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Together we can

DI PAOLO MAINO

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Alla morte di Don Domenico Pincelli, cofondatore di Via Pacis, ci siamo chiesti cosa avremmo potuto realizzare in sua memoria. Visto che don Domenico era sempre stato accanto agli ammalati e alla sofferenza, visto che aveva sperimentato, nella sua vita, la malattia e l’emarginazione dovuta alla malattia, abbiamo pensato di realizzare un Centro Medico, dove tante persone potessero trovare una cura per il corpo, ma anche per lo spirito. Ci siamo, allora, buttati in questo ambizioso progetto: realizzare il Centro Sanitario Shalom don Domenico Pincelli, insieme a suor Rita Panzarin, nostra referente in Camerun e nel Congo Brazzaville, a Sembé, nella parte settentrionale del Paese, ai margini della foresta africana, soprannominata anche Amazzonia Africana, la seconda più grande foresta al mondo. Era il 2010 quando abbiamo iniziato e la costruzione di tutti i padiglioni è andata avanti a tappe. Nel gennaio di quest’anno, con Marcello Cenedese ed Emmanuele Pepè siamo andati a Sembé per visitare l’ospedale. Per me è stato uno dei tanti viaggi che ho fatto in terra d’Africa, dove ho visto e toccato con mano la povertà estrema, la violenza e la guerra, con tutte le ferite che violenza e guerra lasciano nelle persone, ma anche la mancanza d’acqua, di beni primari, di dignità… e nasce un grande senso d’impotenza.

Le agenzie internazionali stimano che ogni anno muoiano, per fame, circa 6 milioni di persone e 3 milioni di bambini sotto i cinque anni. Una pandemia nascosta. Questi dati, nel mondo occidentale, non fanno audience. Stiamo aspettando con ansia il vaccino contro il Covid 19, ma l’assurdo è che per la pandemia della fame il vaccino c’è. Il vaccino c’è, perché non è il cibo che manca, manca l’accesso al cibo. La produzione di cibo nel sud del mondo non è orientata al fabbisogno di quelle popolazioni, ma all’esportazione verso il nord del mondo.

Davanti a questa realtà, dobbiamo scommettere su una parola, che diventi una parola d’ordine; che possa diventare via per ritrovare noi stessi; che sia la sfida per un nuovo stile di vita; che diventi discernimento per le nostre scelte e ci aiuti ad andare alle cose essenziali. E la parola è sobrietà, sobrietà, sobrietà. Come possiamo scoprire le cose che contano? Non possiamo scoprirle se continuiamo ad inseguire beni illusori, inutili o, perfino, falsi e nocivi. Non possiamo scoprirle se siamo stretti dalla paura di perdere quel benessere da cui abbiamo pensato di far dipendere la nostra felicità. Forse abbiamo vissuto per anni nell’illusione di costruirci un paradiso in terra, fatto di comodità, desideri, divertimento, cercando di allontanare dalla nostra vista, e dalla nostra vita, tutto quello che può inquietarci. La sobrietà non significa rinuncia, ma saper distinguere tra bisogni reali e bisogni indotti dalla moda, dalla pubblicità, dalla logica del mercato.

Come attuare nella prassi questa dimensione educativa della sobrietà? Spostando il baricentro dall’io all’altro, scoprendo che la vita vale, se è spesa senza misura. E la misura è la cifra evangelica. “Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25).