Timothée de Fombelle
Illustrazioni di François Place
di
Viste dagli angeli le cime dei monti sono forse radici che bevono i cieli
capitolo 1
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Illustrazioni di François Place
di
Viste dagli angeli le cime dei monti sono forse radici che bevono i cieli
capitolo 1

Tobia era alto un millimetro e mezzo. Non molto per la sua età. Soltanto la punta dei piedi spuntava dal buco nella corteccia. Il ragazzino era immobile. La notte lo copriva come un mantello.
Tobia guardava il cielo punteggiato di stelle. Non aveva mai visto una notte più nera né più scintillante di quella che si stendeva a macchie fra le enormi foglie rosse.
“Via la luna, le stelle ballano.” Così si diceva il ragazzo. E poi ripeteva fra sé: “Se in paradiso c’è un cielo, è di sicuro meno profondo, meno commovente, sì, meno commovente...”.
Era un modo per calmarsi. Il ragazzino era sdraiato, la testa posata sul muschio. Sentiva il freddo delle lacrime all'attaccatura dei capelli, vicino alle orecchie.
Tobia era rannicchiato in una fenditura della corteccia, una gamba malconcia, entrambe le spalle ferite e tagliate, i capelli intrisi di sangue. Le mani gli bruciavano per via delle spine e non sentiva più il resto del minuscolo corpo, intorpidito dal dolore e dalla fatica.
La sua vita si era fermata qualche ora prima e lui si stava chiedendo cosa ci facesse ancora lì. Ricordava che glielo dicevano sempre, quando lo pescavano a frugarsi nel naso: “Sei ancora lì, Tobia?”. E quel giorno cominciò a dirselo da solo, con un filo di voce: “Sei ancora lì?”.
Non gli pareva vero, eppure era vivo, consapevole fino in fondo della sua infelicità, più smisurata del cielo.
Il ragazzino fissava quel cielo con la stessa forza con cui un bambino stringe la mano dei genitori alla festa dei fiori. E per non distrarsi si ripeteva: “Se chiudo gli occhi, muoio”.
Ma i suoi occhi restavano spalancati in fondo a due laghi di lacrime dense.
In quel momento esatto li sentì arrivare. E la paura ripiombò su di lui all’istante. Erano in quattro. Tre adulti e un bambino. Il bambino teneva la torcia che rischiarava il cammino.
“Non è lontano, lo so che non è lontano.”
“Bisogna prenderlo. Deve pagare anche lui. Come i suoi genitori.”
Gli occhi del terzo uomo emettevano un bagliore giallo nella notte. L’uomo sputò e disse: “Lo prendiamo, stai tranquillo. Vedrai che gliela facciamo pagare”.
Tobia avrebbe tanto voluto svegliarsi e uscire da quell’orribile incubo, correre verso il letto dei suoi genitori e piangere, piangere... Avrebbe voluto che uno di loro lo accompagnasse in pigiama nella cucina illuminata, e che gli preparasse un bicchiere di acqua e miele ben caldo, con qualche biscottino, e gli dicesse: “È tutto finito, Tobia, è finito...”.
Invece era lì, in quel buco, che tremava come una foglia, che cercava di ritrarre il più possibile le gambe troppo lunghe, per nasconderle. Tobia, tredici anni, inseguito da un intero popolo... il suo popolo.
Ciò che sentì a quel punto fu anche peggio di quella notte di freddo e di paura.
Sentì una voce che amava, la voce del suo amico di sempre, Leo Blue.
Leo gli si era avvicinato per la prima volta quando avevano quattro anni e mezzo, per rubargli la merenda, e da quel giorno loro due avevano diviso ogni cosa. Le cose belle e quelle tristi.
Leo viveva con sua zia. Aveva perduto entrambi i genitori. Di suo padre, El Blue, celebre avventuriero, gli restava soltanto un boomerang di legno chiaro. Come conseguenza delle sue disgrazie, Leo Blue aveva sviluppato dentro di sé una grande forza. Sembrava capace del meglio e del peggio. Tobia preferiva il meglio, cioè l’intelligenza e il coraggio dell’amico.
Tobia e Leo divennero presto inseparabili. A un certo punto, la gente cominciò a chiamarli addirittura Tobleo, come se avessero un nome solo.
Il giorno in cui Tobia e i suoi genitori dovettero trasferirsi verso i Rami Bassi, i due Tobleo si erano nascosti in un germoglio secco, per non essere separati. Erano stati ritrovati dopo due giorni e tre notti.
Tobia ricordava quel giorno, perché era stata una delle rare volte in cui aveva visto suo padre piangere.
Ma quella notte, mentre se ne stava rannicchiato tutto solo nel suo buco di corteccia, non poteva essere lo stesso Leo Blue che si trovava a qualche metro di distanza da lui e brandiva una torcia nel buio. Tobia si sentì scoppiare il cuore quando udì il suo migliore amico urlare: “Ti prenderemo! Ti prenderemo, Tobia!”.
La voce riecheggiò di ramo in ramo.
Allora nella mente di Tobia riprese vita un ricordo preciso. Quando era ancora molto piccolo, lui aveva un pidocchio addomesticato che si chiamava Lima. Tobia gli montava in groppa prima di saper camminare. Ma un giorno il pidoc-
chio aveva smesso di colpo di giocare, aveva dato un profondo morso al bambino e l’aveva sbatacchiato come uno straccio. In quel momento Tobia ricordò l’attacco di follia che aveva costretto i suoi genitori a separarsi dall’animale.
Rivedeva ancora nella memoria gli occhi di Lima quando era impazzito: la pupilla, al centro, si era allargata come una piccola pozza sotto la pioggia battente. Quella volta, sua madre gli aveva detto: “Oggi è successo a Lima, ma chiunque può impazzire, prima o poi”.
“Ti prenderemo, Tobia!”
Quando sentì di nuovo quell’urlo selvaggio, Tobia immaginò che gli occhi di Leo in quell’istante fossero terrificanti come quelli di un animale impazzito... simili a piccole pozze inondate dalla pioggia.
Il gruppetto di inseguitori si avvicinava battendo la corteccia con bastoni appuntiti, che i quattro conficcavano in crepe e fessure. Stavano cercando Tobia con lo stesso sistema della caccia alle termiti, che avveniva una volta all’anno, quando, in primavera, padri e figli partivano all’inseguimento dei pericolosi animali, spingendosi fino ai rami più lontani.
“Lo tiro fuori io dal buco in cui si è cacciato.”
La voce che pronunciò quella frase era vicina, tanto che Tobia ebbe l’impressione di sentire il tepore del fiato su di sé. Non si mosse più. Non osò neppure chiudere gli occhi. I colpi di bastone calavano verso di lui nell’oscurità resa meno tenebrosa dai riflessi del fuoco.
Il bastone acuminato si abbatté con violenza a un dito dalla faccia del ragazzino. Il piccolo corpo di Tobia era ir-
rigidito dal terrore, ma lui teneva comunque gli occhi fissi, aggrappati a quel cielo che qua e là riappariva tra le ombre dei cacciatori. Stavolta lo prendevano. Era finita.
Di colpo la notte ripiombò su di lui e un grido incollerito squarciò il silenzio: “Ehi, Leo! Perché hai spento la torcia?”.
“Mi è caduta. Scusate, mi è scappata di mano...”
“Imbecille!”
L’unica torcia disponibile si era spenta e le ricerche dovevano proseguire nel buio della notte nera.
“Be’, non sarà un piccolo contrattempo a farci rinunciare. Tanto lo troviamo lo stesso!”
Un secondo uomo aveva raggiunto il primo e frugava nelle fenditure della corteccia. Tobia sentiva l’aria smossa dal movimento di quelle mani così vicine. Il secondo uomo aveva sicuramente bevuto, perché puzzava di alcool e i suoi gesti erano violenti e disordinati.
“Lo prendo io, e poi lo faccio a pezzi. Ma lasceremo credere agli altri che non l’abbiamo trovato.”
Il compagno rideva e diceva al terzo cacciatore: “Quello non cambierà mai! Pensa che ha fatto fuori quaranta termiti, in primavera!”.
Già, lo consideravano peggio di una termite, e l’avrebbero di certo ucciso con le lance e con il fuoco, quando l’avessero trovato.
Due ombre lo sovrastavano, ormai. Non c’era scampo, nulla più poteva salvarlo. Tobia rischiò per un attimo di distogliere lo sguardo da quel cielo che gli dava forza. Vide il bastone scendere su di lui, scartò di lato con uno scatto inatteso e il cacciatore sotto la punta non sentì altro che il legno dell’albero. Ma l’altro uomo aveva già affondato il braccio nel buco.
Tobia aveva gli occhi pieni di lacrime. L’uomo gli mise addosso la mano enorme, si fermò, poi la spostò un po’ più in alto, verso il viso.
Fu allora che, stranamente, il ragazzino sentì la paura che se ne andava. Un grande senso di pace risaliva lungo il corpo. E addirittura un pallido sorriso gli illuminava le labbra quando sentì la terribile voce dire, in un sussurro compiaciuto: “Ce l’ho. L’ho preso”.
Tutt’intorno cadde il silenzio.
Gli altri cacciatori si avvicinarono. Anche Leo Blue aveva smesso di parlare. Forse temeva di dover guardare negli occhi l’amico di un tempo.
Erano in quattro o cinque contro uno, un bambino ferito. Eppure Tobia non aveva più paura di niente. Non ebbe nemmeno un brivido quando l’uomo infilò di nuovo il braccio nel buco, strappò qualcosa sganasciandosi dalle risate e lo mostrò agli altri.
Cadde di nuovo il silenzio, più lungo di un inverno di neve.
Tobia aveva avuto l’impressione che gli venisse stracciato un indumento. Ma dopo un momento poche parole risuonarono in un silenzio di ghiaccio: “Corteccia, è solo un pezzo di corteccia”.
Già, l’uomo tendeva ai compagni un brandello di corteccia. “Ah, ah! Vi ho fregato! È ovvio che non è qui! Ormai starà galoppando verso i Rami Bassi. Lo prendiamo domani!”
Un mugugno di delusione sfuggì a tutti i componenti del gruppetto, che rivolsero qualche insulto a quello che aveva finto di avere scovato il fuggiasco. Le ombre si allontanarono frettolosamente come una nuvola triste e l’eco delle voci si spense.
Il silenzio ricadde intorno al ragazzino.
Gli occorse un po’ di tempo prima di riuscire a sentire di nuovo il proprio respiro, prima di percepire il peso del corpo contro il legno dell’albero.
Che cos’era successo? Le idee tornarono a poco a poco ad affollargli la mente.
Rivedeva ogni singolo istante di quel misterioso minuto. L’uomo gli aveva posato una mano addosso, ma aveva sentito soltanto legno. Gli aveva strappato un brandello del gilet, scambiandolo per corteccia. E tutti gli altri avevano riconosciuto la corteccia, quando l’aveva mostrata. Come se Tobia fosse sprofondato nel legno dell’albero. Lui aveva avuto esattamente quell’impressione. L’albero l’aveva nascosto sotto la sua coltre di corteccia.
Tobia si gelò di colpo.
E se era una trappola?
Ecco, appunto. L’uomo aveva sentito il bambino sotto la mano e ora lo aspettava nell’oscurità, a qualche metro di distanza. Tobia ne era certo. Il cacciatore l’aveva detto, che voleva la preda tutta per sé, per poterla schiacciare come una termite! E quindi doveva essere nell’ombra, in agguato, ad attendere che uscisse, per avventarsi su di lui con la lancia acuminata. Il terrore tornò a stringergli un nodo in gola.
Tobia restò immobile, le orecchie tese a cogliere il più piccolo rumore.
Niente.
Allora, piano piano, riprese consapevolezza del cielo sopra di lui, il compagno stellato che dava l’impressione di guardarlo con i suoi innumerevoli occhi.
Riprese a sentire, sotto di sé, il tepore dell’albero. Era la fine dell’estate e i rami avevano ormai accumulato un dolce
calore. Tobia era ancora fra i rami alti, in una delle regioni accarezzate dal sole dal mattino alla sera, dove si sente, ovunque si vada, un odore di pane caldo, il profumo del pane di foglie di sua madre, che lo spalmava sempre di polline.
Tobia si lasciò trasportare dal profumo rassicurante che lo circondava.
E finalmente i suoi occhi si chiusero. Dimenticò la paura e la follia di Leo... Dimenticò di essere la preda di un gruppo di cacciatori... Dimenticò che migliaia di persone ce l’avevano con lui. Si lasciò trasportare da un’onda morbida, quella dolce bruma che si chiama sonno. Dimenticò tutto. I brividi, i tremiti, la solitudine, l’ingiustizia, e quel grande PERCHÉ che lo tormentava da diversi giorni, ormai.
Tobia dimenticò tutto. Ma in quella notte così scura c’era un angolino che aveva tenuto per sé, libero. Il solo sogno a cui avrebbe permesso di giocare nel suo sonno.
Quel sogno aveva un viso. Elisha.

Per tutta la giornata, in fuga dai nemici, si era ripetuto che non doveva assolutamente pensare a lei.
Non c’era verso. Non doveva. Sarebbe stata troppo dura.
Perciò si era costruito intorno al cuore una specie di fortezza, con torrette d’osservazione e profondi fossati. Aveva ordinato a numerose formiche da combattimento di presidiare i cammini di ronda. Non doveva pensare a lei.
Eppure, in ogni istante di quella lunga giornata lei era stata lì, con lui, nei suoi ricordi, con il suo bel vestito verde. Era stata sempre presente nei suoi pensieri, più presente del cielo.
Tobia aveva conosciuto Elisha quando aveva lasciato le altezze con la sua famiglia, per trasferirsi fra i Rami Bassi.
Bisogna raccontare quell’incontro, è importante. Bisogna lasciare Tobia addormentato nel suo buco e tornare indietro di cinque anni.
Era accaduto durante il trasloco.
Quell’anno, in un mattino di settembre, mentre gli abitanti delle Cime dormivano ancora, Tobia era partito con i suoi genitori.
Avevano viaggiato per sette giorni, accompagnati da due portatori scorbutici, carichi di oggetti indispensabili. Loro non avevano bisogno di quei due uomini per trasportare le capitolo 2

loro piccole valigie, vestiti, libri e la cassa con l’archivio di Sim
Lolness, il padre di Tobia.
I portatori andavano con loro per assicurarsi che la famiglia non cambiasse idea a metà strada e non tornasse sui propri passi.
Il signor Lolness era senza alcun dubbio il più grande studioso dell’epoca.
Conosceva i segreti dell’albero come nessuno. Ammirato da tutti, aveva messo a punto le più grandiose scoperte del secolo. Ma le sue straordinarie conoscenze non erano che una minuscola parte del suo essere. Il resto era occupato da un’anima bella, grande e luminosa come una costellazione.
Sim Lolness era un uomo buono, generoso e divertente. Avrebbe potuto fare carriera senza problemi nel mondo dello spettacolo, se solo ci avesse pensato. E dire che il professor Lolness non cercava mai sul serio di fare ridere. Semplicemente, era di una fantasia e di un’originalità a dir poco sfavillanti.
A volte, nel bel mezzo del Gran Consiglio dell’Albero, circondato da una folla di anziani saggi, Sim si spogliava, prendeva dalla valigetta un pigiama blu e si preparava a schiacciare un sonnellino. E l’assemblea abbassava la voce per lasciarlo dormire in pace.
Tobia e i suoi genitori avevano camminato per parecchi giorni in direzione dei Rami Bassi. Sull’albero i viaggi erano sempre vissuti come avventure. Si passava da un ramo all’altro, a piedi, lungo sentieri poco battuti, con il rischio continuo di smarrirsi in qualche vicolo cieco o di scivolare giù per qualche china. In autunno, poi, bisogna evitare le foglie, i grandi pianori bruni che, cadendo, potevano portare il viaggiatore verso l’ignoto.
In ogni caso, i viaggiatori erano rari. Le persone restavano spesso per una vita intera sul ramo dov’erano nate. Trovavano un lavoro, si facevano degli amici… Da lì nasceva l’espressione “ramo vecchio” per indicare un amico di lunga data. Ci si sposava con qualcuno di un ramo vicino, o della regione. Sicché il matrimonio di una ragazza delle Cime con un ragazzo delle Fronde, per esempio, era un avvenimento assai raro, e decisamente mal visto dalle famiglie. Era proprio ciò che era accaduto ai genitori di Tobia. Nessuno aveva incoraggiato la loro storia d’amore, perché era molto meglio sposarsi con i propri simili.
Sim Lolness, al contrario, amava l’idea di un “albero genealogico”, come se ogni generazione dovesse inventare il proprio ramo, un pizzico più vicino al cielo dei precedenti. Ma per i suoi contemporanei quella era un’idea pericolosa.
Certo, la crescita della popolazione dell’albero costringeva alcune famiglie a emigrare verso regioni lontane, ma si trattava di una decisione collettiva, di un trasferimento famigliare. Un clan sceglieva di appropriarsi di alcuni nuovi rami e partiva per le Colonie inferiori, che si trovavano nella parte interna della chioma dell’albero, dove i rami erano più ombreggiati.
Tuttavia, nessuno si spingeva mai fino ai Rami Bassi, la contrada più remota dell’albero, che si trovava ancora più in giù.
Nessuno, quanto meno, ci andava di propria volontà. Neppure la famiglia Lolness, che quella sera giunse nel selvaggio territorio di Onessa, nella zona più remota dei Rami Bassi.
Già da due giorni, ormai, si erano fatti un’idea dell’aspetto di quella regione, che sfilava sotto i loro occhi mentre camminavano.
Era un enorme labirinto di rami umidi e tortuosi. Non c’era anima viva, o quasi. Soltanto qualche pescalarve, che tagliava la corda appena li vedeva arrivare.
Il panorama era sorprendente. Distese di corteccia fradicia, misteriose forcelle su cui niente e nessuno aveva mai messo piede, laghetti che si erano formati all’incrocio fra due rami, foreste di muschio verdissimo, uno spesso strato di corteccia solcata da sentieri scavati in profondità e da ruscelli, insetti bizzarri, ramoscelli secchi incastrati da anni, che il vento non riusciva a far cadere… Una giungla sospesa, piena di strani rumori.
Tobia aveva pianto fin lì, portandosi dietro il dolore per aver lasciato il suo amico Leo Blue. Ma giungendo alle porte dei Rami Bassi, che gli erano stati descritti come un inferno, le sue lacrime si erano asciugate di colpo. Ipnotizzato dal paesaggio, all’improvviso il bambino aveva capito che lì sarebbe stato a casa. Quella regione era magica: un gigantesco campo giochi, un autentico mondo dei sogni.
Più avanzava, più ritrovava l’espressione gioiosa dei suoi giorni migliori e più vedeva crollare sua madre, Maia.
Maia Lolness da ragazza si chiamava Alnorell e apparteneva alla famiglia che possedeva quasi un terzo delle Cime, con vaste piantagioni di licheni sul tronco principale. Una famiglia ricca, che organizzava grandi battute di caccia nelle sue proprietà, dal lato del sole, e balli meravigliosi, che facevano girare la testa fino all’alba alla più bella gente dell’albero.
Nelle notti di festa, interminabili fili di torce sospese disegnavano ghirlande fra le Cime. Il padre di Maia si sedeva al pianoforte e intorno a lui tutti ballavano, mentre qualche coppia si perdeva sotto le stelle.
Maia aveva trascorso l’infanzia in quel mondo di feste, unica erede degli Alnorell, figlia prediletta del padre che lei adorava. Il signor Alnorell era una persona gentile e delicata come la figlia, un bell’uomo generoso e curioso di tutto.
Era morto giovane, quando Maia aveva solo quindici anni. E sua moglie aveva preso le redini della famiglia, interrompendo per sempre i valzer e le cene al chiaro di luna.
Perché la signora Alnorell, madre di Maia e nonna di Tobia, era triste e cattiva come un ragno di prima mattina. Non aveva fatto la felicità del marito né della figlia, ma fece certo quella del suo amministratore, il signor Peloux, poiché annullò in un colpo solo tutte le spese relative alla casa, tanto che un’immensa fortuna cominciò ad accumularsi intorno a lei. Il signor Peloux vedeva arrivare ogni giorno i proventi delle piantagioni di famiglia e delle altre imprese Alnorell, senza che mai un soldo uscisse dalle casse.
La signora Alnorell era tanto attaccata al suo denaro che aveva dimenticato a cosa servisse. Si comportava come un bambino che accumula sotto il letto caramelle ripiene di linfa. L’unica differenza era che il bambino, prima o poi, si sveglia su un mucchio di linfa ammuffita, mentre i soldi della signora Alnorell non ammuffivano mai. L’unica ad ammuffire era la signora stessa. Era diventata quasi verde e neppure i suoi sentimenti sembravano più freschi come un tempo.
Tobia sapeva che quando era stata informata del fidanzamento di Maia con un uomo delle Fronde, la nonna aveva commentato: “Evidentemente mia figlia ha deciso di mettere al mondo delle lumache!”.
Quella frase era rimasta famosa tra Sim e Maia, che ci scherzavano su. Le Fronde da cui veniva Sim erano note per le lumache, enormi animali del tutto innocui, che produce-
vano un grasso ideale per le lampade a olio. Gli abitanti delle Fronde adoravano le loro lumache, tanto che il padre di Tobia lo chiamava spesso “lumachino mio”, in ricordo della famosa frase della nonna.
E fu così che Maia Alnorell sposò Sim Lolness. Si amavano. Tanto. Erano innamorati esattamente come quando si erano incontrati, a diciannove anni, durante un corso di lavoro a maglia.
La scuola per il lavoro a maglia della seta era un passaggio obbligato per le ragazze di buona famiglia. E dal momento che Sim Lolness lavorava moltissimo, perché trascorreva le sue giornate fra la biblioteca, il laboratorio e il giardino botanico, e quindi non aveva tempo di “fare incontri”, come diceva sua madre, aveva deciso di iscriversi a un corso di maglia. Era, naturalmente, l’unico ragazzo della classe.
Così, con un impegno di una sola ora settimanale, aveva la garanzia di incontrare trenta ragazze in contemporanea, e di chiarirsi un po’ le idee, in tempi brevi, su quella specie a lui sconosciuta.
La prima settimana, osservò.
La seconda settimana, inventò la macchina per lavorare a maglia.
La terza settimana, il corso fu chiuso.
E quella fu la fine del lavoro a maglia manuale.
Ma la bella Maia aveva capito subito cosa si nascondeva sotto il berretto di quel giovanotto, venuto dalle lontane Fronde per studiare fra le Cime. E se ne era innamorata.
Così, in un bel mattino di primavera, la ragazza andò a bussare alla sua piccola camera di studente squattrinato.
“Buongiorno.”
“Signorina… Ehm… sì?”
“Ha dimenticato il berretto all’ultima lezione del corso.”
“Ah! Io… oh, santo cielo…”
Lei fece un passo avanti ed entrò. Sim fece un passo indietro. Be’, era la prima volta che guardava davvero una ragazza e aveva l’impressione di scoprire un nuovo pianeta. Aveva la tentazione di prendere appunti, ma si disse che forse non era il caso.
A dire il vero, con sua grande sorpresa, non sentiva soltanto il bisogno di scrivere due o tre libri sull’argomento: voleva anche starsene lì a guardarla, senza fare niente.
Dopo un po’ lei gli chiese: “La disturbo?”.
“Sì… lei… lei mette… in subbuglio tutta la mia vita, se posso permettermi, con rispetto… signorina.”
“Oh, mi scusi…”
Maia si avviò alla porta. Sim si precipitò a sbarrarle il passaggio e si aggiustò gli occhiali sul naso.
“NO! Io… Lei… può restare…”
Le offrì un bicchiere d’acqua fresca e una giuggiola. Maia teneva la tazza di acqua fresca in un modo tale che Sim pensò di farne uno schizzo, ma ancora una volta resistette alla tentazione. Aveva diviso la giuggiola con le mani, e dunque aveva la tendenza a restare incollato agli oggetti che prendeva.
Maia sorrideva in segreto.
Sim si appoggiava alle pareti per darsi un contegno, ma non si accorgeva che nel farlo stava tendendo un filo di gomma da un angolo all’altro della camera.
Dopo un po’, Maia si scusò. Doveva andare. Scavalcò un filo, passò sotto un altro e uscì.
“Grazie per il berretto!” le disse Sim, seguendola con lo sguardo.
Si accorse allora che il berretto ce l’aveva in testa, e che era già lì quando lei era entrata, perché lui non l’aveva dimenticato proprio da nessuna parte.
Si tolse gli occhiali, li posò sul tavolo e crollò a terra, svenuto.
Capì dopo qualche tempo perché quel giorno fosse svenuto. Era per il semplice fatto che, nella logica delle cose, se lei si era presa la briga di riportargli un berretto che non aveva mai perduto, doveva averlo fatto per rivederlo.
Lui.
Il che era più che sufficiente per svenire.
Si sposarono un anno dopo.
Fu un bel matrimonio, fra le Cime. Nonna Alnorell aveva accettato di spendere qualche briciola della sua fortuna, perciò il signor Peloux, l’amministratore, prese piagnucolando due monete d’oro da una vasca da bagno colma fino all’orlo, dicendo: “Signora, siamo praticamente rovinati…”.
E guardava la vasca straboccante e il corridoio che conduceva alle quattordici sale piene di bauli in cui erano ammassate montagne di monete e banconote.
Durante la festa la signora Alnorell si era comportata abbastanza correttamente e si era presa gioco soltanto del padre di Sim e della sua goffaggine.
Lui non conosceva le abitudini del bel mondo e si dava un po’ troppo da fare. Sgranocchiava i petali dei fiori che decoravano il buffet. Alzava lo strascico della gonna delle signore per evitare che si sporcasse. E dopo qualche bicchiere aveva la tendenza a fare il baciamano anche agli uomini, accartocciando letteralmente la cravatta e avvolgendola su se stessa.
Per vent’anni gli sposi felici non ebbero bambini, cosa che mandava nonna Alnorell su tutte le furie.
Poi, un giorno…
Tobia.
Apparve di colpo nella vita di Sim e Maia, e fu la loro gioia.
Subito la nonna lo trovò troppo Lolness e non abbastanza Alnorell.
Tobia trascorreva le estati nelle tenute di sua nonna. Lei lo affidava alle governanti e faceva di tutto per non incontrarlo mai. Un bambino… Era sporco e pieno di malattie. La vecchia fuggiva non appena lo intravvedeva in lontananza.
Tanto che, nel giro di sette o otto estati, l’aveva incontrato pochissime volte. Ognuna delle quali era stata costellata da crisi di nervi e urla stridule: “Portatelo via! Ho le caldane!”.
E Tobia veniva allontanato come se fosse stato un appestato.
Ecco perché, mentre si inoltrava fra i Rami Bassi, verso il luogo dove sarebbe inevitabilmente andata a vivere con il marito e il figlio, Maia Lolness soffocava i singhiozzi. Perché tutti i difetti dell’alta società che lei aveva tanto combattuto in sua madre stavano tornando a galla in lei, che non riusciva a ricacciare il disgusto per i territori neri e spugnosi di quella remota regione.
Suo marito, ovviamente, si era accorto del suo pianto, e ogni tanto le diceva: “Tutto bene, Maia?”.
“Sono così felice di essere qui con voi due…” tentava di rispondere lei, con un sorriso forzato.
E riprendeva la marcia, stringendosi nello scialle.
Tobia guardava suo padre. Sapeva che soffriva. Non che si commiserasse, perché Sim Lolness avrebbe trovato motivi di meraviglia in qualunque cosa, compreso l’intestino di una mosca. Ma soffriva per sua moglie e per il figlio, coinvolti, loro malgrado, nella sua punizione.
Perché quella famiglia stava andando in esilio.
Le tre persone che i portatori abbandonarono in mezzo al nulla, chissà dove nel territorio di Onessa, all’estremità di un ramo da cui penzolavano due enormi foglie color fuoco… quelle tre persone erano state bandite dal resto dell’albero, condannate all’esilio e all’oblio.
“È laggiù”, mormorò il padre di Tobia.
Il ramo era talmente umido che sembrava di camminare su un fondo di minestra fredda. Tobia, seduto sulla valigia, cercava di asciugarsi le calze.
“È laggiù”, ripeté Sim con voce strozzata.
Maia Lolness nascondeva le lacrime nello scialle.
Dopo la gloria, gli onori, tutti i successi, Sim Lolness e i suoi ripartivano da zero.
Da sottozero, per essere precisi.