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RIFLESSIONI SU “QUALE AMORE PADRE PER I FIGLI?”

Incontriamoci A Teatro

Alessia Bulgarelli

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Uno spettacolo, luci, pochi oggetti di scena e 9 attori. L'autore descrive lo spettacolo come frutto di una riflessione iniziata e durata tutto (ed anche dopo) il periodo della pandemia. Un'improvvisa 'peste' ci ha colpito, e colpisce gli attori in scena. Ma non si tratta di una narrazione cronologica, più che altro di un complesso intreccio di scene, periodi storici, colpi discena,personaggietante,tantedomande.Domandeacuinessuno, compresoilmonsignore, il medico, la giornalista o l'attentatore, può però dare risposta. Si tratta di domande troppo al di sopra del piccolo uomo. Domande come 'perché è morto un bambino?', 'è giustizia uccidere un tiranno, che è infine solo un uomo?', o ancora, 'si può morire di amore?', posta al medico. Domande, emozioni scaraventate sul palco e sugli spettatori, un terribile monito pesa su tutti in sala: l'uomo non è nulla. Basta un secondo, un minuscolo virus, un'idea, un fenomeno naturale, e l'uomo morirà a milioni.

Lo spettacolo tratta sì della malattia, del suo ruolo negativo e positivo (come forza e motore di azione, pensiamo a tutte le opere che parlano di pandemie), ma, se ascoltato con la voce della mente e del cuore, parla anche di altro. Parla della religione, del nostro destino, dei nostri limiti in quanto esseri umani e quindi mortali, parla dell'innocenza e della colpa e della loro sottile, e fragile, distinzione.

I riferimenti che l'autore e regista, Valentino Borgatti, decide di portare in scena sono tanti. A partire dal ruolo, sottolineato da lui stesso nella discussione posteriore lo spettacolo, della moglie del medico. Lui, il medico, è costretto per la sua passione nel lavoro a lasciare la moglie, malata terminale.

Le scene sono intervallate da rumori (sirene, un battito ritmico) o dal cambio delle luci. Così come le stesse scene spesso sono contornate da suoni forti, il pianto del bambino e le urla delle mogli (sia della moglie dell’uomo ucciso, fratello e figlio delle due assassine dell’hotel, sia del tiranno), il trillo del telefono nella scena dell'hotel, l’acuto dei fischietti. Tutto nella rappresentazione, così come la stessa presenza continua di tutti gli attori, porta all'emozione e alla sensazione di essere piccoli, infinitesimamente piccoli.

Ma lo spettacolo non termina qui, gli attori, terminato il loro ruolo, prendono le sedie e si siedono davanti al pubblico. Un collaboratore dal pubblico chiede loro, come personaggi e come persone, risposte a domande o affermazioni da loro fatte. Ricordo in particolare la prima di queste, che chiedeva all'incirca se il medico (e la persona che lo aveva interpretato) fosse d'accordo con l'affermazione del monsignore alla morte del bambino. L'affermazione era che la morte del bambino significasse la scelta che Dio valutava più giusta, in un certo modo era l'amore di Dio per noi (la sua pietà e grazia) a volerlo e se lui lo voleva, noi uomini potevamo solo accettare la sua scelta.

Il medico fatica a rispondere, poiché risposta semplice non c'è. Si può solo parlare del dubbio che è in tutti noi, il male esiste ma Dio è buono e giusto… come può aver creato un mostro così grande e potente e lasciarci vivere con lui? Una questione che non sarà mai conclusa, che rimarrà sempre ed in ognuno di noi. La fede è necessaria per Dio, diceva uno degli attori. Forse questa è la risposta che si danno i credenti. Non siamo qui per sostenere nulla, solo per parlare e tentare di districare uno spettacolo che tutto presenta tranne la semplicità (solo apparente della rappresentazione).

Mi auguro infatti che abbiate avuto l'occasione di vedere questa rappresentazione, di seguirla, di ascoltare le domande che ha posto. Perché così può nascere una riflessione.

E se è vero che il teatro d'oggi deve fare meditare le persone, e non più creare la catarsi come nel teatro greco, questo spettacolo ha eseguito perfettamente il suo compito.

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