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IL SENSO DELL’ESSERE
COLTIVARE LA SPERANZA PER RIGENERARE L’UMANITÀ
Marcella Serafini è Dottore di Ricerca in Filosofia della Religione presso l’Università di Perugia; nel 2017 ha conseguito il secondo Dottorato in Filosofia presso la Pontificia Università Lateranense. La sua dissertazione, dal titolo “Il rapporto tra intelletto e volontà nella filosofia della libertà di Duns Scoto”, è risultata vincitrice dell’edizione 2018 del Premio Henri de Lubac. Insegna Filosofia presso il Liceo “A. Pieralli” di Perugia e tiene lezioni di approfondimento come Docente Incaricata presso l’Istituto Teologico di Assisi (e altri Atenei).
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L’8 novembre la Chiesa celebra la memoria liturgica del beato Giovanni Duns Scoto (1265/66-1308), teologo e filosofo francescano. Il breve ma intenso itinerario della sua vita – dedicata allo studio e all’insegnamento nelle principali università del tempo - è sintetizzato dall’epitaffio riportato sulla lapide della tomba, presso la Minoritenkirche di Colonia - “Scotia me genuit, Anglia me suscepit, Gallia me docuit, Colonia me tenet”.
Cantore del Primato di Cristo, difensore del Concepimento Immacolato di Maria, testimone di fedeltà e obbedienza al Sommo Pontefice: questi i capisaldi della sua teologia, sostenuta da una solida base filosofica, fiduciosa nella ragione, ma consapevole dei suoi limiti e della necessità di aprirsi a un compimento soprannaturale.
Vogliamo ripercorrere alcune intuizioni di questo Beato francescano, per attingere da lui sollecitazioni e slancio, che aprano la mente a un orizzonte di speranza. Oggi più che mai siamo chiamati a riflettere sulla speranza, al fine di alimentarla: ‘sperare’ significa credere che ci sia un senso nella vita e nella storia - anche se non lo percepiamo concretamente - attendere un futuro di bene, assumersi le proprie responsabilità e lottare perché la vita vinca.
Vissuto in un periodo di grandi fermenti culturali – la diffusione dell’aristotelismo, visione del mondo alternativa, e per certi aspetti antitetica, a quella cristiana – Giovanni Duns Scoto ha saputo affrontare questa crisi culturale con coraggio e determinazione, riconducendo anche le novità nell’orizzonte della propria identità cristiana. Elabora così una sintesi originale di filosofia, teologia e spiritualità; non intende separare ragione e fede, ma distingue le due prospettive per integrarle: l’intelletto – aperto alla totalità del reale ma storicamente limitato – riceve compimento e perfezione solo se illuminato dalla fede.
La teologia allarga gli orizzonti della metafisica, consente di accedere alle profondità del reale e di penetrarne il significato nei termini di libertà, relazione e amore. L’universo esiste in quanto voluto da Dio (volitum): di conseguenza, siamo chiamati a valorizzare il bene che è nell’altro, prima di qualsiasi rivendicazione individuale.
È lo sguardo espresso da Francesco d’Assisi nel Cantico delle creature, che nel De primo Principio Duns Scoto sintetizza in modo mirabile: «Tu sei buono senza limite, e comunichi con estrema liberalità i raggi della tua bontà; a Te, sommamente amabile, i singoli enti, nel modo proprio di ciascuno, ritornano come al loro fine ultimo» (cap. IV, conclusione 10).
Duns Scoto incarna in modo esemplare l’intuizione fondamentale del carisma francescano, fulcro del messaggio evangelico: alla radice dell’essere c’è l’amore gratuito di Dio, fonte di benevolenza e sorgente di mistero. L’universo è “epifania dell’amore creativo”: tutto è dono ed esprime relazione, perché si radica in una relazione originaria.
La persona umana è unicità irripetibile (ultima solitudo) e relazione: l’esistenza è chiamata, vocazione, dono.
Questa ontologia, essenzialmente relazionale, può offrire solide basi per una fraternità umana, universale e cosmica, come espresso da Papa Francesco nelle encicliche Laudato Si’ e Fratelli tutti. Dall’ontologia della relazione deriva un’etica della condivisione improntata alla logica del dono; Duns Scoto esprime questo approccio nei termini di ‘condelectatio’ e ‘redamatio’: la vocazione dell’uomo è godere dell’amore di Dio insieme agli altri (condelectatio), nella reciprocità, restituendo a Dio l’amore ricevuto (redamatio).
È una prospettiva che valorizza l’individuo unico e irripetibile contro ogni totalitarismo e dittatura del pensiero unico, che sollecita responsabilità e cura del creato, solidarietà sociale e condivisione fraterna, alimentando la fiducia nell’uomo e nelle sue potenzialità di bene.
Nella volontà umana infatti è presente non solo l’attitudine a perseguire la propria utilità e il vantaggio personale (affectio commodi) ma è altrettanto costitutiva (non alterata dal peccato originale) la capacità di amore gratuito e dono di sé (affectio iustitiae).
Fondamento e radice di tale ‘ottimismo antropologico’ è l’Incarnazione del Verbo, l’umanità di Cristo, che Scoto, con devozione e affetto, contempla nella preghiera e medita nello studio (secondo il principio “ora et cogita, cogita et ora”). La centralità di Cristo offre la chiave di lettura per intuire il senso della vita e della storia: «Nel lodare Cristo preferisco eccedere più che mancare, nella lode a lui dovuta, se dovessi cadere in uno dei due eccessi» (Ordinatio III, d. 13, q. 4, n. 53).
Nel Commento al terzo libro delle Sententiae, introducendo la sezione dedicata alla cristologia, il Maestro francescano ribalta la consueta direzione della ricerca: non medita sull’Infinito a partire dal finito, ma intraprende il percorso inverso, persuaso che il significato del finito si possa intuire soltanto a partire dall’Infinito; là dove le creature hanno origine è custodita la chiave del loro essere.
Per tale motivo medita l’Incarnazione non a partire dal peccato, quasi che il ‘Capolavoro’ di Dio (Summum Opus Dei) sia subordinato alla colpa dell’uomo, ma, al contrario, alla luce del ‘primato’ di Cristo: Dio ha voluto da sempre l’Incarnazione del Verbo, e, in Lui, l’uomo e il mondo. Poiché Dio è ‘essenzialmente amore’, tutto è espressione e riflesso del Suo Amore e nell’amore trova giustificazione: la prima ragione dell’Incarnazione è il desiderio, da parte di Dio, di condividere con una creatura la sua ‘gloria’, amore e gioia infiniti. Cristo è Colui che in modo eminente riceve e restituisce l’Amore del Padre, è il perfetto adoratore, che armonizza prodigiosamente finito e infinito. Il mondo, creato in vista di Lui, assume una sacralità intrinseca e glorifica Dio: «La ragione ultima, cioè la prima nell’ordine dei moventi, è dunque l’amore; Dio crea perché (…) vuole avere altri coamanti (condiligentes), il che significa che vuole che altri abbiano il suo amore in se stessi; ciò significa predestinarli» (Ordinatio III, d. 32, n. 6).
La natura umana è stata pensata, nella mente eterna di Dio, come la più nobile per attuare il fine supremo della creazione. Il Figlio di Dio l’ha assunta integralmente, senza modifiche o miglioramenti; così facendo, Dio ha mostrato di amare e approvare pienamente la sua opera. Dal momento che è stata assunta dal Figlio di Dio, la natura umana verrà glorificata in ciascun individuo.
Alla luce di tale luminoso disegno, anche l’oscurità si accende di speranza, come evidenziato da Benedetto XVI nella Spe Salvi: «L’uomo ha per Dio un valore così grande da essersi egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l’uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza» (n. 39).
La speranza ‘radicale’ che viene dalla Resurrezione di Cristo illumina e alimenta la vita e le speranze quotidiane: solo lo sguardo benevolo di Dio può guarire il cuore ferito e lo sguardo annebbiato sul mondo e sulla storia; dal momento che tale Sguardo benevolo non abbandona le creature, la vita godrà del trionfo pasquale.