pezzi. Dopo la pubblicazione dicevo, quei pezzi sono letteralmente fioriti, tanto che chi ci ha visti in quelle date, e anche a me, gli vengono ancora ora i lucciconi agli occhi a ricordarle. WN: Prima domanda da fans….nel senso che magari a molti non interessa…. ma io ci andavo matto….Timoria primi due dischi….produzione sua…per me sono proprio belli….secondo molti non avevano un identità definita un po’ pop, un po’ rock, la voce di Renga che ammazzava tutto….cosa ne dice….cosa ricorda ? Gianni: Sono stati una bella esperienza. Io personalmente poi adoro lavorare con artisti alla prima esperienza, quasi mai ho prodotto artisti già affermati. Mi piace sempre esserci all’inizio perché credo di poter essere più utile. Sono molto affezionato a “Colori che esplodono” oltre ad avere conosciuto delle brave persone e aver condiviso un bel periodo ho avuto, per la prima volta, l’opportunità di lavorare su un progetto major che aveva un bel budget a disposizione e la possibilità, finalmente, di lavorare senza patemi d’animo. Dopo l’uscita dai Litfiba quel lavoro fu un toccasana, sia per me che per Giorgio Canali, che registrò quel disco. Ci permise di rientrare subito in pista. L’album seguente trovai una band più matura e che aveva le idee ben chiare su cosa voleva e che quindi necessitava un po’ meno della figura di un produttore. Su “Ritmo e dolore” ho lavorato più sui suoni e sul cercare di metterle il gruppo nella condizione di suonare come volevano. WN: Domanda da fans numero due….ci potrà essere in futuro uno disco di Riccardo Sinigallia e Gianni Maroccolo ? Gianni: Non lo so. Non ci abbiamo mai pensato. C’è sempre una grande stima fra noi. Fra i cosiddetti cantautori, io ritengo che Riccardo sia una spanna sopra a tutti, è un artista vero, è talentuoso ed è anche un ottimo produttore artistico. Lo trovo simile a me come generosità, lo siamo un po’ troppo forse. Non sempre questo modo di porsi verso le persone ti ripaga a livello di gratificazione. Ma deve essere il nostro destino. Noi ci siamo trovati nei Deproducers dopo anni che ci si annusava a vicenda. Non ricordo bene se gli proposi la produzione del primo dei P.G.R. o del primo dei C.S.I., forse era il primo del Consorzio, ma lui non se la sentì. Ci lasciammo dicendo prima o poi faremo qualcosa insieme ma abbiamo dovuto aspettare anni e per fortuna che è arrivato Vittorio Cosma che ha di fatto inventato i Deproducers. ...altrimenti….

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WN: Per stare nel mondo “sinigalliano” lei ha anche suonato il basso in alcuni pezzi del disco di Marina Rei dell’anno scorso….un’altra voce particolare oltre che un’autrice non trascurabile a mio avviso…. Gianni: E’ un’artista a tutto tondo lei, mi piace quando canta e quello che scrive…..e anche quando suona….è anche un’ottima batterista ha una “groove” tutto suo, molto notevole secondo me. E’ capitato che gli chiedessi di partecipare al terzo volume di “Alone” e da li lei mi ha proposto di fare qualcosa sul disco di cui parli tu. Ci siamo anche detti che sarebbe bello farlo anche dal vivo, se la salute non mi abbandona io ci sono. WN: Ho ha avuto l’occasione di intervistare per la prima vita di questa fanzine Federico Fiumani subito dopo l’uscita di “Il ritorno dei desideri” l’album da lei prodotto….gli dissi che finalmente aveva fatto un disco in cui le canzoni suonavano e feci cenno alla sua produzione come un valore aggiunto….lui ebbe una reazione un po’ stizzita….non credo che ce l’avesse con lei ….ma più che altro con chi gli rimprovera di non poter far tutto in un disco….andò tutto bene fra di voi immagino…. Gianni: Fra noi due si. Non bene, benissimo. Ci furono problemi con l’etichetta, ma sono cose passate da tempo. Io credo che “Il ritorno dei desideri” sia un disco fondamentale per la canzone d’autore italiana e per un semplice fatto ha delle canzoni bellissime. Federico è un altro artista a tutto tondo ed è uno che quello che gli passa di fare per la testa fa, e io credo che questo sia il modo migliore di approcciare la musica.

Photo by Antonio Viscido

WN: Invece se non sono troppo indiscreto vorrei chiederle cosa bolle in pentola con Hugo Race, si legge di una collaborazione fra voi due, uscirà qualcosa a breve e soprattutto di cosa si tratta ? Gianni: Purtroppo nel momento in cui ci dovevamo trovare fra qui e l’Australia è scoppiata la pandemia. Abbiamo prima rallentato, poi atteso e da poco ci siamo rimessi in moto. Lavoriamo a distanza scambiandoci file e un po’ di impressioni. L’idea era di partire dai nostri lavori casalinghi ma poi trovarci in studio per 7/8 giorni e completare la cosa. Io penso e spero che in primavera si completerà il tutto. WN: In quarant’anni di musica avrà visto enormi differenze in studio, nostalgia dell’analogico fascino del digitale, cosa ne pensa e come si trova ad avere a che fare con le nuove tecnologie ? Gianni: Io sono una persona che accetta le mutazioni serenamente. Ne ho vissute diverse. La musica in una certa maniera ti costringe a tenerti aperto nei confronti della vita e a quello che ti da. Quando è arrivato il digitale non ho fatto drammi, quando la musica è diventata liquida non ho fatto drammi e quando, facendo il produttore, ho dovuto impararmi l’hardware recording studio e l’uso del computer, mi sono messo lì e in un anno l’ho imparato. E ho imparato anche che queste macchine ti danno un sacco di possibilità a livello creativo. Il computer è oramai diventato uno strumento musicale come tanti altri. Chi ama l’analogico lo capisco. La compressione che ti da un nastro mette in moto tutta una serie di armoniche e piccole saturazioni che colorano il suono. Una registrazione digitale fatta con una scheda audio questo non te lo da, però ti da una maggiore fedeltà, e il tuo suono puro viene più o meno riprodotto nello stesso modo. “Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna” intendo dire

che se uno vuole un suono caldo analogico eccetera, usa dei gran compressori o dei pre amplificatori valvolari analogici e entra dentro a un pc. Non è esattamente come usare un nastro ma non è poi così tanto diverso. Teniamo poi in considerazione che gran parte della musica oggi viene ascoltata con cuffiette o casse di telefoni o pc da pochi centesimi. Sta migliorando sempre di più la qualità delle registrazioni che fai anche se non in proporzione alla qualità di quando la registrazione viene ascoltata. Io sono anche un patito perché sono un produttore, ho fatto il conservatorio, ho lavorato con oscillatori, sintetizzatori, microfoni e cerco sempre di soddisfare le mie esigenze ma cerco anche di farlo senza para occhi o fissazioni. Cerco solo di fare bene lo cose. WN: Infine torniamo ai Litfiba….all’inizio lei si occupava anche della parte gestionale del gruppo e nel corso degli anni chissà quante cose ha visto in questo settore. Le cose sono andate di male in peggio e non sono mai veramente migliorate ? Gianni: In realtà la parte gestionale veniva seguita da tutti. Abbiamo scoperto insieme cosa fosse un contratto editoriale, forse Ghigo era un po’ più esperto di noi. Io non ho mai desiderato che la musica diventasse il mio lavoro, io volevo fare il marinaio, coltivavo solo la passione per la musica. Ad un certo punto con i Litfiba a metà degli anni ottanta viene fuori che poteva anche valer la pena che questa passione diventasse un mestiere. A quel punto ho capito che avrei dovuto imparare ad occuparmi di altri aspetti che girano intorno alla musica, perché possono condizionare pesantemente la vita di un musicista. L’ho fatto talmente bene che ai tempi dei C.S.I. andavo io a trattare con la Polygram, senza avvocati o quant’altro, e lo faccio tuttora per me e di conseguenza continuo a imparare cose nuove. WN: Nei giorni in cui ho pensato questa intervista lei stava provando i pezzi per il tributo a Battiato andato in scena live sul palco dell’Arena di Verona. Che approccio avete avuto lei e Antonio Aiazzi, Beppe Brotto e Andrea Chimenti ai pezzi e come li avete scelti ? Gianni: Gli organizzatori della serata mi hanno espressamente chiesto di occuparmi della prima parte della carriera di Battiato. Tutti gli artisti coinvolti avevano scelto pezzi dalle fine degli anni settanta in poi e loro giustamente volevano tributare un omaggio anche alla parte più elettronica dei primi anni ‘70. Abbiamo pensato di fare una mini suite di sette/otto minuti che comprendesse tre pezzi di quel periodo “Aria di rivoluzione”, “Da Oriente a Occidente” e “Sequenze e frequenze”. Abbiamo provato tre giorni perché non è stato facile ridurre e sintetizzare una certa emozionalità, siamo saliti sul palco dell’Arena un po’ tremolanti perché non sapevamo se saremmo riusciti a creare la magia….anche se credo che ce l’abbiamo fatta. (Purtroppo l’esibizione del quartetto non è stata inclusa nello speciale sulla serata andato in onda su Rai Tre il 5 Gennaio 2022, condotto da Pif e intitolato “Caro Battiato”, ndr). WN: E’ vero che è un animale notturno e di notte lavora tanto ? Gianni: Si certo. E’ risaputo. Nella vita è capitato che non ho avuto figli e quindi ho la possibilità di gestirmi gli orari senza troppi doveri o condizionamenti. Preferisco lavorare la notte perché ho più tranquillità, nonostante io abiti al mare, in una zona tranquilla e lontana dalla città, di giorno anche qua squillano i telefoni, i computer sono accesi, arrivano le mail, i messaggi. Amo lavorare quando tutto si quieta. Lavorare si fa per dire….perché poi la musica per me non è un lavoro ma un piacere. Mi piace entrare in attività quando tutto si quieta, mi rendo conto che è un mio limite e non un pregio, quello di riuscire a concentrarmi maggiormente in quelle ore. Ma è una cosa che avevo fin da piccolo, già dalle scuole elementari passavo le nottate con l’orecchio appoggiato a una piccola radiolina a transistor ad ascoltare le cose più diverse. Intendiamoci non sono un animale notturno, mi piace il giorno, viverlo e amo la luce, ho bisogno di sole e di stare all’aria aperta solo che spesso prima di andare a dormire vedo più albe che tramonti.


Un pomeriggio con

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PAOLO ENRICO ARCHETTI MAESTRI degli YO YO MUNDI Ci sono artisti che, nel corso del tempo, sfuggono alla coerenza. Altri che della coerenza ne fanno un marchio imprescindibile. Paolo, e gli Yo Yo Mundi, rientrano nella categoria di quelli coerenti, di quelli che “un abbraccio” ha ancora un valore e che “né il tempo e né la distanza faranno di noi degli sconosciuti”. E così, considerato il tema di questo nuovo numero di WN, ho resistito a dire la mia su Lindo Ferretti (ma nel libro Radio Libertà ho comunque lasciato traccia del mio pensiero) e concentrato le energie, e il poco tempo che riesco dedicare a WN, a fare due chiacchiere con Paolo: parole libere e resistenti. M: “Inciampo e cado sulla scia della coerenza” è un verso tratto dal brano “Spaesamento” pubblicato sul vostro ultimo album “La rivoluzione del battito di ciglia”. Quanto costa essere coerenti? P: Il conto che si paga a causa dei percorsi coerenti te lo presentano sempre personaggi con i quali, alla fine della fiera, è meglio non avere niente a che fare. Dunque è un prezzo che, per quanto pesi, si trasforma, sempre e comunque, in un motivo di orgoglio, in alcuni casi, può diventare persino una specie di medaglia al merito! Ma al di là della battuta, la coerenza, nella storia di una band, è la calligrafia del discorso che si sta portando avanti. Difficile, semmai, è essere all’altezza di certa coerenza come singoli esseri umani nei nostri percorsi così pieni di sbavature, incongruenze e tentennamenti. Ecco il perché del verso, “inciampo e cado sulla via della coerenza”. M: Nella stessa canzone citi la casa del popolo, gli scarponi del nonno, chi ha finito le munizioni ma non l’istinto di aggredire. Ad Arona, sui muri della Casa del Popolo, da qualche anno gestita da esterni, hanno scritto Casa dei Popoli. Ho fatto parte del CdA per parecchio tempo e ora sono iscritto solo

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di Michele Anelli

come socio e ho sempre provato fastidio e contestato quella scritta. La trovo fuorviante oltre a modificarne in parte il significato originario. Ha senso rimanere legati a certi principi, a citare nelle canzoni alcune nostre convinzioni?

P: Sarà un caso ma le nostre convinzioni, o, meglio, i nostri valori, sono proprio quelli che vengono sacrificati in nome di presunte pacificazioni o, peggio ancora, di presunte riforme proposte come un passo avanti per migliorare il lavoro, la socialità e la vita stessa delle persone, ma che, quasi sempre, ottengono, non a caso, l’effetto contrario. Riducendo tutele e diritti, generando insicurezza, disagio e troppe volte, ingiustizia sociale e dunque, vera e propria, infelicità. Nelle nostre canzoni c’è un’attenzione speciale per tutto ciò che è memoria, non ci voltiamo semplicemente indietro per ragioni di nostalgia, - si diventa di sabbia! - ma per recuperare - e perché, no? Riciclare! - proprio quei valori, quegli insegnamenti, quelle storie che non vanno dimenticate mai, semmai rinnovate e riproposte.

M: Nell’autobiografia appena pubblicata, Steve Van Zandt (Little Steven), in un momento abbastanza concitato della sua vita artistica e politica, parla del comunismo facendo delle distinzioni tra quello sovietico, cinese e italiano definendo quello nostrano un comunismo “buono”. Può essere che troppo “buonismo” abbia lasciato aperto uno spiffero di troppo, dando possibilità al fascismo, in fondo, di non essere stato mai debellato, tornando sfacciatamente alla ribalta?


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P: Temo che questo sia per me un argomento troppo complesso, posso dirti che non sono incline ai compromessi al ribasso, pacificazione non può voler dire in alcun modo assoluzione, inaccettabili tentativi di equiparazione tra morti per Salò e per il nazifascismo in genere e i martiri, civili o armati, della Resistenza. Assurdo e altrettanto inaccettabile veder salire sul palco del 25 Aprile politici che disprezzano la resistenza (e magari citano i Marò o le foibe, fuori contesto per pura ignoranza e logiche strumentali). Questi spiragli che intanto, con la complicità di molti “snaturatori” (non faccio nomi, sappiamo bene chi sono e quali sono i loro fini), sono diventati porte spalancate alla tendenziosa riscrittura della nostra storia, si sono rivelati un clamoroso autogol. Ora sul web e nelle piazze, forti di fake news e protezioni di ogni genere, proliferano i neofascisti, insultano, minacciano, aggrediscono e, peggio ancora, fanno proseliti. Diffondono bugie e ordiscono campagne strumentali. E trovano sempre chi li protegge o giustifica all’interno delle istituzioni. Vedi, amico mio, in tutti i Paesi del mondo ci sono state generazioni e generazioni di comunisti, nella maggior parte dei casi sono stati perseguitati, messi in galera, torturati, deportati, eliminati; in Italia, dal secondo dopoguerra, però sono stati elemento fondamentale della vita democratica. Basta questo per definirli “buoni” rispetto agli orrori di Stalin o della Cina di oggi? Cina con cui, tutti fanno buoni affari cotte dose e dei diritti umani violato: è comuniamo questo o un capitalismo perfettamente riuscito? Non ho dubbi, sì. Qui abbiamo vissuta un’altra storia, tormentata, certo, ma luminosa. Il comunismo e il socialismo - direi anche

l’anarchia - sono stati la speranza che per oltre centocinquant’anni ha animato milioni di persone in tutto il mondo. Il fascismo e il nazismo, per un tempo limitato nella loro conclamazione dittatoriale, hanno ucciso definitivamente ogni speranza collettiva, ogni sogno di libertà, spargendo dramma, morte, odio, sopraffazioni e violenze solo per glorificare sé stessi. M: Questo numero di WN è incentrato sulla storia dei CCCP e successive trasformazioni. Possiedo i dischi in vinile dei CCCP, compreso il famoso picture-disc “Compagni, Cittadini, Fratelli, Partigiani”. L’intervista rilasciata da Ferretti a Rolling Stone l’ho trovata un gioco di parole. Dire cose per confondere e provocare, anche se ormai sono anni che questa conversione viene recitata come un mantra, almeno fino a quando si continuano a porre le stesse domande. Da spettatore andresti a uno concerto? Riusciresti a cantarci insieme? P: Non mi piace avere preclusioni a prescindere, andrei ad un concerto di Giovanni e probabilmente condividerei il palco con lui. Rispetto al cantare qualcosa insieme, ti dirò che ad interpretare una canzone dei CSI o dei CCCP, non avrei problema alcuno, perché quelle sono opere create - e colorate - in modo collettivo, non sono frutto della inventiva o delle idee di una persona sola! Anzi, mi emozionerei pure! Io ho conosciuto Giovanni ai tempi del CPI e, per quella che è la mia esperienza, lui non ha cambiato di una virgola le sue convinzioni e la sua poetica, erano gli altri che lo hanno immaginato in altra veste,


fedele a una linea altra, che, però non era la sua. Che, ripeto, già allora era tracciata, limpidamente divisiva dalle idee ed istanze della maggioranza del pubblico di appassionati che lo idolatrava. Ma forse erano Zamboni e gli altri CSI a cantare dei nostri sogni, lui era un megafono, non certo il poeta di una qualsivoglia rivoluzione. Detto questo la sua scrittura mi ha affascinato, ma mai e poi mai, neppure allora, mi sono sentito un adepto o un fedele. Mi piace sottolineare che i CSI, tutti, da Giorgio a Gianni, passando per Francesco, Ginevra fino a Massimo (e i batteristi che si sono succeduti), sono stati un gruppo inarrivabile, che mi ha emozionato e dato speranza ed energia. Un gran gruppo, attenzione, senza un vero leader (chi pensava fosse Giovanni, sbagliava di grosso), composto da artisti con grande personalità. M: Altri componenti dei CCCP hanno mantenuto strade artistiche in linea con le proprie radici. Trovo che anche voi siate un gruppo che ha mantenuto un’idea espressiva costante nel tempo. L’ultimo album mi ha sorpreso per contenuti, canzoni e suoni. Preservando l’identità del gruppo, ti/vi piacerebbe rischiare qualcosa in più? P: Non vediamo l’ora di rischiare qualcosa di più, il rischio è rimasto la nostra unica e grande gioia, che poi è la voglia di giocare a superarci, alla faccia di chi ci giudica con superficialità e di un mercato che non ospita più chi fa della propria musica un atto di cultura, di pensiero e di bellezza. E viviamo questa nostra realtà rifuggendo dalla moda del momento e dalle logiche di chi, sulla musica fa profitto, fregandosene totalmente del resto. M: Avremo mai l’occasione di un tuo album solista? P: ahahahahah ma perché mai? Ogni tanto ci penso, ma poi mi dico che, parafrasando Fabrizio De André: dove finiscono le mie dita iniziano gli Yo Yo Mundi! M: Come nasce l’esigenza artistica di sonorizzare i film? P: nacque dalla voglia di superarci, di cui sopra, di comprovarci in qualcosa che ci costringeva (e costringe ancora), ad uno sforzo sia tecnico, sia stilistico, uno sforzo, soprattutto, culturale. Emozione unica, credimi. Ma è altrettanto bello e nutriente lavorare per il teatro. Costruire una sonorizzazione per un film muto è assai differente dalla scrittura di una canzone, nel primo cosa con le immagini devi farci i conti, ci devi litigare o dialogarci, scegliere se impastarci la tua musica o giocare sul

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contrasto. Nelle canzoni, sei tu che crei le immagini, sei regista, sceneggiatore e direttore della fotografia. Se il pubblico che ascolta la tua canzone, vedrà quelle immagini, allora vorrà dire che il tuo piccolo film/ canzone avrà lasciato il segno!

M: Oggi difficilmente qualcosa passa inosservato, piuttosto si ignora, e nel caso ti mettessi le dita nel naso, durante un concerto, il giorno dopo il video diventerebbe virale. Come è possibile che il video su YouTube, in cui Van De Sfroos canta con la Meloni, scivoli via come acqua su pavimento? S’ignora e basta? P: Pare che le testimonianze video del suddetto duetto siano diverse, sai? Mah, mi lascia perplesso, questa cosa. Ma credo sia tipico della sinistra italiana: massacrare quello più prossimo alle tue idee, non appena fa qualcosa di discutibile, ignorando o sminuendo quelli che la combinano più grossa. O fanno il surf sull’onda dell’ipocrisia. Voglio rassicurarti (scherzo!), ma non capiterà mai e mai che tali personaggi salgano sul nostro palco, siamo di un’altra sostanza, abbiamo ben altri sogni! Il denaro che tintinna e la corsa per una collocazione politica utile a qualche vantaggio, oppure prestare il fianco alle strumentalizzazioni, non possono in alcun modo trovare ospitalità nel nostro viaggio artistico e umano. Che gli ipocriti se la vedano tra di loro, noi giochiamo in un altro campionato. M: Parafrasando un tuo testo, il silenzio che senti fa male? P: Fa molto male, ma, senza scomodare Cage, il silenzio in musica è a sua volta, musica. E allora che quel silenzio, quello di chi non ha voce, quello di chi, gira la faccia dall’altra parte e vigliaccamente tace, diventi la materia bruta della creazione per le canzoni a venire, per i sogni da sognare, per i vuoti, non solo di silenzio, da riempire.


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Queste non sono canzoni d’amore

La danza differente del POST PUNK di Marco Denti Joy Divison photo by Anton Corbjin

Il primo giugno 1980, i Joy Division avrebbero dovuto suonare al TR3 (Tier 3) al 225 Broadway per l’avvento del tour americano, destinato a consacrare la loro ascesa dalla grigia e cupa periferia inglese. Nel club, che avrebbe chiuso alla fine di quell’anno e aveva la postazione del disc-jockey al primo piano decorata da Jean-Michel Basquiat, ci erano già passati le Slits, il Pop Group e i Bauhaus. I Joy Division non arrivarono mai: il 18 maggio, Ian Curtis si suicidò nella sua casa di Macclesfield, segnando uno snodo indelebile nella musica di quegli anni. Nuovi ordini, vecchie macerie Un pulviscolo di frammenti musicali, gruppi durati per una minuscola porzione di tempo, qualcuno che ha lasciato uno o due album, che però hanno alimentato una suggestiva scia di invenzioni. Scelte musicali divergenti e coraggiose, suoni spigolosi e spietati, ma che sono stati importanti fonti d’ispirazione in tutto il mondo, Italia compresa, e che hanno influenzato, e non poco, il rock’n’roll a seguire. È cominciato tutto in una nazione, il Regno Unito sull’orlo di un collasso, come scriveva Margaret Drabble in “The Ice Age”: “Su tutto il paese la depressione aleggiava come nebbia: ci mancava solo quello per opprimere ancora più gli spiriti; ce n’era persino in East Anglia. In tutta la nazione le famiglie commentavano le ultime notizie con frasi come Santo cielo, Cosa potrà capitarci?, Io ci rinuncio, Che si fottano... In tutto il paese ognuno incolpava qualcun altro per le cose che non funzionavano: i sindacati, il governo in carica, i lavoratori dell’automobile, i marinai, gli arabi, gli irlandesi, la propria indolente e incapace progenie, il sistema educativo. Nessuno sapeva di chi fosse in realtà la colpa ma quasi tutti si sforzavano, con poche giustificazioni, di lamentarsi di qualcuno”. Una diffusa sensazione di impotenza, un’abulia che avvolgeva le periferie urbane e provinciali dove il lungo crollo economico e sociale seguito alla seconda guerra mondiale aveva i colori tenebrosi di una profezia. Così Derek Jarman raccontava le ceneri dell’impero in “Ciò che resta dell’Inghilterra” (Alet): “Il vento soffia dall’est portando una grandine acida che cade da un cielo di piombo. L’aria vibra di un tic tic tic tic: il cicaleccio del tarlo detto orologio della morte sui tristi tetti di ardesia. Il cigno di Avon muore una morte sincopata. Cadono ceneri grandi come fiocchi di neve, un gelo nero paralizza luglio. Chiudiamo strette le tende

di velluto sull’alba e tremiamo vicino a focolari vuoti. I nostri Lari domestici sono spariti, nessuno ricorda bene quando. Papaveri e foglie di granturco dimenticati da tempo, qui, come i ragazzi morti nelle Fiandre, i loro nomi cancellati da un gelo tardivo che ha consumato la croce del villaggio. La primavera ha avvolto i campi di un colore verde arsenico, le querce sono morte quest’anno. Su ogni collina verdeggiante si assiepano persone in lutto, che piangono per ciò che resta dell’Inghilterra”. Il punk esplose come una reazione primordiale, incontrollata e incontrollabile alla pressione insostenibile, allo stato vegetativo indotto dalle condizioni economiche e sociali, all’alienazione urbana e suburbana. Quasi una conseguenza inevitabile, come scrisse Simon Frith: “Sin dal punk è invalso l’assunto sociologico che i giovani britannici vivano in condizioni di assedio mentale. Ci si attende che la musica ne esprima le conseguenze, sia con la confusione collettiva dei Clash, sia con l’impermeabile disperazione dei Joy Division”. Il collegamento è qualcosa di più di un tratto ortografico. C’è continuità nella rivolta.

I ragazzi a cui esplose la testa In quella che Margaret Drabble chiamava “la via di mezzo”, i Joy Division, come scrisse Chris Bohn “registrarono il corrosivo effetto dell’individuo di un periodo stretto tra l’impotenza del tradizionale umanesimo laburista e l’incombente e cinica vittoria dei conservatori”. In quel limbo, la desolazione dei paesaggi ballardiani alimentò un fenomeno culturale rilevante e singolare, perché nel postpunk c’è stato posto per tutto, come se fosse un’idea condivisa, o mille idee confuse, che si sono allargate attraverso le rovine lasciate dal punk. La definizione temporale di Simon Reynolds, nell’imperdibile ricostruzione di Post-


Punk (Isbn), dal 1978 al 1984, identifica con una certa sicurezza i contorni: “I movimenti rivoluzionari della cultura pop esercitano il loro impatto più ampio quando il loro slancio si esaurisce nel momento cioè in cui le idee escono dalle élite alternative metropolitane e dalle conventicole intellettualoidi di cui erano esclusivo appannaggio per diffondersi a livello periferico e regionale”. È una bella ipotesi che spiega come mai molte innovazioni siano rimaste sotto traccia a lungo prima di produrre effetti concreti, e questo vale in particolare per le intuizioni del post-punk, che ancora più frammentario e inafferrabile negava tutto senza negare nulla e aveva radici molto articolate. L’ambizione artistica era compressa in forme oblique e dissimulata in sonorità taglienti, non sempre accessibili, spesso dissonanti. Si capisce che si è trattato di una larga esperienza che ha assorbito le intuizioni del punk e le ha estese, come spiegava Dave Laing in Il punk. Storia di una sottocultura rock (Edt): “Il post-punk utilizzò strategie diverse. Una di queste riprendeva elementi da stili musicali al di fuori del rock, free jazz, elettronica e perfino musica folk. Questo tipo di strategia portò verso le etichette indipendenti musicisti come This Heat e Scritti Politti, emersi durante il periodo punk, e altri musicisti (come Robert Wyatt, e Ted Milton dei Blurt) che avevano una storia più vecchia all’interno della frangia d’avanguardia della scena musicale pop. Un effetto importante del punk fu quello di costruire un pubblico in grado di assorbire l’opera di autori e cantanti precedentemente isolati come Robert Wyatt”. L’intersezione con la musica colta e contemporanea, le connotazioni grafiche, quel minimalismo lineare ed elegante contrapposto al caotico disordine del punk, esploravano un’idea diversa di rock’n’roll, forse un’idea diversa di musica. Un’espressione unica, monolitica, singolare. Un movimento senza esserlo. Una distinzione. La vera cesura con il passato e con il rock’n’roll come fino ad allora era inteso? È un’ipotesi concreta, però come sosteneva Margaret Drabble, “il passato continua a vivere nell’arte e nella memoria. Ma non è statico: cambia quando il presente proietta all’indietro la sua ombra”. La connessione con i precedenti burrascosi è immediata, anche all’interno della nitida distinzione operata da Simon Reynolds: “Al prosaico compito di creare una cultura alternativa manca il fascino degli oltraggiosi gesti pubblici e del terrorismo culturale del punk. Di-

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struggere è sempre più drammatico che costruire. Il post-punk fu costruttivo e lungimirante, a partire dal suo stesso prefisso, segno di fiducia verso un futuro che il punk aveva decretato inesistente”. Eppure, l’anello di congiunzione va cercato ancora lì, nella scia del punk per eccellenza, ovvero Johnny Rotten alias John Lydon. Quella discendenza è stata sottolineata, anche da Dave Laing: “Forse il gruppo più famoso che fece ricorso a elementi extra rock fu quello dei Public Image Limited (P.I.L.) la band fondata da John Lydon (già Johnny Rotten). Nei loro dischi i P.I.L. utilizzarono suoni di tastiere elettroniche provenienti dalla corrente musicale tedesca, di cui facevano parte formazioni come Can e Kraftwerk. Ma i P.I.L. operarono anche attraverso una seconda strategia che potremmo definire decostruzionista. Questa strategia, applicata nel primo disco e nel successo del 1983 dal titolo “This Is Not a Love Song”, si fondava su un gioco sopra gli (e sulla distruzione degli) elementi di base del linguaggio rock, gli elementi dati per scontati. Nel successo del 1983 venivano trasgredite le convenzioni testuali, dal momento che i testi di Lydon mettevano in discussione il proprio status generico”. C’era anche un motivo strettamente musicale perché sempre secondo Dave Laing: rispetto al punk, “il post-punk offriva la possibilità di esplorare aree vocali più ampie”. Restava il peso non relativo delle chitarre elettriche, organizzate ancora una volta in modo innovativo (lo strumento si presta alle più disparate evoluzioni) ancora di più del basso, tanto è vero che Simon Frith vedeva “la chitarra come sfida”. Ma poi bisogna aggiungere l’ossessione ritmica che spinge tutte le atmosfere del post-punk e la scoperta di tutta un’altra strumentazione, che avrà un ruolo determinante negli sviluppi successivi sono gli elementi distintivi, insieme all’entusiasmo primordiale che avrebbero spinto Julian Cope a dire: “E così infuriavano le cose nell’autunno del 1979. Ogni giorno nascevano gruppi simili al nostro. Paul Morley inventò il termine post-punk per definire il nostro genere di musica”. C’è una teoria e una pratica nel post-punk che contiene gli elementi del “do it yourself”, ma li proietta in una dimensione artistica più definita e raffinata. Linee geometriche decise, ridotte all’essenziale, come se fosse necessario svuotare tutto, lasciare solo l’indispensabile, a volte anche meno. Colin Newman dei Wire, un nome che già esprimeva un’idea grafica, disse: “Era tutto arte”. Non c’è alcun dubbio.


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Cuori in esilio Raccontava Casey Rae in “William Burroughs e il culto del rock’n’roll” (Jimenez): “Nell’ottobre 1979, un paio di settimane prima di Halloween, Burroughs prese parte all’inaugurazione del Plan K a Bruxelles, in Belgio: un ex zuccherificio che l’omonima compagnia teatrale d’avanguardia aveva da poco restaurato e riconvertito in spazio per concerti. La Plan K si era specializzata in adattamenti teatrali di opere di Burroughs e aveva invitato lo scrittore a parlare. Completavano il programma della serata gruppi come Cabaret Voltaire e Joy Division. Questi ultimi erano diventati celebri grazie a brani tesi e depressi come “She’s Lost Control”e “Interzone”, quest’ultimo direttamente ispirato alla malfamata terra di nessuno citata nel “Pasto nudo”. Il frontman del gruppo, Ian Curtis, era un grandissimo fan di Burroughs. Si sarebbe suicidato appena un anno dopo, alla vigilia di quello che avrebbe dovuto essere il primo tour statunitense del gruppo. Quella sera, però, Ian Curtis aveva un buon motivo per essere felice: avrebbe incontrato uno dei suoi eroi”. Va da sé che il trait d’union con Williams Burroughs e il post-punk, a suo modo un punto di riferimento ineludibile, rimane David Bowie. Una confluenza più che un’influenza: come scriveva Simon Frith è “lo stile come significato” e David Bowie, offriva uno sguardo ambiguo e obliquo e tutte le connotazioni mitteleuropee, grazie alla trilogia berlinese, poi collimate nel nome dei Bauhaus, dall’omonima scuola d’arte della repubblica di Weimar, a conferma di quella derivazione. Né l’inizio né la fine, piuttosto, una specie di interzona eletta a punto di riferimento estetico, come spiegava Jonathan Fuller citato da Dick Hebdige in “Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale” (Costa & Nolan): “L’espressione estetica mira a comunicare nozioni, sottigliezze e complessità che non sono ancora state formulate e, quindi, non appena un ordine estetico comincia a trovare un’udienza generale come codice (come modo di esprimere nozioni che hanno già trovato una formulazione)

allora le opere d’arte tendono ad andare oltre tale codice mentre ne esplorano le possibili mutazioni ed estensioni”. È proprio quello che è successo con il post-punk nella sua variegata composizione: la rigidità stilistica era solo un’apparenza formale, la rivendicazione di una propria uniformità, molto più elastica ed efficiente. Mark E. Smith dei Fall riassumeva il senso artistico del post-punk in una “musica grezza con sopra una voce strana”, ma l’espressione del suo potenziale va cercata ancora nell’intuizione di Margaret Drabble: “Quando nulla è sicuro, tutto è possibile”. Lo spazio vuoto si rivela uno spazio aperto. Avanti. Manovre sonore nel buio E così diceva Brian Eno: “C’è una determinata qualità del suono che questa gente condivide. Il primo luogo, suona tutto come un gran casino, un casino mai sentito prima. Davvero, è una specie di sound della giungla; e presenta un punto di vista peculiare, che fa sì che tutto sia in primo piano, ma dietro vi è uno spazio molto ampio”. Quel punto di vista era condiviso anche da Derek Jarman quando diceva: “La decadenza, lo imparai in fretta, era il primo segno di intelligenza”, ed è lì che il post-punk ha trovato la sua collocazione. Come scriveva Dave Laing: “Uno dei più ambizioni tentativi di decostruzione delle convenzioni dei testi rock fatti dal post-punk fu rappresentato da “Playing With a Different Sex”, il primo album delle Au Pairs. In quell’album si cercò di volgere il genere della canzone d’amore contro se stesso, per mezzo di testi femminili che utilizzavano il formato standard del tipo rapporto personale. “The Sweetest Girl” degli Scritti Politti, da un altro punto di vista, riuscì a integrare il discorso politico con quello della canzone d’amore, mentre gli Human League, nella loro prima formazione sperimentale, incisero un pezzo (“Circus of Death”) che si apriva con la voce di un narratore che raccontava agli ascoltatori la storia della canzone che stavano per ascoltare”. Gli sviluppi femminili con le Slits e le Au Pairs, erano tesi a convogliare un’energia innovativa, risoluta che spingeva a con-


centrarsi sulla forma, che poi sarebbe stata la naturale estensione nel pop che seguirà. Ma nel postpunk, anche la forma è significato, un’attitudine ben precisa che si manifesta nel rapporto con l’arte, nelle scelte minimaliste, e nei collegamenti letterari. I Joy Division attingevano esplicitamente da Ballard, (Atrocity Exhibition), da William Burroughs (Interzone) da cui avevano importato anche la prassi del cut-up, elaborato a suo tempo con Brion Gysin, il metodo visionario di tagliare la scrittura e poi ricucirla in modo casuale, ma organico, per ottenere una prospettiva inedita. L’avevano imparato tutti. Come sosteneva Mary Harron, ciò che più colpiva nei Gang of Four era “l’uso di una sorta di collage di brani tratti dai quotidiani inframezzati ai testi delle loro canzoni, la loro ossessione per il significato dello stile e alcune delle loro teorie più estreme”. Con il proposito di “ridescrivere la realtà e ridescrivere il rock’n’roll”, i Gang of Four cantavano canzoni come “Antrax”, (“L’amore ti prenderà come un caso di antrace, e non voglio rischiare il contagio”), mentre il Pop Group intonava candidamente “We’Re All Prostitutes” e i Wire proclamavano in I” Should Have Known”: “Non ho ancora trovato la misura per calibrare il mio disappunto”. Non ci andavano leggeri, ma questo perché come scrive Simon Reynolds: “L’aspetto del post-punk che più merita di essere ripescato sembra essere la sua tensione al cambiamento. Un’impostazione espressa tanto nella convinzione che la musica dovesse guardare sempre avanti, quanto nella fiducia che la musica potesse trasformare il mondo, fosse anche alterando le percezioni di un singolo individuo o allargandone i senso delle possibilità”. È così che si fa.

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Qualcosa deve spezzarsi

Dal punto di vista di Ian Curtis, “spaventati dal pericolo che ci circonda, anneghiamo nel nostro paradiso” e a quel punto l’intento profetico collima con le visioni distopiche di Derek Jarman alle Quattro del mattino: “I cittadini restano muti a osservare i bambini divorati nelle culle. Domani arriveranno i dinosauri. Nessuno li ha mai visti, invisibili come atomi. Nel silenzio di una periferia inglese il potere e il segreto abitano la stessa casa; divinità ancestrali hanno abbandonato la terra. Strane forze stanno arrivando a sostituirle”. Era solo questione di tempo: anche qui le derivazioni del postpunk, anticipavano il regno a venire. Nel rapporto con la dance e l’elettronica, le forme si sono ampliate in modo sorprendente che l’apparente rigidità del postpunk non lasciava intravedere. Gli sviluppi, con l’introduzione dei sintetizzatori, con l’arrotondamento della componente estetica saranno intriganti e appariscenti, ma anche svuotati di significato e livellati dall’edonismo imperante dell’era di Reagan e della Thatcher, a compimento della tesi di James Graham Ballard: “Sospetto che i grandi cambiamenti culturali che preparano il terreno ai cambiamenti politici siano soprattutto di ordine estetico”. Ma, anche (e soprattutto) in questo caso, aveva ragione Derek Jarman: “è importante mettere la danza in una prospettiva storica”. Le influenze caraibiche, come per il punk, nelle Slits e ancora di più nei P.I.L., il legame con il funk e la musica per ballare persino un variegato senso pop, cadenzavano un senso incombente di apocalisse. E così sia. Un ideale per vivere Leonard Cohen, il padre putativo del post-punk (e di molto altro ancora) diceva: “Dobbiamo imparare il coraggio di fermarci alla superficie. Dobbiamo imparare ad amare le apparenze”. Perfetto. C’è un quadro, Ornamental Despair, che racchiude l’estetica post-punk. È l’opera di Julian Schnabel che riprendeva la copertina di “Closer”, il secondo album dei Joy Division. Nella descrizione di John A. Walker in “L’immagine pop” (Edt): “Il dipinto di Schnabel realizzato su velluto nero, è diviso in due sezioni. Sulla sinistra vi è una cornice ornamentale che racchiude uno spazio


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“Ornamental Despair”, Julian Schnabel

vuoto, sulla destra una figura prostrata, affranta, ricoperta da un drappo. Curtis non è raffigurato e tuttavia la sua stessa assenza è resa tangibile: è assente dalla cornice della parte sinistra allo stesso modo in cui è assente dalla scena musicale. Coloro che hanno familiarità con i dischi dei Joy Division riconosceranno la fonte della figura afflitta di Schnabel: la copertina di “Closer”, l’album realizzato postumo dal gruppo. L’immagine che appare in copertna è una fotografia, realizzata da Bernard Wolff raffigurante una raffinata scultura tombale italiana, la copertina era invece opera di Peter Saville e Martin Atkins, i due grafici della Factory Records. Pare che la fotografia di “Closer” fosse stata scelta prima che Curtis si togliesse la vita; se così fosse, si sarebbe trattato di una straordinaria premonizione. Ciò che la musica dei Joy Division, la scultura tombale, la copertina di “Closer e il dipinto di Schnabel” hanno in comune è un atteggiamento stilizzato nei confronti delle emozioni. Paradossalmente, i sentimenti più profondi vi sono rappresentati in uno stile composto, teatrale e retorico”. È l’apoteosi visiva quella concezione dell’incubo, ma molto fisica, che si traduceva in soluzioni ritmiche ossessive e ipnotiche: le cadenze marziali, glaciali hanno qualcosa dell’avvertenza, dell’allarme, quasi che il post-punk fosse attraversato da un comune sentire. Ed è anche per quello che il post-punk ha seminato molto più di quanto ha raccolto, forse perché alla base c’era un rifiuto concreto, solido e lineare, non dissimile da quello del punk, ma espresso in modo meno eclatante, più lapidario e rigoroso. Forse anche più estremo, tanto che si sarebbe esteso nel corso degli anni nei ritagli e in modi e tempi diversi dal Pop Group, nell’evoluzione dei Japan nei Dali’s Car e nei Rain Tree Crow o i Certain General fino ai The The di Matt Johnson. Ma a incrociare il post-punk portandoselo dietro come un bagaglio da cui non ci si riesce a liberare sono stati gli U2. Vivranno in comune con i Joy Division l’estetica visuale e quella sonora attraverso due protagonisti, Anton Corbijn e Martin Hannett. Anton Corbijn lo sarà dal punto di vista iconografico: allungando il bianco e nero dai Joy Division fino ai Depeche Mode, troverà un’immagine coerente agli U2. Martin Hannett invece produsse 11 O’Clock Tick Tock, agli acerbi esordi degli U2. Non un’esperienza felice, ma una certa attitu-

dine nella ricerca delle atmosfere ombrose e intense resterà per tutta la loro carriera (almeno, nelle sue parti migliori). Arriveranno Steve Lillywhite, poi Brian Eno e Daniel Lanois e l’inizio di una nuova era. Il mondo immaginato dal postpunk è quello che stiamo vivendo adesso, e, alla fine, come diceva Jon Savage: “i Joy Division comunicavano le emozioni disperate e rabbiose nascoste dietro l’apparenza austera di Manchester”, ma poi in fondo come disse un testimone privilegiato, Paul Morley: “Avevamo gli stessi interessi e le stesse convinzioni sulla musica e le cose che volevamo fare, gli stessi sogni”. Sarà sempre così.


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PUNK IS (NOT) DEAD ? Intervista a CRISTINA DANINI Autrice di una tesi di Laurea sulla scena Punk/Hc Torinese degli anni ‘80 di Massimiliano Stoto “Yes that’s right, punk is dead, it’s just another cheap product for the consumers head.” Cristina è una giovane ragazza che durante un corso universitario sulla musica pop scopre che uno dei maggiori centri europei dell’hardcore è stata Torino: “scegliere su cosa fare la tesi è stato facile” mi dice. “I libri sull’argomento sono divisi in due gruppi: i saggi degli studiosi e le testimonianze di chi il movimento l’ha fatto. Io volevo stare nel mezzo. Fuori dalla situazione quel tanto da poter fare paragoni, dentro abbastanza da sentire i bassi nelle casse e i cori nei cortei. Volevo dimostrare che un movimento non muore, cambia solo voce.”. Di per sé l’idea di farci una tesi non è sconvolgente, tanti movimenti musicali sono ampiamenti storicizzati e suscitano interesse nei più giovani. Ecco a me interessava proprio questo, capire perché un giovane nel 2022 trova ancora interessanti certe storie ? WN: Mi sorprendo sempre quando trovo ragazzi interessati a certi movimenti o scene musicali che hanno ormai esaurito da tempo la loro spinta creativa più dirompente. Come ti sei interessata a questo tema ? Cristina: Nell’estate del 2020 ho iniziato a pensare su cosa fare la tesi di Laurea. Avevo seguito un corso sulla Popular Music, con un prof molto bravo che aveva tenuto un paio di lezioni sulla scena punk italiana soffermandosi in particolar modo su quella bolognese e torinese. Quella torinese mi ha da subito incuriosito, un po’ perché vivevo lì e un po’ perché prima del DAMS, a Torino, avevo frequentato anche la scuola Holden, ma soprattutto perché mi aveva colpito la storia di movimento. Completamente autonomo dalla scena mondiale, nato nella città della FIAT. Una città grigia e industriale. Quando ho cominciato a raccogliere un po’ di materiale e a informarmi, scopro che un mio ex-insegnante alla Holden è Silvio Bernelli bassista di Indigesti e Declino.

WN: L’hai contattato ? Cristina: Al volo. Gli ho detto: ”Ti ho conosciuto in camicetta bianca e maglioncino che ci spiegavi Roberto Bolaño e Paul Auster e tu a diciasette anni spaccavi amplificatori ? Tutto ciò è molto interessante...spiega un po’ ?”. WN: Avevi frequentato musicalmente la musica HC prima di scriverne ? Cristina: Ad essere sincera no. Ci sono arrivata dopo, nel senso che mi è piaciuta tantissimo più la filosofia e la storia che c’era dietro. La musica è arrivata dopo. Non è un genere musicale a cui mi sarei approcciata senza averne prima capito l’origine...e ancora adesso non è il genere che preferisco. WN: Come hai sviluppato la tua tesi ? Cristina: Ho fatto un’introduzione all’acqua di rose su cosa è stato il movimento punk mondiale dall’inizio ai giorni nostri. Nella prima parte ho analizzato nel dettaglio la scena torinese parlando di com’era nata e in che luoghi fisici agiva, quindi Centri Sociali, sale prove, luoghi di ritrovo. Tra l’altro ho raccolto tantissimo materiale, molta roba non ho potuto nemmeno metterla nella tesi. Ogni volta che chiedevo saltavano fuori tantissimi aneddoti, sembrava che chiunque ne avesse fatto parte. Mi sono concentrata di più sui gruppi di cui disponevo i contatti più diretti quindi Declino, Indigesti e Negazione. La seconda parte della tesi riguarda invece l’evoluzione di persone e luoghi nel tempo, quindi quasi quarant’anni dopo cosa è rimasto e come si è trasformato ? C’è un bar, il Caffè Roberto in via Po, che hai tempi era un baretto scalcagnato frequentato da ragazzi che ascoltavano musica alternativa e ora è diventato un bar chic.


WN: C’è una storia sui gruppi che hai conosciuto che ti ha colpito maggiormente ? Cristina: Il tour dell’85 in giro per l’Europa di Negazione e Declino. Giovanissimi ma pronti a sfidare l’inverno più nevoso del secolo. L’idea che non si fermarono di fronte a nulla e continuarono a girare per centri sociali perché era quello che avevano promesso. La storia di Silvio Bernelli, che mi ha concesso una bella intervista e che ora insegna Yoga, alla domanda come si fa a passare dall’HC allo Yoga mi risponde che la forza e l’energia che qualsiasi artista mette nella sua arte è la stessa che c’è, e che lui ha trovato, nello Yoga.

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Negazione WN: Le reazioni dei prof quando hanno saputo il tema della tesi ? Cristina: Il mio relatore è un appassionato di qualsiasi tipo di musica underground, quindi mi ha appoggiata senza problemi. Mi ha consigliato dei testi e me ne ha prestati alcuni abbastanza introvabili. Ha giocato a mio favore anche il tema prettamente torinese della vicenda. WN: E la discussione com’è andata ? Cristina: Purtroppo mi sono laureata ad Aprile ‘21, in piena pandemia, quindi non ho fatto una discussione, ho solo consegnato il prodotto scritto e mi hanno dato il voto. Un contro relatore non so proprio cosa avrebbe potuto pensare o dire….da quel punto di vista me la sono giocata molto in casa. WN: Torino è sullo sfondo o entra decisamente nel tuo lavoro ? Cristina: Torino ha un suo capitolo all’interno della tesi. Si parla della storia della città ma soprattutto di com’era in quegli anni. Sono arrivata alla conclusione che se Torino non fosse stata capitale d’Italia, se non fosse stata per decenni la città della FIAT, se nelle sue periferie non si fosse ricreato quel clima, soprattutto nelle condizioni di vita, da rivoluzione industriale inglese sfruttando l’emigrazione meridionale, non si sarebbero create le condizioni affinché la scena Punk/HC di cui stiamo parlando, proliferasse. In un’altra città non sarebbe potuta succedere una storia così. WN: E Torino com’è ora ? Immagino tu l’abbia vissuta parecchio….. Cristina: L’ho vissuta parecchio perché ho abitato là per sette anni. Per certi versi viene da dire che è meno viva rispetto agli ann’80, ci sono meno concertoni per esempio, però per altri versi c’è tutto un mondo che è uscito allo scoperto e che gravita attorno ai locali dei Murazzi e della Vanchiglia, il quartiere studentesco. Io l’ho vissuta come una città molto viva, è andata un po’ in difficoltà nei primi anni dell’amministrazione Appendino ma si è ripresa….i torinesi sono testardi.

WN: E ora c’è la possibilità che questa tesi venga pubblicata...spiegami un po’ ? Cristina: Avendo fatto prima del DAMS, una scuola di scrittura come la Holden, mi viene da dire che era destino. Sicuramente è sempre stato un sogno nel cassetto. Ho deciso di mandarla a un paio di editori perché dopo l’esame, rileggendola mi sono resa conto che era di buona qualità e non avendola discussa, come si usa fare, forse mi mancava qualcosa. Mi ha risposto Bookabook, che non è un editore convenzionale perché ha dei lettori e degli editor che fanno una prima selezione dopo di che chiedono all’autore di prevenderne 200 cp in 100 giorni. Ho cominciato la campagna, che è andata a buon fine, e ora sto aspettando che il mio libro passi tra le mani degli editor perché ci saranno delle correzioni da fare, eventuali aggiunte, curare l’impaginazione per un’ uscita indicativa a Giugno 2022. WN: Nella presentazione, una parte l’abbiamo riprodotta come incipit di questa intervista, chiudi dicendo: “Volevo dimostrare che un movimento non muore, cambia solo voce.” Chi è punk oggi ? Cristina: A mio avviso si. Con quella frase volevo dire che il Punk e l’HC sono innanzitutto rottura degli schemi, delle forme, di tutto. Ci sono tanti gruppi oggi che fanno punk, li ascolto ok, ma non è la stessa roba, fanno solo un genere musicale. Chi porta avanti lo spirito punk è il ragazzino delle periferie, magari figlio di immigrati, annoiato e incazzato, che fa la Trap, che ha tanta voglia di fare, di mettersi in gioco e di fare tutto da solo.

Indigesti


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DISCHI DI ULTIMA GENERAZIONE

MURCOF IL BUCO DEL BACO SIMONE LOCARNI IOSONOUN CANE

BARBARISMS

MURCOF - The Alias Sessions (Leaf, 2021) 16 tracce x 88 minuti. "Spazio, ultima frontiera. Questi sono i viaggi del musicista MURCOF. La sua missione è quella di esplorare strani nuovi suoni. Per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima". Da vecchio trekker trovo che questa citazione calzi a pennello per quello che andiamo ad ascoltare.Murcof alias Fernando Corona messicano di nascita ma residente a Barcellona è un musicista sempre alla ricerca di nuove soluzioni sonore. Gli assi portanti di questo disco sono l'elettronica minimale la musica classica dove i suoni "classici" vengono frammentati, scomposti e campionati. Altro protagonista è il silenzio, quello dell'universo dove per mancanza d'aria il suono non esiste, dove nulla è più grande e più vuoto, eppure questo silenzio può essere riempito o può essere il contorno di un "qualcosa" come teorizzava John Cage decenni fa. I quasi novanta minuti del disco non possono essere analizzati o ascoltati in maniera frammentaria, sono troppe le sfumature, l'alternarsi di silenzi e suoni, di oscurità e luce, tutto in funzione di questa sinfonia cosmica. Murcof è un artista solitario così come solitario deve essere l'ascolto di questo capolavoro slegato dai generi convenzionali. Un vero e proprio viaggio nel cosmo pieno di suggestioni ed immagini e che forse ci rivela che è alla nostra galassia ed oltre che dobbiamo volgere lo sguardo per raggiungere suoni mai sentiti prima. Massimo “Nana” Toscani

IL BUCO DEL BACO Sotto il segno della Lampreda (Lizard Records, 2021) 8 tracce x 32 minuti circa. Il Buco Del Baco è un gruppo con sede a Milano e secondo la loro pagina Facebook la band nacque nel 1970 con il nome "Gli Altri" ma subito dopo le session di registrazione del loro primo album in una trasferta in America il loro aereo scomparve nel triangolo delle Bermuda fino al 2016 quando la band fu trovata congelata in un iceberg, con tecniche d'avanguardia il gruppo fu risvegliato e cambiarono il loro nome in "Il Buco Del Baco". Nel 2021 pubblicano "Sotto il segno della Lampreda", un concept album ambientato nei fondali marini dove i protagonisti sono le creature che vivono nei mari alla continua ricerca della Grande Lampreda. La musica è un omaggio al prog rock degli anni 70 ma è anche una parodia che spiazza continuamente l'ascoltatore e non teme di muoversi tra il serio ed il faceto con una scrittura che rischia di sfociare nel plagio, con continui richiami a Gentle Giant, Battisti, Jethro Tull, PFM, ecc. Nonostante ciò il disco suona modernissimo, molto più di tante noiosissime produzioni italiche, ed a giustificare il senso di tutto questo è la vena ironica che aleggia in tutto il disco. Da ascoltare senza pregiudizi. Massimo “Nana” Toscani

SIMONE LOCARNI TEN STOPS (Dasè Sound Lab., 2021) 9 tracce sui 57 minuti. CD acquistato c/o l’artista € 15,00

Le nove tracce che compongono “Ten Stops”, l’esordio del giovane mergozzese Simone Locarni, si sviluppano in territori jazz, per lo più pianistici. Ad accompagnare Simone tre grandi del jazz e della musica italiana, Andrea Dulbecco al vibrafono, Riccardo Fioravanti al basso, Bebo Ferra alla chitarra. Tutta gente di livello molto alto e dall’esperienza impressionante. La lista delle collaborazioni ve la risparmio. Se gente di questo calibro si schiera al fianco di Simone è segno che il ragazzo ha stoffa. Le quiete note del suo piano sono la struttura portante delle composizioni originali e delle cover presentate in questo disco. Musica che ti accarezza e ti ammalia, atmosfere magiche e rilassanti, dove la grande tecnica non sovrasta mai l’evolversi di pezzi nati per incantare e perdersi. E’ il caso di “Wheeler Suite” il pezzo più lungo della raccolta, dura quasi diciasette minuti, dell’autore canadese Kenny Wheeler, un pezzo articolato e anche complesso ma anche per-


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fettamente seguibile, che è eseguito con un leggerezza che quasi ti trasporta per tutta la sua lunghezza. Ma anche “Ten Stops”, il brano firmato da Locarni, è un gioiello emotivo, contrappuntato con eleganza dalla chitarra di Berra. La stessa grana spessa riveste “Alla fine” e “Wait Until Spring” gli altri brani firmati dal pianista lacuale. Il primo è modulato sullo schema del brano sopracitato, mentre il secondo è un breve bignami al piano del solo Simone, che ferma il tempo e i pensieri, fino a farti increspare la pelle. Notevoli anche i brani firmati da Dulbecco “Tempo sospeso” e “Lontano”, anche se il primo mi appare più convincente per lo spazio che viene dato a tutti gli strumenti mentre il secondo è incentrato troppo su vibrafono. A completare il lotto altri tre pezzi altrui “So It Goes”, “Beautiful love” e il classicone “I Fall In Love Too Easily” che, a partire da Sinatra, l’hanno fatto in molti. Sarà perché conosco di persona Simone, ma questo disco mi ha emozionato molto e spalancato gli occhi sulla vita che passa e che magicamente, ogni volta, mi sorprende grazie, a musiche e interpreti di questa caratura. Complimenti senza condizioni. Massimiliano Stoto

BARBARISMS ZUGZWANG (A Modest Proposal Records, 2021) 9 tracce per 43 minuti magici. Quarto disco in sette anni per questo terzetto svedese, cappeggiato da un italoamericano che passerà alla storia con il nome di Nicholas Faraone. Passerà alla storia perché uno che scrive le canzoni che compongono “Zugzwang” non merita di conquistare l’oblio. Se vi piace la cosiddetta “americana” che viaggia dalle parti degli irregolari per eccelenza, che partono dal più famoso Neil Young al più sgangherato Matthew Houck alias Phosporescent, passando anche per band come Richmond Fontaine e Murder By Death. Avrete di che essere soddisfatti. Gente che ha l’anima bucherallata dal revolver di Hank Williams e che sa consolarti, quando la vita di getta giù da un dirupo. Ora, i Barbarisms sembravano proprio una bella cosa, talmente bella e in ordine che potevamo dire di conoscerla in una ventina di persone. Ce ne saremmo pure vantati in qualche occasione notturna, solo che ci hanno traditi. Nicholas Faraone ci ha tradito e ha sfornato, una raccolta di canzoni capace di dare ancora un senso alla figura di un uomo con una chitarra, accompagnato quel tanto che basta da due soci, che canta, canta, canta canzoni vere. Magari ha un timbro un po’ monotono, lo confesso, ma mi sembra una risibile sfumatura. Di più faccio fatica a scrivere, le canzoni sono tutte di livello medio alto, si fanno ricordare, si fanno cantare, e soprattutto ti fanno “ritornare” al disco. Arrangiate alla maniera classica che la tradizione di questo genere richiede e cioè chitarre, piano, percussioni sembrano tanto semplici da risultare incredibili. Una raccolta che apre magnificamente il colorato autunno della vita degli over 50 e che lenisce, degnamente bruciando, i giovanili rimpianti con whisky sulle ferite. Kurt Logan

IOSONOUNCANE IRA (Numero Uno, 2021) 17 tracce che lambiscono i 108 minuti. CD acquistato c/o Papermoon Biella € 19,90

E’ un mondo globalizzato, molto più piccolo di quanto si pensi. Dove le informazioni, le influenze, gli stili, viaggiano a una velocità superiore al muro del suono. Nonostante la stampa di settore strombazzi nuovi fenomeni del post punk a ogni piè sospinto, gli ultimi in ordine di tempo dovrebbero essere gli Yard Act di “11:11”, in uscita questo mese, io credo fermamente che nei sentimenti, nella decadenza, nella rabbia, nel coraggio, nelle idee, nelle sonorità e nel miscuglio di esse, non ci sia stato nel 2021, ma anche da più anni indietro, un album più visceralmente Post Punk di questo. Per riprendere Marco Denti a pagina 60 “Queste non sono canzoni d’amore”. Ora leggere di questo disco su WN dopo che in molti nello scorso anno ne hanno parlato, lascia il tempo che trova, ma questa recensione, che non sarà in grado di aggiungere niente a quanto si è già detto, ha un unico esplicito fine: consigliarvi di essere portatori del verbo di questo disco. Ascoltatelo, amatelo, diffondetelo, spiegatelo. “Ira” è un disco che segnerà il nostro tempo, gli anni pandemici, questa cosa strisciante a cui, come dice Parisini a pag. 53, “non eravamo preparati”. Per usare dischi di cui abbiamo parlato su questo numero, questo si farà ricordare nella storia della musica italiana come “Affinità…” come “Ko de mondo”, come “Canzoni da una spiaggia deturpata”. Per il linguaggio, per le sonorità, per il tempo oscuro che ritrae e per la coraggiosa apertura verso il mondo che cela tra le sue pieghe. In un anno in cui sportivamente abbiamo vinto l’incredibile, io senza dubbio dico che abbiamo fatto anche il miglior disco a livello internazionale. Colonna sonora di un mondo alienato e sempre connesso, dove l’umana comunità è andata a farsi fottere (Cit. Bianconi), “Ira” è la nera fotografia del corpo nudo, sfocato, lontano e perso dell’uomo moderno che cade in un infinito buco nero nello spazio più profondo. Anche se in realtà “Ira” nasconde anche mille colori e mille contaminazioni, che spesso vogliono dire speranza e rinascita. Jacopo Incani, sardo, classe 1983, ha fatto un capolavoro. Non potete perderlo. Massimiliano Stoto


BACK IN THE PAST... ...Retropolis Live….io e i CCCP

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Tra lattine punx e monetine wave, più o meno tutto quello che mi ricordo di quando li ho visti dal vivo di Luca “il Metius” Mattioli Confesso di provare una colpevole invidia nei confronti degli amici che conservano un ricordo lucido dei concerti visti negli anni Ottanta. Ascolto impressionato racconti che descrivono il luogo dove è avvenuto quel tale show, il livello artistico dell’esecuzione, la scaletta. Chiaramente, so di essere stato presente anch’io, ma la qualità dell’esibizione passa spesso in secondo piano, messa in ombra da altre vicende - risse, sbronze, innamoramenti e furibondi litigi - accadute prima, durante e dopo il concerto. Come diceva quel vecchio malandrino di Lux Interior dei Cramps, nel rock and roll la musica è il 5%, ma è il restante 95% a essere davvero importante. Detto questo, mi accingo a raccontarvi ciò che mi ricordo dei due concerti dei CCCP ai quali ho avuto modo di assistere. Tutto vero? Ci potete scommettere (ma io non lo farei). Leonkavallo, 1984. Gli antefatti: Indosso una maglietta dei Crass, che qualche tempo prima mi fruttò un’espulsione dalla classe durante l’ora di inglese (alla prof quel “Jesus die for His own sins” sembrò un tantinello eccessivo). Sono in auto con i componenti dei Nijinky Folie, la band in cui allora suonavo il sax. Conosco tutte le canzoni dei CCCP grazie a una cassetta registratami da non ricordo chi Non sono mai stato al Leo. La cronaca: Il salone grande del CSA è pieno. C’è un fortissimo odore di hashish, erba, sudore e birra vecchia. I CCCP hanno un outfit poco entusiasmante, tra il reduce di guerra e l’homeless chic (speravo, ingenuamente, in impeccabili divise dell’Armata Rossa). Lo show ha qualcosa di cabarettistico: me li aspettavo più minacciosi e “punk”. Vedo poco, a causa della moltitudine umana e per il fatto di avere dimenticato gli occhiali nel giubbotto lasciato in macchina. A un certo punto, mi rendo conto che il gruppo è fatto bersaglio di un vero e proprio bombardamento di lattine (piene). I proiettili sono lanciati da un gruppo di punx assiepati nel retro della sala, sorvolano la mia testa e rimbalzano pericolosamente sul palco. Il concerto si interrompe: Ferretti proclama che “i CCCP, al Virus, non suoneranno mai!”. Qualcuno mi passa un volantino dattiloscritto: è del Virus, dove vengono spiegate le ragioni per le quali i CCCP non saranno mai chiamati a suonare al Virus. Si torna a casa tardissimo. Qualche giorno dopo regalo la mia maglietta dei Crass a un compagno di classe, che la indossa solo per farsi sbattere anche lui fuori dall’aula durante l’ora di inglese.

Arezzo Wave, 1988 Gli antefatti: Sono alla manifestazione per suonare con i Khan-Chy’s Yawn, selezionati tra migliaia di band indipendenti italiani (Tutto vero: se non ci credete cercate la compilation su Discogs!). Facciamo il viaggio tutti a bordo di una Panda 45. Strumenti compresi. I CCCP sono le superstar definitive dell’underground italico. I migliaia sono qui apposta per vederli suonare. La cronaca: Siamo gasatissimi perché sembra che l’esibizione dei KCY sia piaciuta. Per celebrare il successo, dal momento in cui siamo scesi dal palco beviamo in modo smodato. Ma avremmo fatto lo stesso anche se fosse stato un disastro. Corre voce che i CCCP faranno un’esibizione “differente”, a causa del cachet ridotto proposto dall’organizzazione. Fedeli alla lira, la lira non c’è. Arrivano letteralmente cinque minuti prima di salire sul palco con una Volvo station wagon nuova di pacca. La loro esibizione è a tutti gli effetti una pièce teatrale intitolata “Il testamento del capitano”. Il pubblico non la prende bene e comincia a lanciare monetine sul palco. Spero che a furia di 50, 100 e 200 lire si possa raggiungere una cifra sufficiente a convincerli a suonare un paio dei loro cavalli di battaglia. Non lo fanno. Volano altre monete. Finito lo spettacolo si va tutti a dormire in un asilo messo a disposizione dagli organizzatori: letti e sanitari sono a misura di bimbo e a noi pare di essere dei Gulliver punk nei paesi del lillipuziani. Al ritorno, tragicamente stipati di nuovo sul Pandino, sogniamo un tour a bordo di una Volvo station wagon.


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Vinyl Return pt.4

IL DRAMMATICO RITORNO DEL VINILE

“Dentro al negozio” Intervista ad Andrea dello staff del “Paper Moon Dischi” di Biella di Massimiliano Stoto Da quando siamo tornati a pubblicare abbiamo affrontato in ogni numero il tema de “Il ritorno del vinile”. Ne abbiamo parlato sotto diversi aspetti, direi tecnici e passionali per lo più. E’ venuta l’ora di ascoltare, a riguardo un vero addetto ai lavori. Andrea è il mio principale riferimento fra lo staff del negozio Paper Moon di Biella. Negozio dove sono solito servirmi per i miei acquisti musicali. Senza usare tanti giri di parole ho voluto raccogliere la testimonianza diretta di chi i dischi (vinile e cd) ancora li vende. WN: Ci puoi raccontare la storia del vostro negozio ? Da quanto siete sul mercato ecc.. ecc… A: PAPER MOON nasce sotto la mia gestione nel gennaio del 1996. Insieme ai miei due soci d’allora, convenimmo che la piazza di Biella, decentrata dalle più importanti vie di comunicazione, non fosse sufficiente per assicurarci un futuro più roseo possibile. A distanza di 25 anni, ammetto che la lungimiranza di allora ha premiato perché, malgrado le mille mutazioni che il mercato ha sopportato, la scelta di diventare per lo più un negozio rivolto alla vendita in corrispondenza porta ancora oggi i suoi frutti. Da subito la politica è stata quella di rivolgerci marginalmente ai distributori e alle case discografiche italiane preferendo i contatti con il mondo della distribuzione internazionale. Abbiamo così costruito una rete di una decina di fornitori sparsi tra le varie nazioni comunitarie, l’UK, chiaramente gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e il Giappone. Grazie alla diversificazione, all’abbattimento dei costi degli intermediari nostrani ed alla possibilità di ricevere materiale di ogni genere entro pochi giorni, non è stato difficile dimostrare alla clientela che via via cercavamo di attirare con campagne pubblicitarie sulle riviste specializzate, che il nostro negozio avrebbe potuto fare il caso loro. Dopo due decadi, sono felice di constatare che molti di quei clienti che ci hanno “aiutato” ad iniziare sono ancora con noi e nel tempo sono diventati degli adorati amici WN: Che tipo di mercato soddisfate ? Nuovo o usato ? In che percentuale più o meno ?

A: Abbiamo iniziato a puntare anche sul mercato del cd usato intorno al 2004 quando durante una permanenza a New York constatai che alcuni negozi locali trattavano esclusivamente questo segmento. Più recentemente, soprattutto dal 2010 anche il mercato del vinile usato ha preso piede e ora ha superato nei numeri quello del cd. Grazie alla vendita on-line e sulle piattaforme tipo eBay, Cd&LP e Discogs il negozio può così offrire una scelta di prodotti ancora più ampia. WN: C’è clientela giovane che acquista dischi o cd ? A: Come detto in precedenza, il pubblico della “corrispondenza” è alquanto consolidato e si ritiene in linea di massima “serious collector”; mi spiego: si tratta di collezionisti e appassionati che in anni di acquisti hanno messo insieme dei veri tesori e cercano continuamente di ampliare la collezione grazie al nostro import di novità o di offerte promozionali. I giovani, intendo ventenni / trentenni, sono più attirati dal vinile sia nuovo che di seconda mano ma ammetto che rimangono acquirenti saltuari e prevalentemente concentrati tra il pubblico del negozio. WN: In questi anni va più un grande dico classico dei Black Sabbath o degli Stones o una nuova uscita, che so il nuovo dei War On Drugs ? A: Per i motivi sopra elencati, i classici e le ristampe dei tesori più misconosciuti dei 60’s e 70’s sono il pane quotidiano. Non mancano però clienti che seguono con particolare attenzione tutte le nuove uscite in ambito contry, folk e roots. Inferiore in termini numerici è il pubblico appassionato di suoni “indie” più moderni


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Non sono un fanatico delle “prime stampe” che magari poi vere prime non sono e quando lo sono veramente il conto in banca vacilla, quindi a livello personale scelgo un cd magari arricchito da un bel libretto con note a corredo o un esaustivo box-set

WN: Il vinile è veramente tanto richiesto ? A: Lo sarebbe molto di più se le case discografiche adottassero politiche di prezzi più sostenibili anche dalle nuove generazioni. Se un ragazzo per una (ennesima) ristampa di un disco di culto si trova a dover sborsare 30 euro e più, posso testimoniare che si limiterà ad acquisti saltuari e ciò gli impedisce di far nascere in lui quello spirito da collezionista che ha contraddistinto generazioni precedenti. Per le case non puntare ed investire sul mercato dei giovani di oggi temo che si rivelerà un vero boomerang in quanto terminate le generazioni dei cinquantenni e sessantenni (e anche di più) che tengono in piedi il mercato attuale, sarà un vero terno all’8 riuscire a trovare nuovi motivi di interesse per chi col supporto fisico ha poca dimestichezza WN: Da appassionato e mi immagino anche da ascoltatore, trovi differenza a livello di resa sonora, tra i vinili degli anni ’70 e quelli di oggi ? A: Se parliamo di Lp posso sicuramente sostenere che i vinili di oggi suonino benissimo ma sembrano figli del digitale nel senso che la differenza rispetto alle ristampe rimasterizzate in cd è minima. Rimane l’oggetto ma anche il delta nel prezzo, purtroppo.

WN: Dal tuo punto di vista come credi andrà il mercato in futuro ? Voglio dire chi ha vissuto il boom degli ‘60/’70 e ’80 ha, anagraficamente parlando, imboccato il “viale del tramonto” credi che ci sarà sempre meno interesse per l’acquisto di un disco o addirittura per il concetto stesso di disco ? A: Penso che l’interesse verso il supporto fisico rimarrà fino a quando ci sarà qualcuno che ne ha amato le peculiarità: la copertina, lo sguardo ammirato alla propria collezione che riempie gli scaffali, i ricordi legati all’acquisto di ogni singolo pezzo presente. Chi ha la fortuna di poter assaporare queste sensazioni continuerà imperterrito fino a che l’industria discografica lo supporterà. A chi mancano queste emozioni si rifugerà negli ascolti distratti di qualche playlist della quale un’ora dopo avrà dimenticato artisti, titoli, testi (non parliamo dei nomi di produttori, info aggiuntive ecc.) e skipperà a qualche altro singolo che durerà nella memoria quanto uno schiocco di dita. Il concetto del 33 giri morirà e avremo artisti che si limiteranno a produrre “singoli”. WN: Infine… visto che sono sulla bocca di tutti….come vanno i Manneskin, a livello di vendite fisiche, nel tuo negozio ? A: Che Dio li benedica, benedica i loro produttori e chi ne guida le scelte. Non li ascolterò e non li collezionerò ma rispetto a tanta inutile plastica, almeno un’anima rock la dimostrano ….magari indirizzeranno i gusti di qualche teenager verso la storia degli Stones piuttosto che verso trapper dalle dubbie qualità artistiche ma di “tendenza” .


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GIOVANNI LINDO FERRETTI E IL CORO ALPINO DELL’APPENINO

...cantano le più belle canzoni della tradizione alpina

WolverNight Records 005 13 tracks - 40’ circa

01 Il testamento del Capitano 02 Bombardano Cortina 03 Ta-Pum ! 04 Era una notte che pioveva 05 Monte Camino 06 La montanara 07 Di qua di là del piave 08 Quel mazzolin di fiori 09 Montenero 10 La si taglia i biondi capelli 11 Sul ponte di Bassano 12 Bandiera Nera 13 Signore delle cime

FERRETTI e i CANTI DEGLI ALPINI Per molti addetti ai lavori era inevitabile. Per il suo fedelissimo pubblico è un’altra opera che spiazza. Di sicuro, e ancora una volta, si parlerà di lui. La scelta da parte di G.L.F. di incidere una serie di canti appartenenti al tradizione del corpo degli alpini e oramai entrati stabilmente nell’immaginario popolare dello stivale, non mi sorprende e non mi scandalizza. Giovanni ha smesso da tempo i panni del frontman dei CCCP e vivendo a contatto con la natura, in montagna, da oramai molti anni, ha sviluppato una forte sensibilità verso la tradizione e l’appartenenza a un territorio in cui gli alpini sono protagonisti inamovibili. La cosa che mi lascia perplesso è solo l’interpretazione dei pezzi. Giovanni ha scelto infatti di interpretare il repertorio cantando insieme al coro e praticamente nel disco non esistono parti solistiche in cui la sua voce è riconoscibile. In sostanza il risultato è esattamente uguale al cd del Coro degli Alpini della Valle Grezza piuttosto di quello della Brigata Alpina Taurina. Devo ammetterlo l’idea mi stuzzicava parecchio ma il risultato è deludente, la sua voce magnetica e la sua presenza non concretizzandosi, di fatto penalizzano il risultato, rendendo banali brani di buona scrittura e a volte anche altamente drammatici. Kurt Logan

TITOLI DI CODA: C.S.I. – Bolormaa

(da “Tabula Rasa Elettrificata” Polygram, 1997)

“Densamente spopolata è la felicità” Bolormaa è la contorsionista incontrata da Ferretti e Zamboni durante il viaggio in Mongolia, me l’ha detto Mara. Intro di chitarra, organo subito a dare supporto con un po’ di leggera batteria. Poi arriva un Ferretti cantilenante, a raccontarci della contorta. Ma il pezzo vive due momenti chiave quando dopo tre minuti entra Ginevra Dimarco e quando Giorgio Canali si scatena a cento secondi dalla fine. Un tipico brano della produzione C.S.I. dolce e teso, vero e inclassificabile. Non un esercizio di stile ma una storia, una persona, un personaggio raccontati con asciutta cognizione, sia nelle parole che nella musica. Tra le note del disco si legge che il pezzo è dedicato alla Redeghieri degli Üstmamò, che stava attraversando un brutto periodo. Mara mi ha detto anche questo. Kurt Logan Other Notes: WolverNight 55 è stato prodotto, mixato e arrangiato da Kurt Logan presso lo studio “Hyde Park House” in via Pianezza n°2 a Bracchio di Mergozzo (VB). Nelle sere e notti del 2,3,4,5/11, del 4,5,6,7,8,9,10,11,12,13,14,15,16,22,23,27,28/12/2021 note di: THE MAGNETIC FIELDS - “69 Love Songs” cd3, KING GIZZARD AND LIZARD WIZARD - “Butterfly 3000”, THE FLAMING LIPS “American Head”, TRICKY “Maxinquaye”, MICHELE ANELLI “Sotto il cielo di Memphis”, BLACK GRAPE “Pop Voodoo”, COURTNEY BARNETT “Things Take Time, Take Time”, ABBA “Voyage”, NEIL YOUNG CRAZY HORSE “Barn”, JOHN GRANT “Boy From Michigan”, KHALAB & M’BERRA ENSEMBLE “M’Berra”, ISRAEL NASH “Topaz”, AARON FRAZER “Introducing...”, SPRINGTIME “same”, ALAN VEGA“Station”, NICK CAVE & WARREN ELLIS “Carnage”, LOW “Hey What”, JULIAN COPE “Peggy Suicide” e più volte quasi tutto di CCCP, C.S.I., Canali, Maroccolo etc


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