Il Bambino Mammitico

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Giacinto Conte

IL BAMBINO MAMMITICO NARRATIVA



GLI ASTEROIDI collana diretta da Tiziano Camacci

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Ogni riferimento a fatti e persone reali è del tutto casuale. L’adattamento musicale della vita di Giacinto è pienamente conforme all’opera cartacea da lui prodotta.

© 2013 Una generazione sudata, Claudio Lolli © Giacinto Conte © 2013 Valigie Rosse, Livorno In copertina: «Autoritratto» di Giacinto Conte, elaborazione grafica di Riccardo Bargellini Progetto grafico e impaginazione: Lisa Cigolini Produzione: Il cane di Zorro via dei Mulini, 7 - 57125 Livorno valigierosse.net


Giacinto Conte

IL BAMBINO MAMMITICO con una nota di

Claudio Lolli



Claudio Lolli Una generazione sudata

Le febbri reumatiche le abbiamo avute tutte, tutte. Perché in porta non ci siamo mai voluti stare. Si correva di qua e di là, avanti e indietro, a sinistra e a sinistra e soprattutto verso l’alto, seguendo quella visione, come nelle Cosmicomiche, che con una scala si potesse arrivare alla luna, al cielo comunque. Quindi si è sudato parecchio e, col freddo che è venuto dopo, questo terribile, insopportabile ‘grande freddo’, non è cosa che fa bene. Una generazione sudata e il racconto di Giacinto ne fa puntualmente fede. C’è la spiritualità (sempre come obiettivo) ed il corpo ma nessuno dei due sa bastare a se stesso né i due riescono a mettersi tranquillamente insieme, a convivere, a completarsi a vicenda, ad


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essere, appunto, complementari. Non vorrei farla facile e buttarla in politica ma una delle tragedie dell’Italia contemporanea non è proprio quella che una cultura di origine cattolica ed una di origine socialista (che tante sfumature avrebbero in comune) non riescono a sovrapporsi? La sovrapposizione è concetto che richiede allo stesso tempo cancellazione e rinascita ma nulla di tutto ciò avviene e Giacinto lo sa bene anche se ci prova comunque e continuamente. I culti cristiani (con qualche slabbramento che più che religioso si può forse definire superstizioso) e le aspettative giovanili di una ‘sinistra’ che vuole cambiare il mondo sono disperatamente perseguite tentando un matrimonio impossibile in nome di una ‘purezza’ che dovrebbe nobilitare il tutto e che non ci riesce. Ma Giacinto ci prova. Allora Gesù è un uomo e la sua resurrezione è una resurrezione spirituale: è buono e puro e il suo ricordo non morirà, come è successo. “Omnis non moriar” diceva il laico Orazio, non morirò del tutto. E in questo bel racconto si avverte la ricerca affannosa di una completezza dell’essere che (Leopardi dixit) non è data agli uomini, il loro desiderio di infinito


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non è realizzabile nel meccanismo perverso della natura e la conseguente frustrazione può facilmente indurre al disagio: disagio morale, intellettuale ed esistenziale, una volta che, non sui libri ma sulla propria pelle, ci si renda conto di questo. E nel libro questo conflitto è evidente. Da Enzo Bianchi che fa proseliti (e viene in mente il Dante che racconta Francesco: “scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro...”) alla voglia ed al piacere di ‘mangiare, bere, scopare’ e la gioia che ne deriva perché ‘l’amore è bello anche se fatto con un’altra donna’. Spiritualizzare il corpo e corporalizzare lo spirito. Il Vangelo fricchettone, un ossimoro su cui molto si è sudato. Si parla nel libro anche di maledizioni, di esorcismi e di miracoli, di santificazioni. L’unico miracolo a cui io, ateo, credo è quello delle parole e mi pare che anche Giacinto possa condividere. Da chi lo cura freudianamente con le parole (“il bambino mammitico”, sarà un caso che il titolo è proprio questo?) alle omelie di S. Antonio, che hanno la forza di affascinare e quindi modificare gli ascoltatori. Le parole: le uniche che riescono a ricondurre il disagio ad una sua origine ricono-


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scibile e, quindi, in qualche modo, ad alleviarlo. Infatti poi c’è il disastro farmacologico che io interpreto come uno scientismo post-positivista ed inevitabilmente dannoso. Una fede, quella sì, cieca ed inassolvibile. Ma non sono esperto di queste cose e non vorrei dire delle bestialità. Certo è che anche su Freud la nostra generazione ha piacevolmente sudato nell’idea che la critica, e l’autocritica, e la comprensione aiutassero. Perché, se si arriva a capire che il disagio è inevitabilmente di tutti, quello proprio, personale, diventa di minor spessore. Il mio adorato Jacques Brel diceva: “Ci vuole del talento per invecchiare senza diventare adulti”. Direi che questa generazione sudata questo talento lo ha avuto. Forse persino troppo.


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I io giocavo sempre in porta

Mi ricordo quando ero bambino e mi venivano delle forti febbri reumatiche, cercavo continuamente l’affetto di mia madre che mi metteva una pezza imbevuta di aceto aromatizzato sulla fronte. Mi ricordo che mi sforzavo di mangiare. Finita la febbre facevo una breve convalescenza. Cercavano di portarmi all’asilo, ma mi trovavo male con le suore e dopo pochi giorni mi ritornava la febbre. Sono nato a Ripafratta, un paesino della provincia di Pisa ai confini con quella di Lucca. Ho passato un’infanzia felice insieme a nonno Bonifacio e a nonna Beatrice, lo zio Federico, lo zio Enrico, la zia Onoria, lo zio Fazio e le mie cugine Giorgia e Alessandra. Come era bello stare lì.


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Passavamo sempre con magia il Natale, c’era mia madre che preparava i tortelloni fatti in casa, e Babbo Natale che io e mia cugina Giorgia aspettavamo davanti al camino scoppiettante. Poi arrivava la Befana che girava per tutto il paese e ci portava doni e dolciumi. Mia madre, Matilde Canossa, era mora di capelli e un po’ patita di corporatura, molto dolce, bravissima in cucina e nel cucito, nel lavoro a maglia, nel mettere le tende alle finestre, insomma era una brava sarta. Ricordo con nostalgia i maglioni che mi faceva, e in particolare ero affezionato a uno giallo oro finemente ricamato che mi mettevo per le occasioni speciali. Ricevetti la santa comunione alle sette di mattina nella chiesa del paese, e poi alle undici la cresima nel Duomo di Pisa, conferitami dal vescovo allora ausiliario Antonio Giuseppe Angioni. Mio zio Federico mi fece da padrino e io non ero per niente emozionato. Lo zio Federico è stato anche padrino al mio battesimo nella chiesa di Ripafratta. Da giovane è emigrato in America dove ha fatto il muratore. Poi se ne è tornato in Italia pieno di soldi, ed è andato a abitare in casa


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di mio nonno Bonifacio e nonna Beatrice Vianello. Quando lo andavo a trovare mi portava a prendere un bel gelato e poi andavamo a fare una bella passeggiata. Ora che ci sono state le elezioni americane mi è venuto in mente lo zio Federico quando, in disaccordo con mio nonno Bonifacio, se ne andò a vivere a Pugnano dallo zio Adalberto e dalla zia Enza. Tutte le mattine andava a piedi a Molina di Quosa a prendere il giornale e un caffè, e poi piano piano se ne ritornava a casa. Lo zio Federico tutte le domeniche andava alla messa ed era un fervente cattolico. Quando veniva l’estate si andava a fare il bagno nel fiume Serchio e anche a pescare. A settembre andavo con i miei genitori alla ricerca di funghi in Garfagnana. Dopo pochi anni, per via del lavoro di mio padre, dovetti lasciare il mio paese per andare a stare a Pisa, a Porta a Mare, nelle case della Saint Gobain, quella fabbrica di vetro per automobili della Fiat e altri tipi di marche, dove lui faceva l’operaio. Mio padre, Goffredo Conte, era uno sportivo, da giovane giocava a pallone e gli è sempre rimasta la passione per il calcio. Si andava tutte le


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domeniche allo stadio a vedere il Pisa. Mi ricordo con nostalgia quando il Pisa andò in serie A; che grande emozione fu per me. Tutta la città fece festa, e cortei di auto con le bandiere con i colori sociali della società scorrazzavano per le strade. Era un appassionato delle parole crociate e del giornale, comprava tutti i giorni La Nazione e ci ricavava notizie interessanti che gli potevano servire. A babbo Goffredo piacevano i fumetti e prima di addormentarsi leggeva Topolino e Tex Willer, o la collana Eroica. Nel suo orticello si divertiva a far crescere le varie piante di legumi e verdure, e c’erano anche delle piante di fichi, cachi e melograni. Aveva un amico che si chiamava Oscar Mattaccini, e si ritrovava sempre con lui al Bar Livorno a giocare a carte. Io e i miei amici del viale della Saint Gobain lo avevamo soprannominato “il servo di Zorro” perché assomigliava in modo particolare al servo di Zorro. Anche qui passai la mia giovinezza in grande felicità. La mattina andavo alla scuola elementare e il pomeriggio, dopo aver fatto la lezione per casa, andavo a giocare a pallone nel cortile con i miei amici. Io giocavo sempre in porta, perché


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mia madre diceva che non dovevo sudare altrimenti mi sarebbe venuto un malanno. D’estate invece andavo al mare a Tirrenia con mio fratello e la fidanzata di mio fratello. L’inverno lo passavo a fare le vasche in Corso Italia e Borgo Stretto, mi prendevo una pasta alla pasticceria Salza oppure la torta con la focaccina. Mio fratello Apollo aveva sei anni più di me, era forte di salute, andava benissimo a scuola, andava in chiesa tutti i giorni e giocava bene a pallone all’oratorio parrocchiale, mentre io, malaticcio, dovevo accontentarmi di fare il portiere per non sudare. Mi ricordo che quando ero piccino mi portò per la prima volta a vedere una partita di calcio: Pisa-Rimini di serie C e il Pisa vinse due a uno. Poi quando diventai un po’ più grande andavo con mio padre e mio fratello all’Arena Garibaldi a Pisa a vedere la serie B: fu quell’anno che il Pisa andò in serie A. Tommaso Bertoni e sua moglie Chiara, abitavano sotto il mio appartamento a Porta a Mare. Tommaso era un grande appassionato di musica e scrisse un inno per il Pisa Calcio. Il disco, inneggiante al Pisa in serie A, veniva suonato


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allo stadio prima dell’inizio delle partite. Venne messo anche in vendita per i vari negozi di musica dell’intera provincia, ed ebbe un enorme successo. Con mio fratello e alcuni amici andavamo anche al Palazzetto dello sport a vedere il Cus Pisa di pallavolo, neopromosso in serie A, allenato da Piazza. Arrivò quarto in classifica. Andai anche a seguirlo in due trasferte, a Modena contro la Panini Modena, campione d’Italia, e a Firenze contro la Ruini Firenze, campione d’Europa, dove vincemmo per tre a zero. Alle elementari avevo una maestra anziana che mi stimolava e mi dava coraggio. Purtroppo, alla fine della seconda elementare, questa maestra brava andò in pensione e subentrò un maestro antipatico e noioso e stronzo. Mi prese sulle palle, andavo bene a storia e italiano e geografia, ma a matematica ero una frana. Questo maestro mi faceva grandi partacce e chiamava a correggere i miei errori i ragazzi delle classi inferiori. Poi, finite le elementari, andai alle medie e qui mi trovai bene; ero sempre malato, ma come


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profitto scolastico andavo decisamente meglio. Avevo una professoressa di italiano che io chiamavo “Formaggino” dal suo viso a forma di formaggio emmenthal, che era molto brava e molto umana. A matematica avevo una professoressa anche lei brava e umana che mi sapeva capire; a storia e geografia pure; musica e disegno dei professori un pochino eccentrici. Il professore di disegno ci portava fuori a vedere la mia città, Pisa, le sue bellezze architettoniche antiche, i piccoli tesori artistici sconosciuti alla maggior parte della gente e poi ce li faceva disegnare in classe. Finite le scuole medie, ci fu il problema della scelta delle superiori. Io ero orientato per le magistrali perché sapevo che era una scuola politicamente più di sinistra, ma i miei genitori mi vollero mandare a ragioneria perché volevano mettermi in banca. Purtroppo mi toccò una sezione con i professori tutti fascisti, c’era un clima di restaurazione e di paura. Io mi trovai subito male, le insufficienze fioccavano a destra e a manca, così alla fine dell’anno fui bocciato. I miei genitori non si scoraggiarono e mi fecero ripetere l’anno,


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ma io non ne avevo più voglia. Intanto a Pisa iniziavano gli anni ’70. Manifestazioni, cortei e assemblee studentesche: io smisi di studiare e mi misi a fare il fricchettone. Mi feci crescere la barba, mi comprai i Ray-Ban, i jeans e un giaccone militare. Andavo a qualsiasi manifestazione di estrema sinistra e conobbi i miei due amici che diventarono inseparabili: R ed E. Facevamo le cinque di notte a chiacchierare, suonavamo la chitarra, andavamo in moto. Poi ci comprammo la macchina, un vecchio maggiolino che consumava benzina a tutto spiano, ma a noi piaceva lo stesso. Quando arrivò l’estate, io e R decidemmo di andare a Taizè, in Francia, nella bassa Borgogna in mezzo ai vigneti. Qui c’era una comunità di monaci protestanti, che accoglieva tutte le persone che volevano pregare e divertirsi. C’era gente di tutto il mondo, e quando arrivammo noi eravamo in 10.000 persone. Incontrai il mio primo amore, Barbara, una bella ragazza di Montecatini. Durante il giorno ognuno stava con le altre persone e seguiva le esperienze della comunità, ma la sera dopo aver mangiato, con una candela


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e una coperta sulle spalle, ce ne andavamo a fare l’amore sui prati. C’erano le stelle cadenti e un’atmosfera romantica, tutto era bello. Frère Roger, priore della comunità, lo trovavi sempre nella sua celletta monastica, aveva circa cinquant’anni e tanti anni dopo sarebbe stato ucciso da una squilibrata antireligiosa. Dal suo volto emanava una luce come se lo Spirito Santo lo illuminasse sempre. Si comunicava in lingua francese, fisicamente era gracilino, non tanto alto e portava un saio bianco. Era molto bello vederlo alla preghiera dove si contornava di bambini delle famiglie che facevano visita alla comunità. Tornati a Pisa, scoppiarono gli anni di piombo. Ci fu il rapimento di Aldo Moro e io andavo alle manifestazioni di estrema sinistra gridando “Aldo Moro è a casa di Andreotti a prendere il tè con i biscotti”, oppure “Kossiga dove l’ hai messo? Kossiga dove l’ hai messo?”. Conobbi alcuni anarchici e fondammo un gruppo di sostegno per i detenuti politici che si chiamava Azione Rivoluzionaria. Mandavamo pacchi dono con viveri all’Asinara, all’Ucciardone, a San Vittore. Ci scrivevano per ringraziar-


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ci Curcio e Franceschini. Purtroppo, in questo gruppo si erano infiltrati alcuni elementi delle BR, e cominciarono a parlare dicendo che bisognava andare a sparare a tizio e a caio. Un giorno comprai il giornale locale e lessi in prima pagina che quattro del nostro gruppo, due uomini e due donne, furono sorpresi dentro una macchina alle porte di Firenze con le armi nel bagagliaio. Fu un fulmine a ciel sereno, e così mi prese la paura e buttai via tutto il materiale rivoluzionario che avevo in cantina, tra cui anche un ciclostile. Intanto cercavo di dimenticare il tutto con una nuova ragazza, Kinzica, pisana di buona famiglia, giocatrice di pallacanestro del Cus Pisa. Passai un periodo magico con lei, mi ricordo le passeggiate romantiche sui Lungarni, le pomiciate in piazza dei Miracoli, i rapporti d’amore in qualche stanza prestata da amici. Quell’estate, io R ed E ce ne andammo a fare una nuova esperienza, questa volta di tipo ambientalista, in una comunità a Fiesole. Eravamo circa 100 ragazzi e ragazze da tutte le parti d’Italia, facevamo il turno la sera a raccontare le proprie esperienze di vita. La mattina c’era lo yoga,


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poi qualcuno che parlava e introduceva un tema come per esempio “no al nucleare, sì alla coltivazione biodinamica”. Al pomeriggio c’era sempre qualche lavoretto da fare, chi lavorava la ceramica, chi metteva i pannelli solari, e la sera di nuovo tutti intorno al fuoco a mangiare cibo vegetariano. Il fumo era vietato ma noi fumavamo di nascosto. Il mio amico E si mise con una bella ragazza di Firenze, R con una bella ragazza di Livorno, e io con Rosa, una bella ragazza di Viterbo. Alla fine dell’esperienza partimmo con Rosa e la sua Dyane finendo all’Eremo di Camaldoli retto dai frati trappisti. Il giorno giravamo per tutta la zona e una volta si arrivò a Poppi dove fummo ospitati per qualche giorno da una comunità anarchica di tipo familiare, composta da babbo, mamma, due figli e uno zio. Tutti erano molto gentili e ci spiegarono che vivevano facendo lavori con il cuoio, come borse, borsellini e cinture che poi andavano a vendere nei vari mercati della zona. Poi ritornammo a Camaldoli dove c’era un bel campeggio e piantammo la nostra tenda. La mattina si continuava a viaggiare con la Dyane, e la


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sera si preparava qualcosa da mangiare intorno al fuoco. Alla fine della giornata si andava a fare l’amore, ma Rosa non era molto sensuale e dolce. Finiti i giorni di ferie, Rosa mi riaccompagnò a Pisa e lei se ne ritornò a Viterbo. Non ci si rivide più, e io, tornato a casa, mi rimisi con Kinzica, la giocatrice di pallacanestro e studentessa di chimica all’Università di Pisa. Con Kinzica trascorrevamo i pomeriggi in uno chalet in riva all’Arno, ascoltando al juke-box dei dischi di Lucio Dalla, De Gregori, Venditti e John Lennon. Intanto con R ed E passavamo le serate a fumarci delle belle canne di hashish sulle piagge, dove si incontrava gente meravigliosa e ci intrattenevamo a parlare con queste persone fino alle quattro di notte. In quel periodo fra le tante cose, fummo invitati a partecipare alla vita di un centro sociale aperto ai giovani in un quartiere operaio alla periferia della città: il C.E.P., Centro di Edilizia Popolare. Ci incontravamo in una stanza presa in affitto, e gravitavano in questo centro sociale giovani di ogni specie: drogati, ladri, ricettatori e un uomo che aveva ammazzato.


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Ero attratto dal clima di rivolta anarchica che al C.E.P. si respirava. C’era Lucianino, detto “il Capetto”, voleva fare tutto lui, era pieno di fica che ai miei occhi sembrava veramente un capo. Era un grande oratore e sapeva cantare canzoni di lotta. Poi c’era Antonellina, discreta come un cerbiatto, era viva e sprizzava gioia da tutti i pori, era la fidanzata del capo. Angela “la Piatta”, anche lei bellissima, era talmente anarchica che non stava con nessuno, e Davide, con la barba lunga da rivoluzionario. Non avevamo corrente e ci servivamo di candele, le riunioni vertevano su come agire nel quartiere, specialmente sui beni di prima necessità come la frutta e la verdura, perché, tra le altre persone che partecipavano alle riunioni, c’era un certo Michelozzi che commerciava all’ingrosso frutta e verdura. Michelozzi si era messo a disposizione del gruppo per vendere al mercato ortofrutticolo del quartiere frutta e verdura a basso costo, in modo che anche le persone più bisognose potessero acquistare, risparmiando così sul loro bilancio familiare. Poi si occupò un cascinale vicino al villaggio


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per un bisogno di spazio e amore per i giovani del quartiere, che altrimenti non sapevano dove andare a fare l’amore. Si faceva anche musica suonando la chitarra liberamente, ispirandoci a Venditti, Vecchioni, Guccini e Claudio Lolli. Questa esperienza finì con l’intervento dei carabinieri che liberò il cascinale lasciandoci tutti senza alcun punto di riferimento.



Si correva di qua e di là , avanti e indietro, a sinistra e a sinistra e soprattutto verso l’alto, seguendo quella visione, come nelle Cosmicomiche, che con una scala si potesse arrivare alla luna, al cielo comunque. Claudio Lolli

ISBN 978-88-906226-7-0

9 788890 622670


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