Avere cura della Palestina
di Maria Nadotti e Samah Jabr
Quando, a metà giugno di quest’anno, Sandro Triulzi mi ha parlato del concorso DiMMi (Diari Multimediali Migranti), “un progetto sostenuto dalla Regione Toscana con l’obiettivo di sensibilizzare e coinvolgere i cittadini sui temi della pace, della memoria e del dialogo interculturale, e di creare un fondo speciale dei diari migranti presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano”, ci siamo quasi istantaneamente ritrovati a ragionare di Gaza, della Cisgiordania, di Gerusalemme Est, di quei lembi della Palestina storica che Israele, Paese occupante, sta annichilendo con una furia che sembra voler cancellare persino il ricordo di un popolo, di una cultura, di una storia geografica, sociale, umana.
Ci siamo detti che all’ecatombe del tangibile in corso con intensità sempre più alta non solo nella Striscia di Gaza andava sottratto in ogni modo possibile non solo il vivente – bambini, donne, uomini, animali, colture, alberi, natura – ma anche il linguaggio, la cultura materiale, i gesti della quotidianità e degli affetti e la loro memoria: esattamente ciò che viene racchiuso con tenerezza, testardaggine, rabbia e speranza nei racconti intimi, nelle narrazioni autobiografiche, nei diari appunto.
Dalla Palestina, che non è mai stata un Paese di migrazioni, ma sempre e solo un luogo da cui le/gli abitanti sono stati cacciati, costretti con le maniere forti ad andare altrove, a cedere ad altri una terra tenacemente amata, non era arrivato a DiMMi neppure un rigo. Quel vuoto, affondato nel silenzio cui la forza costringe il più debole, andava riempito.
È nata così l’idea di creare, all’interno del libro antologico che anche quest’anno accoglierà i “migliori” diari in concorso, uno spazio che inviti lettrici e lettori a mettersi in ascolto delle voci che da quel territorio ci giungono. Voci chiare, lucide, consapevoli, non disposte a cedere il dire all’inarticolazione delle grida e del pianto. Voci che dicono in modo nitido quel che va detto e che ci mettono di fronte alla nostra indisponibilità ad ascoltare da uguali, storditi come siamo dalle narrazioni in bianco e nero che hanno relegato i palestinesi al ruolo di vittime o di terroristi, figli e figlie di un dio davvero minore o assai smemorato.
La voce che proponiamo è quella di Samah Jabr, psichiatra e psicoterapeuta di Gerusalemme. Responsabile dal 2017 al 2024 dell’Unità di salute mentale presso il Ministero della salute palestinese e professoressa associata di Psichiatria e Scienze comportamentali presso la George Washington University di Washington DC, Jabr si occupa di formazione e supervisione con un’attenzione particolare alla Terapia cognitivo comportamentale (Cbt) e contribuisce alla mhGAP (Mental Health Gap Action Programme guideline dell’Organizzazione mondiale della sanità) che offre indicazioni, raccomandazioni e aggiornamenti per il trattamento di disturbi mentali, neurologici e abuso di sostanze e al Protocollo di Istanbul per la documentazione della tortura.
In Italia i suoi scritti sono raccolti in tre volumi pubblicati dalla casa editrice Sensibili alle foglie: Dietro i fronti.
Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione (2019); Sumud. Resistere all’oppressione (2021); Il tempo del genocidio. Rendere testimonianza di un anno in Palestina (2024). A breve lo stesso editore darà alle stampe un nuovo volume antologico di suoi scritti sul tema del Fratricidio.
Per l’editore Feltrinelli uscirà nell’autunno del 2026 una conversazione a tutto campo tra Samah Jabr e me, corredata da alcuni casi clinici raccolti durante il genocidio di Gaza e la sempre più spinta annessione coloniale della Cisgiordania.
Nel 2017 la filmmaker francese Alexandra Dols ha realizzato Derrière les fronts: résistances et résiliences en Palestine, un film documentario dedicato alla sua attività di terapeuta nei Territori occupati di Palestina (visibile su Vimeo). Di quest’opera Ken Loach ha scritto: “La dott.ssa Samah Jabr è una donna saggia e riflessiva. Riflette sull’effetto sottile e devastante di anni di brutale occupazione sul popolo palestinese. Il film di Alexandra Dols condivide con noi le sue intuizioni, generose, umane e profondamente inquietanti. Per favore, guardate questo film”.
Samah Jabr collabora regolarmente al sito The Palestine Chronicle - https://www.palestinechronicle.com/ Alcuni suoi scritti sono apparsi sulle pagine del trimestrale Gli asini.
Palestinese, professionista della salute mentale, attivista, “Perché in un regime coloniale non si può curare il singolo individuo se non si ha ben chiaro che a soffrire e produrre sofferenza è un’intera società”, Samah Jabr descrive così, riprendendo e sviluppando la lezione anticoloniale di Frantz Fanon, la parte sempre più sfilacciata di Palestina storica rimasta ai palestinesi: Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza. Soggette nel tempo a successive
espropriazioni territoriali, occupate militarmente e progressivamente invase da colonie di insediamento sempre più rapaci, amministrate come una triplice flessibile riserva di mano d’opera a basso costo, brutalizzate da un regime di apartheid capillare, soggiogate e umiliate, oggi esposte a un aperto attacco genocidario da parte di Israele, le tre aree affidate alle cure di Jabr e del suo minuscolo staff di medici, infermieri e psicoterapeuti sono un grumo di abuso e ingiustizia.
Il testo che proponiamo in queste pagine, La Madleen è arrivata in un porto sicuro… nei nostri cuori, Samah Jabr lo ha scritto nelle ore seguite all’arresto da parte dell’esercito israeliano del piccolo gruppo di persone che, a bordo di una piccola imbarcazione, si erano date il compito non solo simbolico di portare a Gaza cibo e farmaci e soprattutto solidarietà, vicinanza, affetto. A volte, quando non si vede una via d’uscita dal dolore e dall’ingiustizia, non c’è nulla di più prezioso del sapere che non si è soli, che non ci hanno né dimenticati né abbandonati. Avvicinarsi, sì, mettersi a distanza di voce, ascoltare con trepidazione e immenso rispetto, da pari.
Concludo con le parole che Samah Jabr rivolge a lettrici e lettori in uno scritto del 7 novembre 2023. I suoi destinatari siamo noi.
“Signore e signori, ogni mattina ci svegliamo con un’altra immagine orribile proveniente da Gaza. Oggi vediamo il video di un carro armato israeliano che schiaccia il corpo di un civile palestinese, a più riprese. Rispettato pubblico, sono una consulente psichiatrica, con una lunga esperienza di lavoro con i professionisti della salute mentale di Gaza, ma non sono qui per parlarvi dell’inimmaginabile impatto
del genocidio sulla salute mentale dei palestinesi, né per idealizzare il sumud1 palestinese. Sono qui per avvertirvi dell’imminente collasso del nostro comune senso di umanità. In quanto palestinese priva di cittadinanza e trovandomi attualmente ad affrontare un livello senza precedenti di repressione israeliana a Gerusalemme e in Cisgiordania, mi appello ai vostri principi universali di esseri umani per aiutarci a rivelare la straziante realtà degli eventi che avvengono a Gaza, un luogo sfregiato da uno dei capitoli più oscuri della storia. Le atrocità incessanti commesse ora dopo ora a Gaza sono una macchia sulla coscienza dell’umanità e lasciano un marchio indelebile sulla nostra capacità di relazionarci gli uni con gli altri in quanto esseri umani.”
Maria Nadotti, Roma, 23 giugno 2025
1 Samud si traduce con “fermezza, perseveranza, resistenza”. [Ndr]
La Madleen è arrivata in un porto sicuro… nei nostri cuori
Nel corso di una traversata senza pietà, sotto un cielo ingombro di aerei da ricognizione, una piccola imbarcazione battezzata Madleen fa rotta su Gaza. All’apparenza, si tratta di un battello comune incaricato di portare medicine e aiuti umanitari, ma è stato portato là da persone dal cuore libero che si rifiutano di tacere e di tradire.
Dopo venti mesi di un assedio soffocante e genocida, la Madleen è un atto di resistenza morale, un grido clamoroso di fronte alla crudeltà mondiale.
Nel 2010 l’imbarcazione Mavi Marmara ha scosso la coscienza mondiale quando le forze israeliane l’hanno presa d’assalto in mare aperto uccidendo dieci militanti turchi che erano a bordo. La Mavi Marmara, che faceva parte della Flottiglia della libertà, stava cercando di far arrivare degli aiuti a Gaza sotto assedio ma il suo destino è stato eclissato dalla notizia dell’attacco.
Il bagno di sangue non ha cancellato tuttavia il messaggio, l’ha soltanto rafforzato: oltre ai palestinesi, ci sono persone di coscienza in tutto il mondo pronte a dare la vita affinché i palestinesi non siano lasciati soli nel loro dolore e nel loro isolamento.
A partire da questo momento, la nave Marmara è diventata un simbolo non solo del martirio, ma anche della volontà internazionale di non restare fermi davanti alla fame e alla distruzione. Un monumento in memoria della Marmara è stato eretto nel porto di Gaza, ma è stato distrutto l’anno scorso dalla macchina da guerra israeliana.
Quindici anni dopo, l’immagine della Marmara ritorna attraverso la Madleen, un battello che ha lasciato l’Europa per raggiungere le coste di Gaza, stracolmo di solidarietà, di forniture mediche e di cuori determinati a venire in nostro soccorso.
A bordo c’erano persone di diverse nazionalità, unite non dalla patria o dalla lingua ma da una verità: che a Gaza è stata calpestata l’umanità e che il silenzio è complice del crimine.
Sappiamo noi, e sanno loro, che rischiano di non arrivare, che la marina israeliana può intercettarli, rapirli o arrestarli. E tuttavia, prendono il mare perché non possono sopportare il tradimento quotidiano dei loro governi perpetrato attraverso il silenzio.
In Palestina, e a Gaza in particolare, la Madleen è un antidoto morale in questo periodo di genocidio. Dall’ottobre 2023 i palestinesi vivono un isolamento terrificante: massacri commessi in diretta alla televisione, bambini stremati dalla fame, la morte sanzionata da nessun reale intervento. In questo contesto, la Madleen appare come una sirena che depone il suo bacio sulla fronte di Gaza e dice alla popolazione “non siete soli”.
Il ragazzo che ha perso i genitori, la madre che dorme con l’odore addosso delle bombe incendiarie, il chirurgo che opera un corpo senza anestesia. Tutti questi hanno bisogno del bacio della Madleen.
Questo bacio, anche se l’imbarcazione non arriverà mai, tocca la coscienza dei palestinesi e ridà loro qualche fiducia nei confronti dell’umanità. Ciò che si aggiunge all’amarezza del blocco, è la dolorosa ironia: mentre a un semplice battello umanitario viene impedito di entrare a Gaza, delle navi da guerra cariche di bombe, di missili e di aerei da combattimento entrano ogni giorno nei porti israeliani, dopo essersi rifornite nei porti occidentali, per venire accolte come se trasportassero fiori e non armi di morte.
La Madleen viene perquisita alla ricerca di mezzi di resistenza, viene inseguita da aerei che interrompono la sua navigazione, mentre le navi da guerra possono scaricare le loro merci mortifere senza alcuna sorveglianza. Basta guardare al largo dei porti di Haifa e Ashdod per rendersi conto di quante navi militari hanno attraccato quest’anno e portato il loro sostegno incondizionato alla macchina di morte impiegata a Gaza.
Allo stesso tempo, viene impedito a un’imbarcazione umanitaria di consegnare delle garze idrofile o delle stampelle a un bambino a cui è stata amputata una gamba.
Non è soltanto un doppio standard morale, ma la dimostrazione del naufragio della coscienza mondiale.
Ogni volta che un’imbarcazione diretta a Gaza viene intercettata, la fragilità della coscienza mondiale viene messa a nudo.
Le Nazioni Unite restano in silenzio, i governi arabi trovano scuse e le democrazie occidentali fanno dichiarazioni vuote. In questo senso, la Madleen è uno specchio che ha mostrato a tutti ciò che conta per le sorti dell’umanità e ciò che ne compromette la vita.
Come è possibile che consegnare delle medicine a dei bambini sia diventato un crimine? Come ha fatto l’amore a trasformarsi in crimine? E come è successo che stare dalla parte degli oppressi sia diventato un rischio?
Che la Madleen sia arrivata o meno, è già approdata, come già la nave Marmara, nei cuori dei palestinesi. Non si tratta solo di una sfida a un blocco navale, ma di un appello al mondo: la Palestina non è solo un luogo di morte, ma un luogo di dignità, di lealtà, di umanità e di amore rivoluzionario che è quello che porta questi stranieri sulle coste di Gaza.
Dalla Mavi Marmara alla Madleen, dal mare al campo, la Palestina sa valutare chi le è stato accanto e chi ha cospirato contro di lei.
Samah Jabr, da Chronique de Palestine, 15 giugno 2025 Traduzione di Paola Splendore
La vita non è una telenovela
Ottavia De Silva
Ottavia nasce bambino in Brasile sul finire degli anni Sessanta ed è ancora molto giovane quando lascia la propria casa e inizia a percorrere una strada difficilissima, dove rischia più volte di non salvarsi. Conosce gli eccessi, commette errori che si trova a pagare cari, cerca di sopravvivere in ogni occasione e nonostante la durezza della sua vita non perde mai la capacità di essere solidale. In Italia da oltre trent’anni, nell’ultimo periodo ha dato una nuova svolta alla propria esistenza grazie all’aiuto di un’associazione e guarda con fiducia al proprio futuro.
La storia inizia quando avevo diciassette anni. Me ne sono andata di casa, ho chiuso la porta e non sono tornata mai più. Mia madre e mio padre si sono separati quando ero molto piccola, avevo quattro anni, mio padre stava con una nuova compagna. Dalla sua prima moglie aveva avuto tre figli, io ero la più piccola. Papà faceva il camionista. Erano nati altri figli, eravamo poveri. L’ultimo regalo me lo hanno fatto a Natale quando avevo dodici anni, un telefono finto che suonava. A tredici anni ho capito di essere omosessuale.
Ero ribelle, indisciplinata, litigavo con la mia madrina, lei aveva ventitré anni, anche lei aveva i suoi problemi, la sua famiglia non accettava che stesse con mio padre, era immorale, era contro la natura di dio. Mio padre mi ha chiesto di scegliere tra la casa e la famiglia e i miei amici. Non parlavo con nessuno quando ho scoperto la mia omosessualità. Non trovavo le parole per dire. Dopo la domanda di mio padre, ho pensato e ho scelto. Ho lasciato la chiesa, la casa, la scuola. Non c’era niente per quelli come me, eravamo discriminati. Non avevo niente, sono andata via con due magliette e un pantalone scuro. Andavo sulla panchina, non c’era niente, io e il mondo. Sulla panchina, pensavo a come ricominciare. Era estate quando sono andata via. Sono andata a piedi al centro della città, erano molti chilometri. Ero incredibilmente allegra. Non avevo nessuna paura, nessuna insicurezza.
La sensazione di essere libera.
Oggi sento la mia matrigna al telefono, siamo amici superficialmente. Lei dice: “Se potessi tornare indietro, farei uguale, starei ancora con tuo padre”. Con i suoi figli è stata diversa, li ha educati in modo più liberale.
Dopo che ero andata via, stavo un po’ di qui un po’ di lì, entravo e uscivo da casa dei miei amici. Vedevo che loro avevano le camicie bianche stirate dalle loro madri, non come la mia matrigna. Ero sempre a casa degli altri.
Io ero povera, a scuola avevo solo una matita e un quaderno. Mi hanno ferito, la mia famiglia, ma sono disponibile a capire. Fino a quando avevo venticinque anni, non capivo.
Sono morta quattro volte.
Ho lavorato in cambio di mangiare e dormire.