In Sardegna tra mare e miniere

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Morfologia: pianura al principio, poi montagna

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Da Gonnosfanadiga a Montevecchio

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Da Gonnosfanadiga a Montevecchio lunghezza

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km

difficoltà a piedi

in bici

Miniere Il complesso di Montevecchio, Nenixedda Dove dormire Arbus: B&B il Nuraghe - Agriturismo Lo scrigno. Montevecchio, camerone gestito da Legambiente Dove mangiare Nessuna possibilità di rifornirsi prima di Arbus. Bar: Arbus, Montevecchio Alimentari: Arbus Ristoranti-pizzeria: Arbus, Montevecchio

Si inizia in discesa, poi si sta in una quasi pianura, ondulata, con qualche su e giù fino a poco prima di Arbus. Per raggiungere il paese si sale, a verticale, e si continua così anche dopo l’abitato. La salita è tutta su asfalto. Si scollina e si ridiscende. Si finisce con una breve salita che permette di raggiungere il villaggio di Gennas a Montevecchio.

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al B&B si riscende all’asfalto e si piega a sinistra, giù a ritroso per l’andare di ieri, il già fatto (fino al km 1 - segn. 1). Si abbandona l’asfalto e si continua diritti per lo sterrato che avete trascurato ieri. La via è contrassegnata da un cartello rosso che indica quella come zona addestramento cani. Avanti. Si passano alcune stalle, si giunge a un quadrivio (d’estate, quan-

do il rio Terra non è gonfio d’acqua, si può passare per la via tratteggiata - km 1,5 - segn. 2), si piega a destra e si prosegue fino a raggiungere l’asfalto grande della Gonnos-Arbus (km 2,2 - segn. 3).

Adesso a sinistra. Si procede sull’asfalto, si passa su un ponte-cavalcavia dopo il quale bisogna fare attenzione per prendere lo sterrato che scende a sinistra (km 3,3 - segn. 4). Una volta imboccato lo si terrà fino ad Arbus, stando sulla carrareccia maggiore, facendo attenzione a non deviare di lato. Pare facile ma forse qualche dubbio verrà. Comunque: tenete presente che generalmente le vie di sinistra vanno al fiume (la prima porta al guado, la seconda al frantoio e poi di nuovo all’acqua), quelle di destra si perdono nei campi. Si passa in luoghi abbacinati, a fianco delle tombe dei giganti di

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San Cosimo. Gli scavi archeologici stanno ad appena poche centinaia di metri da lì e non pare nemmeno. Il primo bivio vero, da non sbagliare, si trova al km 4,1 (segn. 5). Prendete la via che va in piano a sinistra, subito un altro e tenete la destra, ancora un bivio e state a sinistra (segn. 6). Si trovano i ruderi di una chiesa, si sta ai piedi di monti dalla bellezza abbacinante, dalle luci mediterranee, terre metafisiche. Ci vorrebbero i poeti per raccontarle. La strada si allontana dall’asfalto, scende verso il fiume e poi con una curva lo abbandona (segn. 7). State rasenti il colle e gli arbusti bassi, il mirto, i perastri, il cisto bruciato dal caldo. Non salite le pendici. Lo sterrato si fa sconnesso, un poco divelto, selvaggio. Le rocce affiorano tra la vegetazione, i graniti si affacciano come vecchi alle persiane. C’è un nuovo bivio (km 5,8), prendete a sinistra, la via a fianco delle sugherete. Ancora piano, ancora avanti in un paesaggio che pare incantato. Una strada più larga, una carrareccia, vi raggiunge da sinistra (km 6,1 - segn. 8), all’incontro proseguite piegando a destra. Il fiume ritorna alla vostra sinistra. Adesso avete giunchi e felci sui lati. Erba secca dove non arriva il fiume. Poi si vede una casa rosa, siete in una zona di depurazione delle acque. L’intorno cambia. Si ritorna all’asfalto (km 6,7 - segn. 9), a delle colline scavate a sabbia e ghiaia. A un monte davanti asciutto e spoglio. Ruderi sulla sinistra. Si giunge a uno spiazzo asfaltato (km 7,9 - segn. 10). Alla

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le rocce rosse del rio irvi

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bretella che riporta a Gonnosfanadiga. Voi girate a sinistra per Arbus, per gli orti. C’è un bivio, piegate a destra, andando su per un’erta salita d’asfalto (km 8,5 - segn. 11). Si trova il paese (km 8,6 - segn. 12), la via di cemento Grazia Deledda, che lo fa salire a vertigine. La si percorre tutta, fino al secondo incrocio quella via, poi si piega a sinistra (km 8,9 - segn. 13) e si giunge all’innesto di tre direttrici (km 9 - segn. 14). Quella da cui venite voi: la strada che giunge da Gonnos; la via di destra che arriva da Guspini; e quella di sinistra che va a Ingortosu. Voi prendete a destra, la SS 126, per raggiungere il centro. Passando per via Libertà, piazza Cavallera, la chiesa (nelle cui immediate vicinanze si trova anche il B&B se avete necessità di fare sosta, accorciare la tappa - km 9,6 - segn. 15) e ancora oltre per proseguire, fin dove la 126 si butta sulla strada per Montevecchio (km 10,4 - segn. 16). Raggiunta quella via svoltate a sinistra. rio irvi

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Tenete presente che dalla chiesa di Arbus vi aiutano i cartelli stradali marroni che indicano la direzione per Montevecchio. L’andare è d’asfalto, in forte pendenza e salita. Ma non importa, oggi è giorno di miniere abbondanti. Stanno tutte davanti, e la salita che pure sale implacabile anche dentro l’abitato, non può fermarvi. Intorno i monti sono piantumati a righe, i versanti dei colli punteggiati a macchie verdi, ma serve tutto il fiato e l’ossigeno del sangue per fare i primi metri di questo tratto di tappa, non c’è energia d’avanzo. Riservate allora allo sguardo il tempo davanti, ce ne sarà per ubriacarsi d’intorno.

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Per adesso: salite e ancora salite. Così per 2 chilometri. A mulo, con un solo chiodo fisso: Montevecchio. Quell’abitato è uno dei luoghi più significativi e ricchi di resti di fabbrica di tutto il percorso, dell’intera isola sarda. Archeologia mineraria allo stato puro: pozzi, edifici della direzione, vasche di decantazione, cumuli di detriti, palazzi e spiazzi: tutto sta davanti a reggervi la fatica. Si raggiunge l’alto, il confine del versante, il punto che fa cambiare di valle (km 12,4 - segn. 17). L’aria intorno è più fresca, quasi fredda. Accovacciata dietro la cima nella parete di nord, vi investe alla svolta. E regala la discesa. C’è qualche sterrato da ignorare, mentre la piana del campidano si spiega davanti, insieme al profilo dei monti. Si scende ancora, e ci sono stalle e capre. Poi compaiono i primi ruderi. Si vedono gli scavi di levante (piombo, zinco e argento), la struttura del pozzo San Giovanni-Piccalinna con le abitazioni operaie ormai in abbandono; l’imponente sagoma di cemento del pozzo Sartori, vicino alle officine meccaniche dismesse; la linea raffinata del pozzo di Sant’Antonio. Mentre tra le curve si continua a scendere l’asfalto, alcuni di quegli abitati, i più vicini e diroccati, i primi dismessi, vi compaiono intorno. Affiancate il gruppo di case degli operai (villaggio Righi), l’acqua di scolo, i pozzi. Tra le rocce affioranti raggiungete il punto d’innesto con la strada che proviene da Guspini (km 16,5 - segn. 18). Seguite la via per Montevecchio e in poco ci siete (km 16,7 - segn. 19). Non prima di essere nuovamente saliti per un breve tratto però. Il palazzo della direzione sta a sinistra, insieme alle case degli operai, l’abitato in cui ancora stanno 100 famiglie. C’è un bar se vi va, la possibilità di dormire nei cameroni di Legambiente, la discesa per Ingurtosu, la prossima tappa, davanti (km 17 - segn. 20). Da Go nn o sfanadiga a M o nt e v e cch i o

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miniera di montevecchio: pozzo sartori

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Il complesso di Montevecchio

Miniera di piombo, argento, zinco Situato ai piedi del rilievo basaltico dell’Arcuentu, Montevecchio è il maggior bacino minerario per piombo e zinco dell’isola. Esteso su un vastissimo territorio, diviso dalla sella di Gennas, tra cantieri di levante e di ponente, il suo sfruttamento risale ad epoca antica. Riparato dagli attacchi che venivano dal mare, proprio grazie alla sua morfologia, godeva di una posizione dominante e strategica. Il cantiere più produttivo fu sempre quello di levante ove sono state trovate numerose testimonianze delle attività passate: pozzi ricoperti, tracce di attività fusoria, catini di piombo… Risalgono al periodo romano i primi reperti, anche se la mancanza di una documentazione specifica non permette di ricostruirne la storia. Anche per il primo Medioevo le notizie certe sono praticamente inesistenti. I primi veri documenti sono del periodo pisano, quando l’attività estrattiva ebbe un vivace impulso sotto la dominazione pisana prima e aragonese poi (XIII e XIV sec.). Ma la svolta decisiva si ebbe in epoca moderna, quando, dopo alterne vicende, nel 1848 il re Carlo

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Alberto rilasciò a titolo perpetuo, la concessione della miniera di Montevecchio al sassarese Giovanni Antonio Sanna. Da quel momento iniziò lo sfruttamento industriale della miniera che si protrarrà ininterrottamente e con profitto sino agli anni Sessanta per poi declinare e finire del tutto nel 1991.

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Cantiere di levante

Scalo ferroviario di Sciria, con i magazzini per le scorte. Grande bacino degli sterili in disuso. Le sue acque ospitavano i residui dei processi di flottazione della laveria Tommaso. Abitazioni operaie. Struttura d’estrazione, pozzo San Giovanni in pietra e mattoni faccia a vista - serviva il cantiere Piccalinna. Struttura di cemento del pozzo Sartori (ex pozzo impero scavato in epoca fascista e vanto dei dirigenti repubblichini). Officine meccaniche dismesse. Falegnameria. La bella Laveria Principe Tommaso (1887), all’avanguardia perché ospitava un impianto di trattamento idrogravimetrico. Successivamente l’impianto fu sostituito da un nuovo impianto di flottazione estremamente sofisticato. L’elegante struttura d’estrazione del pozzo Sant’Antonio. Villaggio Righi A Montevecchio, il villaggio Gennas: direzione e ufficio tecnico, dopolavoro, mensa, ex ospedale, spaccio aziendale, ex casa del fascio, ex alloggi dirigenti, ex foresteria. L’edificio della direzione si trova nel piazzale principale. Ultimato nel 1877, accoglieva nei primi piani gli uffici tecnici, della sicurezza, dell’amministrazione e gli alloggi del direttore e della servitù. All’interno interessanti affreschi in stile liberty e numerose decorazioni con stucchi nel salone delle riunioni.

Cantiere di ponente (sulla strada per Ingurtosu)

Ex albergo Sartori nato per ospitare gli scapoli che venivano da lontano. Edificio semplice e lineare. Struttura d’estrazione, pozzo Sanna, mentre della laveria omonima rimangono solo pochi ruderi. Centrale elettrica Minghetti, alimentava la laveria e il pozzo Sanna. Abitazioni operaie di Zely e volta ad arco in cemento.

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montevecchio

Piano inclinato di Zely. In pietra, serviva a trasportare il minerale alla laveria di pertinenza. Bacini Zerbini e Donegani. Diga e invasi. Uffici e depositi di Telle. Struttura d’estrazione, pozzo Amsicora, luogo delle occupazioni operaie nei primissimi anni Novanta. Cantiere di Casargiu. ­ otizia. Nell’estate del 1991, sei minatori occuparono il pozN zo Amsicora sperando di poter procrastinare la chiusura dei cantieri, richiamando l’attenzione sul futuro lavorativo loro e dei loro figli. Fu firmato un accordo che prevedeva iniziative di reindustrializzazione nei comuni limitrofi e la messa in sicurezza e manutenzione degli edifici minerari in vista di uno sviluppo turistico. Furono promessi 260 posti. Con i bandi (2006) della Regione Sardegna per il recupero delle aree minerarie dismesse (andati però deserti) si sperava in 400 posti. Non minor importanza dei cantieri e della storia mineraria riveste la fitta macchia di lentischi, corbezzoli e lecci di queste pendici di monte. Mantenute per decenni dalle stesse società minerarie che le usavano per approvvigionarsi del legname e carbone indispensabile per l’esistenza della miniera, oggi custodiscono il silenzio e la presenza di numerose specie animali, tra cui il cervo sardo, raro ungulato, ormai presente in pochissime località, ed esclusivo dell’isola.

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Da vedere

Arbus La sua storia è strettamente legata alle miniere vicine. Poco si sa della sua origine, del suo nome. Fino alla metà del XVIII secolo sembra sia stato un luogo minore. I registri parrocchiali testimoniano una crescita lenta, recente. Mutata solo con l’aprirsi dei cantieri a Montevecchio e Ingurtosu. È con quei cantieri che Arbus inizia a crescere, diventando uno dei paesi più grandi dell’intera diocesi di Ales, fino a toccare i 10mila abitanti. Quelle presenze superarono il secondo conflitto mondiale e solo scemarono con la crisi delle miniere e la chiusura degli impianti. Ma questa è già storia recente, giorni nostri.

Montevecchio Villaggio di Gennas. Ombreggiato dai pini, il villaggio di Gennas, sembra sospeso tra passato e presente, tra terra e cielo. La struttura di questo villaggio minerario, sorto dal nulla nel 1848 per sfruttare i filoni di piombo e zinco con contenuti d’argento elevatissimi, ricalca anche nell’urbanistica una concezione gerarchica. Nell’ombra

stanno i palazzi della direzione, le case dei dirigenti, lo spaccio, l’ospedale, la chiesa. A mezza costa le abitazioni dei minatori; in fondo alla valle le architetture neogotiche delle miniere. È uno tra i complessi minerari più grandi d’Europa. L’edificio della direzione ubicato nella piazza principale del villaggio di Gennas, fu ultimato nel 1877. Accoglieva gli uffici tecnici, della sicurezza, dell’amministrazione e gli alloggi del direttore e della servitù. È un blocco parallelepipedo con pianta rettangolare. Coperto a doppia falda. Al suo interno è inglobata una parte (abside e transetto) della chiesa di Santa Barbara, a croce latina con vestibolo in fronte. Da vedere il Museo della miniera e del minatore (Villaggio Gennas, piazza principale). Per info: Tel. 389-16.43.692. Sito web: www.archiviominieramontevecchio.it.

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Informazioni sulle miniere in parte ricavate da: Le miniere di Montevecchio, a cura di E. Concas, Pezzini ed., 2000. Sardegna da salvare, S. Mezzolani, A. Simoncini, ed. Archivio Sardo, 1993.

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4 maggio 1871 ore 18.29 cantiere Atzuni Montevecchio Neanche quella sera le donne sarebbero tornate a casa. La strada che portava da Gennas a Guspini o Arbus a piedi chiedeva almeno un’ora d’andata. Troppo per chi aveva faticato tutto il giorno a separare, vagonare, bardellare, spaccare il minerale, grigliarlo e insaccarlo. Troppo per chi l’indomani avrebbe dovuto ricompiere lo stesso lavoro, la stessa strada, la stessa fatica. La notte sarebbe passata nei cameroni. Quella notte, come tutte le altre notti. Notte eguale alle infinite altre. Aver dieci anni o cinquanta non faceva differenza. Cernitrice era un mestiere da fame, di malafama. Paga dimezzata e occhi d’uomo addosso tutto il giorno. Sul piazzale a pubblico sguardo, sotto il vento, dentro la polvere e le richieste insistenti. Sempre esposte agli spifferi delle baracche la notte e quelle delle parole di giorno. Bisognava far finta di niente, non sentirli, oppure accordarvicisi. Sopravvivere. Era maggio, il mese che ha notti di cieli puliti e voglia di vivere addosso. La luce ancora alta sul colle. Anche un cantiere di miniera è bello in ore così. Anche un cantiere che ha costruito una diga d’acqua proprio sopra la lamiera della baracca, e il minerale che percola lo fa brillare ad arcobaleno. 80 metri cubi d’iride. Il verbale dell’incidente disse che la Direzione non aveva responsabilità essendo che “l’ingegnere stesso al quale (furono) affidati gli esterni lavori dello stabilimento pochi minuti prima della catastrofe passeggiava fiducioso sull’argine rovinato del serbatoio”. Verbale d’archivio a firma di sottoprefetto. Quella sera, alle 18.30, il muro laterale del serbatoio cedette, e si rovesciò sulle baracche delle donne, facendo crollare il tetto e investendo le presenti con la sua furia d’acqua in eccesso e cemento a “risparmio”. Morirono in 11.

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I loro nomi:

Armas Antioca, 32 anni, Arbus Aru Elena, 10 anni, Arbus Atzeni Anna, 12 anni, Arbus Gentila Rosa, 15 anni, Guspini Melis Anna, 11 anni, Arbus Murtas Luigia, 27 anni, Arbus Peddis Anna, 14 anni, Arbus Pusceddu Anna, 14 anni, Arbus Pusceddu Caterina, 10 anni, Arbus Vacca Luigia, 15 anni, Arbus Vacca Rosa, 50 anni, Guspini

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