Sul Romanzo - Anno I n. 5 - Dicembre 2010

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Piero Bigongiari

passa, che restano i debiti. Cosa cazzo c’entrava questa risposta con la decisione mia di non fare alcun lavoro che avesse a che vedere con la facoltà universitaria che m’ero scelto? […] E so bene che io come figlio ero un tormento. Vittima dei miei stessi abbagli. Dei giubbotti da cacciatore sopra i completi color fango, delle camice celesti, del Sole 24 Ore, dell’Economia Unico Metro Dell’Esistenza, degli anni ’80. Ognuno è vittima del proprio secolo. Tu performance degli anni ’60, io ostinato prodotto dei miei ‘80. la nevrosi sembra allora essere la condizione normale di ogni essere pensante (e gregorio pensa continuamente… ), eppure in Niente da ridere la scrittura di livio romano si normalizza, pur se persistono l’ironia dissacrante e tracce del suo gusto per la sperimentazione linguistica, quasi abbia avvertito l’esigenza di rinnegare le aspettative dei suoi lettori, di conquistarli per altra via, di rinnovare ancora una volta la sua identità di scrittore.

E ora cosa dobbiamo attenderci da Il mare perché corre: sarà anche questo un romanzo engagé (nel tuo personalissimo modo di intendere l’impegno intellettuale)? Cosa ti spinge a rimetterti ogni volta in discussione? l’ultimo romanzo, Niente da ridere, aveva in sé un grandissimo sforzo di costruire un plot accattivante, nonché di adoperare una lingua il più possibile sgombra dai ghirigori e dai fuochi d’artificio linguistici che avevano caratterizzato i miei esordi. la critica accademica ha storto il naso, ma in compenso ho guadagnato moltissimi lettori che si sono riconosciuti in quella storia, che m’hanno detto

di aver provato le stesse emozioni messe in scena nel romanzo. quel che mi interessa – vengo dal giornalismo – è comunicare alla gente delle storie, e farlo con la lingua che via via scelgo (pure se su questa “scelta”, alla fine, c’è poco da intervenire: ti puoi sforzare di mantenere certi standard, ma alla fine viene fuori il tuo stile, non c’è niente da fare, quello stile che ti contraddistingue da tutti gli altri che è la sostanza stessa del narrare). sì, a modo suo questo piccolo romanzo che uscirà è “impegnato”, non potrei mai fare a meno di uno sfondo politico. detto questo, l’idea di partenza era a) accantonare, dopo l’abbuffata di Niente da ridere, la prima singolare, b) capire (ché questo fa un narratore, in definitiva: capire, investigare, scoprire, in-ventio è “tirare fuori le storie”, portarle alla luce) dove diavolo stesse andando un uomo dall’aspetto trasandato, di notte, in novembre, con i finestrini dell’auto aperti nonostante il gran vento. una sola scena come idea di partenza. e questo mio topos che ritorna sempre, ineluttabilmente. il viaggio verso il nord. Poi man mano l’idea è diventata due uomini in macchina. in un’atmosfera opalina, sospesa, noir perfino, asciugata di ogni rocambolesca comicità. uno ha 46 anni, l’altro 82. tutt’e due vanno in cerca di un grande amore ma in realtà fuggono: da un morto ammazzato, dal proprio passato, dalla loro sbiadita quotidianità paesana. in una notte e un giorno allucinati, senza sonno e senza sosta, nell’abitacolo di quell’auto si incrociano, in un gioco simmetrico, la storia d’amore per Helena, giovanissimo medico bosniaco, e quella speculare per nela, ebrea sefardita scampata ai lager nazisti. due racconti, uno antico, l’altro recente, in cui scorrono la storia dello stato di israele e la guerra civile in bosnia, l’assassinio di Marco biagi a opera delle nuove brigate rosse (argomento, quest’ultimo, da sempre per me misteriosamente interessantissimo) e il terrorismo di al

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