Medioevo Dossier n. 54, Gennaio/Febbraio 2023

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MEDIOEVO DOSSIER

Dossier

NEL MONDO DELLE STREGHE

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N°54 Gennaio/Febbraio 2023 Rivista Bimestrale

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€ 7,90

059004

Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

EDIO VO M E

NEL MONDO DELLE

STREGHE

IN EDICOLA IL 17 GENNAIO 2023



NEL MONDO DELLE

STREGHE a cura di Francesco

Colotta Colotta, Claudio Corvino, Paolo Galloni, Jean-Claude Maire Vigueur, Agostino Paravicni Bagliani, Sergio Ribichini testi di Francesco

LE ORIGINI 10. «Uccidete, sopprimete, dilaniate…»

IL MALLEUS MALEFICARUM 78. Un crimine contro l’umanità

UN IDENTIKIT 22. In volo con Satana

TORTURE IN NOME DI DIO 86. La confessione a tutti i costi

POZIONI E ALTRE MISTURE 32. «Ungi l’uomo sulle tempie e sugli occhi...» L’EUROPA CONTRO LE ERESIE 42. Tolleranza e repressione

LE ABERRAZIONI DEGLI INQUISITORI 98. Al di là del diritto

LEGGENDE ALPINE 50. Sortilegi di montagna

IL TEMPO DEI MEDICI 110. Un medico contro l’«impero del diavolo»

ALLA SBARRA 60. Colpevoli perfette

FORTUNA DI UN MITO 122. Dal rogo al grande schermo

IL PIÚ FEROCE DEI TRIBUNALI 72. Tribunali d’ingiustizia

STREGHE MODERNE 124. «Follie» del Nuovo Mondo




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el lungo racconto sulla stregoneria in Europa, il capitolo dell’età di Mezzo è il piú controverso e, per questo, il piú affascinante. Nell’arco di mille anni, i sortilegi messi in opera da donne presunte alleate del demonio vennero interpretati – in particolare dalla cultura cattolica – secondo criteri difformi, contraddittori: furono giudicati residui di vecchi culti pagani, come forme embrionali (ma non pertanto meno pericolose) di protesta sociale, come diretta espressione della presenza del diavolo, come allucinazioni collettive. È possibile, dunque, fornire una definizione univoca del fenomeno stregoneria? Come spiegare (non potendo certo giustificarla in alcun modo) una delle pagine piú oscure della civiltà occidentale? Per affrontare la questione, l’indagine storica si avvale dei contributi della sociologia, dell’antropologia, della teologia, ma anche delle scienze mediche e dell’esegesi del diritto. Particolarmente suggestiva appare la lettura in chiave antropologica che vede nei riti delle streghe medievali il retaggio di antichi culti precristiani. Per l’egittologa e antropologa britannica Margaret A. Murray, l’Inquisizione avrebbe combattuto una guerra contro una religione arcaica sopravvissuta alla conversione (Le streghe nell’Europa occidentale, 1921). Le origini della stregoneria sono, verosimilmente, antiche quanto l’Uomo. Per gli inizi del II millennio a.C., l’esistenza di operatori dell’occulto è attestata in Mesopotamia: il Codice di Hammurabi, la celebre raccolta di leggi incisa su una stele oggi conservata al Museo del Louvre, elenca sanzioni contro le pratiche magiche volte a danneggiare il prossimo. Nell’Odissea Circe attira i compagni dell’eroe per somministrare loro pozioni magiche, mentre nella Medea di Euripide, la protagonista prepara veleni per la rivale in amore e non esita a compiere le piú terribili efferatezze. A partire dal V secolo a.C. cominciò a diffondersi, nel mondo romano, una forma di male6

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ficio realizzato attraverso formule incise su tavolette di piombo, le cosiddette defixionum tabellae. I politici romani furono, pertanto, costretti a prevedere sanzioni nei confronti di chi praticava questa e altre forme di magia, nocive alla comunità. Mentre con l’avvento del cristianesimo la condanna della stregoneria assunse un profilo piú «ideologico». Fu però il Medioevo a tracciare un identikit piú netto e definito del fenomeno, denunciando l’operato di «donne scellerate, convertite a Satana». Eppure, nonostante la crescente diffusione di pratiche di magia, spesso ispirate ad antichi culti pagani, la Chiesa cattolica raramente interveniva in modo diretto, limitandosi a comminare sanzioni di carattere spirituale. La caccia alle streghe era ancora lontana: il Concordia discordantium canonum, un codice di diritto canonico del 1140, sanzionava i responsabili di malefici con l’espulsione dalla Chiesa e, tutt’al piú, con la scomunica. Con il trascorrere degli anni, tuttavia, all’interno delle gerarchie ecclesiastiche si avvertí l’esigenza di ricorrere a mezzi piú incisivi sul piano


della repressione. La politica del pugno di ferro venne inaugurata in seguito al propagarsi dell’eresia catara: per combatterla papa Lucio III e l’imperatore Federico Barbarossa, nel 1184, previdero punizioni esemplari, attraverso un sistema di repressione e controllo istituzionalizzato. Si sospettava che gli eretici evocassero in segreto Satana, che compissero sacrifici umani e altri crimini. Dietro quel giro di vite si profilava la nascita di una macchina brutale di persecuzione: Ille humani generis, con questa bolla, promulgata nel 1232, papa Gregorio IX «varò» di fatto il tribunale dell’Inquisizione, la cui competenza comprendeva eresia e stregoneria. Un primo vademecum per gli inquisitori, pubblicato nel 1320 con il titolo Practica Inquisitionis Heretice pravitatis, stabiliva limiti precisi alla tortura.

Ben presto, però, i metodi per estorcere confessioni divennero piú spietati: nel 1376 un altro vademecum, il Directorium inquisitorum ammetteva la possibilità di reiterare le torture nel corso di un processo (con la raccomandazione, si noti, di non spargere sangue!). A partire dal Quattrocento, la repressione assunse la massima ferocia, sancita dai raccapriccianti metodi di accusa e sanzione previsti nel trattato demonologico Malleus maleficarum (1486). A distanza di secoli – e nonostante l’enorme mole di pubblicazioni – il fenomeno stregoneria ci coinvolge ancora. I suoi risvolti moderni – come rivelano le pagine di questa nuova edizione di «Medioevo» Dossier – continuano a far presa. Anche sulla nostra mentalità di cittadini… illuminati. Facsimile di Streghe e incantesimi, dipinto realizzato da Salvator Rosa intorno al 1646. Nella scena si immaginano il sacrificio di un uomo, la celebrazione di rituali e la preparazione di pozioni.


Il sabba delle streghe, incisione di Marcantonio Raimondi. Stoccolma, Museo Nazionale.

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«UCCIDETE, SOPPRIMETE, DILANIATE…» Testi magici originari dell’antico Egitto, tavolette di piombo con maledizioni iscritte, divinità femminili dalle connotazioni infernali: mediatori tra umani e potenze sovrannaturali, gli operatori (e le operatrici) dell’occulto sono una presenza costante nelle società del Mediterraneo antico. Come rivelano alcune, straordinarie, scoperte archeologiche… di Sergio Ribichini


Quadretto ad affresco raffigurante l’incontro tra una maga e un viandante, dalla Casa dei Dioscuri, a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


LE ORIGINI

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e tecniche magiche in uso nel mondo greco e in quello romano ci sono note grazie a un variegato repertorio di testimonianze. Tuttavia, qui lasceremo da parte l’esame dei testi in prosa e in poesia che utilizzano la magia come motivo letterario (ricordiamo Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano) o le fonti che la presentano come prodotto di sincretismo filosofico-religioso (la cosiddetta magia «mistica» degli Alessandrini e le sottili disquisizioni dell’ermetismo e dello gnosticismo), limitando altresí a una breve citazione il ricordo dei nomi e delle opere di maghi famosi, come Apuleio di Madaura e Apollonio di Tiana. L’attenzione si concentra dunque sulle fonti archeologiche, rappresentate, innanzitutto, da un nutrito gruppo di papiri magici provenienti dall’Egitto. Il loro ritrovamento fece sensazione non meno di quello dei manoscritti del Mar Morto o di opere classiche considerate perdute. Se ne conosceva l’esistenza e la diffusione da varie fonti letterarie, che recano menzione dei numerosi testi magici su papiro circolanti nel mondo greco-romano e condannati periodicamente alla distruzione. Svetonio, per esempio, afferma che l’imperatore Augusto, nel 13 a.C., ordinò il rogo di duemila pergamene di contenuto magico; e gli Atti degli Apostoli (19:18) ri-

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cordano un’analoga iniziativa promossa a Efeso da quanti avevano abbracciato la fede dopo la predicazione dell’apostolo Paolo. Incalzati dalle leggi e poi dall’avvento della nuova religione monoteistica, molti operatori di magia provvidero senz’altro a occultare nel miglior modo possibile i loro testi. Quelli che rimasero in circolazione vennero raccolti, già sul finire dell’evo antico, da filosofi e alchimisti, appassionati cultori di magia; ma gli originali andarono comunque perduti. Si può pertanto ben comprendere l’importanza dei papiri recuperati in tempi moderni, che sono ancora oggi oggetto di studio e di edizione.

Il «formaggio» del viceconsole

Essi costituiscono in buona parte la cosiddetta collezione Anastasi, dal nome del viceconsole svedese al Cairo (dal 1828 al 1857) che li portò in Europa. Stando alle sue dichiarazioni, molti papiri (almeno una mezza dozzina, tra quelli meglio conservati) provenivano da un unico ritrovamento, effettuato nei pressi di Tebe nella tomba di un mago o di un bibliofilo che li aveva voluti sepolti accanto al suo cadavere. Venduti all’asta, i papiri vennero acquistati da vari musei (il British di Londra, il Museo Nazionale di Berlino, la Biblioteca Nazionale e il

Nella pagina accanto lekythos attica raffigurante la strega Lamia torturata da satiri. 525-475 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. In basso particolare del papiro greco di Oslo. IV sec. a.C. Oslo, Università. È uno dei piú importanti documenti esistenti sulla magia nell’antichità, contiene 19 formule magiche ed è illustrato con i disegni dei demoni che devono essere riprodotti come parte del rituale.


Louvre di Parigi, il Rijksmuseum di Leida) e il loro numero è andato aumentando con nuovi ritrovamenti o acquisizioni dal mercato antiquario. Ci volle tuttavia piú di un secolo prima che gli studiosi comprendessero appieno il valore di questo materiale, che nel catalogo d’asta della collezione Anastasi era definito come «fromage mystique». I papiri magici in lingua greca (ce ne sono però anche in egiziano demotico e in copto) risalgono per la gran parte a un periodo che va dal II secolo a.C. al V d.C. e incorporano un’ampia quantità di documenti, di varia origine e natura: sono, in altri termini, i manuali dell’operatore magico, i suoi ricettari e gli schemi di lavoro. Sebbene provengano dall’Egitto greco-romano, essi testimoniano pratiche in uso già nell’epoca ellenistica e riflettono perlopiú il pluralismo culturale caratteristico delle civiltà mediterranee unificate da Roma. Molto deriva, ovviamente, dalla religione egiziana, sia pure attraverso il filtro della sua ellenizzazione: gli dèi, i miti, la tradizione dell’Egitto faraonico vi si ritrovano variamente deformati e spesso condizionarono lo svolgimento del rituale e i caratteri delle divinità di diversa origine. Notevole è anche l’influsso del giudaismo, con i suoi segreti, il nome potente del suo dio e la fama nel mondo esterno di religione creatrice di grandi maghi. L’apporto dei Giudei alla magia dei testi papiracei s’individua soprattutto in taluni elementi specifici: in primo luogo, la Bibbia, che offre racconti e personaggi «esemplari»; poi il nome divino e quelli degli angeli suoi servitori; infine la terminologia, che deforma i vocaboli ebraici in varie formule arcane, a cominciare forse da quella dell’abracadabra.

Vivere nell’anticamera della morte

Numerosi elementi costitutivi traggono origine, inoltre, dagli sviluppi della religione e del pensiero filosofico greco. Ma i vari Zeus, Ermes, Apollo, Artemide, Afrodite che si ritrovano in questi papiri non sono piú, come s’è detto, le divinità note alla letteratura e all’arte greche tradizionali, bensí esseri capricciosi, demoniaci, spesso anche pericolosi. Tutti poi assumono, con Ecate (vedi box alle pp. 14-15) e Persefone, connotazioni sotterranee e infernali specifiche, al punto che la vita umana sembra svolgersi (segue a p. 17) STREGHE

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UNA NEMICA DELLA LUCE DAI POTERI TERRIFICANTI La dea greca Ecate, venerata inizialmente in Asia Minore, assume rilievo nella Teogonia di Esiodo e diviene poi la signora per eccellenza delle operazioni magiche. La dea presenta all’inizio i caratteri di benefica dispensatrice di grazie, sicura alleata nei tribunali, potente ausiliatrice nelle gare atletiche. Era inoltre associata ai crocevia, dove mensilmente si esponevano i suoi «banchetti» rituali con offerte di pani, dolci, pesci, uova, formaggi; per questo veniva anche raffigurata con tre facce o con tre corpi. Da tale suo trimorfismo e dal suo aspetto di divinità delle strade e dei crocicchi derivò, con il tempo, una sua specifica associazione con le ombre dei fantasmi, che si riteneva si agitassero appunto in quei luoghi, alla luce incerta della luna. Poco a poco, questa divinità dall’origine straniera finí dunque per essere evocata come nemica della luce e dea delle tombe, generatrice d’incubi e di malattie, mentre la sua figura terrificante assunse i tratti di patrona di stregoni e maliarde, nonché di protagonista attiva d’ogni sorta d’operazione funesta. A Ecate si giunse ad attribuire, fin dall’epoca classica, l’invenzione stessa della magia, una stretta parentela con Circe e Medea e poi ancora una temibile schiera di cani ululanti e di Lamie, demoni femminili abitatori dell’inferno.

Moltitudini sinistre Le Lamie non hanno per lo piú tratti ben caratterizzanti, risultano praticamente assenti dall’espressione artistica e spesso si confondono perfino con la dea Ecate; i loro nomi sono quelli del fantasma infanticida di Gello, dello

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spauracchio senza pace di Mormo, della mostruosa Baubo e dello spettro multiforme di Empusa. Nelle rappresentazioni greche e poi romane dell’oltretomba, tuttavia, trovano posto con queste Lamie altri temibili personaggi extraumani, lasciati per la gran parte ai margini del sistema politeistico ufficiale: le vendicatrici Erinni, per esempio, e le Arpie rapitrici di mortali, le Furie tormentatrici, le Larve spettrali, e cosí via. Tali sinistre moltitudini, rappresentando di fatto quanto v’era di ripugnante nell’esistenza umana (dolore, vecchiaia, rimorso, fame, morte violenta o prematura), costituivano per le operazioni di magia un potenziale di referenti sovrumani tanto vario, quanto minaccioso e presumibilmente efficace.

Incisione seicentesca raffigurante una Lamia, creatura mitologica per la quale non sono attestate caratteristiche ben definite, ma che, come in questo caso, si immaginava come un essere ermafrodito quadrupede con la pelle a scaglie da rettile.


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nell’anticamera della morte e consistere in una continua negoziazione tra il mago e le potenze dell’oltretomba. In quest’opera di mediazione sono del pari coinvolte divinità astrali, come Selene, la luna, e la costellazione dell’Orsa, o astratte, come Physis, la Natura, Moira, il Destino, e la piú importante di tutte, Aion, l’Eone del Tempo. È dunque una sorta di «fascinazione» dell’universo intero quella che propongono i papiri magici greci: un incantesimo (si ricorderà che questo, propriamente, è il significato del latino fascinum) che piega inesorabilmente ai voleri del mago ogni divina potenza del cosmo.

Le lingue del mago

La conoscenza del nome è cosí il primo favore che l’operatore chiede alla divinità, per poterla poi costringere ad agire: naturalmente si chiede di conoscere il nome autentico del dio, quello grande, consacrato, segreto, bello, terribile, forte e sovrano, per usare la terminologia dei papiri. La pronunzia del vero nome divino, pertanto, è un momento essenziale dell’atto magico, e, per essere sicuro di non ometterlo, il mago moltiplica le formule e gli appellativi, ricorre alle lingue straniere, al parlare degli uccelli e degli animali. Alla padronanza del nome si aggiunge poi quella dei segni, dei numeri e degli emblemi divini; piú l’operatore dimostra di conoscere la natura del dio, insomma, maggiore è la potenza che ritiene di avere su di lui. Dalla divinità egli si attende soprattutto beni esistenziali: l’amore, il benessere economico, la salute, la vittoria, la bellezza, la gloria. Talvolta il mago punta a ottenere uno scopo piú preciso, come arrestare la collera di un individuo, votarlo all’impotenza o all’insonnia, proteggerlo contro gli scorpioni, i serpenti e le malattie. Oppure egli si esercita in pratiche piú rare e piú complesse, come la risurrezione di un morto, l’evocazione di una persona defunta, la predizione dell’avvenire. Il mago, infine, si serve di un cerimoniale segreto e di formule incomprensibili, talora soltanto accennate nel testo papiraceo, che ne dà per scontata la conoscenza. Non di rado egli ricorre al sacrificio di un gallo, di un cane o di un altro animale, e alla trance di un fanciullo, come medium per conoscere il volere divino. Tra gli «attrezzi del mestiere», accanto alle erbe, alle pozioni, al fuoco e alle figurine di cera, dobbiamo ricordare anche piccole tavole, chiodi, ciotole e pietre ricoperti di simboli magici, che figuravano per esempio nel kit di un operatore, rinvenuto a Pergamo e risalente al III secolo d.C. Per l’esemplificazione, invece, dei rituali in

In alto una tabella defixionum, tavoletta in piombo contenente una maledizione, dall’anfiteatro romano di Treviri. II-III sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum. Nella pagina accanto rilievo raffigurante la dea Demetra in trono, con una kore davanti a lei che regge due torce. 480 a.C. circa. Eleusi, Museo Archeologico.

questione, basterà qui la citazione di un papiro del IV secolo, che offre la ricetta magica per vincere in una corsa. Il testo prescrive, con molti dettagli, di affogare innanzitutto un gatto, pronunciando i nomi degli avversari temuti, affidandoli al dio solare Helios, scongiurato in tutte le sue denominazioni. Successivamente, nel corpo della povera bestia si devono inserire tre lamine magiche; il gatto va quindi avvolto in una foglia di papiro, sulla quale si deve precedentemente scrivere col cinabro la preghiera del sortilegio e disegnare i carri, i cocchieri, i cavalli da corsa. A questo punto l’animale va seppellito, avendo cura di accendere sette lampade e di lasciar fumigare dello storace (una pianta aromatica). L’acqua utilizzata per affogare il gatto, da ultimo, deve essere versata sul luogo dell’incantesimo, mentre a Iside-Ecate-Ermecate e al demone del gatto si rivolge una preghiera, di cui il papiro riporta il testo per esteso. La scelta di questo esempio non è casuale: con la menzione delle lamine magiche, esso c’introSTREGHE

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In Grecia e a Roma La faccia superiore del Prognosticon, un disco in bronzo, di forma convessa con iscrizioni di simboli astrologici ed esoterici, verosimilmente utilizzato per la divinazione, da Pergamo. III sec. d.C. circa. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung.

duce infatti a un secondo gruppo di documenti e di riti, sui quali gli scavi archeologici permettono di avere informazioni dirette. Si tratta delle maledizioni scritte su piccole sfoglie di metallo (generalmente in piombo, ma ce ne sono anche in bronzo, stagno, oro e perfino in argilla), che gli studiosi indicano col termine «defissioni» (defixionum tabellae) e che sono state rinvenute a centinaia in molte località del Mediterraneo. Le piú antiche (alcuni esemplari da Selinunte) risalgono forse alla seconda metà del VI secolo a.C., mentre le piú recenti appartengono all’età imperiale avanzata, in pieno cristianesimo. Per la gran parte sono in greco e redatte in prosa, con il frequente ricorso a un linguaggio contorto; ne esistono però anche in latino (ispirate ai modelli ellenici) e in forma metrica. Un paio, provenienti da Cartagine, sono in punico e ci mostrano l’ampia diffusio18

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ne di una pratica che dalla Grecia si irradiò in Asia, in Siria-Palestina (si confrontino i ritrovamenti da Tell Sandahanna, località situata presso Maresha, in Israele, a metà strada tra Gaza e Betlemme), in Egitto e in Italia, e fu poi trasmessa dagli eserciti romani fino in Spagna, in Britannia e in Nord Africa. L’uso di questi «legamenti», come li definisce Platone e come indicano alcune espressioni delle stesse tavolette, era generalmente proibito e fu sottoposto a severe sanzioni. Nella Grecia classica, se a farlo era un medico, veniva punito con la morte; a Roma, chi commetteva tale reato nel quadro degli impia nocturna rischiava la crocifissione, o l’esposizione alle belve. La proibizione era legata soprattutto al carattere di magia nera delle defissioni. Il rito, in effetti, era sempre indirizzato a nuocere e far del male: ci si proponeva di uccidere o paralizzare la propria vittima, per invidia o gelosia; di punirla per un furto presunto o di rovinarla in tribunale; di vendicarsi di un medico incapace o del coniuge infedele; d’impedire o procurare a qualcuno il successo in amore, di negare a un avversario il trionfo nel circo o nell’anfiteatro, e cosí via.

Piombo per le maledizioni

Il defissore scriveva, dunque, il testo della sua maledizione sulla tavoletta di piombo, vi tracciava segni magici, le figure degli esseri invocati e quelle delle vittime; ripiegava quindi o arrotolava la defissione su se stessa e provvedeva a seppellirla. A questo scopo si prediligevano, di solito, i santuari delle divinità dell’oltretomba, i pozzi e le sorgenti, le porte delle città, oppure le Tavola in bronzo con rilievi raffiguranti le tre forme di Ecate e iscrizioni, facente parte di un corredo di nove oggetti (tra cui il cosiddetto Prognosticon) verosimilmente impiegati per rituali magici, da Pergamo. III sec. d.C. circa. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung.


tombe, in particolare quelle di persone colpite da morte violenta: tutti quei luoghi, insomma, che suggerivano un contatto diretto con il mondo degli inferi e garantivano un’attenzione particolare dei suoi abitatori per le laminette iscritte. La maggior parte delle defissioni provengono cosí da zone sepolcrali; ma ne sono state trovate anche in luoghi sacri, come per esempio nel temenos di Demetra ctonia a Cnido e nel santuario delle divinità infere a Morgantina, in Sicilia. Un’idea del tono di questi scongiuri ci è data da un esemplare ritrovato nell’anfiteatro di Cartagine, rivolto contro un bestiario: «Uccidete, sopprimete, dilaniate Gallico, il figlio di Prima, ora, al cospetto della folla; che restino legati i suoi piedi, le membra, i sensi, il cervello, cosí che non uccida né orso né toro, con la rete semplice, né con quella doppia e neppure con la tripla (...) Fatelo nel nome del dio vivo onnipotente; adesso, adesso, presto, presto. Che l’orso possa sbranarlo e farne strazio!». Talvolta la defissione, ripiegata, veniva trafitta da chiodi, per rafforzare il senso dello scongiuro (defigere in latino significa appunto «inchiodare»). In qualche caso, poi, il rito era piú complesso e la tavoletta veniva accompagnata da una figurina – in cera, in argilla o in metallo –, che rappresentava la vittima da colpire e che, nel simbolismo magico, veniva opportunamente martirizzata dallo specialista del rito. Due ritrovamenti basteranno qui a esemplificare il procedimento: il primo viene dalla Grecia della fine del V secolo a.C., il secondo, cronologicamente assai posteriore, proviene dall’Egitto del III-IV secolo d.C.

Statuetta per un sortilegio d’amore trafitta da vari spilloni. IV sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

Le braccia legate

Si tratta, nel primo caso, di una scatoletta di piombo rinvenuta in una tomba del sepolcreto ateniese del Ceramico. L’oggetto era tra le ossa del bacino dello scheletro di un defunto e conteneva a sua volta una figurina maschile dello stesso metallo, con le braccia legate dietro la schiena e il nome di una persona inciso sulla gamba destra. Nella faccia interna del coperchio della scatoletta era stato inciso il testo della defissione contro il personaggio raffigurato e contro altre persone, con lui implicate in un processo giudiziario. L’altro esempio è costituito da tre pezzi: una STREGHE

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figurina femminile nuda, inginocchiata e con le mani legate dietro la schiena, il corpo trafitto da tredici piccole frecce metalliche; poi una defissione in piombo, che reca il testo di un incantesimo d’amore affidato a divinità ctonie e a defunti di morte precoce; infine, un vaso, destinato a contenere gli altri due pezzi, in terracotta come la statuetta. Gli oggetti di provenienza egiziana si pongono in stretta relazione con un papiro magico del IV secolo, che – per assicurare magicamente l’amore e la fedeltà di una donna – prescrive appunto di modellarne con l’argilla un’immagine, di trafiggerla con aghi di bronzo in tredici punti vitali, di seppellirla poi in una tomba con una formula incantatoria incisa su lamina di piombo e con un’altra statuetta, raffigurante il defunto che viene coinvolto nell’atto di defiggere la donna. La corrispondenza non è casuale, né desta eccessiva meraviglia, poiché le analogie osservabili tra i testi dei papiri magici e le defissioni vanno ben al di là di quelle indicate dai rituali che abbiamo poc’anzi ricordato.

Formule incomprensibili

Non diversamente dai documenti papiracei, gli scongiuri sulle lamine di piombo considerano, per esempio, essenziale il ruolo di esseri sovrumani sistematicamente riferiti all’oltretomba, che qui prendono i nomi di Plutone, Ermes-Mercurio infernale, la Terra Madre, Cerere e Proserpina, Ecate, Persefone, Iside, Osiride, Ereshkigal, Iao e altre divinità d’origine straniera. Si moltiplicano poi, anche nelle tabelle, gli appellativi esoterici e i barbara onomata, nomi strani e senza senso che si davano alle divinità per formare nuove entità sovrumane. Ritroviamo inoltre le formule volutamente incomprensibili e la crittografia mistica, costituite per esempio dagli ephesia grammata («lettere efesine», perché scritte sulla statua di Artemide efesina o perché con esse un lottatore di Efeso si sarebbe procurato la vittoria), che sono serie di parole di significato misterioso, formate secondo uno schema di assonanze e suffissi che doveva facilitare l’intonazione progressiva della loro pronunzia. Anche nelle defissioni, infine, si gioca sui caratteri della scrittura, sulle serie alfabetiche, vocaliche e numeriche per dare vita a combinazioni del tipo CZΛUΘ, dove C sta per Osiride, Z per 20

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Mano votiva in bronzo, con simboli magici, destinata al culto del dio Sabazio e ritrovata in Svizzera, presso l’antica Aventicum. 50-150 d.C. Avenches, Museo Archeologico.

Apis, Λ contiene un riferimento per noi oscuro, U va riferito al dio Seth oppure agli inferi, Θ rappresenta il cerchio magico. Nelle tabelle come nei papiri, si ricorre insomma a un vocabolario misterioso e composito, la cui arcana complessità era di per se stessa considerata sinonimo di familiarità del mago col soprannaturale e garanzia di efficacia per i suoi rituali.

Eracle che «allontana il male»

Uno stretto rapporto con le pratiche e l’ideologia dei papiri e delle defissioni, nei termini sincretistici che andiamo illustrando, ha anche un terzo gruppo di documenti, che ci propone però oggetti destinati a proteggere magicamente dal male e a procurare il bene. Per tali scopi, nei periodi classico ed ellenistico, si usarono amuleti di vario tipo, come i grandi occhi apotropaici ai quali si è accennato sopra, e soprattutto le pietre lavorate con l’immagine di Eracle «allontanatore del male» (a-lexikakos) o di altre divinità misericordiose. Nel I secolo d.C. cominciano invece ad apparire laminette in oro e in argento, con iscrizioni conservate in piccoli astucci di forma cilindrica, come nell’antico Egitto, e soprattutto, in gran numero, anelli e collane con pietre, che apertamente dichiarano di essere magiche e usano termini e immagini identici a quelli delle defissioni e dei testi papiracei. Per queste pietre gli studiosi hanno adottato la definizione di «gemme gnostiche», con riferimento a elementi dottrinari dello gnosticismo, o quella piú appropriata di «gemme Abrasax», dal termine piú frequentemente inciso su tali pietre. Va detto che raramente questi oggetti sono stati ritrovati nel corso di scavi regolari, che erano molto ricercati nel Medioevo e nel Rinascimento, e che hanno arricchito in gran quantità il mercato antiquario. Se ne possono tuttavia ammirare pregevoli esemplari nelle collezioni dei principali musei, sia in Italia che all’estero. Malgrado la notevole dispersione, traspare dalle gemme una profonda unità dottrinale; sembra del resto sicuro che esse provengano, nella quasi totalità, da centri di produzione egiziani e piú precisamente alessandrini. La lingua delle iscrizioni è il greco, usato anche per trascrivere vocaboli di lingue semitiche o incomprensibili. Non è raro trovare incise sulle


Amuleto con raffigurazione di re Salomone. Età imperiale. Saint-Germainen-Laye, Musée d’archéologie nationale. In basso dritto e rovescio di una gemma abraxas, amuleto raffigurante la divinità dalla testa di gallo assieme a incisioni di formule magiche. Parigi, Museo del Louvre. gemme formule attestate dai papiri; e accade che un papiro descriva un’incisione che è poi giunta fino a noi. Le gemme erano indirizzate a un largo pubblico di utenti e per questo venivano realizzate perlopiú in materiale semiprezioso o comune (diaspro, ematite, perfino ciottoli), con una lavorazione artigianale piuttosto povera. La scelta doveva dunque avvenire sulla base di valutazioni che prescindevano dal valore venale delle pietre e si riferivano piuttosto alla loro efficacia come talismani. Si conoscono in effetti gemme rivolte contro le emorragie, la febbre, la sciatica, il mal di reni, i dolori allo stomaco, l’aborto, i malanni dell’utero e degli occhi; altre gemme recano incantesimi d’amore o esprimono professioni di fede, con acclamazioni ed epiteti divini; altre ancora si propongono come amuleti contro mali invisibili ed esseri demoniaci. Le divinità invocate o raffigurate ci riportano all’Egitto dei papiri magici: frequente è il nome di Iao, spesso associato alla figurazione di un guerriero anguipede a testa di gallo, con corazza, scudo e frusta. Accanto a questa iconografia troviamo però con frequenza notevole anche il nome di Abrasax, o Abraxas, già indicato per definire le gemme e attestato inoltre sui papiri e sulle defissioni. Il potere magico di questo personaggio era grande, legato soprattutto al valore numerico delle lettere del nome, corrispondenti ai giorni dell’anno e, nel sistema gnostico di Basilide, al numero degli Eoni, di cui Abrasax è il capo.

Tra le divinità sono menzionate o raffigurate soprattutto Bes, Anubi, Osiride in forma di mummia, Serapide, Horo e Iside, identificata talora con Hathor, Ecate, Afrodite ed Ereshkigal. Su molte gemme compare l’immagine di un serpente a testa leonina ornata di raggi, che ha il nome di Chnubis, o Chnumis, derivato probabilmente da quello di Khnum, dio creatore della tarda mitologia egiziana. C’è inoltre un gruppo di pietre con la figura di un demone acefalo, che un papiro definisce «colui che possiede il fuoco eterno, la cui bocca è sempre infuocata, il cui nome è un cuore circondato da un serpente».

Amuleti terapeutici

Spesso le gemme, come già i papiri e le defissioni, recano iscrizioni parzialmente o totalmente incomprensibili, con lettere isolate o in serie, combinazioni vocaliche, anagrammi e formule leggibili nei due sensi, come per esempio thobarraboth e il piú frequente ablanathanalba. Altre volte, le virtú apotropaiche dell’amuleto sono legate alla raffigurazione dell’oggetto da proteggere, dell’essere sovrumano da supplicare, degli eventi mitici da evocare per l’occorrenza. Troviamo cosí amuleti con la Gorgone decapitata contro la podagra, Ares guardiano contro i mali di fegato, l’utero, lo scorpione contro il suo stesso veleno, la lucertola per le affezioni degli occhi. Nel V secolo d.C. cominciano ad apparire in abbondanza gemme che si rifanno a modelli e concezioni giudaico-cristiane: l’immagine del re Salomone, prototipo del Cristo, nelle vesti di un cavaliere che uccide con la lancia un demone femminile oppure associato al malocchio; il nome e la figura di Gesú Cristo sulla croce accanto a simboli e iscrizioni magiche; la Gorgone unita a un arcangelo o alla Madonna. Con questi oggetti termina la produzione magica del mondo antico e si passa a quella degli amuleti di età bizantina e medievale. Il nostro discorso può dunque arrestarsi su questa soglia, quando la magia è avviata a divenire in Occidente, con chiarezza sempre maggiore, una religione a rovescio, in contrasto con la fede cristiana. Il mago, in definitiva, si qualifica ormai come l’operatore del diverso, l’esperto conoscitore di una scienza che viene da lontano, il maestro di una disciplina dotta, autonoma e occulta, alla quale vorranno rifarsi, per autorevolezza e garanzia, maghi, guaritori e alchimisti dei secoli successivi. STREGHE

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IL TEMPO DELLE STREGHE

Un identikit

IN VOLO CON SATANA

Donne «scellerate», devote alle divinità pagane, irrispettose della religione cristiana. Ma anche astute e malvagie, dedite alla magia erotica, esperte di veleni. Ma perché il prototipo del male era declinato, soprattutto, al femminile? E qual è il vero identikit della strega medievale? di Francesco Colotta

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ell’età di Mezzo, il profilo delle streghe assunse un’identità piú netta rispetto al passato, con implicazioni – come già anticipato nel capitolo precedente – che riguardano, piú propriamente, il conflitto con la fede cristiana. Nel Canon episcopi, Reginone da Prüm (840 circa-915) fa riferimento a «quella miscredenza per la quale alcune donne scellerate, convertite a Satana, sedotte dai demoni e da fantasmi, credono, durante le ore notturne, insieme alla dea dei Pagani Diana, e con innumerevoli altre donne, di cavalcare bestie e percorrere immense distese nel profondo silenzio della notte». La tradizione narra che quelle «donne scellerate» si ritrovavano il sabato per celebrare i loro sabba e per dileggiare i simboli della religione cristiana. La stregoneria, pertanto, secondo un autorevole testo cattolico, era un preoccupante sintomo della sopravvivenza di culti pagani, pur se poco organizzati e di non grande seguito popolare. In altre fonti altomedievali le streghe venivano descritte sempre come demoni pagani di sesso femminile che in rituali notturni erano solite rapire i bambini per succhiare loro il sangue. Fino al XII secolo la durezza delle leggi non produsse l’effetto di una persecuzione di massa nei riguardi di streghe e affini. Eppure il Codice Teodosiano era stato ben presto soppiantato dall’ancora piú restrittivo Corpus iuris civilis emanato dall’imperatore d’Oriente Giustiniano I nel 533. L’irrigidimento si era rivelato efficace a Bisanzio, ma non a Roma, dove i barbari avevano importato dai Paesi del Nord Europa usanze ancora intrise di forme tribali di magia. 22

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Restavano in vigore i codici degli imperatori d’Oriente, ma spesso entravano in contrasto con la cultura pagana, ancora ben radicata nel diritto germanico. La legge romana dei Visigoti del VI secolo puniva duramente solo i «malefici, gli incantatori o evocatori di tempeste che tramite invocazioni dei demoni turbano la mente degli uomini» e non tutti gli operatori di magia. Nelle terre sotto il controllo longobardo proseguí il processo di parziale temperamento delle norme repressive contro i sortilegi: l’Editto di Rotari (643), infatti, introdusse norme a tutela delle donne che troppo facilmente venivano accusate di stregoneria e per questo uccise. Nella prima fase del Medioevo l’atteggiamento della cristianità oscillò tra i propositi di una intransigenza totale nei riguardi di qualsiasi forma di magia e la tendenza a ignorare il fenomeno, relegandolo a forma di allucinazione collettiva.

Profili mutevoli

Appare difficile, se non impossibile, ricostruire l’aspetto delle streghe e identificare un presuntivo loro ceto sociale di provenienza. Nei documenti relativi ai processi emergono i profili piú disparati, anche in relazione all’età: dalla vecchia contadina esperta di terapie mediche alla giovane con ascendenze nobiliari, dalla perfetta madre di famiglia alla sospetta indovina. Nell’immaginario collettivo la figura-tipo «è personificata da Celestina (vedi box a p. 28), protagonista dell’omonima opera scritta da Ferdinando de Rojas ai primi del Cinquecento», osserva la storica Marina Mon(segue a p. 26)

Nella pagina accanto streghe dalle fattezze animali volano a cavallo di una scopa. Xilografia da un’edizione del 1508 del De Lamiis et Phytonicis Mulieribus, di Ulrich Molitor.


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La maga notturna che visita le streghe lapponi, particolare di un olio su tela di Johann Heinrich Füssli (1741-1825). 1794-1796. New York, Metropolitan Museum of Art. Il dettaglio del dipinto, ispirato a un passo del poema Paradiso perduto di John Milton (1667), raffigura un gruppo di streghe pronte a sacrificare un bambino addormentato.

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IL TEMPO DELLE STREGHE

Un identikit

tesano nel saggio Caccia alle streghe (Salerno Editrice, Roma 2012). Si trattava di una donna un po’ avanti con gli anni, «barbuta», con alle spalle esperienze da meretrice e da fattucchiera. Di indole malvagia, era dotata di grande astuzia e preferiva dilettarsi soprattutto nel campo della magia erotica. Quasi tutti i casi riportati dalla cronaca inquisitoria presentano un fattore ricorrente, che può fornire un ritratto piú verosimile del fenomeno: molte delle donne accusate si mostravano esperte nella lavorazione di erbe, unguenti e altri preparati, che spesso non utilizzavano a fin di bene. Talvolta si trattava di veri e propri veleni o di sostanze in grado di agire in senso magico per ottenere vantaggi personali e anche per il semplice gusto di nuocere al prossimo. È interessante notare che nella Septuaginta (la versione in greco della Bibbia) il termine «malefico» era espresso dalla parola pharmakous, identificandolo con la somministrazione di un preparato magico, perlopiú velenoso. Anche nell’antica Roma i due termini risultavano sovrapposti, almeno secondo il diritto, a dimostrazione che l’uso delle erbe a scopo stregonesco era largamente diffuso e costituiva una minaccia. Molti anni piú tardi, nel VI secolo, la legge salica operò la stessa associazione: nel capitolo dal nome emblematico di De maleficiis erano comprese quasi solo tipologie di sortilegi effettuati con pozioni alle erbe.

Malefici contro i matrimoni

Nel Medioevo, però, le attività delle streghe comprendevano altri incantesimi ai quali è possibile risalire rileggendo i verbali dei processi svolti dall’Inquisizione: la trasformazione in bestie (topi, gatti neri, lupi), provocare la morte di persone con il malocchio e le fatture, generare tempeste e temporali, diventare invisibili grazie a speciali unguenti, riuscire a stare a galla nell’acqua con mani e piedi legati, non sentire alcun dolore nel punto del corpo in cui era presente il marchio del diavolo. Uno dei malefici piú frequenti che le streghe lanciavano era diretto ai giovani uomini per paralizzare la loro virilità: attraverso la diffusione dell’impotentia coeundi, mettevano in crisi i matrimoni minando cosí alla base la stabilità sociale. Numerosi materiali processuali sopravvissuti al tempo descrivono lo svolgimento delle riunioni delle streghe, i cosiddetti sabba, riportando le formule rituali officiate e anche qualche testimonianza sugli assassinii a scopo rituale che venivano commessi. Alcune donne accusate dai giudici cattolici dichiara26

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rono spontaneamente di essersi votate al demonio. La mancanza, in specifici casi, di confessioni estorte dimostrerebbe pertanto l’esistenza di un fondo di verità nella vicenda delle riunioni tra seguaci di Satana. I sabba, dunque, erano davvero esistiti? E i partecipanti avevano commesso crimini indicibili tra i quali anche gli infanticidi? Piú di un dubbio sorse sulle dichiarazioni spontanee delle streghe a metà del Cinquecento in seguito alle ricerche di due scienziati, Gerolamo Cardano e Giovan Battista Della Porta. Quest’ultimo, nel testo Magiae naturalis, sive De miraculis rerum naturalium (1558), ipotizzò che le confessioni delle imputate fossero solo resoconti di sogni o allucinazioni indotti dall’uso di sostanze naturali. Le presunte streghe le ricavavano cuocendo in un vaso di rame il grasso dei corpi dei bambini insieme a una piccola quantità d’acqua. Dopo l’evaporazione, aggiungevano aconito, foglie di pioppo, sangue di pipistrello, solano sonnifero e olio. «Appena l’unguento

Malle Babbe (o La strega di Haarlem), olio su tela di Frans Hals. 1633 circa. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie. Il pittore olandese rappresenta la strega come una vecchia accompagnata da una civetta, animale notturno simbolo di saggezza, ma, anche, di cattivo presagio. Nella pagina accanto Due streghe, tecnica mista su tavola di Hans Baldung, detto Grien. 1523. Francoforte, Städel Museum.


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IL TEMPO DELLE STREGHE

Un identikit

è pronto – scrive Della Porta – le streghe se ne spalmano il corpo, strofinando la pelle fino ad arrossarla, in modo che si rilasci, si dilatino i pori e l’olio penetri piú profondamente nei tessuti, provocando una reazione piú rapida e violenta. Dopo credono di volare, di banchettare e di ritrovarsi con giovani bellissimi, i cui abbracci desiderano ardentemente. Cosí è la grande forza dell’immaginazione e la potenza della suggestione da riempire tutta quella parte del cervello che è detta memorativa». Gli eventi sovrannaturali descritti dalle inquisite potrebbero quindi essere stati frutto di una suggestione collettiva, ma, verosimilmente, non le loro riunioni e i rituali in onore del maligno. Un resoconto dettagliato sul culto delle streghe fu redatto nel 1231 dall’inquisitore generale Corrado di Marburgo dopo un lungo viaggio attraverso la Germania del Nord. In quella regione aveva assistito a una cerimonia in onore del diavolo, sulla quale inviò subito a papa Gregorio IX una corposa e allarmata relazione. L’inquisitore descrisse il rito di affiliazione dei

AMORE E MORTE Una raffigurazione della strega-modello è contenuta nell’opera dello spagnolo Ferdinando de Rojas (1465 circa-1541), La Celestina, scritta nel 1499. È la storia tragica e grottesca dell’amore di Calisto per Melibea, che all’inizio non viene corrisposto. Sullo sfondo della vicenda agisce una fattucchiera, di nome Celestina, la quale si prodiga con i propri incantesimi affinché i due possano vivere una relazione sentimentale. Lo spasimante coronerà il suo sogno possedendo carnalmente la donna, ma morirà subito dopo, cadendo dalle scale. Melibea, disperata, si suiciderà gettandosi dal balcone della sua casa. Il personaggio di Celestina non viene descritto in modo positivo: agisce con riti di magia amorosa, ma solo per trarne un vantaggio personale. E proprio questa sua tendenza a sfruttare il prossimo per il proprio tornaconto le sarà fatale, portandola alla morte.

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La fattucchiera Celestina, Melibea e altri personaggi (a sinistra), illustrazione e frontespizio (nella pagina accanto) da un’edizione del Libro de Calisto y Melibea y de la puta vieja Celestina o La Celestina, opera composta dallo scrittore spagnolo Ferdinando de Rojas nel 1499. 1518-1520. Madrid, Biblioteca Nazionale.

neofiti che, per essere accettati in quella comunità, dovevano rendere omaggio a un grosso rospo, baciandogli l’ano o leccandone la bava. Superata la prima prova, avveniva l’incontro con una misteriosa figura, descritta come un uomo «di un pallore spaventoso, dagli occhi neri, e talmente magro e emaciato da sembrare senza piú carne e niente piú che pelle e ossa». Dopo la consumazione di un banchetto, compariva all’improvviso un gatto nero, di dimensioni enormi, che si avvicinava ai presenti camminando all’indietro e con la coda eretta. «Il nuovo adepto – riporta sempre Corrado di Marburgo – lo bacia sulle parti posteriori, poi fanno lo stesso il capo e tutti gli altri, ognuno osservando il proprio turno e solo se lo hanno meritato». Prima della conclusione del rito avveniva l’orgia nella quale «i presenti si abban-

donano alla lussuria piú sfrenata, senza distinzione di sesso». L’inquisitore tedesco non menziona esplicitamente affiliati di sesso femminile, ma le sue descrizioni hanno molti elementi in comune con le testimonianze che le stesse streghe resero davanti ai giudici riguardo alle loro assemblee notturne.

La confessione di Pierina

Nel 1384, in occasione del processo contro la presunta strega milanese Pierina de’ Bugatis, emersero alcuni dettagli sul patto con il diavolo che la donna aveva stretto. Raccontò della sua partecipazione ai sabba preceduta dall’invocazione allo spirito demoniaco Lucifelus, che si sarebbe manifestato sotto forma umana, copulando con lei. Alla fine il maligno le avrebbe consegnato una piccola quantità del suo sangue con il STREGHE

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Nella pagina accanto Walpurgisnacht!, ovvero il sabba di streghe nella notte di santa Valpurga, consumato, per massimo spregio, tra il 30 e il 1° maggio, data in cui i cattolici celebrano la santa inglese che nell’VIII sec. evangelizzò la Germania, incisione di Albrecht Dürer. XVI sec. quale vennero scritti i termini del loro accordo. A fornire ulteriori particolari sul rito di sposalizio tra le donne e il demonio fu, in seguito, la giovanissima francese Magdeleine Des Aymards, nel 1606. Un giorno il diavolo apparve nella sua stanza vestito di un panno nero e di un mantello, minacciandola di morte se si fosse ribellata. In cambio della sua accondiscendenza il maligno le promise grandi ricchezze e una vita felice. La obbligò, quindi, a farsi il segno della croce al contrario, con la mano sinistra, decretando sciolti i sacramenti ricevuti dalla Chiesa. La giovane ebbe un rapporto sessuale con il demonio in seguito al quale accaddero vari prodigi: la ragazza, utilizzando un manico di scopa e grazie all’azione di un potente unguento, poté volare fuori della casa attraverso il camino. Nonostante fosse nuda, in volo non sentí freddo e raggiunse un luogo lontano, sopra una montagna, dove si erano radunati molti adepti.

L’omaggio a Satana

Secondo la testimonianza di Magdaleine Des Aymards, ai sabba partecipavano plebei, ecclesiastici, contadini e animali, oltre, ovviamente, alle streghe e al demonio che, talvolta, era accompagnato da altri suoi simili. Satana in persona officiava la messa, su un altare ricoperto da un panno

nero. Dello stesso colore erano le ostie e il calice. La benedizione ai fedeli veniva dispensata con l’urina dell’officiante contenuta nell’aspersorio. Dopo una serie di danze frenetiche, i partecipanti in fila rendevano omaggio al diavolo, baciandogli le terga prima di accedere alla confessione. A Satana i suoi adoratori raccontavano i peccati commessi, cercando di catturarne l’approvazione con le loro malefatte. Nella fase finale si consumava un’orgia collettiva. Altri particolari sulle streghe e le loro nozze con il diavolo provengono da una misteriosa donna accusata dall’Inquisizione: Maria Zuzaja. Secondo la donna, il diavolo, durante le assemblee, officiava la messa seduto su un trono nero, talvolta d’oro. Le sue sembianze, come confermato da innumerevoli deposizioni, erano umane, ma metà del corpo era quello di un caprone. Nel corso della cerimonia si svolgeva anche il rito della comunione, somministrata con un’ostia nera e un liquido descritto come «vischioso e nauseabondo». Il sabba solitamente finiva a mezzanotte, ma poteva anche protrarsi ancora a lungo non superando comunque mai l’alba. Prima del commiato, Satana dava il potere alle streghe di trasformarsi in animali e le riforniva di pozioni velenose.

IL PATTO COL DIAVOLO «Imperatore Lucifero, signore di tutti gli spiriti ribelli, ti prego di essere benigno nell’invocazione che faccio al tuo grande ministro Lucifugo Rofocale, col quale voglio stringere un patto; e io prego anche te, principe Belzebú, di proteggermi nella mia impresa. O conte Astarotte! Siimi propizio e fa’ che in questa notte il grande Lucifugo mi compaia sotto forma umana e senza cattivo odore e che egli mi accordi, grazie al patto che gli presenterò tutte le ricchezze di cui ho bisogno. O grande Lucifugo! Ti prego di lasciare la tua dimora dovunque essa sia per venire a parlare con me, altrimenti ti costringerò con la forza della grande Clavicola di Salomone, mediante la quale egli obbligava gli spiriti ribelli a ricevere i suoi patti: compari dunque al piú presto o ti tormenterò con le potenti parole della Clavicola. Prometto al Gran Lucifugo di ricompensarlo entro vent’anni di tutto quanto mi darà. In fede di che io mi firmo» (dal libro di magia nera noto come Grand Grimoire, che si dice fosse stato scritto alla metà del XVI secolo, ma che, in realtà, è frutto di una compilazione ottocentesca).

Streghe a cavallo di una scopa, particolari di una miniatura di scuola francese dal poema Le Champion des Dames di Martin Le Franc. 1451 circa.


«UNGI L’UOMO SULLE TEMPIE E SUGLI OCCHI…» 32

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Le erbe erano l’ingrediente primo di filtri e pozioni. Una circostanza che finí con l’abbattersi come una condanna su molte, innocenti, esperte di medicina «alternativa» di Claudio Corvino

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ell’immaginario medievale europeo, la strega è una figura ambigua o multiforme e gli elementi stessi della sua iconografia, come la scopa, il calderone ribollente, le erbe, sono ammantati da un alone misterioso. L’umile attrezzo domestico, nelle mani della strega diventa una cavalcatura diabolica e, all’occorrenza, uno sconvolgente strumento erotico; cosí come il calderone, da sempre associato al focolare, rassicurante centro della vita familiare, si trasforma in una sorta di budello infernale, nel quale la vita viene annegata. Sangue, bambini che non conobbero l’acqua battesimale, animali striscianti o saltellanti, erbe dai singolari poteri entrano in quella culinaria immonda, allucinata e allucinante, ben lontana da qualunque stile nutrizionale. Simbolo di una contro-cultura dai tratti decisamente eversivi, tutto ciò che appartiene alla strega cambia di segno, diventando antisociale: in un mondo contadino in cui la funzione riproduttiva è fondamentale, lei è sterile; ruba il latte per fare le sue magie, e mangia i bambini o ne usa il grasso per fabbricare l’unguento. Un unguento che diverrà lentamente la quintessenza della strega, col tempo poi conosciuta anche come pixidaria, da pisside, il barattolino nel quale veniva conservato. Gli stessi elementi che lo compongono raccontano la marginalità di questo essere e del suo mondo magico-religioso: sangue di bambino (o di avvoltoio, o di pipistrello), formule magiche e, soprattutto erbe e piante un tempo paganamente «sacre», come l’Aconitum (l’aconito, il veleno del lupo), l’Atropa belladonna (donna

Saul e la strega di Endor, olio su tavola di Jacob Cornelisz van Oostsanen. 1526. Amsterdam, Rijksmuseum. STREGHE

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IL TEMPO DELLE STREGHE sta per Domina) o «erba delle streghe», la Datura stramonium o «erba del diavolo», il giusquiamo o erba apollinea. Già da tempo la Chiesa era a conoscenza dello stretto legame tra le erbe e alcune donne, che chiamava appunto herbariae. Un legame confuso, che attraversava i vari Penitenziali – raccolte di testi che indicano le penitenze da fare per i peccati commessi –, che il periodo altomedievale partorí in abbondanza: nel Poenitentiale Egberti, la donna, emarginata, ma non ancora strega, viene presentata come colei che fa «divi-

nazioni o incantesimi diabolici», soprattutto con l’ausilio di erbe, e il Poenitentiale Hubertense, come anche il Valicellianum I (VIII-IX secolo) puniscono, ancora con pene lievi, coloro che prestano fede ai sortilegi «herbariis». Piú preoccupante per la Chiesa, era il monopolio che tali mulierculae («donnette»), avevano sul controllo delle nascite e sull’aborto, momenti che in genere appartenevano esclusivamente al mondo femminile. Questioni cosí delicate non potevano, però, escludere il controllo ecclesiastico: «Nessuna donna prenda pozioni al fine di abortire (...) e nessuna Il maleficio del sonno, illustrazione da una ristampa del 1626 del Compendium maleficarum, trattato di demonologia in tre libri, redatto in latino canonico dal teologo Francesco Maria Guazzo, pubblicato a Milano nel 1608. 34

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Pozioni e altre misture Gruppi di streghe bruciano i bambini per ricavarne grasso per la preparazione di unguenti. Xilografia dell’inizio del XVII sec.

diabolica pozione che impedisca il concepimento», tuonavano i Dicta Pirmini (o Scarapsus) dell’VIII secolo.

Raccolte lecite e illecite

Dove non poté la legge, lavorò la diffamazione. Predicatori, giudici, fedeli cattolici furono compatti: le streghe non curano, né fanno abortire, si limitano a rapire i bambini per cuocerli nel loro ributtante calderone. Ma gli effetti di queste campagne contro le herbariae furono scarsi, come pure inefficace risultò il programma di «cristianizzazione» delle erbe che la Chiesa aveva lanciato, ribattezzandole con nomi cristiani o suggerendo una ritualità cattolica nella coglitura. «Nel raccogliere le erbe, che sono medicinali, non è lecito attendere a osservazioni o incantesimi, se non il segno divino (la croce), o l’orazione della domenica», suggerisce il Decretum Gratiani, summa giuridica del XII secolo. L’unica raccolta che la Chiesa concepiva e giustificava era quella compiuta a scopi terapeutici, il resto era considerato magia diabolica. Come, infatti, avrebbe mai potuto comprendere quella antica e magica coglitura del giusquiamo, per non dirne che una, fatta da una giovane vergine sulle rive di un fiume per provocare le tempeste? Siamo in presenza di un ricco mondo folclorico precristiano, nutrito di concetti magici, che non accennava minimamente a scomparire. Né, in fondo, siamo tanto distanti da quel «segno divino» di cui parla il Decretum Gratiani.


Ancora il giusquiamo, una potente pianta allucinogena e dotata di proprietà analgesiche, fu uno dei componenti principali di quello che divenne l’«unguento delle streghe», ossia la sostanza tossica con la quale queste si ungevano per volare al sabba. Nell’antichità classica il giusquiamo era conosciuto come herba Apollinaris o, nel mondo celtico, come belenuntia e, in un caso come nell’altro, i legami con la medicina, la divinazione e l’estasi (associate sia ad Apollo, sia al dio dei Celti Belenos) erano strettissimi. Cristianamente, la pianta venne ribattezzata erba di Santa Apollonia, martire sotto Decio. Visto che parte del suo martirio consistette nell’estrazione violenta di tutti i denti, la santa divenne protettrice dei dentisti e di tutti coloro che soffrono di disturbi odontoiatrici. Ma che la pianta non abbia mai perso le sue connotazioni magiche e i suoi effetti analgesici e stupefacenti lo dimostra una ricerca sul campo condotta alcuni anni fa, che ha visto l’erba di Sant’Apollonia tuttora utilizzata nelle campagne romane, dove viene fumata per curare le odontalgie, con l’effetto che «si possono vedere i vermi (che provocherebbero il dolore) uscire dai denti».

Le condanne dei teologi

Il fatto che i sinodi e i concili intensificassero, durante tutto il Medioevo, le condanne contro le herbariae e che la Facoltà teologica di Parigi, nel 1398, dichiarasse le formulae e i «semplici» (farmaci a base, appunto, di erbe) utilizzati

L’Atropa belladonna o «erba delle streghe» in un’incisione a colori del 1805 (a destra), e la Datura stramonium anche detta «erba del diavolo» in una litografia a colori del 1854 (in basso). Secondo la tradizione, tali piante, altamente tossiche, dalle proprietà narcolettiche e allucinogene, venivano utilizzate dalle streghe per la preparazione di pozioni e unguenti da spalmare sul corpo per volare al sabba.

dalle «donnette» veri e propri artifici del diavolo, dimostra sia che tali pratiche persistevano e, anzi, si andavano intensificando, sia che ci si stava avviando verso una «demonizzazione» delle erbe. Le varie credenze nelle «virtú» delle erbe, nei raduni notturni chiamati sabba o nei voli delle donnette a cavallo di una scopa, quando non poterono essere assimilate sotto le rassicuranti etichette di «fitoterapia» o di quei personaggi innocui che sono le befane, furono rifiutate, demonizzate e represse. Il che, in periodo medievale, significava perlopiú la condanna delle herbariae al carcere o al rogo. Ma, per farlo, occorrevano alcuni cambiamenti di ordine teologico, giuridico e, diremmo quasi, di mentalità. Il testo teologico e giuridico altomedievale piú rappresentativo, il Canon Episcopi, era abbastanza esplicito in relazione a tali mulierculae e alle loro credenze: coloro che credono a tali superstizioni «si allontanano dalla vera fede e cadono nell’errore dei pagani». Tale buonsenso fu uno scoglio teologico, aggirato da eminenti dottori, come Alfonso Tostato (14001455), Jean Vineti (1470 circa) e, soprattutto, Nicolas Jacquier, autore del Flagellum haereticorum (1458). Quest’ultimo, con ferrea logica medievale, dimostrò che la «setta» a lui conSTREGHE

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IL TEMPO DELLE STREGHE temporanea era completamente diversa e molto piú malefica di quella trattata nel Canon Episcopi. Jacquier sfondò una porta attraverso la quale passarono migliaia di inquisitori e giudici laici: forní la paglia per i roghi.

Crimini senza testimoni

A questo punto, rimaneva un unico ostacolo verso la persecuzione di quelle che di lí a poco si trasformarono in streghe vere e proprie: il rigorosissimo criterio di valutazione della prova. Secondo il diritto di prova romano-canonico, per condannare qualcuno c’era bisogno di due testimoni. Ma, trattandosi di un crimine mentale, il piú delle volte svolgentesi in sogno o in stato oniroide, o in un voluto stato alterato di coscienza, era difficile trovare testimoni di voli a cavallo di una scopa e di diabolici atti osceni: ed ecco allora che gli inquisitori cominciarono a sperare nelle confessioni. Cosí, già nel 1252, Innocenzo IV autorizzò la tortura nei processi, da applicare, però, una sola volta. Ma anche quest’obbligo fu brillantemente superato dall’inquisitore Nicolas Heymerich che, nel 1376, scoprendo l’uovo di Colombo, dichiarò lecito interrompere la seduta di tortura per riprenderla in altro momento. E grande fu il rammarico di quella «strega» di Dreissaigacker, in Germania, che si sentí urlare dal proprio aguzzino: «Io non ti torturerò per uno, due, tre, nemmeno otto giorni, e nemmeno poche settimane, ma per sei mesi o un anno, per tutta la tua vita, finché non confesserai, ti torturerò a morte, e dopo sarai bruciata». Grazie anche al Tormentum insomniae (dell’insonnia) e agli interrogatori suggestivi, di cui abbiamo un esempio istruttivo nel Malleus Maleficarum, alla fine del secolo le confessioni cominciarono a fioccare come le Avemaria, accompagnate naturalmente, dai nomi dei presunti complici del reato di stregoneria: la malefica «setta delle streghe». Durante tutto il Quattrocento, quindi, si ebbe una sorta di elaborazione dottrinale del fenomeno stregonico e i vari rimedi popolari a base di erbe e animali entrarono a poco a poco nell’unguento, divenuto ormai la vera causa del volo delle streghe a cavallo della scopa o baculo. Cosí, se Anne Marie de Georgel, un’erbaria accusata di oscuri intendimenti con il diavolo, nel 1335 confessa di aver imparato da lui «i segreti delle piante», quasi cento anni piú tardi, nel 1428, Matteuccia di Francesco, fattucchiera in piena regola, racconta di essersi recata piú volte al noce di Benevento «e ad altri noci ungendosi con un unguento fatto di grasso di avvoltoio, 36

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Pozioni e altre misture sangue di pipistrello e sangue di infanti e altre cose». Di cosa si trattasse lo spiega in quegli stessi anni san Bernardino da Siena, che ne ebbe diretta esperienza: «Infine io li ebbi in mano e ponendomegli al naso elli putivano per sí fatto modo che ben parevano cose di diavolo, come erano». A dare manforte alla teologia venne la medicina ufficiale, che da tempo era a conoscenza di vari tipi di unguenti anestetici a base di mandragora. Predicazioni popolari, interpretazioni oniriche, interrogatori suggestivi e torture contribuirono allora, per tutto il XV secolo, a radunare, compattare e a loro volta diffondere, oramai demonizzate, le varie credenze folcloriche di umili mulierculae, pastori, mugnai. In primo luogo quelle relative alle erbe.

Dalle herbariae agli sciamani

Questo, ovviamente, non significò in alcun modo negare la presenza di un unguento tossico tra le classi popolari. A questo proposito, sarebbero anzi da riascoltare e approfondire confessioni come quelle riportate dal teologo domenicano Johannes Nider (1380 circa-1438) nel suo Formicarius, della seconda metà del Quattrocento. Interrogato sull’unguento, un giovane imputato rivela che colui che lo beve «sente nascere dentro di sé le immagini della nostra setta e la consapevolezza dei riti principali di questa». Sono parole che conducono d’un balzo, neanche troppo azzardato, verso quei mondi e quelle culture di alta antichità legate allo sciamanesimo eurasiatico, quell’insieme cioè di tecniche magico-religiose, mediante le quali operatori del sacro, gli sciamani, compivano voli estatici, anche in stati alterati di coscienza. Rituali, questi, ancora vivi nelle nostre culture di livello etnologico dove l’uso di sostanze stupefacenti è tuttora presente. Le parole del giovane riportate dal Nider ricordano quelle di un indiano messicano huichol contemporaneo che, di ritorno da un «viaggio» iniziatico a base di peyotl, «confessa» all’antropologo Peter Furst di prendere il cactus allucinogeno «per apprendere come si diventa veramente un Huichol». Questo confermerebbe, in una via di ricerca aperta dall’antropologo francese Claude Levi-Strauss, che gli allucinogeni, siano essi medievali o contemporanei, non celano alcun messaggio «naturale» nascosto, essendo invece semplici inneschi e amplificatori di messaggi latenti che ogni singola cultura ha in sé e che manifesta anche attraverso il loro uso. Ma il vero messaggio nascosto dietro l’unguento delle streghe è ancora celato tra i fumi dei roghi.

Nella pagina accanto la prova dell’acqua, utilizzata dagli inquisitori per stabilire la colpevolezza delle donne accusate di stregoneria, in una litografia del 1848. Durante tale supplizio, la presunta strega veniva immersa nell’acqua con le mani legate ai piedi, per circa 15 minuti. Se galleggiava veniva ritenuta colpevole di stregoneria e giustiziata immediatamente; se andava a fondo, veniva considerata innocente, anche se, spesso, moriva comunque per affogamento.


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IL TEMPO DELLE STREGHE

Pozioni e altre misture

ERBE IN ODORE DI ERESIA

T

ra i secoli VI e VII, Cesario di Arles, Isidoro di Siviglia e altri Padri della Chiesa condannarono esplicitamente la medicina popolare e le sue sfumature magiche. Tuttavia, secondo questi predicatori altomedievali l’eventuale inganno diabolico risiedeva nell’approfittare della credulità dei «rustici», mentre, al contrario di quel che avvenne nella seconda metà del Medioevo, l’efficacia della magia veniva di norma negata e contrapposta all’azione della preghiera e dell’intercessione dei santi. Anche testi e autori successivi, già piú volte ricordati, come l’Editto di Rotari, il Capitolare Sassone di Carlo Magno, le prediche di Agobardo di Lione e il Penitenziale di Burcardo di Worms negarono la verosimiglianza della stregoneria. Nella Vita di San Cutberto, Beda narra che, durante un’epidemia, la gente subito si rivolse a «incantationes vel alligaturas» (incantesimi o legature). Beda scriveva nella Northumbria dell’VIII secolo, quando la conversione degli Angli era ancora relativamente recente; in realtà, nella reazione popolare non si deve vedere tanto una ricaduta nel paganesimo, quanto il palesarsi nelle fonti delle diverse opzioni terapeutiche che erano comunemente a disposizione. Alla famiglia di un malato, infatti, si apriva una varietà di risposte possibili: erbe, rimedi galenici, consigli medico filosofici, pellegrinaggi ai santuari, ricorso a reliquie e amuleti, confessione dei peccati, consigli religiosi. Tra le opzioni a disposizione dell’infermo, le fonti agiografiche tendono a privilegiare la sequenza in cui il santo compare alla fine di inutili peregrinazioni come momento risolutivo dove gli altri avevano fallito. Gregorio di Tours ricorda il caso di un giovane che si sentí male mentre era a caccia; i familiari sospettarono

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subito un maleficio e, «come la gente di campagna usava fare», convocarono «harioli (stregoni), sortilegi e incantatores». Il loro intervento, che includeva legature, formule e pozioni, non sortí alcun risultato; la guarigione giunse soltanto grazie a una visita alla chiesa di S. Martino. Per Gregorio il ricorso ai guaritori appare come un’abitudine consolidata, che non richiede spiegazioni; una scelta dipendente dalla deplorevole ignoranza dei contadini riguardo ai poteri davvero efficaci e non di origine diabolica. L’umiliazione dei terapeuti locali permetteva ai predicatori di mostrare la maggiore efficacia dei santi e del cristianesimo. Il miracolo serviva sia come agente di conversione, sia, quando la fede cristiana era già sommariamente accettata, come strumento per sostituire il cristianesimo alla tradizione, ovvero per fare di quella fede «la» tradizione in un numero sempre maggiore di ambiti della quotidianità.

Raccolte medico-magiche Nell’Alto Medioevo, soprattutto nelle terre di piú recente conversione, la distribuzione capillare dei monasteri sul territorio creò condizioni particolari: ai monaci toccò spesso il compito di sostituire i guaritori nell’assistenza ai malati dei villaggi vicini. A giudicare da alcuni testi che raccolgono formule dall’apparenza ben poco cristiana, ma certamente redatti negli scriptoria monastici, essi svolsero questo compito mediando tra la cultura cristiana e quei saperi tradizionali con i quali molti di loro dovevano aver convissuto fin da bambini. Tra le raccolte di procedure terapeutiche, che, semplificando, potremmo definire medico-magiche, spiccano due manoscritti redatti in antico anglosassone conservati alla

British Library e noti come Bald’s Leechbook e Lacnunga. I contenuti apparentemente pagani di questi libri sembrano aver preoccupato piú gli esegeti del XX secolo che i monaci che li compilarono. Dei due, il Leechbook si mostra piú aperto a influenze continentali e classiche nei primi due dei tre libri che lo compongono; il terzo libro appare invece piú vicino al Lacnunga per impostazione e contiene un numero maggiore di ricette che amalgamano elementi cristiani con altri che, per semplicità, possiamo chiamare «folclorici». I due testi anglosassoni, che includono di tutto, dall’erboristeria (oltre l’ottanta per cento degli ingredienti è costituito da vegetali) agli scongiuri, non dedicano troppo spazio alle diagnosi; di solito la causa di un male non è specificata e l’attenzione si concentra sui rimedi. Ben trentasei ricette del Leechbook includono la ruta, un’erba che contiene un flavonoide utile nel trattamento dei problemi vascolari. Considerazioni analoghe sono applicabili al giusquiamo, buono come calmante grazie all’ipnotica scopolamina, e alla mentuccia, dalle proprietà antispastiche. I farmaci erboristici, tuttavia, di rado erano utilizzati da soli; piú spesso, per potenziarne o liberarne gli effetti, a supporto dell’efficacia dei rimedi naturali, si aggiungevano azioni rituali dal sapore magico. C’erano erbe da raccogliere a piedi nudi, altre senza impiegare oggetti di ferro, altre ancora in precise condizioni climatiche o in determinati momenti del giorno o dell’anno; gli ingredienti andavano poi somministrati recitando preghiere o formule che documentano la convivenza di cultura cristiana e tradizionale. Benché la teoria degli umori della


tradizione galenica fosse occasionalmente accolta, il tratto distintivo nella concezione della medicina dei due ricettari è individuabile in un nucleo di tratti caratteristici della cultura folclorica germanica: il wyrm, gli onflyge, il numero nove e l’azione degli elfi. Wyrm, alla lettera «verme», è un termine generico, che può tradurre quasi tutti quelli che oggi si definiscono agenti patogeni esterni che attaccano il corpo o le ossa. Incontriamo cosí vermi che infestano l’intestino, vermi che mortificano tutto il corpo, vermi che sono bevuti con l’acqua, vermi che cariano i denti. Come i disturbi che causa, wyrm è un termine dai vari significati e dalle multiple risonanze. Wyrm è il

minuscolo verme che si insinua nei denti o negli organi dopo essere stato inghiottito, invisibile, attraverso una bevanda, ma è anche il serpente, antagonista per antonomasia nella Bibbia e avversario degli eroi nella mitologia germanica. In quanto antagonista, il wyrm può anche essere, simbolicamente, in una prospettiva già cristiana, la causa spirituale di un male fisico.

Virus vaganti nell’aria Il concetto di onflyge rimanda all’idea di misteriosi agenti patogeni invisibili, pensati come vaganti nell’aria. Gli storici della medicina suggeriscono di

identificarli con virus e batteri che giustificherebbero l’insorgere di infezioni, gonfiori e dolori. In termini generali, gli onflyge sarebbero dunque una rappresentazione delle infezioni. In effetti, alcune tra le erbe citate come efficaci contro gli onflyge, come la piantaggine e l’assenzio, hanno davvero proprietà antibiotiche. Per quanto riguarda gli elfi, è significativo che gli esiti di un loro attacco fossero assimilati a quelli di una possessione demoniaca, segno che era in atto un processo di assimilazione ai diavoli della tradizione cristiana; ne è conferma l’utilizzo di rimedi simili contro i due avversari: «Ecco un buon preparato contro la “tentazione” del diavolo (ovvero malattia causata dal diavolo).

La strega e la mandragora, matita e acquerello su carta di Johann Heinrich Füssli. 1812 circa. Oxford, Ashmolean Museum. Anticamente si credeva che la pianta, raffigurata nei testi di alchimia con sembianze umane per l’aspetto antropomorfo della sua radice, fosse abitata da un demone.

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IL TEMPO DELLE STREGHE

La prima pagina del Bald’s Leechbook, un testo medico anglosassone, composto intorno al 950 circa, in cui sono raccolte ricette erboristiche e pratiche terapeutiche combinate ad azioni rituali di carattere magico-popolare. Londra, British Library. Prendi betonica, lupino, githrife, attorlathe, wolfscomb, millefoglio. Mettile sotto all’altare e canta nove messe. Sminuzza le erbe nell’acqua santa. Somministra al malato una coppa di preparato di notte a digiuno e spruzza acqua santa su tutti i cibi che mangia». In alternativa, ecco come si poteva procedere contro gli elfi: «Raccogli betonica, lupino, pianta di fragola, brina, rovo, mela, assenzio. Pesa le erbe e falle bollire nel burro, strizza attraverso un panno, metti sotto un altare e canta nove messe. Ungi l’uomo sulle tempie e sugli occhi, sulla testa, sul petto e ai lati sotto le braccia». Dei quattro motivi caratterizzanti la medicina di Leechbook e Lacnunga, tre sono tentativi, anche immaginosi, di definire gli agenti patogeni; il quarto, il numero nove, è invece un componente, specificamente

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Pozioni e altre misture

germanico, delle azioni rituali che accompagnano le procedure terapeutiche; esso stabilisce una interessante dialettica fatta di collaborazione e contraddizione con il tre e il sette, numeri cristiani. Nella tradizione germanica il nove rivestiva un ruolo centrale nel computo del tempo: probabilmente di nove giorni era la cadenza utilizzata in contesti cerimoniali. La mitologia scandinava delinea chiaramente un rapporto tra il nove, la suddivisione del tempo e la figura di Odino. La periodicità di nove giorni compare in alcuni dei piú interessanti scongiuri scritti in lingue germaniche, tra cui numerosi passi di Lacnunga, nei quali convive con le comuni preghiere cristiane spesso associate al piú cristiano numero tre. Per esempio, «se una cisti affligge un uomo nel cuore, una vergine vada a una sorgente che scorre verso est e riempia una coppa e canti il Credo e il Padre Nostro e versi l’acqua in un altro contenitore. E poi riempia una seconda coppa e di nuovo canti il Credo e il Padre Nostro e poi un’altra volta ancora cosí che tu abbia tre coppe piene. Fai questo per nove giorni e il malato migliorerà».

Ancora nel segno del nove L’assenza di una percezione di conflitto tra le componenti cristiana e folclorica è evidente. In alcuni casi la cristianizzazione di uno scongiuro presenta segni di maggiore forzatura, al punto che si può ipotizzare un intervento diretto da parte dei redattori volto a stemperare il tono pagano del testo. Ne sono esempi l’Incantesimo delle nove erbe e l’Incantesimo dei nove ramoscelli di Woden, due enigmatici componimenti a fine terapeutico trascritti in Lacnunga (capitoli LXXIX e LXXX) e per molti versi leggibili come uno solo. La natura della medicina operativa in

queste terapie narrative è quella espressa dal termine antico inglese lybcraeft, che poteva designare sia la conoscenza delle erbe e la capacità di preparare con esse farmaci efficaci, sia l’abilità chirurgica, sia la conoscenza e l’uso degli strumenti magici. Le parole dell’incantesimo incitano le erbe, le sollecitano a sfruttare al massimo i loro poteri naturali contro gli avversari che sono chiamate a fronteggiare. È come se, prima di essere assunte dal malato, dovessero a loro volta assumere le parole. Le erbe sono descritte come guerrieri dotati di poteri intrinseci da valorizzare. Tale caratteristica, da sola, potrebbe giustificare il coinvolgimento di Woden-Odino nella sua veste di nume tutelare dei guerrieri morti in battaglia e della battaglia stessa, che egli era in grado di risolvere magicamente. Pur apparendo il contesto ancora molto germanico, alla fine dell’Incantesimo delle nove erbe, Cristo compare in difesa del malato a testimoniare lo spostamento verso una declinazione cristiana del rituale. Inoltre, Woden non è antagonista di Gesú; le due figure perseguono evidentemente lo stesso scopo, tanto che la presenza dell’antico dio potrebbe essere motivata, piú che dal passato di divinità pagana, dalla funzione di misterioso mago e guaritore che egli esercita in alcuni racconti e poemi tradizionali. Nelle Gesta dei re e degli eroi danesi del cronista danese Sassone Grammatico (1140 circa-1210) un misterioso personaggio cieco da un occhio, in cui è riconoscibile il dio, soccorre Hadingo ferito. Il vecchio orbo «si prese Hadingo, che stava fuggendo, sul cavallo e lo trasportò a casa sua; là, dopo averlo ristorato con una pozione dal sapore molto piacevole, gli predisse che avrebbe potuto fare affidamento su di un corpo piú forte e vigoroso». Paolo Galloni


Carlo Magno in ginocchio di fronte a una pianta. L’erba, chiamata «carlina», è consigliata all’imperatore come antidoto per i veleni dall’angelo raffigurato in alto. Miniatura dal Libro de componere herbe et fructi di Giovanni Cadamosto da Lodi. 1471. Londra, British Library.

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Istigati da un demone, eretici bruciano libri di teologia. Miniatura dalla Velislavova Bible, una Bibbia boema illustrata, pubblicata tra il 1325 e il 1349. Praga, Biblioteca Nazionale.


TOLLERANZA E REPRESSIONE Distratta dalla diffusione delle eresie, la Chiesa altomedievale non sembra interessarsi alle streghe. Tutto cambia, però, con la nascita dell’Inquisizione vescovile… di Claudio Corvino


CACCIA ALLE STREGHE

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a stregoneria europea non è una credenza che risale alla notte dei tempi, ma, piuttosto, un fenomeno circoscritto a quella «caccia alle streghe» che infuriò brutalmente tra il XV e il XVIII secolo in Occidente. In questo lungo periodo, donne e uomini vennero accusati o processati o condannati, o tutte e tre le cose (l’uso delle disgiuntive è d’obbligo), con l’imputazione di essersi allontanati dalla fede cattolica e di avere oscuri intendimenti con il diavolo o di andare, perlopiú di notte e in volo, a riunioni orgiastiche e blasfeme conosciute come «sabba delle streghe». Nell’Occidente altomedievale, questi uomini e queste donne perseguitati non sembrano avere contorni ben definiti fin dal principio e ci vollero secoli perché si sviluppassero sia le figure dello stregone e della strega quali noi abbiamo ereditato, sia la vera e propria accusa di stregoneria. Già l’Editto di Rotari del 643 d.C. parlava di simili «devianti» della fede, ma, anziché condannarli, proibiva «di uccidere le donne che il popolo chiama streghe o masche, prestando ascolto a una credenza che ogni cristiano dovrebbe vergognarsi di concepire, prima che di ammettere». Piú di cento anni dopo, la Capitolatio de partibus Saxoniae (775-790 circa) vietava, pena la morte, di sacrificare ai demoni «al modo dei pagani», ma condannava anche coloro che credevano nelle streghe e, peggio ancora, le mangiavano! Qui però, è bene chiarire, non siamo di fronte a un’antropofagia «punitiva», bensí i Sassoni credevano fermamente che mangiando la strega avrebbero introiettato anche i suoi poteri soprannaturali. Anche la Chiesa, perlomeno all’epoca di cui parliamo, sembra abbastanza tollerante verso le «streghe» o verso coloro che esercitavano azioni e formule collegate alla magia. Impegnata com’era a eliminare il diffuso paganesimo e le eresie, non poteva andare troppo per il sottile perseguitando donne e uomini che conservavano strane «usanze» o incantesimi: anzi, a volte sembra addirittura minimizzare i poteri e i campi della magia.

Uomini che provocano le tempeste

Certamente lo fece l’arcivescovo di Lione Agobardo (840 circa) che, a tratti, arrivò a negare ogni potere alla magia in genere. Questo singolare intellettuale, raffinatissimo da un lato e antisemita dall’altro, rivela il suo pensiero già nel titolo di un suo noto libro, Contra insulsam vulgi opinionem de grandine et tonitruis. L’opinione che possano esistere «tempestari», uomini cioè che provocano tempeste o che hanno potere sugli 44

STREGHE

L’Europa contro le eresie Nella pagina accanto illustrazione raffigurante una strega bianca e una nera. XVII-XVIII sec. Secondo le credenze popolari, alle prime si attribuivano poteri taumaturgici, mentre le seconde provocavano solo disgrazie, malattie e morte. In basso il diavolo induce due streghe a profanare l’ostia consacrata. Xilografia del 1500 circa.

agenti atmosferici, è insulsam: solo Dio, egli dice, può essere padrone degli elementi. Simile scetticismo o, se si vuole, tolleranza, appare anche nel Canon Episcopi di Reginone di Prüm, confluito nell’XI secolo nel Decretum di Burcardo di Worms. Il vescovo Reginone, ricordando ai suoi colleghi che è loro obbligo sradicare la superstizione dalla vita di ogni «uomo e donna», raccontava che «alcune donne, sviate da illusioni e fantasie diaboliche, credono di cavalcare la notte al seguito di Diana, dea dei pagani, insieme a una folla di altre donne; anche di cavalcare su alcune bestie e di percorrere grandi distanze, obbedendo alla dea e serven-

dola come fosse la loro padrona». Pur ammettendo che si trattava di una credenza diffusissima, Reginone assicurava che tutte queste cose erano solo illusioni, fantasie. La Chiesa, e piú in generale la società altomedievale, sembrava non essere ancora troppo interessata alle streghe. Al centro della sua attenzione, per il momento, c’erano le varie eresie che si andavano diffondendo in Europa: pauliciani, bogomili, bulgari e, soprattutto, i catari. Costoro, in una visione assolutamente dualistica di chiara origine manichea, concepivano il cosmo come retto da due principi opposti: quello dello Spirito, buono, e quello della Materia,


cattivo. Quando Dio creò il mondo, un malvagio demiurgo avrebbe imprigionato i frammenti spirituali nella materia, ed era perciò compito del cataro quello di liberarsi dell’involucro materiale, dello stesso corpo, che impediva la manifestazione completa della parte piú nobile e spirituale: anche con il suicidio, che in genere avveniva tramite l’endura, il digiuno totale. I «perfetti» catari conducevano una vita estremamente austera, convinti che si dovesse aborrire ogni lusinga del mondo terreno. Cosí, andavano in giro vestiti rigorosamente di nero, si astenevano spesso dal cibo e da ogni rapporto sessuale fecondo, certi che non ci fosse niente di peggio che perpetuare la schiavitú dello spirito in un nuovo corpo umano. Arrivarono a favorire l’aborto e l’amore omosessuale, che aveva l’ovvio vantaggio di essere sterile. Rendendosi conto del pericolo che rappresentavano questi nuovi manichei, la Chiesa cercò di eliminarli: se i concili di Montpellier (1062) e di Tolosa (1119) chiesero, ma senza precisarne i modi, l’intervento dei poteri secolari, nel concilio Laterano III (1179) si cominciarono a delineare le procedure da adottare con gli eretici e il canone 27 ne dichiarò la scomunica, chiedendo di combatterli anche con una crociata.

Nasce l’Inquisizione

Cinque anni piú tardi, alla conferenza di Verona, Lucio III e l’imperatore Federico Barbarossa definirono le modalità delle indagini da condurre sulle sette ed enunciarono una serie di punizioni da infliggere agli eretici: vennero allora emanate le Constitutiones, che prevedevano l’obbligo da parte di coloro che ne avevano autorità di punire i catari, pena la scomunica, di confiscare i loro beni e di allontanarli da ogni tipo di pubblico ufficio. Ai vescovi, inoltre, correva l’obbligo di visitare almeno due volte l’anno le loro diocesi allo scopo di individuare gli eretici. Può essere considerato questo l’atto di nascita della cosiddetta Inquisizione vescovile. Come corollario della repressione, la Chiesa tentò anche di screditare gli eretici, descrivendo i loro riti e le loro riunioni con tratti marcatamente disgustosi e osceni, nell’intento di demonizzarli. Utilizzò, forse inconsciamente, la stessa tattica della propaganda romana contro i primi cristiani, accusati di praticare, nel segreto della notte, infanticidi rituali, fornicazioni immonde, incesti. Un caso esemplare è rappresentato dai canonici della cattedrale di Orléans, che, nel 1022, furono accusati di eresia: secondo le fonti dei contemporanei, questi uomini di chiesa non

INTERPRETAZIONI A CONFRONTO Nell’opera dedicata alla storia della caccia alle streghe nel Medioevo (Quellen und Untersuchungen zur Geschichte des Hexenwahns und der Hexenverfolgung im Mittelalter) lo storico e archivista tedesco Joseph Hansen (1862-1943), volle vedere nella stregoneria una gigantesca costruzione mentale degli inquisitori, che si limitarono a sovrapporre le loro credenze, basate su testi biblici, sulla letteratura classica e qualche esperienza personale a quelle, apparentemente informi e caotiche, degli uomini e delle donne medievali. Confermerebbe la teoria il fatto che molte confessioni di streghe, con tutti i contenuti demonologici tipici, avvenissero soltanto dopo l’uso della tortura, mai prima. Segno, questo, che gli accusati giungevano, con la violenza fisica e psicologica esercitata su di loro, a confessare ciò che ispiravano e desideravano i giudici. Sul versante opposto, un’altra corrente di studiosi, capeggiata dall’egittologa inglese Margareth A. Murray (1863-1963), ha visto nella stregoneria il residuo di un arcaico culto precristiano della fertilità e della Terra. Gli inquisitori, ripeteva costantemente la studiosa, avrebbero messo le mani su una vera e propria antireligione e di conseguenza l’avrebbero perseguitata come eresia. Tra le due scuole di pensiero, se ne potrebbero citare altre, collocabili piú o meno in aree intermedie. Ma quello che risalta da entrambe è forse una stessa, parziale, visione della stregoneria, osservata sempre come fenomeno totale, autonomo od organizzato, alla stessa stregua di una religione o di una corrente filosofica. In realtà, osservando le confessioni degli accusati di stregoneria, ci troviamo spesso di fronte a credenze di una ricchezza simbolica che non possiamo limitarci a interpretare come invenzioni degli inquisitori o, ancor piú semplicemente, improbabili culti di una religione che si opponeva a quella cristiana. La stregoneria fu un fatto complesso e articolato, che accolse al suo interno mitologie e, in misura minore, rituali che appartenevano a differenti contesti culturali e religiosi. Molte credenze confessate dagli stregoni facevano di certo parte di un bagaglio mitico-rituale precristiano, in molti casi certamente non cristiano, quando non volutamente e contestatariamente anticristiano. Ed è altrettanto vero che molti dei fatti stregonici siano da mettere in relazione con quel complesso sistema di pratiche magico-rituali che fu lo sciamanesimo eurasiatico.


CACCIA ALLE STREGHE

L’Europa contro le eresie Miniatura raffigurante un rogo di amalriciani, sostenitori dell’eretico francese Amaury de Bène o de Chartres, in presenza del re di Francia Filippo II (1165-1223), alle porte di Parigi, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France illustrata da Jean Fouquet. 1455-1460 circa. Parigi, Bibliothèque nationale. L’atteggiamento della Chiesa nei confronti di chi compiva gesti «magici» fu inizialmente tollerante, in genere tali «poteri» venivano negati perchè considerati illusori. Mentre contro le eresie si concentrarono violente azioni repressive. Nella pagina accanto Il volo delle streghe, olio su tela di di Francisco Goya. 1797-1798. Madrid, Museo del Prado.

credevano che il sangue e il corpo di Cristo fossero realmente presenti nell’Eucarestia, negavano la soprannaturalità del Battesimo e ricevevano lo Spirito Santo attraverso l’imposizione delle mani. Queste scarse informazioni bastarono a un contemporaneo, Ademaro di Chabannes, per ridipingere a tinte fosche questi «manichei» condannati.

Atti impuri a luci spente

La campagna diffamatoria continuò e, meno di ottant’anni dopo, il monaco Paolo di Chartres, pur non avendo mai assistito alle riunioni orleaniste, scrisse con certezza: «Essi andavano insieme di notte, ciascuno portando un lume. I demoni erano invocati con formule particolari, e apparivano sotto l’aspetto di animali. Dopodiché, le luci venivano spente, e seguivano fornicazione e incesto. I bambini nati a seguito di ciò venivano arsi e le loro ceneri custodite gelosamente come una sacra reliquia». A concludere quello che oramai è lo stereotipo 46

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dell’eretico adoratore di Satana, intervenne, intorno al 1190, il cronista inglese Walter Map che, parlando di simili riunioni, aggiunse la fantastica notizia che vi sarebbe stato adorato un gatto nero sceso dal soffitto. Costruita, formalizzata e artatamente diffusa, la tipologia delle riunioni degli eretici confluí in una bolla papale di Gregorio IX, la Vox in rama, del 13 giugno 1233: «Emerge un gatto nero, grande come un cane di taglia media, che viene avanti camminando all’indietro e con la coda eretta. Il nuovo adepto, sempre per primo, lo bacia sulle parti posteriori, poi fanno lo stesso il capo e tutti gli altri (…) Terminata questa cerimonia, si spengono le luci e i presenti si abbandonano alla lussuria piú sfrenata, senza distinzione di sesso. Se ci sono piú uomini che donne, gli uomini soddisfano tra loro gli appetiti depravati, e le donne fanno lo stesso». C’è di tutto! Il racconto tocca tutte le forme di «devianza» umana: connubi con gli animali, omosessualità, gastronomia immonda.


L’ASSEMBLEA DEGLI STREGONI I fenomeni di estasi e possessione, di voli dell’anima e di trance tipici della stregoneria, che la letteratura recente avvicina al mondo sciamanico, non furono mai completamente estranei anche alle nostre culture europee. Lo dimostrano le antiche possessioni che residuano nel tarantismo pugliese, i viaggi estatici dei benandanti friulani studiati da Carlo Ginzburg, le epidemie coreutiche conosciute come «Balli di San Vito», nonché le stesse confessioni degli imputati ai processi che, senza dubbio, conoscevano specifiche tecniche di provocazione di estasi volontarie. Tra le tante, ne riportiamo una raccolta da Jean Bodin nel suo De la Démonomanie des Sorciers (l. II, cap. 5). Secondo il giurista francese, che scriveva alla fine del Cinquecento, una strega, mentre giaceva accanto al fuoco, fu rapita in estasi, pur continuando a restare il suo corpo immobile: «E, poiché ella non sentiva nulla, il suo padrone la colpí con gran colpi di verga e, per sapere se era morta, le fece applicare il fuoco nelle parti piú sensibili, al che ella non si svegliò. E infatti il padrone e la padrona la lasciarono cosí distesa, pensando che fosse morta. Al mattino si ritrovò distesa nel letto. Il padrone, meravigliato, le chiese spiegazioni. (…) La donna era stata, con lo spirito, all’assemblea degli stregoni». Casi del genere non furono certo rari nella letteratura demonologica e nei processi dell’epoca, cosí come pure molte delle confessioni che gli inquisitori non comprendevano e condannavano, nascondevano «superstizioni» popolari, saperi relativi al corpo, alla malattia o agli animali che erano inseriti in contesti, in fisiologie e zoologie diversi dai nostri e difficilmente interpretabili anche oggi.


CACCIA ALLE STREGHE

L’Europa contro le eresie

Inveness

Aber Dundee Edimburgo

LE ERESIE IN EUROPA E I TENTATIVI DI REPRESSIONE

Londonderry

Newca

Zone di origine dei vari dissensi religiosi Aree di diffusione dell’eresia valdese III e IV Concilio Lateranense (1179 e 1215)

Cork

Istituzione del tribunale dell’Inquisizione

Wexford

Leice

ic

N Bristol

nt

Distribuzione dei monasteri degli Ordini mendicanti

la

Località con presenza di conventi francescani

di entrambi gli ordini

Caen Rouen

ano

Territori cattolici romani Territori cattolici ortodossi Territori musulmani

Rennes

Poitiers La Coruña

Limonges Bordeaux Santander León

Porto

Valladolid Palencia

Lisbona

Batalha

Tolosa

Évora

Saragozza

Tago

Huesca

Toledo

Córdoba

Jerez de la Frontera

Valencia Palma de Maiorca

Jaén Granada Málaga Almería

Murcia

Zone di origine dei vari dissensi religiosi Aree di diffusione dell’eresia valdese Aree di diffusione dell’eresia catara/albigese STREGHE

Ma Ma Perpign

Barcellona

Cuenca

Mar

LE ERESIE IN EUROPA E I TENTATIVI

48

Valde (1170 Cahors

Lérida

Trujillo

Siviglia

Catari/Albiges (XIII sec.) Clerm Fe

Madrid

SPAGNA 1232 Tavira

Bourges

Allb A bi bi Albi

Bayonne

Salamanca

Coimbra

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Nantes

LLoira

Santiago de Compostela

Laval Orléans

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Concordato di Worms

Oxford Londra

Lollardi dal 1380 Amien

At

Località con presenza di conventi domenicani Località con presenza di conventi

Alle persecuzioni ai danni delle streghe si affiancarono quelle contro valdesi, catari, albigesi. Movimenti eretici che suscitarono reazioni violente, talvolta, sfociate in vere e proprie crociate

Lancaster York

o

Crociata contro gli albigesi (1208-1213)

Un destino comune

Dublino

Limerick

Aree di diffusione dell’eresia catara/albigese

III e IV Concilio Lateranense (1179 e 1215)

Medit

DI REP

Distribu degli O

Località

Istituzione del tribunale dell’Inquisizione

Località Località

Crociata contro gli albigesi (1208-1213)

di entr


Turku

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Territori cattolici romani Territori cattolici ortodossi

Stoccolma

Territori musulmani

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Parigi FRANCIA 1235 Digione

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BOEMIA 1257

Milano

Nizza

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Oradea

Bonifacio Sassari Oristano Cagliari

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Arnaldo Benevento da Brescia Napoli (1150 circa) Matera

EPRESSIONE

buzione dei monasteri Ordini mendicanti

Gioacchino da Fiore (fine XII sec.)

Sibiu

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Alba Iulia Irig

Visoko

Bogomili (X-XIV sec.)

Ragusa Scutari

Brindisi Otranto Corfù

Cefalonia Reggio

Costantinopoli

Durazzo

Bari

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Palermo Agrigento

Tîrgo Mures

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Ascoli Piceno ITALIA XIII sec. L’Aquila

Roma

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Hussiti (fine XIV sec.)

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Cottbus

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1227

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GERMANIA

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Concordato di Worms Skara

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Tebe Corinto

Negroponte Atene

Siracusa

alità con presenza di conventi francescani

alità con presenza di conventi domenicani alità con presenza di conventi

ntrambi gli ordini

STREGHE

49


SORTILEGI DI MONTAGNA Le regioni alpine, soprattutto nel corso del Quattrocento, sembrano trasformarsi, per le streghe, in una sorta di terra promessa. In realtà, il moltiplicarsi dei processi e delle persecuzioni rispondeva alla volontà di reprimere ed emarginare gruppi etnici e religiosi considerati lontani dall’ortodossia religiosa di Agostino Paravicini Bagliani

I

l 20 marzo 1428 una donna di Ripabianca di Deruta (nella provincia di Perugia), Matteuccia di Francesco, fu accusata di stregoneria, giudicata sulla piazza di Todi e condannata al rogo per ordine del capitano Lorenzo De Surdis (vedi anche i box alle pp. 56-57). Secondo l’accusa, Matteuccia avrebbe confessato di avere cavalcato, con il corpo cosparso di unguento magico, il diavolo che si era trasformato in un capro. Si sarebbe anche recata presso il noce di Benevento (vedi box a p. 58) dove erano ad attenderla «moltissime streghe e spiriti incantati e demoni infernali e Lucifero maggiore, il quale, presiedendo, ordina alla stessa e agli altri di andare in giro per distruggere bambini e per fare altre cose cattive». Dopo avere partecipato al convegno delle

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STREGHE


Un gatto nero è l’aspetto che, secondo la tradizione, avrebbe assunto il maestro Belzebuth agli occhi di Giovanna di Cavoretto, finita alla sbarra con l’accusa di stregoneria a Moncalieri, nel 1449 (vedi box a p. 52).

streghe, Matteuccia sarebbe andata alla ricerca di «bambini e bambine di circa un anno, succhiando il sangue degli stessi attraverso la gola o attraverso il naso, portando detto sangue per poterne fare detto unguento». E cosí avrebbe continuato «durante sei mesi dell’anno, cioè in aprile, maggio, agosto, settembre, marzo e dicembre e in tre giorni della settimana, cioè il lunedí, il sabato e la domenica». Matteuccia fu condotta al rogo su un asino «dopo averle messo sul capo una mitria e averle legato le mani dietro le spalle». In quello stesso anno 1428, l’8 luglio, fu arsa a Roma «Finicella strega, perché essa diabolicamente occise de molte criature et affattucchiava di molte persone, et tutta Roma ce andò a vedere». Chi scrive è Stefano Infessura, l’autore di una delle piú importanti cronache sulla città di Roma della STREGHE

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CACCIA ALLE STREGHE

Leggende alpine

UN GATTO NERO PER MAESTRO «Per prima cosa, interrogata su quanti anni sono che iniziò ad andare alla synagoga [cosí veniva chiamato il luogo dove si riuniva la setta], risponde che sono ben quarant’anni, quando la stessa Johanna abitava ad Avigliana e una donna chiamata Antonia, moglie di Ansermetus, la condusse nella casa del taverniere nel luogo chiamato Angonent, nel mese di maggio, e in quella casa mangiarono e bevvero ciò che il padrone di quella casa aveva preparato per loro e quindi verso mezzanotte si radunò una folla di uomini e donne. In detta casa si trovava il suo maestro Belzebuth sotto l’apparenza di un gatto nero, e lei Giovanna gli diede, in segno di omaggio, il suo capo dopo la sua morte. Quindi rinnegò Dio e la Beata Vergine Maria e detto Lucifero tracciò un cerchio e ordinò all’accusata di sputare dentro detto cerchio in spregio a Dio e alla Beata Vergine Maria e prestò omaggio poiché il suo maestro Lucifero prometteva che l’avrebbe resa ricca e che per sempre avrebbe avuto in gran quantità delle ricchezze» (processo contro Giovanna di Cavoretto di Moncalieri, 3 aprile 1449; da La stregoneria nella Valle d’Aosta medievale, Quart 2003; pp. 253-254).

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STREGHE

prima metà del Quattrocento. Ma anche il francescano Bernardino da Siena parla di Matteuccia in uno dei suoi sermoni del 1428. Anzi, il frate afferma che fu la sua predicazione «su incantamenta, streghe e malie» ad avere convinto il papa a processare Matteuccia e le numerose donne che, secondo Bernardino, si erano rese colpevoli di stregoneria. Anche Matteuccia fu accusata di avere ucciso 30 fanciulli «col succhiare il sangue loro», oltre che di aver raccolto erbe magiche in piazza S. Pietro, per di piú nelle feste dell’Assunzione e di San Giovanni prima dell’alba! Si trattava di unguenti stregonici, insisteva Bernardino, perché Finicella aveva esercitato le arti magiche sacrificando al demonio. Il frate ne ebbe la prova quando li prese in mano: puzzavano talmente «che ben parevano cose di diavolo, come erano». La relazione di Finicella con il diavolo veniva confermata anche dal fatto che il suo corpo «si rimmutava in altra forma», ossia piú precisamente si trasformava in quello di


E IL CORNO COMINCIÒ A VOLARE... «Interrogata, dice che un certo giovedí incontrò la moglie di Giovanni Testa che la fece entrare nella sua casa. E poiché era quasi notte, volle che pernottasse in quel luogo e quando fu circa l’una di notte, una gran folla di uomini e donne, una cinquantina o forse piú, entrò nella casa di Giovanni Testa e tutti portarono delle carni che mangiarono sopra alla tavola, ma detta Giovanna non volle altro che del latte. E sopra detta tavola si trovava un corno. Al termine vennero tre donne, di cui si ignora nome e cognome. E le donne le dissero che se avesse reso omaggio al loro maestro, chiamato Belzebuth, subito

avrebbe avuto molto denaro. E l’accusata, alla richiesta di dette donne, diede alla moglie di Giovanni Testa un denaro grosso in segno di omaggio, denaro che la moglie di detto Giovanni pose sotto una pietra (…) E allora il corno si trasformò in un gatto nero (…) Interrogata se vide come il corno si era trasformato in un gatto nero, dice che no, ma che vide chiaramente il corno volare fuori dal tavolo e poi si trasformò in gatto nero» (processo contro Giovanna di Cavoretto di Moncalieri, 3 aprile 1449; da La stregoneria nella Valle d’Aosta medievale, Quart 2003; pp. 253-254).

una gatta. Un altro processo di stregoneria, storicamente molto importante, avvenne nel 1428. Il 3 giugno, a Chambave, nella Valle d’Aosta, certa Johanneta Cauda fu imprigionata e detenuta per settantun giorni, poi l’11 agosto fu bruciata su un rogo fatto di cespugli e di rami. È la prima esecuzione di cui si hanno notizie sicure e certe per la Valle d’Aosta.

Il Vallese in balia delle streghe

In quegli stessi anni (1427-28), al di là delle Alpi, nel Vallese, fu organizzata una vera e propria caccia alle streghe. Lo racconta un magistrato di Lucerna, Giovanni Fründ, in un testo che costituisce una grande novità, perché è il primo che descrive in modo ampio e sistematico e con dovizia di particolari la setta di stregoni e di streghe che si riuniscono sotto la presidenza del diavolo. Quest’ultimo insegnerebbe nelle «scuole» dottrine contrarie alla fede cristiana; mostrerebbe ai suoi fedeli come spalmare sgabelli (e non scope!) con un unguento speciale per cavalcarli per aria, volando da un castello all’altro e visitando durante la notte le cantine di coloro che hanno il miglior vino! Il diavolo insegnerebbe loro anche a trasformarsi in lupi o a diventare invisibili. Secondo Fründ, il Vallese, e soprattutto alcune valli, avrebbe visto accendersi piú di duecento roghi in un anno e mezzo (una cifra che può essere confermata in parte da altre testimonianze); la setta comprenderebbe piú di settecento persone, e si appresterebbe a sconvolgere la società per imporre il suo potere e dotarsi di tribunali particolari. Insomma, la stregoneria costituirebbe un pericolo imminente. Un altro testo fondamentale per la storia della genesi della credenza all’immaginaria e fantasiosa «setta del sabba» porta uno strano titolo – Errores Gazariorum –, che si può tradurre in Errori dei Catari. Il trattato è anonimo, ma il suo autore

«Il sonno delle streghe», Una strega sul rogo, olio su tela di Albert von Keller. 1888. Berlino, Deutsches Historisches Museum. Nella pagina accanto la carta del Vallese centrale tracciata nel 1536 da Johan Schalbetter per la Cosmografia Universalis di Sebastian Münster.

fu probabilmente un inquisitore domenicano. Egli era a conoscenza della strega bruciata a Etroubles, in Valle d’Aosta, e racconta che il demonio, quando riesce a conquistare un nuovo membro per la sua setta, gli chiede di prestare un giuramento di fedeltà, di impegnarsi a reclutare nuovi membri e di non diffondere i segreti della setta fino alla sua morte. Il nuovo adepto deve portare al sabba bambini, dopo averli strangolati. Egli deve inoltre usare malefizi per rendere sterili il maggior numero di coppie possibile, oltre che vendicare le offese fatte alla setta. STREGHE

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CACCIA ALLE STREGHE

Leggende alpine bambini arrostiti o bolliti. Poi la setta organizza danze e orge, dopo che il diavolo ha ordinato di spegnere le candele. Riaccesa la luce, i membri della setta preparano polveri e unguenti con cadaveri di bambini, di serpenti, di ragni e con mille altri ingredienti, tutto ciò allo scopo di provocare, con l’aiuto del diavolo, malefizi di ogni genere per uccidere uomini e animali o per distruggere i raccolti.

Variazioni sul tema del sabba

Tutte queste testimonianze rinviano a uno stesso spazio geografico: che si tratti della Valle d’Aosta, del Vallese, delle Alpi Bernesi o ancora dell’arco del lago Lemano, sono tutte località che si situano nell’arco alpino, fino al Delfinato: anche là, verso il 1436, un giudice del re di Francia descrive il sabba sulla base della propria esperienza di magistrato in quella regione. Negli anni in cui il fantasma del sabba viene Satana stringe un patto con i nuovi seguaci (in alto) e Il banchetto delle streghe riunite al sabba (a destra), illustrazioni da una ristampa del Compendium Maleficarum di Francesco Maria Guazzo. 1626. Il termine «sabba» comparve per la prima volta solo intorno al 1460 in un documento francese; in precedenza, in alcuni trattati, per indicare la riunione stregonesca veniva utilizzato impropriamente il vocabolo «sinagoga».

Dopo questo giuramento, il nuovo membro, ossia lo «stregone», rende al diavolo una sorta di omaggio baciandone il posteriore, e, in segno di tributo, promette di offrirgli una parte del proprio corpo alla sua morte. Dopo questo rito di iniziazione, tutti i seguaci della setta si affrettano a celebrare l’arrivo del nuovo membro, mangiando diversi piatti, e in particolare 54

STREGHE

elaborato, ognuno ha una sua particolare rappresentazione della setta del demonio: il già citato domenicano tedesco Johannes Nider la considera una setta infanticida e cannibale che fabbrica unguenti malefici secondo ricette sofisticate. Il cronista Giovanni Fründ immagina piuttosto una gran bevuta in cantine del Vallese. Secondo il giudice del Delfinato Claudio


Tholosan, gli stregoni se ne vanno al sabba come se si trattasse di una corporazione o di un gruppo politico. Leggendo gli Errori dei Catari, si scopre un anti-giudaismo latente: l’autore anonimo utilizza il termine «sinagoga» per designare il sabba, vocabolo ripreso da altri testi e processi (la parola «sabba» comparve soltanto intorno al 1460, dapprima in un documento del Parlamento francese); del resto, dietro la figura dello stregone si profila quella dell’Ebreo avvelenatore o infanticida. Ognuno, secondo la sua cultura, il suo ambiente e stando anche ai racconti di cui era venuto a conoscenza, inventa una propria immagine del sabba che, malgrado tratti comuni, si presenta come multiforme. Alcune credenze folcloriche, come quella di esseri che volano nell’aria, o superstizioni relative a metamorfosi animali (il lupo mannaro, per esempio), furono progressivamente integrate nell’immaginario del sabba e contribuirono ad assicurare il suo successo presso le popolazioni. Fründ descrive gli stregoni con i termini tedeschi di Zauberer e di Hexen o con il termine latino di sortilegii. Nider parla di malefici. Alcuni di questi apparterrebbero a una setta, i cui capi portano il titolo di maestro (magister). L’autore degli Errori dei Catari descrive le attività di heretici, che sono inoltre presentati come facenti parte di una setta, di una società, o ancora di una sinagoga. Il giudice Tholosan definisce magi e malefici i membri della setta o della sinagoga.

Tutto accade nelle valli

Se ci atteniamo ai nostri testi, le prime manifestazioni di cacce di streghe o stregoni sono state celebrate nelle valli. È il caso del Vallese, del Simmental (valle della Svizzera, oggi nel cantone di Berna, n.d.r.) o della Valle d’Aosta. Le valli sono luoghi di circolazione, zone di contatti che godono di trasformazioni economiche e politiche importanti alla fine del Medioevo. Ciò spiega come esse siano anche zone di forti tensioni, terreno fertile allo sviluppo di affari di stregoneria. Nel Vallese, in un clima di cospirazione politica, le autorità laiche organizzano una caccia agli stregoni. Nel Simmental, un nuovo potere nella regione, quello della città di Berna, ha potuto motivare una sorveglianza piú accurata della popolazione. Ma, al di là della realtà giudiziaria, converrà accordare una certa importanza all’immaginario. Già nel 1403, il domenicano catalano Vincenzo Ferreri, scrivendo da Ginevra al provinciale dei Domenicani, dice di volersi recare nelle valli per

scovare eretici e stregoni e confondere cosí i predicatori «valdesi» che erano gli unici, secondo lui, a visitarli. La lotta contro gli eretici, ma ora anche contro gli stregoni, esige dunque un rastrellamento capillare delle valli. Papa Alessandro V, nel 1409, è convinto che in una ampia zona dell’arco alpino, da Avignone ad Aosta, si sviluppino nuove sette di stregoni, Ebrei e cristiani, indovini e invocatori di demoni, che tentano di pervertire le popolazioni cristiane. Poco a poco si giunge persino a credere, come papa Eugenio IV, che gli stregoni e i valdesi pullulino su tutto il territorio del duca di Savoia. Le valli, e naturalmente anche la montagna, appaiono dunque come un luogo particolarmente terrificante, dove regnano il diavolo e gli spiriti malvagi; sono luoghi che hanno permesso a eretici e a stregoni di trovare un rifugio comodo, isolato, che occorre ora smascherare. Valli e montagne sono luoghi dunque

Pagina manoscritta dal cosiddetto «Rituale di Lione», contenente un rituale liturgico cataro, in lingua occitana. XIII sec. Lione, Bibliothèque Municipale. Nel XV sec. gli eretici, assimilati agli adoratori del demonio, verranno accusati di stregoneria.

STREGHE

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CACCIA ALLE STREGHE di particolare importanza nella nascita spaziale dell’immaginario del sabba. Fin dal Duecento le regioni alpine sono state il rifugio di gruppi eretici perseguiti dall’Inquisizione. I valdesi (discepoli di Valdo, che predicò in particolare la povertà di Cristo) vi erano sopravvissuti e si erano concentrati nelle valli del Piemonte e del Delfinato, dove erano obbligati a vivere nella clandestinità e praticare le loro cerimonie di notte. Non ci si deve sorprendere se la preistoria del sabba vada ricercata in queste zone.

Leggende alpine Nella pagina accanto l’esecuzione della condanna al rogo di una strega in una foto ottocentesca di un dipinto del XVI sec. di autore anonimo.

Riunioni presiedute dal diavolo

In Piemonte, nel 1388, un certo Antonio Galosna, terziario francescano, è accusato di partecipare a riunioni notturne, nel corso delle quali si festeggia e ci si accoppia. Ma allora non si parla di diavolo, né di cannibalismo. Qualche generazione dopo, però, le accuse rivolte contro gli eretici si trasformano in accuse di stregoneria: nel 1448, a Vevey, sul lago Lemano, viene lanciata una caccia alle streghe contro persone che vengono definite «eretici vodesi moderni». Essi sono sospettati di appartenere a una setta che si riunisce di notte e nella clandestinità. Chi dirige le riunioni del gruppo è il diavolo! E questo è un elemento fondamentale nella costruzione del sabba. Nei primi decenni della sua genesi e diffusione, gli adoratori del demonio e membri della setta

UNA FATTURA IN FORMA DI CANDELA «Inoltre, non contenta delle cose suddette, ma aggiungendo male a male, nell’anno 1428 nel mese di marzo, essendosi presentato alla detta Matteuccia un certo giovane legato da amore verso una certa giovane sua amante che da lungo tempo desiderava sposare, e non riuscendo ad averla, poiché i parenti di detta sua amante non volevano acconsentire, volendola dare in moglie a un altro, richiese dalla stessa Matteuccia un rimedio tale da far sí che mai i suddetti sposi potessero avere reciproca pace, né fosse loro possibile la coabitazione, la quale Matteuccia, avendo dinanzi agli occhi lo spirito diabolico, disse al suddetto giovane di procurarsi una candela benedetta accesa, e mentre la detta sposa si recava a nozze, la spegnesse e la piegasse pronunciando le sottoscritte parole e altre peggiori e diaboliche cioè: “Come se piega questa candela in questo ardore, cossí lo sposo et la sposa non se possa mai coniungere in questo amore”. Fatto questo, disse che quella candela cosí piegata doveva essere riposta in luogo sicuro e per quanto tempo fosse rimasta cosí piegata, per altrettanto tempo il marito e la moglie sarebbero rimasti in maniera tale da non potersi congiungere; la quale fattura fece a molti e diverse volte e fu operata per altri» (da Domenico Mammoli, Processo alla strega Matteuccia di Francesco, 20 marzo 1428, Todi 1983; p. 25).

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STREGHE

sono uomini e donne. Cosí è anche nei processi celebrati nel Quattrocento al di là delle Alpi: l’immaginario del sabba non sembra essere stato costruito contro le donne. È però vero che uno dei primi testi che raccontano il sabba, il poema Il Campione delle Dame del prevosto di Losanna Martin Le Franc (1441 circa), mette in scena una disputa letteraria esclusivamente incentrata sulle donne. Vi si affrontano un personaggio che prende la loro difesa ed esalta le loro virtú, e il suo avversario che denuncia i loro vizi. Un passo di quest’opera offre una descrizione delle «vecchie streghe», che si rendono al sabba volando su bastoni e scope; esse vi arrostiscono bambini e incontrano il diavolo, di cui diventano le amanti. Martin Le Franc parla soltanto di streghe, in paricolare di vetule. Persino nel suo ruolo di Champion des Dames, Martin Le Franc non riesce a vincere il disprezzo che manifesta l’avversario nei confronti del sesso debole, e in particolare delle vetule che hanno perduto la fede. Occorre attendere gli anni intorno al 1480, ossia la pubblicazione del Malleus maleficarum, redatto dai Domenicani tedeschi Heinrich Institor e Jakob Sprenger, per constatare come il sabba fosse diventato un rituale che vedeva riunirsi soltanto donne.

«Vecchie donne» alla forca

I contemporanei si erano resi conto che nelle regioni delle Alpi Occidentali, e in particolare nelle terre dello Stato sabaudo, erano avvenute cacce alle streghe, il che costituiva una grande novità. Il 17 ottobre 1440, in occasione del processo intentato contro Gilles de Rais, detto Barbablú (1404-40) – che era stato accusato e condannato a morte per avere torturato, stuprato e ucciso un gran numero di bambini, forse duecento –, un sacerdote della Bretagna, Eustache Blanchet, che era stato incaricato dal de Rais di invitare alla sua corte l’astrologo e alchimista fiorentino Francesco Prelati, racconta che due anni prima, recandosi a Roma, aveva attraversato le terre di Borgogna e della Savoia, dove, egli aveva inteso dire, e aveva persino visto con i propri occhi, numerose «vecchie donne» erano state impiccate perché erano eretiche e invocavano il demonio. Per recarsi a Roma, Eustache Blanchet dovette passare dal Gran San Bernardo, un colle sul quale, secondo l’anonimo autore di un Mistero di San Bernardo di Menthon (scritto intorno al 1450), si troverebbe una «sinagoga» di eretici e di fattucchieri (il termine «sinagoga» veniva allora usato per definire il luogo in cui gli stre-


LA CONDANNA «E poiché poco avrebbe effetto la sentenza se non fosse mandata debitamente a esecuzione, noi Lorenzo, capitano suddetto, sedendo nel tribunale come sopra, incarichiamo, mandiamo e ordiniamo a Ser Giovanni di Ser Antonio da Pavia qui presente e in facoltà di udire e intendere di andare insieme con la nostra corte, di porre o far porre la detta Matteuccia, dopo averle imposto sul capo una mitria, e legate le mani dietro le spalle, sopra un asino e di condurla o farla condurre personalmente al luogo dove abitualmente si amministra la giustizia, o in qualunque altro luogo nell’interno o fuori di detta città a giudizio e scelta di detto Ser Giovanni soldato e ivi sia bruciata con il fuoco in maniera tale che la colpevole muoia e la sua anima si separi dal corpo in esecuzione di questa nostra sentenza, della cui esecuzione deve farne fede a noi per mezzo di pubblico istromento e deve dire e fare tutte le altre cose che deve ed è tenuto a dire e a fare secondo lo spirito degli statuti ed ordinamenti di detta città di Todi» (da Domenico Mammoli, Processo alla strega Matteuccia di Francesco, 20 marzo 1428, Todi 1983; p. 37).

STREGHE

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CACCIA ALLE STREGHE goni si incontravano), che tengono scuola con i diavoli, adorano una statua di Giove, catturano pellegrini per arrostirli e per far baldoria.

Un duca in odore di eresia

Ma anche papa Eugenio IV insinuò, in una lettera del 23 marzo 1440, che il suo rivale, l’antipapa Felice V (l’ex duca di Savoia Amedeo VIII), avesse osato erigersi contro l’autorità della Chiesa, sedotto dagli incanti e dai sortilegi di uomini scellerati e di perfide femmine che, abbandonando il Signore, si erano rivolti a Satana: queste persone, designate con i termini di stregnes, stregones o waldenses, sarebbero, aggiunge il papa, particolarmente numerose in Savoia e avrebbero aiutato Amedeo VIII nell’esecuzione dei suoi progetti. È una voce che Enea Silvio Piccolomini (il futuro papa Pio II) si affrettò a riprendere: le streghe, egli sostenne, sono numerose in Savoia e sarebbero venute in quei luoghi per predire al duca di Savoia la sua elezione a pontefice. Queste testimonianze hanno per noi un interesse storico preciso, quello di documentare l’esistenza, prima del 1440, di nuove sette i cui membri, tutti definiti «stregoni», invocano il demonio e fanno omaggio a Satana, e la cui attività è attestata negli Stati di Savoia, e in particolare nella diocesi di Losanna, sul Gran San Bernardo, nella Valle d’Aosta, e anche in Borgogna.

Leggende alpine IL NOCE DI BENEVENTO In Italia le streghe avevano un sito d’elezione, nei pressi di Benevento, lungo il fiume Sabato. In quel luogo, ai piedi di un mitico noce, celebravano i loro riti satanici, ognuna in compagnia di un demone personale, tutte sotto il controllo di Belzebú. Il saggista Pietro Piperno, trattando Della superstitiosa noce di Benevento (1639), trovò una radice storica della leggenda in epoca longobarda. Durante il ducato di Romualdo, nello stesso sito presso il Sabato, si celebrava Wotan, il padre degli dèi. Gli si rendeva omaggio appendendo a un albero la pelle di un caprone, che diventava bersaglio delle lance dei guerrieri in una vorticosa cavalcata intorno al tronco per ottenere il favore del dio. Gli invasori longobardi, che formalmente avevano abbracciato la religione di Cristo, continuarono a coltivare riti pagani, come l’adorazione di una vipera d’oro, e questa ambivalenza religiosa attirò la reazione dei cattolici beneventani, che videro nel rituale dell’albero sacro un derivato delle credenze sulle streghe, con il caprone come incarnazione del diavolo. Subito scattò l’accusa di eresia per iniziativa del sacerdote Barbato (futuro santo), il quale, però, strappò a Romualdo la promessa di rinunciare al paganesimo in cambio dell’aiuto per liberare Benevento dall’assedio dell’imperatore bizantino Costante II. Grazie a Barbato, l’assedio fu tolto e il duca lo volle elevare a vescovo della città. Come presule, abbatté egli stesso l’albero sacro, facendo costruire in quell’area una chiesa, S. Maria in Voto. Intanto, tradendo la promessa, Romualdo persisteva nell’adorare la vipera d’oro. La moglie Teodorada, allora, gliela sottrasse, consegnandola a Barbato, perché ne ricavasse un calice. Cinque secoli piú tardi, in occasione di un processo per stregoneria, vi furono nuove testimonianze di riunioni demoniache ai piedi di un albero di noce, che si credette fosse quello abbattuto da Barbato, rimesso in piedi da Belzebú. F. C.

A sinistra Satana e i demoni in una miniatura di scuola francese del XV sec. Nella pagina accanto Il sabba delle streghe. Incisione di Hans Baldung detto Grien. 1510 circa. San Francisco, Palazzo della Legione d’Onore.

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STREGHE



COLPEVOLI PERFETTE

Viste come il capro espiatorio ideale per qualsivoglia sciagura, le streghe finiscono con grande facilità sul banco degli accusati. E contro di loro si scatena l’arma della calunnia…


Miniatura raffigurante i devastanti effetti della peste, da un manoscritto del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Streghe e stregoni erano accusati di causare, con i loro sortilegi, calamità naturali, carestie, malattie e morti improvvise.

di Claudio Corvino

D

alla fine del XIV secolo le accuse utilizzate contro gli eretici cominciano ad associarsi anche a coloro che verranno definiti streghe o stregoni. Le due categorie tendono ad assimilarsi e a confondersi tra loro, lasciando poco spazio per una corretta visione della «strega». Questa, d’altronde, non ci ha mai lasciato romanzi o diari scritti di suo pugno, anzi, difficilmente avrebbe potuto farlo, visto

che era per lo piú analfabeta. Da qui nasce il limite fondamentale per la nostra conoscenza delle streghe: tutto ciò che sappiamo di loro ci viene detto da ambienti che appartengono alla persecuzione del reato, cioè, dai processi, dai trattati demonologici, dalle condanne dei sinodi, dalle minute degli inquisitori. Le nostre fonti sono dunque «viziate», e non poco! Un esempio emblematco è un volume di


CACCIA ALLE STREGHE Pierre de Lancre, noto inquisitore che si vantava di aver mandato al rogo nel Labourd (Paesi Baschi) centinaia di streghe in pochi anni. Nel Tableau de l’inconstance des mauvais anges et démons (1613), egli riporta tutto quanto ascoltava e faceva confessare alle streghe che però (i guai non vengono mai soli) parlavano in una lingua diversa dalla sua. C’è da mettersi le mani nei capelli per le traduzioni del pur dotto inquisitore! Semplici ritornelli popolari che rievocavano la lotta tra don Pedro d’Aragona e don Giovanni di Castiglia, del XV secolo, sotto la sua tremolante penna divengono «parole sconce» e «blasfeme», che verranno utilizzate contro l’imputato. Tenendo ben presente quanto detto è possibile farsi un’idea di chi fossero «streghe» e «stregoni», utilizzando varie fonti (con i limiti visti) sparse nei secoli e per l’Europa? Innanzitutto, andando ancora una volta oltre il mito, vediamo che la stregoneria non fu affatto un fenomeno esclusivamente femminile.

Statistiche poco attendibili

Già Massimo, un vescovo del torinese del V secolo, nei suoi Sermones, parlando della femminile «società di Diana», l’antenata della stregoneria, attesta la presenza anche del dianaticus, probabilmente un frenetico o semifolle, ma forse anche un seguace di Diana. È vero, si penserà, che il citato e famoso Canon, che ha dettato legge per secoli, discute di una setta di donne, ma Reginone già ne parlava in una rubrica intitolata, significativamente, «Ut episcopi de parochiis suis sortilegos et maleficos expellant». I sortilegos et maleficos da «espellere» sono all’accusativo maschile! Anche Johan von Frankfurt, commentando la citata rubrica, parla di «alcuni ”uomini” che durante la notte...». Certo, il genere maschile può indicare anche il femminile, ma mai «solo» il femminile. E poi, ci sono le statistiche! Da prendere con molta cautela, ovviamente. Eppure, non tutti i conteggi fatti dagli storici pendono sul piatto femminile della bilancia. Virili testimonianze ci vengono dagli antichi processi per vauderie (altro nome per stregoneria): a Neuchâtel vengono bruciati, dal 1430 al 1481, 29 uomini e «solo» 7 donne. Anche nella Ginevra del Quattrocento furono di certo più uomini che donne a essere condannati e ci furono casi, come in Svezia o nella Logroño spagnola, dove la maggioranza degli imputati furono… bambini! Equamente distribuiti fra maschietti e femminucce, però. Gli stessi inquisitori, tra le righe dei loro scritti, sembrano indecisi. 62

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Alla sbarra Miniatura di scuola francese raffigurante Tristano e Isotta che bevono una pozione d’amore, da un’edizione del Livre de Messire Lancelot du Lac. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


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Il già conosciuto Pierre de Lancre, all’inizio, sembra sicuro: «ci sono dieci volte più donne che uomini», tra gli accusati di stregoneria, salvo poi contraddirsi scrivendo che questa è un affare che riguarda «entrambi i sessi». Tutto ciò non vuole certo invalidare l’inveterata immagine della donna-strega, ma potrebbe, in parte, instillare un benefico e forse utile dubbio per osservare il fenomeno, al di là delle teorie che hanno voluto vedere guerre di sesso, femminismi ante litteram o simboliche rappresentazioni di misteriosi corpi femminili nei riti e nei miti stregoneschi. Ritornando alla descrizione delle «streghe», queste, prima che fossero inevitabilmente accusate di adorare uno dei 133 306 668 diavoli che Alfonso Spina contava nel Quattrocento, sembrano essere, innanzitutto, individui dotati di poteri soprannaturali in grado di cambiare il destino degli altri grazie a pratiche rituali o simboliche. In altre parole, un po’ quello che continuano a fare i fattucchieri delle nostre campagne, o gli anacronistici «maghi» delle nostre città e televisioni.

Nella pagina accanto un gruppo di valdesi adora il diavolo sotto forma di capro durante una messa nera; sul fondo, un sabba, riproduzione ottocentesca di una miniatura tratta da Sermo contra sectam Valdensium (1460 circa), di Johannes Tinctoris.

avesse il potere di dare o togliere. La medicina medievale, d’altronde, non sempre sembrava offrire un valido sostitutivo. A parte la limitata diagnostica, le terapie consistevano principalmente in salassi e bagni, quando non in costosissime diete e cure. Non ci si deve meravigliare, allora, che le persone «correvano nella piazza a sentire il parer dei ciarlatani, saltimbanchi e malfattrici chiamati dal popolo streghe», come scriveva il dotto Scipione Mercurio, a Venezia, nel 1603. Come avviene ancora oggi in molte culture studiate dall’etnologia, anche gli abitanti dei villaggi medievali trovavano nella strega o nello stregone la spiegazione dei loro mali. I continui

Esecuzioni senza condanne

La specialità di questi stregoni medievali consisteva nel gettare il malocchio (quindi anche di toglierlo), un gesto che all’epoca, e tuttora in molte civiltà, offre una comoda e indiscussa spiegazione di molti eventi calamitosi che l’esistenza ci riserva. E non si deve pensare che tali credenze appartenessero solo alle classi povere e analfabete: nella sua autobiografia il monaco Guiberto di Nogent, nel XII secolo, racconta che il padre era rimasto sette anni senza figli a causa del maleficio di una matrigna invidiosa. La diffusione di tali credenze, inoltre, è indirettamente testimoniata anche dal fatto che questi «malevoli» personaggi non riuscivano a volte neanche a raggiungere le aule del tribunale, visto che venivano linciati o lapidati a morte prima, a furor di popolo. Se grandi sciagure come le epidemie erano disastri la cui causa veniva individuata in interi gruppi, in genere Ebrei accusati di avvelenare i pozzi o di cospargere col grasso i muri e le maniglie delle porte per diffondere il contagio, i disastri quotidiani o di minor entità, come la grandine o la tempesta che rovinava il raccolto, una morte accidentale, una mancata mungitura o un insuccesso inaspettato, potevano trovare una plausibile spiegazione nell’intervento della strega. Ma il campo d’elezione della stregoneria doveva essere quello della salute, che si credeva (segue a p. 69)

La vecchia (o Col tempo), olio su tela del Giorgione (al secolo, Giorgio da Castelfranco). 1506 circa. Venezia, Galleria dell’Accademia. STREGHE

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STREGHE FAMOSE

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1. INGHILTERRA Geillies Duncan e Agnes Simpson, inglesi. Nel 1591 durante una tortura fu trovato sul loro corpo il cosiddetto marchio del diavolo, una piccola macchia della pelle. Le imputate confessarono i legami con il maligno e raccontarono di aver lanciato un sortilegio contro il re d’Inghilterra.

2. TOLOSA Anne-Marie de Georgel, francese, nel 1335, davanti al tribunale di Tolosa, confessò sotto tortura di aver incontrato un uomo nero dall’aspetto animale, con cui si era congiunta. In seguito, ammise di aver partecipato a un sabba presenziato da un caprone. Pentitasi per gli atti sacrileghi compiuti fu liberata. Catherine Delort, francese, imputata nello stesso processo a carico di Anne-Marie de Georgel, raccontò di aver stretto un patto con il demonio perché obbligata dal fidanzato. Anche lei descrisse lo svolgimento dei sabba, aggiungendo particolari agghiaccianti: durante quei riti alcuni partecipanti avrebbero mangiato cadaveri di bambini appena nati, rubati alle balie. Molti storici considerano la vicenda di Anne-Marie de Georgel e di Catherine Delort frutto di un’invenzione letteraria ottocentesca.

3. VERCELLI Giovanna Monduro, residente in un piccolo centro del Vercellese, fu accusata di aver lanciato sortilegi contro una donna, provocando la morte dei suoi due bambini. Alcune testimonianze riferirono ai giudici che Giovanna partecipava a riunioni nelle quali si invocava il diavolo. L’imputata negò ogni addebito, ma sotto tortura, alla fine, confessò. Raccontò di essersi accordata con il demonio e di aver preso parte a riti con l’intento di fare del male ad altre persone. La sentenza, emessa nell’agosto del 1470, la condannò al rogo. 4. MILANO Sibillia Zanni e Pierina de’

Bugatis, originarie di Milano, finirono sotto processo per eresia e stregoneria nel 1384. Testimoniarono di aver preso parte ad alcune riunioni, che sarebbero state organizzate da una misteriosa «Madonna Oriente» e dalla sua comunità di fedeli. In realtà, come poi confermarono le stesse donne, si trattava di riti pagani in onore della dea Diana, nel corso dei quali si sacrificavano animali. In una delle sue deposizioni, Pierina de’ Bugatis affermò di essersi accoppiata con il diavolo. Entrambe le accusate furono riconosciute colpevoli e mandate al rogo.

5. REGGIO EMILIA Gabrina degli Albetti, anziana popolana di Reggio Emilia, era

nota in città come fattucchiera e aveva aiutato alcune donne afflitte da pene d’amore, consigliando loro una serie di riti magici. Nelle formule che prescriveva erano contenute anche invocazioni al demonio. La fattucchiera, pur negando di adorare il maligno, venne condannata nel 1375: le fu tagliata la lingua e subí il marchio d’infamia.

6. TOSCANA

Gostanza da Libbiano, contadina toscana, nel 1594 fu portata davanti all’Inquisizione con l’accusa di stregoneria. Dopo essere stata torturata, raccontò di aver avuto rapporti sessuali con il demonio e praticato malefici d’ogni sorta. Il tribunale non procedette alla condanna al rogo per il dubbio che la confessione fosse stata estorta a forza, con un uso troppo spinto della tortura. La contadina, infatti, fu solo esiliata.

7. TODI Matteuccia di Francesco fu processata a Todi nel 1428. La donna, conosciutissima in tutta l’Umbria per le sue capacità di guaritrice, confezionava terapie a base di erbe che mischiava a parti di animali morti e grasso umano. Si procurava quest’ultimo componente nei cimiteri o uccidendo bambini. La donna, inoltre, spiegò che l’unguento derivato da cadaveri umani le serviva anche per poter recarsi in volo ai sabba. Fu condannata al rogo.

8. FIANO ROMANO Bellezza Orsini, di famiglia nobile, fu processata a Fiano Romano nel 1528 per aver provocato con una maledizione la morte di un bambino. Lo stesso fanciullo, agonizzante per una misteriosa malattia, aveva rivelato ai familiari di essere stato vittima di un sortilegio per opera di Bellezza. La donna, davanti ai giudici, negò di essere una strega, pur ammettendo di aver somministrato pozioni composte da resti di cadavere ad alcuni ammalati. Sotto tortura, invece, confessò di essere una strega e si suicidò in carcere.

8. ROMA Finicella, romana, raccontò nel 1426 ai giudici di aver ucciso a scopo rituale trenta bambini. Confessò, inoltre, di aver assassinato anche suo figlio piccolo e dalle sue ceneri aveva ricavato una polvere utile per altre pratiche magiche. Gli inquisitori, increduli per l’efferatezza dei crimini descritti dall’imputata, fecero alcune indagini per accertare se effettivamente quei bambini fossero scomparsi. Una volta ottenuta la conferma dalle famiglie dei fanciulli, condannarono Finicella al rogo. F. C. STREGHE

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passaggi degli eserciti, l’instabilità sociale, l’imprevedibilità del clima e la scarsa conoscenza delle nozioni igieniche e psichiatriche, che causavano le piú svariate e «misteriose» malattie, dovettero certamente contribuire a creare un clima favorevole alle accuse di stregoneria. A difesa di questi immaginari pericoli, oltre ai tribunali e al controllo sociale, esisteva una categoria di persone in grado di riconoscere una strega a colpo d’occhio, solo guardandola nelle pupille: erano i «cacciatori di streghe», per lo piú giovani che, con le loro testimonianze, erano in grado di innescare vere e proprie esplosioni di accuse di stregoneria. È il caso di un giovane pastore della Borgogna che, nel 1644, riuscí, da solo, a scatenare una grande persecuzione di streghe, oppure, meno di trent’anni dopo, di un sedicenne garzone di bottega del Béarn, convinto che gli stregoni si riconoscessero da un segno nero fibromatoso che portavano sul viso: ne individuò 6210 e, nel solo villaggio di Labourcase, 195.

Nella pagina accanto Un ciarlatano vende rimedi e pozioni, olio su tavola di Jan Havickszoon Steen. 1679. Amsterdam, Rijksmuseum. Nel Medioevo, chi era colpito da malattie si rivolgeva spesso a fattucchiere e sedicenti guaritori, spesso imbroglioni, considerati in grado di dare o togliere la salute agli uomini. In basso facsimile della carta del Diavolo (oggi perduta), facente parte del mazzo di tarocchi realizzato a Milano intorno al 1430 e detto «Visconti-Sforza» o «Colleoni», variamente attribuito ad artisti del tempo fra cui Bonifacio Bembo.

Sospetti che divengono certezze

Di come andasse l’accusa di stregoneria in un piccolo villaggio, possiamo averne un’idea guardando i fatti avvenuti a Bazuel, nel Cambrésis, nei primi mesi del 1599. Gli abitanti, durante quell’inverno, vivono una strana inquietudine: sono turbati, preoccupati. I vicini di un’anziana vedova, Reine Percheval, sembrano tutti sull’orlo di una crisi di nervi: gli animali muoiono senza una causa apparentemente conosciuta, gli incidenti domestici si susseguono con una frequenza sinistra e le cose sembrano non andare mai per il loro verso. Inoltre, muore misteriosamente la loro bambina. Lo zio, che già da tempo la sospettava, ora è certo: è stata Reine a ucciderla! Un notabile del luogo, che non conosce l’anziana vedova, da un po’ di tempo soffre di una non meglio diagnosticabile «estrange maladye». Qualche amico gli consiglia di andare da una fattucchiera la quale, dopo averlo osservato bene e aver ascoltato i sintomi, sentenzia: è Reine Percheval la causa di ogni suo male, quella brutta strega malvagia! Certe notizie si diffondono in modo fulmineo e, passando di bocca in bocca, si gonfiano, si colorano, e finiscono con l’assumere una vita propria. Qualcuno mette in giro la voce che alla vacca di Reine sia nato un vitello deforme, morto appena dato alla luce. È un prodigium avverso, considerato come l’annuncio di un imminente castigo divino o, secondo altri, come uno scherzo di Satana. Qualcun altro ricorda di averla vista spesso parlare con un valdese, uno STREGHE

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di quelli che, si sa, praticano la magia nera. Il giudice di Bazuel non ha alcuna prova, ma manda i suoi gendarmi ad arrestarla. La donna cerca di difendersi in tutti i modi, mostrando un’energia e una tempra che suonano sospette, aggravando ancora di piú la sua situazione. Ma tutte le maldicenze di villaggio sono poca cosa rispetto all’efferata morsa della macchina giudicante. Come ci si aspettava, confessa di essere andata al sabba con altri stregoni: di Reine Percheval rimasero solo le anonime ceneri blasfeme. Due anni dopo, a Rocroi, nelle Ardenne, tocca ad Aldegonde de Rue, che si era trasferita lí da poco, proprio per sfuggire alle accuse e ai sospetti di stregoneria che si andavano formando sul suo conto nella città di Caveau. Era vedova, nessuno poteva e voleva difendere il suo onore, e cosí non le restava altro che andar via dalla sua città natale, inconsapevole del fatto che cosí sarebbe passata dalla padella alla brace.

Il «marchio del diavolo»

Probabilmente analfabeta, in un mondo contadino dove già il possedere un libro sapeva di magia, non poteva sapere ciò che il Malleus, vademecum del perfetto inquisitore, riportava a chiare lettere: chi cambia casa di frequente deve essere sospettato di stregoneria, perché fa questo per sottrarsi ai suoi giudici naturali. Lo conferma anche la Démonomanie des sorciers di Jean Bodin, altro immancabile testo nella biblioteca dei giudici. Come se non bastasse, Aldegonde ebbe anche la sventura di trovare, a Rocroi, un altro «cacciatore di streghe», un boia di professione che si andava vantando di averne già scoperte 274. Fu un vero fulmine a ciel sereno, e la donna si trovò nuda e rasata da capo a piedi nella camera di tortura mentre le si cercava addosso il famigerato «marchio del diavolo», quel punto del corpo dove non si avvertiva alcun dolore anche se trafitti, come lo fu Aldegonde, con un lungo spillone. Bastò poco tempo e quella ricerca «norcina» diede i suoi frutti: erano cinque puntini sulla spalla sinistra. Probabilmente se avessero continuato a cercare quel «punctum diaboli», ne avrebbero trovati molti altri: Aldegonde aveva «staccato la spina», era con la mente altrove, in un mondo oniroide dove non esistevano la sofferenza, le ingiustizie, la violenza. In un paradiso ultraterreno o in un sabba dove il suo padrone, che fosse Dio o il diavolo non cambiava molto a quel punto, l’avrebbe protetta da ogni male. Alla fine però furono gentili con lei: la strangolarono dolcemente prima di arrostirla. 70

STREGHE

NEL PAESE DEI FOLLI Artista a dir poco immaginifico, il pittore e incisore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio rappresenta un borgo afflitto da una pazzia collettiva, per curare la quale una strega estrae dalla testa degli infetti la pietra che è all’origine del misterioso e pernicioso morbo


La strega di Malleghem è un’incisione realizzata da Pieter Bruegel il Vecchio nel 1559. Il pittore fiammingo ritrae la maga mentre estrae dalla testa degli uomini la cosiddetta «pietra della pazzia» considerata, nell’immaginario medievale, la causa della malattia mentale, da rimuovere per ottenere la guarigione completa. La scena è ambientata nel «paese dei

folli», facili prede di imbrogli: nella lingua fiamminga del XVI secolo, infatti, mal era il «pazzo», mentre ghem un «luogo di abitazione». La ciarlatana mostra a una folla urlante di stolti una pietra appena estratta come prova delle proprie capacità soprannaturali, mentre un complice, nascosto sotto al tavolo, raccoglie da una cesta un altro sasso, per proseguire la truffa.


TRIBUNALI D’INGIUSTIZIA

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Il rogo di un eretico cataro in presenza del vescovo, xilografia tratta dal Liber Chronicarum (o Cronache di Norimberga) di Hartmann Schedel, pubblicato nel 1493.


Eretici e streghe finiscono davanti all’Inquisizione «pontificia»: voluta da papa Gregorio IX, la temibile istituzione si avvale di meccanismi procedurali pronti a mietere confessioni e… vittime di Claudio Corvino

L

e già viste Constitutiones contro i Catari (vedi capitolo Tolleranza e repressione, alle pp. 42-49), volute da Lucio III, mostrarono ben presto i loro limiti, e l’affidare le questioni di fede alla buona volontà dei vescovi, peraltro non sempre troppo zelanti, si rivelò una scelta di scarsa efficacia. Si cominciò allora a pensare alla creazione di un’istituzione repressiva, dotata di poteri speciali e indipendente da ogni influenza locale. Cosí che Gregorio IX benedisse, con la bolla Ille humani generis (1233), la nascita dell’Inquisizione «pontificia», ovvero un tribunale creato ad hoc per combattere ogni forma di eresia. I vescovi furono cosí di fatto sollevati dai loro tradizionali compiti antiereticali, trasferiti ora a piú scrupolosi frati domenicani. Questi ultimi ebbero il potere di infliggere il carcere a vita, riesumare cadaveri di eretici da riuccidere sul rogo o anche imporre meno drammatici pellegrinaggi espiatori. I primi inquisitori pontifici fecero il loro ingresso nelle varie diocesi: nello stesso anno della pubblicazione della Ille humani, Guillaume Arnaud e Pierre Sellan furono mandati a Tolosa e, due anni piú tardi, Roberto il Bulgaro (ex cataro) divenne inquisitore generale per il regno di Francia. Ma il loro modo di operare, la loro ferocia, crearono vere e proprie ondate di malcontento: i primi due, troppo coscienziosi e forse anche poco accorti, arrivarono a condannare gli stessi consoli della città, e Roberto il Bulgaro compí una vera e propria carneficina, massacrando, nel solo anno 1239, duecentocinquanta eretici, molti dei quali seppelliti vivi.

L’inchiesta affidata a un cronista

Gregorio IX fu costretto a diminuire la pressione inquisitoriale tolosana, anche in considerazione del fatto, politicamente rilevante, che il conte di Tolosa Raimondo VII si era schierato con Roma nel contenzioso con Federico II. Per il massacro del Bulgaro, invece, aprí un’inchiesta, diretta dal cronista Matteo Paris, che si concluse con la condanna al carcere a vita dell’inquisitore. STREGHE

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INQUISIZIONE

Il piú feroce dei tribunali

A sinistra il domenicano Tomás de Torquemada (1420-1498), inquisitore generale spagnolo, che ottenne l’espulsione delle comunità giudaiche dalla Castiglia e dall’Aragona, particolare dell’opera Madonna dei Re Cattolici, tecnica mista su tavola forse dipinta da Fray Pedro de Salamanca. 1497 circa. Madrid, Museo del Prado. La nascita dell’Inquisizione «pontificia» avvenne a seguito dell’emanazione della bolla di Gregorio IX (1233), quando il potere di combattere con ogni mezzo qualsiasi forma di eresia fu trasferito dai vescovi locali all’Ordine domenicano.

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LUNGHE ATTESE PER ESTORCERE LE CONFESSIONI Nella fase preliminare dell’interrogatorio, nei tribunali dell’Inquisizione spagnola, si chiedeva all’imputato se fosse a conoscenza del motivo del suo arresto. Se questi ne ignorava la ragione, allora l’inquisitore lo ammoniva con la seguente formula: «In questo Santo Uffizio non si usa imprigionare persona alcuna senza sufficienti indizi che essa abbia detto, fatto e commesso (…) cosa che sia o appaia essere contro la Nostra Santa Fede Cattolica». Poi l’imputato veniva esortato a confessare, in modo tale, lo si rassicurava, da rendere il procedimento piú breve e di poter godere della grazia che la Santa Inquisizione concedeva a coloro che facevano una confessione completa prima che fossero loro rivelate le accuse. Se non si otteneva alcuna confessione, il prigioniero tornava in carcere. «A volte – scrive Gustav Henningsen ne L’avvocato delle streghe (Garzanti, Milano 1990) – gli inquisitori ritenevano conveniente attendere per mesi prima che un prigioniero chiedesse di essere sottoposto a interrogatorio».


Nella pagina accanto, in alto Autodafé in Plaza Mayor a Madrid, olio su tela di Francisco Rizi. 1683. Madrid, Museo del Prado. In basso xilografia cinquecentesca raffigurante due streghe sottoposte a tortura. La repressione delle forme di stregoneria divenne prioritaria a partire dal XIII sec. e, nel corso del tempo, i metodi per estorcere confessioni agli imputati si fecero sempre piú violenti.

L’iniziale, difficile rapporto tra inquisitori e i vari contesti politici e sociali nei quali operavano fu anche costellato di attentati, che causarono il primo martire, quindi santo, e poi patrono degli inquisitori: Pietro da Verona, assassinato nel 1245. In quegli stessi anni, intorno al 1270, gli inquisitori cominciarono a circondarsi di guardie armate, le Societates, per difendersi dai sempre probabili attentati. L’inquisitore pontificio seppe essere ben piú efficace di quello vescovile: cosciente dell’importanza del suo compito egli credeva fermamente che la cristianità fosse messa in pericolo dalle eresie e, quando anche la stregoneria venne annoverata tra queste ultime, che le streghe fossero il nemico numero uno all’interno della società europea, cosí come, all’esterno, lo erano i musulmani che cominciavano a premere alle sue frontiere. I riflessi di questo terrore si fecero sentire anche a Occidente, in Spagna, dove la nota tolleranza reciproca tra Ebrei, musulmani e cristiani era sempre piú un mito. Anzi, sebbene molti tra loro si fossero convertiti al cristianesimo, questi cristianos nuevos venivano guardati con sospetto, rappresentando una ovvia (per i cristiani) quinta colonna in caso di invasione. Smascherare i falsi cristiani, fossero essi marranos (di origine ebraica) o moriscos (musulmana), diventava allora un problema che riguardava l’Inquisizione, e anche

un problema urgente. Il 21 luglio 1478 Sisto IV autorizzava con una bolla i re cattolici di Spagna a scegliere alcuni esperti teologi e giuristi per verificare la fede dei conversos. Non ci volle molto e, mentre questi ultimi cominciarono a fuggire dal Paese, già nel 1481 i primi roghi illuminavano la tollerante terra di Spagna. Nel 1483, Tomás de Torquemada divenne inquisitore generale delle terre spagnole. Qui e ora l’Inquisizione, insieme con i cattolicissimi re di Spagna, sembra aprire un astratto, assurdo quanto inutile, «fronte» occidentale contro la concreta avanzata dei musulmani a Est. Ed è ora che l’istituzione ecclesiastica raggiunge il vertice della sua organizzazione, della sua efficacia e della sua violenza. Migliaia furono i conversos massacrati sotto le piú ingiustificate accuse: dall’uccisione rituale di bambini cristiani, al fatto di conservare le loro antiche fedi dopo i sommari battesimi «per aspersione».

I tribunali della Suprema

L’organizzazione raggiunta dai tribunali inquisitoriali spagnoli, agli inizi del Cinquecento, era pressoché perfetta e, soprattutto, poteva vantare una larghissima indipendenza. Il Santo Uffizio spagnolo aveva un suo ministero, il Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione, conosciuto come la Suprema, e disponeva di propri tribunali, prigioni e case di pe-


nitenza. L’inquisitore aveva al suo servizio una nutrita schiera di aiutanti, dai commissari di distretto, in genere parroci, fino alle guardie del corpo, che abbiamo già visto. A questi si devono naturalmente aggiungere notai, copisti, archivisti, boia. Fondamentale, per lavorare al servizio dell’Inquisizione, era il certificato di purezza di sangue, alquanto costoso e difficile da ottenere: era necessario raccogliere prove, testimonianze, far convalidare documenti che attestassero la «cristianità» del richiedente. Il tutto a sue spese. I tribunali, inoltre (cosa che ne aumentava molto il potere e la pericolosità), erano vincolati al piú rigoroso segreto d’ufficio: neppure il re poteva costringere gli inquisitori a rivelare ciò che essi non volevano. Quando il potente re Filippo II ebbe la necessità di consultare un suo chirurgo di fiducia, scoprendo che era stato arrestato dall’Inquisizione, scrisse piú volte alla Suprema per averne notizie. L’Inquisitore Generale si degnò finalmente di rispondergli, ma solo per comunicare che, se il chirurgo si trovava in quel momento ospite delle sue prigioni, di certo non sarebbe potuto uscirne e che, comunque, egli non poteva neanche rivelare se fosse prigioniero o meno.

Il sermone dell’inquisitore

Gli accusati avevano il diritto di essere difesi da un avvocato, ma, nella quasi totalità dei casi, la sua funzione, da buon cristiano, si limitava a esortare l’imputato a confessare e a chiedere perdono. Cosí, quando l’Inquisizione cominciò a interessarsi anche di quelle particolari «superstizioni» che andarono sotto il nome di stregoneria, il suo meccanismo procedurale era già pronto a mietere confessioni, e vittime. L’inchiesta cominciava con un sermone pubblico, durante il quale l’inquisitore denunciava e descriveva l’eresia (o la setta stregonesca), ricordava i dogmi del cattolicesimo e invitava l’uditorio a riflettere sui propri errori e quelli dei propri paesani. Era il «periodo di grazia», durante il quale invitava tutti a pentirsi e, soprattutto, a denunciare i sospetti. Raccolte in seguito le denunce, dava ordine ai suoi collaboratori di stilare una lista di sospetti o denunciati da interrogare. Durante l’interrogatorio procedeva metodico e sicuro: «il giudice non deve avere fretta», rassicura il Malleus; ottenere una confessione è solo una questione di tempo. Per i giudici l’unico ostacolo era il criterio di valutazione della prova, straordinariamente rigoroso soprattutto nei tribunali inquisitoriali. Mutuato dal diritto romano in materia di tradimen76

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L’INTERROGATORIO Gli interrogatori, i processi e i formulari sopravvissuti alle fiamme e al tempo possono essere oggi fonte inesauribile per le conoscenze della cultura popolare o, se si vuole, delle superstizioni medievali. Possiamo osservarlo in questo formulario di un interrogatorio condotto nel 1270 «SI CHIEDA: (…) se ha fatto l’esperimento dello specchio, della spada, dell’unghia, della sfera, del manico d’avorio o ha invocato l’aiuto dei demoni su qualche erba, uccello o altra creatura;

se ha fatto qualche sortilegio per ottenere l’amore delle donne, o degli uomini;

se ha fatto l’esperimento del circolo magico; se ha fatto l’esperimento dell’acqua o del fuoco o con altri artifici o col piombo;

(…) se ha cercato di conoscere il futuro mediante gli intestini degli animali, ovvero le spalle o le mani degli uomini;

se nel primo giorno di gennaio ha fatto qualche cosa per assicurarsi un buon anno nuovo, dando anche qualche offerta per le strenne;

se ha osservato segni del destino, come l’uccello che cova l’uovo, ritenendo che da esso gli verrà fecondità o abbondanza o se ha notato il casuale ritrovamento di un pezzo di ferro, di un ago, di una moneta, l’apparizione di un lupo, di un serpente e di altre cose, ritenendo che esse causino fortuna o sfortuna»

Nella pagina accanto una strega, illustrazione ad acquerello realizzata da Giovanni Grevembroch (Jan van Grevenbroeck) per l’opera Gli Habiti de’ Veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII. Venezia, Museo Correr.


to, era perciò detto «diritto di prova romanocanonico». Per essere certi della colpevolezza dell’imputato e quindi condannarlo, servivano due testimoni oculari o, in sostituzione, la confessione: ecco apparire all’orizzonte lo strumento della tortura. Questa era, d’altronde, indispensabile per far confessare quei crimini, puramente mentali, di cui erano accusate le streghe. Spesso i giudici avevano un’idea preconcetta su ciò che dovesse significare essere un eretico o una strega e ne cercavano conferma negli imputati. Si creava cosí una perversa dinamica di circolarità che, a ogni giro, sembrava rafforzare l’immagine di una cristianità messa in pericolo dall’universale cospirazione stregonesca: gli imputati portavano nelle aule le loro credenze, le loro «superstizioni», ascoltate e trasformate dai giudici in eresie o prove di appartenenza alla infida setta stregonesca. Gli inquisitori scrivevano dotti trattati nei quali si specificavano meglio credenze, teorie e modi interrogandi. A loro volta, questi manuali cosí concepiti arricchirono le biblioteche, le fantasie e le convinzioni degli altri inquisitori che entrarono nelle aule dei tribunali a interrogare, torturare, giudicare… Cosí, lentamente, dalle aule dei tribunali le superstizioni contadine entrarono a far parte della comune credenza nelle attività stregonesche, tra le quali assunsero un ruolo privilegiato quelle assemblee notturne chiamate «sabba», il volo magico a cavallo di un animale o di uno spirito-guida della strega e, soprattutto, il blasfemo patto con il diavolo che questa stipulava in cambio del suo presunto potere.

Grande cura bisognava avere quando si arrestava una «strega»: per timore che tramite il pavimento contaminasse i presenti in tribunale, la si trasportava in una cesta o sollevata su di un asse; davanti al giudice, doveva stare di spalle, affinché non lo «affascinasse» con

lo sguardo; a maggior ragione non bisognava essere toccati da lei e, per maggior sicurezza, si consigliava al giudice di portare al collo erbe benedette e sale consacrato durante la Domenica delle Palme, il tutto sigillato con una cera, anch’essa benedetta. STREGHE

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UN CRIMINE CONTRO L’UMANITÀ

Nel 1486 viene pubblicato il Malleus maleficarum, opera dei domenicani tedeschi Jakob Sprenger e Heinrich Institor. Nelle mani degli inquisitori il testo diviene uno strumento formidabile per combattere la stregoneria, fornendo al loro ignobile accanimento giustificazioni di natura religiosa e morale di Claudio Corvino

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l Malleus maleficarum, il «martello delle malefiche», fu, piú che un libro, un vero e proprio vademecum del perfetto inquisitore, scritto da Jakob Sprenger (1436 circa-1495) ed Heinrich Institor (1430 circa-1505 circa) e stampato verso il 1486. Malleus significa martello o maglio. Maleficarum è al femminile perché, nel pensiero dei due autori, e della loro epoca, chi fa malefici (da male e facere) non può che essere donna, quindi «malefica». E infatti il Malleus, oltre a essere il trattato demonologico piú completo e famoso sull’argomento, è forse il volume piú misogino e antifemminista che sia mai stato scritto, perlomeno nel Quattrocento. Anche se non si può dire che il Malleus sia la causa scatenante della persecuzione alle streghe, è tragicamente vero però che il trattato fu la piú consistente giustificazione morale e teorica a quel particolare crimine contro l’umanità che fu conosciuto come «caccia alle streghe». Questo, per vari motivi. Innanzitutto il trattato, a differenza degli altri volumi scritti sull’argomento, ha una solidissima e stringente dialettica, derivante sia dall’esperienza «sul campo» degli autori, sia dalla loro preparazione filosofica. Anche le cose piú assurde, le falsità piú evi-

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I dannati all’inferno, particolare dal ciclo di affreschi dipinti da Luca Signorelli nella cappella di S. Brizio, del Duomo di Orvieto. 1499-1504. denti, nei loro stringenti ragionamenti, sembrano diventare argomenti plausibili, verosimili o perlomeno accettabili. Quasi tutte le argomentazioni sembrano avere una matrice, o comunque un fine comune: chiunque dissenta dalle loro posizioni, è corrotto dal demonio, oppure ne è alleato, e quindi eretico perseguibile. L’altro motivo, legato al primo, è che l’opera è preceduta da un’introduzione prestigiosissima, che le conferisce una sorta di autorità «sacrale»: la bolla di papa Innocenzo VIII Summis desiderantes affectibus, del 5 dicembre 1484. Degna introduzione a tale libro, anche la bolla è ricca di deliranti riferimenti a presunte attività diaboliche: «In verità, è da poco pervenuto alle nostre orecchie – non senza nostra grande afflizione – che in alcune regioni della Germania Superiore come pure nelle province, città, terre, borgate e vescovadi di Magonza, Colonia, Treviri, Salisburgo e Brema, parecchie persone di ambo i sessi, immemori della propria salvezza e allontanandosi dalla fede cattolica, non temono di darsi carnalmente ai diavoli incubi e succubi; di far



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Il Malleus maleficarum Nella pagina accanto punizione dell’Inferno. Xilografia del 1511 da un’edizione del Malleus maleficarum. orecchie», pare ci debbano essere gli stessi due autori, quelli che Innocenzo VIII definisce «i nostri diletti figli», che chiesero espressamente al papa licenza di inquisire liberamente, senza alcuno scrupolo e senza alcun impedimento. Vane furono le proteste dello stesso vescovo di Bressanone, Georg Golser, il quale, in barba alla cosiddetta «infallibilità» del romano pontefice, due anni dopo la bolla, allontanò Institor dalla sua diocesi per l’arbitrarietà con la quale procedeva a processi e condanne.

La Chiesa ammette la pena capitale

deperire e morire la progenie delle donne e degli animali, le messi della terra, le uve delle vigne e i frutti degli alberi, inoltre uomini, donne, bestiame grande e piccolo e d’ogni sorta; e ancora vigneti, giardini, prati, pascoli, biade, cereali, legumi per mezzo d’incantesimi, fatture, scongiuri e altre esecrabili pratiche magiche». Dietro quel «è da poco pervenuto alle nostre 80

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Frontespizio di un’edizione del Malleus maleficarum, il trattato composto da Jakob Sprenger e Heinrich Institor Kramer. 1519. Barcellona, Biblioteca pública episcopal.

Ma a poco gli valse, perché, in proposito, la bolla papale era molto chiara: «Stabiliamo con la presente, in virtú dell’autorità apostolica, che sia consentito ai surriferiti inquisitori di esercitare il loro ufficio in quelle terre, che possano procedere alla correzione, incarcerazione e punizione di quelle persone per gli eccessi e crimini predetti, in tutto e per tutto (…) Coloro che si opponessero a tutto ciò, di qualsiasi rango e condizione, siano scomunicati e colpiti con le piú gravi pene ecclesiastiche, invocando, nei casi piú gravi, ove fosse necessario, l’aiuto del braccio secolare». Che significava, per i non addetti ai lavori, la pena di morte, visto che la Chiesa, ufficialmente, si era posta il divieto di spargere sangue, almeno in modo diretto. Il terzo motivo consisteva nel fatto che anche l’imperatore Massimiliano I, il 6 novembre 1486, prendeva sotto la propria protezione i due autori, chiedendo ufficialmente che venissero coadiuvati da tutte le autorità preposte. Non contenti di ciò, i «diabolici» inquisitori cercarono consenso anche presso i detentori, di fatto, del potere culturale dell’epoca: un collegio di teologi. Colonia all’epoca ospitava una facoltà di teologia a cui il papa aveva affidato l’incarico di censurare le opere a stampa. Quale luogo migliore per organizzare, dunque, una dotta riunione di teologi per chiedere l’Approbatio al volume? Peccato però che a questa riunione ci fosse solo Heinrich Institor, e nessun altro. Fu cosí che il 19 maggio 1487, come è scritto nell’Approbatio preposta al Malleus, la individualissima «unanimità» dei teologi non solo fu concorde, ma giudicò urgente perseguitare la stregoneria. Ma perché i due autori si preoccupavano cosí tanto? A che pro tanti sotterfugi, tante patenti ufficiali? La cosa non è semplice da spiegare. Occorre fare un passo indietro e tornare ancora


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Il Malleus maleficarum

EROS E STREGONERIA Con un’ossessività che salterebbe subito agli occhi di qualsiasi psicologo moderno, il Malleus si concentra o, meglio, si fissa in modo maniacale sulla copulazione con il diavolo, su fantasiosi congiungimenti carnali con demoni «succubi» e «incubi» (cioè in forma di donne e di uomini) e su varie altre forme di esperienze erotiche e attività (e passività) sessuale, che solo un’immaginazione malata potrebbe attribuire a forze demoniache. Un intero capitolo, il VII della Quaestio, che precede la seconda parte del trattato, è dedicato a un argomento fondamentale per tutta la teologia della Chiesa, dai tempi di Pietro in avanti: «Come le streghe tolgono agli uomini i membri virili». Qui, dopo varie, serissime citazioni ed esempi di uomini a cui le streghe avevano «portato via» il membro, i due inquisitori ci dicono finalmente dove questi oggetti finiscono: «Infine, che cosa pensare di quelle streghe che raccolgono membri virili, talora anche tanti, anche venti o trenta, e li mettono in nidi di uccelli o in cofanetti, dove questi si muovono come fossero vivi, mangiando avena o altre cose come è stato visto fare da molti». Esilarante, quando non si pensi alle conseguenze, il racconto di un testimone che, per recuperare il suo membro, si arrampicò su di un albero dove era uno di questi nidi. Di fronte all’abbondanza della scelta l’uomo si diresse, incantato, verso il piú grosso, ma la strega che lo aiutava, «Non prendere quello!» gli intimò, aggiungendo che apparteneva a un altro.

Greta (nella pagina accanto) e un nido di uccelli (in basso), due particolari da Greta la folle (Dulle Griet), olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1562. Anversa, Museo Mayer van der Bergh. Personificazione della follia o dell’avarizia, Greta è una strega armata di spada, corazza, ed elmo che corre in un’ambientazione infernale, stringendo un forziere di preziosi. una volta al Canon episcopi, formatosi tra il IX e l’XI secolo. Un testo che, a torto, il Medioevo ha creduto provenire dal concilio di Ancira, del 314. Questo scritto, in realtà, fu essenzialmente un’istruzione riservata ai vescovi sull’atteggiamento da tenere nei confronti della credenza nella «società di Diana» ovvero, come definisce il testo, in «alcune donne scellerate, convertite da Satana, sedotte dai demoni e da fantasmi, [che] credono, durante le ore notturne insieme alla dea dei pagani Diana, e con innumerevoli altre donne, di cavalcare bestie e percorrere immense distese nel profondo silenzio della notte, ubbidendo alla dea come loro padrona assoluta, che le chiama a servirla in determinate notti. Volesse il cielo che solo loro perissero nella loro perfidia, e non vi trascinassero molti altri. Infatti moltissimi, illusi da queste false opinioni, credendole vere, si allontanano dalla vera fede cadendo negli errori dei pagani, cioè che esistano altre divinità e numi oltre l’unico Dio». Non siamo ancora in presenza delle streghe adoratrici del diavolo di cui parla il Malleus, bensí di donne che volano, stornano latte e miele dai contadini o dai vicini a beneficio loro o di altri, che affatturano i pulcini delle oche, delle galline o i cuccioli dei maiali.

Spiragli di buon senso

Ad ogni modo il Canon è chiaro: «Se hai creduto a queste cose vane, farai due anni di penitenza nei giorni stabiliti». Ora, questo testo è fondamentale e detta legge, visto che si pensava, l’abbiamo detto, che provenisse da un concilio. A fronte di quella che fu la follia dei secoli «moderni», il mondo medievale mostra grande tolleranza e, in qualche modo, saggezza. Credere che le donne possano volare alle riunioni orgiastiche e cannibaliche delle streghe, o fare le cose appena descritte non è concepibile: è fantasia, è peccato. Tali convinzioni furono condivise e rispettate da piú parti fino al Quattrocento, allorquando qualcosa, lentamente, cominciò a cambiare. L’immagine dell’eretico cospiratore contro la cristianità e contro l’intera umanità venne lentamente costruita, e utilizzata, soprattutto nelle invettive retoriche che i monaci scagliavano 82

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Il Malleus maleficarum


Un diavolo a cavallo rapisce una strega, incisione realizzata per la Historia de Gentibus Septentrionalibus, opera di Olaus Magnus sulla vita e i costumi della Svezia cinquecentesca. 1555. contro gli eretici nel Due e Trecento. Il cambiamento fu determinato anche da fattori giuridici: dal Duecento, i tribunali non operavano piú con il sistema accusatorio, ma cominciavano a utilizzare quello inquisitorio. Non era piú il soggetto privato a intentare e proseguire l’azione penale, ma il giudice. Anche se, perlomeno all’inizio, sempre sulla scorta di una denuncia da parte di un privato. In seguito, l’azione penale venne avviata d’ufficio o addirittura basandosi sulla «pubblica infamia».

Verso una visione globale

Ovviamente parteciparono a definire (e condannare) la figura della strega anche intellettuali e inquisitori, come Nicolas Jacquier che nel 1458 scrisse il Flagellum haereticorum fascinariorum, nel quale, per la prima volta, si afferma l’assoluta differenza tra le donne di cui parlava il Canon e le streghe «modernis temporibus». Intellettuali come Jacquier avevano studiato in università prestigiose, avevano un sostrato e una cultura diversi da coloro che credevano nei rimedi naturali utilizzati dalle «donnette» o dai guaritori tradizionali, che furono definiti streghe e stregoni. Jacquier – e molti come lui – aveva la percezione di vivere in un mondo diverso, in modernis temporibus. Un mondo che cominciava a non comprendere piú quelle che oggi chiameremmo «tradizioni popolari» e allora, sbrigativamente, superstitiones. A partire dal Quattrocento, l’Europa sembra allontanarsi dalle sue radici che, piú che cristiane, sono composte da collaudati sincretismi magico-religiosi. Comincia ad abbracciare, e diffondere, una visione condivisa, oggi diremmo globale, che tenta di scalzare ogni differenza o devianza, bollandola come eresia. Meglio, quell’insieme di credenze che la Chiesa non era riuscita a incorporare o a trasformare, ora comincia a divenire eresia. Grazie al processo inquisitorio, alla tortura, ai roghi, alla capillare predicazione cristiana, il variegato mondo di conoscenze, valori, riti e miti non ancora assimilati nella dottrina e cultura cristiane, cominciano a passare al vaglio della demonologia del Malleus e delle sue derive inquisitorie. Una demonologia che ebbe l’effetto di schiacciare una cultura millenaria (anche nel senso di cultura popolare) sotto il «martello» del diabolismo e del diabolico. STREGHE

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LA CONFESSIONE A TUTTI I COSTI 86

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Finiti sul banco degli imputati, streghe e stregoni avevano ben poche speranze di salvarsi. Il modo piú indolore – almeno temporaneamente – era quello di ammettere spontaneamente le proprie «colpe»

Una strega, particolare dalle Tentazioni di Sant’Antonio, olio su tavola di Joachim Patinir. 1520-1524. Madrid, Museo del Prado.

di Claudio Corvino

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el Malleus Maleficarum, le domande di Institor e Sprenger (vedi capitolo Un crimine contro l’umanità, alle pp. 78-85) ruotavano soprattutto intorno ai maleficia e alle credenze da mulierculae. Perché le accuse diventassero di satanismo o adorazione del diavolo era necessario l’intervento del giudice, ma non solo: anche della tortura. Come ha scritto lo storico Brian P. Levac: «l’accusa di adorare il diavolo, nei processi di stregoneria, non viene mai formulata prima di giungere alla fase del procedimento in cui si applica la tortura». Ne deriva che la tortura ebbe una notevole importanza, sia per comprendere meglio cosa realmente confessavano gli imputati, sia per un problema di carattere strettamente giuridico che si presentava ai giudici, soprattutto agli inquisitori. È dunque lecito immaginare un quadro piuttosto cupo, ma non si deve credere che, alla fine del Quattrocento, cioè all’epoca in cui il Malleus fu pubblicato, iniziasse in Europa uno sterminio di streghe generalizzato. Piuttosto, con un andamento non sempre del tutto ben chiaro, la «caccia» procedeva con esplosioni improvvise, seguendo focolai diversi e legandosi a particolari situazioni locali o, talvolta, alla personalità di un singolo giudice. E, nei primi anni del Cinquecento, sembrerebbe verificarsi un rallentamento del fenomeno stregonico. Scrivendo nel 1516, Lutero poteva dire che, nonostante nella sua giovinezza avesse sentito parlare di molte streghe, ora «non se ne sentiva parlare» piú di tanto. Ma sappiamo come questo pur straordinario religioso non sia mai stato uno storico oggettivo. A contraddirlo, basterebbe il canonista spagnolo Francisco Peña: «Nulla è piú frequentemente disputato oggi, che di sortilegi e divinazioni». Ma Peña scriveva nel Cinquecento ormai inoltrato, e molti storici hanno effettivamente notato una diminuzione dei processi, accompagnata da una corrispondente interruzione della pubblicazione di trattati e manuali di stregoneria. Lo stesso Malleus, che pure fu vendutissimo tra il 1486 e il 1520, non fu piú ristampato da quest’ultima data e fino al 1576. Il 31 ottobre del 1517 Lutero affisse le sue Tesi alle porte della cattedrale di Wittenberg, in Sassonia: inaspettatamente, per lo meno al suo inizio, anche la Riforma contribuí alla diminuzione dei processi di stregoneria. Ma se la Riforma, in qualche modo e per qualche tempo, sembra avere interrotto la caccia alle streghe in alcuni Paesi, ciò non fu legato direttamente alla volontà dei suoi fondatori. È piú probabile trovarne le cause in altri fattori, come il rifiuto, per lo meno iniziale, di ogni coSTREGHE

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struzione teorica cattolica riguardo alle streghe e, parimenti, dei trattati demonologici a cui questa diede vita. Inoltre la Riforma allontanò dai suoi territori l’Inquisizione papale, e il riordino delle giurisdizioni ecclesiastiche, insieme con il trasferimento di gran parte delle loro competenze alle corti secolari, si risolse in una radicale trasformazione, e in un conseguente rallentamento, di tutto l’apparato giudiziario destinato a occuparsi di stregoneria.

La caccia ricomincia

Questa sorta di «distrazione» dal fenomeno, tuttavia, fu solo temporanea e già alla metà del Cinquecento la caccia riprendeva con maggior vigore di prima. La spiegazione di un tale atteggiamento può avere molte cause, una delle quali può essere ravvisata nel fatto che, dopo alcuni decenni di transizione, in realtà la Riforma non seppe e non volle elaborare una teoria autonoma e indipendente riguardo alle streghe, accettando e facendo proprie le vecchie concezioni demonologiche espresse dai teologi cattolici, arrivando a citare le stesse autorictates, come rimproverò aspramente, ma siamo già nella prima metà del XVII secolo, Christian Thomasius Benedict Carpzov, autore della Practica Rerum Criminalium (1635). La caccia alle streghe infuriò nei territori protestanti come in quelli cattolici, con modalità piú o meno simili: dalle crudeli persecuzioni scoz-

zesi e quella dei Paesi di Vaud, alle piú «tolleranti» dei Paesi Bassi. Come nel resto d’Europa, spesso le accuse provenivano «dal basso», senza necessariamente l’intervento di alcuna inquisitio d’ufficio, che tutt’al piú si limitava in questo caso ad assecondare le sollecitazioni della popolazione, propensa a ricorrere al linciaggio come strumento di giustizia sommaria. Questa era una prassi abbastanza normale, come già per il 1127 ci ricorda Galbert di Bruges, riportato da Jean-Claude Schmitt in Medioevo «superstizioso» (Editore Laterza, Roma-Bari 2010): «Quando il conte Thierry andò per la prima volta a Lilla, gli venne incontro una strega, scendendo nel fiume che il conte stava per attraversare passando per il ponte proprio accanto alla iettatrice che lo asperse d’acqua. Allora, si dice, il conte si ammalò di cuore e di stomaco fino al punto da essere nauseato da bevande e cibi. I cavalieri, preoccupati della sua sorte, s’impadronirono della strega e, legandole mani e piedi, la collocarono su un mucchio di paglia e di fieno accesi e la bruciarono». Anche nel Cinquecento e nel Seicento il meccanismo non cambia di molto: le esecuzioni sommarie vengono solitamente organizzate dai parenti delle vittime del presunto maleficio, talvolta da giovani riuniti in vere e proprie «compagnie di giustizia». La strega viene scovata, frustata e finita a colpi di pietre, o messa al rogo. L’assassino si nasconde per un po’ di

Una strega a cavallo di una scopa e altre due che preparano unguenti. Xilografia da un trattato sulla stregoneria pubblicato ad Amsterdam nel 1659.

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tempo, fino a che, aiutato dai notabili del luogo, riesce a ottenere una lettera di remissione. Tutto ciò accadeva anche nei Paesi protestanti, forse con qualche motivazione maggiore, o quantomeno diversa.

Guerra senza quartiere

Lutero, come anche Calvino o gli altri riformatori religiosi, non elaborarono alcunché di diverso riguardo alla presenza del diavolo nel mondo, anzi, quasi ingigantirono la sua figura, rendendola onnipresente e potentissima e trovandogli un fondamento biblico piú solido. Lo stesso Lutero ha piú volte sostenuto di avere ingaggiato veri combattimenti con questo rappresentante del Male in terra. Al tempo stesso, il protestantesimo iniziò una guerra senza quartiere alle superstizioni, di qualunque tipo fossero, da quelle non ecclesiastiche – come l’uso di incantesimi, di amuleti o di

ogni altra forma di magia, terapeutica e non –, a quelle ecclesiastiche, come venivano considerate le devozioni popolari, quali l’adorazione dei santi, l’utilizzo pseudomagico del rosario, delle immagini sante e delle reliquie. Persino il sacramento cattolico dell’Eucarestia e la Messa di cui era parte venivano bollati come superstiziosi e magici. Questa ricerca della purezza, però, ebbe come corollario l’impoverimento delle difese popolari contro la magia: la vittima di un presunto maleficio, o magari colui che voleva soltanto scongiurare possibili mali futuri, non poteva piú disporre di alcuni mezzi considerati efficacissimi contro il male: il segno della croce, l’aspergere la casa con acqua benedetta, appendervi immagini di santi, o tutti quei rituali protettivi che si utilizzavano in genere contro il potere del diavolo. Tutto ciò, in qualche modo, oltre a contribuire a un atteggiamento meno indulgente

Paesaggio invernale, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1565. Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts. L’artista dipinge un tipico villaggio del Nord Europa, avvolto dalla foschia invernale, con le poche case costruite intorno alla chiesa principale. In queste comunità ristrette le accuse di stregoneria erano rivolte soprattutto a donne anziane o vedove.

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verso alcune «stranezze» della devozione popolare, poté da un lato rafforzare la paura delle streghe e, dall’altro, fare sí che l’unico modo per contrastare i malefici e coloro che li perpetravano fosse la via giudiziaria, con un conseguente aumento dei processi.

Per vincere il «senso di colpa»

Nel contesto protestante, alcuni storici hanno voluto dare un ruolo rilevante alla vecchia teoria del «capro espiatorio» della comunità di villaggio. La convinzione nasce dal fatto che la ricerca sistematica del concetto di salvezza, soprattutto in ambiente calvinista, in qualche modo contribuí alla nascita di un tipo di personalità molto motivata, le cui energie, fisiche e morali, potevano essere incanalate verso attività genericamente sociali. Ancora Brian P. Levack sostiene che ogniqualvolta una persona coscienziosa cadeva nel peccato, si trovava di fronte a un senso di colpa e di indegnità morale che rasentava la spaventosa prospettiva di non essere tra gli «eletti». Di questo «senso di colpa», la vittima faceva di tutto per liberarsi: in genere trasferendolo su un’altra persona, meglio la strega, oggetto ideale in quanto incarnazione del Male. Le streghe, secondo questa visione psico-sociologica, diventavano i capri espiatori di una comunità che stava lottando per affermare un nuovo ordine morale. Il senso di colpa ritorna anche nelle analisi dello storico Alan Macfarlane per quanto riguarda la stregoneria in Inghilterra tra il Cinquecento e il Seicento. Analizzando le accuse di malefici e stregonerie nei villaggi, Macfarlane individua alcune costanti che inducono a vedere nella strega una donna, perlopiú anziana, o vedova, e in genere appartenente allo stesso villaggio, quando non alla stessa contrada, della vittima. Già Reginald Scot, d’altronde, alla fine del XVI secolo, aveva sostenuto che il potere delle streghe era confinato nell’ambito dei loro rapporti sociali (come scoprirà piú tardi l’antropologia), «perché la distanza massima che possono raggiungere è andare a prendere un secchio di latte ecc., a mezzo miglio circa dalle loro case». In una società basata su forme di solidarietà economiche che cominciavano a declinare, ecco allora che le accuse comparivano quando c’erano mancanze nei rispettivi, reciproci doveri di aiuto. Il saggio dello storico inglese abbonda di casi di donne stregate per essersi rifiutate di portare alla vicina pesci dal mercato di città, per avere scacciato in malo modo una vecchietta che si limitava a racco-

gliere legna nella proprietà della vittima, oppure cosí: «Tenendo un uomo, a quel tempo, una festa per la tosatura, e non avendola invitata [la strega], pur essendo lei sua vicina, ella gli stregò ben due pecore». Cosí l’oggetto del contendere (un prestito non concesso, un attrezzo non prestato), diventano lo stadio finale di un processo economico e sociale piú complesso, che nasconde un cambiamento fondamentale dell’intero complesso di rapporti tra vicini. La stregoneria – secondo Macfarlane – poteva diventare cosí la «causa» vera, nel senso che spiegava il fine, il motivo o la volontà celate dietro una disgrazia. In un senso piú strettamente psicologico, il senso di colpa diventava cosí la molla di tutta una serie di accuse ai danni delle vicine (perché in genere si trattava di donne), presunte streghe.

Nella pagina accanto esecuzione di streghe per impiccagione. Illustrazione da Englands Grievance Discovered, in Relation to the Coal Trade di Ralph Gardiner. 1655. In basso il demone Asmodio sul frontespizio della Pseudomonarchia Daemonum (Gerarchia dei Demoni), scritta in appendice al De Praestigiis Daemonum, da Johannes Wier (1515-1588). 1577.

BAËL E LE 66 LEGIONI Il medico protestante Johannes Wier, con l’intento di demolire la leggenda stregonica, scrisse la Pseudomonarchia Daemonum, nella quale, basandosi sullo schema dello Pseudo-Dionigi, divise i diavoli in gerarchie. Ognuno di essi ha al proprio servizio una o piú schiere di demoni inferiori, dette legioni. I principi demoniaci sono circa 68, il piú importante dei quali è Baël che comanda 66 legioni. Tra i tanti, ricordiamo Agares, con 31 legioni; Barbatos, con 30 legioni; Pursan, che ne ha 22; Eligor, comandante di 60 legioni, e Sydonay, che ne ha dieci in piú. Ognuna di queste gerarchie ha le proprie ore del giorno nelle quali essere invocata: i Re è meglio invocarli dalla terza ora fino a mezzogiorno e dalla nona al vespero; i Marchesi dall’ora prima e fino a mezzogiorno, come d’altronde i Duchi; i Prelati in qualsiasi ora del giorno; i Conti a ogni ora esatta.

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LA MORTE DELLA GIUSTIZIA

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utte le forme di tortura giudiziaria del Medioevo venivano inflitte solo a individui accusati di gravi crimini, quando su di loro pesavano sospetti precisi, al fine di ottenere una confessione che si erano rifiutati di fare durante l’interrogatorio ordinario. Il tormento della fune, o corda, o ancora della «colla», come questo supplizio veniva chiamato nel linguaggio piú corrente, era concepito per non far soffrire oltre un certo limite chi lo subiva. All’accusato

venivano legate le mani dietro le spalle, poi lo si attaccava a una fune che passava per una carrucola fissata al soffitto della stanza e lo si tirava su, lasciandolo penzolare per aria per una durata che andava da un minuto a un’ora. La discesa poteva essere piú o meno brutale, a seconda della paura che si voleva mettere al delinquente. Lo si poteva anche lasciar ricadere d’un colpo fino a terra, dove si schiantava. Se necessario, il «tratto» veniva ripetuto una, due

LA GRANDE RUOTA in un’incisione a colori del XVIII sec. La ruota fu uno degli strumenti di tortura maggiormente utilizzati dall’Inquisizione. L’accusato veniva steso di schiena su una ruota di carro e legato; in seguito, il boia gli spezzava le ossa. Una variante, qui illustrata, prevedeva l’utilizzo del fuoco, che, per il calore, spingeva l’imputato a dimenarsi.

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o tre volte, prima che la vittima fosse riportata davanti al giudice. Allora e solo allora, dopo avergli lasciato il tempo di meditare sui pericoli corsi, il giudice riprendeva l’interrogatorio dell’imputato. Dal giudice e dagli esecutori dipendeva, dunque, in gran parte il grado di crudeltà del tormento inflitto all’imputato. Nel Medioevo non esistevano trattati su come praticare la tortura, e i codici di leggi – come per esempio gli Statuti comunali –, quando ne parlano, lo fanno con estrema sobrietà: si raccomanda tutt’al piú di limitare l’uso dei tormenti ai crimini piú gravi e di adeguare comunque la loro crudeltà alla condizione sociale dell’imputato e al valore degli indizi raccolti. La «colla» presentava, appunto, il grosso vantaggio di consentire infinite gradazioni nelle sofferenze da infliggere al malcapitato e questa è senz’altro la ragione per la quale i giuristi del Medioevo la preferivano a ogni altro tipo di tortura.

Un contesto culturale ben definito Può anche darsi, del resto, che la colla, o fune, fosse stata, all’inizio, l’unica forma di tortura ammessa dai tribunali dell’Italia comunale. Il che vuol dire che la tortura ha una sua storia che possiede, come tutte le storie, un inizio e una fine. La fine la conosciamo tutti, perché coincide con le grandi vittorie della civiltà moderna sui modi e costumi degli antichi regimi. Mentre pochi sanno, all’infuori degli storici del diritto, che la tortura nasce, o piuttosto rinasce, all’inizio del XIII secolo, in un contesto culturale ben preciso, quello appunto della «rinascita» del diritto romano, e che la sua diffusione segna una tappa decisiva nello sviluppo della civiltà giuridica. Per comprenderlo, occorre accantonare per un momento il problema dei mezzi di tortura e focalizzare l’attenzione sulla funzione della tortura all’interno del sistema giudiziario. Fino al XII secolo, i tribunali seguivano solo una procedura accusatoria: chi aveva subito un danno chiedeva giustizia al giudice, accusando l’autore del danno; in caso di omicidio, toccava alla famiglia della vittima – e a nessun altro – chiedere riparazione del crimine. L’accusatore, naturalmente, doveva produrre prove, orali o scritte, e il giudice, pur non essendo un conoscitore del diritto ma un «potente», cioè un conte o

un signore, le esaminava con la dovuta attenzione. Ma al giudice non interessava la verità oggettiva dei fatti e nessuno gli chiedeva di indagare per sapere che cosa fosse realmente accaduto. Doveva solo ricercare o favorire la soluzione di un litigio che, se non fosse stato composto, avrebbe scatenato una guerra tra le parti e minacciato l’ordine pubblico. Nei casi piú delicati, si poteva anche ricorrere all’ordalia, per esempio alla prova del ferro rovente o a quella dell’acqua bollente, oppure al duello, lasciando

LA SEDIA in una sala della tortura della «casa delle streghe» costruita a Bamberga, incisione su rame di Christian Müller. 1600 circa. L’imputato veniva fatto sedere su una sedia di legno sulla quale erano inserite punte di ferro, e legato in modo da non potersi alzare.

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cosí alle forze sovrannaturali il compito di indicare l’esito del conflitto. Ma non alla tortura, che risponde, come vedremo fra un istante, a esigenze del tutto diverse. Il sistema giudiziario in vigore presso i popoli germanici non conosceva altri procedimenti e, quindi, negli Stati occidentali, la giustizia ha funzionato, salvo poche modifiche dovute a Carlo Magno, secondo le regole del processo accusatorio per tutto il periodo che va dall’arrivo dei barbari alla fine del XII secolo. Poi, nel giro di pochi decenni, le cose sono molto cambiate e si è assistito all’apparizione, accanto al procedimento accusatorio, di un nuovo tipo di processo: quello inquisitorio. Cos’era successo? Poco prima i giuristi italiani avevano scoperto le mille risorse del diritto romano, studiandolo direttamente sulle fonti originali, e non piú attraverso compilazioni

tardive e corrotte. Ed è nei codici di Giustiniano, appunto, che i dottori di Bologna hanno scoperto l’esistenza di una procedura che consente allo Stato di perseguire gli autori di delitti pur in assenza di una parte querelante e che obbliga il giudice ad accertare la verità, se necessario anche con l’ausilio di mezzi coercitivi come il carcere e la tortura.

La nascita dell’Inquisizione Il successo della nuova procedura fu immediato. Alla metà del XIII secolo era già di uso corrente presso i tribunali laici dell’Italia comunale. Ma la Chiesa, da parte sua, non fu meno solerte nell’intuire i vantaggi della procedura inquisitoria, che fu subito adottata dai tribunali creati alla stessa epoca – siamo nella prima metà del XIII secolo – dalla Santa Sede per reprimere l’eresia. Nascevano in tal modo i tribunali dell’Inquisizione, cosí chiamati proprio perché giudicavano secondo le regole del processo inquisitorio e agli inquisitori la Chiesa riconosceva, non meno che ai giudici laici, la facoltà di utilizzare la tortura. Inutile dire che il giudice, nell’impiegare questi metodi, deve agire con grande discernimento: la tortura serve ad accertare la verità, deve fornirgli la prova che manca, vale a dire la confessione di colui che tutti gli indizi indicano come il principale sospetto. Va quindi applicata in circostanze ben precise, che la legge, per esempio nei Comuni italiani, dove il suo uso si diffonde abbastanza presto, delimita con estrema severità: ci vogliono un presunto colpevole di cattiva fama, un crimine particolarmente grave, indizi seri e numerosi. D’altra parte la tortura non deve far soffrire oltre il necessario, né mettere in pericolo la vita dell’imputato, o anche solo minacciarne l’integrità fisica. Tutte queste cautele per limitare l’uso e la crudeltà della tortura impediscono allo storico di oggi di formulare su di essa giudizi cosí severi come quelli emessi, in tempi ben diversi dai nostri, da personaggi come Voltaire e Cesare Beccaria. Ma c’è di piú: gli storici del diritto non dubitano un istante che la tortura, utilizzata e disciplinata come lo era nel quadro del processo inquisitorio, abbia segnato un grande progresso nel funzionamento della giustizia, perché fondava la sentenza sulla verità dei fatti, e non piú sulla capacità delle parti di far prevalere i propri diritti. E dal loro punto di vista, che è quello della dottrina giuridica, non hanno torto. Solo che, nella

PINZE E TENAGLIE, usate a freddo o arroventate sul fuoco, servivano a martoriare o mutilare il corpo, asportando brandelli di carne o interi arti. Particolare di una xilografia tedesca del 1509.

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IL SUPPLIZIO DELL’IMMERSIONE

in una xilografia del 1600 circa. La presunta strega veniva legata a una sedia e immersa in uno stagno o in un luogo paludoso. Spesso le donne, soprattutto anziane, morivano per il contatto con l’acqua gelida.

realtà di ogni giorno, molti giudici non esitavano a fare della tortura un uso distorto, applicandola fuori misura, con strumenti molto piú crudeli della semplice fune e al servizio di interessi che avevano ben poco da spartire con la manifestazione della verità. Abbiamo per esempio la cronaca di Dino Compagni, un fiorentino dell’inizio del Trecento molto critico nei confronti dei giudici, ai quali rimprovera di essere corrotti e servi della nobiltà.

Esposto al ludibrio della folla Vi leggiamo che nella sua città, dove infuriava la lotta tra le due fazioni dei Neri e dei Bianchi, la colla veniva sistematicamente utilizzata per terrorizzare i prigionieri politici, anche quando non avevano piú niente da confessare. Uno di loro non sopravvisse al tormento. Per un altro, il giudice volle aggiungere i tormenti psicologici oltre a quelli fisici: ordinò di «mettere alla colla» l’imputato, che era un famoso uomo di legge di Firenze e poi, mentre lo si teneva sollevato, fece aprire finestre e porte del palazzo e invitò la folla ad assistere allo spettacolo e a deridere il suppliziato. Ma, perlomeno, ci pare di capire che la Firenze dell’epoca di Dante non aveva ancora sostituito la colla con altri e piú terribili strumenti di tortura. Non fu dappertutto cosí e, senza parlare dei tormenti piú raccapriccianti che la barbarie umana non ha cessato mai di inventare, nel Medioevo come oggi, la giustizia medievale utilizzò, con la benedizione dei giuristi, forme di tortura che non ebbero

tutte la relativa innocuità della colla. Una delle piú diffuse consisteva nello stringere al di là del sopportabile le membra del soggetto; i carnefici disponevano per questo di una gamma infinita di strumenti, dai piú semplici ai piú sofisticati. Usavano per esempio lo stivaletto, o «stivale spagnolo», una specie di gambale di ferro dentro il quale, con un meccanismo a vite, si stringeva la gamba del malcapitato fino a spezzargli le ossa. Non serviva tanta crudeltà con donne e ragazzi: bastava mettere loro tra le dita delle mani congiunte zufoli o cannette e stringere con una cordicella. Il fuoco offriva naturalmente mille possibilità di tormento: una della piú semplici consisteva nell’ungere i piedi del malcapitato di turno con olio o lardo, accendendovi sotto un buon fuoco; il supplizio poteva durare «il tempo di un credo e di due miserere», ci dicono le fonti, e ripetersi a discrezione del giudice. E come non citare, per finire, il tormento della «lingua caprina», noto sia in Occidente che in Oriente? La tecnica non cambiava da una civiltà – si fa per dire – all’altra: si cospargevano di sale o di acqua salata i piedi del reo, assicurato a una seggiola, e si invitava una capra, possibilmente affamata, a leccarglieli; in teoria, la capra con la sua lingua ruvida poteva consumare pelle e muscoli del suppliziato e arrivare fino all’osso. In teoria: perché nella realtà sembra che questo tormento sia esistito solo nell’immaginazione fertile e perversa di certi giuristi. Che sollievo! Jean-Claude Maire Vigueur

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INQUISIZIONE

Torture in nome di Dio

L’INGEGNO AL SERVIZIO DEL MALE

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1. LO STIVALE SPAGNOLO era un

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contenitore di ferro a forma di stivale con punte acuminate all’interno, in cui si infilavano le gambe legate dell’imputato, che il boia stringeva fino a spaccare le ossa.

2. LA TORTURA DELL’ACQUA

consisteva nel far distendere l’imputato supino su un asse orizzontale e versargli nello stomaco, con un imbuto, fino a 15 litri d’acqua. Il supplizio, per la pressione dell’acqua sul diaframma e sul cuore, provocava dolori molto intensi che, se non bastavano a far confessare il malcapitato, venivano aggravati dalle percosse del boia sul ventre ormai pieno.

3. LA TORTURA DEL PENDOLO

consisteva nel legare l’imputato con le mani dietro la schiena e sollevarlo da terra. Improvvisamente il boia allentava la corda in modo da lasciarla cadere con uno strappo, senza farle toccare terra: tale tecnica provocava il disarticolamento delle membra. In qualche caso, per rendere piú dolorosi gli strappi, si provvedeva ad appendere pesi ai piedi dell’accusato.

In una camera di tortura, inquisitori spagnoli infliggono supplizi di ogni genere a uomini accusati di essere protestanti o falsi «cristiani». Illustrazione del 1520 circa.

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AL DI LÀ DEL DIRITTO

Alle soglie della modernità, in un’Europa colpita da crisi economica, personaggi inquietanti elevano l’arbitrio a regola di vita: sono loro, questi sedicenti «tutori della legge», i fautori di una ripresa delle persecuzioni nei confronti di donne accusate di stregoneria di Claudio Corvino

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a relativa sospensione della caccia alle streghe di cui abbiamo parlato (vedi capitolo La confessione giustifica i mezzi, alle pp. 104-111), sembra interrompersi verso la fine del Cinquecento. Potrebbero essere visti come indici di questo cambiamento sia la ristampa del Malleus del 1576 (non accadeva dal 1520) sia la pubblicazione del Flagellum di Nicola Jacquier, che fino ad allora aveva circolato solo manoscritto. Quel parziale scetticismo sembra nuovamente scomparire, affossato da personaggi e opere che riportano la realtà delle streghe in primo piano. Inoltre, questo fu un periodo di grande instabilità in molte zone dell’Europa, sia da un punto di vista politico, sia economico. Alle continue inflazioni e crisi commerciali – la cosiddetta crisi della produzione – si aggiunse una serie di carestie, la piú dannosa delle quali si ebbe proprio nell’ultimo decennio del Cinquecento. È probabile che tutto ciò favorisse uno stato di ansia generale e aggravasse in qualche modo i conflitti personali che, come abbiamo già visto, sfociavano facilmente in accuse di stregoneria. La recrudescenza delle accuse e dei processi non fu solo un fenomeno popolare: anche i dotti parteciparono con le loro piú o meno sottili disquisizioni, primo fra tutti Jean Bodin (1530 circa-1596), professore di diritto romano e procuratore generale del re di Francia. Questi piú volte dimostrò di essere una delle menti piú aperte alla tolleranza religiosa: la sua opera Heptaplomeres è forse una delle piú moderne per arditezza di pensiero e annunciatrice di 98

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un’ideologia preilluministica della tolleranza. Eppure lo stesso uomo pubblica, nel 1580, quello scandalo della fede e della giurisprudenza che è il De la démonomanie des sorciers. Se è possibile, Bodin va oltre il Malleus, non solo perché esorta i giudici ad accettare la delazione occulta o giunta per lettera anonima, ma perché ammette le dichiarazioni accusatorie anche dei complici del medesimo crimine, invitando il giudice a promettere (e a concedere) loro l’impunità. Se i denunzianti temono di dire la verità in presenza di altre persone, «il giudice faccia nascondere due o tre persone dietro una tenda, affinché odano le deposizioni, senza scriverle, quindi faccia ritirare le deposizioni e scriverle». Se invece dovessero apparire recalcitranti, si ricorra senza indugio alla tortura, aggiungendo qualche suggerimento, che suona addirittura come compassionevole di fronte a tanta barbarie: si lascino stare a lungo le sventurate davanti agli strumenti di tortura, perché il terrore si impadronisca di loro e, prima di farle entrare nella camera di tortura, si faccia gridare qualcuno in modo disumano, per spaventarle…

Quel medico olandese...

Bodin aveva da poco terminato di ammassare sconcezze di tal genere in forma di trattato, quando ebbe tra le mani il De praestigiis daemonum et incantetionibus ac veneficiis di Johannes Wier, che gli offrí l’occasione di tentare di stroncare per sempre quel medico olandese «ignorante e pessimo letterato», il quale «si è armato contro l’honore di Dio stesso». E non finisce

Nella pagina accanto xilografia della fine dell’Ottocento raffigurante un uomo che, legato a un palo, viene fatto oscillare sopra un fuoco ardente nel corso di un rogo di streghe ed eretici a Parigi.



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qui, rincarando la dose con insulti di ogni tipo, additandolo all’universale esecrazione e non concedendogli altro che «giudicare del colore delle orine et altre cose simili», ingiungendogli «di non toccare le cose sacre, né dir contra alle leggi divine et humane». Ricordiamo che Wier, nel De praestigiis (pubblicato nel 1563) era stato il primo a sostenere che le cosiddette «streghe» non erano altro che persone malate.

Bambini fustigati sulle spalle

Ormai questi nuovi giudici non ricercano qualcosa, sono certi di tutto ciò che affermano: che il diavolo è dappertutto, che le streghe circondano gli uomini come visibilissimi microbi, pronte a nuocere. Tali furono le convinzioni di Nicolas Remy, giudice che recava danno al tribunale di Nancy dal 1576 al 1590, per poi diventare procuratore generale della Lorena. È rimasto famoso, oltre che per aver scritto nel titolo della sua opera Démonolâtrie, con orgoglio, di avere mandato al rogo circa 900 streghe e stregoni, solo tra il 1576 e il 1591, anche per un’abitudine che denota la sua ferocia: i bambini che, secondo le confessioni dei genitori, erano stati condotti al sabba, usava fustigarli sulle spalle nude di fronte a quelli che bruciavano. Rispetto a lui, il suo collega Henri Boguet, morto nel 1619, fu piú clemente: di streghe ne fece bruciare solo 600, quante bastavano per accreditargli l’esperienza che infuse nella sua opera Discours exécrable des sorciers (1602). Di Boguet diremo solamente che la sua famiglia pare abbia fatto distruggere, con disgusto e vergogna, quante piú copie poté del Discours. Anche per tentare di arginare il dilagare della Riforma, Paolo III con la bolla Licet ab initio centralizza l’Inquisizione e crea il famoso tribunale romano del Santo Uffizio, nel 1542. Di lí a poco, sotto la guida dell’inquisitore Gian Pietro Carafa, poi papa Paolo IV, questa istituzione papale cominciò ad applicare una politica repressiva verso gli oppositori e i dissidenti religiosi in Italia; alla sua morte, il popolo inferocito distrusse il palazzo dell’Inquisizione di Roma e liberò i prigionieri che affollavano

Nella pagina accanto il «cacciatore di streghe» Matthew Hopkins (1620-1647), al quale si addebita la morte di circa 300 persone tra il 1644 e il 1646, interroga due donne accusate di stregoneria facendo loro confessare incarnazioni diaboliche in animali. Frontespizio da The Discovery of Witches di Matthew Hopkins. 1647. Londra, British Library.

Castel Sant’Angelo, bruciando parte dell’archivio del Santo Uffizio. Pio V (1565-1572) e Sisto V (1585-1590) ampliarono i poteri dell’Inquisizione e in particolare le affiancarono la Congregazione dell’Indice dei Libri Proibiti, istituita nel 1571 con il compito di censurare la stampa. L’Inquisizione italiana, come quella spagnola, si occupò soprattutto di manifestazioni ereticali, in particolar modo di quelle intellettuali, come dimostrarono i processi a Tommaso Campanella, a Giordano Bruno e a Galileo, solo per citare i piú noti. Nonostante tutto nella seconda metà del Cinquecento, l’Inquisizione sembra essere piú comprensiva e capace di buon senso, dando spesso prova di una relativa indulgenza, soprattutto per quei reati religiosi non connessi all’eresia protestante. Lo conferma il rimprovero, scritto il 21 dicembre 1602, del cardinale Camillo Borghese (futuro papa Paolo V) al vicario dell’inquisitore bolognese, il quale sosteneva «che le cause delle superstitioni, incantesimi et fattucchiarie non si possano conoscere nel Tribunale di Sua Signoria ma debbiano rimettersi al Santo Officio». Il cardinale lo invitò seccamente a recedere da «queste novità, dovendo sapere molto bene che gli Ordinarii non sono obbligati a communicare li processi a gl’Inquisitori in simili cause se non quando sapiunt heresim manifeste». Queste ultime tre parole vogliono certamente alludere alla vecchia bolla di Alessandro IV, che il vicario probabilmente aveva dimenticato.

Il caso Friuli

Ritratto ottocentesco di papa Paolo IV (1476-1559), al secolo Gian Pietro Carafa, commissario generale del Sant’Uffizio, la congregazione istituita da Paolo III, nel 1542, con il compito di coordinare l’attività degli inquisitori di nomina pontificia.

La Chiesa, confortata dal concilio di Trento, vuole mettere ordine nelle credenze dei fedeli, soprattutto in Italia, la «patria» del cattolicesimo, dove però erano ancora presenti strane credenze popolari o anche casi di superficiale cristianizzazione, come ebbero a constatare i Gesuiti secenteschi al Sud, dove scrissero di aver incontrato i veri «Indios de acqí». Al Nord, precisamente in Friuli, alcuni inquisitori registrarono pure la sopravvivenza di credenze, molto antiche, fino ad allora (e poi fino a quando Carlo Ginzburg non ne rinvenne gli (segue a p. 106) STREGHE

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DISPERSIONE E RECUPERO DEGLI ARCHIVI Gli archivi sono fondamentali per l’inquisitore che, grazie a questi, può reperire prove di colpevolezza o complicità in registri precedentemente compilati, colpendo i presunti sospetti o i suoi familiari. Spesso, però, queste fonti inesauribili di dati sono andate perdute. Già nel 1235, per esempio, fu distrutto l’archivio di Tolosa, dopo che vennero espulsi gli inquisitori e i Domenicani. Quelli di Caunes, invece, vengono rubati e dispersi l’anno successivo, mentre nel 1242, ad Avignonnet, tutti i registri presi ai giudici vengono venduti ai catari. Ma la Chiesa non si scoraggia. Nel 1248, in relazione all’episodio di Caunes, papa Innocenzo IV ordina che si continui a lavorare e che si ricostruiscano i documenti in base a nuovi interrogatori. Gran parte degli archivi furono distrutti con il tempo, ma, perlomeno in Francia, il ministro di Luigi XIV Jean-Baptiste Colbert ordinò la copiatura di gran parte dei testi originali conservati ancora nei depositi dell’Inquisizione di Tolosa e di Carcassonne. Quelle copie sono oggi custodite presso la Biblioteca Nazionale di Francia.

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Nella pagina accanto incisione settecentesca raffigurante Jean Bodin (1529-1596), professore di diritto romano e procuratore generale del re di Francia, e autore del De la démonomanie des sorciers, trattato sulla stregoneria in quattro libri pubblicato nel 1580. Dopo averne elencato i poteri, i metodi per proteggersi dai loro malefici e smascherarle, l’autore descrive le diverse tipologie di tortura per costringere le streghe a confessare, consigliandone la morte crudele.

Roma. Una veduta di Castel Sant’Angelo, carcere pontificio nelle cui prigioni erano detenuti anche gli uomini accusati di stregoneria. STREGHE

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L’«INQUISIZIONE» CINESE Dopo tanti secoli, finalmente anche la Chiesa ha compiuto il suo autodafé. Con un gesto che ricorda quei tempi lontani, lo ha fatto pubblicamente, attraverso le parole di un papa, Giovanni Paolo II: «Come tacere delle tante forme di violenza perpetrate nel nome della fede: guerre di religione, Tribunali dell’Inquisizione e altre forme di violenza ai diritti della persona?». Ancora il papa ravvisava strette analogie tra i metodi dell’Inquisizione e le modalità procedurali di altri regimi: «È significativo che tali metodi coercitivi siano stati applicati dalle ideologie totalitarie del XX secolo». Tale identità non risulta peregrina, bastando a dimostrarlo la comparazione tra i formulari dell’Inquisizione spagnola del 1598 e gli interrogatori condotti nella Cina comunista degli anni Sessanta del Novecento. Nel primo caso, dopo l’avvertimento che «in questo Santo Uffizio non si usa imprigionare persona alcuna senza sufficienti indizi che essa abbia detto, fatto e commesso – o visto fare, dire e commettere da altre persone – cosa che sia o che appaia contro la Nostra Santa Fede», l’inquisitore ammoniva l’imputato a svelare tutto ciò che sapeva in breve tempo, cosí che la causa si potesse concludere velocemente e gli venisse concessa la grazia, accordata ordinariamente a coloro che facevano una confessione completa prima che fossero rivelate le accuse. Nel secondo caso, quello dei tribunali cinesi, l’esaminatore inizia il processo con le seguenti parole: «Il Governo non arresta mai un innocente (…) Il Governo conosce tutti i tuoi crimini (…) Fai quello che vuoi, ma se confessi tutto la tua causa si concluderà rapidamente e presto sarai rimesso in libertà».

Il processo a Galileo Galilei, in un dipinto del 1633. Collezione privata.

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UNA VOCE FUORI DAL CORO Il padre gesuita Frederich von Spee è tra i piú coraggiosi e lucidi oppositori delle tesi di Sprenger, Institor, Bodin, Remy e Del Rio, tutti fermi credenti nella realtà della stregoneria. Nella sua opera, Cautio criminalis seu de processibus contra sagas, pubblicata anonima nel 1631, invoca una maggiore comprensione per quelle povere donne che, in realtà, avrebbero piú bisogno di cure mediche che di carnefici. Lo Spee era stato confessore delle streghe e da questo aveva ricavato la consapevolezza della loro costante innocenza. Stupiscono la lucidità e modernità delle sue osservazioni ma, soprattutto, quel senso di umanità e di compassione che pervade l’opera di questo onesto ministro di Dio e della giustizia. «Intendiamo, ora, esaminare un caso: la procedura a carico di una povera donna, Gaia, sulla quale gravavano solamente sospetti e niente di sicuro. I giudici, per fare in modo che il processo non sembri basato su indizi insussistenti, si pongono una questione. La vita di Gaia, si domandano, è quella di una persona cattiva o, al contrario, è una vita condotta rettamente? Se cattiva, essi affermavano, ciò è già un indizio sufficiente per la condanna (…) Se la vita di Gaia è retta, questo fatto non significa niente. Si sa, sostengono, che le streghe sono solite dissimulare la loro malvagità e fingersi buone. Gaia è condotta in carcere. A questo punto, si pone un altro dilemma: la donna mostrerà timore o rimarrà tranquilla? Se avrà paura, ciò è già stimato un forte indizio di realtà. È la sua stessa coscienza a incolparla, dicono. Se, al contrario, resterà tranquilla, ciò è una prova di colpevolezza. È abitudine della strega proclamarsi innocente e andare a testa alta, dicono. [Gli accusatori] minacciano coloro che vogliono prendere la parola a favore dell’imputata di coinvolgerli nell’imputazione. I giudici li ammoniscono a essere cauti, per evitare il rischio di essere chiamati protettori delle streghe. (…) I suoi argomenti [di Gaia] non sono esaminati. La strega è ricondotta in carcere. Se continua a difendersi, un nuovo indizio di colpevolezza si affianca agli altri, raccolti precedentemente. I giudici affermano che, se non fosse strega, non sarebbe tanto ciarliera…».

Particolare de L’esecuzione di una strega, olio su tela di Francisco Goya. 1820-24. Monaco, Alte Pinakothek.

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atti dei processi) sfuggite alla loro pur vigile presenza. Il 21 marzo 1575, nel convento di S. Francesco di Cividale del Friuli, don Bartolomeo Sgabarizza, parroco di un paese vicino, Brazzano, riferisce al vicario generale, monsignor Jacopo Maracco, e a fra’ Giulio d’Assisi, inquisitore nelle diocesi di Aquileia e Concordia, che un tale Paolo Gasparutto dice di essere un «beneandante». Costoro, i beneandanti, spiegherà il Gasparutto senza alcuna esitazione, sono uomini e donne che, essendo nati «con la camicia» (cioè avvolti nell’amnio), sono costretti ad andare quattro volte l’anno di notte, durante le Quattro Tempora, a combattere «in spirito», armati di mazze di finocchio contro streghe e stregoni armati di canne di sorgo: la posta in gioco è la fertilità dei campi. «Et se noi restiamo vincitori – specifica meglio un altro benandante, il Moduco, detto “Gamba Secura” – quello anno è abondanza, et perdendo è carestia in quel


anno». Il vicario e l’inquisitore, attoniti, si trovano improvvisamente di fronte a un antichissimo rito di fertilità, modellato sulle principali vicende dell’anno agricolo. Gasparutto e «Gamba Secura» probabilmente non si conoscevano ma confessarono che «quando le streghe, strigoni et vagabondi tornano da questi giochi pieni di caldo e stanchi, nel passar dalle case se trovano acqua chiara e netta nelli sechi la beveno, s’anco non vano alla cantina et meteno sotto sopra tutto il vino». Per questo è bene, spiega Gasparutto, tenere in casa dell’acqua pulita. I due uomini di Chiesa non capiscono, sono interdetti: la letteratura demonologica, gli archivi, i loro colleghi non dicono nulla a riguardo di questi strani benandanti e delle loro riunioni notturne. La voce piú simile che conoscono, a cui arriva la loro memoria, è il sabba, le riunioni notturne a base di orge e banchetti cannibalici che le streghe raggiungono sul groppone di animali fantastici o di misteriosi e scivolosi baculi, non altro.

Una variante curiosa

Impiegarono quasi un secolo, gli inquisitori, ma alla fine fecero confessare ai contadini friulani ciò che volevano fin dall’inizio: le Tempora, le battaglie, la fantasiosa ricchezza dei racconti, dei culti di fertilità, tutto scompare dietro al loro modello demonologico, dentro a quel carosello fosco e nauseabondo che chiamano sabba. I benandanti diventano una curiosa variante della setta stregonesca. Non senza qualche dubbio da parte degli inquisitori che, il 12 febbraio del 1645, scrivendo di un altro imputato, Olivo Caldo, notavano che «tutto quello che li veniva suggerito, tutto confessava; dal che fu stimato che esso reo, conforme si vede dalla serie del processo, in tutti li sui consituti esser stato vario et vacilante, et essersi sempre rimesso a quanto le veniva sugerito». Sono piú o meno le stesse conclusioni a cui era giunto un altro inquisitore, un uomo cristiano che, riferendosi alle «sue» streghe, scrisse all’Inquisitore Generale della «Suprema» spagnola: «Non ci furono né stregoni né stregati nel Paese fino a che non si cominciò a parlare e scrivere di loro». Quest’uomo saggio, che scriveva dai Paesi Baschi nel 1612, era l’inquisitore Alonso de Salazar Fri´as. Ma i dubbi non bastano a far cessare le persecuzioni, che incrudeliscono proprio nel terzo decennio del Seicento. Negli ultimi due anni di questo periodo, in Alsazia, Lorena e in Franca Contea si svolsero vere e proprie «epidemie

demoniache», come sono state definite. In quest’ultima regione, inoltre, ne iniziò un’altra nel 1657 dopo che gli inquisitori ebbero affisso una lettera in ciascuna parrocchia che sollecitava i fedeli a fornire informazioni su ogni attività stregonica di cui fossero a conoscenza. Bamberga fu teatro di una delle piú spietate persecuzioni del secolo. Il merito va in buona parte al principe-vescovo Johann Georg von Dornheim, detto anche «vescovo delle streghe», per le sue 600 esecuzioni, avvenute tra il 1623 e il 1633. Tra le sue vittime piú illustri vi fu anche il borgomastro della città, Johannes Julius, reo confesso di aver stretto un patto con Satana in persona. Prima di andare incontro alla sua mortale condanna riuscí a far pervenire una lettera alla figlia in cui si giustificava per quella confessione, data sotto una tortura «che mi è stata inflitta piú di quanto io possa sopportare», scrisse. Contro la tortura, il suo uso smodato e i suoi risultati falsificanti, venne pubblicato il volume, dapprima anonimo, poi firmato dal gesuita Friederich von Spee da Kaiserwerth, Cautio criminalis seu de processibus contra sagas, del 1631 (vedi box in queste pagine). Spee era stato confessore delle streghe nei vescovati di Bamberga e di Erbipoli e da questo doloroso incarico gli vennero la convinzione della loro costante innocenza e, racconta egli stesso, anche i capelli bianchi. Nel suo libretto, destinato agli inquisitori, ai giudici e ai predicatori, il gesuita, con metodo scolastico e con un’incalzante successione di argomenti, demolisce una a una le tecniche procedurali correnti, dimostrandone gli errori e la loro fallace e negativa azione sulla libera volontà degli imputati. In particolar modo la tortura, applicata massicciamente, causa dolori talmente forti che gli imputati, pur di sottrarvisi, confessano crimini che non hanno commesso ma che vengono insinuati nelle loro menti dagli stessi inquisitori. Non che Spee neghi la realtà dei delitti imputati alle streghe, e neanche la loro esistenza. Raccomanda, però, di condurre i processi secondo il diritto, la ragione e la carità. Già in fase di interrogatorio, infatti, i giudici, grazie anche al potere dei tormenti della tortura, suggeriscono costantemente le risposte dei torturati: nomi di persone, luoghi, avvenimenti, circostanze. Arrivano anche a promettere che, confessando ciò che il giudice vuole, essi trarranno l’impunità. Spee arrivava a giurare sulla sua fede che nessuna delle donne da lui assistite prima del supplizio si poteva dire, tutto sommato, colpevole. STREGHE

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LUOGHI COMUNI VECCHI E NUOVI

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a locuzione «caccia alle streghe», almeno nella nostra lingua, è nel repertorio dei modi di dire buoni per molti usi, e a quello specifico di denunciare persecuzioni di massa nate da imputazioni generiche, spesso prive di un supporto inquisitorio. La genericità semantica lascia in ombra il fenomeno storico della vera caccia alle streghe o presunte tali, terreno fertile di una storiografia imponente concentratasi in buona parte sull’epoca fra Basso Medioevo e Rinascimento, quando la stregoneria era stata inquadrata come categoria «scientifica». Una massa di studi si sono accumulati nel Novecento e fluiscono tuttora copiosissimi con una lunga scia di revisionismi. La stessa immagine della strega ha assunto nel tempo contorni tutt’altro che «mostruosi»: la critica letteraria messicana Esther Cohen, per esempio, ne fa la depositaria di un sapere popolare innocente, improntato a una visione magica del mondo. Una conoscenza di cui la strega è garante a livello delle classi basse, legata ai cicli della natura e alle sue trasformazioni. L’autorevole Encyclopedia of Witchcraft, curata nel 2007 da Richard M. Golden, afferma che non ci fu una grande repressione delle streghe a opera dell’Inquisizione portoghese, spagnola e romana, anzi essa evitò «lo scatenarsi delle cacce alle streghe durante il XVI e il XVII secolo nel sud Europa». Ma quante furono, alla fine, le vittime? Superata ormai del tutto, per eccesso di approssimazione, la cifra compresa fra 6 e 9 milioni, si calcola che siano state 30-50 000 in un arco di circa 350 anni. Lo studioso Paolo Lombardi, nel saggio Streghe, spettri e lupi mannari (UTET, Torino 2008), ci porta cronologicamente piú vicino al nostro tempo nella persistenza della stregoneria. Oggi credere a persone dotate di poteri magici è un problema di «dimensione antropologica». In Camerun, negli anni Ottanta del secolo scorso, si processavano coloro che praticavano la «sorcellerie de la nuit» (la stregoneria della notte). Prima ancora, nel 1977, in Francia un uomo fu assassinato da due fratelli che lo sospettavano di preparare pozioni malefiche contro di loro. F. C.

Incisione acquarellata di una grande processione per un autodafé svoltosi a Lisbona. XVII-XVIII sec.

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UN MEDICO CONTRO «L’IMPERO DEL DIAVOLO» Durante il Settecento, il dibattito sulla stregoneria diviene appannaggio della medicina. E, successivamente, sia le streghe sia i loro persecutori cominciano a essere analizzati alla luce della psicologia del profondo

di Claudio Corvino

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ungo il corso del Seicento, prima del tramonto definitivo dell’accusa di stregoneria, che avvenne un po’ in tutta Europa nel secolo seguente, assistiamo a vari fenomeni che restano in qualche modo collegati ai procedimenti giuridici di cui abbiamo fin qui parlato: casi di possessioni diaboliche collettive. Fra quelli accaduti in Francia, il primo, del 1609, si svolge a Aix-en-Provence, dove la monaca Madeleine Demandois de La Palude, sottoposta a esorcismi pubblici, accusa il curato di Marsiglia, padre Louis Gaufridy, di averla stregata. Il clamore che ne segue costringe la Corte sovrana ad arrestare questo pur prestigioso sacerdote. Sottoposto a tortura, ovviamente confessò di aver fatto un patto con il demonio, di aver partecipato al sabba e tutte le altre cose che si volevano da lui. Piú noti furono i casi delle monache di Loudun, un intrigo politico-psicologico che portò al rogo il discusso Urbain Grandier, l’8 agosto del 1634, e quello di Louviers, con il medesimo epilogo. Qui, nel 1647, vengono messi al rogo Thomas Boullé e il cadavere del curato Mathurin Picard. Ma non è da trascurare il fatto che

L’estrazione della pietra della follia, olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1501-1505. Madrid, Museo del Prado.

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Il tempo dei medici Particolare del ciclo di statue del duomo di Erfurt, in Germania, che rappresentano la parabola delle dieci vergini. XIV sec. Nella pagina accanto un demone cerca di sedurre una donna, particolare della decorazione del portale sud della cattedrale di Notre-Dame a Chartres, in Francia. XIII sec.

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ci fu anche un’inchiesta da parte di un medico, protetto dalla reggente Anna d’Austria, il quale si oppose alla tesi corrente della possessione diabolica, dichiarando le monache di Louviers afflitte da disturbi psichici. Anche se le piú classiche accuse di stregoneria si ripeterono durante tutto il corso del secolo e ancora nel seguente, qualcosa cominciò a cambiare. Tra le persone comuni, tra i giudici, tra i dotti. I grandi processi e i grandi casi di possessione diabolica a cui abbiamo accennato, oltre a far riflettere la gente e a diffondere un misurato scetticismo, dimostrarono ampiamente che, spesso, di queste accuse erano vittime anche persone assolutamente innocenti, addirittura in odore di santità, come fu il caso di Mathurin Picard. È emblematico in questo senso l’atteggiamento tenuto dagli abitanti della tedesca Lindheim che, nel 1661, si rivoltarono contro il magistrato Geisz che accusava una levatrice e altre sei donne di aver ucciso un bambino, e che fece incarcerare addirittura i suoi genitori, colpevoli di difendere la stessa levatrice. Anche se la donna fu giustiziata, la sollevazione che ne seguí costrinse il giudice alla fuga, e comunque il caso venne chiuso.

La giustizia esige prove concrete

Cambia, anche, la mentalità giuridica. Non simultaneamente però, visto che in Paesi come le Fiandre questo cambiamento cominciò nel Seicento, mentre in Polonia i processi diminuirono solo dal 1725, ma qualcosa, lentamente, iniziò a mutare. I tribunali cominciarono a richiedere prove del reato piú solide: il cosiddetto «marchio del diavolo», per due secoli circa prova inconfutabile di un avvenuto patto tra diavolo ed essere umano, non venne piú accettato nelle corti. La confessione, quindi, priva di elementi demoniaci prima che intervenisse la tortura, divenne l’unico appiglio legale alla condanna. Ma le confessioni, Spee lo aveva dimostrato, non erano mai spontanee. Inoltre, la procedura cominciò a essere irreversibilmente modificata: in Francia, dal 1665, il ministro Colbert avviò la riforma del codice penale che culminò nella grande ordinanza del 1670, nella quale fu omesso ogni accenno alla stregoneria. Fondamentale, infine, fu, sempre in Francia, nel 1682, l’editto sui maghi, gli indovini e gli avvelenatori, che prevedeva la loro punizione solo in presenza di prove materiali: scompariva quindi la possibilità di promuovere un processo solo sull’«infamia». Cambiò la mentalità dei dotti, che ora hanno il Discorso sul metodo (1637) di Cartesio sulla scriSTREGHE

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Miniature raffiguranti una schiera di demoni (in alto) e il concepimento di Merlino, nato dall’accoppiamento di un demone e una vergine. 1280-1290. Parigi, Bibliothèque nationale de France. vania. Certamente lo lesse il pastore protestante Balthasar Bekker, prima di scrivere, nel 1691: «L’impero del diavolo è solo una chimera ed egli non possiede alcuno dei poteri né delle funzioni che gli vengono normalmente attribuite». La stregoneria cominciò a essere relegata «nuovamente» tra le superstizioni, da cui uscí solo per entrare nei gabinetti psichiatrici. Questo processo di laicizzazione o medicalizzazione della credenza stregonica nacque molto presto in Europa, ma fu audacemente teorizzato da Wier nelle sue opere. Non sorprende che egli fosse un medico. La medicina, meglio la psicopatologia, tentarono presto di avere l’appalto esclusivo di tutti i vissuti «diversi» del mondo moderno: dalle possessioni diaboliche alle devianze di fede. Anche oggi, in fondo, quando un giovane sceglie volontariamente di aderire a una setta religiosa diversa da quelle «ufficiali», non viene sempre invocato un necessario e condizionante «lavaggio del cervello»? Ossia, un indebolimento della coscienza, dell’esistenza, uno stato patologico, anche se transitorio e revocabile attraverso un appropriato «decondizionamento». A dire il vero la stessa Inquisizione piú volte accettò questa visione medica del fenomeno, come, tra i tanti, nel caso della strega Juanita Rosquells, che nella Barcellona del Cinquecento fu ritenuta demente. Non sapendo cosa fare, gli inquisitori si rimisero alla Suprema, la quale ne ordinò il rilascio. Pur nella sua eccezionalità, visto che coloro che erano giudicati insani di mente erano rinchiusi in un monastero o in un ospedale, casi del genere non furono rari durante la caccia alle streghe.

Sono solo fantasie

Nel Settecento italiano rifiorí la tematica che nei secoli precedenti girava intorno agli onirismi, al sonno e alla veglia, al dibattuto dilemma se i voli delle streghe (o di figure come quelle dei benandanti) fossero compiuti in estasi o con il corpo reale. Soprattutto nell’ambito di quella sorta di rinnovamento culturale che sembra prendere le mosse da Ludovico Antonio Muratori e dalla sua opera Della forza della fantasia umana (1745). Con questo autore siamo oramai alla fine della stregoneria medievale, che sembra non nascondere piú alcun messaggio di tipo sopran-

naturale, simbolico o terapeutico, essendo tutto ridotto a pura e semplice «fantasia». Tanto piú in quelle donne che sono ritenute suggestionabili e con gravi turbamenti della mente. Tutto diviene superstizione, peggio ancora, fole e follie: «oggidí sono di tal maniera screditate, che non v’ha piú se non la gente rozza che se le bee con faciltà e le crede, come fa di tant’altre vanissime relazioni e fole». Spinto dall’opera del Muratori (e dalle sue lettere d’incoraggiamento), Gerolamo Tartarotti diede alle stampe Del congresso notturno delle lammie, nel 1749: «L’amore del prossimo e la premura di sventare le opinioni popolari, sí alla religione che alla vita civile pregiudiziali e dannose, sono stati i motivi che a stenderlo mi hanno animato». Pur con tutte le cautele che la sua condizione di religioso gli imponevano, il Tartarotti offre la sua interpretazione «onirica» del sabba, mostrando la conseguente assurdità della persecuzione giudiziaria: «Il congresso notturno, primo e fondamentale capo d’accusa contro le streghe, è una pura immaginazione. Lo dimostreremo prendendo in esame, e dimostrandone la falsità, le principali ragioni, cominciando dalla stravaganza, per non dire impossibilità, di piú circostanze del viaggio».

Dal mistero alla scienza

Eppure, in questo pur notevole contributo al piú vasto movimento di idee e di pensiero che si andava affermando in Europa con il nome generico di Illuminismo, il Tartarotti portò a maturazione quel processo di medicalizzazione già iniziato perlomeno ai tempi di Johannes Wier e che, pur sottraendo le donne e gli uomini al carcere e soprattutto ai roghi, contribuí a seppellire definitivamente quei significati piú profondi che da secoli erano sottesi e nascosti dietro le confessioni degli imputati di stregoneria. Le basi, culturale e mitica, sulle quali si fondavano le «storie» raccontate ai processi, tutto quel complesso sistema di rappresentazioni simboliche che gli inquisitori si rifiutavano di indagare o, semmai, nascondevano dietro le loro interpretazioni, passarono definitivamente dal campo della teologia, dell’eresia, a quello piú rassicurante della malattia. Questa, inoltre, aveva l’indubbio vantaggio di poter vantare una speranza di cura o, al limite, di internamento in ospedale. Il dibattito, ora, sembra diventare appannaggio dei medici e in particolare di quella classe emergente, in qualche modo assimilabile agli inquisitori, costituita dagli psichiatri. La spiegazione dell’intero fenomeno per loro sarà semplice, olSTREGHE

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La prova (a destra) e Linda maestra (nella pagina accanto), due acqueforti dalla serie Los Caprichos di Francisco Goya. 1799.

tre che comodamente acquietante: «Gli indemoniati di qualsiasi tipo sono da classificarsi o con i maniaci o con gli ipocondriaci», scriverà Philippe Pinel nel suo Trattato sull’insania, del 1801, bruciando in poche righe secoli di credenze nel daimon, nei diavoli, negli esseri soprannaturali. Sulla stessa linea interpretativa fu il suo allievo Jean-Étienne-Dominique Esquirol, il quale riteneva che non solo le streghe medievali, ma tutti o quasi i criminali fossero malati di mente, da inviare in ospedale piú che in carcere. Se, tra le mani di Jean-Martin Charcot, la stre-

goneria infine diviene esclusivamente un fatto di «neuropatologia», a cominciare dai primi decenni del Novecento abbondarono le interpretazioni mediche del fenomeno stregonesco, soprattutto quelle di carattere psicoanalitico. Cosí le streghe e i loro persecutori furono analizzati alla luce della psicologia del profondo, divenendo i racconti delle prime nient’altro che deliri onirici nei quali furono trasposti desideri carnali piú o meno repressi allo stato di veglia e, riguardo agli inquisitori, le loro inda(segue a p. 120) STREGHE

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Il dottor Philippe Pinel libera i folli dalle catene, olio su tela di Tony Robert-Fleury. 1876. Parigi, Hôpital de la Salpétrière.

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gini corporali alla ricerca del signum diaboli e le torture da loro perpetrate sulle donne verranno interpretate come desideri sessuali inibiti e carichi di tendenze sadiche, che si trasformavano in forza distruttiva.

Metafore oggi inesplicabili

Nessuno esclude che dietro le toghe o tra gli accusati ci potesse essere qualche infermo di mente, ma ridurre a patologia il complesso mondo di confessioni che giravano intorno al sesso è a dir poco scandaloso. Di certo una sessualità «perversa» ritorna spesso nelle testimonianze (e abbiamo visto nelle accuse): «alcune femene gozute che altri che il demonio non le lavoraria, per farsi ben ficar». Questo è il semplice motivo per cui le streghe vanno al sabba, ricorda Joseph di Orzinuovi in una lettera del 1° agosto 1518. «Or quando questi usano insieme – continua la lettera –, dicono che li par coire con una cosa frigida, et, honor sit auribus, cui desidera grande priapea la ha, et cussí mezana et picola, secundo la volontà de la persona, cussí lo amante ge lo dà». Ma il variopinto mondo erotico della stregoneria, fatto di organi riproduttivi, zone erogene o altamente peccaminose, sembra essere avvolto da una grande nebbia linguistica e simbolica, che confonde tutto in una rete di metafore di cui abbiamo perso la chiave.

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Vedere un unico modello astratto di sessualità, per giunta perversa, significa negare i simbolismi che pure esistevano dietro gli strani accoppiamenti «per anteriorem et posticum», nascosti in quei bizzarri racconti di animali che entravano e uscivano dai corpi delle donne. Gli stessi demoni che si accoppiavano con le streghe (con o senza piacere sessuale, con sperma freddo o caldo, fertile o infecondo) nascondono forse vere e proprie «possessioni», e non solo in senso fisico, carnale. Eppure, questo sembra essere il destino della strega. Con l’evoluzione della medicina e l’affermarsi del moderno alienismo, questa continuerà a essere una malata, magari non piú a causa della bile nera, ma di un male destinato a grande fortuna: l’isteria. È cosí che la strega, prima accusata di fare un patto con Satana, diviene vittima della sua immaginazione, ora giudicata malata. Forse fu anche questo che contribuí a salvarla dai roghi, ma a costo di ulteriori e gravi perdite: da un lato quella della sua entità giuridica piena (essendo considerata folle aveva una responsabilità penale limitata: incapace di intendere e di volere), dall’altro la scomparsa di quei mondi mitici e simbolici sottesi alle sue confessioni, ai suoi miti, alle sue credenze, ai suoi rituali, divenuti ora freddi deliri, nient’altro che vissuti psichiatrici.

Nella pagina accanto Alienata con monomania dell’invidia o Iena della Salpêtrière, olio su tela di Jean-Louis Théodore Géricault. 1822 circa. Lione, Musée des Beaux-Arts. In basso maschera diabolica, particolare dello stallo ligneo dell’abbazia di SaintPierre, nel comune francese di ChezalBenoit. XV sec.


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FORTUNA DI UN MITO

Le streghe al cinema

DAL ROGO AL GRANDE SCHERMO

In questa pagina e nella pagina accanto, a sinistra due scene di Dies Irae, diretto nel 1943 da Carl Theodor Dreyer.

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no dei primi film sulla stregoneria è Häxan (1922), uscito in Italia con il titolo La stregoneria attraverso i secoli. Questo capolavoro di Benjamin Christensen è in realtà un documentario sui malefici e le magie, dall’antico Egitto, al Medioevo e ancora fino al Novecento, epoca in cui gli isterici, successori delle streghe, venivano considerati posseduti dal demonio e rinchiusi in sanatori, praticamente abbandonati a se stessi. Il film risulta ancora audace per i contenuti e originale, sia per la struttura, sia per le immagini, sapientemente costruite sui toni forti del bianco e nero e che rimandano alla pittura di Bosch e Bruegel, con un gusto tutto fiammingo per la natura morta. Del 1942 è Ho sposato una strega, di René Clair, dove una strega del Seicento si reincarna in una donna dei giorni nostri e tenta di vendicarsi su un discendente dell’uomo che la mandò al rogo. La donna, invece, si innamorerà della sua vittima. Di Carl Theodor Dreyer è Dies Irae

(1943), incentrato sulle accuse e sul processo, in un borgo danese, contro la moglie di un pastore protestante, Anna Pedersdotter Absalon. La drammaticità del film è accentuata dalla lentezza quasi teatrale della recitazione, e dall’approfondimento psicologico dei personaggi. Dopo Il giardino delle streghe (1944) di Guther Von Frisch e Robert Wise, Il ritratto di Jennie (1948) di William Dieterle e La strega del Rodano (1949) di Raymond Bernard, La strega (1955) di André Michel richiama ancora ambienti rurali e svedesi in una drammatica storia che termina con la morte di entrambi i protagonisti, Ina, la «strega», e il suo uomo. Se Una strega in paradiso (1958) è una

commedia con Kim Novak, James Stewart e Jack Lemmon, con La fontana della vergine (1959) torniamo ai temi religiosi e magici di Häxan. Qui Ingmar Bergman esplora con intensità il mondo dell’occulto e i suoi drammi. Tra le numerose pellicole ispirate al tema della stregoneria meritano una menzione anche il classico dell’horror italiano Suspiria (1977) di Dario Argento, il satirico Le streghe di Eastwick (1987) di George Miller, lo psicologicoallucinatorio La visione del sabba (1988) di Marco Bellocchio, l’inquietante affresco storico sui processi di Salem La seduzione del male (1996) di Nicholas Hytner, lo sperimentale e documentaristico The Blair Witch Project (1999) di Daniel Myrich ed Eduardo Sanchez, la commedia fantastica Vita da Strega (2005) di Nora Ephron e il gotico dalle tinte grottesche Dark Shadows (2012) di Tim Burton. I recenti The Witch (2015) di Robert Eggers, metafora sugli eccessi del puritanesimo e della superstizione, e il fiabesco Le streghe (2020) di Robert Zemeckis hanno riportato in auge un genere dal fascino senza tempo.

In alto Daniel Day Lewis (al centro) nel film La seduzione del male (1996), ambientato nella Salem del 1692.

Qui accanto la locandina originale di The Curse of the Cat People, il film di Gunther von Fritsch e Robert Wise uscito in Italia con il titolo di Il giardino delle streghe (1944).

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«FOLLIE» DEL NUOVO MONDO Salem, cittadina della costa atlantica nordamericana, è passata alla storia per una spietata caccia alle streghe. Nel 1692 portò al patibolo 19 innocenti e fece finire sul banco degli accusati ben 150 persone

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ul finire del XVII secolo, a Salem, piccola comunità sulla costa del Massachusetts, si svolse uno dei piú noti processi per stregoneria della storia, che coinvolse un centinaio di persone, concludendosi con l’esecuzione di numerosi innocenti (in alto, l’impiccagione del ministro di culto George Burroughs, riprodotta al Salem Witch Museum). La città, fondata nel 1626 da coloni puritani emigrati oltreoceano dall’Inghilterra, crebbe rapidamente grazie ai fiorenti traffici mercantili. Ai nuovi arrivati furono assegnati i territori ai margini del centro cittadino, in prossimità della foresta, oltre la quale erano gli accampamenti dei nativi americani. L’area periferica, che prese il nome di Salem Village per distinguersi da Salem Town, divenne presto

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oggetto di attacchi e razzie da parte degli indigeni, considerati «incarnazioni del demonio» dagli Inglesi e accusati di praticare rituali selvaggi. Nei coloni si radicò l’idea che le aggressioni facessero parte di un piano del diavolo per cacciarli dal Nuovo Mondo e riprendersi i suoi territori. In questo ambiente, impregnato di fanatismo religioso, i contadini vivevano in un costante clima di tensione, accresciuto da una grave epidemia di vaiolo e da frequenti periodi di siccità che avevano distrutto i raccolti in tutta la regione, riducendo in miseria molte famiglie. Inoltre, l’enorme incendio scoppiato a Boston nel 1691 contribuí ad amplificare la paura, convincendo definitivamente gli Inglesi di aver occupato la «Terra del Male». In questo contesto, nel


gennaio del 1692, alcune adolescenti del villaggio mostrarono atteggiamenti inconsueti. Tutto ebbe inizio a casa del reverendo Samuel Parris, dove lavorava come serva una schiava caraibica di nome Tituba. La donna aveva insegnato alla figlia e alla nipote del pastore, Betty e Abigail Williams, di 9 e 11 anni, e ad altre ragazze del luogo, alcuni «giochi» magici per presagire il futuro in base alla forma che assumeva un albume d’uovo versato in un bicchiere d’acqua. Ma il segreto del «passatempo» proibito per quelle giovani cresciute nel rigore dell’educazione puritana in un clima di austerità e superstizione, divenne sempre piú difficile da mantenere. Preoccupate per quel che credevano di aver visto, alcune di loro, tra cui Betty e Abigail, iniziarono

a comportarsi in modo strano, nascondendosi sotto ai tavoli e strisciando sul pavimento; inoltre rifiutavano il cibo, facevano discorsi incomprensibili o si trinceravano in ostinati silenzi. Disturbi a cui nessuno dei medici interpellati dal reverendo Parris riuscí a dare una spiegazione, fino a quando il dottor William Griggs diagnosticò che erano «vittime del demonio». Alla fine del mese di febbraio, sottoposte a stringenti interrogatori, le giovani accusarono Tituba di aver compiuto «atti malefici». La donna inizialmente negò tutto, ma alla fine ammise che il diavolo veniva a trovarla e che in volo si recavano a un sabba dove aveva incontrato molte altre signore di Salem. (segue a p. 128) STREGHE

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La «follia» di Salem

A sinistra il vice governatore William Stoughton (1631–1701), che presiedette il processo di Salem. A destra il pastore protestante Cotton Mather (1663–1728) che

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ebbe una grande influenza sullo svolgimento del processo, criticando i metodi utilizzati dall’accusa. In basso il sito delle esecuzioni in un’incisione ottocentesca.


Tavola raffigurante l’arresto di un’anziana donna di Salem sospettata di essere una strega. In basso il giudice Nathaniel Saltonstall (1639 circa–1707), uno degli accusati piú noti del processo di Salem, mai chiamato in giudizio.

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La «follia» di Salem

A sinistra l’edificio che ospita il Salem Witch Museum, aperto al pubblico nel 1972, in cui si racconta la storia del processo attraverso ricostruzioni a grandezza naturale. Nella pagina accanto la casa di Jonathan Corwin, uno dei magistrati coinvolti nel processo, oggi conosciuta come «Casa della Strega».

IL MUSEO DELLE STREGHE

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LA «CASA DELLA STREGA»

Le prime a essere imprigionate furono Sarah Good, una mendicante e l’anziana Sarah Osborne, incolpate di tormentare, attraverso il diavolo, le bambine. Dall’inizio delle indagini, sulla base delle dichiarazioni di oltre 40 giovani accusatrici, fornite in tribunale tra urla e crisi isteriche, la lista degli imputati si allungò sempre piú, comprendendo anche i parenti dei presunti colpevoli. Nel processo (nella pagina accanto, in basso, l’aula in una litografia della fine del XIX sec.) furono implicate 150 persone, tra cui alcuni membri della chiesa locale come l’anziana Rebecca Nurse e il pastore George Burroughs, in seguito scomunicati. Alla fine, le vittime furono 25: un uomo di 80 anni morto sotto tortura (in basso, imputati alla gogna in una litografia della fine del XIX sec.), 5 persone lasciate morire di fame in prigione e altre 19 impiccate sulla collina di Gallows, secondo le disposizioni di legge della Corona inglese che considerava la stregoneria un crimine commesso verso Dio e verso il governo, da punire con la forca. Nel 1706, Ann Putnam, una delle accusatrici, forní una nuova versione dei fatti chiedendo perdono ai familiari delle vittime. Nel 1752 Salem Village si staccò da Salem Town cambiando nome in Danvers, e nel 1992, in occasione della commemorazione dei 300 anni dal processo, è stata dedicata a ridosso del vecchio cimitero in Charter Street, una lapide commemorativa alle vittime.

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VO MEDIO E Dossier n. 54 (gennaio/febbraio 2023) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori Francesco Colotta è giornalista. Claudio Corvino è antopologo. Paolo Galloni è cultore della materia (storia medievale) presso l’Università di Pavia (sede di Cremona). Jean-Claude Maire Vigueur è storico del Medioevo. Agostino Paravicini Bagliani è storico del Medioevo. Sergio Ribichini è studioso di storia delle religioni e delle civiltà del Mediterraneo antico. Illustrazioni e immagini Shutterstock: copertina (e pp. 50/51) e pp. 102/103, 129 (alto) – Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: pp. 6/7, 14/15, 30, 67; AKG Images: pp. 8/9, 53, 126 (basso); Electa/Luigi Spina: pp. 10/11; Ann Ronan Picture Library/Heritage Images: pp. 54 (basso), 108/109; 20th Century Fox/Cortesia Everett Collection: p. 123 (alto) – Doc. red.: pp. 12/13, 16-21, 23-29, 31, 32-47, 52, 54 (alto), 55, 57, 58-59, 60-66, 68-101, 102, 104-106, 110-121, 122, 123 (centro e basso), 124/125, 126 (alto), 127, 128, 129 (basso) – Patrizia Ferrandes: cartina alle pp. 48/49.

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