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Eutanasia: questione di vita o di morte

Vita & Salute Web incontra Luciano Violante

Presidente Violante, in un suo recente contributo per Repubblica, in piena campagna di raccolta firme per il referendum sull’ eutanasia, pone una riflessione che sembra individuare un limite tra “fine vita” e “diritto”. Sono termini inconciliabili o possono comprendersi e determinarsi vicendevolmente? L’intervento della Corte Costituzionale, nel 2019, riesce a esaurire e perimetrare il tema, in punta di giurisprudenza? Quale contributo di riflessione vuole dare ad un tema che si preannuncia particolarmente divisivo ma, di certo, ampiamente dibattuto?

Credo che sulle decisioni “ultime”, quelle non revocabili, come il darsi la morte, occorrano riflessioni rigorose e procedure garantite nell’interesse della stessa persona che aspira alla morte. Vanno distinti due casi molto diversi che nel dibattito vengono confusi: il suicidio assistito (art.580 c.p.) e l’omicidio del consenziente (art.579 c.p.). Sul primo è intervenuta la Consulta, in un modo che condivido. Sul secondo intende intervenire il referendum che propone non l’eutanasia, ma la liberalizzazione dell’omicidio del consenziente sempre, tranne i casi di infermità di mente, minore età e inganno. Quindi sarebbe depenalizzato anche l’omicidio di chi chiede di essere ucciso in un momento di depressione, di crisi sentimentale, di disavventura finanziaria. Mi sembra inaccettabile.

Nell’articolo citato, in vista della consulta referendaria, conclude con una sorta di appello: “si eviti che il Paese, prigioniero delle buone intenzioni, autorizzi inconsapevolmente a schiacciare i più deboli”. Quando scrive “buone intenzioni” facendo poi riferimento al rischio che corrono “i più deboli”, sembra farsi interprete delle istanze di entrambi i fronti. È ancora possibile, secondo lei, in un’Italia sempre più divisa, approcciare temi di bioetica senza presunzione, tesi assolutistiche e reciproca delegittimazione caricaturale?

La nostra società invecchia, ha molte diseguaglianze sociali, presenta costi molto alti per la sanità, è attraversata da idee eugenetiche. Quale sarebbe la fine dei vecchi poveri e ammalati se si tollerasse l’omicidio del consenziente? Alle spalle del referendum ci sono motivazioni che guardano alla sorte dei malati gravissimi, per i quali c’è già la sentenza della Corte; e motivazioni ispirate da un individualismo esasperato che non tiene conto delle conseguenze sociali di quella opzione. Il tema della eutanasia ha certamente un fascino.

Ma, ripeto, il referendum non riguarda l’eutanasia, già legittimata dalla Corte Costituzionale; il referendum legittima, con alcuni limiti, l’omicidio del consenziente, che nel tempo può condurre a conseguenze tragiche. In vista del referendum, se sarà dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale, bisognerebbe spiegare chiaramente la differenza e aprire un dialogo non condizionato da a priori, ma ispirato all’etica della persuasione.

Questo mese la nostra rivista affronta da più punti di vista e con molte testimonianze e racconti, il tema del “dono”. È un concetto centrale del contendere referendario ma si esplicita in tante sfumature che non possono essere ricondotte al solo bianco e nero. Lei ritiene che la vita sia un dono? Crede possa esserlo anche la morte? In che modo lo Stato può garantire colui che dona e colui che riceve il dono?

Non ho titolo né competenze per addentrarmi in questo tipo di argomentazioni. La vita è il fatto che più strettamente attiene al singolo essere umano e all’umanità nel suo complesso, a quella di chi ha vissuto, di chi vive e di chi vivrà. Perciò merita il massimo rispetto e la massima tutela, nella considerazione dei casi-limite. La morte è la fine biologica; ma ciascuno di noi continua, dopo la morte, nella memoria dei vivi e nelle tracce che ha lasciato durante la vita. Altri aspetti del dopo-morte sono affidati ai convincimenti di ciascuno di noi. Chi ha fede, ha speranza. Quanto all’intervento dello Stato in temi eticamente controversi, mi permetto di richiamare quanto disse Aldo Moro al Consiglio Nazionale della DC, dopo l’esito del referendum sul divorzio, avvertendo che settori dell’opinione pubblica “sono ora ben più netti nel richiedere che nessuna forzatura sia fatta con lo strumento della legge, con l’autorità del potere al modo comune di intendere e di disciplinare in alcuni punti sensibili i rapporti umani.

Di questa circostanza non si può non tener conto perché essa tocca ormai profondamente la vita democratica del nostro Paese, consigliando talvolta di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale”.

Presidente Violante, la sua vita è testimonianza di impegno al servizio dello Stato: uomo delle istituzioni, magistrato ma anche docente universitario. Qual è il dono più grande che sente di aver fatto al Paese e ai suoi studenti e quale è il dono più grande che ritiene di aver ricevuto da entrambi?

Non penso di aver fatto nulla di particolare. Ho invece ricevuto molto. Ho avuto la possibilità di servire il mio Paese come magistrato per dodici anni, come parlamentare per trenta giungendo a presiedere la Camera, come docente dal 2009. I miei studenti mi hanno costretto e mi costringono a studiare e a imparare continuamente. Sono grandi doni.

Luciano Violante

Presidente Camera dei deputati dal 1996 al 2001

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