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La morte e il suo significato. Alla fine non ci sono più parole

di Hanz Gutierrez

La società contemporanea ha smarrito gli strumenti per spiegare la morte

La morte e il suo significato si sono sempre situati oltre la portata della comprensione umana. Non solo perché questa irrompe nell’esistenza in modo inaspettato, ma soprattutto perché, anche quando ci troviamo di fronte ad essa e ne sentiamo la vicinanza, eccede sempre i nostri pensieri e il nostro intento di comprenderla. Quindi, più che una “riflessione sulla morte”, oggettiva e precisa, la nostra è sempre e di gran lunga, piuttosto, una “esperienza della morte”. Noi umani la viviamo come situazione ineludibile e travolgente, di fronte alla quale, i nostri pensieri, laici o religiosi, rimangono sempre corti, frammentari e insufficienti.

Non esiste una verità filosofica sulla morte o un’ortodossia della sua comprensione. Sono tutti sospiri, i nostri, pensieri sparsi che non possono entrare a forza in un sistema. Di fronte alla morte e alle sue varie comprensioni, devono dunque prevalere il rispetto e l’empatia, l’altro può arrivare a esprimere qualcosa che io non sono stato in grado di pronunciare in modo intelligibile. Siamo al cospetto dell’eccedenza della realtà sul pensiero, della vita sul suo senso, dell’esistenza su ogni dottrina che pretenda di descriverla e collocarla in un ordine comprensibile e definitivo.

La morte la si vive in modo diretto quando, in prima persona, si cessa di esistere, è chiaro. Se poi dovesse subentrare in modo repentino e inaspettato, senza prodromi né dilatazioni temporali, questa assume la forma di un istante terribile e conclusivo. Ma, della morte, è soprattutto l’esperienza indiretta quella che accresce maggiormente il dolore e la sofferenza. La morte degli altri, di quelli che ci sono cari. Con loro scompare qualcosa di “nostro”, una morte nostra, che si sperimenta da vivi e che produce una lacerazione ingovernabile. Una morte in vita. Non è poi necessario che l’altro muoia fisicamente. È sufficiente che la persona amata rischi anche solo di morire perché questa angoscia scatti e ci divori impietosamente dal di dentro. È la mortalità più della morte stessa a destabilizzare ed evidenziare l’incancellabile fragilità e vulnerabilità del nostro essere.

La morte abita proprio al centro della vita.

Per fronteggiare questa eventualità permanente e ininterrotta, l’essere umano e le società premoderne hanno foggiato simboli, rituali, parole tali da permettere di pensare e di vivere questa prossimità ineludibile con l’ignoto. Questo lavorio creativo non ha certamente cancellato il dolore e la sofferenza che la morte procura, ma ha comunque permesso di focalizzarne un volto meno buio, aggressivo, estraneo.

Nella forza del gruppo, ad esempio, l’individuo che muore non lo fa mai completamente perché il suo ricordo sopravvive in coloro che rimangono.

Nella dimensione del ciclo naturale, osservato con cura, d’altro canto, anche l’umano e la sua morte possono rientrare in una logica più ampia, quella della trasformazione continua della vita. Le civiltà premoderne hanno trovato, in terzo luogo, un senso profondo della morte nella fiducia nel divino, in un’istanza superiore che funge da garante di tutto ciò che all’umano può risultare incomprensibile e arbitrario. Questa forma strutturata e stratificata di pensiero millenario pare non trovare più posto nelle nostre società moderne e postmoderne, efficienti, organizzate, “evolute”. Un colpo di spugna ha come cancellato dalla lavagna nera il tema per eccellenza, calcato in gesso da coloro che ci hanno preceduto. Il nodo è stato sciolto? Certamente no. La presunzione moderna appare, piuttosto, sul palcoscenico del senso, quasi come una sorta di involuzione culturale, un arretramento connotato dall’afasia. È come se la morte sia stata dimenticata, separata dalla vita fin dalla nascita. Là dove c’è morte non c’è più vita. E se la vita c’è, è chiaro che lì la morte non possa esserci.

Mancano le parole. Si fa dunque largo, ai nostri tempi, un pensiero disgiuntivo, legato al concetto di efficienza. La morte non c’è più, è negata, semplicemente, senza tanti giri di parole. La morte non esiste, basta una passata di alcol per cancellarne gli aloni. Un processo produttivo efficiente, tecnico, economico, non può contemplare un arresto della macchina, un colpo a vuoto.

Tutto deve girare a perfezione, senza interruzione alcuna.

La morte? Va cancellata, nascosta almeno, potrebbe distrarre. È necessario vivere non solo come se la morte non esistesse, ma proprio come se noi o i nostri avatar fossimo immortali. I sistemi produttivi, specchio dell’homo faber, devono funzionare, rigorosamente, secondo le previsioni. I luoghi, i simboli, i momenti che nel passato ci ricordavano la co-presenza costante della morte, devono scomparire o essere relegati nell’ombra, ridotti a fatti privati. I cimiteri, il lutto, le commemorazioni, i moribondi… tutto deve essere celato alla vista. La morte va segregata. Il mondo continua a girare, deve continuare a girare. Questo atteggiamento moderno ha creato un paradosso evidente. Da un lato la morte è respinta, allontanata, e dall’altro, paradossalmente, è voluta e anticipata. Efficientismo ed eutanasia, dimenticanza e anticipazione della morte, egoismo e masochismo culturale sono gli altri ulteriori paradossi che contraddistinguono la nostra era.

Facciamo di tutto per vivere più a lungo

dimenticando la morte e finiamo poi per volerla anticipare perché stanchi di vivere. Va da sé che vivere in questo continuo paradosso culturale finisca per esasperare e radicalizzare il morso del dolore e della sofferenza muta. Rispetto alle culture premoderne, quando la morte ci presenta il suo conto, non trova mediazione alcuna: né un gruppo allargato che possa fare da cuscinetto, né un senso naturale o trascendente che possa consolare… la presenza della morte travolge e trascina l’essere nel gorgo dell’angoscia più buia. L’individualismo, il pragmatismo tecnico e la secolarizzazione hanno destrutturato e cancellato quelle istanze che nel passato rendevano la morte più morbida e benigna. Il gruppo sociale, la natura e la divinità, garantivano e rappresentavano quei riti di passaggio che allargavano lo sguardo all’orizzonte del senso e permettevano di avvicinarsi alla soglia della consolazione.

Hanz Gutierrez

Docente di Etica, Facoltà Avventista di Teologia (FAT) di Firenze

PROPOSTE BIBLIOGRAFICHE

• Byung Chul Han, L’espulsione dell’altro, Nottetempo 2017

• Umberto Curi, La morte del tempo, Il Mulino 2021

• Antonio Cavicchia Scalamonti, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium 2007

• Elena Pulcini, Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale, Bollatti Boringhieri 2020.

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