Why Marche n.14 The Climbers

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WHY MARCHE MAGAZINE N. 14 FEBBRAIO MARZO 2013 BIMESTRALE - ANNO IIII - € 1,00

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The Climbers Born in Cantiano



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FABIANA PELLEGRINO

Ripensare il necessario nella modernità Benedetto XVI ha detto: “Questa società si comporta come se Dio non esistesse perché non è necessario”. È importante riflettere su questa frase, astraendola dal solo contesto religioso. La dimensione della necessità, infatti, va oltre quella teologica, supera la sola questione dell’esistenza di Dio. Il necessario è la conditio sine qua non di questi tempi, l’utile il solo metro con cui si giudica ciò che va fatto e difeso e ciò che, semplicemente, va trascurato. Ebbene, quello che vi proponiamo è una rivalutazione dell’unità di misura, è l’apertura della necessità a ciò che utile è per la mente e l’anima. Vogliamo sovvertire i tempi comuni, fatti di rincorse al potere e denaro. Vogliamo credere che si debba tornare a difendere la cultura, il valore del territorio, l’umano. Vogliamo tornare a sperare in una società che agisca ritenendo l’uomo necessario. Per questo continuiamo, a dispetto della crisi – che è innanzitutto etica e poi economica -, il nostro viaggio nella bellezza delle Marche. Vi presentiamo gli antichi mestieri che ancora resistono alle logiche globalizzanti, i giovani instagramers marchigiani che hanno raffigurato questa terra in oltre quattromila scatti, i “contadini” dell’era moderna che dalla metropoli hanno scelto la fattoria, una famiglia che ha sposato la musica folk e country per la vita. Ecco come rifiutiamo la logica del necessario, a favore di un racconto che ogni volta possa farvi appassionare a un mondo che esiste ancora. E se cadono meteoriti ferendo migliaia di persone, se la terra trema come se volesse ribellarsi in via definitiva, se perfino un Papa comprende che il suo tempo è finito, l’unica possibilità di sopravvivere è salvare la nostra mente. E noi di Why Marche vogliamo fare, ogni volta, la nostra parte. Buona lettura.

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SOMMARIO AGORÀ 6 L’etica del futuro ISTITUZIONI 8 Parliamo green?

INNOVAZIONE 10 Spesa a km 0 12 Instagrammiamo 15 Una nuova frontiera

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INTERNAZIONALIZZAZIONE 17 Il 2013 di Marchet IMPRESE 19 Mani da sogno 26 Promuovere l’artigianato TURISMO 28 Alla scoperta di… 30 Idee marchigiane 32 Ce li abbiamo, lo sappiamo? 34 La magia è di casa 36 Viste da occhi stranieri 38 Popoliamolo! ESTERO 40 Emozione americana

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42 N° 14 - FEBBRAIO MARZO 2013

www.whymarche.com Direttore Responsabile: Fabiana Pellegrino f.pellegrino@whymarche.com REDAZIONE Caporedattrice: Eleonora Baldi e.baldi@whymarche.com

THE CLIMBERS A cavallo di un sogno

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Responsabile di redazione Paola Solvi p.solvi@whymarche.com Responsabile Marketing Raffaella Scortichini r.scortichini@whymarche.com Direttore Artistico Silvio Pandurini s.pandurini@whymarche.com

CONSUMATORI 48 Ladri di carte

Editor Giampaolo Paticchio Marco Catalani Andrea Cozzoni Valentina Viola Silvia Brunori Stefano Novelli Sara Bolognini Michela Maria Marconi Stefano Pagliarini

ARTE E CULTURA 50 La storia sui binari 52 Brivido 54 Il trucco c’è…e si vede! SALUTE E BENESSERE 56 Bere per star bene

Hanno collaborato Loredana Baldi Daria Perego Garofoli Ilenia Pallottini Foto di copertina Luca Centurelli www.lc978.com

ENOGASTRONOMIA 58 Contrapposizione esaltante

Concept: Theta Edizioni

UNIVERSITA’ 60 Il futuro in prestito

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FOLKLORE 62 Marche sacre 64 L’esploratore 66 Il borgo del Carnevale 68 Come non l’avete mai pensata 70 Presenze

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Casa Editrice: Theta Edizioni Srl Registrazione Tribunale di Ancona n° 15/10 del 20 Agosto 2010 Sede Legale: Via Villa Poticcio 22 60022 Castelfidardo - Ancona www.thetaedizioni.it - info@thetaedizioni.it Tel. 0731082244 Stampa: Tecnostampa: Via Le Brecce - 60025 Loreto (AN)

MOTORI 72 Sicurezza e non solo

Abbonamenti: abbonamenti@whymarche.com Chiuso in redazione il 19 Febbraio 2013

STYLE & FASHION 74 I tranelli della tuta

COPYRIGHT THETA EDIZIONI TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI. NESSUNA PARTE DI QUESTO MENSILE PUO’ ESSERE RIPRODOTTA CON MEZZI GRAFICI, MECCANICI, ELETTRONICI O DIGITALI. OGNI VIOLAZIONE SARA’ PERSEGUITA A NORMA DI LEGGE.

LUDICA 76 Calarsi nel personaggio PERCHÈ 78 Visto da dentro

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per qualsiasi informazione

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w ALICE ED ELIA CORRADINI

L’innovazione nell’etica Si dice che a volte per andare avanti bisogna guardare indietro, recuperare valori, tradizioni, un rapporto sano con la natura. Sicuramente di questo avviso sono alla Fattoria Biologica Corradini Alice ed Elia. Due ragazzi giovani che hanno voluto investire per costruire il proprio futuro nell’agricoltura. Una scelta quasi in controtendenza. Ma che sembra essere davvero intelligente. Recuperare qualcosa di tradizionale, ma farlo in maniera moderna, realizzando un’unione tra la solidità del passato e la forza innovativa che il presente ha.Un messaggio importante che merita visibilità. Non solo perché proviene da due giovani, ma perché fa capire come affrontare i problemi in modo diverso si può. La crisi economica non aiuta l’acquisto? È un dato di fatto, ma basta inventarsi una formula diversa per riuscire ad aggirare la difficoltà o per lo meno per provare a combatterla. L’idea di Alice ed Elia parte proprio da questa considerazione, di quanto l’innovazione di pensiero e nel pensiero possa aiutare nella pratica. E, a fare da sfondo al modus operandi della Fattoria Biologica Corradini, l’etica. Un valore che sembra quasi sconosciuto nel tempo del potere e del denaro. Ma solo recuperando alcuni capi saldi è possibile davvero andare avanti.Gli elementi per stimolare la nostra curiosità ci sono tutti. Quindi conosciamo Alice ed Elia ed il loro progetto BO.V.E.

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ELEONORA BALDI

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na domanda scontata, ma quanto mai attuale: perché due giovani decidono di dedicarsi alla Fattoria Biologica? Solo per tradizione di famiglia o come scelta ponderata? “È stata una scelta ponderata, così come lo è stata quella dei nostri genitori Carla e Vittorio, che nel 1989 decisero di lasciare il loro lavoro presso il Comune di Milano per dedicarsi a questa passione, creando la nostra fattoria dal nulla. Noi amiamo questo lavoro e crediamo molto in quello che facciamo: per tutta la famiglia non è solo un lavoro, ma una vera e propria scelta di vita. Noi vediamo l’agricoltura biologica come una scelta che ha anche una valenza sociale, un’azienda biologica è anche un presidio di tutela ambientale e un luogo di incontro e scambio di idee con chi vuole conoscere il mondo agricolo e l’ambiente che ci circonda. Pensiamo che le Marche siano una regione meravigliosa ed è importante che, chi come noi ci vive, faccia il possibile per valorizzarla”.

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Raccontateci del progetto BO.V.E.: in che cosa consiste e come nasce questa idea? “Il Progetto BO.V.E. nasce dall’esigenza di fronteggiare la crisi economica che sta attanagliando il Paese e tutte le aziende, soprattutto quelle medio-piccole come la nostra, che si trovano in difficoltà principalmente a causa dell’aumento dei prezzi delle materie prime e dalla mancanza di credito da parte delle banche. Il progetto BO.V.E. (BOvini Vissuti Eticamente) è un investimento a 18 mesi. Chi decide di aderire paga ora 200 € e riceve dopo un anno e mezzo 15 kg di carne bovina o 20 kg di carne suina di nostra produzione a prezzo bloccato. Diciotto mesi sono il tempo necessario al bovino o al suino per crescere, rispettando i tempi naturali di accrescimento: per noi è fondamentale rispettare il benessere degli animali, coltivando per loro cereali e foraggio biologici e garantendo spazi ed attenzioni adeguate. Chi sottoscrive un BO.V.E. coi suoi 200 € contribuisce alle spese dell’allevamento garantendo alla fattoria la liquidità necessaria a poter lavorare, venendo così coinvolto direttamente nella

vita dell’azienda e rimanendo sempre aggiornato su tutte le attività, possibili grazie anche al suo contributo”. Economia alternativa ed etica. Non solo due parole per voi, ma le leve sulle quali puntare per portare avanti i vostri progetti… “Sono le basi di tutto il nostro lavoro, i principi in cui abbiamo sempre creduto, gli stessi che hanno fatto decidere ai nostri genitori un cambiamento di vita così radicale 24 anni fa. Siamo convinti che il futuro, non solo per la nostra azienda, dovrà essere basato su maggiore sostenibilità, etica e sostegno reciproco”. Come hanno reagito i consumatori alla vostra proposta? “Ci sono state numerose manifestazioni di interesse e reazioni entusiastiche, sia da parte di chi già ci conosce che da chi è entrato in contatto con noi sentendo parlare del BO.V.E. Abbiamo già raccolto diverse adesioni e stiamo continuando”. C’è chi dice che i giovani di oggi siano dei bamboccioni e chi li ha apostrofati come choosy. Voi siete uno degli esempi virtuosi che dimostrano la falsità di queste affermazioni. Cosa vi sentireste di consigliare ad altri giovani imprenditori o a chi stenta ad entrare nel mondo del lavoro? “Non ci sentiamo di dare consigli, quello che possiamo dire è che se noi non credessimo davvero in quello che facciamo, non potremmo di certo sopportare e affrontare tutte le difficoltà che si presentano quotidianamente nel nostro lavoro. Quindi forse l’unica cosa da dire è : fare ciò per cui si ha passione, senza mai fermarsi e non avendo paura di innovare e reinventarsi, mantenendo intatti i valori fondamentali in cui si crede”.

ALCUNE IMMAGINI DELLA FATTORIA BIOLOGICA CORRADINI WWW.LAFATTORIABIOLOGICA.IT WWW.BOVEETICO.IT

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robabilmente è uno degli aspetti di più alto interesse pubblico. Anzi sicuramente. Forse non il primo, quando da risolvere ci sono i problemi legati all’economia, al lavoro, alla legalità. Però di certo uno degli elementi che più degli altri incide sul nostro presente e soprattutto inciderà sul nostro futuro. L’essere umano non è stato poi così grato e rispettoso nei confronti della Madre Terra, che gli ha dato ospitalità e risorse. Uno sfruttamento spesso assurdo del territorio che ha prodotto ecomostri – le Marche sono un’isola felice per carità, ma di opere da condannare ce ne sono anche qui! -, che ha disboscato fino ai limiti estremi, che ha messo a dura prova l’equilibrio ambientale, che ha reso l’aria talmente inquinata da costringerci ora al palliativo delle targhe alterne. Sembra però appunto che dopo anni di “facciamo , poi vedremo” da qualche decennio si stia seriamente riflet-

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gratuita: una mano non solo all’ambiente ma anche al portafoglio! Un esempio, di come qualcosa di concreto possa davvero testimoniare non solo di una presa di coscienza di qualcosa di necessario, ma di un’effettiva volontà di realizzare un passo in avanti verso il rispetto dell’ambiente.

Perchè, ne siamo convinti, il rispetto dell’ambiente che ci circonda non è solo un’esigenza ma un valore.

che azione per fortuna. E’ di poco tempo fa la notizia, ripresa dalle testate giornalistiche nazionali italiane ed anche da noi all’interno del nostro portale, della “svolta ecologica” della capitale estone, Tallin, per mano del suo sindaco Edgar Savisaar. Dal 1 gennaio qui i cittadini potranno sfruttare i mezzi pubblici in maniera

E sì che il verde è il colore della speranza. Ed in effetti sono diversi anni che si anela ad un futuro più ecologico. Ma che cosa si fa nella pratica?

La svolta green: c’è stata, c’è o ci sarà?

tendo per trovare un punto di incontro tra le esigenze della modernità e quelle dell’ambiente. La necessità di una svolta ecologica serpeggia un po’ in tutto il mondo e è una delle poche cose trasversali rispetto ai vari schieramenti politici. Molte parole, molte dichiarazioni di intenti ed anche qual-

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Le nostre Marche sono un gioiello, lo abbiamo detto tante volte e tante altre ancora lo ripeteremo. Abbiamo uno dei paesaggi più belli che si possano desiderare. Abbiamo mare e montagna e colline. Abbiamo dei meravigliosi tramonti a pelo d’acqua ed il sole che sorge la mattina facendo capolino tra le cime, adesso innevate, dei Sibillini. Abbiamo davvero un tesoro per le mani. Ma, stiamo facendo del nostro meglio per conservarlo? Sono in atto politiche di difesa del territorio? Ci sono campagne per favorire un rapporto migliore tra ambiente e cittadino? C’è una giusta educazione al rispetto della nostra Terra ed al senso civico? Il polso della situazione ancora una volta lo tasteremo assieme ai nostri Presidenti di Provincia, chiedendo loro qual è la situazione del territorio che governano, quali azioni sono attualmente in atto e quali sono previste per il futuro.

RUOTAMI


INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA PROVINCIA DI PESARO E URBINO, MATTEO RICCI “Lo abbiamo evidenziato nel nostro Piano strategico Provincia 2020: bisogna “resistere”, difendendo il nostro tessuto manifatturiero. Ma anche puntare su green economy e turismo. Settori in crescita, e nuovi tasselli su cui andrà edificata la nostra economia per ricavare nuovi posti di lavoro. Insomma, la scommessa del domani. Nonostante la crisi, non rinunciamo a progettare il futuro e sul piano economico e infrastrutturale la combinazione necessaria è quella di un maggior rispetto del suolo vergine abbinato a una riduzione delle urbanizzazioni. Per questo guardiamo al costruire nel costruito, alla qualità dell’abitare e all’efficienza energetica per accompagnare, ripensandolo, il nostro modello di sviluppo alla luce dei profondi mutamenti avvenuti nelle città. Così vogliamo caratterizzare la pianificazione territoriale nella direzione di un uso responsabile delle risorse, di una conservazione delle disponibilità e dello sviluppo di scelte qualificanti in una logica di responsabilità. Le scelte infrastrutturali guardano al passaggio dalla viabilità alla mobilità e alle cosiddette “infrastrutture del benessere”. Tra cui, nella nostra visione, rientrano le piste ciclabili: non più arredi urbani ma veri e propri tracciati da segnare urbanisticamente. Saranno la nostra “metropolitana”, per un territorio che vuole diventare sempre più la provincia della bici. L’esempio è la ciclabile tra Pesaro e Fano, divenuta attrazione turistica, citata nelle guide Touring Club. Sosteniamo un nuovo concetto green, dunque, per posizionare in termini competitivi anche il nostro brand territoriale”.

“Ormai, da oltre un decennio, Regioni, Province e Comuni hanno in molti campi perseguito, e spesso attuato, la cosiddetta “svolta verde”. Ma importante è stato il ruolo che le pubbliche amministrazioni, e in particolare le Province, hanno avuto nell’esercizio delle proprie specifiche funzioni. Qui, infatti, si è affermata una progettualità ambientale che ha avuto il merito di realizzare interventi concreti ed efficaci. Penso alla riqualificazione dell’edilizia scolastica che ha trasformato molti nostri istituti in veri e propri modelli innovativi nel campo del risparmio energetico; alla pianificazione della mobilità pubblica e alle tante buone pratiche che abbiamo sperimentato a partire dai noi stessi, come nel caso del carpooling. Se dovessi scegliere un simbolo di come la “svolta verde” ha caratterizzato positivamente il nostro territorio, indicherei i risultati ottenuti nella gestione del ciclo dei rifiuti, che ha consegnato al territorio un’impiantistica efficiente e all’avanguardia e che ha favorito la crescita di una cultura ambientale fondata su pratiche di sostenibilità come la raccolta differenziata, il riciclo, il risparmio energetico e l’oculata gestione dei beni comuni. È di questi giorni, tra l’altro, la costituzione dell’Assemblea Territoriale d’Ambito, organo unico che, superando la divisione in due bacini della Provincia, gestirà in maniera ancora più razionale le funzioni di indirizzo, programmazione e controllo delle attività. C’è molta preoccupazione per la politica di tagli ai trasferimenti statali che hanno permesso fino a ieri di progettare e realizzare questo tipo di politiche. Tagli che hanno già colpito il trasporto pubblico e che potrebbero presto andare a incidere in altri capitoli di bilancio. Su questo punto è necessaria una netta inversione di tendenza rispetto a ciò che è accaduto nell’ultimo quinquennio. Auspico che ci sia consapevolezza sul fatto che una politica ambientale guidata dall’alto, mirata a marginalizzare o a escludere il know how acquisito dalle amministrazioni del territorio, è destinata inesorabilmente a fallire”.

PESARO URBINO

INTEREVENTO DEL COMMISSARIO STRAORDINARIO DELLA PROVINCIA DI ANCONA PATRIZIA CASAGRANDE ESPOSTO

ANCONA

“La Provincia, nell’ambito delle sue competenze, sta facendo molto per favorire una maggiore coscienza ecologica e promuovere politiche e progettualità “green” coniugando rispetto per l’ambiente e nuove opportunità di sviluppo. Vorrei innanzitutto citare l’impegno dell’Ente per l’elettrificazione della tratta ferroviaria Ascoli Piceno - Porto d’Ascoli, attualmente servita da treni Diesel. L’intervento, del costo complessivo di 11 milioni e 200 mila euro, consentirà di introdurre entro l’estate prossima nuovi convogli a trazione elettrica permettendo di innestarsi direttamente sulla direttrice Adriatica. I nuovi treni saranno più veloci e confortevoli, più silenziosi e meno inquinanti. Si calcola infatti che saranno prodotte ben 962.770 tonnellate in meno di CO2 ogni anno. E’ un risultato di straordinaria importanza perseguito con grande determinazione dall’Amministrazione Provinciale che rappresenta il primo passo per la metropolita leggera di superficie, infrastruttura fortemente innovativa e “green”, capace di favorire l’integrazione della costa con l’entroterra. Importante anche l’ambito energetico. In tale prospettiva, la Provincia ha il compito di attuare interventi per la promozione delle fonti rinnovabili e del risparmio energetico che, in un difficile momento economico come quello attuale, potrebbero costituire anche una possibile risorsa per il rilancio del sistema produttivo del Piceno: basti pensare che nel comparto del fotovoltaico, nella nostra provincia, trovano occupazione almeno 4.800 addetti. Vorrei anche evidenziare il progetto “New Green Generation” a cui la Provincia partecipa con altri partner istituzionali destinato a ragazzi fra i 16 e 21 anni per diffondere buone prassi come la raccolta differenziata e l’utilizzo di materiale riciclato. I giovani, rappresentano una fascia molto “recettiva” per il cambiamento attraverso piccoli gesti quotidiani come evitare lo spreco dell’acqua e utilizzare elettrodomestici nella fascia serale.”

“La Provincia di Fermo sin dal suo insediamento si è attivata per la tutela ambientale, per la valorizzazione del paesaggio e tutti gli atti sono stati contraddistinti da questa filosofia. Queste le attività prevalenti svolte nel corso di 4 anni: - le indicazioni operative per gli uffici per l’autorizzazione degli impianti fotovoltaici; - gli atti di indirizzo per gli uffici provinciali e per i Comuni per il corretto inserimento degli impianti fotovoltaici sul territorio ai fini della tutela del paesaggio; - una deliberazione per richiedere alla Regione un intervento nella stesura delle linee guida nazionali per la regolamentazione degli impianti a biomasse e a biogas; - la difesa dell’acqua come bene pubblico primario anche con l’inserimento di uno specifico articolo nello Statuto provinciale; - la valorizzazione delle Comunità montane e del Parco nazionale dei Monti Sibillini; - l’impegno contro la realizzazione di termovalorizzatori, a vantaggio della raccolta differenziata spinta dei rifiuti con l’obiettivo della riduzione, del recupero e del riuso degli stessi, anche attraverso l’attivazione dei Centri per il Riuso in alcuni Comuni; - la campagna per l’eco-cittadinanza, con la Provincia impegnata a promuovere valori, atteggiamenti, comportamenti, scelte d’acquisto ed azioni per un nuovo eco-sviluppo del territorio fermano e del benessere dei cittadini; - l’attività di educazione ambientale e di comunicazione, con il cittadino protagonista nella tutela ambientale, nella tutela del territorio e nella valorizzazione del paesaggio”.

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INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA PROVINCIA DI ASCOLI PICENO PIERO CELANI

ASCOLI PICENO

INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA PROVINCIA DI FERMO FABRIZIO CESETTI

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Meno ipermercati, p Mirtilli cileni, fragole a dicembre, sapori e odori indefiniti a un prezzo insostenibile e intere produzioni locali al macero. Con la crisi la spesa cambia, diventa più responsabile, attenta al territorio ed economica he i prezzi, anche per i beni di prima necessità, siano aumentati ce ne siamo accorti tutti e non ce lo deve dire l’Istat che una famiglia media spende quasi cinquecento euro per la spesa mensile. Mentre ogni tg ci rassicura che la crisi è ormai alle porte, per necessità e previdenza abbiamo imparato a evitare gli sprechi, a destreggiarci tra percentuale di sconto e quantità di prodotto, a fare la spola tra diversi negozi per confrontare prezzi, a riciclare gli avanzi e a cucinare di più a scapito dei più pratici ma costosi cibi pronti. I dati della Coldiretti confermano che con la crisi è cambiata l’alimentazione e il modo di fare spesa; la tendenza è quella di tornare ad acquistare più prodotti locali, scegliere solo frutta e verdura di stagione, magari senza intermediazione. Dal campo alla tavola i prezzi aumentano infatti anche di cinque o sei volte, fondamentale perciò è ricercare prodotti che vengano da una filiera corta, dall’acquisto presso il produttore o nei mercati contadini. Non si tratta certo di una novità, ma di un ritorno a quella che era la norma nel passato, prima della proliferazione della GDO. Se negli altri paesi, Stati Uniti in testa, si tratta di una tendenza affermata già da anni, in Italia solo ultimamente si sta assistendo a un boom di acquisti diretti; ovunque si organizzano nuovi farmer’s market e GAS: le uniche forme di vendita organizzata nel settore alimentare che lo scorso anno non hanno subito un calo, anzi sono incrementate del 53%.

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SILVIA BRUNORI <<<

CHE COSA SONO I GAS? I gruppi di acquisto solidale sono gruppi auto organizzati di singoli consumatori e famiglie che acquistano all’ingrosso prodotti alimentari direttamente dagli agricoltori del territorio che poi ridistribuiscono tra loro. L’obiettivo principale è quello di sviluppare i propri consumi in una logica di sostenibilità ambientale e di compatibilità sociale contenendo però anche la spesa alimentare. Per conoscere i gruppi di acquisto presenti nel nostro territorio è possibile consultare il sito www.retegas.org.


, più farmer’s market! CHE COSA SONO I FARMER’S MARKET? I farmer’s market o mercati dei contadini sono mercati a cadenza periodica, uno o più giorni a settimana o al mese, in cui i produttori agricoli vendono direttamente ai consumatori i propri prodotti. Possono essere gestiti direttamente dai comuni o da organizzazioni professionali agricole e associazioni.

QUALI PRODOTTI SI TROVANO? Sempre freschissimi e locali, i prodotti più acquistati sono nell’ordine la verdura, la frutta, i formaggi, la carne fresca e i salumi, il vino, l’olio, il latte, il pane, le marmellate e il miele, la frutta secca e i legumi.

DOVE SI TROVANO? In Italia è un continuo proliferare di nuovi farmer’s market ora anche nei piccoli centri; per avere un elenco aggiornato, con orari e indirizzi, è utile consultare il sito www.mercatidelcontadino.it o ricercare i punti Campagna Amica su www.campagnamica.it. Eccone alcuni: · Agrimercato solidale di Pesaro tutti i giovedì in via Mirabelli; · Mercato di Campagna Amica di Fano tutti i mercoledì in piazza degli Avveduti; · Mercato di Campagna Amica di Senigallia ogni sabato in piazza Garibaldi; · Mercato di Campagna Amica di Ancona tutti i giorni al primo piano del Mercato delle Erbe in corso Mazzini; · Mercato di Campagna Amica di Jesi aperto tutti i giorni in via Trieste 26; · Mercato di Campagna Amica di Fermo tutti i giorni in via Donizetti 6.

QUALI SONO I VANTAGGI DELLA FILIERA CORTA? I risvolti positivi sono numerosi a partire dalla competitività dei prezzi di alcuni prodotti che non subiscono i rincari generati dal passaggio di mano fra un intermediario e l’altro, con un risparmio medio per il consumatore del 30%. Inoltre, la provenienza locale dei prodotti garantisce la freschezza, a differenza di quanto avviene nella grande distribuzione per la quale si rendono necessarie metodologie di conservazione che vanno a influenzare negativamente le qualità organolettiche e nutrizionali dei prodotti. La filiera corta consente al produttore di accrescere i ricavi e valorizzare il lavoro della propria azienda, sostiene l’economia rurale nel processo di terziarizzazione contribuendo a dar valore alla figura dell’imprenditore agricolo. Ma i vantaggi sono anche ambientali; infatti, consumare prodotti a km 0 consente di ridurre i consumi energetici - con un risparmio di emissione di anidride carbonica nell’ambiente di circa una tonnellata per famiglia - e gli imballaggi. Rifornirsi presso mercati legati al territorio significa anche riscoprire i prodotti che appartengono alla nostra tradizione, proposti al consumo secondo criteri di stagionalità, riscoprire la vita dei campi e del mondo rurale e infine rivivere il mercato come un luogo di socialità.

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Instagra... M arà il fascino un po’retrò del formato polaroid. Saranno la facilità di utilizzo e la grande varietà di filtri a disposizione per personalizzare e rendere“artistici”i propri scatti; sarà, forse, anche soltanto una moda. Fatto sta che Instagram, il social network di photo sharing sugli smartphone, è diventato un vero e proprio fenomeno di massa, con milioni di users nel mondo e una crescita vertiginosa, culminata nel 2012 con l’acquisizione da parte di Facebook per 1 miliardo di dollari. E le Marche? Come si comportano e come si presentano su Instagram? Bene. Anzi, benissimo. I tag, ovvero gli indici di argomento con cui rendere individuabili e ricercabili le foto che l’utente carica sull’applicazione,“parlano” Marche con crescente intensità. Connettendoci a Instagram, e facendo una semplice ricerca di parole che identifichino le Marche, scopriamo infatti dati significativi. Il tag #portonovo si aggira sulle 2.000 foto, quello #sibillini ne ha quasi 700. Le città? Tra i capoluoghi di provincia #ancona è la piu instagrammata con quasi 8.000 foto, seguita da #pesaro con circa 6.500 foto. Moltissime immagini anche di Senigallia, trainata dal tag di culto #jamboree (che, richiamando il fortunatissimo festival musicale estivo, vanta addirittura 11.000 foto). Anche piatti tradizionali come le olive ascolane, o gli anconetanissimi #moscioli, hanno il loro tag. Perchè tutto è o può essere rintracciabile e creabile, su Instagram. Ciascuno è assieme fotografo e, proprio attraverso i tag e nella misura in cui sono precisi e accattivanti nel descrivere la foto, promotore del suo contenuto. La Regione Marche, attraverso il proprio Social Team Media, organismo ufficiale nato la scorsa estate come parte della Fondazione Marche Cinema Multimedia e di cui è responsabile Sandro Giorgetti, ha intelligentemente captato il vento. Così è nato il concorso #sestosensomarche. Con risultati che vanno al di là di ogni più rosea aspettativa. “Nell’ambito di una strategia – spiega Giorgetti – volta a promuovere massicciamente la nostra regione attraverso il web, abbiamo pensato assieme alle community Instagramers Italia e

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popolare social network di foto, che è sempre più ncia un concorso per gli utenti, con premio una mostra alla Bit di Milano.

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Instagramers Marche a questo nuovo contest, che si rivolge agli appassionati di Instagram e ha consentito di portare 150 foto (selezionate appunto con questo tag) presso lo stand della Regione Marche al Bit di Milano di febbraio”. La scelta del nome del tag riprende lo slogan di riferimento che già era usato per promuovere le Marche.“In questo caso – precisa Giorgetti – il sesto senso cui abbiam pensato è quello emozionale, quello del vissuto di ciascuno, sia il marchigiano che l’ospite in vacanza”. Instagram consente dunque, secondo questa iniziativa, di far sì che l’utente divenga anche promotore delle Marche.“L’obiettivo è quello di creare le condizioni affinchè gli utenti siano protagonisti del nostro lavoro – prosegue Giorgetti – interagire con le persone, e rendere ognuno un testimonial del nostro territorio con la conseguente viralità di rete”. Una scelta che il popolo di Instagram ha apprezzato, perchè il numero di foto“taggate”#sestosensomarche già aveva superato di gran lunga le 2.000 in pochi giorni dal 2 gennaio, data di apertura del concorso, e aumentava quotidianamente. Instagram dunque è un“luogo”che raccoglie proseliti ogni giorno di più. Il gruppo #igersmarche, gestito da Nadia Stacchiotti e Ilaria Barbotti, colleziona quasi 20.500 foto. Ormai i challenge, le sfide, fioccano. Tutti a colpi di foto. Questione di un attimo, di un’idea, la voglia di esprimerla anche con ironia, e il gioco è fatto. Basta dare un’occhiata ad un album facilmente consultabile nella pagina facebook.com/instagramersmarche. Si chiama“Maya, please save the Marche”, una mostra di 15 foto mozzafiato che ritraggono luoghi simbolo delle Marche, dal Monte Conero allo Sferisterio di Macerata, vincitrici di una gara ed esposte a Fermo lo scorso 31 dicembre.


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Intermodadria I PARTNER DEL PROGETTO INTERMODADRIA

Al via “Intermodadria” per lo sviluppo di soluzioni per il trasporto intermodale in area Adriatica Regione Marche, capofila del progetto Intermodadria del programma IPA 2007-2013, ha voluto organizzare il 1° meeting per il kick-off del progetto presso l’Interporto delle Marche, riunendo tutti i partner italiani ed europei per un confronto sui temi dell’intermodalità, della logistica, dell’integrazione dei servizi tra i nodi infrastrutturali di una catena ampia, ma strategica come quella che fa capo ai porti delle due sponde dell’Adriatico.

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Il budget complessivo del progetto è di 2.508.000,00 euro (interamente finanziato dal programma) e la durata stimata del progetto è di 30 mesi “Gli obiettivi del progetto – ha detto Giorgio Occhipinti della P.F. Viabilità e Demanio Idrico del Servizio Infrastrutture, Trasporti ed Energia della Regione Marche – sono di aumentare la competitività del trasporto marittimo a corto raggio e la sua integrazione nella catena logistica, sostenere gli investimenti infrastrutturali per l’accessibilità dei porti da terra e promuovere azioni politiche e strumenti finanziari per favorire il trasferimento modale”. Lo scenario attorno al quale si muove il progetto è molto ampio. I porti del mare Adriatico infatti, hanno differenti livelli di accessibilità alle infrastrutture di trasporto nell’entroterra; la differenza principale riguarda in particolare i livelli di accessibilità alla rete ferroviaria e la disponibilità di efficienti servizi di trasporto ferroviario a supporto dei traffici portuali. Roberto Pesaresi, Presidente di Interporto Marche Spa, ha sottolineato che la realizzazione delle infrastrutture da sola non è sufficiente a determinare significativi incrementi di traffico. “Occorre lavorare – ha detto - sul modello gestionale, dando concretezza al concetto di Piattaforma Logistica Integrata, mirando all’efficienza complessiva del network e non del singolo nodo o

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attore della supply-chain. Oggi – ha aggiunto - le industrie devono necessariamente mantenere snelli i processi logistici per vincere la competizione sui mercati internazionali. Il progetto Intermodadria ha un ricco partenariato composto sia da istituzioni ed organizzazioni italiane che europee. Oltre alla Regione Marche, capofila del progetto, ed Interporto Marche, vi sono l’Autorità Portuale di Ancona, il Consorzio per la formazione logistica intermodale, l’Autorità portuale del Levante (Bari, Barletta, Monopoli), l’Agenzia delle Dogane (partner associato). I partner dell’altra sponda dell’Adriatico sono l’Autorità Portuale di Igoumenitsa (Grecia), la National Technical University of Athens (Grecia), l’Albanian Institute of Transport (Albania), Port of Bar Holding Company (Montenegro), Intermodal Transport Cluster (Croazia), Autorità Portuale di Ploce (Croazia).

AL CENTRO, IN PIEDI, ROBERTO PESARESI, PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO DI INTERPORTO MARCHE SPA; A DESTRA, GIORGIO OCCHIPINTI, DIRIGENTE P.F. VIABILITÀ E DEMANIO IDRICO DELLA REGIONE MARCHE.

PROJECT IS CO-FUNDED BY EUROPEAN UNION



_INTERNAZIONALIZZAZIONE_

Il programma di Marchet del 2013 a sostegno delle imprese

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Internazionalizzazione, promozione del settore agricoltura e formazione specialistica

INCONTRI BE TO BE PER LA PROMOZIONE DEL TERRITORIO

rima novità del 2013 per Marchet l’Azienda Speciale della Camera di Commercio di Ancona che sostiene e promuove le piccole e medie imprese locali nei mercati esteri, è l’ampliamento della mission con la promozione del settore agroalimentare. Il nuovo oggetto dell’attività di Marchet, peraltro in coerenza con una tendenza di tutto il sistema camerale a creare o mantenere le aziende speciali non più monotematiche, ma specializzate in vari ambiti di intervento, è stato ampliato ad una serie di attività ritenute strategiche dall’ente camerale. Seconda novità è che il programma promozionale estero si suddivide in due ambiti di intervento: un’internazionalizzazione di vicinato e una verso i grandi mercati, come la Cina dove si stanno costruendo relazioni stabili con imprese cinesi posizionate in aree geografiche di seconda fascia. La Cina è diventata sempre più interessante perché da paese di delocalizzazione si è trasformato in un mercato che acquista Made in Italy grazie alla crescita dei redditi e per una classe medio alta molto interessata al modo di vivere europeo. Come sottolinea Giorgio Cataldi, Presidente di Marchet, “i dati export di tutti i paesi dell’UE verso i Paesi emergenti si stanno riducendo. L’internazionalizzazione è una questione complessa che richiede sforzi ed idee straordinari affinché realmente il commercio con l’estero possa fare da traino anche per la ripresa dei consumi interni. Le attività promozionali punteranno alla valorizzazione del “Made in Marche” e sui valori ad esso connesso, affinché sia riconoscibile in tutto ciò che l’Italia crea in termini di prodotti, servizi e accoglienza: in particolare oltre che ricercare nuovi mercati di sbocco nel 2013 si presidieranno e difenderanno i mercati tradizionali”.

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Marchet contribuirà alla promozione delle imprese sui mercati internazionali attraverso numerose azioni che vanno dall’organizzazione di missioni commerciali all’accesso a iniziative e programmi comunitari, all’organizzazione di incoming di operatori stranieri, alla partecipazione collettiva di imprese a manifestazioni fieristiche, all’assistenza per l’attrazione di investimenti, alla promozione di accordi tecnico-produttivi e commerciali con l’estero fino alla realizzazione di attività formative destinate sia all’aggiornamento di figure che già lavorano all’interno delle imprese sia alla specializzazione di nuove figure che vanno a supportare le PMI. Cataldi ricorda che “per rilanciare l’economia locale è necessario anche accrescere il numero delle imprese locali esportatrici, alle quali offriamo l’assistenza di punti di riferimento esteri impegnati nella creazione di reti di vendita e nella realizzazione di incoming; dall’esperienza maturata, tali azioni risultano le più efficaci per comunicare la qualità delle produzioni ai partner stranieri. Con queste attività verranno individuati nuovi clienti per quelle produzioni di altissima qualità che sono difficilmente replicabili: puntiamo a realizzare una diversificazione dell’offerta che va dalla vendita del prodotto finito alla vendita dei servizi per la produzione”. Nella convinzione che sia di primaria importanza per le imprese, disporre di figure professionali qualificate ed aggiornate, Marchet nel 2013 continuerà a dare spazio alla formazione delle risorse umane, mediante corsi strutturati e seminari di alta specializzazione. Da un lato quindi si proseguirà nella formazione di nuove leve, reclutate tra i laureati di maggior talento, così da inserire all’interno delle imprese figure professionali in grado di accrescere il livello competitivo delle stesse, e dall’altro sarà posta sempre maggiore attenzione alla formazione e all’aggiornamento di chi già lavora in azienda. Nel 2013 Marchet si occuperà dell’organizzazione e promozione del concorso Selezione Internazionale vini da pesce, considerando la tradizione enologica della regione Marche un valore da salvaguardare attraverso anche un confronto con gli altri vini italiani e non solo. La premiazione avverrà a giugno alla Mole Vanvitelliana.

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mestiere di Eleonora Baldi

Quasi scomparso, diventato raro e per questo pieno di attrattiva, l’artigiano vive nelle opere che una a una realizza, mettendo un po’ di sé in ognuna di esse. Incontrarli e parlare con loro, aiuta a disegnare i contorni di un mondo diverso e di certo più bello. E allora, meglio sapere a chi rivolgersi per avere il massimo, con rispetto e delicatezza

hi disse che “il lavoro nobilita l’uomo”, secondo me si ispirò a un artigiano. Perché? Perché è grande, abissale, la differenza tra chi come il mastro lavora con passione e ama quello che fa e costruisce dal nulla qualcosa di meraviglioso e unico, e tutti gli altri. Non me ne vogliano imprenditori, fattori, baristi, economisti o qualsiasi altra categoria di lavoratori. Ogni impiego ha la sua bellezza e ogni professionista svolge il suo lavoro col massimo dell’impegno: questo è chiaro. Ma è altrettanto indubbio che la sensazione che si ha nell’ascoltare un artigiano parlare, nel sentirgli dire che quell’oggetto lo ha creato lui, partendo dal progetto, per iniziare dalla scelta del materiale fino alla cura di ogni piccolo dettaglio e particolare…ha un fascino ineguagliabile! E che grande peccato sarebbe se questa unicità, se questa passione, se questa parte importante della storia e della tradizione andasse persa. Per un lungo periodo, nessuno ha più pensato alla magia che c’è dietro un oggetto costruito interamente a mano, non in serie. O meglio, forse lo si è pensato nel momento dell’acquisto, da consuma-

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tori; ma non con la voglia di essere colui che realizzava quest’opera. Troppa fatica da fare? Inattitudine a sporcarsi le mani? Ricerca di un guadagno facile? Rincorsa del mito del business-man? Forse un po’ di tutto o forse altro ancora. Fatto sta che a oggi sempre di più è ritornato il bisogno di riscoprire i mestieri, di reinvestire nel loro insegnamento, di un orientamento dei giovani verso questi saperi antichi che ancora oggi sono in grado di creare cose che non hanno eguali, anche con tutta la tecnologia, l’informatica e l’internet del mondo.

Nella nostra ricerca di eccezionalità artigiane da presentarvi, abbiamo scoperto con piacere che Jesi è una vera e propria cassaforte di artigianalità. Qui hanno sede delle botteghe particolari, i cui prodotti vengono riconosciuti ed amati per qualità non solo nella cittadina o nelle Marche ma anche nel mondo. Perché essere artigiano non vuol dire per forza essere piccolo; vuol dire semplicemente usare le proprie mani, la propria fantasia, la propria creatività e metterla al servizio del proprio mestiere.

F O T O MIRCO PALPACELLI WHY MARCHE

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GIANLUCA ROMANU L’ORAFO L’idea di questo approfondimento sul mondo dell’artigianato jesino, nasce proprio da un’intuizione di Gianluca alla quale noi abbiamo volentieri “prestato” le pagine di Why Marche. “Io conosco tutti i miei “colleghi” artigiani. Nel corso degli anni ho avuto a che fare con loro per un motivo o per un altro. In queste persone ho notato la mia stessa passione. Sono tutti mestieri un po’ nascosti, come anche le botteghe nelle quali li esercitiamo. E mi è venuta questa idea: tracciare questo sentiero immaginario dei mestieri nascosti. Da artigiano orafo, io odio l’idea di oggetti fatti in serie replicati. Liutaio, pipaio, orologiaio e cartaio la pensano come me. Quindi perché non creare qualcosa che potesse darci voce, farci vedere nella nostra originalità. E così è nata l’Agenda 2013 dedicata appunto ai nostri mestieri. Questo può essere un primo inizio per poter fare una promozione diversa, per far render conto la gente che a casa loro ci sono questi personaggi”. Un approccio diverso, sicuramente consono alla particolarità dell’essere artigiano! “Questi sono tutti mestieri particolari. Non riesco a dirti che quello di orafo lo è di più rispetto al liutaio. I tempi di sicuro sono diversi, ognuno di noi sa i suoi. È proprio la particolarità che mi piace di più dell’essere orafo, il fare qualcosa di unico ogni volta. C’è da fare una distinzione tra il bello e il particolare: un oggetto può essere molto bello ma non particolare, ma anche molto particolare ma non bello. Quando riesci a unire in maniera armoniosa questi due aspetti, allora hai il 100%, l’unicità. Tutti siamo artisti. Poi c’è una componente di creatività, fantasia, professionalità e…fortuna! L’esecuzione del pezzo finale è data dalla tua esperienza, dalla tua bravura, dalla tua pignoleria e dalla fortuna”. Se ti chiedessi tra i tuoi gioielli quello che ti ha dato più soddisfazione realizzare? “Il 90% delle cose che faccio non mi piace, forse è un’ossessione. Ma né io né gli altri artigiani siamo abituati a metterci dei limiti. L’unico forse ce lo può imporre la crisi economica. Oppure l’avere di fronte una persona che fa un acquisto solo per possedere quell’oggetto. A me piace molto di più lavorare per clienti che sanno portare un mio oggetto, che lo sanno portare, che lo “vivono”. Sicuramente le grandi catene, le grandi firme non hanno questo approccio. Quando un cliente entra qui e mi fa una richiesta per un oggetto che io non ho, io posso disegnarglielo o fargli capire che cosa potrei realizzare. A quel punto subentra la mia passione che devo essere in grado di trasmettere: tanti oggetti li ho venduti senza averli ma coinvolgendo il cliente e facendolo innamorare dell’idea. Tutto quello che faccio è un connubio dei tanti mestieri che ho fatto nella vita: l’idraulico, il meccanico, il falegname, l’elettricista, il fabbro. Tutto l’insieme di questi lavori, poi me li ritrovo inconsciamente nell’essere orafo. Anche questo negozio: forse è proprio questa la mia “opera” migliore, perché per il 90% l’ho fatto io”.

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GIUSEPPE QUAGLIANO IL LIUTAIO “Il liutaio costruisce strumenti a corde e ad arco. Partendo dalla materia prima, ad esclusione delle corde, costruisce tutto, ogni particolare. Io lo faccio da 20 anni. Perché? Per curiosità! Da qualcosa che attira la tua attenzione, si comincia un percorso accademico e di apprendimento. Io ho sempre pensato “da grande farò l’artigiano”, volevo avere una bottega. E poi la materia: non avrei mai potuto fare il fabbro e neanche l’orafo, io amavo il legno. E la musica, pur non suonando strumenti ad arco. Avevo iniziato un altro percorso di vita e di studi, ma questo era quello che volevo fare ”. Un doppio percorso quindi, prima di studio e poi fattivo… “Ci sono delle scuole che insegnano il mestiere del liutaio e durano 3 o 5 anni a seconda di quella che si sceglie. Ma una volta compiuto il percorso accademico, ci si confronta con la bottega e con la propria capacità manuale. A scuola si simula, all’interno della bottega niente è standard, ci sono esigenze particolari ogni volta quando ci si relaziona coi musicisti. Non si può costruire solo un oggetto bello, deve essere anche funzionale: una macchina che deve essere perfetta, nella quale la bellezza del materiale deve riflettere la funzionalità, la sonorità”. Come nasce un violino? “Prima di tutto c’è la scelta del modello. Poi quella dei materiali: un percorso questo già sperimentato da quando sono stati costruiti i primi strumenti a corda, nel ‘400. Sono materiali facilmente reperibili, di solito si sceglie tra acero ed abete. Si parte dal progetto, si prende il pezzo di legno e…da lì si fa tutto! Poi si costruiscono le fasce, che si mettono in un’apposita forma, poi si fa il disegno e si comincia a scavare il legno, a fare la scultura della cassa. Da un pezzo pieno, piano piano si costruisce lo “scheletro” del violino. Poi va fatta la testa, anch’essa disegnata, sagomata e poi scolpita da un blocco di legno. Per fare un violino ci vogliono 250-300 ore; si deve avere il tempo di aspettare il legno che si abitui alla nuova forma. Non si può avere fretta. Rivolgersi a un artigiano è completamente diverso che andare a comprare un prodotto in serie. Un violino si potrebbe terminare in un mese e mezzo; ma questo è un tempo che non tiene conto di tutta una serie di ulteriori tempi, per cui alla fine in media ci vogliono all’incirca 8 mesi. E chi vuole un violino artigianale sa che deve avere il tempo di aspettare. Ognuno è diverso dall’altro, ognuno è a sé perché tutto viene fatto a mano”. Qual è stato il lavoro che ti ha dato più soddisfazione? “Tutti. Anche quelli che abbandoni lungo il percorso o quelli che tieni in stand by perché c’è qualcosa che non ti piace; e prima di decidere di sostituire un progetto, di modificarlo, ci pensi e tanto. Ovviamente ci sono quelli ai quali sei più affezionato, magari perché fatti in un momento particolare. Ogni volta mi metto in gioco. Pensandoci, un aneddoto particolare è legato ad una viola. Durante un concorso internazionale, è arrivata prima per il suono e settima per l’estetica. C’era un violista che voleva comprarla, ma io non volevo venderla. Così, gliela lasciai per un anno e mezzo, mentre io ne costruivo un’altra per lui: l’accordo era che se fossi riuscito a fargli apprezzare la nuova più di quella del concorso, avrebbe acquistato questa e mi avrebbe ridato quella che aveva tenuto. Sarà perché sapeva che lo avevo fatto specificamente per lui ma riconobbe che la qualità dello strumento che avevo costruito era ancora migliore dell’altra!”.

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TONINO JACONO IL PIPAIO “Il mio è un lavoro talmente particolare che è anche difficile dargli un nome. Vogliamo dire che sono un Mastro Pipaio? Forse sì, si può chiamare così. È una categoria che in Italia abbraccerà circa 100 professionisti. Su 60 milioni di italiani ce ne saranno 10 mila che fumano la pipa: è un lavoro così non comune che non c’è una definizione vera e propria per la nostra categoria. Ho trovato difficoltà anche quando mi sono iscritto all’albo artigiano. Ma Mastro Pipaio credo dia bene l’idea, quella dell’artigiano mezzo artista, burbero, estroso”. Quando hai iniziato quindi a fare il Mastro Pipaio e come è nata la passione? “È stato quasi un caso. Prima di diventare artigiano ero un impiegato. Il padre di mia moglie aveva una segheria e preparava anche abbozzi per far pipe, che poi mandava a ditte industriali per la produzione in serie. Però: avevamo la materia prima, perché non trasformarla noi in pipa? È nata così l’idea, che abbiamo portato avanti insieme a mio cognato, creando un’azienda nel 1981, in Calabria. Dopo due anni sono ritornato qui a Jesi e mi sono messo in proprio. Come si fa una pipa? Beh, per prima cosa bisogna avere una certa manualità, devi saper usare un trapano, una carteggiatrice, una pialla, una sega. Può sembrare facile…ma per fare una pipa dal pezzo di legno all’oggetto finito, ci vogliono più di 100 fasi di lavoro”. La pipa è un po’ un oggetto di nicchia. Ma, c’è mercato? “Quando ho iniziato avevo la fortuna di conoscere alcuni negozianti che vendevano pipe; io le facevo poi gliele portavo e loro sceglievano i modelli che avrei dovuto realizzare. Dall’83 all’87 ho venduto pipe in Italia, con questo meccanismo. Facevo le mie pipe nel laboratorio, poi prendevo la mia valigetta e andavo in giro a proporle in città grandi dove c’era un bel mercato: Milano, Napoli, Roma, Bologna. Poi ho avuto un contatto con un negoziante degli Stati Uniti: venne a Roma e voleva un oggetto unico da potersi riportare in patria. Ci siamo messi d’accordo e fino al 2000 ho lavorato per il mercato americano, tutto quello che producevo andava negli Stati Uniti. Risultati, successo, notorietà: un bel momento. Come per tutti gli oggetti, ma a maggior ragione per quelli di nicchia, una volta che la pipa viene conosciuta, apprezzata, notata per la sua qualità, allora la richiesta aumenta. E così ho iniziato a lavorare anche per l’Europa. Verso la fine del 2010 il mercato si è allargato ancora: Russia, Cina, Giappone…la “mia” pipa è diventata importante!”. Riusciresti a scegliere tra tutte le pipe, una alla quale sei particolarmente legato? “Per uno che lavora a mano ogni realizzazione è un pezzetto di vita sua, ci devi mettere dentro la tua arte, il tuo tempo. Qualsiasi cosa io faccio la apprezzo perché ci metto il mio estro, la mia fantasia. Forse la prima pipa che ancora ho. Ogni 10 anni realizzo una linea particolare di pipe per i collezionisti. Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della mia attività e stiamo preparando 30 pipe speciali da vendere in cofanetti, con certificati di garanzia, con dettagli particolari. Ho scelto una radica molto bella per realizzarle. Le presenteremo a marzo a Milano e poi saranno vendute in giro per il mondo”.

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UBALDO BENIGNI L’OROLOGIAIO “Il nostro è un lavoro particolare che forse non ha più quell’appeal che magari ci si aspetta. Noi artigiani siamo come i dinosauri: in via di estinzione. In questo particolare momento però, in cui la disoccupazione è un grosso problema, riprendere in mano un mestiere potrebbe rappresentare un’alternativa importante”. Quindi per un giovane tentare questa strada potrebbe essere un’opportunità? “Sì. C’è anche bisogno di un ricambio generazionale, della capacità di vedere le cose da ottiche diverse; apporto questo che i ragazzi con alle spalle una buona preparazione teorica potrebbero di certo garantire. Il problema però è proprio questo: non ci sono scuole. Finito il tempo del garzone di bottega, abbiamo perso le armi per poterci avvicinare a questi lavori. Dobbiamo recuperare il tempo perduto”. E a questo proposito cosa si potrebbe fare? “Come settore orologiaio stiamo cercando di mettere in piedi una scuola di orologeria. Potrebbe partire già da ottobre 2013, all’Istituto Tecnico in Via Raffaello Sanzio qui a Jesi. Questa idea nasce dall’interesse di un grande del settore, uno che ha fatto la storia dell’orologeria locale: Lino Ceccarelli, mio maestro tra l’altro. La scuola attiverebbe dei corsi tecnici e teorici diretti ai ragazzi ma anche percorsi di formazione ed aggiornamento per chi svolge già la professione. Anche per tramandare un po’ il testimone, cosa che ci farebbe davvero molto piacere”. Lasciamo stare per un attimo le nuove leve e torniamo a te… perché hai scelto di fare l’orologiaio? “Sono stato un po’ un predestinato, avendo parenti che facevano questo mestiere. Ai miei tempi c’era una bella divisione tra chi poteva permettersi di studiare e chi invece doveva mettersi subito a lavorare e veniva dirottato ai lavori artigianali. Per me è stata una fortuna, lo faccio ormai da 42 anni!”. Che cosa ti piace di più di questo mestiere? “Questo lavoro ti dà la possibilità di stare in mezzo alla gente, un grande arricchimento personale e spirituale. Ma la cosa più bella è far rivivere gli splendori dei vecchi meccanismi per prima cosa. Mettere le mani negli orologi del ‘700 e dell’800 è qualcosa di impagabile. La soddisfazione maggiore è quella di rimetterli apposto, di ridargli vita. Ho avuto modo anche di lavorare su orologi di famiglie importanti jesine…un po’ come tenere in mano un pezzo di storia. Negli ultimi 150-200 anni l’orologio si è innovato tantissimo. Oggigiorno ci sono questi “odiati” orologi a batteria: perfetti segnatempo, ma acerrimi nemici di chi ancora mette poesia nel proprio lavoro”.

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C P MASSIMO PADOAN IL CARTAIO LEGATORE “Non faccio mai due cose uguali. L’unicità per me è molto più facile che realizzare qualcosa in serie. Fare cento copie uguali di un libro realizzato a mano significherebbe svalorizzarlo, perderebbe di significato. Tutti i pezzi che realizzo sono esclusivi e unici”. Quella del legatore è una professione davvero particolare. Ce la racconti? “Nel campo delle legatoria ci dovrebbero essere due mestieri: il legatore, chi cuce il libro, e chi stampa per fare le copertine, lo stampatore. Pochissimi associano tutti e due i mestieri. Io faccio entrambe le cose: mi stampo la carta e faccio le legature. Stampo sia il cartocino che poi verrà fatto col metodo Quilling, carta stampata a mano e poi arrotolata, che altre tipologie di carta realizzate con una ricetta del ‘600 utilizzate per stampare per i legatori di Venezia. Tutto quello che produco è completamente naturale: pensa che la gelatina utilizzata per produrre la carta potrebbe essere addirittura commestibile: amido di riso, sapone, glicerina”.

Da quanto tempo fai il legatore? “Il mio primo vero amore è stata la grafica. Poi l’ho abbandonata perché di grafici ce n’erano troppi e mi sono concentrato sulla legatoria, a partire dal 1988. Essere legatore significa creare un libro. Partendo dalla carta, assembla i vari fascicoli, i vari quinterni e poi crea la copertina che è la parte più importante. Ai giorni nostri, il legatore potrebbe anche essere chiamato cover design: colui che studia e crea la copertina. Utilizzando vari tipi di cartoncino di varie grammature e utilizzando tecniche diverse – papier la colle o tecnica marmorizzata – si ottiene il risultato che si vuole”. Possiamo dire che fare il legatore significa un po’ costruire un ponte nel presente tra passato e futuro? “Sì, è giusto. Ripeto sempre che la legatoria è un’arte in disuso ma nel campo dell’editoria la professionalità va sempre più a scemare, a perdere di qualità. E’ tutto fatto a

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macchina, è tutto meno controllato dalla mano e il legatore rischia di perdere la funzione. Il mestiere del legatore è molto più vicino ad un architetto, devi essere perfetto: se non lo sei, abbandona il lavoro. La legatoria è perfezione. Più perfetto sei più riesci a realizzare quello che parte dalla mente. Adesso per esempio sto seguendo un gruppo di ragazzi fotografi, grafici, etc… che vogliono imparare le tecniche delle legatoria e sto insegnando loro cuciture che studiamo assieme. Ho abbandonato la legatoria tradizionale e cerco di utilizzare materiali di recupero. Mantenere la struttura tradizionale inserendo variazioni in tema: ecco il ponte di cui parlavi nella domanda”. C’è una buona risposta da parte del “consumatore”? “Francamente fino a 7-8 anni fa, quando lavoravo a Venezia, non avevo alcun problema, potevo stare tranquillo portando avanti la mia passione. Ora come ora, la richiesta è minima. Ma mi arrivano forti interessi dalla Germania, dagli Stati Uniti. La contrazione è un problema italiano. Tutti quelli che passano da qua, stranieri, diventano clienti e quindi mi chiedo: perché l’italiano no? Ed è un peccato anche per i ragazzi. Io tengo dei corsi al SAS, il Museo della Stampa di Jesi. Inizio i miei corsi dicendo: tutto quello che riuscite a fare qua potreste farlo in cucina a casa vostra. Taglierino, un ago da cucito, filo, cartone, pennello. Se ci fosse maggiore sensibilità nei confronti della legatoria sarebbe una grande opportunità”. Ci dicevi che ti piace realizzare delle cose uniche. Ci fai qualche esempio? “Sono riuscito a inventarmi la tecnica di stampa su pelle, su capretto: con la stampante riesco a trasferire qualsiasi stampa su capretto sbiancato. Oppure la cucitura a dorso nudo che ho inventato io: il libro è senza dorso ed è piacevolissimo da sfogliare perché rimane aperto, non c’è nessuna trazione del dorso. Ovviamente deve essere perfetto nella cucitura che è a vista. Poi, il libro baguette: un libro informale per i ragazzi, che puoi infilare in tasca, avvolgere, chiudere, arrotolare e via!”.

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1a Futuro artigiano Gabriele Alberti, Amministratore Delegato dell’Ente organizzatore della manifestazione Artigiano in Fiera, ci spiega perché il futuro è nelle mani degli artigiani… …se sapranno cogliere le nuove sfide che il mercato lancia! Una conditio sine qua non, questa. Alberti respira il mondo dell’artigianato e sa perfettamente il grande potenziale che vi è racchiuso. Diciotto anni di Artigiano in Fiera sono una bella palestra per scoprire questo universo, fatto di eccezionalità e di qualità, ma anche di problematiche che devono essere affrontate e risolte. Un invito ai giovani, a riprendere in mano il mestiere perché della loro capacità di reinventare c’è bisogno. Una piacevole finestra aperta non solo sulla fiera milanese ma anche e soprattutto su questo vivace settore, trainante anche nelle nostre Marche. Alberti infatti lo incontriamo a Senigallia, nel corso di una conferenza stampa congiunta con Expo Marche.

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RAFFAELLA SCORTICHINI

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18 anni

Artigiano in Fiera è ormai maggiorenne. Ci racconta il percorso fatto fin’ora? “Raccontare 18 anni è difficile. Siamo partiti con la volontà di mettere al centro dell’opinione pubblica e all’attenzione di un mercato significativo l’impresa artigiana, il produttore di qualità. Abbiamo creato un evento per renderli protagonisti. Volevamo gettare le basi affinché un’impresa artigianale potesse vendere il proprio prodotto ad un mercato particolarmente ricco ed interessato, come è quello del nord ovest dell’Italia. Poi, mettere in contatto gli espositori tra di loro, creando una specie di palestra: per le piccole imprese artigiane è difficile verificare il proprio prodotto con costose indagini di mercato; in un ambiente come questo possono farlo, confrontandosi con chi fa un prodotto analogo, magari in altre parti d’Europa o del mondo. Si è sempre alla ricerca di innovazione di prodotto e quindi vedere ciò che i colleghi fanno è importantissimo. Il terzo aspetto che abbiamo voluto privilegiare è quello dell’ incontro con gli operatori del settore, soggetti che possano mettere in condizione di allargare la vendita a chiunque visiti la fiera. Queste caratteristiche hanno fatto la differenza e hanno sancito il successo della fiera. 9 giorni, ingresso gratuito, nel periodo prenatalizio: un ottimo mix!”. Novità per il futuro? “Stiamo valutando di fare un altro passo importante, ragionando di come le nuove tecnologie ed in particolare l’e-commerce possano dare un sostegno ai nostri espositori. La forza di un grande evento fieristico come questo è l’essere localizzato nello spazio e nel tempo; ma questo è anche il suo punto di debolezza: come possiamo raggiungere il mercato che è venuto in fiera, durante tutto l’anno? Quelli che volevano venire e non hanno potuto farlo? Realizzare una piattaforma e-commerce potrebbe essere una risposta adeguata. Internazionalizzare per una micro impresa come quella artigiana è difficile. Bisogna trovare il modo migliore per mettere l’artigiano in condizione di farlo, dotandolo di uno strumento potente di vendita all’estero. E questo vale anche e di più per le aziende giovani, che capiscono l’importanza degli strumenti digitali. L’orizzonte di questa partita è potenzialmente mondiale, una sfida che vogliamo cogliere a pieno”. Parliamo allora dei giovani. L’artigianato può essere un’opportunità per loro? “Questo è un tema decisivo. E’ venuto meno il mito del manager a tutti i costi. Questa crisi è un grande cambiamento, irreversibile. Pone di nuovo l’accento sulla valorizzazione del territorio e sul prodotto del territorio. Ed il giovane è il soggetto naturale della ripresa della tradizione in questo senso. Cosa vuol dire innovare per un produttore artigiano? Il giovane è il soggetto primario che riesce a prendere in mano una tradizione e rinnovarla facendola diventare un’altra cosa. Bisogna che vi sia la voglia dei giovani di rimboccarsi le maniche e di entrare in questa nuova fase e vedere che succede. Ovviamente occorre poi la disponibilità dei maestri artigiani ad insegnare. Noi vorremo avere sempre più soggetti così all’interno della fiera, capaci di fare innovazione, di usare nuovi strumenti, moderni. Abbiamo predisposto un’area, una specie di grande incubatore che ci permette di vedere che cosa imprese giovani o giovani imprese sono in grado di fare. Ci sono delle cose

estremamente interessanti e significative”. E le Marche, che ruolo giocano all’interno dei padiglioni fieristici? “Le Marche sono una presenza significativa e ci sono secondo una delle dinamiche più complete, seguendo tutte le varie sfumature: presenza artigianale ed alimentare, ristorazione, turismo. 18 anni fa le Marche erano presenti con uno stand di stand di 16 metri quadri; adesso hanno un’area di circa 1000 metri quadri. Quest’anno le aziende marchigiane sono circa 50 dislocate su tutto il territorio regionale. Molto forte è il manifatturiero del maceratese e del fermano, come anche il distretto della ceramica e della terracotta del pesarese. Per il distretto di Ancona una presenza importante è quella dell’agroalimentare sostenuto anche dal punto degustazione e ristoro, fulcro dell’area e traino dello stand marchigiano. Sempre grazie ad Expo Marche poi, in fiera ci sono cuochi, camerieri ed hostess dell’istituto alberghiero di Senigallia e di Porto Sant’Elpidio e c’è l’idea in futuro di replicare l’esperienza con gli Istituti professionali, d’arte, di design. Insomma, una presenza molto vivace. Quello che auspico, è che si riesca a lavorare sempre di più insieme affinché si riesca a creare uno stand non più istituzionale ma esperienziale: quando si entra nell’area delle Marche, si deve assaporare il territorio marchigiano; quando si acquista un prodotto, si deve poter portare con se anche il vissuto di un’esperienza territoriale. Questo all’estero riescono a farlo in maniera impressionante e noi dovremmo imparare lavorando appunto insieme: organizzatori, Enti, Istituzioni e anche imprese artigiane attente e lungimiranti che abbiamo voglia di cambiare, di essere attive e propositive.”

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Offida

Uno dei Borghi più belli d’Italia. A pieno titolo aggiungiamo noi. Offida è davvero una gemma incastonata nell’interno del Piceno. Prima di arrivare all’incontro con il primo cittadino, un giro veloce della cittadina ci mostra già la sua anima medievale. A farci da guida alla scoperta dei tanti tesori, il sindaco Valerio Lucciarini De Vincenzi che ci accoglie nello splendido Palazzo Comunale.

Ci racconta un po’ della storia di Offida?

Benvenuti

“L’origine di Offida si perde nella notte dei tempi. Non è possibile indicare una data precisa per la sua fondazione, anche se possiamo datarla nel momento storico medievale. Al tempo dei Guelfi e dei Ghibellini era sotto il dominio della parte Fermana, l’ultimo baluardo di questa terra in contrasto con la fazione Ascolana. Oggi di queste origini riportiamo ben poco dal punto di vista sentimentale perché ci sentiamo in forte vicinanza con il Piceno e in particolar modo con l’ascolano. Offida ha trovato la propria capacità rappresentativa in primis nell’aspetto religioso: tutt’ora è sede del convento delle Monache Benedettine di clausura, nel chiostro di San Marco nel centro storico, e dei Frati Francescani presso il Chiostro di San Francesco. La Chiesa di Santa Maria della Rocca poi testimonia a pieno la vocazione religiosa di Offida, che è stata importante anche per il proseguo e la prospettiva rinascimentale della nostra città, che venne appunto insignita di tale titolo nel 1831 grazie a Papa Gregorio XIV. Attorno alla metà del ‘700 poi possiamo datare la nascita di una grande tradizione offidana: quella carnascialesca. Infatti dove oggi è situata la Sala Consiliare nacque il primo teatro, così ci dicono alcuni documenti storici ritrovati dopo il 1770 che ci raccontano la volontà del comune e poi dei privati di costruire un teatro. Già dati tempi antichissimi poi a caratterizzarci fu l’arte del Merletto a Tombolo. Le merlettaie usavano praticare questa vera e propria arte, che si è tramandata nel tempo e fino ad oggi permettendo di creare prodotti di artigianato artistico che negli ultimi anni ci hanno consentito di rappresentare l’Italia in molte fiere internazionali in tutto il mondo: Finlandia, Portogallo, le Americhe. A Offida la storia si intreccia con l’arte, con il folklore, con l’artigianato. Tutto questo fa parte da sempre della nostra tradizione”.

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ELEONORA BALDI <<<

Se dovesse invogliare un turista a passare da Offida, quali carte si giocherebbe?

“Senza dubbio, il Carnevale! Un periodo straordinario che parte dal 17 gennaio, data della festa di Sant’Antonio Abate che di fatto apre le “danze” delle congreghe storiche: dei gruppi musicali mascherati che vivacizzano attraverso le loro sinfonie il periodo carnascialesco. E’ un turismo destagionalizzato, inverale e sicuramente il più alto punto di eccellenza che possiamo proporre a chi vuole visitare Offida. Protagoniste del Carnevale sono non sole le strade ma anche il Teatro Serpente Aureo, realizzato nel Cortile di Tramontana. Meravigliosa poi è la nostra piazza del Popolo col palazzo comunale; una straordinaria opera che ci caratterizza. Anima di Offida è il suo centro storico, molto abitato e molto vivo: il 98% è abitato e qui ci sono i maggiori servizi. Non posso non citare poi il Merletto a Tombolo e la settimana che da quattro anni gli dedichiamo: un appuntamento immancabile che noi promuoviamo nella prima settimana di luglio, con una vera e propria mostra mercato dei merletti di tutta Italia e una partecipazione di carattere internazionale. Il merletto è la memoria storica di Offida, che tendiamo a tramandare attraverso il riconoscimento del marchio del Tombolo di Offida ed un museo inaugurato nel 1997 che – insieme al Museo Archeologico del nostro concittadino Guglielmo Allevi e al Museo delle Tradizioni Popolari - oggi la tradizione offidana. E poi Santa Maria della Rocca straordinaria chiesa che fornisce e stimola delle atmofere molto particolari. Spostandoci sul lato enogastronomico, non posso che citare l’Enoteca Regionale, motivo di promozione e valorizzazione turistica e territoriale e segno della grossa capacità produttiva del vitivinicolo che abbiamo nel nostro territorio. A questo vanno poi aggiunte le tantissime iniziative che soprattutto nel corso dell’estate prendono corpo ad Offida. Una tra tutte è Ciborghi d’Italia: ci siamo inventati questo Festival delle cucine tradizionali dei Borghi più belli d’Italia che ha visto la consacrazione da parte dell’Anci che l’ha accreditata come iniziativa nazionale di punta del Club”.


uti ad Offida artigianato, divertimento e tipicità

Offida è anche riconosciuta come patria dell’enogastronomia. Che cosa ci consiglia di assaggiare? “Partiamo da un primo piatto: i Taccu’. Una pasta fatta di farina e acqua molto buona nella sua semplicità. Poi c’è il pollo alla Ngip Ngiap, un secondo piatto molto ricco che ha tra i suoi ingredienti principali lardo ed olio d’oliva. Non potete non concedervi anche una fetta di chichiripieno, una pizza ripiena - alla quale dedichiamo una delle più antiche sagre italiane arrivata alla 60esima edizione - con tonno, alici e capperi. E poi c’è il Funghetto dolce offidano, povero nella sua fattezza – gli ingredienti di base sono acqua, zucchero e anice – ma molto buono. E poi…arriviamo al vino. Offida porta il nome di una DOCG, un vino pregiatissimo che sta andando per la maggiore a livello mondiale. I vitigni sono la Passerina, il Pecorino e l’Offida Rosso; vini che insieme al Falerio e al Rosso Piceno arricchiscono molto questo paniere di tipicità già molto importante”.

Guarda il video! www.youtube.com/whymarche


a Fiera è uno strumento importante da sempre. Perché grazie a quei giorni di lavori febbrili, di eventi uno dietro l’altro, di incontri e scambi di idee, si ha l’immagine di quello che accadrà, si tratteggia il futuro che sta per compiersi, si intravedono i sentieri da percorrere. La Borsa Internazionale del Turismo di Milano diventa quindi come una bussola, che orienta il cammino degli operatori, dei turisti, delle Istituzioni. Ricca anche quest’anno di spunti e di colori, è stata ottimamente interpretata dalla Regione Marche che nei quattro giorni di Fiera ha saputo coinvolgere il pubblico, dando informazioni ed incuriosendo. Dimostrando soprattutto di credere in un futuro da leader del turismo nazionale ed internazionale, finalmente conscia delle tantissime meraviglie che il territorio regala e pronta a giocarsi le proprie carte per far innamorare stranieri, italiani e anche, sempre di più, gli stessi marchigiani. Quattro sono le direttive lungo le quali la Regione intende muoversi, organizzando e patrocinando eventi e attuando un professionale spiegamento di forze. Il web in primo luogo, con la nascita del Social Media Team Marche; lo sport con la seconda edizione del Marche Endurance Life Style, che si conferma come evento di punta dell’estate marchigiana e come forte attrattore di interesse e capitali dagli Emirati Arabi, e con l’ORC World Championship 2013, il Campionato del mondo di Vela d’Altura che porterà nell’interland anconetano più di 2mila tra sportivi e visitatori, ed il Giro d’Italia; la cultura, con la mostra“Da Rubens a Maratta”, curata da Vittorio Sgarbi, che renderà Osimo un importante incubatore culturale da giugno e dicembre. E poi, l’internazionalizzazione, parte integrante di ognuno di questi progetti: perché essere“belli e buoni” perde di importanza se nessuno lo sa! Farsi conoscere ed apprezzare, creare i presupposti per un’esperienza unica, mostrare orgogliosamente ciò che si sa fare e ciò che si è, è sempre più fondamentale, non solo nella logica di promuovere turismo e territorio, ma anche in quella di solleticare l’interesse degli investitori stranieri che trovano nelle Marche un patrimonio da valorizzare.

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LA CULTURA Dici Marche e pensi alla cultura, pensi all’arte, pensi ad una tradizione che ha pochi pari. Storie e figure indimenticabili si intrecciano avendo come filo conduttore il nostro territorio, foriero di personaggi da raccontare e di testimonianze uniche da offrire. Tra le tante attrattive culturali che si potrebbero scegliere come biglietto da visita per il 2013 della nostra regione, la più importante è senza dubbio la mostra “Da Rubens a Maratta”, alla quale la BIT ha offerto il palcoscenico adatto per farsi conoscere. Vittorio Sgarbi, Stefano Papetti e Liana Lippi – i curatori – ed Achille Ginnetti - Assessore alla cultura del Comune di Osimo – hanno incantato il pubblico della BIT spiegando come questo grande evento culturale voglia essere un vero e proprio appuntamento con l’arte e con la storia, desideroso di far riemergere dall’ombra opere dimenticate ed inedite che testimonino la grande vivacità pittorica del territorio marchigiano. Nelle sedi espositive del Museo Civico e di Palazzo Campana, nel centro storico osimano, saranno riunite più di 100 opere provenienti da tutto il territorio regionale, da collezionisti privati e da musei nazionali. Dal 29 giugno al 15 dicembre, storia ed arte si incontrano ad Osimo.


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Web, sport, cultura e internazionalizzazione: questi i 4 capisaldi del Brand Marche

LO SPORT Fiore all’occhiello dell’estate marchigiana e anche simbolo di una politica fortemente voluta dai vertici della Regione Marche, il Presidente Spacca su tutti, che punta sulla creazione di contenitori di eccellenza che attirino l’attenzione di opinion leader stranieri, la seconda edizione del Marche Endurance Life Style si presenta ancora più ricca ed attrattiva della precedente. Promozione del territorio, turismo, sport, business ed incontri internazionali“legati”dal cavallo: sono questi gli elementi vincenti dell’evento in programma dal 13 al 16 giugno nella Riviera del Conero che terrà accese le luci della ribalta sulle sinergie Italia-Emirati Arabi Uniti e sulle Marche. L’anno scorso il Marche Endurance Life Style ha generato 5 milioni di euro di giro d’affari e richiamato 100.000 spettatori…e quest’anno ci si aspettano numeri ancora migliori! Importanti eventi che puntelleranno l’estate regionale e che saranno anch’essi in grado di puntare i riflettori sulle Marche saranno il Campionato Mondiale di Vela d’Altura, che avrà una rilevanza internazionale e dunque offrirà ancora una volta alla nostra regione un palcoscenico mondiale di attenzione e la possibilità di strizzare l’occhio ad interessi esteri, ed il Giro d’Italia, appuntamento ormai tradizionale. I tre eventi, presentati all’interno dello Stand dello Regione con un folto pubblico ad assistere incuriosito, promettono di assicurare all’estate marchigiana un’aria frizzante e stimolante.

IL SOCIAL MEDIA TEAM MARCHE Nato nell’agosto del 2012, ha subito puntato a realizzare un’integrazione complessiva delle informazioni, con lo scopo di viralizzare i contenuti, creando un coinvolgimento degli utenti e puntando su una comunicazione chiara, informale ma allo stesso tempo autorevole. Puntare sui social network è una scelta chiara ed inequivocabile; testimonianza ne è il fatto che la Regione Marche è l’unica ad aver attivato addirittura dieci profili dedicati al turismo: facebook (Marche Tourism), twitter (@MarcheTourism), pinterest (Marche Tourism), flickr (Turismo.Marche), youtube (Marchetourism), instagram (Marchetourism), google+ (Marche Tourism), foursquare (Marche Tourism), panoramio, issuu (Turismo Marche). A questa forte presenza sui social network c’è poi da aggiungere la rinnovata veste del sito www.turismo.marche.it, sempre più ricco di informazioni ed esperienze. Durante i quattro giorni della BIT diverse sono state le iniziative portate avanti dal punto di vista social. Prima tra tutte, la mostra #sestosensomarche che ha visto esposti i 150 scatti selezionati tra gli oltre 4000 arrivati dal concorso fotografico al quale hanno partecipato gli appassionati di Instagram. E poi l’iniziativa I love #destinazionemarche dove le storie più romantiche, le testimonianze d’amore per le Marche o gli amori nati, vissuti in questa terra sono i veri protagonisti: per tutta la durata della fiera sono state proiettate presso lo stand della Regione le storie più emozionanti che sono state inviate e condivise tramite i tanti canali social.

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MICHELA MARIA MARCONI (SFERISTERIO)

ricche famiglie maceratesi che si riunirono in una sorta di condominio – da cui l’appellativo di“teatro dei nobili condomini”– e fu portata a compimento dall’architetto Morelli che, su progetto del Bibiena, riadattò i locali di quello che prima era il palazzo comunale: ecco il perché dell’adiacente Torre dell’Orologio. Lasciata Macerata possiamo dirigerci verso il mare per scoprire il Teatro Persiani di Recanati, fortemente voluto da Monaldo Leopardi padre di Giacomo, che oggi ospita nel suo ridotto il museo dedicato a Beniamino Gigli, tenore recanatese noto in tutto il mondo. A pochi chilometri di distanza raccomandiamo di visitare La Rondinella di Montefano, teatro incantevole come il suo nome. Su richiesta i gentili volontari del luogo vi guideranno all’interno illustrandovi le sue particolarità, come le preziose balaustre dei palchi in ghisa e le inaspettate similitudini col teatro La Fenice di Venezia. Inoltre, in una sala attigua al teatro, fino al 1° aprile potrete visitare una bella mostra di Arturo Ghergo, il celebre fotografo delle dive degli anni‘60. G.TRIVELLINI PER IL LIBRO DI G. CAMERANESI (TEATRO COMUNALE DI T R E I A )

RENATO GATTA (TEATRO LAURO ROSSI)

er il nostro insolito itinerario turistico partiamo dalla città di Macerata. Un“Wow!”di meraviglia sfugge spesso ai visitatori che per la prima volta entrano nello Sferisterio, senza dubbio il monumento più caratteristico della città di Macerata. La sua sobria struttura neoclassica di arena all’aperto, creata con l’originaria funzione di stadio ma con un’acustica eccellente, ospita ogni estate una rinomata stagione d’opera lirica, balletti e concerti, nonché le finali di Musicultura. Il Lauro Rossi, intitolato a un musicista maceratese, si affaccia sulla piazza principale ed è un teatro all’italiana – a forma di ferro di cavallo con palchi – che ospita oltre quattrocento spettatori e in città viene chiamato affettuosamente“la bomboniera”. La sua costruzione, come è accaduto per molti altri teatri marchigiani, fu realizzata grazie alle donazioni di alcune

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MICHELA MARIA MARCONI <<<


e h C spettacolo! Alla scoperta della provincia di Macerata attraverso alcuni dei suoi teatri storici

ARCHIVIO FOTOGRAFICO COMUNE DI SAN GINESIO (TEATRO LEOPARDI)

Non tutti sanno che la regione Marche ha un record assoluto in Europa, quello dell’alta densità dei teatri distribuiti nel suo territorio. E che molti di essi sono teatri storici costruiti tra il ‘700 e l’800 Se invece preferite inoltrarvi nell’entroterra si possono seguire due direttrici di pari fascino. La prima passa per il bel Teatro Comunale di Treia, che conserva originali il sipario ottocentesco che ritrae un antico assedio alla città, l’imponente lampadario con l’argano per movimentarlo e vari meccanismi scenotecnici tra i quali una“macchina del tuono”per riprodurre il suono dei temporali. L’architetto Aleandri, autore del sopracitato Sferisterio, regalò alla sua città natale, San Severino Marche, il grazioso e imperdibile Teatro Feronia che prende il nome dalla dea alla quale pare fosse dedicato l’antico tempio della città romana di Septempeda che sorgeva in quell’area. Proseguendo verso la montagna, non si può fare a meno di visitare l’elegante Teatro Piermarini di Matelica progettato dall’autore de La Scala di Milano, nel quale, durante i restauri, sono stati rinvenuti alcuni resti piceni e romani. Dulcis in fundo lo sfarzoso Teatro Marchetti a Camerino, opera dell’importante architetto teatrale Ghinelli, che conserva sotto al palcoscenico i resti, visibili, di un criptoportico romano.

MICHELA MARIA MARCONI (TEATRO RONDINELLA)

Sempre nell’entroterra, ma in direzione sud, si raggiunge quella che viene giustamente considerata un’autentica“chicca”: il piccolo Teatro Flora di Penna San Giovanni, novantanove posti in una miniatura settecentesca di forma rettangolare con sala in legno e decorazioni originali a trompe-l’oeil in stile tardobarocco, mai modificata: un unicum nelle Marche. Per completare l’excursus consigliamo caldamente la visita del signorile Teatro di San Ginesio, dedicato a Leopardi, che ancora conserva il sipario storico su cui è ritratta la piazza della città così come appariva a metà dell’Ottocento e una tappa al piccolo Teatro della Vittoria a Sarnano, col suo elegante sipario in stile neoclassico.

RINGRAZIAMENTI: DOTT. RIMINI - TEATRO DI MONTEFANO; DOTT. A. MOZZONI - COMUNE DI TREIA; ASS.RE S. TARDELLA - COMUNE DI SAN GINESIO; DOTT.SSA A. PISANI - COMUNE DI MACERATA.

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Monti Sibillini tra Magia, Leggende e Mistero «là, sovra i gioghi dell’Appennin selvaggio, fra l’erte rupi una caverna appar, vegliano le sirene quel faraggio, fremono i canti e fanno delirar. » (Giulio Aristide Sartorio, Sibilla, poema drammatico 1922)

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elle Marche la tradizione orale per secoli è stata arricchita di mistero e personaggi leggendari che i vecchi si divertivano a raccontare accanto al fuoco nelle fredde notti in montagna circondati dai loro nipoti. Le gesta del Guerin Meschino, le storie di fate, di streghe, della Sibilla Cumana e della Sibilla Appennina, del console romano Ponzio Pilato, la leggenda delle“Sette Sorelle”e le chiese sparse sui monti Sibillini, la cui topografia riflette la Costellazione della Vergine. Si racconta che Ponzio Pilato condan-

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nato a morte da Tiberio venne ucciso e il suo corpo, chiuso in un sacco, venne affidato ad un carro di bufali lasciati liberi di peregrinare senza meta e sarebbe precipitato nel lago che prende il suo nome, dalla cresta della Cima del Redentore. Si narra che le Fate della Regina Sibilla ballassero il Saltarello all’interno del loro antro, in cima al Monte Sibilla, calzando zoccoli di legno di fico ed impugnando legnetti; gli zoccoli dei loro piedi battevano rumorosamente e ritmicamente la terra, i legni delle loro mani fendevano l’aria sibilando. Alcune notti scendevano a valle e con le loro movenze ammaliavano i pastori e con loro ballavano, per poi


Per chi oggi vuole scoprire la terra magica e suggestiva dei monti Sibillini e del lago di Pilato, tra arte e sacralità, storia e natura, leggende raccontate durante lunghe passeggiate tra i monti, sorseggiando vino e degustando formaggi e altri prodotti tipici, Easyweek.it offre diverse opportunità di pacchetti ed itinerari tematici a partire da 2 giorni/1 notte in tipiche strutture montane. Perché soggiornare almeno 1 notte in questi luoghi vi farà tornare indietro nel tempo e chiudendo gli occhi vi scoprirete “attori” di una magia o addirittura in alcune notti di luna piena, sentirete il rumore degli zoccoli scendere a valle e scorgerete antiche e misteriose creature. Lasciatevi incantare dal fantastico regno dei Monti Sibillini…

scappare alle prime luci dell’alba. Al contrario della Sibilla, le fate erano delle donne bellissime ed ognuna simboleggiava un elemento di quei luoghi incontaminati: acqua, fuoco, neve, prati, boschi. Narra Andrea da Barberino nel 400 di un valoroso cavaliere errante chiamato Guerrin Meschino che per trovare i suoi genitori si avventura nella grotta della Sibilla, che assomiglia ad un labirinto. Guerrino incontra vari esseri mostruosi prima di giungere alla presenza della Sibilla e della sua corte di cinquantatre damigelle. Assediato dalla maga, riesce a resistere, per mezzo della preghiera, alle sue lusinghe e a tutti i suoi tentativi di seduzione. Da lei riesce, infine, a sapere che i suoi genitori sono vivi; riconquista così le sue origini e abbandona il regno incantato. Non è raro incontrare a Montemonaco, Pretare, Amandola, Comunanza, Fiastra, o qualche piccolo borgo nascosto tra i monti Sibillini, persone che sappiano narrare queste antiche leggende a qualche viaggiatore che arrivato s’incanta e con la fantasia ritorna indietro nel tempo perduto incantato da queste antiche leggende trasmesse per secoli. WHY MARCHE

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Un giapponese che suona la fisarmonica? Vi sembra strano eh! E invece, Coba, nato a Nagano, a 200 km da Tokio, non solo è un fisarmonicista, ma è uno dei più grandi a livello mondiale. E ha cambiato il modo di vedere la fisarmonica nel suo Paese…anche grazie a quanto imparato a Castelfidardo!

Viste da occhi stranieri “La musica è la mia vita, da sempre. Ho iniziato ad appena tre anni, suonando il pianoforte. La fisarmonica è venuta dopo. A 9 anni per il mio compleanno mio padre me ne regalò una: rimasi molto deluso. Avevo sentito lui suonare e non mi piaceva. Ho sempre avuto un ottimo orecchio musicale e proprio non tolleravo quel modo di fare musica. Ovviamente non lo dissi ai miei genitori, ma credo che lo capirono: per 10 mesi non aprii neanche la scatola della fisarmonica. Un caso fortunato poi, ha cambiato del tutto le cose. Ogni scuola elementare giapponese ha un inno, che si canta ogni lunedì mattina in cortile. Il mio professore, mi chiese di accompagnare il coro degli insegnati che avrebbe cantato dopo gli studenti. Ma non potevo farlo né col pianoforte né con l’organo. E allora mi venne in mente la fisarmonica: non l’avevo mai suonata, ma in quel momento era la soluzione ideale! Tornato a casa mi misi all’opera e con mia grande sorpresa la fisarmonica mi scioccò: il pianoforte si suona solo con le mani, la fisarmonica si appoggia alla cassa toracica e ti fa vibrare all’interno. Un’emozione nuova e forte. In 3 giorni sono riuscito ad imparare quello che era necessario e ho suonato davanti a tutti. Pensavo di aver fatto bella figura, ma gli altri non erano d’accordo: si chiedevano perché avessi scelto questo strumento antico, vecchio e non la chitarra per esempio. Ormai però io ero stato affascinato dalla fisarmonica e sondando nel profondo i suoi segreti capii che aveva un grandissimo potenziale inespresso, che avrei potuto creare qualcosa di nuovo. A 16 anni avrei dovuto scegliere del mio futuro, se indirizzarmi verso studi umanistici o verso quelli scientifici. Ma, la vita non è solo una scelta tra due possibilità: decisi che la fisarmonica sarebbe stata il mio futuro, perché quando la suonavo ero felice e perché ero convinto di poter mostrare a tutti lo charme di questo strumento. In Giappone non c’erano posti per studiare la fisarmonica in Conservatorio; quindi Russia, Germania o Italia. Scelsi l’Italia, il posto dove pensavo di poter creare qualcosa di originale per cambiare l’immagine della fisarmonica. Eppoi in Italia c’era la patria della fisarmonica: Castelfidardo! Il mio primo maestro fu Adamo Volpi, organista della Santa Casa di Loreto. Poi mi trasferii a Mirano. Nella mia mente c’era il sogno di poter creare per la fisarmonica un genere come quello del rock progressive...un ideale rimasto tale perché neanche in Europa c’era qualcuno che facesse qualcosa di così tanto originale. Ho comunque proseguito per la mia strada, partecipando a concorsi internazionali e vincendo quello di Vienna: la prima volta per un giapponese. Finito il percorso di studi ritornai in Giappone, ma per 10 anni non ebbi l’occasione di fare nulla di importante. Poi ho iniziato a ricevere chiamate dagli studi di incisione: mi volevano per le colonne sonore dei film, per le pubblicità, per accompagnare i cantanti. In un anno c’è stata la svolta: una volta capite le potenzialità di questo strumento le porte mi si aprirono. Nel 1990 in Giappone ci fu il boom della World Music, un genere dove la fisarmonica era protagonista. L’EMI mi chiamò: voleva produrre un mio album, con tutti pezzi nuovi. Era il 1991. E fu un successo. Vinsi anche il Grammy giapponese: si inventarono addirittura un genere speciale per potermi premiare. Fu l’inizio della mia carriera. Ora suono molto in Giappone ma anche in giro per il mondo, con artisti importanti. Per esempio alle spalle ho anche una collaborazione con Bjork, con la quale ho fatto una tourneè di 3 anni. Vorrei poter sempre continuare a creare la nuova musica e cercare nuove possibilità per questo strumento.

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Perché i marchigiani dovrebbero visitare il Giappone

Per scoprire una nuova cultura, molto diversa dall’Italia. Dopo 35 anni che conosco l’Italia, posso dire che nel profondo, siamo uguali. Ma il modo di vivere, di approcciare le situazioni, di pensare è molto diverso. La prima volta che sono venuto in Italia a 18 anni mi sono trovato davanti un altro mondo: non ci potevo credere. Questo sarà lo stesso effetto che vi farà il Giappone la prima volta che andrete: sarà impressionante per voi! La nostra mentalità è completamente differente. Partiamo dal presupposto che è bello capirsi gli uni con gli altri, anche senza parole. Anche nella musica per noi sono molto importanti le pause. In generale diamo valore a quello che noi chiamiamo “ma”: il silenzio, l’assenza, il momento tra due avvenimenti. A questo è ispirata anche l’arte dei giardini, altra nostra caratteristica distintiva. Un esempio perfetto che sintetizza la nostra cultura è il cerimoniale del the, che è diventata un’arte. Pensare agli altri, sapere che cosa vogliono, che cosa pensano. Nel modo di servire il the c’è tutto. Il padrone di casa invita 3-4 persone al massimo. Si entra nella stanza attraverso una porta piccola: bisogna abbassarsi per passare, segno che è necessario essere sempre modesti. In tempo antichi, la katana – la spada – doveva essere lasciata fuori, in segno di rispetto e di umiltà. Tutto deve essere perfetto, nessun dettaglio è lasciato al caso. L’ospite e i suoi desideri sono al centro di tutto il cerimoniale che si svolge in silenzio. Già solo in quest’arte si comprende la grande differenza tra le nostre due culture.

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Un sito senza visitatori è come un negozio vuoto… …portiamo gli utenti sulle nostre pagine!

WWW…generiamo traffico

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artiamo subito da una premessa: il nostro sito è una vetrina dove mostriamo i nostri prodotti e i servizi offerti: gli utenti ci “passano davanti” e guardano, poi, in un secondo momento, decidono o meno di entrare. Ma è compito nostro invogliarli! Quando si parla di traffico web non si può prescindere dal posizionamento sui motori di ricerca, ovvero il SEO (search engine optimization), quella tecnica che permette, quando facciamo una ricerca su Google,

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di farci trovare subito, ai primi posti, grazie ad un sapiente uso di parole chiave che determinano il filtro con il quale i motori di ricerca categorizzano i contenuti. Un esempio pratico per il SEO ci viene offerto dallo strumento Web Master Tools di Google (https:// www.google.com/webmasters/tools/ home?hl=it), che aiuta a realizzare un sito ben strutturato, a verificare il suo andamento - modificandolo se necessario -, ad analizzare il traffico, ad ottimizzarlo. Altri elementi che possono essere utili al nostro scopo sono Google Adwords (che permette di fare pubblicità mirata ad utenti che ricercano proprio quello che noi vogliamo offrire) e Google Analytics, che permette di avere dettagliate statistiche sui visitatori di un sito web. Sì, perché il traffico di un sito, o di una pagina, è facilmente misurabile in base a parametri come il numero delle pagine viste, il tempo dedicato e l’interesse, ossia l’elemento che misura il bounce rate, la frequenza di rimbalzo, cioè la percentuale di visitatori di un sito che abbandona la navigazione subito dopo aver visto una sola pagina . I fattori per un buon posizionamento possono essere interni (detti anche on site e on page) o esterni (off site e out of page). Per quanto riguarda i primi si capisce come contenuti e keywords siano fondamentali, insieme all’efficacia di un titolo d’effetto e alla presenza di link interni, ma non solo: serve anche un CMS (content management

system) che permetta queste azioni. Tra gli elementi esterni che servono ad aumentare la popolarità (page ranking, ossia l’affidabilità di un sito), sono utili le directory, l’article marketing, le recensioni, le condivisioni sui social (traffico da relazione), ossia tutti quegli elementi esterni in grado di costruire la reputazione del sito. Ricordiamoci sempre il nostro obiettivo: portare il cliente sulla nostra home e all’interno delle nostre pagine, acquisire un contatto (attraverso una list building),“convertirlo”, ossia portarlo a compiere un’azione utile sul nostro sito (ricordate la call to action?). Ed il cliente visita un sito se lo trova utile ed interessante, se soddisfa le sue esigenze, se la navigazione è intuitiva, facile e proficua, se risponde alla sua domanda. Ora, questi possono sembrare tecnicismi, e roba da “addetti ai lavori”. Allora proviamo a schematizzare in punti i passi utili da compiere per portare traffico al sito: - creare contenuti di qualità - aggiornare in maniera costante tali contenuti - usare keywords mirate e utilizzate dal target di riferimento - applicare tecniche SEO - occuparsi di SMM (social media marketing) in maniera proficua - servirsi degli strumenti Google: Webmaster Tools, Analytics, Adwords - aumentare la popolarità (iscrivere il proprio sito nelle directory, pubblicare sui siti di article marketing, creare newsletter di qualità) - utilizzare il blog come fonte di scambio di informazioni, immagini, video. Ora la domanda di rito... una volta generato traffico, che ci facciamo? La risposta nella prossima puntata su Why Marche, dove parleremo di conversione.

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S E CO N D O A P P U N TA M E N TO CO N DA R I A P E R E G O G A R O F O L I C H E

New Orleans Progettare un viaggio per gli Usa è impegnativo, stressante, ma per me sempre emozionante

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DARIA PEREGO GAROFOLI <<<

TROPP AV E R V


O F O L I C H E C I P O R T E R À CO N L E I N E G L I S TAT I U N I T I , P R I MA A B I R M I N G H A M E P O I…

s E ora vi porto con me in questo mio viaggio di lavoro particolarmente eccitante.

Quattro mete: due usuali - New York e Washington che tralascio di descrivere e le altre due invece veramente speciali: Alabama e Louisiana. Per me, laureata in lingue con tanti esami di letteratura Americana, era realizzare un sogno di sempre. Atterro all’aeroporto di Birmingham con in mente tutto ciò che ho letto sulla Guerra civile (1861-65). L’Alabama era a capo degli Stati Sudisti, la maggior parte del territorio era occupato da pianure fertili e dalle piantagioni di cotone che vedevano l’impiego di schiavi neri. Birmingham durante gli anni 50-60 è stato il centro delle battaglie civili per gli Afri-Americans, Martin Luther King fu arrestato durante le proteste violente proprio in questa città. Dicono che sia tra le più pericolose d’America, ma io qui mi sento sicura perché sono sempre accompagnata, anzi rimango stupita e affascinata dal verde che circonda la città e dalle bellissime case che mi ricordano le ambientazioni di film famosi. Tutto bello. Ma lo ammetto: sono felice di volare verso la destinazione che ho nel cuore…New Orleans, la città che con la sua atmosfera ammalia il visitatore! “Laissez les bons temps rouler” è il motto ufficiale della Louisiana e questo la dice veramente lunga sul modo di vivere del-

la popolazione che è un mix di influenza africana, indiana, cajun e creola. La sua immagine è profondamente legata al fiume Missisipi, ai neri d’America, al jazz, alla mescolanza di cultura inglese e francese. Ho un solo giorno per vedere e gustare tutto ciò che porterò per sempre nei miei ricordi. Decido di fare un giro organizzato di 4 ore, siamo solo in 6 e l’autista/guida è bravissimo: ci fa vedere molto e descrive in modo chiaro. Visitiamo i luoghi che l’uragano Katarina ha distrutto nel 2006. Moltissime le case ancora non ricostruite a testimonianza della devastazione; le nuove case costruite come palafitte per evitare nuove distruzioni. Bellissimo il Garden District con le sue fantastiche case vittoriane. D’obbligo una passeggiata nel “Metairie Cemetery”: le sue tombe sono di uno sbalorditivo splendore architettonico e di una stravaganza tale che lo rendono unico. Pomeriggio e sera in piena libertà. Passeggio nel French Quarter e subisco il suo fascino. Da sempre il cuore della città creola, affollato, tantissimi ristoranti, bar, negozi di souvenirs e di roba usata; è qui che con un vero tuffo al cuore vedo esposta una delle prime carrozzine prodotte dalla famiglia Perego! Per un pranzo veloce mi siedo in uno dei numerosi ristorantini all’aperto dove mangi e ascolti musica jazz. Naturalmente prendo un “po-boy” panino particolare e il “gumbo” zuppa creola. La visita

prosegue con una camminata in Bourbon St. la via della trasgressione, dove si aggirano abitanti del luogo e turisti, comunque tutti con in mano bicchieri di plastica pieni di alcol: intrigante, ma attenzione a non cacciarvi nei guai! Merita una visita anche la Cattedrale in Jackson Square, piazza affollata di veggenti, intrattenitori, artigiani e band che naturalmente suonano jazz. Ultima tappa la più desiderata per me: Preservation Hall. Luogo creato nel 1961 per proteggere il “New Orleans Jazz” che aveva perso popolarità in favore del jazz moderno. I posti sono solo 60, tra persone sedute sulle panche e pavimento. Mi metto in coda sperando di riuscire ad entrare. Ce la faccio e mi godo il concerto della “Live New Orleans jazz band”.

T R O P P E P O C H E R I G H E P E R D E S C R I V E R E L E E M O Z I O N I V I S S U T E I N T R O P P E P O C H E O R E D I V I S I TA . S P E R O D I AV E R V I I N V O G L I ATO A FA R E U N V I AG G I O I N Q U E S T I LU O G H I . I O C I R I TO R N E R Ò S I C U R A M E N T E.

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Primo Piano THE CLIMBERS

Tutti di corsa, tutti afflitti dai problemi, tutti a rincorrere soldi e carriera. Non tutti in realtà. Non i The Climbers. Una storia diversa quella della Mc Dini Family. Una rottura con tutto ciò che è imposizione per respirare a pieni polmoni l’aria della musica

Una famiglia. Papà Lucio, mamma Adriana e i due figli Marco, il più grande, e Mirko. Loro sono i The Climbers, il volto italiano, anzi marchigiano della musica folk e country. Una scommessa la loro, arrivata quasi come fosse l’unica scelta possibile. Troppo il peso di una quotidianità diventata sempre più grigia, senza soddisfazione, senza quella luce che il fare qualcosa che ami regala.

“Siamo diventati artisti a 50 anni”.

Ci dice sorridendo Lucio. Fino al 2009 lui e sua moglie avevano un’azienda di jeanseria. Lavorava anche per marchi importanti, andava bene. Ma poi arriva quel momento in cui alzarsi la mattina diventa pesante. “Ti rendi conto che oggi non conta più la preparazione, il titolo di studio, l’esperienza e la competenza. Oggi conta solo il discorso speculativo. E allora non hai più soddisfazione a gestire un’azienda, cosa che conduce piano piano alla morte dell’impresa. E ti accorgi che il tuo tempo come imprenditore è finito. Che non è più quello che vuoi.

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La libertà della passione

In un mondo regolato solo dalla corsa a chi guadagna di più, i figli non hanno futuro: non ci sono più le fondamenta per sviluppare un progetto, per dargli tempo di crescere, di “farsi”. Oggi ci sei, domani non si sa. Il fascino del lavoro, il sentirsi orgoglioso di ciò che si fa, di realizzare qualcosa, perde del tutto il suo fascino del lavoro e ti rendi conto che non conviene continuare, per rovinare tutto quello che hai costruito in 30 anni. E allora decidi di prendere un’altra strada, di cavalcare un’altra passione. Questo è quello che abbiamo deciso di fare noi. Tutti d’accordo. Nessuno è stato forzato a intraprendere questa strada, a fare della musica la propria vita, ad accettare una sfida: fare musica country quando abbiamo iniziato noi, in Italia, lo era davvero. Ma per noi era l’occasione di condividere come famiglia, di divertirci insieme, di ritrovare il fascino del fare e del seguire una passione. Il primo anno abbiamo fatto 5 concerti: non è stato un grande inizio! Ma nel 2012 ne abbiamo fatti 182: Marche, Romagna,

Lazio, Abruzzo. All’inizio tutti ci hanno presi per pazzi, parenti e amici compresi. Ma noi non abbiamo mai avuto fretta o necessità di dimostrare ad altri la bontà della nostra scelta: con la nostra coerenza, il nostro stile, la nostra passione siamo riusciti ad imporci”. Non è artificioso Lucio nel suo parlare. Non sta assolutamente forzando la mano, come a raccontare una favoletta per far sembrare quella che dei The Climbers una storia da copertina. Sorride invece, semplicemente appagato dalla sua vita. E la stessa cosa fanno Marco e Mirko, che ascoltano e annuiscono. Condivisione, se dovessi usare una sola parola per descrivere che cosa tiene insieme questa famiglia di artisti, userei proprio questa. La storia dei Mc Dini merita davvero di essere raccontata. Quasi fosse un messaggio: non bisogna per forza ingrigirsi ed appiattirsi sotto il peso di una situazione. Si può prendere una strada diversa e decidere di vivere della propria passione. WHY MARCHE

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Come nascono i The Climbers?

“Nascono dalla passione che io e Marco abbiamo in comune per la musica. Prima di scegliere questa strada come nostra professione, facevamo già musica nelle feste locali: liscio, musica anni ’60. Spesso dal pubblico arrivavano delle richieste impossibili: provate a suonare La Bomba, in due! Avremmo dovuto usare delle basi, ma assolutamente non era questo che volevamo. Specie per Marco era diventato pesante, non gli dava soddisfazione. Aveva anche pensato di smettere di suonare. Così abbiamo iniziato a riflettere su che altra strada potevamo seguire. E come spesso accade…da passione, nasce passione! A entrambi piace fare arrampicata. Quando scendevamo nei rifugi ad aspettarci c’era sempre la musica degli Eagles, dei Creedence, di Johnny Cash. E… ci siamo affascinati! Jhonny Cash ci ha rapito.

Riusciamo ad ascoltarlo per 3 ore al giorno da 10 anni e ancora non ci siamo stancati… vuol dire che ha qualcosa in più! È stato come rendersi conto di essere al mondo per continuare l’opera di Johnny Cash!”. A Lucio si illuminano gli occhi. Marco e Mirko, li vedo con la coda dell’occhio, si lasciano andare a un sorriso, come a commentare un’affermazione importante, quella di sentirsi un po’ un proseguo dell’opera di uno dei più grandi musicisti di sempre. Ma ci credono fortemente anche loro, tanto da decidere di buttarsi anima e corpo in questa impresa. L’attività di famiglia, è essere i The Climbers. “Riusciamo a vivere della nostra passione e non c’è niente di più bello. Abbiamo una base di guadagno fissa, permessa dal contratto stretto dal 2006 con Fiabilandia e lavoriamo lì per tutto il periodo di apertura, da Pasqua ad Halloween. Questo è il nostro lavoro; gli altri concerti che facciamo in giro invece, portando in giro il nostro modo di

fare cover sono la nostra massima espressione. Ovviamente, non siamo degli sprovveduti. Cerchiamo di diversificare, tenendo sempre presenti, come faro per decidere quali scelte intraprendere, le nostre passioni. Marco è un esperto e un appassionato di arrampicata e per questo abbiamo aperto un parco di arrampicata; Mirko ha studiato all’alberghiero e per questo motivo abbiamo dato vita al O.K. Corral Saloon all’interno del nostro ranch. Quello che riusciamo a fare è vivere della nostra passione in tutte le sfumature”.

Quindi possiamo dire che è la passione il vero motore di tutto ciò che fate…

“Esattamente, la passione ci porta a realizzarci in tutto ciò che facciamo. Ci piace fondere tutte le nostre inclinazioni. Rimaniamo i The Climbers, pur nelle altre attività che abbiamo. Un esempio? L’anno scorso come dicevo abbiamo realizzato un parco di arrampicata a nome di Marco a Cagli. Vengono gli atleti, facciamo contest. Ma allo stesso tempo, rispondiamo anche alle curiosità di chi ci viene a trovare, un po’ per arrampicarsi, un po’ per sapere perché ci esibiamo con le giacche con le frange! Nello sviluppare il progetto dell’Ok Corral Saloon, abbiamo certo tenuto conto della passione di Mirko e anche di Adriana per la cucina, ma abbiamo voluto soprattutto creare uno spazio nel quale i nostri fans potessero condividere con noi un momento conviviale, farci domande e godersi una serata di musica”.

La Mc Dini Family ha un approccio particolare alle cose. Credo che ormai questo sia chiaro. Non vi sorprenderà


quindi scoprire che questi marchigiani del country vivono a Cantiano…in un ranch!

“Abbiamo deciso di trasferirci a Cantiano perché il primo tributo ufficiale in pubblico lo abbiamo fatto qui al Teatro Capponi. Riteniamo che questa città ci abbia dato gli albori artistici. E poi, i luoghi sono davvero meravigliosi. Essendo amanti della montagna ci ha colpito questo paesaggio inconfondibile. Abbiamo trovato questa casa, che chiamiamo ranch in nome della tradizione country e abbiamo deciso di trasferirci. Perché? Perché qui non c’è nulla che ci leghi al nostro passato. Quando abbiamo deciso di cominciare una nuova vita a 50 anni, abbiamo anche voluto tagliare i legami e ricominciare da un posto nuovo. Qui, noi siamo i musicisti, gli artisti. L’idea di chiamare la nostra nuova casa Ranch Mc Dini nasce in realtà dalla volontà di tributare un ricordo a George Mc Anthony. Quando abbiamo iniziato a fare musica country nel 2002, questo friulano dalla storia particolare era il nostro punto di riferimento: ha suonato con John Denver, ha inciso a Nashville, suonava 9 strumenti, l’unico “One man show”. A 20 anni si trasferì in Africa per fare opere di bene. Qui imparò a suonare la chitarra e capì che avrebbe voluto fare della country music la sua professione. È stato un grande compositore, ma anche grande rivoluzionario nel fare le cover e quando ci siamo conosciuti siamo subito entrati in sintonia: è stato a casa nostra, ha scritto una canzone per noi. Due anni fa è mancato, dopo un concerto. Abbiamo deciso di riprendere il suo “Mc” per portarlo sempre con noi”.

Entriamo un pochino più nel vivo della vostra musica. Intanto spiegaci Lucio, come fate a suonare 9 strumenti in 3 durante le vostre esibizioni? “Beh, questo è uno dei motivi per cui abbiamo tanti fans: solo noi sappiamo suonare con le batterie

ai piedi! Il nostro principio è fare tutto in maniera originale. Se riproduciamo una canzone, non la sconvolgiamo con nostri pezzi, con nostre influenze, cerchiamo di essere fedeli sia come sound che come strumenti. Ed questo ci distingue nei nostri concerti. Io suono armonica, chitarra a 12 corde, rullante, charleston e batocco. Marco suona basso, contrabbasso e gran cassa ai piedi. Mirko, il banjo, la chitarra elettrica, il dobro e il mandolino. E siamo autodidatti. Abbiamo imparato a suonare grazie alla nostra passione. Dalla mattina alla notte alle due, il nostro impiego è questo: uno studio continuo fatto di tanto impegno ma anche grandi soddisfazioni. Facciamo quello che amiamo fare. La nostra è arte”.

Il country in Italia non è molto conosciuto. Come siete riusciti a coinvolgere il pubblico?

“Come ti dicevo, il nostro modo di suonare è unico e questo porta già le persone ad avvicinarsi. E poi il nostro abbigliamento, il nostro stile di vita. Le persone sono curiose; ci chiedono perché portiamo i cappelli o la giacca con le frange o quello strano cravattino. E allora tu spieghi e facendolo gli racconti un mondo al quale si appassionano oltre la musica. Il country è uno stile di vita. Una vita semplice. Ci siamo trasferiti nel nostro ranch anche per poter vivere veramente in modo country, non solo per suonarlo. Vivevamo a Fossombrone, non una metropoli certo; ma già lì la vita è più cittadina, più difficile. È un susseguirsi di obblighi, di impegni, di rapporti freddi. La nostra scelta è stata proprio quella di allontanarci da tutto questo per recuperare la semplicità e la verità dei rapporti. Ti faccio un esempio, magari stupido ma che rende molto bene l’idea. Noi abbiamo un cavallo. Il cavallo produce sterco. Questa sua produzione è utile a un nostro vicino che ci ha chiesto se poteva prenderlo per utilizzarlo come concime. In cambio e in segno di gratitudine, lui ci da le uova delle sue galline. Ecco: uno scambio semplice che però ti fa capire come ci sia un valore anche in cose che

spesso scartiamo. Riportandole su una scala più ampia, queste riflessioni ti cambiano il senso della vita. Noi abituati a combattere con le banche, con gli insoluti, con i fidi, con il fatturato di una azienda, facevamo una vita sbagliata. E ora me ne accorgo. Correre dietro ai soldi e al potere non porta a nulla. Se si guarda solo alle cose materiali, il valore di quello che si costruisce è terribilmente effimero. Scegliendo di diventare i The Climbers, e di fare del country la nostra strada abbiamo scoperto altri valori. E anche questa nostra storia aiuta le persone ad avvicinarsi a noi e alla nostra musica”.

Forse è anche perché non solo fate un certo tipo di musica, ma perché vivete quel tipo di musica che siete riusciti a ricevere un riconoscimento importante: la cover band ufficiale di Johnny Cash per l’Europa! WHY MARCHE

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“Una grandissima soddisfazione e riconoscimento del nostro lavoro. Proprio nell’anno in cui morì Johnny Cash, il 2009, tenemmo il nostro primo concerto e fummo contattati da Bill Miller, il proprietario del sito ufficiale johnnycash.com. Da appassionati, avevamo scoperto questo sito tempo prima e avevamo iniziato a scriverci col signor Bill Miller. Quando ascoltò le nostre cover ne rimase impressionato: suonavamo come gli originali! E c’è un grande lavoro di ricerca dietro, ve lo posso assicurare. Per esempio per riprodurre in maniera esatta il suono della chitarra di Cash, ci siamo inventati di inserire un foglietto di carta tra le corde. Miller ci disse che il nostro sound era il migliore in Italia e in Europa e l’unico in grado di rappresentare Johnny Cash!”.

E a ritirare questo importante attestato, a Corona, ci sei andato tu Marco. Raccontaci tutto!

“È stata un’esperienza unica, che capita una volta nella vita. L’americano non ha pregiudizi su di te, lui accetta tutti, ma sei tu che devi colpirlo e farti conoscere. Arrivato ho dovuto io chiamare Bill, ma sono bastati pochi minuti al telefono per capirci, come persone. Mi è venuto a prendere con la sua Mercedes, ci ha portato a mangiare in uno dei migliori locali di Corona, facendoci assaggiare tutti i piatti tipici. Il giorno dopo mi ha portato a casa sua.

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La Radio Johnny Cash ha sede in una taverna blindata. Ti chiederai: perché blindata? Beh, all’interno Bill ha una cassaforte al muro di circa 7metrix3 dentro la quale c’è un vero e proprio tesoro: dalle fibbie d’oro di Johnny , alla sua chitarra originale, la sua camicia, i suoi stivali, le cose che Johnny gli aveva regalato. Per me è stato unico poter toccare le cose di Johnny. L’emozione più grande è stata quando mi ha fatto trasmettere in diretta su Radio Johnny Cash: io che parlavo all’America dicendo le stesse cose che in passato avevano detto Bob Dylan o Jerry Lee Lewis, la classica frase di benvenuto sulla radio “Benvenuti su Radio Johnny Cash, sono Marco Dini della MC Dini’s Family”. Ho parlato ad una fetta d’America: non so ancora come sia riuscito a farmi venire fuori la voce!”. E se pensate di aver scoperto tutto di questa famiglia così particolare…sbagliate! Prima di lasciarci hanno ancora qualcos’altro da svelarci. Verrebbe quasi da dire, qualcos’altro da insegnarci. Facciamo un piccolo riassunto. Ex imprenditori che decidono di lasciare non perché “c’è la crisi”, ma semplicemente perché non sono più felici. Due ragazzi giovani che decidono di seguire la strada di famiglia perché “portare avanti una passione con la propria famiglia è eccezionale”.

Una strada che in dieci anni li porta a vivere della propria musica e a ottenere un riconoscimento tanto importante da incoronarli cover band ufficiale di Johnny Cash. Sembra la classica storia che finisce con una

scalata al successo. Ma non è questo che interessa loro. Ed è questa la lezione. La riflessione anzi, con la quale vogliamo chiudere questo atipico incontro in un Ranch a Cantiano.

“Non siamo commerciali. Forse è quello che ci manca. Con un commerciale dietro e il riconoscimento come cover band ufficiale Johnny Cash, a quest’ora in molti avrebbero tentato la scalata. Ma non è questo che vogliamo. Il nostro pensiero è che non bisogna mai forzare i tempi. Se una cosa deve venire, viene. È il principio di naturalità delle cose. Non devi fare in modo che accada prima del tempo, deve avvenire spontaneamente. Noi siamo pronti, quando passerà quel famoso treno, saremo pronti a salirci. Due anni fa fummo invitati ad Italian’s Got Talent: non abbiamo accettato perché ci sembrava qualcosa di troppo “aleatorio”. Spesso andare in questi talent show significa bruciarsi. Con i nostri concerti e con tutto il resto che facciamo, riusciamo a vivere di questa nostra passione, possiamo impegnarci nella ricerca della giusta sonorità, nel rispetto fedele dell’originalità…perché dovremmo abbandonare questa strada per andare in televisione? Noi aspettiamo l’occasione giusta, quella che verrà come deve venire e come noi la vogliamo!”.

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FERMO

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In collaborazione con: Regione Marche Provincia di Fermo Provincia di Ascoli Piceno Camera di Commercio di Ancona Camera di Commercio di Fermo Camera di Commercio di Macerata Comune di Monte Urano Comune di Porto San Giorgio Comune di Porto Sant’Elpidio Comune di Sant’Elpidio a Mare

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N N A H I M , T O R T AIU ATO LA CA N O L C _CONSUMATORI_

Conto corrente prosciugato, l’estratto conto che riporta un saldo che non corrisponde a quanto ricordavamo, sulla lista movimenti prelievi e operazioni a noi sconosciuti. Amare sorprese che possono arrivare anche dal nostro internet banking: acquisti mai effettuati, operazioni disposte online per acquisti o verso siti di scommesse, ricariche di PostePay o ricariche telefoniche. La risposta è quasi scontata: la nostra carta è stata clonata. L’Osservatorio sulle frodi creditizie di Crif, (uno dei sistemi di informazione creditizia esistente in Italia) denuncia un aumento del 17,9% delle frodi creditizie nel solo primo semestre del 2012: 9.000 i casi riscontrati. Molteplici possono essere gli strumenti utilizzati per carpire i dati contenuti nella carta e il pin a essa associato: skimmer, tastiere finte, minitelecamere applicate agli ATM, POS degli esercizi commerciali manomessi. I dati razziati vengono poi trasferiti su carte falsificate, che divengono di fatto copie di quelle che ci appartengono. Lo stesso vale per le transazioni in rete: esperti hacker intercettano le

nostre credenziali utilizzandole poi a nostra insaputa e il pagamento fraudolento viene a tutti gli effetti ricondotto al nostro profilo.

Cosa fare?

Bloccare immediatamente la carta annotando il codice del blocco, presentare denuncia alle competenti autorità, informare immediatamente la Banca o l’Istituto emittente (seguendo attentamente le condizioni contrattuali) e richiedere il rimborso delle somme sottratte. Ma qui iniziano a volte le dolenti note.

Mentre alcuni Istituti provvedono all’immediato riaccredito, altri al contrario negano il rimborso con le motivazioni più disparate: “l’operatività disconosciuta risulta regolare e priva di alcuna anomalia”, “l’ipotesi di clonazione è esclusa in quanto l’operazione disconosciuta è avvenuta con l’utilizzo della carta“, “l’operazione è avvenuta con la digitazione del Pin esatto della cui custodia i clienti sono responsabili”, “i siti sui quali sono state eseguite le transazioni sono considerati come sicuri”. È chiaro il tentativo di attribuire al possessore della carta la responsabilità di quanto avvenuto, esonerando l’Istituto emittente da ogni onere. Una condotta che Adiconsum Marche ha avuto modo di verificare in molte occasioni, con particolare riferimento ad alcuni Istituti tra cui spicca Bancoposta, uno degli emittenti maggiormente colpiti dal fenomeno dell’utilizzo fraudolento e clonazione delle Postepay, soprattutto on – line, e le cui risposte alle richieste di rimborso sono per la maggioranza negative. Eppure esiste dal 2010 il d.lgs n. 11/2010, che regolamenta la materia del furto o utilizzo fraudolento degli strumenti di pagamento elettronico definendo in maniera chiara gli obblighi a carico delle parti. L’utilizzatore deve custodire con diligenza la carta, garantire la sicurezza dei dispositivi personalizzati che ne permettono l’utilizzo (pin, password ecc..), e comunicarne immediatamente il furto o l’utilizzo non autorizzato non appena ne viene a conoscenza.

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LOREDANA BALDI ADICONSUM MARCHE

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O N N A! T R A Ma è a carico dell’Istituto emittente che vengono posti obblighi sostanziali: · assicurare che “i dispositivi personalizzati non siano accessibili a soggetti diversi dal legittimo utilizzatore” e dunque: garantire adeguate accortezze per il suo utilizzo (es. password dispositive utilizzabili una sola volta), mettere a disposizione sistemi automatici che comunichino al cliente le operazioni di volta in volta disposte (come l’sms alert), garantire la sicurezza del proprio sito internet dal quale vengono disposte operazioni;

Lo stesso Istituto può, inoltre, provvedere autonomamente al blocco in caso di sospetto di utilizzo non autorizzato o fraudolento. Ma ecco la novità più significativa: salvo il caso in cui venga dimostrato che l’utilizzatore abbia agito con dolo o colpa grave, le operazioni disconosciute devono essere rimborsate, con la possibilità di applicare una franchigia massima di € 150,00. Il rimborso può essere negato soltanto provando che la responsabilità sia riconducibile al legittimo utilizzatore, ma l’onere della prova spetta all’Istituto emittente. La norma specifica chiaramente infatti che il semplice utilizzo della carta anche con le relative credenziali non è sufficiente a dimostrare che l’operazione sia stata autorizzata o disposta dal cliente, né che non siano stati rispettati gli obblighi di diligenza in merito alla custodia dello strumento, pin o password personali. Il disposto normativo è chiaro, ma cosa fare se viene disatteso e il rimborso negato? Il consiglio: presentare reclamo all’Istituto e in caso di risposta negativa o mancata risposta ricorrere all’Arbitro Bancario Finanziario, organo di risoluzione stragiudiziale delle controversie tra clienti banche e intermediari finanziari. Una soluzione semplice, rapida, economica e senza la necessità di avvalersi di un legale.

· garantire sempre la possibilità per l’utente di provvedere al blocco della carta e impedire che la stessa venga utilizzata successivamente al blocco.

e sentare dall re p p ra i rs sum ssibile fa ri e l’Adicon È anche po to a m u s n o i di c erienza nel p s e associazion le o v te una no ssiha maturato nza che permette un’a erie tutti i settore, esp osizione di p is d a ta a c lifi stenza qua ri. consumato

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Intervento Gestire il Bilancio familiare per prevenire il sovraindebitamento Programma Generale della Regione Marche 2010 con l’utilizzo dei fondi del Ministero dello Sviluppo Economico

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_ARTE E CULTURA_

Carlo Bellagamba, dell’Associazione FVM ferrovie Val Metauro, pensa proprio di sì. Anzi, sostiene che recuperare questa ferrovia a rischio dismissione sia un’opportunità. Parla di risparmio energetico, di servizi migliori, di turismo.

La ferr dimen

Una storia nella storia. Quella del tra oggi ferrovia fantasma che racchiud

Recuperarla

racconta la storia di questa “ferrovia dimenticata”? “La ferrovia Fano Urbino è in realtà l’unione di due tratti differenti: la Fabriano-Urbino, inaugurata nel 1898, e la Fano-Fermignano, inaugurata nel 1916. A Fermignano le due linee si univano e diventavano una. Durante la Seconda Guerra Mondiale, per ovvi motivi, il trasporto fu interrotto e alla sua conclusione il destino di questi due tratti di strada ferrata cambiò ancora: da un lato la Fano-FermignanoUrbino che riprese a funzionare nel 1951, dall’altro la Pegola-Fabriano ancora in uso. Una attività molto breve però quello della Fano-Fermignano-Urbino che nel 1987 fece la sua ultima corsa come ferrovia adibita al trasporto di persone e mezzi. Già nel 2005 riuscimmo a salvarla da una prima dismissione totale. È importante infatti sottolineare che tutte le “attrezzature” e gli stessi binari sono tutt’ora al loro posto anche se ovviamente non più in grado di funzionare. Come dicevo circa 8 anni fa siamo riusciti ad evitare di far mettere la parola fine su questa storica ferrovia, anche grazie all’aiuto della Regione e della Provincia. Purtroppo però ora sembra che il governo regionale abbia cambiato idea avendo accettato il decreto uscito nel 2011 che condannava la Fano-FermignanoUrbino alla dismissione, pur facendola rimanere di proprietà della rete ferroviaria statale. Al momento comunque, nessun intervento è ancora stato apportato. Alcune voci parlano di una volontà della Provincia di Pesaro Urbino di trasformare questo tratto in una pista ciclabile”. Voi invece avreste ben altri progetti… “Assolutamente. Secondo noi la ferrovia va riaperta e rivitalizzata. Sono state messe in giro tante voci false, si è tenuto volutamente in condizioni miserevoli questo tratto, non sono mai stati fatti investimenti nel periodo in cui era ancora funzionante per renderla un servizio veramente utile. Troppi interessi, primo tra tutti la forte pressione esercitata dal trasporto su gomma. La linea ferroviaria è invece un mezzo di trasporto assolutamente valido e sempre di più sarà importante nel futuro. Pensate al risparmio in termini di energia, di costi, di inquina-

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ELEONORA BALDI <<<


errovia enticata

uella del tratto Fano-Fermignano-Urbino, che racchiude però un grande potenziale.

perarla si può?

mento. Non è un caso se le nazioni più avanzate al mondo come per esempio la California puntano tantissimo sul treno come mezzo di trasporto. E invece da noi questo non si è ancora capito: si continuano a costruire strade e così si deturpa il paesaggio marchigiano che è in assoluto uno dei più belli che si possano ammirare: decantiamo tanto le nostre bellezze, ma non dimostriamo poi di tenerci così tanto!”. E allora, che cosa si può fare? E cosa state facendo? “Partiamo da un presupposto: la nostra è un’associazione volontaria, che coinvolge tantissime persone e non solo nelle Marche ma in tutta Italia. In dieci anni, io mi sono fatto una grandissima cultura e ho vagliato tanti progetti per il recupero di ferrovie inattive. Segno questo che non è solo un problema marchigiano, ma appunto nazionale. Poi, ci sono regioni più sensibili di altre. Quello che si dovrebbe e potrebbe fare per la Fano-Fermignano-Urbino è innanzitutto un’azione di ripulitura: la ferrovia esiste tutt’ora, non è stata smantellata. Quindi non si parla neanche di costi esorbitanti per il suo recupero: basterebbe investire dai 40 ai 100 milioni di euro, compreso l’acquisto di tre convogli ad alto rendimento. E vi posso assicurare che l’investimento è inferiore rispetto ai benefici che se ne trarrebbero. Noi ci stiamo muovendo intanto per far conoscere il problema nella sua vera essenza, spazzando via il terreno da falsità. Poi, promuoviamo eventi. Per esempio la Festa della Stazione a Fermignano, ogni ottobre, e partecipiamo alla Festa Nazionale delle Ferrovie Dimenticate a marzo. Siamo in contatto con Lega Ambiente che appoggia le nostre azioni e con la Fai che ha addirittura proposto la ferrovia come simbolo dell’evento “Logo del Cuore”: i cittadini devono segnalare un

luogo, un monumento della città come simbolo appunto e si è proposta la ferrovia come tramite della cultura e delle comunicazione tra valli vicine”. Ci diceva che l’investimento sarebbe minore rispetto ai vantaggi. Che cosa intende? “Non parlo solo del risparmio energetico e della salvaguardia ambientale. Penso al turismo e a quanto il territorio, non solo del pesarese, ma di tutte le Marche potrebbe giovarsene. Vi faccio un esempio: tra i tanti interessi che abbiamo suscitato c’è quello di una importante società russa che ha il progetto di ripristinare la ferrovia rendendola un’attrattiva turistica grazie alla costituzione del “Treno dei sapori”. Al suo interno, verrebbero proposti tutti i prodotti di eccellenza marchigiana. Un’idea fantastica, credo! E questa è solo una delle cose alle quali si potrebbe pensare. Mi viene in mente, la creazione di una Carta dei Percorsi che potrebbe raccogliere tutti i percorsi ciclopedonabili che si potrebbero percorrere avendo come punto focale di arrivo e partenza le fermate lungo la ferrovia. Si potrebbero sviluppare dei percorsi tematici, che so quello della Fede o quello dei Borghi Medievali e Rinascimentali. Ancora, si può pensare ad una linea che attraversi tutte le Marche, passando per l’interno, che diventi una vetrina di tutte le nostre eccezionalità. Per non parlare poi di quanto si potrebbe fare per il turismo accessibile e per “liberare” dall’isolamento gli abitanti delle zone più interne. Ripristinare questa ferrovia e comunque comprendere il potenziale di grande opportunità che il trasporto ferroviario racchiude, è una chance importante, è qualcosa che può fare la differenza. Di questo ne siamo convinti e speriamo di riuscire a sollevare il giusto interesse rispetto al nostro progetto di recupero!”.

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Il castello del di Giuseppe D’Emilio

Tuttaltro che morbido L’angolo Noir di Alessandro Morbidelli

Terzo appuntamento con i racconti noir ambientati nelle Marche spediti dai lettori. Ospite della rubrica, questa volta, il professor Giuseppe D’Emilio, membro di un collettivo di scrittori chiamato Pelagio D’Afro (I Ciccioni Esplosivi, Montag 2009) e docente. Questa volta si cimenta in solitaria e il risultato è un bellissimo racconto sui luoghi che si scelgono per vivere, per ricordare, per morire. Un noir sfumato di grigio, immerso nel riflesso freddo dell’inverno, dove il colpevole ha la consistenza di un soffio gelido e di un ricordo passato.

Vuoi provare con un tuo racconto? Solo tre regole: Marche, noir e 4000 battute, spazi inclusi. Spediscilo a: a.morbidelli@whymarche.com

Buona lettura!

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a fu dopo la curva che lo vide. Non si aspettava che il castello apparisse dalla strada così presto. Evidentemente ricordava male. Il tempo e le distanze, si sa, sono fattori variabili con l’età. Al castello ci andava a giocare, da piccolo: Indiani, Zorro, cose così. Quelle antiche mura e il prato tutto intorno, scosceso verso il paese sottostante, furono per anni il teatro della sua fantasia. E per tutta la vita ogni castello che avesse incontrato in fiabe e romanzi sarebbe stato quel castello. Anche a vederla da lontano, lassù, la fortezza era diversa da come la memoria l’aveva resa favolosa nel corso di sessant’anni di vita in Australia. La realtà non può reggere il confronto con lo sguardo meravigliato dell’infanzia. Parcheggiata l’auto a noleggio, si rese conto che il suo paese natale era davvero cambiato, ma era certo che il centro storico non poteva essere mutato molto. Si ritrovò presto a passeggiare per la parte alta del paese, quella antica, quella costruita da anime sulla difensiva. I pochi giovani che ancora vi abitavano lo guardavano indifferenti, come fosse normale che uno straniero - perché tale ormai era - percorresse con passo lento quelle antiche vie quasi deserte. La maggior parte degli abitanti doveva essersi trasferita nella parte bassa, più accessibile, più moderna, proiettata verso i centri commerciali della costa adriatica. Ma fu negli occhi di anziani seduti, proprio come una volta, sugli usci, che ritrovò l’antica soggezione verso il cittadino, verso il forestiero, e le domande senza risposte della gente senza patente: perché è venuto da noi; cosa abbiamo da


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Consigli di lettura:

“Millennium Thriller”, antologia di racconti a cura di James Ellroy e Otto Prenzler (Newton Compton Editori). Jeffery Deaver, Joyce Carol Oates, Jim Thompson, Dennis Lehane, Elmore Léonard e lo stesso Ellroy: sono solo alcuni dei trentacinque autori presenti in questa antologia. Storie uniche, spesso inedite in Italia, che ci conducono nelle strade di campagna della provincia o nei vicoli bui delle grandi metropoli americane. Racconti che spaziano dalle atmosfere fumose degli anni Venti fino alle tinte horror delle vicende ambientate ai giorni nostri. Storie cupe e morbose, violente e avvincenti, ricche di colpi di scena e suspense, che in molti casi sono state portate sul grande schermo.

ritorno offrire qui, nel cuore del macigno dell’Appennino marchigiano? Rondini. Le rondini le aveva viste anche altrove, e sempre il loro stridio gli aveva richiamato l’infanzia. Facevano il nido sotto i tetti, nelle fessure dei muri, dove capitava. Riempivano le sere d’estate con le loro grida, disperate e giocose a un tempo. Se ne andavano d’inverno e tornavano in primavera. Si favoleggiava che ognuna ogni anno tornasse al proprio nido. Anche lui era tornato. Come le rondini, si disse sorridendo della facile similitudine. Ogni pietra, ogni vicolo, ogni androne si rivelavano, folgoranti, come lo scenario dei sogni e dei desideri di una vita. Ricordi nitidi, stavolta. Lì, tremante, aveva preso per mano la figlia di emigranti in Belgio tornati d’estate al paese - millantando invidiabili benesseri - e l’aveva baciata. Dietro quel portone dovevano esserci ancora i fantasmi (che c’erano lo dicevano i vecchi, e tutti credevano ai vecchi). Su quel marciapiede

il lattaio poggiava il suo bidone per poi mettersi a chiamare le donne. In quella casa aveva visto per la prima volta una donna morta, con il Rosario tra le mani giunte a forza. Sulla discesa che portava in piazza, un giorno era caduto, sbucciandosi un ginocchio che ancora ne portava i segni lievi. Laggiù, barcollante, passava di sera, cantando, l’ubriacone. Lassù, inavvicinabile, viveva la puttana. La ragazza che si era suicidata gettandosi nel fiume per amore, abitava in quel vicolo stretto. Ansimando, prese la salita che portava al castello, automaticamente, con sicurezza, come se gli anni non fossero mai passati. Giunto in cima, si stese sotto un abete, gustandosi l’odore di resina, il silenzio e la brezza fresca che saliva dalla valle. Chiuse gli occhi con una strana sensazione nell’animo. Il vento sul viso… Gli piacque immaginare che la dea della valle gli manifestasse la sua presenza con una carezza bisbigliata di alito boschivo.

D’un tratto, come se si trovasse sotto il Ficus del Buddha, comprese chiaramente che quell’ansia sottile che l’aveva sempre accompagnato nella sua vita di emigrante non era dovuta alle preoccupazioni, al lavoro, agli impegni. La verità era che non era mai stato a casa. Forse, si chiese, se fosse vissuto al paese avrebbe potuto imparare i nomi degli alberi e delle stelle, e a riconoscere i canti degli uccelli e le stirpi degli insetti. Una ghiandaia, mostrando fiera la sua penna azzurra, gli passò accanto, quasi a confermargli le sue riflessioni. Era una ghiandaia, sì: era stato suo nonno a insegnarglielo. Aveva fatto in tempo a imparare almeno questo, prima di partire. Se solo fosse rimasto… Verso il profilo scuro dell’Appennino, il cielo virava al rosa del crepuscolo: doveva decidersi a tornare indietro. Ancora un po’, si disse. Non è ancora tardi. Il giorno dopo lo trovarono ancora lì, il forestiero, con uno strano sorriso ormai gelido sulle labbra.

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Quante volte guardando un film ci siamo coperti gli occhi o abbiamo fatto una strana smorfia vedendo il volto del protagonista trasformarsi in qualcosa di strano o essere sfigurato da una ferita profondissima? L’impatto è subito forte. Raramente però si pensa a tutto il lavoro che deve esserci dietro, a chi riesce a creare questi trucchi in grado di dare quel qualcosa in più alla scena alla quale si sta assistendo. E se vi dicessimo che anche qui nelle Marche potrete conoscere qualcuno che fa questo lavoro? Mauro Fabrickzy si è innamorato del trucco cinematografico ancor prima che degli attori e così ha deciso di seguire questa sua passione trasformandola in lavoro.

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è chi da grande vuole fare l’attore, chi il regista e chi…decide di essere il deus ex machina, quello che costruisce gli effetti e i trucchi senza i quali il film non avrebbe lo stesso effetto. Come nasce la tua passione Mauro? “La mia passione nasce quando avevo 17 anni; sono stato sempre appassionato dell’arte in genere, ma quello che mi fece scaturire l’interesse per il trucco cinematografico fu quando andai a vedere il film “Guerre Stellari”: mentre lo guardavo capii che non ero un semplice spettatore seduto al cinema a vedere un film, ma sentivo che nasceva in me il desiderio di conoscere come erano stati realizzati gli effetti che stavo guardando. Appena arrivato a casa, ricordo che iniziai subito a pasticciare con ogni cosa che potevo reperire, gesso, argilla e quant’altro; così nacque la mia grande passione che da allora non ho più abbandonato e che è diventato il mio lavoro!”. Quale percorso formativo hai fatto prima di avviare l’attività in proprio con MFX, Special Makeup Studio? “Diciamo che il percorso formativo verso questo lavoro non è stato facile; quando ho iniziato e parliamo del 1987, in Italia non

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Di professioni curiose al mondo ce ne sono tante. E di sicuro il mondo del cinema è uno dei quelli nei quali ci si può sbizzarrire in quanto a stranezze. Oggi vi presentiamo Mauro Fabrickzy e la sua “bottega dei trucchi” c’erano scuole o corsi che potevano insegnarmi, quindi partii come autodidatta ricercando a destra e manca libri e video per poter imparare. Il problema era che l’unico modo per reperirli era quello di prenderli in America! Poi nel 1995 venni a conoscenza di un corso tenuto da uno dei più grandi truccatori Americani Dick Smith - famoso per aver curato i trucchi per “L’esorcista”, “Il Padrino” e molti altri importanti film – e questo mi fu di grande aiuto per apprendere tutte le tecniche più importanti”. Essere rimasti a lavorare a Fabriano ci sembra una scelta in controtendenza: di solito chi vuol lavorare con lo star sistem si sposta a Roma o Milano. Come mai hai deciso di rimanere nelle Marche? “Essere rimasto a Fabriano ovviamente non ha contribuito molto a trovare lavori in questo settore; infatti appena posso scappo a Roma o Milano, ma anche li è molto difficile visto che il cinema ha dei giri molto chiusi, ma con la tenacia e la grande passione che ho riesco quasi sempre a lavorare!”. Sei contento di questa scelta? “In parte sì, Fabriano è la mia città dove ho amici e la mia famiglia ma la passione è cosi forte che non mi pesa stare spesso fuori, tornassi indietro ovviamente mi trasferirei in America dove fare questo lavoro è una cosa normalissima un po’ come fare l’impie-

gato da noi!”. Raccontaci un po’ di curiosità, di retroscena di questo lavoro così particolare: l’effetto meglio riuscito? Quello che ti ha messo più in difficoltà? Quello che ti piacerebbe poter realizzare? “Sicuramente l’effetto che a mio parere mi sia meglio riuscito, ma che nello stesso tempo mi ha messo in difficoltà, era quello di una scena per un film in cui l’attrice doveva letteralmente staccarsi mezza

guancia! In questo tipo di effetto di solito si utilizza un manichino che adeguatamente modificato abbia le fattezze del viso dell’attore, ma il regista voleva che il trucco fosse fatto senza questo espediente. Fu molto difficile realizzarlo credibile, ma alla fine devo dire che fu molto realistico! Di trucchi che mi piacerebbe realizzare ce ne sarebbero tanti sicuramente però il mio sogno resta quello di lavorare in un colossal americano!”.

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_SALUTE&BENESSERE_

Unaper tisan ogn

pensa che la tisana sia il rimedio dopo la classica abbuffata; in realtà è un aiuto a cui ricorrere per ogni evenienza. Esistono un gran numero di articoli sui rimedi naturali, come decotti e tisane, per migliorare le funzioni del proprio corpo; e ognuno va associato a un particolare effetto. Le tisane non sono solo acqua calda e qualche foglia: sono un concentrato di oli essenziali, alcaloidi, alcune vitamine, minerali e oligoelementi. L’ideale, sarebbe far diventare la tisana una compagna giornaliera, una sana abitudine: favorisce la reidratazione indispensabile a una buona circolazione e a un’efficace depurazione da tossine, accumuli, scorie; costituisce una piacevole pausa e gratifica chi avverte spesso la necessità di “mettere in bocca qualcosa” non per fame, ma per nervosismo; sfrutta gli effetti specifici delle piante utilizzate. Ad ogni tazza, si lavora per attivare alcune funzioni e prendersi cura dell’organismo. Le più note sono le tisane diuretiche e drenanti, spesso confuse tra loro. Le diuretiche sono quelle che aiutano ad espellere i liquidi in eccesso, favorendone l’eliminazione. Sono a base di malva, anice, rosa canina, ma anche uva ursina e gramigna. Si possono anche utilizzare aloe, carciofo, finocchio, tarassaco, passiflora, betulla e quercia, che agiscono stimolando le vie renali. Le tisane drenanti, hanno la proprietà di mobilitare i liquidi ristagnanti e rimetterli in circolo. Sono soprattutto a base di gambo d’ananas, betulla, edera e thè verde. Se si desidera avere un’azione digestiva è più indicato ricorrere all’uso dell’ortica, della menta o dell’anice. Contro dei gonfiori localizzati al ventre si consiglia spesso una salutare miscela di foglie di frassino, foglie di betulla e foglie di biancospino, oppure un semplice mix di foglie di thè e semi di finocchietto. Al termine di un abbondante pranzo, in qualche occasione speciale, per chi ama i sapori forti, l’ideale sarebbe una tisana a base di radice di bardana ed elicrisio, un gusto importante con efficaci proprietà digestive.

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VALENTINA VIOLA<<<


ana gni occasione Un aiuto sano e gustoso per mantenere l’equilibrio del nostro corpo Spesso ai soggetti che soffrono di stipsi cronica, si suggerisce un paio di tazze al giorno di tisana alla menta e liquirizia insieme. Alcune erbe hanno proprietà sedative, basta ricordare la camomilla. Ma queste stesse, possono essere molto efficaci: la passiflora, la melissa, il biancospino e sambuco. Per chi ha la fissazione delle diete, ovviamente vi sono delle erbe da utilizzare con proprietà “brucia grassi”, quali il thè di Giava che mobilita il grasso addominale, e l’anice che contrasta i gas intestinali; ancora più efficaci se in associazione. In ogni caso le erbe si possono mescolare e creare il mix che più si addice ai propri gusti o alle relative necessità. Sono molto semplici da preparare: basta acquistare l’occorrente in erboristeria e ritagliarsi pochi minuti per la preparazione. Sono uno dei “vecchi”rimedi della nonna, tra quelli più efficaci: depurarsi in maniera sana, permette di poter ritrovare la propria forma senza dover ricorrere a medicinali o supplizi di vario genere. Per fare in modo che la tisana sviluppi al massimo il suo effetto, migliorando l’efficacia del prodotto, l’infusione dovrebbe protrarsi per almeno una decina di minuti. Inoltre, si dovrebbe porre attenzione a tenere coperto il contenitore dell’infuso, per impedire alle sostanze volatili di disperdersi. Come tutti i prodotti naturali, anche una qualunque tisana ha alcune controindicazioni. Chi soffre di problemi a livello renale calcoli o irritazione del glomerulo, non dovrebbe assumere prodotti drenanti. Anche per le donne in gravidanza, l’utilizzo di erbe può essere pericoloso perchè possono stimolare le contrazioni uterine, in genere. Ovviamente le tisane non sono miracolose, né sostituiscono una sana alimentazione ed una costante attività fisica. Bisogna ricordarsi poi che sarebbe più corretto non zuccherarle, sia per mantenere le proprietà benefiche, sia per la linea, ma se proprio non si può fare a meno: farlo nella tisaniera e non ad ogni singola tazza, anche per non perderne il vero gusto.

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_ENOGASTRONOMIA_

Il parado d’eccelle Continua il nostro viaggio alla ricerca del piacere. Non quello scontato. Al contrario, quello in cui osare diventa sinonimo di perfezione. Un viaggio dalla tradizione all’eccellenza attraverso il cambiamento

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ILENIA PALLOTTINI <<<

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olete un consiglio per capire se quello in cui vi siete appena seduti è un ristorante da 4 stelle oppure no? Niente di più semplice. Provate a metterli un attimo in difficoltà, uscite dagli schemi, stravolgete il pentagramma classico e in base alla risposta, saprete che cosa aspettarvi dalla vostra serata culinaria. Se siete in un ristorante di pesce, sedetevi, guardate il menù e ordinate: brodetto e vino…rosato o rosso. Il volto del cameriere vi dirà se la vostra scelta è ricaduta su un ottimo ristorante o se la prossima volta dovrete informarvi meglio. Se noterete un piccolo tic nervoso, a dimostrare che lo avete sconvolto con questa bestialità, magari il cuoco sarà anche bravo ma di sicuro in quella cucina c’è poco spazio per la novità e per la ricerca. Se invece su quello stesso volto si disegnerà un sorriso accennato, piacevolmente sorpreso dalla vostra voglia di osare, allora avete scelto il posto giusto! Che pesce e vino rosso non vadano d’accordo, non è altro che una leggenda metropolitana. La loro unione crea invece, poste certe condizioni ovviamente, un’unione perfetta tale da creare un paradosso gastronomi-


dosso lenza co d’eccellenza, un abbinamento che un tempo dava quasi scandalo, ma che oggi non è niente di più che una presa di posizione, molto spesso immotivata. Vi dimostriamo perché, proponendo di portare sulla vostra tavola il brodetto tradizionale, un calice di vino rosato ed uno di vino rosso. Partiamo dal pesce per costruire il nostro abbinamento. Se ne avete voglia, divertitevi nel preparare a casa il brodetto e ancor di più nell’andare dal vostro pescivendolo di fiducia a chiedere come cucinarlo. Vedrete che da Fano a San Benedetto passando per Ancona, ognuno vi darà la ricetta tradizionale del luogo e soprattutto pronuncerà una frase che suonerà un po’ come “così si fa, non ci mettere troppo del tuo che l’interpretazione non è sempre la strada giusta!”. E diamogli ascolto: seguiamo la tradizione nel cibo e la innoviamo attraverso il vino, costruendo un ponte che conduce al piacere del gusto! Seppie, polipi, scorfano, palombo, coda di rospo, triglie e merluzzi. Fin qui la ricetta classica, quella che i pescatori preparavano nelle loro barche, quella povera. Aggiungiamoci anche scampi e mazzancolle e abbiamo la base per la nostra ricca zuppa. La cottura

del brodetto è un procedimento che va seguito alla lettera: soffritto di abbondante olio e cipolla tagliata a pezzettini piccoli; si aggiungono in padella seppie e polpi, con un bel bicchiere di vino bianco, peperoncino e sale e li si fa cuocere per una decina di minuti; poi si versa un bicchiere di aceto di vino bianco, si fa sfumare e si aggiungono pomodori e peperoni (gialli e rossi) e si fa cuocere il tutto per una quindicina di minuti. A seguire vanno gli scorfani. Dopo qualche minuto la coda di rospo ed il palombo e via via merluzzi e triglie. Dopo altri 10 minuti di cottura con l’aggiunta di un mestolo di acqua calda, vanno calati in padella gli scampi e le mazzancolle, che hanno bisogno di 3-5 minuti. Tempo totale di cottura: 50 minuti. In questa maniera, non si rischia di avere un ingrediente più cotto rispetto agli altri. Gli ultimi 15 minuti, il pesce non va più girato: si crea così il giusto grado di armonia tra i vari ingredienti. Si aggiungono fette di pane bruscato finita la cottura e si è pronti per servirlo. Il nostro è un piatto di pesce molto ricco, grasso e saporito. Il vino deve reggere il confronto per non rischiare di perdersi completamente, sovrastato dalla complessità gastronomica del nostro brodetto. In questo caso, scegliere un vino bianco significherebbe incorrere in un errore: mischiando - come vi abbiamo insegnato fin qui - un boccone di cibo ed un sorso di vino una volta deglutito, in bocca resterebbe solo il sapore del cibo. Il gusto del vino scomparirebbe. Preparatevi sulla tavola invece due calici: un brut rosé e un rosso. Assaggiate il brodetto, gustatelo e fate un bel sorso di rosé. La bollicina mixerà i sapori del pesce e riuscirà ad equilibrare la grassezza del piatto. Risultato: inghiottendo, avrete in bocca una sensazione piacevole di armonia. Continuate con calma la vostra cena. L’altro ingrediente che sempre dovete considerare fondamentale nei nostri abbinamenti è la convivialità: cucinare, così come mangiare, è passione e arricchire la propria tavola con dei commensali che siano l’ingrediente in più, è il tocco finale di ogni ricetta. Una volta finito il vostro calice di rosé brut, siete pronti per salire il gradino successivo: il tanto temuto rosso vi sta aspettando. Pesce e vino rosso è un abbinamento al quale avvicinarsi con cautela, altrimenti si corre il rischio di rovinare una materia prima prelibata, ma anche molto delicata. Più complesso sarà il nostro piatto di pesce, grasso e saporito, più si dovrà andare a scegliere un vino rosso strutturato, in grado di reggere lo scontro con il cibo e di non scomparire in bocca. Noi scegliamo un Rosso Conero giovane, un anno o due al massimo. Un vino morbido e mediamente delicato, con una modesta gradazione alcolica, una tannicità non troppo pronunciata e una buona acidità. Questo abbinamento per contrapposizione creerà il giusto bilanciamento tra la grassezza e la sapidità del brodetto e la tannicità e l’acidità del vino: nessuno dei due sapori, entrambi strutturati e forti, sarà in grado di sovrastare l’altro, ma anzi sarà capace di esaltarne il gusto. Basta parlare: provate! Eccolo, posso intravederlo: il sorriso che si dipinge sul volto, i centri del piacere attivati, le papille gustative soddisfatte…e ancora una volta, osare è stata la chiave per il piacere!

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uando una società inizia ad essere in crisi, la cultura è la sua ancora di salvataggio. Perché l’innovazione, la ricerca, nuovi orizzonti, progetti e idee da portare avanti sono le uniche strade e soluzioni possibili. Per realizzarle però, servono cervelli pronti a confrontarsi con nuove sfide, con nuove frecce al loro arco, con una capacità di guardare al di la dei confini nazionali e di costruire una rete di saperi ed esperienze che li ponga nella condizione di poter sviluppare opportunità alternative. Nel corso di tutte le tavole rotonde che fin qui abbiamo realizzato con la collaborazione dei Rettori degli atenei marchigiani abbiamo sempre posto l’accento su questo aspetto: sull’imprescindibilità di laureati che sappiano calarsi a viso aperto nella realtà contemporanea. Per farlo, progetti erasmus, lezioni in lingue straniere, più importanza alle nuove tecnologie e tanto altro ancora. Dal lato dei “contenuti” diciamo così, c’è un gran lavoro

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zare se invece che decidere per un corso di studi si tentasse l’inserimento diretto nel mercato del lavoro. Un discorso cinico, ce ne rendiamo conto. Ma un discorso attuale, senza dubbio. Sappiamo già che gli atenei premiano il merito con borse di studio e possibilità gratuita di trovare posto negli studentati. E sappiamo dall’altro lato che molti istituti bancari prevedono una linea di credito fatta appositamente per gli studenti. Ma,

Chiediamo a questo punto ai nostri Rettori, questo scenario è del tutto inimmaginabile? Oppure si sta già facendo qualcosa di simile? O ci sono possibilità di realizzare un progetto simile in futuro?

italiane stanno attraversando è preoccupante e non accenna ad invertire la tendenza. E, per quanto con infinito dispiacere, si iniziano a fare i conti e a valutare l’eventuale possibilità di mantenere un figlio agli studi: ci sono le tasse universitarie, il costo di un appartamento in affitto o quelli che comunque devono sopportare i pendolari, i libri che ovviamente non si possono fotocopiare. E il mancato guadagno che forse negli anni si sarebbe potuto realiz-

Si fa presto a dire che bisogna investire in cultura. Ma quando l’Università diventa un costo difficile da sostenere, come si fa?

futuro?

Garanti per il che le nostre università stanno facendo. Ma, ci chiediamo, dal lato della sostanza è possibile fare qualcosa? Sì, perché se 40 anni fa l’università era un lusso che si concedevano solo le menti più promettenti, se negli ultimi 20 anni frequentarla è stata una conditio sine qua non a prescindere dalle effettive capacità ed aspirazioni, adesso si è purtroppo tornati un po’ indietro. Inutile nascondersi: la recessione economica che le famiglie

_UNIVERSITA’_

per ottenere un prestito dalla banca è necessario dare delle garanzie. E se il ragazzo studia, difficilmente ha una busta paga da portare come al Direttore di banca. E, se stiamo parlando di famiglie in difficoltà, che magari hanno già un mutuo o tentennano ad arrivare a fine mese, mettersi sulle spalle un’altra rata mensile è una richiesta quasi sovrumana. E se fossero invece gli atenei a farsi garanti? Se prestassero le loro garanzie per permettere agli studenti di ottenere quel prestito che potrebbe aprire loro le porte dell’Università? Ovvio, non sempre e non per tutti. Però in presenza di forti motivazioni magari esposte direttamente a un consiglio universitario creato appositamente e di effettive possibilità di realizzare qualcosa di importante…si potrebbe pensare di dare una mano concreata, di investire proprio come operatori della cultura e della formazione in un futuro che riparta dalle giovani menti.

RUOTAMI


IL CONTRIBUTO DEL RETTORE STEFANO PIVATO

“La crisi che sta attraversando l’Italia ha tutte le caratteristiche dei più gravi fenomeni recessivi della storia. Questo significa che l’intero sistema paese rischia di avvitarsi in se stesso in quella che non a caso viene icasticamente definita “spirale” recessiva. Sono fasi attraversate ciclicamente dall’economia, ma quella attuale sta coinvolgendo in maniera profonda le società occidentali, che sbaglieremmo a voler confinare entro gli aspetti economici. E’ stato detto “l’Italia è un paese depresso” acquisendo nel concetto sia l’aspetto economico che quello psicologico. Inevitabile che così accada, quando su migliaia di famiglie monoreddito si abbatte la perdita del lavoro del capofamiglia o quella di entrambi i coniugi, con conseguenze drammatiche, soprattutto con uno stato sociale che non riesce a farvi fronte adeguatamente. Il ruolo dell’Università in queste condizioni è, verrebbe da dire sarebbe, fondamentale. Uso il condizionale perché purtroppo non vedo attenzione all’investimento nella conoscenza, nella ricerca, nell’innovazione e nei giovani. I tagli colpiscono proprio questi settori che rappresentano l’investimento di un paese civile nel futuro. L’Università rappresenta quel futuro possibile che invece, è rappresentato dai tagli feroci al Fondo di Finanziamento Ordinario, rimasto bloccato dal 2001 al 2009 ha poi subito persino tagli del 5% ogni anno. Tutto ciò ha determinato la fine di un ascensore sociale già deficitario rispetto agli altri paesi, determinando la negazione dei principi costituzionali sanciti dall’Art.34, forse il più calpestato: I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze. In tutto ciò, l’Università di Urbino offre borse di studio e possibilità di tirocinio all’estero, attraverso le borse Erasmus, Tempo fa Pierluigi Celli consigliò a suo figlio di andarsene all’estero. Nonostante tutto ci impegniamo a far sì che abbia ancora torto”.

“L’attuale situazione del sistema universitario italiano è drammatica. E non solo per il fatto che sono stati registrati ben 60mila iscritti in meno. A questo dobbiamo unire il momento in cui questo calo avviene. Stando ai dati OCSE è infatti chiaro che ad oggi l’Italia ha una dotazione di laureati pari alla metà dei Paesi competitori europei: la nostra nazione, stando così le cose, sarebbe destinata ad un declino ineluttabile. E, considerando il sempre minor numero di studenti che dopo il diploma decidono di iscriversi all’università, non solo la situazione attuale è grave, ma in futuro sarà ancora peggiore. E’ una fotografia che fa male. Ma è necessaria per capire quanto sia importante invertire questa tendenza. Un atteggiamento come quello attuale fatto di aumenti dei costi per lo studio e di un sentimento diffuso secondo il quale “laurearsi non serve più, ci sono troppi dottori a spasso” non fa altro che peggiorare la situazione. Il circolo vizioso va spezzato. Come? In primo luogo diffondendo notizie vere: non esiste un surplus di laureati, anzi al contrario dati pubblicati dal Sole 24Ore parlano di un deficit di laureati in ingegneria (meno 20.000), in economia (meno 15.000) ed in medicina (meno 7.000). Lo Stato deve poi recuperare il suo ruolo di garante al diritto allo studio, ruolo che ha decisamente abbandonato negli anni. E’ fondamentale che la politica – lo Stato centrale ma anche le Regioni – capisca la necessità di investire nello studio come tutela del futuro del Paese: con dei cittadini ignoranti non si potrà di certo stare al passo delle altre nazioni. Dev’essere un impegno forte e in totale controtendenza con le misure attuali. Esistono al momento degli strumenti di prestito che potrebbero aiutare gli studenti nel loro percorso. Ma gli italiani sono piuttosto diffidenti nei confronti di queste pratiche e non senza motivo: basta vedere quello che accade negli Stati Uniti dove si sta parlando di una bolla legata proprio a prestiti universitari che non saranno mai restituiti a causa della crisi. Serve un’inversione di sistema e serve subito”.

UNIVERSITA’ DI URBINO

IL CONTRIBUTO DEL RETTORE MARCO PACETTI

UNIVERSITA’ DI ANCONA

“In Europa – a differenza del mondo anglosassone – è poco diffusa l’idea che una famiglia o un giovane possano chiedere un mutuo per sostenere i costi dell’Università. Nessuno si meraviglia per un prestito rivolto all’acquisto di una casa o di un’automobile, ben più difficile è immaginarlo per scopi di formazione. Ciò si deve ad un fattore culturale e istituzionale, che vede nell’istruzione un “obbligo” di prestazione in capo allo Stato sociale, tanto più nei confronti degli studenti capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi. Non è facile cambiare questo indirizzo. Ciò è dimostrato dallo scarso successo di apposite linee di credito bancario. Già da alcuni anni l’Ateneo maceratese ha stipulato con Banca Marche una convenzione che permette ai propri studenti di ottenere un prestito fino a 36 mila euro, rimborsabili anche in 84 mesi, sull’onore, ovvero senza la necessità di garanzie accessorie (la richiesta rimane, comunque, soggetta alla valutazione della banca). Il prestito “Magna Charta” finanzia le spese di formazione sostenute dagli iscritti al biennio della laurea magistrale; a un dottorato di ricerca; a un master o corso di perfezionamento; agli ultimi due anni di un corso di laurea a ciclo unico; agli ultimi due anni di una scuola di specializzazione. Il prestito consiste nell’apertura di credito in conto corrente intestato allo studente e si caratterizza per l’entità del finanziamento, le favorevoli condizioni economiche, l’ampio periodo temporale per il rimborso, la ricca gamma di servizi. Quindi, esistono già strumenti finanziari che potrebbero essere rafforzati, ma la domanda è stata finora scarsa. In ogni caso, non dovrebbero essere le singole Università a farsi “garanti” del rimborso, ma lo Stato, con un apposito meccanismo promozionale, come avviene, con migliore successo, in Germania o in altri paesi del Nord Europa. Quello che gli Atenei già provano a fare è premiare, in base al reddito e al merito, gli studenti. Unimc eroga ogni anno svariate centinaia di borse di studio, che si aggiungono alle riduzioni delle tasse per reddito”.

IL CONTRIBUTO DEL RETTORE LUIGI LACCHÈ

UNIVERSITA’ DI MACERATA

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WHY MARCHE

“Ad Unicam, riteniamo che sostenere finanziariamente uno studente ‘oggi’, sia il modo migliore di investire le nostre risorse per ‘domani’, per cui da tempo abbiamo deciso di fare un ... un prestito. Al Sapere. Lo facciamo per tutti i nostri iscritti: ‘Prestito al Sapere’, così abbiamo deciso di chiamarlo, è un finanziamento riservato agli studenti dell’Università di Camerino, ad uno qualsiasi dei corsi di laurea o di formazione postlaurea, ed è destinato a supportare le spese sostenute per motivi di studio durante gli anni universitari (ad esempio tasse di iscrizione, testi universitari, affitto per l’alloggio, ecc ...). Tramite l’accordo con un istituto di credito, finanziamo allo studente una somma che rimborserà alla fine degli studi universitari in comode rate mensili. Tutte le condizioni di accesso sono dettagliate in un’area del nostro sito riservata agli studenti: possono accedere al prestito tutti coloro i quali sono regolarmente iscritti ad Unicam. Ma da sempre Unicam garantisce il diritto allo studio dei meritevoli: “Prestito al Sapere” non è l’unica forma di aiuto che il nostro Ateneo ha previsto per rendere il percorso di studi di chi si iscrive privo di problemi economici. Un corposo numero di borse di studio accompagna gli anni universitari degli studenti bravi ed in regola con gli esami: borse di eccellenza per le matricole e per le lauree magistrali, borse di merito, borse di studio per gli studenti che si laureano in corso, sono solo alcuni esempi dell’attenzione che Unicam riserva ai propri iscritti. Insomma, lo studente “mette la testa”, al resto pensa Unicam”.

IL CONTRIBUTO DEL RETTORE FLAVIO CORRADINI

UNIVERSITA’ DI CAMERINO


_FOLKLORE_

Un viaggio tra storia e c Che le Marche siano una regione che affonda le sue radici nel tempo dei secoli addietro, è cosa nota. Ma a volte la storia può essere accompagnata dall’incanto di testimonianze, che parlano tutt’altra lingua rispetto quella dei meri fatti. Le Marche sono anche una regione da pregare dove, a volte, la storia si mescola con la fede di un territorio. A confermarlo sono alcune reliquie, testimonianza di una tradizione storico-religiosa immortale.

A Visso, piccolo comune nella provincia di Macerata, la storia non è più tale e, confondendosi con la tradizione orale tramandata nelle generazioni, diviene leggenda. Questa vuole che, proprio a Visso, in passato sarebbe stato custodito uno dei trenta denari di Giuda. Quelli per cui questo avrebbe tradito la fiducia di Gesù. La memoria storica di chi è stato parroco nella chiesa Collegiata di Santa Maria, ricorda di un diario di appunti a disposizione dei parroci della chiesa, in cui si farebbe riferimento alla moneta da custodire. Forse portata a Visso da qualche pellegrino come ricordo nei secoli addietro.

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STEFANO PAGLIARINI <<<

Santa Casa Loreto È probabilmente il simbolo più forte della cristianità della regione, definita da Papa Giovanni Paolo II “primo santuario di portata internazionale dedicato alla Vergine e, per diversi secoli, vero cuore mariano della cristianità”. La Santa Casa è il luogo dove la vergine Maria è nata, vissuta e dove avrebbe concepito il Figlio di Dio. La tradizione vuole che questa sia stata “trasportata” nel 1294, dagli angeli. Portata via dalla Terra Santa nel 1291, quando i crociati dovettero abbandonare la Palestina per l’assedio dell’esercito mussulmano. Oggi, grazie alle indagini archeologiche si è concluso che la Santa Casa sia stata trasportata sì, ma via mare. Salvata dagli uomini, che avrebbero così voluto preservare i resti del santuario dall’invasione mussulmana. A testimoniarne l’effettiva provenienza sono diverse prove archeologiche, tra cui le mura delle tre pareti originarie: costituite da pietre nella sezione inferiore, per circa tre metri, e di mattoni locali in quella superiore. Pietre che si trovano solo a Nazaret, ma non a Loreto e mattoni, viceversa, che si trovano solo a Loreto e non a Nazaret.


e cristianità La testimonianza di quattro reliquie cristiane, che hanno lasciato un solco nella storia e che sono oggi custodite in quattro comuni della nostra regione.

Lancia Sacra Oggi questa reliquia è custodita nel museo diocesano di Ancona. Secondo il Vangelo di Giovanni, ma anche quello apocrifo di Nicodemo, il centurione romano Gaio Cassio Longino, avrebbe usato la propria lancia per trafiggere il costato di Gesù, sulla Croce. La punta di quella lancia oggi è conservata nel capoluogo dorico. Ma perché la reliquia sarebbe arrivata proprio ad Ancona? La storia parla del sultano dei Turchi Bajazet II, che inviò nel 1492 al pontefice Innocenzo VIII, il Sacro ferro ritrovato ad Antiochia. Il Papa, per compiacere il sultano, che voleva tenere lontano da sé un rivale, tratteneva in Vaticano il fratello Zizim. Bajazet quindi, oltre ad un pagamento annuale di quarantamila scudi, spediva a Roma la reliquia, che giungeva via mare nella città di Ancona nel 1492. I nunzi apostolici, incaricati del trasporto, di fronte all’interesse mostrato dalla popolazione dorica, decisero di esporla pubblicamente. L’ammirazione fu tale che, in segno di riconoscenza, un ambasciatore ruppe la lancia donando la punta alla città.

Copia Sacra Sindone Spostandosi nel sud della regione è possibile scoprire una copia della famosa Sacra Sindone: il lenzuolo di lino che avrebbe avvolto il corpo di Gesù Cristo, dopo che questo fu deposto dalla croce. Siamo a Borgo di Arquata, frazione di Arquata del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno. E’ questa una delle reliquie più potenti e persuasive della cristianità, se si pensa che è impregnata del sangue del Figlio di Dio, dopo che questo si è fatto morire sulla croce per salvare l’umanità. Il certificato di autenticazione è costituito da una pergamena del 1655, firmata Guglielmo Sanzia (cancelliere vescovile e notaio) e Paolo Brisio (Vescovo e conte di Alba). Il telo ha forma rettangolare (440 cm in lunghezza e 144 in altezza). Al centro, nello spazio tra le impronte del viso e della nuca, mostra la scritta “extractum ab originali”. La Sindone di Arquata fu rinvenuta durante i lavori di ristrutturazione della chiesa di San Francesco, eseguiti tra il 1980 e il 1981. Il telo si trovava in un’urna dorata nascosta dentro la nicchia di un altare. Stiamo certamente parlando di una copia (la prima Sindone è custodita a Torino), ma non nel senso di una imitazione, bensì di una fedele riproduzione voluta dalle autorità ecclesiastiche. Il motivo più plausibile sarebbe stato impedire l’estinzione della reliquia in caso di distruzione dell’originale. Si spiegherebbe così anche la scelta di un luogo così periferico. La copia sarebbe stata ottenuta facendo combaciare il telo originale con un altro, passandoli sotto rulli metallici e scaldandoli. Col calore si sarebbe ottenuta un’immagine identica all’originale e questo vuol dire che, almeno una parte infinitesimale del sangue di Cristo, è presente sulla Sindone di Arquata.

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Andrea Mariotti dalle Marche al Sahara a caccia di reperti

Un tè nel deserto el 1942, il sergente della Royal Air Force, Denis Copping decollò dalla sua base diretto al centro riparazioni dell’aviazione a bordo di un caccia Curtiss P-40 Kittyhawk. Era il 28 giugno. La campagna in Nord Africa tra Alleati e Paesi dell’Asse era nel pieno della sua brutalità. L’aereo di Copping era stato danneggiato il giorno prima. Di ritorno da un combattimento, atterrò con il bagliore del tramonto e questo causò un impatto con la pista particolarmente duro tanto che il carrello subì danni consistenti. Il giorno successivo, la sua missione fu quella di portare il velivolo in manutenzione. Andata e ritorno. Doveva decollare e compiere un breve volo fino alle linee arretrate dove si trovava il centro riparazioni. Qualcosa però andò storto. Copping scomparve insieme al suo biplano della Raf. Di lui, più nessuna notizia. Disperso in guerra come tanti altri soldati di tutti gli eserciti impegnati nel conflitto bellico. A 70 anni di distanza ecco riaffiorare dalle sabbie del tempo, la sua storia. E il suo aeroplano, ritrovato da una spedizione italiana capitanata dal marchigiano Andrea Mariotti. Falconarese di 55 anni, manager di una società petrolifera italo egiziana, Mariotti al lavoro ha unito la passione per la storia e la ricerca. Nel 2001 ha fondato la Arido (Associazione dei Ricercatori Indipendenti del Deserto Occidentale) e quando smette i panni del dirigente d’azienda, veste quelli di un Indiana Jones specializzato in deserto e II Guerra Mondiale.

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MARCO CATALANI <<<


Ora il Kittyhawk si trova al sicuro in un container fuori dal Museo delle Guerra di El Alamein in attesa di essere riportato a Londra dove la Raf lo reclama per il suo museo storico. Ma il reperto se l’è vista davvero brutta. Più del tempo, la distruzione è stata portata dallo sciacallaggio dei souvenir. I resti dell’aereo sono stati trovati lo scorso febbraio. “È stata una grande sorpresa ritrovarlo – racconta Mariotti – gli anziani che vivono nel deserto ci avevano parlato della sua presenza ma nonostante le ricerche non riuscivamo nel nostro intento. Stavamo per scoraggiarci, pensando a una leggenda”. Copping precipitò a sud di El Alamein, a circa 300 chilometri dai primi centri abitati. La prima oasi si trova a 52 miglia. Il gruppo di Arido ha percorso la rotta che gli inglesi utilizzavano nel deserto per attaccare gli italiani ad El Alamein. Finché non si è imbattuto nella carcassa del P40. La scoperta è stata subito comunicata sia alle autorità egiziane che al comando dell’esercito inglese di stanza al Cairo. Purtroppo, nonostante il riserbo mantenuto dagli esploratori italiani, la voce è circolata. Ed è iniziato una sorta di pellegrinaggio turistico per visitare il cimelio. Tra vandalismo e sciacallaggio, il reperto è stato parecchio danneggiato rispetto a come lo avevano ritrovato Mariotti e i suoi. E Copping? A 6 miglia dal relitto, a giugno, sono state ritrovate dal gruppo italiano una decina di ossa: vertebre, costole, una clavicola, un piede. Più un lembo di paracadute - “può averlo portato con sé per ripararsi dal sole” spiega il ricercatore-, un bottone dell’uniforme delle Forze Armate di Sua Maestà e un ciondolo in rame. Sono i resti del sottoufficiale? Gli italiani pensano di sì. Copping sbagliò rotta. Il suo aereo aveva il carrello rotto e due fori sull’ala. Anche la radio era fuori uso. Dopo l’atterraggio di fortuna, probabilmente ferito, cerco di mettersi in salvo. Aveva poca acqua e scarsi viveri. L’esercito inglese, in ritirata per l’offensiva italo-tedesca, lo abbandonò al suo destino. Spera sia lui il nipote, figlio della sorella del militare, che oggi vive in Irlanda e sta reclamando la salma del parente. Le autorità militari inglesi non sembrano però orientate sul prosieguo dell’indagine. L’intera zona si trova sotto la loro giurisdizione. Per visitarla occorrono pass speciali che non vengono più rilasciati. Un esame del dna, tra l’altro, con un parente di grado così lontano, non darebbe un risultato preciso. Più la spesa che l’impresa, insomma. Un ragionamento che a Mariotti non piace affatto. “Sono pronto a tornare nel deserto e dare degna sepoltura a quei resti” giura. Le scoperte della Arido non si fermano qui. Il cimitero della Folgore o del km42 della Pista dell’Acqua, ritrovato in località Gebel Sanhur e che ospita le tombe di 139 paracadutisti italiani (99 dei quali ignoti) è stato restaurato a ottobre durante la missione (tra il 16 e il 21) per il 70esimo anniverario della battaglia di El Alamein. Alla cerimonia ufficiale, ospite di Arido, anche Santo Pelliccia, reduce del IV Battaglione della Folgore. A circa sei chilometri da Gebel Sanhur, nel mese di settembre questi esploratori del deserto hanno ritrovato, a Gebel Khalak, i resti di El Ghenesa, ovvero “la chiesa”, il luogo dove i soldati italiani andavano ad ascoltare la messa e a pregare. Inghiottita dalla sabbia, si intuiscono i gradoni che conducevano all’altare, situato più in alto. Arido è intenzionata a ripulire l’intera area. Il restauro di El Ghenesa è previsto per la primavera.

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Il paese dei balocchi

Quando iniziai a chiedere – partendo dal sindaco per arrivare ai ristoratori passando per la gente incontrata per strada – di descrivermi il Carnevale Storico di Offida, più o meno tutte le risposte suonarono nello stesso modo: “posso descrivertelo, ma se non lo vivi non puoi capire”. E che sarà mai? Però ammetto che quella luce nei loro occhi quando rispondevano alle mie domande, ha stimolato la mia curiosità, tanto da convincermi a viverlo questo carnevale. Certo, non come gli offidani. Per loro, l’atmosfera carnascialesca apre le porte subito dopo il 17 gennaio, giorno della festa di S. Antonio, e le chiude quasi un mese dopo il giorno del giovedì grasso. A me sono bastati due giorni per capire quanto questo sia diverso da tutti gli altri carnevali. Non ci sono carri, non ci sono sfilate mascherate ma soprattutto non ci sono spettatori da un lato e protagonisti dall’altro. Tutti sono parte attiva. Un mare di gente festante e colorata che affolla le piccole stradine del centro storico e riempie la meravigliosa piazza del Popolo. Non ci sono differenze di alcun tipo durante il carnevale: né di età, né di classe, né di sesso. Tutti vanno a braccetto, disegnando i contorni di un mondo che sembra quasi fantastico. Si respira il folklore, quello vero. Si vive la tradizione e tutti, nessuno escluso, vi prendono parte. Se avrete la fortuna di vivere il Carnevale con un offidano, vi si apriranno le porte della città. E non in senso figurato. Mentre camminerete per i vicoli e vi imbatterete nelle pazze congreghe con il loro stendardo, i loro colori, le loro maschere, che suonano e cantano, ogni tanto vi infilerete nel portone di una casa. Sì, perché qui la condivisione è parte integrante della festa. In ogni casa troverete un tavolo imbandito, un buon bicchiere di vino e un’atmosfera goliardica che non potrà che coinvolgervi. Dopo aver partecipato al Carnevale storico di Offida, non posso che darvi lo stesso consiglio dato a me: vivetelo, partecipate perché qualsiasi racconto non potrà rendergli giustizia!

La Domenica degli Amici

Due settimane prima della domenica di carnevale, si celebra questa giornata: un carnevale nel carnevale. A Offida accorrono migliaia e migliaia di persone, le congreghe e i loro amici si incontrano per dare il via ai festeggiamenti con pranzi tipicamente ispirati alla tradizione offidana. Tutti i ristoranti e tutte le case sono piene, creando un’atmosfera molto vivace, particolare, di festa.

Il bove finto

È uno degli appuntamenti imperdibili di questo carnevale storico, per il quale accorrono nel borgo persone provenienti da tutto il mondo. Questa particolare e goliardica cerimonia prende ispirazione da un’usanza che i signori di Offida avevano: il venerdì grasso omaggiavano i più poveri di un bue che veniva liberato per le vie del centro storico, inseguito dai cittadini che infine lo matavano. Oggi, il bove è realizzato con una struttura in ferro e legno e viene portato per le vie del centro storico da due persone: una sotto il telaio completamente coperta e l’altra al fianco a fare da guida. Il bove inizia a muoversi per vicoli e piazze intorno alle 14, accompagnato da un fiume di gente. Gli offidani indossano il guazzarò o l’altra tipica maschera offidana, i mutandoni: pantaloni bianchi fino al ginocchio, camicia rossa, gilet per lo più rossi e calzini rossi. Il bove viene accompagnato in giro pero per il paese fino al tramonto, quando deve essere “matato”. Operazione tutt’altro che facile perché nessuno vuole che questo accada: altrimenti la festa finisce! Per matare il bove si deve fare in modo che la sua testa tocchi una delle colonne della Palazzo Comunale. Una volta sopraggiunta la morte, al bove si mette un drappo rosso in testa e lo si accompagna in corteo funebre lungo lo stesso percorso fatto nel pomeriggio. A fargli da scorta, le congreghe che suonano e cantano la canzone simbolo del carnevale offidano: Addio Ninetta addio.

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ELEONORA BALDI


I veglionissimi

Tre sono quelli più importanti e si svolgono tutti al Teatro Serpente Aureo. C’è il Gran Galà del sabato sera, al quale bisogna partecipare rigorosamente in abito da sera. Poi la domenica sera, il Veglionissimo Mascherato con le esibizioni dei gruppi mascherati che si alternano sul palco del teatro. Infine, il lunedì, il Veglionissimo di Carnevale: dalla mezzanotte in poi, iniziano ad entrare le Congreghe – in ordine cronologico di costituzione - che portano il proprio saluto e si esibiscono.

Le congreghe

Sono loro la vera anima del carnevale, riempiono l’aria di musica e canti, fanno ballare i passanti per strada, interrompono le cene all’interno dei ristoranti per coinvolgere i turisti nell’atmosfera carnascialesca. Le congreghe sono dei gruppi mascherati che si caratterizzano per la musica, delle mini bande musicali ognuna con il proprio stendardo e la propria simbologia. La prima congrega a nascere fu quella del Ciorpento nel 1958, ispirato alla leggenda che vuole che sotto le Grotte di Offida si trovi un leggendario tesoro costituito appunto da un Serpente Aureo. Non può mancare ovviamente anche una parte goliardica che accomuna il Ciorpento al simbolo fallico ed è proprio per contrapposizione che nasce la seconda congrega storica, quella della Ciuetta. Ad oggi, le congreghe sono 13: Mangusta, Tirolesi, Gancio, Cappucci Rossi, Gabbia, Allegra Nobiltà, Orsi, Ptona, Mescal, Guazza, Rondinelle, Aquila, oltre alle due già citate. Durante la settimana del Carnevale le congreghe diventano padrone della città, quando simbolicamente il sindaco consegna ad una di esse le chiavi di Offida.

Da giovedì a martedì

La settimana clou del Carnevale Offidano. La città praticamente si ferma: non c’è più tempo per pensare ai problemi lavorativi, per fare i conti con la crisi, per pensare al compito in classe o all’interrogazione. Il Paese dei Balocchi apre ufficialmente le sue porte e si pensa solo al divertimento, alla musica, alla tradizione. Il martedì grasso, nella sala consiliare del Comune si celebra il momento rituale per eccellenza: il sindaco consegna le chiavi della città alla congrega prescelta – quest’anno quella della Guazza. Da quel momento c’è una sorta di anarchia, le congreghe gestiscono la città. Durante il cerimoniale il Sindaco indossa il vestito tipico del carnevale offidano: “lu guazzarò”. È questa la maschera simbolo di Offida e prende il nome da un copri-corpo che i contadini utilizzavano andando in campagna per proteggersi dalla guazza: un panno di cotone molto spesso, con toppe di colore diverso - in modo particolare rosso - e un fazzoletto rosso al collo. Il guazzarò del Sindaco si completa con una fascia tricolore.

I vlurd

L’ultimo appuntamento, il martedì che precede le Ceneri. L’inizio della giornata è all’insegna della festa: dalle 14.00 i gruppi mascherati iniziano a ritrovarsi per il pranzo, momento conviviale importante che dà il via alla giornata. Poi ci si riversa in piazza del Popolo dove il Grande Veglionissimo raccoglie le tantissime maschere che aspettano la fine del carnevale. Tutte le case del centro storico sono aperte: la condivisione è un altro elemento fondamentale di questo carnevale assolutamente popolare e folkloristico nel senso più vero della parola. Intorno al tramonto, la musica di colpo di spegne e viene sostituita da “Addio Ninetta addio”. La congrega del Ciorpento inizia ad accendere il primo Vlurd: un grande fascio di canne molto alte, portate a spalla dai cittadini vestiti con il loro guazzarò, per tutto il centro storico. Una processione davvero suggestiva ed unica nel suo genere, che simboleggia la fine del Carnevale e la purificazione di tutti i peccati commessi in questo periodo di goliardia. Una volta compiuto il giro, ogni vlurd viene appoggiato nel grande falò che prende vita al centro della piazza: il Carnevale è bruciato e l’appuntamento è all’anno successivo.

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Nuovi o e pensi alla fisarmonica come la descriveresti? “Se penso al mondo della fisarmonica penso a un mondo che ha tanto bisogno di evoluzione, perché fuori dal sistema fisarmonicistico c’è pochissima informazione su questo strumento che merita davvero di essere conosciuto. Collaborando con grandi cantanti che hanno creduto nelle potenzialità di questo strumento – Massimo è il fisarmonicista di Biagio Antonacci, ndr – ho avuto la prova sui grandi numeri, di come la gente comune che ha scoperto lo strumento attraverso formule diverse, è riuscita a capirne la versatilità e ad amarla”. È un’esigenza che riscontri solo in Italia o anche negli altri Paesi? “È un bisogno che riscontro un po’ in tutto il mondo. C’è una tendenza ad alienare la fisarmonica dal resto del comparto musicale: i fisarmonicisti stanno con fisarmonicisti e gli altri musicisti con gli altri musicisti…un po’ come da piccoli si stava maschi con maschi e femmine con femmine! La fisarmonica nell’immaginario resta legata alla musica popolare che è importante sicuramente, io stesso vengo dal mondo del liscio. Però questa concezione è limitante. Ci deve essere un’evoluzione. La fisarmonica è uno strumento giovane e ha bisogno di più tempo. Ci sono pochissimi esponenti che hanno provato a seguire questo processo di evoluzione e noi professionisti dobbiamo fare in modo invece che accada”. C’è bisogno quindi di fondere la musica popolare, con…? “Con la musica un pochino più di cultura diciamo, con il pop anche dove negli ultimi 20 anni la fisarmonica inizia a trovare il suo posto. Molti cantanti hanno iniziato a capire che questo strumento ci può stare. Però 20 anni sono pochi”. Vent’anni. Da che cosa parti per identificare questo arco di tempo nel quale la fisarmonica è cresciuta? “Parto dalla morte di Piazzolla. Questo evento tragico ha prodotto un risveglio. Si cominciò a capire che la sua musica poteva essere portata nelle accademie, nei jazz club. Attraverso il bandoneon, dai primi anni ’90 si sondarono le possibilità inesplorate di questo strumento. Altro esponente importantissimo per questo risveglio fu, in Europa, Richard Galliano che faceva esperimenti molto azzardati, più di quelli che fa adesso. È stato lui uno dei primi a portare lo strumento su grandi numeri di ascolto”. Stando alla tua personale esperienza, inizia a esserci adesso una maggiore attenzione nei confronti della fisarmonica?

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Quante volte avremo sentito “Non vivo più senza te” di Biagio Antonacci? Ecco, quel suono che ci trascina è quello della fisarmonica e a suonarla è Massimo Tagliata. Un mostro sacro di questo strumento, nato a Castelfidardo, ma rimasto troppo legato ad una concezione tradizionale. Delle grandi prospettive che la fisarmonica può avere e dell’idea, diventata realtà di organizzare un Festival finalmente innovativo parliamo con Massimo.

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ELEONORA BALDI <<<


i orizzonti Ad essi dovrebbe puntare secondo Massimo Tagliata la fisarmonica. Nell’anno in cui festeggia il suo 150 anno d’età è per “lei” l’ora di spiccare il volo

“Da un po’ di anni ormai attorno a me inizio a vedere molto interesse. Vengono da me perché vogliono scoprire, capire come si mettono insieme certi suoni, come questo strumento può essere portato in determinati stili musicali. Soprattutto gli addetti ai lavori, i cantanti, i produttori piccoli o grandi che siano, hanno curiosità verso questo suono che ha tante sfumature”. Sicuramente però c’è bisogno di avvicinare la fisarmonica anche al pubblico… “Sì ed è proprio questo uno degli aspetti sul quale il nostro Festival, The World of Accordion, vuole puntare. Vero è che a differenza di quanto si possa pensare, è molto più facile avvicinare la gente comune, perché il pubblico non ha preconcetti, è vergine, ha bisogno di cose vere. Gli addetti ai lavori invece guardano a ciò che non conoscono con una certa diffidenza. La gente ti viene ad ascoltare spesso senza sapere che cosa succederà; non valutano le note, ma ti ascoltano col cuore, vogliono che quello che tu fai gli arrivi. Il pubblico ha orecchie e cuore sempre aperti. I “tecnici” sono molto più difficili; tanta strada è stata fatta per arrivare fino ad ora, momento in cui la fisarmonica sta riscuotendo attenzione. Penso ad esempio alla fatica che ha fatto uno dei miei maestri Frank Marocco, per portare il suo sound al di fuori dei soliti concetti, per convincere gli addetti ai lavori…vita più facile aveva invece quando suonava davanti al pubblico: subito si rendevano conto che era qualcosa di importante. Lo stesso Piazzolla è stato osteggiato dai musicisti suoi contemporanei”. Torniamo al Festival. Visto che ne sarai il direttore artistico, puoi darci qualche anticipazione? “L’obiettivo del Festival è far conoscere la fisarmonica come strumento di aggregazione. Io ho girato l’Europa, il mondo, mi sono trovato a suonare in sessioni musicali improvvisate, che i jazzisti chiamano jam session, con il mio strumento e ho trovato poca resistenza, sono sempre stato accolto bene. Da lì iniziai a capire che la fisarmonica aveva bisogno di essere aggregata ad altri strumenti, di essere apprezzata non solo come strumento che può suonare da solo ma soprattutto che può essere sentito insieme ad un’orchestra di violini, alla batteria, al contrabbasso, alla chitarra elettrica. Purtroppo però proprio nella sua patria, la si relega al ruolo di strumento popolare, povero di contenuti. Fuori dai nostri confini, per assurdo invece sono sempre stati un pelo più avanti. Per cui, noi che il mondo lo abbiamo girato, cercheremo di portare qui a Castelfidardo le nostre esperienze. Questo è quello che vogliamo fare noi organizzatori – si riferisce a Elke Ahrenholz-Breccia ideatrice e responsabile del Festival ndr – riportando nel nostro Festival il nostro vissuto musicale, le esperienze, gli incontri, gli insegnamenti che abbiamo colto nel mondo come musicisti, costruttori, compositori ed anche produttori discografici. Ogni giorno porteremo a Castelfidardo un genere diverso; ci sarà un giorno dedicato alla musica classica, uno a quella popolare, uno al tango, etc…presenteremo la fisarmonica in veste diversa, in registri diversi per cercare di dare un nuovo segnale proprio nella patria dello strumento. In questo modo, gli appassionati potranno decidere in quale giorno venire, a quale genere dare attenzione o se seguire tutta la settimana.

Cercheremo di dare spazio alle nuove realtà, sarà anche un festival molto innovativo, con musicisti giovani, che hanno gruppi, che hanno delle realtà musicali che funzionano, ma che si conoscono poco. Inviteremo anche Direzioni di altri Festival perché poi vorremmo che questo format possa essere replicato. L’idea è anche quella di creare un evento che possa essere “esportato” anche in altre parti d’Italia, il tutto nell’interesse della promozione della fisarmonica!”.

The World of Accordion. 29 Giugno – 7 Luglio 2013, Castelfidardo 29 Giungo: Musica da Camera 30 Giugno: Varietè Enterteinment e Musica Leggera 1 Luglio: Ballroom Orchestra con la fisarmonica 2 Luglio: Classic e Contemporanea 3 Luglio: Tanto e Piazzolla 4 Luglio: Accordion Orchestra 5 Luglio: Jazz e Fisarmonica mondo 6 Luglio: Pop-Rock Fisarmonica 7 Luglio: Folk e Organetto

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_FOLKLORE_

La Rocca d

Continuiamo il nostro tour tra i misteri delle Marche. Abbiamo deciso di farci guidare in questa nostra scoperta parallela del territorio, da una mappa fatta di supposizioni e punti interrogativi. Alcuni sono tuttavia più “provati” di altri: in alcuni castelli, manieri e città ci sono dei fantasmi riconosciuti, con tanto di nome e cognome. Certo, nessuno ci si è mai fatto una foto amichevole sorridendo verso l’obiettivo, ma la storia ha aiutato a costruire delle ipotesi aventi un protagonista, femminile o maschile, con il suo vissuto ed il suo motivo per infestare quel particolare luogo. Non sempre però è così. A volte le congetture non riescono a dare un nome ed un volto più o meno reale all’ectoplasma che colora i racconti della tradizione popolare. Così, accade per esempio per la Rocca Roveresca di Fossombrone. Qui, i ricordi di strani e sinistri rumori, di voci che si confondono con aliti di vento, di lamenti che accompagnano l’oscurità della notte, si perdono nella memoria di chi allora bambino, oggi racconta ai nipotini quel tempo che fu.

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a storia della Rocca di Fossombrone è diversa dalle altre. Non solo non c’è un riferimento preciso rispetto alla presenza che aleggi lì attorno, ma non è neanche più possibile andarla in qualche modo a ricercare. Oggi infatti questo monumento del passato non è più visitabile. Da tanti anni ormai, è stata abbandonata a se stessa, vittima della burocrazia italiana che impone una serie di cavilli infiniti prima di poter avviare un’opera di restauro. E così questa testimonianza di forza del passato giace oggi, quasi nascosta tra rovereti e sterpaglie, così come i suoi segreti sepolti nel complicato intrico dei cunicoli, dei passaggi segreti e delle gallerie di mina e contromina. L’imponente opera dell’architetto Francesco di Giorgio Martini però, non è sempre stata preda della natura e della dimenticanza degli uomini. Anzi, era appunto un

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a del mistero È il non sapere che crea suspense. L’immaginare, ma il non poter verificare. Il supporre, ma il non avere le prove. Nasce da qui la magia e la leggenda della Rocca Roveresca di Fossombrone

baluardo, inavvicinabile e potente. Sovrastava la città e da lì i nemici venivano tenuti sotto controllo e tante e tante volte proprio grazie a quel punto di osservazione privilegiato, venivano respinti e vinti. Tante volte…ma non sempre! E da qui nasce forse la leggenda degli spiriti intrappolati entro i suoi confini… Arroccata su di uno spuntone roccioso, la Rocca non subì mai alcun assalto ne assedio. A decretarne la fine, fu proprio colui che nella sua grandezza rifletteva la propria: la rocca fu infatti fatta saltare in aria per ordine del duca Guidobaldo d’Urbino, che di Fossombrone era il signore. E perché mai vi chiederete? Perché nella guerra contro Cesare Borgia – il Duca Valentino del quale spirito vi abbiamo parlato proprio qualche numero fa – la sconfitta delle truppe del signore di Urbino era pressoché scontata: troppo formidabile l’esercito del nemico! E allora, piuttosto che concedere nelle mani del Valentino la sua roccaforte, Guidobaldo preferì distruggerla: una mossa intelligente, apprezzata perfino dal Machiavelli, consigliere supremo di Borgia. Un destino strano quello della Rocca. Come strani sono i rumori, i sibili, i sussurri che gli anziani di Fossombrone raccontano di aver sentito quando, da piccoli giocavano divertendosi a immaginare le storie, a impersonare soldati e nobili del tempo passato.

Alcuni parlano di un soldato sepolto dal crollo della rocca che implora pace per la sua anima errante, altri fanno riecheggiare nelle segrete della Rocca i lamenti del fantasma di Paolo Malatesta, detto il leggendario amante della bellissima Francesca da Rimini, altri ancora balenano l’ipotesi che la rabbia di esser stato beffato abbia condannato proprio il Borgia a vagare senza tregua per i cuniculi. Difficile dare un nome a queste oscure presenze. Difficile anche come al solito, decidere se credere o meno alla leggenda. Quello che è certo è che gli abitanti della Cittadella, il più antico nucleo della Fossombrone moderna, un pugno di vecchie case, aggrappate alla roccia a creare un colpo d’occhio insieme affascinante e suggestivo, ci credono. Passando per le viuzze della Cittadella durante la notte di Ognissanti scoprirete infatti che questo è forse l’ultimo luogo in cui si perpetua l’antichissima usanza marchigiana di esporre al di fuori della porta di casa un recipiente d’acqua per tenere distante gli spiriti maligni e le influenze nefaste. Forse che il mantenere questa tradizione sia il modo degli abitanti più vicini alla Rocca di proteggersi? Chi lo sa…il mistero anche questa volta è servito!

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_MOTORI_

A spasso con il campione

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Chi sono Tablino e Traino Campanelli?

Traiano: “Io sono il secondo di cinque fratelli. Tutti e cinque viviamo l’esperienza di questa impresa familiare, la tipica azienda marchigiana piccolo/media, di tipo verticistico. A capo c’è nostro padre che porta avanti l’attività; noi lo seguiamo portando del nostro. L’OPI è un’impresa metalmeccanica che si occupa di produzione di estintori, antincendio, service e manutenzioni. Fondata nel 1966 da nostro padre Tiziano Campanelli, da qui a due anni festeggerà i suoi 50 anni. Inizialmente ci si occupava solo di produzione, poi anche di manutenzione ed oggi, sia per necessità di mercato che per garantire uno sviluppo ordinato dell’azienda, seguiamo anche la gestione della sicurezza”. Tablino: “Io sono il quarto fratello. Ho 34 anni, sono sposato ed ho una figlia. In azienda mi occupo del marketing ed in modo particolare seguo la situazione delle centrali della Idrocarburi Edison Gas. Due anni fa, nell’ottica di una necessaria diversificazione, l’azienda ha acquistato una struttura ricettiva in Grecia, della cui gestione mi occupo io”.

Nel vostro lavoro la sicurezza è fondamentale così come lo è per me nella mia professione. Che cosa ne pensate della sicurezza e che cosa fate per garantirla?

Traiano: “Una volta ho incontrato una persona che parlando del nostro lavoro mi ha chiesto: ‘ma voi vi occupate di safety o di security?’: mi ha messo in difficoltà! Detto questo, la sicurezza è un elemento fondamentale sia per le attività che per voi piloti. Di sicurezza se ne parla ormai da 15 anni, dall’entrata della 626; ma in realtà di questa materia si discuteva già negli anni ’30 anche se in modo non proprio determinato. Oggi c’è un’attenzione più marcata. Abbastanza è stato fatto, ma secondo me non abbiamo ancora capito bene qual è l’obiettivo sicurezza all’interno delle aziende. Noi ci siamo sempre occupati di attività produttiva: metalmeccanica, produzione estintori, realizzazione di apparecchi nell’insieme estremamente semplici, ma fatti bene. L’impegno, la nostra dedizione è quella di continuare a realizzare prodotti Made in Italy, realizzati seguendo uno standard qualitativo elevato anche se di tecnologia ed innovazione non ce n‘è tantissima. Come diceva prima Tablino, diversificare è fondamentale. Per questo abbiamo avviato anche un’attività di consulenza sulla progettazione, gestione e formazione

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La forza nella sicurezza Protagonista della chiacchierata a mente aperta con Leo Isolani sono questa volta Tablino e Traiano Ruffo Campanelli, titolari dell’azienda OPI srl di San Benedetto del Tronto


nei diversi ambiti della sicurezza. Ci stiamo trasformando da produzione a service: il servizio deve essere completo”.

Per lavoro vi occupate di sicurezza, nel vostro tempo libero?

Tablino: “La mia passione principale è la cucina. Sono una persona molto socievole, ecco perché gestire questa struttura ricettiva in Grecia mi appassiona tanto. Abbiamo acquistato questo hotel nell’agosto del 2010: l’Hotel Sidari Beach che si trova a nord dell’Isola di Corfù – www.hotelsidari.com. Portare avanti la ristrutturazione della struttura non è stato affatto facile: la situazione in Grecia era piuttosto complicata in quel periodo. Poi lo scorso luglio, il 15 per esattezza, abbiamo inaugurato: è stato un grande successo. Le recensioni in internet ci danno un punteggio di 9.9. E’ stata premiata in modo particolare la mia cucina e questo mi inorgoglisce; ma anche l’accoglienza, la pulizia. Una signora una volta mi disse ‘non ti preoccupare, sicuramente darai un tocco in più rispetto a chi fa già questo per mestiere’: e devo dire che questo si è verificato! E la curiosità è che in realtà io amo molto più la montagna che il mare, che odio; per me lo sport in assoluto è lo sci”. Traiano: “Il tempo libero lo impegniamo anche per altre iniziative importanti. Sosteniamo un’associazione oncologica che porta il nome di nostra madre, l’ ASMO Viviana Campanelli – www.asmovc.it - : sono ormai 10 anni che portiamo avanti con grande impegno questa attività, proprio perché avendo noi attraversato per primi questo periodo difficile comprendiamo quanto ci si trovi nel buio, nel vuoto dopo il momento del ricovero ospedaliero. E ovviamente voglio ringraziare tutti i volontari che ogni giorno si impegnano in questa battaglia di solidarietà ed aiuto”.

Grazie a questo vostro impegno avete anche ottenuto dei riconoscimenti di grande valore…

“Nostro padre è Grande Ufficiale di Croce. Io qualche anno fa fui nominato Cavaliere della Repubblica e quest’anno anche Tablino è stato investito di questa onorificenza: un riconoscimento piacevole per tutte le nostre attività extra imprenditoriali che ci fa mantenere vivo l’interesse a sostenere queste associazioni. Troppo spesso ci si dimentica dei volontari che portano sulle spalle croci di altri senza che nessuno gliel’abbia chiesto!”.

non possiamo toccare; dobbiamo però lavorare su altri fronti e avere una risposta veloce perché altrimenti gli imprenditori si sposteranno sempre di più all’estero”. Tablino: “Questo secondo me è un grande errore. Oggi l’imprenditore deve soffrire finchè c’è il periodo di crisi: comunque potrebbe essere un’occasione per il futuro. E’ brutto dirsi, ma sui problemi di alcuni si possono costruire le fortune di altri: tanti anni fa c’erano poche possibilità e poche chance, chi aveva le potenzialità e la forza ha potuto sfondare. Oggi, liberandosi il mercato per colpa della crisi, un imprenditore forte e competente può sfruttare questi vuoti e andare avanti. Ovvio è che lo Stato deve stare vicino all’imprenditoria ed attuare questi famosi tagli pubblici che a mio avviso sono la prima cosa da fare”.

Un consiglio che dareste ad un imprenditore, a chi in questo momento vuole avviare un’impresa in Italia?

Tablino: “Ci vuole tanta forza e tanto coraggio oggi. Il vero imprenditore deve rimanere sul mercato, non abbattersi perché la crisi è sì un grande problema, ma può creare qualcosa di nuovo, una nuova onda da cavalcare. Il Made in Italy nel mondo è ancora un biglietto da visita importante che deve rimanere e va incentivato”. Traiano: “Devo essere sincero? Io consiglierei di pensarci bene perché o si ha un prodotto che va da solo oppure è veramente difficile perché aprire un’attività porta via tanto tempo che perdi la corsa in partenza…” Tablino: “Però se non lo fai, arriva il cinese e lo fa al posto tuo!” Traiano: “Il problema è che il cinese apre in Italia senza autorizzazioni, bypassando tutte quelle che sono le normative! Comunque la mia era una battuta. E’ ovvio che se si ha l’idea di avviare un’impresa è perché si ha quell’impeto, quell’impulso di fare qualcosa che non va assolutamente represso. Oggi come oggi però ci si trovano di fronte dei muri difficili da scavalcare. Noi rimarremo comunque nelle Marche, stiamo lavorando. A denti stretti, ma rimarremo qui e andremo avanti”.

Cosa ne pensate di questa crisi e dei tanti imprenditori che preferiscono spostarsi in Europa?

Traiano: “La crisi è strutturale, ma è stata voluta da tutti noi: è la conseguenza di comportamenti tenuti in questi ultimi 20 anni, causati anche da una malagestione politica che ci ha portato alla crisi. Molti delocalizzano perché ci sono delle zone franche in cui costa tutto meno; ma questo non è altro che un palliativo, perché si troveranno altri tipi di problemi. Spesso si va fuori perché si cerca una risposta in termini di velocità: in Italia c’è una fiscalità esasperata, il costo del lavoro proibitivo, l’energia che spara a zero, lo Stato che è debitore e che non paga. Tutto ciò grava sull’imprenditore e quindi sul lavoratore: tutto si ferma. Lo Stato deve dare una risposta concreta: una compensazione tra crediti e debiti. L’Italia è hub strategico per il gas; lo Stato potrebbe prevedere per un anno o due un pagamento al 50% dell’energia. Abbiamo uno Stato Sociale importante che WHY MARCHE

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_STYLE & FASHION_

Un tatuaggetto

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erchè indossi una tuta se non stai uscendo a fare jogging? Me lo domando spesso e come me altri utopisti che ancora si battono, Giovanne d’Arco da girarrosto, per la difesa del buon gusto. Lungi da me la voglia di ergermi a censore dei costumi odierni, ma oggettivamente taluni passano, e ahimè lasciano il segno. Quando nel rituale passeggio domenicale sfilano graziose bamboline con piumino e calzoni da ginnastica o baldanzosi giovinotti con montgomery e pantaloni di felpa, capisci che la fine è vicina, che l’immagine che ti si para di fronte non è distante da quella che passò nelle pupille di Romolo Augustolo quando Odoacre diede il colpo di grazia all’Impero Romano d’Occidente. Perché infliggere all’onesto cittadino nel suo meritato pomeriggio di shopping questa squallida visione? Già il piumino (un giorno parleremo di questa piaga sociale) ti trasforma nella fotocopia dell’Uomo Marshmallow dei Ghostbusters, perché aggravare la situazione indossando pantaloni in jersey (stoffa che si contende con il pile una condanna per crimine contro l’umanità), pure abbinati con Timberland da paninaro? Tutti indossiamo quelle tute di acetato con righe laterali carabinieresche per spolverare i pensili o dare lo straccio in bagno; tutti guardiamo Real Time accovacciati sul divano con la tisana drenante arrotolati dall’alga nori/plaidinpile dell’Ikea, con indosso pantaloni grigi coi polsini alle caviglie. Tutti chiudiamo la zip di una maglia in poliestere con scritto Podistica Amatori Vattelappesca sopra quella del pigiama per prendere il caffèlatte la mattina, quando la casa è gelida perché i termosifoni sono spenti, visto che l’ultima bolletta era pari al prodotto interno lordo del Lussemburgo. Ma perché traghettare queste usanze che rasentano il barbonaggio al di fuori delle mura domestiche?

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A N D R E A C O Z Z O N I <<<

ANDREA COZZONI


ttoqwertyuiopasdfghjk Eppure siamo nel momento storicamente più attento all’estetica, forse bisognerebbe domandarsi a quale estetica? La tuta, prima da lavoro poi sportiva, ha natali nobili, nasce con il preciso scopo di rendere confortevole l’attività lavorativa o ginnica. Anche se parlare di sport in questo spazio può risultare parossistico, mi permetterò lo stesso una piccola digressione sulla storia dell’abbigliamento sportivo. Antica Grecia, culla della democrazia e permettetemi di azzardare, dello sport; non a caso nella penisola ellenica nascono le Olimpiadi, che nemmeno anni di sconsiderato doping sono riusciti a cancellare. Allora gli atleti gareggiavano nudi o con leggeri pepli a tener ferme le pudenda ballerine durante la maratona. C’è voluto il castigato cristianesimo per coprirli di pesanti calzamaglie e tessuti grezzi, che nei secoli si sono raffinati fino a raggiungere un’eleganza ostentata verso la fine del Settecento, inizio dell’Ottocento. Periodi in cui l’attività sportiva era praticata da pochi rampolli di sangue blu che, essendo dispensati da qualsiasi pesantezza fisica nel quotidiano, adoravano tenersi in allenamento con pittoresche battute di caccia o aristocratiche partite di volano. Il XX secolo rende lo sport un’attività democratica e accessibile (qualcuno ha sentito mai parlare del gioco del calcio?) e l’industrializzazione e la produzione in serie hanno fatto il resto. Solo verso la fine degli anni 70 la tuta si solleva dalla polvere della pista di atletica e diventa capo da sfoggiare, nella musica, al cinema, in televisione, per strada. Dai rapper americani alla Sporty Spice del fenomeno pop più eclatante degli anni 90: le Spice Girls; dall’indimenticabile tuta gialla di Bruce Lee re-indossata da Uma Thurman in Kill Bill di Tarantino a quella rossa dell’allampanato Ben Stiller nel film culto I Tenenbaum. Le più recenti sono quelle (ahimè) di ciniglia lanciate da Simona Ventura e quelle glitterate, indossate dagli Amici di Maria DeFilippi. Esempi di quanto l’indumento tuta abbia viaggiato nell’immaginario collettivo contemporaneo e si sia infiltrato in tutte le fasce di popolazione. Copiare e incollare nei nostri outfit futili trovate di marketing e stupide mode passeggere porterà il genere umano all’autodistruzione o almeno alla progressiva perdita del senso di quella che un tempo chiamavano decenza.

Ma ora mi tocca fare la figura del reazionario, ruolo che non mi compete, per cui largo alle tute. Non era la sempre prodiga di aforismi Coco Chanel che diceva “La moda passa, la tuta resta”?

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ZZONI

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asce in oriente e più precisamente in Giappone, terra di manga e cartoni animati. Gli eroi si fanno reali, sono in carne e ossa finalmente. Se li potete veder camminare a fianco a voi, siete probabilmente in una manifestazione Cosplay. Di cosa stiamo parlando? Di un’arte, di una moda forse, ma sicuramente di eventi che attirano l’attenzione di grandi e piccoli. Il Cosplay è un gioco, ma è anche costume, più semplicemente e letteralmente: “giocare con il costume”. Gli amanti del fumetto hanno qualsiasi età e sono disseminati in tutto il mondo, sono uniti da una passione comune, che li mette in competizione e li avvicina. In occidente il Cosplay ha sorpassato le

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di

SARA BOLOGNINI

origini legate al cartone animato, per andare oltre. La trasposizione dei manga sfocia nell’interpretazione di film e videogiochi: da Assassins Creed a Final Fantasy, da World of Warcraft a Iron Man, da 300 a Tomb Rider. Forse perché per avere successo in queste manifestazioni, non è sufficiente un’approfondita conoscenza del personaggio, ma è necessaria una buona dose di consenso da parte del pubblico. Ciò che ci è più familiare talvolta ha maggiore impatto. Ogni anno, a Lucca c’è il Lucca Comix, una grande manifestazione che attira Cosplayer da tutta Italia. Qui si organizza un grande contest, dove ogni partecipante (singolo, coppia o gruppo) dovrà rappresentare quanto più fedelmente possibile il proprio

personaggio o gruppo di personaggi. Sono molti gli elementi da valutare: riproduzione fedele del costume, make-up, accessori e interpretazione. Il vincitore si aggiudica ricchi premi e l’ammissione all’evento Cosplay mondiale che si svolge, naturalmente, in Giappone. Non è necessario comunque uscire dalla nostra splendida regione per ammirare questi costumi. Non solo a Carnevale troverete manifestazioni di questo tipo. D’altronde i cosplayer non si mascherano, interpretano! Annamaria Quaresima è costumista e si occupa di arte sartoriale da molti anni ormai. La sua passione nacque quasi per caso, dopo aver seguito un corso privato di modellistica e sartoria. A volte il destino ci riserva strade a noi completamente sconosciute. “Non sape-

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SARA BOLOGNINI


www.fantasiasognorealta.com

vo tenere in mano neanche ago e filo” ci dice, ma noi stentiamo un po’ a crederlo visti i risultati. Partecipa al primo contest Coslpay nel 1998, con un abito ispirato all’eroina sexy di Tomb Rider. Il suo talento porta le sue creazioni al successo: nel 2009 arriva l’ingaggio da parte della Rainbow per la creazione dei vestiti delle Winx. Non si ferma qui, la passione cresce fino a vincere al contest nazionale nella categoria J-Pop, con un abito molto complesso nella realizzazione, ispirato ad un video della cantante giapponese Mika Nakashima. Questa talentuosa costumista non è sola, la affiancano altre modelliste e costumiste del nostro territorio. Insieme hanno dato vita ad una associazione

senza scopo di lucro che prende il nome di Fantasia Sogno e Realtà. Nasce in una serata qualsiasi, in una cena tra amici, con l’unico scopo di promuovere l’arte sartoriale in ogni sua forma. Antonella Fava porta il suo contributo occupandosi per lo più di abiti storici. Dopo anni di lavoro sartoriale, ora si dedica alle sue collezioni di abiti da sera ispirati alle quattro stagioni e ai quattro elementi. Monia Bolletta invece, si è specializzata in abiti Cosplay, ma ama anche aggiungere un tocco fantasioso ai suoi abiti, prendendo ispirazione dalla vita quotidiana. Queste tre donne insieme collaborano alla realizzazione di sfilate ed eventi di vario tipo. Il successo dello scorso luglio in Ancona, alla FSC 2011 è stato così grande da far sperare in una sua riproposizione anche quest’anno. Ma non di soli costumisti e sarte è composta questa associazione, ne fanno parte anche make-up artist, modelli, performer ed esperti di arti marziali. Ognuno ha il proprio ruolo e i propri compiti nelle varie attività intraprese. C’è l’animazione horror, di cui si occupano ormai da qualche anno, partecipando alla notte delle streghe di Polverigi e alle feste di Corinaldo. A completare il sogno di quest’arte dagli impieghi così vasti c’è anche la passione per i giochi di ruolo di Daniele Legramante (presidente e portavoce dell’associazione). Atmosfere perdute in tempi remoti, terre abitate da strani personaggi e grandi eroi sono gli ingredienti di “The Chronicles of Orden”. Il gioco è organizzato nella suggestiva location della Cittadella di Ancona. Qui l’arte sartoriale sembra essere la punta all’occhiello, quel tocco che rende tutto più realistico e coinvolgente. La sapiente organizzazione, insieme a costumi e make up appositamente creati per l’occasione, rendono ancora più vere e appassionanti le avventure. A marzo, a Falconara il prossimo appuntamento. In febbraio li avete visti ad Ancona alla grande sfilata del Carnevalò con le principesse Disney e ad Ascoli hanno fatto parte della giuria dell’Ascoli Piceno Cosplay. Ma in primavera torneranno per il Sena Comix di Maggio, a Senigallia, con giochi di ruolo e ancora gare Cosplay. Tutti i prossimi appuntamenti sul loro sito www.fantasiasognorealta.com . Non fatevi ingannare, perché non è un semplice

gioco. Gli artisti che partecipano, come costumisti, performer e/o truccatori hanno trovato un mezzo di espressione e un percorso tutto nuovo per comunicare la propria abilità e la loro passione. Un mix di capacità tecniche e sentimento che devono coesistere in ogni Cosplayer, ingredienti fondamentali per il successo.

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L’IMPATTO VISIVO ED EMOTIVO CON LE RECINZIONI, I CANCELLI E I MURI DI UN CARCERE È COSA COMPLICATA DA DESCRIVERE. POI, PUR NEI CONFINI DEI RUOLI ISTITUZIONALI, IL CONTATTO CON LE PERSONE CHE ANIMANO GLI SPAZI, IN QUESTO CASO COLORO CHE CI LAVORANO, STEMPERA IL CARICO EMOZIONALE. LA DIRETTRICE DELLA CASA CIRCONDARIALE DI MONTACUTO, SANTA LEBBORONI, È OSPITALE E SORRIDENTE w

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Il mondo dietro le sbarre d i

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PRIMA TAPPA DEL VIAGGIO ALL’INTERNO DEL CARCERE DI ANCONA, CON L’INTERVISTA ALLA DIRETTRICE

Montacuto esiste! Un carcere, per chi non è mai stato coinvolto in vicende penali, è la realtà più difficile da immaginare. Una scatola chiusa e sigillata, dimenticata da qualche parte della città, una fortificazione inaccessibile persino al pensiero. Quasi un altro pianeta. Non fosse stato per l’aspetto emergenziale della situazione carceraria attuale, che ha richiamato l’attenzione dei media, avremmo continuato a non vedere niente , a non parlarne affatto. Eppure il carcere è una realtà sociale, una presenza viva sul territorio, un problema di tutti. C’è tutta un’umanità là dentro, persone che ci vivono e persone che ci lavorano. Spesso in condizioni molto difficili per entrambe le parti. Ma la politica resta immobile, ai limiti dell’indifferenza, e l’amministrazione penitenziaria centrale di Roma è in affanno nell’affrontare i tanti nodi critici. Quello di Montacuto, a pochi chilometri dal centro di Ancona, è una casa circondariale ed è tra i primi 10 carceri più sovraffollati d’Italia. Due delle sei sezioni dell’istituto sono occupate, in regime di massima sicurezza, da soggetti legati a reati di criminalità organizzata. A

fronte di una capienza potenziale di circa 180 detenuti, oggi esclusivamente uomini, nel 2012 ne ha ospitati fino a 400, di cui molti in attesa di giudizio e più della metà stranieri. I detenuti si ritrovano in 3, dentro stanze pensate per una sola persona. Inoltre le 130 guardie penitenziarie effettive sono sotto di circa 60 unità, rispetto al bisogno reale e allo stesso regolamento. Aldo Di Giacomo, segretario regionale del SAPPE, sindacato autonomo della polizia penitenziaria, è ricorso più volte allo sciopero della fame per richiamare l’attenzione sui problemi. L’osservatorio di “Antigone”, associazione che vuole tutelare i diritti e le garanzie nel sistema penitenziario, riporta episodi di autolesionismo e di protesta da parte dei detenuti, oltre a richiamare l’attenzione sui suicidi degli ultimi anni (due nel solo 2012) e su situazioni di inadeguatezza strutturale. La protesta di alcuni detenuti, nel dicembre del 2011, attirò l’attenzione dei media e causò la sospensione della direttrice e del comandante della polizia. Che furono reintegrati entrambi, dopo poco, soprattutto a causa degli appelli da parte dei dipendenti, che ne presero le difese.

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w Che carcere è questo?

“Questo carcere esiste dal 1984 ed era nato per ospitare 150 detenuti. E invece oggi ce ne sono circa 400, la maggior parte in attesa di giudizio. I più sono in regime ordinario, alcuni in regime di massima sicurezza e altri in regime di protezione, per la cui incolumità - a causa del reato o della provenienza (ad esempio ex agenti di polizia) - c’è la necessità di un’attenzione particolare”. In cosa consiste il problema carcerario a Montacuto? “Il problema più grave è il sovraffollamento. Tutte le altre problematiche ne sono una conseguenza. Qui organizziamo molte attività, tra scuola, formazione e tempo libero; sono fondamentali per la rieducazione, ma solo poco più di un terzo dei detenuti ne beneficia, mentre gli altri sono costretti a passare troppo tempo in cella. Poi il personale è scarso, lo dicono i numeri”.

Da chi dipende?

“La situazione emergenziale di Ancona non era stata ancora presa in considerazione dall’amministrazione centrale; attualmente ci è stato assicurato un intervento. Ma in 22 anni di servizio ho visto il sistema penitenziario italiano evolvere positivamente, la critica in assoluto non è accettabile. Quando sono arrivata qui, i detenuti stavano meglio solo perché erano in 120, ma per il resto la loro vita si svolgeva soprattutto in cella. Oggi contiamo una quarantina di corsi e attività ogni anno, tra cui un percorso scolastico di tipo tecnico (25 iscritti della sezione di massima sicurezza) e la redazione di un periodico, “Fuori riga”. Quindi il problema vero è di sovrappopolazione”.

C’è un problema di attenzione politica?

“C’è un problema sociale. Il sovraffollamento, ad esempio, è legato alla questione “immigrazione”. Più del 50% della popolazione qui è straniera. Poi c’è la crisi economica e nelle fasi di questo tipo, generalmente, il numero dei reati tende ad aumentare”.

Ma non esiste una necessità di riforma penale? Non si può limitare il ricorso al carcere in alcuni casi?

“Io non ho riscontri di grandi numeri sul fatto che leggi particolarmente rigorose nei confronti dell’immigrazione abbiano potuto causare il sovraffollamento. Lo stesso discorso vale per le misure alternative. Le persone che ne potrebbero beneficiare sono esattamente quelle che ne beneficiano. La pena alternativa non dipende solo dal reato, ma anche dalla presenza di un domicilio, di un lavoro. Se poi parliamo di depenalizzazione di alcuni reati, qualcosa si potrebbe fare, ma non è il mio campo”.

La rivendicazione di un carcere migliore accomuna spesso detenuti e operatori penitenziari…

“Questo è un fenomeno da studio sociologico. È un fatto umano che la difficoltà crei solidarietà. Secondo me questo genera anche confusione, soprattutto nell’opinione pubblica, perché si mischiano i problemi. Che io credo vadano invece affrontati più analiticamente. Inoltre vent’anni fa uno sciopero della fame suscitava clamore, oggi non più”.

Nel dicembre 2011 ci fu una protesta dei detenuti e lei venne sospesa dall’incarico.

“Mi fa piacere parlarne, non avendone avuto altre possibilità. Venne Ionta, capo dipartimento dell’Amministrazione centrale di allora e all’indomani di questa visita ufficiale, la prima che io ricordi, ci fu una protesta dei detenuti allo scopo di tenere viva l’attenzione sulle loro rivendicazioni, episodio prevedibile ma in fondo molto tranquillo, senza aggregazioni. Alcuni lanciarono degli oggetti fuori dalle celle e diedero fuoco agli stracci. Ma la notizia fu data in maniera falsa e si parlò addirittura di rivolta. Il mio allontanamento fu brevissimo e fui richiamata proprio in concomitanza della protesta di solidarietà con i detenuti, da parte di un gruppo di anarchici fuori dai cancelli. In fondo, fu un riconoscimento alla mia capacità di gestione della crisi”.

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GIAMPAOLO PATICCHINO


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un dato curioso, apparentemente insolito: molte carceri italiane sono dirette da donne. Nelle Marche, ad esempio, il sistema penitenziario si regge, a livello dirigenziale, quasi tutto su base femminile. E Santa Lebboroni era una donna molto giovane, fresca di laurea in giurisprudenza, quando entrò a far parte dell’amministrazione penitenziaria, con un concorso pubblico. Già nel ’91 era vicedirettrice del carcere di Montacuto, di cui assunse la guida piena 4 anni dopo. Per lei l’impatto fu forte. Non fu facile affrontare il senso di soffocamento che provava ogni volta che i cancelli le si chiudevano alle spalle. Ma con il suo lavoro si trattò, in ogni caso, di “amore a prima vista”. L’aspetto più complicato da apprendere, per lei, fu quello dello “stabilire relazioni umane adeguate alle situazioni”, e non solo rispetto alla popolazione detenuta; in un istituto penitenziario, infatti, composto da tante aree, l’umanità può essere più varia che mai, e i ruoli molto differenti.

C’è

UNA DONNA A CAPO DEL CARCERE “I detenuti sono molto rispettosi con me”, dice la Lebboroni, “in tanti anni di colloqui non ho mai avuto problemi; loro sanno essere equilibrati e adeguati nel rapporto con l’autorità. E oggi non avverto più alcun disagio quando sono nel reparto detenuti”. Indica un modellino in legno, un veliero, in cima alla libreria: “è il regalo di un ex detenuto albanese, frutto di un lungo periodo di chiusura in se stesso, dovuto alla morte del figlio adolescente per un incidente stradale. Riuscì a superare quel momento, con l’aiuto di tutti, e quando ebbe scontato la pena, prima di uscire, volle farmene dono”. Vivere così a lungo a contatto con una realtà emotivamente logorante come il carcere, può risultare fatale ad alcune persone. Non per Santa Lebboroni, persona pragmatica, che non tradisce tentennamenti e non lascia spazio ad alcuna sbavatura nell’incarnare il suo ruolo istituzionale. Fa effetto sentirle dire: “Qui mi sento ormai come a casa mia”. È stata testimone, da quando è a Montacuto, di quasi venti suicidi, ma il suo approccio è razionale quando

ritiene che, pur essendo la condizione carceraria un’aggravante, spesso la tragedia aveva radici nel passato di quelle persone, al di là della detenzione. “Ogni volta ci siamo detti: non deve più succedere. Ma è molto difficile impedirlo. Abbiamo comunque cercato ogni volta di mettere a punto nuove misure di prevenzione alla disperazione estrema. Quando sono arrivata in questo istituto, ad esempio, c’era la tendenza, in presenza di gesti autolesivi, a utilizzare l’isolamento e il controllo a vista. Oggi è il contrario: si cerca di condividere con gli altri detenuti la responsabilità del sostegno ai soggetti a rischio che, proprio per questo, hanno bisogno di più relazione, più coinvolgimento nelle attività e più supporto psichico”. La Lebboroni è sposata e madre di due figli: “Una volta mi era impossibile, oggi - varcato il cancello verso l’esterno - riesco a recuperare una dimensione di vita personale. È vitale, per chi fa questo lavoro, distinguere i tempi professionali da tutto il resto”.

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