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FALSI MITI: Correlazione non vuol dire nesso di causalità

CORRELAZIONE NON VUOL DIRE NESSO DI CAUSALITÀ

Il dibattito scientifico sui media non sempre segue i canoni che la scienza imporrebbe. È accaduto durante la pandemia quando la voglia di stupire ha preso il sopravvento dando per certi fatti ancora tutti da dimostrare. Ne è nato un dibattito abbastanza acceso che proviamo a raccontare.

La comunicazione scientifica in questa lunga fase segnata dal Covid 19 non ha certo avuto vita facile. Ricordiamo tutti le dispute tra scienziati, i pareri spesso discordi. Ma qui siamo ancora nel campo strettamente medico. A questo si è aggiunto quel “brusio”, quel rumore di fondo che si associa così spesso ai social. Ed è stato un fiorire di leggende metropolitane, di falsi miti che in qualche caso hanno bucato lo schermo dei media tradizionali finendo come materiale “inquinante” sui giornali e sulle televisioni. Alla ricerca delle cause della propagazione del virus e dei contagi sono venute fuori le ipotesi più varie, qualcuna anche sostenuta da studi che mettono insieme elementi spuri e ne deducono teorie “scientifiche” che ad una controanalisi si mostrano per quello che sono, ipotesi vaghe, congetture, accostamenti arbitrari e spuri di elementi diversi. Ne avrete certamente sentito parlare anche voi del “nesso” tra diffusione del virus e presenza di polveri sottili nell’ambiente. Ora la questione delle polveri sottili è certamente una questione seria e molto complessa, legata com’è a molti fattori diversi di cui le emissioni delle auto sono solo una componente e – a seconda dei luoghi – non necessariamente la più rilevante. Ma tant’è: sui giornali e in tv c’è stato un fiorire di servizi basati su una nota della SIMA (Società Italiana di Medicina Ambientale) che giura sulla correlazione tra la presenza di PM 10 e la diffusione del virus e ritiene persino che analizzare questa correlazione permetterà di tenere a bada il rischio di una ricomparsa del virus. Cosa c’è di vero? Affidiamoci ad una ricerca di Scienza in Rete, un autorevole e indipendente media scientifico che usa gli strumenti tradizionali delle riviste accreditate: valutazione e controprove per vedere se gli “indizi” portati a sostegno di alcune idee siano davvero una prova. E Scienza in rete smonta pezzo per pezzo le valutazioni espresse da SIMA. La prima affermazione contestata è quella sostenuta da SIMA che vi sia “una relazione diretta tra il numero di casi di COVID-19 e lo stato di inquinamento da PM10 dei territori”, sostenendo quindi che una elevata concentrazione di PM10 in atmosfera possa essere un “amplificatore” della diffusione del Coronavirus. Fate attenzione non si dice che in zone con notevole inquinamento atmosferico gli esiti del coronavirus possano essere più gravi, ma che le polveri sottili amplifichino letteralmente il numero dei casi. Nel position paper di Sima si arriva a sostenere – fa notare Scienza in Rete – la propagazione della malattia attraverso il contatto con il “particolato infetto”, riesumando in questo modo l’antica teoria dei miasmi, usata per spiegare la peste in epoca pre-scientifica. Molti numeri, molte tabelle ma alla fin fine gli accostamenti sono arbitrari: la teoria non ha alcun sostegno dei dati, contrariamente a quanto affermato. E alcune scelte fatte dagli autori nella scelta dei dati utilizzati per la “correlazione” sono quantomeno molto discutibili. Vien fuori anche in questa vicenda la delicatezza del rapporto tra indagine scientifica e media, specie in una fase in cui i “decisori politici” affidano molti provvedimenti proprio alla ricerca. Così quel position paper che gli stessi autori definiscono un “lavoro preliminare” è passato sui media come uno studio accreditato e solido. E il secondo indizio sbandierato, quelli del ritrovamento in campioni di aria assieme al particolato ovvero alle polveri sottili di tracce di RNA del virus, in realtà non vuol dire nulla. La presenza di tracce di virus – scrive Scienza in Rete - nel particolato non è affatto una novità, visto che si studiano anche le tracce di virus di tanti millenni che sono presenti nelle carote di ghiaccio. Ma, ovviamente, non si tratta di virus attivi, in grado di essere infettivi. Sono, appunto frammenti, tracce che possono indicare la presenza di virus infettante, ma non la dimostrano… e se anche la presenza di virus fosse confermata questo non comporterebbe la sua infettività. In prima battuta, perché dopo poche ore un virus, in assenza di un ospite da colonizzare e nelle cui cellule replicarsi, non può continuare ad esistere come entità biologica. In seconda battuta, per infettare non bastano uno o pochi virus, ma deve esserci una definita carica virale sotto la quale non vi è infezione. Colpisce come media e voci che vengono dal mondo della scienza scambino correlazione e causalità. Insomma che stabilito un nesso qualsiasi se ne faccia discendere invece un legame che vuole “dimostrare” che una cosa è determinata dall’altra. In questo caso la presenza di PM10 più diffusa in alcune regioni d’Italia con la diffusione del virus. Gli indizi nella scienza non sono prove e stabilire un rapporto di causa effetto tra due fenomeni è cosa che va dimostrata in maniera solida. Ma tutto questo sembra sfuggire soprattutto ad una informazione veloce e superficiale, gridata e ad effetto. E in più viene da dire che simili forzature (le indagini scientifiche prima si verificano poi si pubblica sulle riviste scientifiche che le sottopongono al vaglio della controprova) nate forse per enfatizzare il problema dell’inquinamento e delle polveri sottili mescolando con le paure del contagio rischiano di avere un effetto opposto. Prendiamo in maniera seria la questione dell’inquinamento e troviamo seri strumenti scientifici che ci permettano di affrontarlo efficacemente. In questa direzione vuole andare il progetto “Pulvirus” annunciato da Enea, ISS e Snpa. C’è solo da aspettare.

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