La moda che fa male a chi la fa

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La moda che fa male a chi la fa

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e gli abiti possono contenere residui pericolosi per chi li indossa, fanno sicuramente male a chi li produce, specie quando si tratta di operai che lavorano, in nero, sottopagati e senza nessuna tutela, nelle fabbriche di Paesi asiatici o africani, dove la tutela del lavoro è completamente ignorata così come le misure di prevenzione e sicurezza. Anzi, per essere più precisi dovremmo dire “le operaie”, dato che è femminile l’80 per cento della forza lavoro della produzione mondiale di prodotti tessili. Donne pagate ancora meno dei colleghi maschi, disposte a sobbarcarsi orari di lavoro estenuanti e vessazioni di ogni tipo pur di guadagnare qualcosa per sfamare la famiglia. Da quando, nel 2005, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) ha liberalizzato definitivamente il mercato mondiale degli scambi, è finito anche l’Accordo Multifibre che fino ad allora aveva regolamentato il settore del tessile-abbigliamento grazie a un sistema di quote assegnate a ciascun Paese. Si è così instaurato un regime di competizione globale, dove vince chi offre i prezzi più bassi; e pazienza se sono ottenuti tagliando i salari, aumentando gli orari di lavoro, ignorando i più elementari diritti umani prima ancora che sindacali e provocando danni irreversibili all’ambiente. Ad accaparrarsi le prime posizioni nella nuova classifica dei competitori globali sono Cina, Macedonia e India che hanno aumentato le loro esportazioni verso i mercati occidentali, rispettivamente del 73 per cento, del 56 per cento e del 43 per cento, seguiti da

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