Sul Romanzo, Speciale Premio Campiello 2014

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Premio Campiello 2014

Edizione speciale

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Piero Luxardo Presidente del Comitato di Gestione

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Monica Guerritore Presidente della Giuria dei Letterati

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Premio Campiello

La pubblicazione raccoglie le interviste realizzate da Sul Romanzo ai finalisti del Premio Campiello 2014 nell’ambito dello speciale apparso sul nostro blog. Piero Luxardo, Presidente del Comitato di Gestione, ci racconta lo spirito da cui è nata quest’edizione del Premio Campiello, mentre Monica Guerritore, Presidente della Giuria dei Letterati, apre uno spiraglio sul suo amore per la letteratura.

Mauro Corona, La voce degli uomini freddi

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Giorgio Falco, La gemella H

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Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice

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Mauro Corona, Giorgio Falco, Giorgio Fontana, Fausta Garavini, Michele Mari e Stefano Valenti ci raccontano i loro romanzi e ci parlano delle loro sensazioni in vista della serata finale del 13 settembre.

Fausta Garavini, Le vite di Monsù Desiderio

Mariachiara Boldrini, Daniele Comunale, Chiara Di Sante, Deborah Osto e Carmelita Noemi Zappalà ci parlano dei loro racconti e della loro emozione nel trovarsi, perla prima volta, in una finale così importante.

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Campiello Opera Prima

Personalità molto diverse tra loro ci accompagnano in un percorso variegato nella letteratura e nella scrittura.

C a m p i e l l o G i ova n i

Agenzia Letteraria, Lit-Blog & Webzine

Direttore Morgan Palmas – info@sulromanzo.it Project Manager Gerardo Perrotta Art Director Daniele Vignato Redazione Daniele Duso, Irma Loredana Galgano, Sara Minervini, Elena Spadiliero

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Michele Mari, Roderick Duddle

Stefano Valenti, La fabbrica del panico

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Mariachiara Boldrini, Odore di sogni

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Daniele Comunale, Antropofania

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Chiara Di Sante, Zucchero

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Deborah Osto, Corpi celesti

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Carmelita Noemi Zappalà, Corpi di carta

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Intervista a

Piero Luxardo

di Morgan Palmas

Presidente del Comitato di Gestione Piero Luxardo: imprenditore, critico letterario, docente di Letteratura Italiana Contemporanea, ricercatore presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Padova. Una vita spesa tra l’imprenditoria e la letteratura. Come trovare i giusti equilibri fra le due attività?

rato che Confindustria Veneto, nel corso degli anni e con apposite risorse, ha conferito all’organizzazione del premio stesso. Potrei sintetizzare dicendo che ormai il Campiello è una delle più prestigiose risorse immateriali, un vero e proprio brand dell’imprenditoria veneta.

Ho insegnato Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Padova fino a metà 2011, quando ho concluso l’attività accademica per raggiunti limiti contributivi. Da quel momento mi sono dedicato a tempo pieno all’attività imprenditoriale anche perché, come spesso accade nelle aziende famigliari, i passaggi generazionali obbediscono a ineludibili vincoli di carattere anagrafico. L’incarico al Premio Campiello, di cui sono oltremodo grato a Confindustria Veneto, consente in effetti di trovare un’area di intersezione fra le due sfere di attività.

Primo Levi, Ignazio Silone, Giorgio Bassani, Mario Rigoni Stern, Gesualdo Bufalino, Antonio Tabucchi, Giuseppe Pontiggia, Dacia Maraini, Ugo Riccarelli: scorrendo i nomi dei vincitori, sembra quasi di poter rivivere la storia dell’Italia e della sua società. Possiamo affermare che il Premio Campiello intercetta anche le trasformazioni in atto nel costume sociale?

Confindustria e la letteratura: un connubio che ormai dura da 52 anni. Com’è cambiato questo rapporto nel corso del tempo? Il Premio Campiello è stato concepito dagli industriali del Veneto a suo tempo come concreta testimonianza dell’impegno civile e culturale del ceto imprenditoriale a beneficio di una collettività e di una regione. Riversare una quota delle risorse generate dal fare impresa a favore della propria gente e della propria terra mi sembra l’obiettivo più lineare e condivisibile. Il Campiello è nel frattempo assai cresciuto, è diventato una delle manifestazioni letterarie più importanti e prestigiose a livello nazionale, costituendo oltretutto un elemento propulsore innegabile per la cultura e l’editoria. Tutto questo grazie soprattutto all’assetto sempre più professionale e mi4

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Sì, anche se la vecchia concezione “storicistica” dell’arte come specchio della società va doverosamente bilanciata con l’attenzione a fenomeni più attinenti allo specifico letterario. Ci sono anche altre componenti intrinseche all’esercizio di un’attività creativa, come quella di uno scrittore, che è basata soprattutto sul momento estetico ed emotivo più che su quello pragmatico o economico. Non posso fare nomi, ma ricordo che si sono aggiudicati il Campiello autori (ed autrici) che hanno vinto o sono entrati in cinquina grazie al combinarsi di diversi fattori: novità dello stile, evocatività di un mondo fantastico, suggestioni di una peculiare reinterpretazione del reale. Una delle obiezioni solitamente mosse al Premio Campiello, così come anche al Premio Strega, è quella di assecondare giochi politici e commerciali promossi dai grandi gruppi editoriali. Sono solo dietrologie speciale premio campiello 2014


giornalistiche sul modello del Festival di Sanremo, oppure qualche pressione viene esercitata? Come si difende il Premio Campiello dalla tossicità lobbistica di chi vorrebbe influenzare la giuria? Qui devo recisamente controbattere. Non voglio e non devo instaurare paragoni con altre manifestazioni o altri premi letterari, ma il Premio Campiello è davvero “un’altra cosa”. Noi siamo del tutto impermeabili a qualsiasi tipo di condizionamento da parte dei gruppi editoriali, sia per l’indipendenza garantita dal fatto che le nostre risorse sono provenienti tutte dall’interno, sia soprattutto perché il premio viene attribuito in base alle scelte di una giuria anonima di 300 lettori, il cui nome viene reso noto solo dopo l’aggiudicazione, e che oltretutto cambiano ogni anno e non possono esercitare la loro funzione per più di una volta. Presidente della Giuria dei Letterati della 52a edizione è Monica Guerritore. Non è la prima volta che il mondo del cinema e del teatro incontra il Premio Campiello. Colpisce molto, però, che quest’anno la scelta sia caduta su un’attrice che unisce talento, passione per la letteratura e attenzione alle donne, sia sulla scena sia nel sociale. Possiamo aspettarci qualche novità nella direzione di una rinnovata attenzione alla dimensione femminile, alla luce di episodi di cronaca che si registrano con sempre maggiore rilevanza?

questo particolare periodo, contraddistinto da inqualificabili episodi di discriminazione e di attacco alla figura femminile, la scelta di una donna alla presidenza della nostra giuria può apparire dettata anche da una legittima volontà simbolica di appoggio e di solidarietà, devo far notare che molte donne fino ad oggi hanno vinto il Campiello o sono entrate nelle cinquine finaliste, e che molte illustri accademiche e donne di cultura fanno parte della nostra Giuria dei Letterati. La premiazione dello scorso anno, anche grazie a Geppi Cucciari e a Neri Marcorè, ha rappresentato la rottura degli schemi rituali del Premio Campiello in funzione di una conduzione all’insegna dell’ironia. Intendete proseguire lungo questa direzione? La maggiore disinvoltura che ha contraddistinto l’edizione dell’anno scorso, sia per l’impostazione complessiva sia per la cifra della presentazione, è stata voluta per rappresentare una piccola svolta rispetto alle celebrazioni del Cinquantesimo dell’anno precedente, in cui, anche in ossequio alla tradizione consolidata, ci si era necessariamente attenuti a una formula più celebrativa. Credo che si proseguirà in questa direzione, naturalmente senza rinunciare alla tradizionale eleganza della manifestazione. La premiazione del Campiello al teatro La Fenice a Venezia resterà sempre un evento signorile e di grande visibilità, ma il nostro compito rimarrà soprattutto quello di premiare la buona letteratura.

Non è la prima volta che abbiamo una signora come presidente di giuria, e i precedenti di Gae Aulenti, di Susanna Agnelli, di Margherita Hack e di Lina Wertmüller stanno a dimostrarlo. Se è vero che in speciale premio campiello 2014

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Intervista a

Monica Guerritore

di Morgan Palmas

Presidente della Giuria dei Letterati Monica Guerritore e il Premio Campiello: il rapporto che la lega alla letteratura e alla cultura è stato riconosciuto anche a livello istituzionale. Come pensa di coordinare il lavoro degli altri giurati? Ha già in mente qualche indicazione?

Qualche anno fa, ha portato in scena Madame Bovary. Ricordo una lotta piuttosto cruenta che il suo personaggio sosteneva con Madame Bovary per liberarsi di lei, che, invece, le si aggrappava alle gambe. Crede sia possibile liberarsi di Emma?

Nella prima riunione ascolterò le personalità che compongono la Giuria per individuare con loro la procedura più “aperta” da adottare al tavolo delle riunioni.

Ricorda bene... era una lotta con quella parte del femminile ancora impastato dei colori e dei movimenti emotivi dell’Ottocento che tanto bene sono rappresentati in Emma Bovary e che ancora compongono la nostra “biografia immaginaria”. «Inseguiva il peggio della letteratura dell’epoca» scrive Flaubert, e questo dice quanto lui stesso la radichi nel suo tempo implicitamente disprezzandola per la sua inconsistenza, per la sua assenza di personalità autonoma ma solo “riflessa”. C’è un momento che è poco rilevato dalla critica ma che almeno ai miei occhi spiega in modo bruciante il perché della potente presa che la sua figura ancora ha. È il momento della nascita del figlio. Flaubert chiude il capitolo del parto con queste scarne righe: «È femmina» le venne detto. E Emma svenne.

La letteratura ha sempre giocato un ruolo di primo piano nella sua carriera teatrale: da Shakespeare a Bergman passando per Strindberg, Omero e Cechov, solo per citare alcuni nomi. Cosa può dire la letteratura oggi? Ha ancora il potere di trasformare l’io di chi legge? La potenza del racconto, della narrazione è data dal processo interpretativo che è, allo stesso tempo, di chi scrive e di chi accoglie: non per farsi trasformare ma per vedere o rivelare altre forme non viste. Parafrasando Keats, considero un’opera d’arte quell’opera letteraria «che trasforma il racconto in esperienza». L’importanza di questo processo alchemico si può definire «la valle del fare Anima» e questo è vero con le grandi opere del passato come con quelle contemporanee. Un solo esempio: Stoner di John Williams. La flebile e delicata voce del Professor Stoner arriva a noi e ci consegna, ancora oggi a distanza di anni e senza alcun battage pubblicitario, la testimonianza di una personalità mite e riservata. E ci commuove. Per meglio dire, commuove una parte di noi alla quale lui sussurra. E che attraverso quel racconto si sente rappresentata. Rivelata. 6

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La sola idea di un’altra donna fatta così come era stata creata lei, succube di se stessa, del suo tempo e della sua non-identità, in balia di quelle emozioni che Citati descrive come «un pianoforte di colori» è insopportabile. E qui nasce la pietas... Giovanna D’Arco e Teresa D’Avila sono i due personaggi femminili con i quali si è confrontata ultimamente sia come attrice sia come autrice e regista. Entrambi caratterizzati da una contraddizione lacerante tra l’amore per il terrestre e l’anelito verspeciale premio campiello 2014


so il divino. Quali insegnamenti possono trarre le giovani donne del nostro secolo dal confronto con queste due personalità forti e tragiche, al tempo stesso? Io non leggo contraddizione tra amore terreno e amore per il divino in nessuna delle due donne, mentre esiste, secondo me, una grande diversità tra le due figure: Teresa D’Avila, una giovane ignara dell’aspetto spirituale dell’esistenza attraverso la forzata solitudine, quasi una costrizione dei sensi, abbandona nella sua estasi il corpo fisico per entrare in una dimensione “altra”. Inizia così con l’ex-stasi (fuori da sé) la percezione di Dio e della sua immensa gioia e luce, quasi una descrizione “atomica” delle particelle luminose di Dio che permeano la sua intera sfera... Al contrario, non c’è “ex-stasi “ in Giovanna d’Arco che incarna, proprio nel senso etimologico del termine, “mette dentro la carne” il mondo triplex preconizzato da Giordano Bruno: Corpo-Mente-Anima. La sua intima certezza crea in lei, nel suo corpo, nel suo cuore, nella sua mente, una fonte inesauribile di energia fisica e psichica. «Dio è in me ed io ascolto dentro di me la sua voce», questa affermazione di Giovanna è inaccettabile per la Chiesa del tempo che è interprete unica della voce di Dio, e per questo viene messa a morte . Il De Immenso di Bruno, dopo più di 100 anni, metterà in scritti meravigliosi quell’avventura che lei non aveva possibilità di descrivere con tanta arte: «È la mente che ha ispirato il mio cuore con vivida immaginazione e che si piacque di infondere ali alle mie spalle, e di trasportarmi il cuore ad una meta prestabilita da un ordine eccelso per cui è lecito sprezzare la fortuna e la morte. Si aprono arcane porte e si spezzano le catene che solo pochi varcarono e da cui solo pochi si sciolsero. Così io sorgo impavido a fendere con le ali l’immensità dello spazio». (Corpus Iconographicum, Adelphi)

Le donne e gli uomini del nostro secolo possono trarre forza interiore dalla conoscenza di queste vite luminose. Ci sono esperienze straordinarie che la Letteratura e l’arte dell’interpretazione tramandano per rinnovarne il senso negli esseri umani che le ascoltano o leggono. Uno dei suoi ultimi spettacoli è Mi chiedete di parlare, incentrato sulla figura di Oriana Fallaci: «Mi sono sentita fuori posto. Nel tempo la solitudine mi è diventata necessaria». L’auto-isolamento come reazione al rumore del mondo? «...il solo modo per sfuggire a tutto ciò che considero falso, volgare, brutto…». C’è una doppia accezione che è esplicativa della mia interpretazione speciale premio campiello 2014

di Fallaci, di cui ho scritto la drammaturgia: Fallaci non sfugge al mondo rumoroso (di cui è stata forse una delle principali protagoniste), ma alla sua volgarità intesa come mancanza di studio e struttura intellettuale e letteraria (è stata una grande raffinata e perfezionista scrittrice, anzi scrittore!), cosa diversa da Oriana che si è reclusa nel suo appartamento di New York nascondendo al mondo l’altra sua identità («non stiamo parlando di me, stiamo parlando della Fallaci»), un’intimità mai svelata, «le cose dentro di me, quelle mie, cercavano riparo». Attualmente, è in scena nel musical End of the rainbow, in cui interpreta Judy Garland. Cosa c’è alla fine dell’arcobaleno? Quiete. Cos’è, secondo lei, il talento? Nell’epoca in cui tutto è spettacolarizzato nella forma dei talent show, c’è ancora posto per il talento? An-lagen, in fisica sub-atomica, è il termine che descrive il potenziale della cellula, quello che diventerà. È questa per me l’immagine del “talento”. Ed è con il tempo che bisogna onorare quel potenziale, difenderlo, dargli forza e struttura. Qualunque esso sia, va temprato. Il talento è in ognuno di noi, è innato e rappresenta la nostra essenza, il nostro dovere nel mondo. Io ho cercato di tenerlo al riparo dall’aggressione di un vocabolario e di una scenografia fatti di parole e immagini inquinate dalla rapidità, dall’immediatezza che non lascia il tempo di rivelare, svelare “quello che sta dietro”, lo spessore, la profondità. L’immediatezza di questi anni diventa volgarità quando pensa che per comunicare, per esprimersi (in ogni talento) ci voglia solo lo Choc, l’Urto, l’Impressione e non lascia il tempo per l’Aura, l’Unicità, l’Incanto (W. Benjamin). A questi anni io ho ceduto di me il minimo indispensabile con una sensazione crescente di estraneità, ma ho permesso al mio talento di crescere e svilupparsi. Con il tempo. È il mio unico consiglio. Cosa sta leggendo in questo periodo? E una domanda forse un po’ scontata: cosa fa quando le capita tra le mani un libro che non le piace? Va fino in fondo, o, come vorrebbe Pennac, si avvale della libertà del lettore d’interrompere la lettura? Ah... ah... grande Pennac! Ho appena finito di leggere Furore di Steinbeck. Una riedizione integrale con una bellissima traduzione di Sergio Claudio Perroni che rianima il romanzo. La parola è tutto. D’altronde, come diceva Carmelo Bene, «Questa collina mi è sempre piaciuta» non è la stessa cosa di «Sempre caro mi fu quest’ermo colle»! SUL

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Mauro Corona,

La voce degli uomini freddi di Daniele Duso

premio campiello Che storia racconta La voce degli uomini freddi, edito da Mondadori e finalista al premio Campiello? Questo libro è la storia dei miei paesani uccisi dal cinismo del Vajont. La storia di un popolo, quello dei paesi di Erto e Casso. Un popolo tranquillo, forse non felice, perché nella fatica e nelle tribolazioni è difficile essere felici, ma sicuramente sereno. Un giorno sono venuti qui, gli hanno confiscato tutto, gli hanno rubato la terra, li hanno cacciati via, hanno fatto la diga, gli hanno rubato l’acqua, li hanno uccisi. Ecco, in questo romanzo cerco di raccontare tutto questo toccando anche temi attuali, come la privatizzazione dell’acqua, la prevaricazione sulla gente. Alla fine chi li ha uccisi se n’è andato impunito. All’interno c’è la metafora del sogno, del mito della città, il tema della ricchezza legato a quello del tradimento. Da chi viene tradita infatti, la montagna, se non dal montanaro stesso! Se oggi si guarda in giro, tra le Dolomiti, dove i vecchi montanari avevano le mucche adesso hanno la Ferrari parcheggiata nella stalla. Anche in questo romanzo chi ha tradito la sua gente è stato uno che è partito dal paese, è andato in città, ha fatto i soldi e poi la montagna, cinico e spietato com’è, l’ha tradita lui. La voce degli uomini freddi esplora le ostilità che la natura presenta a persone che vivono nelle alture sempre innevate, ma, come abbiamo imparato nei suoi romanzi, le situazioni più difficili rafforzano, affinano le abilità degli umani, rendendoli versatili e umili. Le iniziali ostilità divengono ricchezze interiori, opportunità di miglioramento. Vero? 8

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La natura è sempre nemica. Ma non perché è cattiva, ma perché fa il suo corso. Si stiracchia, sbadiglia, spazza via. Noi tendiamo a umanizzare le cose e gli animali, è qui il problema. Allo stesso modo la montagna, non è scuola di vita: se uno è un farabutto, un cinico, non è che scalando l’Everest tutte le mattine può redimersi. La montagna è così, siccome è grande e potente, quando si scatena può uccidere. Quando nevica, ad esempio, rischi di vederti seppellito di neve, di morire congelato, ma nel complesso siamo noi che, con la montagna, tendiamo a fare errori di sopravvalutazione, di vanità, di orgoglio e di presunzione. Le ostilità ci rafforzano, certo, ma questo non significa che si debba forzare la mano con la natura. Io ho scalato tutta la vita, ma ho più rinunce che vittorie. C’è solo un aspetto, ed è che nessuno scrive delle proprie rinunce, pochi ne raccontano, per questo pochi sanno che la vita è fatta in gran parte di rinunce. A una prima lettura, il solco letterario e visivo di Mario Rigoni Stern ha influenzato la sua scrittura e le sue storie, eppure, con la lente d’ingrandimento più attenta, lei ha fatto un passo ulteriore nell’ultimo suo romanzo: la malinconia diventa fiducia, la magia della natura si trasforma in magia del saper vivere per costruire un futuro migliore nella propria comunità. Elementi presenti anche in Rigoni Stern, ma che lei sembra avere deciso di ribadire, di sottolineare. Eh, lei vuol parlare del mare… Parlare di Mario Rigoni Stern è come parlare del mare, sarebbe un discorso troppo lungo, come parlassimo di Joseph Conrad, Herman Melville, Francisco Coloane, Omero. Ma siamo così diversi, Mario Rigoni Stern speciale premio campiello 2014


è uno scrittore dolce e sottile, mentre io rimango impulsivo, a volte arrogante e acuminato, perciò non so quanto in realtà si veda nel mio stile questo solco letterario. Ecco, a proposito di influenze, le dico una cosa: quando Macedonio Fernandez, che fu maestro di Jorge Luis Borges, venne accusato di plagio da amici/nemici disse: «Sentite, ma cosa volete da me? Non lo sapete che il mondo, la vita, sono un continuo ripetersi, per cui non è il secondo autore che si macchia di plagio, bensì il primo, e da lì non si esce». Allora o smettiamo di fare tutto, anche l’amore, oppure ci si rende conto che si maneggia sempre la stessa materia. Forse in questo posso permettermi di vedere una vicinanza con il mio amico Mario Rigoni Stern, nel fatto che maneggio una materia simile. Ma per il resto credo di essere semplicemente molto diverso da lui, e non mi interessano questi paragoni. Io so che non scrivo buoni libri, però ne vendo molti, e questa per me è già una buona cosa. Un giorno, e cito ancora Macedonio Fernandez, parlando di uno dei suoi libri disse a Borges: «Questo libro non ha successo», rispose Borges: «Lo so, non è un buono libro», e Fernandez: «So che non è un buono libro, perché un libro che non ha successo non può definirsi un buon libro». Per cui io so che non scrivo buoni libri, ma non mi interessa passare alla storia della Letteratura, anche perché mi interessa di più la Geografia. Eppure lei è uno che vende molto. Ha venduto milioni di libri. Dunque lei fa anche dei buoni libri. Ho venduto più di tre milioni di copie, e questo per me è già un traguardo molto gratificante, il resto non mi interessa. Io sono uno che ha fatto anche dei libri, forse morirò scrivendo libri, ma chi lo sa? Per il resto mi attengo solo ai fatti, i giudizi li lascio agli altri. Anche per il Campiello sarà così. A proposito di difficoltà poste dalla natura e capacità, o incapacità, di costruire un futuro migliore, lei che ha vissuto da vicino lo scandalo del Vajont, causato da uomini crudeli che hanno messo il profitto davanti a tutto, che ne pensa della questione emersa nelle scorse settimana a proposito del Mose di Venezia? Sa cosa penso? Che l’ironia del Mose (ma potremmo dire lo stesso anche dell’Expo, della Tav) è che non conta nulla. Il Mose non serve a nulla. Come si può pensare di circoscrivere e contenere il mare con 300 metri di paratoie? Si sono spesi cinque miliardi e rotti di euro, forse di più, ma solo perché in molti avevano capito che c’era da mangiarci attorno. Perché l’uomo è una carogna, io l’ho definito il feroce idiota. Se fosse feroce e intelligente potrebbe anche essere un bene, ma quando ci trospeciale premio campiello 2014

viamo circondati e governati da feroci idioti, Dio ci salvi! Mi chiedo, possibile che ora siano tutti puliti? Fin dai tempi di Mani Pulite è così, e sono sempre gli stessi, e sempre tutti si dicono puliti e innocenti. Ma non credo che in Magistratura ci siano dei cretini. Mi viene il ribrezzo! Come se ne potrebbe venir fuori, secondo lei? Credo che non ci sia soluzione se non con la creazione di un uomo nuovo. Nel senso che devono essere le mamme e i papà a crescere dei figli senza ambizioni e senza certi sogni fasulli. Se uno guarda una partita in Tv e grida “sporco negro” a Balotelli quando gioca, il bambino crescerà con l’idea, fasulla, che i negri sono sporchi. Quando il bambino sente il papà che aspira all’automobile da 50mila euro non potrà far altro che crescere con questo bisogno di orpelli e farà di tutto per averli. E quando non ci riuscirà con la lealtà ci proverà con la disonestà. Bisogna rendersi conto che la vita è come scolpire, bisogna togliere per vedere. Non servono vestiti firmati, ma serve solo senso di responsabilità, prima di tutto nei confronti dei propri figli. Tornando al romanzo. Gli uomini chinavano la testa, per non vedere, una forma di ubbidienza verso la natura, per comprenderla, affrontarla e carpirne l’essenza. Sembra emergere nel suo romanzo un panteismo assai lucido dal punto di vista spirituale, è così? Certo, tutta la montagna è permeata di questo panteismo, di questa sacralità dei boschi. Questo mi tiene in piedi, non certo scalare le pareti. Fino SUL

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a qualche anno fa i montanari avevano una grande fede nella natura. Era tutto sacro, facevano un innesto in una pianta e chiamavano un bambino che tenesse le mani strette sulla pianta perché dicevano che avesse la febbre, nasceva un vitellino e si mettevano a pregare, accendevano la candela, ringraziavano il bosco che dava la foglia per lo strame. C’era poesia, mentre adesso invece siamo diventati freddi. Adesso siamo diventati le salviette dei nuovi faraoni, che ci hanno reso eroinomani di petrolio e di oggetti, mentre loro si soffiano il naso con noi e ci buttano via. Ora manca la sacralità. Come diceva Fëdor Dostoevskij, senza Dio tutto è possibile. Come si può rimanere in equilibrio nella società senza rischiare di apparire estremi? Penso a me. Io sono diventato un personaggio, anche estremo, perché ho capito forse prima di tutti il meccanismo del personaggio. C’è gente che scrive molto molto meglio di me, ma non riesce a vendere. Io ho capito che l’umanità ha bisogno di personaggi, delle povere figure, anche ridicole. Io mi sono creato questo personaggio, a volte un po’ idiota, ma perché questo mi ha permesso di vendere milioni di copie. Capito questo, sono andato in televisione a fare il pagliaccio. I libri però, posso garantirlo, li ho scritti con il cuore e con l’anima. Senza sapere che fine potessero fare. Ci metto la mia vita, fatta di dolore, morte, fatica, patimenti, sentimenti. Bisogna essere intelligenti, sapersi distaccare da una società per la quale l’uomo intelligente non è quello che legge libri, ma quello che fa soldi. Cerco di stare fuori da tutto questo. Mi prendo i miei tempi. Sono sceso ieri da una baita che nessuno sa dov’è. Vado a fare le presentazioni, perché a volte la gente ha bisogno anche di sapere con chi ha a che fare, che faccia ha quello che ha scritto il libro, ma poi mi so ritirare come una risacca, sono una risacca di me stesso. Ma non credo che continuerò molto a cavalcare l’onda di questo sistema. Ormai mi sto saturando di uscite e di presenze, io voglio solo tornarmene nel bosco. È un po’ come in montagna, è difficile rinunciare, perché rinunciare è un atto di umiltà, però io ho chiaro in mente cosa voglio, perché il mio corpo sente cosa va bene. Dopo le partecipazioni al premio Bancarella e al premio Rigoni Stern, che lei ha vinto, ora si avvicina la finale del Premio Cam-

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piello 2014, come si sta preparando a questa serata? I premi fanno bene, ma sono come l’aspirina. Sono fiero di aver vinto il premio Rigoni Stern, ma non è che uno deve darsi alla testa perché vi partecipa. Io continuerei a scrivere lo stesso. Certo, mi fa piacere pensare che ci sarò. Fa piacere soprattutto a uno come me, che viene dalle selve, che ha avuto la vita che ho avuto io, con problemi che vanno da genitori assenti e picchiatori a quelli legati all’alcolismo e che ha terminato solo la terza media; ho letto solo due camion a rimorchio di libri. Insomma, per me è un riscatto. Per me è un premio già essere arrivato qui, ma sia chiaro che io non sono un decoubertiniano, se si può vincere fa più piacere, ma non ho grandi aspettative. Io non sono uno scrittore, io sono un racconta storie. Non sono un intellettuale, ma uno che ha fatto tante esperienze. Ho lavorato nelle cave di marmo, ho fatto il manovale, il muratore, il bracconiere. Esco da un’esperienza che ormai anche il solo pensare che arrivo al Campiello mi fa piacere. Ma se non mi ci fossi trovato non mi sarei sparato, avrei comunque continuato a scrivere e a fare la mia vita, perché scrivere mi aiuta solo a una cosa: a non spararmi.

Mauro Corona Nato a Balsega di Piné nel 1950, oltre ad essere scrittore, è alpinista e scultore. Ha esordito nel 1997 con Il volo della martora (Vivalda Editori) e, nel 2011, si è aggiudicato il Premio Bancarella con La fine del mondo storto (Mondadori). Tra le pubblicazioni più recenti, ricordiamo La casa dei sette ponti (Feltrinelli, 2012), Confessioni ultime (Chiarelettere, 2013) e Guida poco che devi bere (Mondadori, 2013). Il suo ultimo romanzo, La voce degli uomini freddi, edito sempre da Mondadori, ha già vinto il Premio Mario Rigoni Stern, nella sezione dedicata alla narrativa.

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«Il peccato: inventato dagli uomini per meritare la pena di vivere, per non essere castigati senza perché».

Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, Sellerio. Premio Campiello, 1981.


Giorgio Falco,

La gemella H

di Gerardo Perrotta Foto di Sabrina Ragucci.

premio campiello La gemella H (edito da Einaudi) è la storia della famiglia Hinner raccontata attraverso i ricordi di Hilde, la gemella del titolo. Quanto può essere doloroso il recupero della propria memoria familiare? La memoria familiare è talmente dolorosa – e spesso così poco affidabile – che Hilde Hinner (la voce narrante principale, non l’unica) cede la parola anche agli altri personaggi: l’io di Hilde subisce naturali slittamenti di senso, diventa quello della sua gemella Helga o addirittura un noi, a volte un noi indefinito che sembra provenire dall’esterno, come se fosse il rimbombo di un altoparlante appeso al ramo di un albero. Hilde ha un rapporto ambiguo con la propria origine familiare e con l’origine dell’arricchimento economico della sua famiglia. Questa ambiguità influenza necessariamente anche la sua visione, la narrazione. «Ogni famiglia rinchiude il passato dentro frasi significative» è una delle frasi di Hilde con cui si apre il viaggio nella sua memoria. Molti critici hanno citato Thomas Mann e I Buddenbrook: decadenza di una famiglia, ma ritornano in mente anche i giochi linguistici della Recherche di Proust o di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Possiamo dire che La gemella H rappresenta una sintesi tra le grandi narrazioni delle famiglie borghesi e quelli che si potrebbero definire come tentativi di genealogia dell’io, a partire dalla consapevolezza della propria fine?

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La gemella H è una saga familiare sui generis. Hans e Helga accettano il tempo, ne hanno una concezione lineare. Ma Hilde è la voce narrante prevalente ed è solo Hilde che cerca di dare alla propria esistenza un valore davvero conoscitivo, qualcosa di più del semplice immergersi nel flusso degli eventi storici per trovare il proprio rifugio dal mondo. Hilde non riesce ad allontanarsi dalla famiglia, si sacrifica proprio per seguire, da dentro, la vita, e farne un’opera d’arte. Questa piccola tana esistenziale è il tempo stesso trasfigurato, che Hilde trasforma nella propria partitura, ed è la musica del romanzo, il presente continuo. La gemella H è, tra le tante cose, anche la coesistenza di queste due concezioni del tempo. È l’insistenza della vita. Il perpetuarsi quasi ottuso – ma così necessario – dell’esistenza: «La vita sopravvive all’amore che passa, la vita vince». Ed è l’abbattimento di ogni illusione di spazio e tempo, l’abbandonarsi all’arte, come fa Hilde. La gemella H può essere Hilde, l’artista, ma è altrettanto plausibile che possa essere Helga, colei che ha scelto la vita. Volevo raggiungere l’impossibilità a sciogliere questo nodo dopo più di 350 pagine. C’è un avverbio che ritorna spesso in tutto il libro: “prima”. Damnatio memoriae o volontà di ricordare per assecondare un senso di liberazione? Dentro “prima” c’è sia la volontà di ricordare, sia la voglia di dimenticare, il prima indicibile, quel che il resto della famiglia vuole dimenticare. E tuttavia il prima è anche la discrepanza tra la nascita di Helga

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e quella di Hilde. «Ho centottanta secondi di solitudine», dice Hilde. Il prima è il momento in cui Hilde indugia dentro sua madre ed è il momento grazie al quale diviene narratrice anche di ciò a cui non ha assistito direttamente. È un’esitazione decisiva, sorgiva. Centottanta secondi sono tre minuti, ovvero la durata media di una canzone, la durata – in molti processi produttivi del terziario – di ciò che è produttivo per un’azienda e di ciò che non lo è più. Secondo Andrea Cortellessa, lei ha avuto il merito e «il coraggio di far proprio il punto di vista della Zona Grigia» (il riferimento esplicito è a Primo Levi). Si riconosce in questo giudizio critico? Sì, mi riconosco nel giudizio critico di Cortellessa. Mi interessa molto la “zona grigia”: è inevitabile la dinamica relazionale tra chi comanda – i quadri direttivi – e chi ubbidisce. Smarcarsi da tutto ciò sarebbe la rivoluzione: fatta non tanto da parte di chi subisce l’ordine, quanto di chi lo impartisce. Ma i primi a non essere pronti alla novità sarebbero proprio coloro che subiscono. La gemella H, più che il nazifascismo, racconta l’epica dei minori, e come certe dinamiche vengano riproposte dagli esseri umani in ambiti familiari o lavorativi. Del resto, già quando noi diciamo “mondo del lavoro”, stiamo assecondando l’idea che possa accadere anche qualcosa di terribile là dentro, in quanto, appunto, è un’enclave: ma il “mondo del lavoro” è pur sempre la vita. Hans Hinner, il padre delle gemelle, non è certo un criminale di guerra, non uccide nessuno, non si può nemmeno dire che aderisca al nazismo per una reale adesione ideologica (e forse sarebbe meno sgradevole se così fosse); è un piccolo opportunista, che usa il nazismo come scorciatoia per raggiungere il benessere. Quanti Hans Hinner esistono oggi incolonnati sulle tangenziali, in coda al check in degli aeroporti, disposti a compiere piccole atrocità quotidiane, pur di farcela? «La classe ibrida dei prigionieri-funzionari», direbbe Primo Levi. Anche i personaggi degli altri miei libri sono sempre immersi in ciò che Emanuele Trevi ha definito «orrore a bassa intensità». Piccole infamie quotidiane, che ci infliggiamo a vicenda, spesso senza nemmeno rendercene conto, così invisibili da passare del tutto inosservate. Non a caso una delle scene più significative e a bassa intensità del libro avviene nell’estate del 1951, durante uno spensieratissimo pomeriggio balneare, tra la totale inconsapevolezza dei turisti. La narrazione si svolge, salvo brevi passaggi, al presente. Perché questa scelta? È un modo per sostenere che nello sforzo della memoria il “prima” e il “dopo” diventano “ora”, o c’è dell’altro?

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La gemella H è scritto quasi tutto al tempo presente, a eccezione del refrain iniziale fiabesco («Noi mangiavamo le mele solo nello strudel, prima»). Ho voluto smarcarmi dal modo abituale con cui intendiamo la memoria. L’ho sradicata dal passato e innestata dentro un presente che non passa mai, che non ha mai la forza di diventare davvero soltanto passato, e questo presente asfissiante mostra in tal modo i suoi recessi. Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2014? Forse, dopo diciassette anni, andrò dal parrucchiere. Ma non credo.

Giorgio Falco Nato nel 1967, ha esordito nel 2004 con la raccolta di racconti Pausa caffè, edita da Sironi. Dopo aver pubblicato racconti per «Il Manifesto», «La Repubblica» e «Nuovi Argomenti», scrive il suo primo romanzo, La compagnia del corpo, edito, nel 2011, da Duepunti edizioni, e seguito, nel 2014, da La gemella H, già vincitore del Premio Mondello Opera Italiana e de Lo Straniero, oltre ad essere finalista al Premio Alassio, Premio Comisso e Premio Volponi.

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Giorgio Fontana,

Morte di un uomo felice di Morgan Palmas

premio campiello Morte di un uomo felice, pubblicato da Sellerio, tratta anche la storia di una vittima del terrorismo. Da che cosa è nata questa scelta? Quali sono state le categorie di concetti che hanno animato la direzione durante la stesura del romanzo?

scrisse nel suo celebre Una teoria della giustizia: «Poiché la verità e la giustizia sono le virtù principali delle attività umane, esse non possono essere soggette a compromessi». Come si rapporta il magistrato Giacomo Colnaghi con tale assunto?

Spiegare come nasce una storia è davvero difficile, per me: non c’è una “scelta” precisa o un momento identificabile. Ma posso metterla così: appena chiuso Per legge superiore – con cui Morte di un uomo felice forma un dittico – sapevo che avrei voluto raccontare qualcos’altro ancora di Giacomo Colnaghi. In quel romanzo Colnaghi appare come personaggio minore dal punto di vista puramente narrativo, ma centrale dal punto di vista emotivo e ideale. E dunque mi ci sono buttato a capofitto: era una storia delicata e appassionante, inscritta a sua volta in un momento doloroso e complesso della storia italiana. Di certo non un tema facile da raccontare; così come non è stato facile costruire tutto il rapporto fra Giacomo e il padre partigiano Ernesto – il loro dialogo a distanza, che ritengo il cuore pulsante di tutto il libro. Quindi ho studiato come un pazzo, molto semplicemente; e ho cercato di dare il massimo, non accontentandomi mai. E come sempre accade, è stato durante le varie stesure che ho preso maggiore coscienza dei miei personaggi e delle urgenze che li attraversavano.

La frase del grande John Rawls troverebbe interamente d’accordo Colnaghi; purtroppo nelle cose umane i compromessi sembrano all’ordine del giorno. Più nel dettaglio, credo che la visione della giustizia di Colnaghi abbia una forte connotazione idealistica. A differenza del collega Roberto Doni, protagonista del romanzo precedente, ritiene che la giustizia non si riduca all’amministrazione e interpretazione (per quanto onesta e cristallina) delle leggi: crede che senza un margine di dubbio, di pietà e di interrogazione etica si rischi sempre di abusarne. Non è certo una posizione semplice da difendere, del resto: e anche il suo motto – «Eccezioni sempre, errori mai» – si può prestare a numerosi fraintendimenti. Comunque, filosofo per filosofo, credo che Colnaghi apprezzerebbe ancora di più questo invito di sant’Agostino: «Adempi, o giudice cristiano, il dovere di un padre amorevole; sdegnati contro l’iniquità in modo però da non dimenticare l’umanità: non sfogare la voluttà della vendetta contro le atrocità dei peccatori, ma rivolgi la volontà a curarne le ferite».

La giustizia torna come tema nei suoi romanzi, o meglio, il senso della giustizia. John Rawls, importante filosofo americano,

L’EXPO sta portando molta attenzione verso l’area nord-ovest di Milano, mentre lei,

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nel suo romanzo, si concentra in particolare nel nord-est della città meneghina. Storie lontane nel tempo quelle della criminalità brigatista e dei colletti bianchi contemporanei, intravede qualche filo rosso su cui forse i media, non la magistratura, indugiano ancora ad indagare? Davvero non so cosa rispondere, nel senso che non ho alcuna conoscenza di fatti o “fili rossi”, e non sono uno storico. Credo anzi che uno scrittore si debba limitare a raccontare delle storie – le proprie storie. Non mi piace l’opinionismo facile; quando non so, preferisco tacere. La caratterizzazione dei personaggi passa, nella sua storia, attraverso tanti piccoli gesti. La sua curiosità verso il particolare ha motivazioni precise? La descrizione è la parte della scrittura che mi piace di più, o almeno quella dove mi trovo più a mio agio (a differenza, ad esempio, della stesura dei dialoghi). Amo far emergere la personalità attraverso i gesti e i dettagli; e ancora di più amo trattare gli spazi come personaggi a loro volta. In questo romanzo come nel precedente ho provato a rendere Milano proprio con un lento accumulo di particolari; cerco sempre di scovarne di nuovi, di inediti, di meno scontati: così come cerco di lavorare sui cinque sensi invece che sul solo campo visivo. Lo stesso per i personaggi; sebbene non abbia dogmi “minimalisti” – mi piace anche entrare nella loro testa, o descriverne una sensazione – preferisco farli emergere con una lenta somma di dettagli, persino di minuzie. È un po’ come scolpire un bassorilievo. Dunque volevano vendetta. Difficile non rimanere coinvolti dalla primissima parte dell’incipit. Spiegherebbe ai nostri lettori come mai questa scelta e come le è venuta l’idea? Gran parte del romanzo ruota attorno alla contrapposizione tra vendetta e giustizia: ma come dicevo parlando dell’atto di nascita di una storia, non è semplice spiegare come salti fuori un incipit, come “venga un’idea”. In tutta franchezza credo sia impossibile, almeno per me: non esistono trucchi o ricette del mestiere, qui si va per illuminazioni e tentativi. Nel caso di Morte di un uomo felice sono stato fortunato: il primo incipit – «Dunque volevano vendetta» – è rimasto tale e quale attraverso le successive stesure. Mi sembrava, e mi sembra tuttora, un buon inizio: volevo aprire il romanzo con una frase breve e incisiva, e così è stato.

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Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2014? Quanto a mondanità valgo zero. Davvero, zero assoluto: sono un tipo da birra Moretti con amici intimi. Quindi diciamo che non mi sto preparando in nessun modo; cerco solo di restare sereno. Sarà senz’altro una serata molto emozionante: non avendo aspettative particolari (la mia testa si è fermata all’ingresso in cinquina), mi auguro semplicemente di divertirmi.

Giorgio Fontana Nato a Saronno nel 1981, esordisce nel 2007 con Buoni propositi per l’anno nuovo (Mondadori), cui seguono, tra gli altri, Babele 56. Otto fermate nella città che cambia (Terre di Mezzo, 2008), finalista al Premio Tondelli, e La velocità del buio, edito da Zona, nel 2011. Nello stesso anno, pubblica con Sellerio Per legge superiore, che si aggiudica il Premio Racalmare – Leonardo Sciascia 2012, il Premio Lo Straniero 2012 e la XXVI edizione del Premio Chianti.

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Fausta Garavini,

Le vite di Monsù Desiderio di Morgan Palmas

premio campiello Ne Le vite di Monsù Desiderio (edito da Bompiani) ricostruisce la biografia di François de Nomé, non attraverso il ricorso a fonti storiche, tra l’altro molto scarne, ma basandosi sull’analisi stilistica delle sue opere. Lo stile di un artista può dire qualcosa della sua vita? Certo, lo stile e soprattutto i soggetti possono dire qualcosa, anzi molto, soprattutto della vita interiore di un artista, e quindi un po’ anche della sua biografia. Materia dell’invenzione artistica è sempre ciò che si vive, non solo il reale ma anche i sogni, i fantasmi, tutto ciò che si elabora nell’immaginazione a partire da quello che si vive nella realtà. L’arte autentica sta nell’ibridazione fra l’esperienza dell’artista e la sua interpretazione simbolica. Nel caso di François de Nomé, le sue rappresentazioni di catastrofi, di architetture crollanti, sono forse un riflesso dello spettacolo che potevano dare in quegli anni le città dove lui ha vissuto, Roma e Napoli: trasformate in cantieri permanenti, sospese fra ciò che non è più e ciò che non è ancora, fra vestigia classiche devastate, monumenti gotici in via di ammodernamenti controriformistici, demolizioni per la costruzione di nuove fabbriche religiose. Ma queste immagini, che probabilmente rispecchiano una realtà, dicono che tutto è creato per essere distrutto, significano il dramma della condizione umana, parlano dell’inconsistenza delle pretese umane a durare, dell’eternizzazione rovinosa della storia dove non c’è misericordia né perdono. Quindi rivelano qualcosa della sua personalità, della sua visione del mondo.

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Nella pagine iniziali del romanzo, parlando dell’arte di François de Nomé si chiede «Quale maledizione spreme quel pennello?». Se dovesse dare una risposta? A partire dai suoi quadri, ho immaginato un temperamento saturnino, sensibile, incline alla malinconia e all’introversione, aspetti che vengono alimentati dalle esperienze che attraversa: un’infanzia difficile, e poi, a Roma e a Napoli, non solo le distruzioni, ma la consapevolezza del malgoverno pontificio e spagnolo, delle differenze sociali, del pervertimento dei costumi, e al tempo stesso dei fermenti magico-religiosi che sono nell’aria, delle ricerche di scienziati e filosofi che indagano i segreti della natura, s’interrogano sul destino umano. Le teorie di Bruno, di Campanella o di Della Porta filtrano dai circoli ristretti degli adepti e lasciano nell’aria scie di misteriosi vaticini. In questi fermenti François de Nomé cerca una risposta alla sua inquietudine, alla maledizione di non saper accettare la vita, di sentirsi straniero nel mondo. Il nome di Monsù Desiderio rimanda a François de Nomé e a Didier Barra, spesso confusi tra loro, in un intreccio che, forse, contribuisce a far perdere le tracce del de Nomé. Raccontare la storia di queste vite nell’epoca dei social network e della costruzione di identità virtuali può essere un paradosso? Oppure, è un modo per mostrare le difficoltà del recupero della propria biografia?

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Ricostruire impulsi e pensieri di uomini e donne vissuti in altri tempi era un paradosso anche prima dei social network, o piuttosto una scommessa. Ma questo lo sappiamo. La frase di Hartley «Il passato è un paese straniero dove le cose si fanno in un altro modo» è diventata proverbiale. Tuttavia ritengo che la scommessa si possa vincere: come diceva Anna Banti, congetturare sulla vita e la psicologia di persone del passato è «la chiave più sicura a intendere le leggi di una costante umana, riscontrabile in ogni tempo e in ogni paese». Non credo che i social network modifichino l’essere umano nel profondo. Del resto è una scommessa anche la ricostruzione della propria biografia: non possiamo ritrovare esattamente le cose che abbiamo vissuto, né il modo in cui le abbiamo vissute, e anche il nostro ricordo cambia a seconda dei momenti in cui lo rievochiamo. Sono questioni a cui penso da sempre e che intessono i miei romanzi, come Diletta Costanza (1996), In nome dell’Imperatore (2008), Diario delle solitudini (2011). Nel 2012, è stata pubblicata, sempre da Bompiani e con la sua curatela, una nuova edizione riveduta dei Saggi di Michel de Montaigne. Perché, ancora oggi, la lettura di Montaigne dona una sensazione di stringente attualità? Siamo noi a non essere cambiati, oppure la maledizione della storia è quella di ripetersi sempre?

spiriti grandi ci danno la sensazione di una stringente attualità. Nel caso di Montaigne c’è il fatto che tratta argomenti scottanti, che all’epoca erano tabù, con una mentalità molto moderna: per esempio i roghi delle streghe, delle quali dice che sono donne malate che andrebbero curate e non bruciate; la relatività delle culture, quando sostiene con esempi che gli usi di alcuni popoli lontani e primitivi sono più ragionevoli dei nostri. Ma soprattutto Montaigne, con alcuni secoli di anticipo sulle ricerche della psicologia, sperimenta come la personalità sia un aggregato provvisorio, incomprensibile e affascinante, di soggetti istantanei, un mosaico di io che variano secondo le contingenze e le occasioni del discorso. C’è in lui un’assoluta sfiducia nell’identità personale come qualcosa di fisso. La sua è una scrittura della soggettività che non tende alla coagulazione dell’io, ma alla sperimentazione delle reazioni dell’io. Montaigne “si saggia”, si mette alla prova (questo è il senso del titolo): quando racconta un aneddoto relativo a un personaggio storico o un fatto accaduto a qualcuno di sua conoscenza, lo fa per mettersi nei panni altrui, immaginandosi in situazioni diverse, chiedendosi implicitamente: “che cosa farei io, Michel de Montaigne, in circostanze analoghe?”; per cercar di vivere, attraverso gli altri, tutte le esperienze che non può vivere personalmente, per allargare la propria limitata esistenza reale nelle direzioni infinite delle esistenze possibili.

Torniamo sempre al punto: l’uomo non cambia e la storia si ripete. Ma solo gli scritti di alcuni

Dalla sua posizione di Professore Ordinario di Lingua e Letteratura francese ha avuto

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la possibilità di osservare l’evolversi della cultura umanistica nel mondo accademico italiano. Può dirci una sua impressione al riguardo? Ha notato qualche cambiamento in particolare? Penso purtroppo che ci sia un degrado generale della cultura umanistica, che non può sussistere senza una conoscenza delle nostre origini, ossia della civiltà greca e latina di cui si erano nutrite finora le letterature europee. Il grande cambiamento nelle nostre università è avvenuto nel 1969, con la legge Ferrari-Aggradi, che ha aperto le porte di tutte le facoltà agli studenti provenienti da qualsiasi istituto quinquennale di istruzione secondaria. Prima di quella legge, entravano nelle Facoltà di Lettere solo gli studenti provenienti dal liceo classico, che avevano la formazione necessaria: greco, latino, letteratura, filosofia. Era un sistema elitario e non poteva rimanere tale, ma il cambiamento è stato gestito in maniera demenziale, o meglio non è stato gestito affatto. A partire dal 1969, geometri, ragionieri, periti industriali eccetera, cioè studenti che non si erano mai avvicinati alla cultura umanistica, sono stati ammessi nelle Facoltà di Lettere, senza che si creasse qualche passerella per aiutarli a entrare in un mondo che non era loro familiare. È impossibile leggere i Saggi di Montagne per qualcuno che non sa chi sia Plutarco, che cosa significhi pirronismo, insomma che ignori tutto della cultura classica di cui i Saggi sono imbevuti. Ma è impossibile anche leggere Proust o Valéry, per restare nell’ambito della letteratura francese. Il livello dei

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corsi universitari si è abbassato inevitabilmente, e le successive riforme hanno fatto il resto, adeguando il nostro sistema a criteri di mediocrità. Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2014? Prepararmi come? Andare dal parrucchiere, comprarmi un vestito nuovo? Probabilmente dovrò farlo, non ho un guardaroba adatto... Per il resto, sono solo curiosa di vedere come andrà a finire.

Fausta Garavini Nata a Bologna nel 1938, è stata docente di Letteratura francese presso l’Università di Firenze. Con il saggio Parigi e provincia: scene della letteratura francese (Bollati Boringhieri, 1990) si è aggiudicata il Premio Nazionale Letterario Pisa. L’esordio nella narrativa risale al 1979 con il romanzo Gli occhi dei pavoni, edito da Vallecchi e vincitore del Premio Mondello per la migliore opera prima. Ha pubblicato anche Diletta Costanza (Marsilio, 1996), In nome dell’imperatore (Cierre, 2008) e Storie di donne (Bompiani, 2012).

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«Perché ognuno è l'ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi».

Primo Levi, Se non ora, quando?, Einaudi. Premio Campiello, 1982.


Michele Mari,

Roderick Duddle di Morgan Palmas

premio campiello Roderick Duddle, edito da Einaudi, si caratterizza per un uso sapiente dell’ironia nel raccontare una vicenda di grande drammaticità. Ritiene che l’ironia possa, ancora oggi, essere la strada giusta per raccontare il dolore senza scadere nel melodramma? Nel caso specifico, sentivo che la vicenda di un orfano perseguitato si esponeva al rischio del sentimentalismo: per questo non mi sono accontentato di conformarmi al pur notevole sadismo di Dickens, e ho ripreso i modi e i toni del romanzo settecentesco (Fielding e Sterne su tutti), affidati prevalentemente alle cerimoniose e insieme velenose apostrofi del narratore al lettore. Senza esagerare però, per non innescare una metanarratività che non è mai stata fra i miei interessi. «Io, io! È meno di niente, io» è una delle frasi con cui, all’inizio del romanzo, si spinge Michele Mari a diventare (o a convincersi di essere) Roderick Duddle. Senza voler parlare della morte dell’io, si può ritenere un gioco di specchi in cui Michele Mari si fa doppiamente personaggio? Con quel breve preambolo, che insieme alla conclusione forma un’ideale cornice, ho voluto rappresentare letteralmente il “rapimento” dell’esperienza romanzesca. Come quando leggevo da ragazzo, anche come autore mi sono dovuto calare interamente fra i personaggi (anzi lasciarmi trascinare da loro al loro livello), perdendo i miei

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privilegi e la mia stessa identità. Nel corso della narrazione, però, la violenza subita si rivela un regalo prezioso, tanto che quando Roderick sogna di essere Michele Mari inorridisce e non vuole più tornare indietro (in quella scena è probabile che io abbia inscenato il dispiacere di essere giunto alla conclusione del libro). Il suo è stato definito un romanzo dickensiano, e Dickens riecheggia fin dalle prime pagine (basti pensare, ad esempio, all’incipit di David Copperfield: «Se io stesso risulterò l’eroe della mia vita, o se questa posizione sarà occupata da qualcun altro, è cosa che dovrà risultare da queste pagine»1). Chi è il vero protagonista di Roderick Duddle? Inizialmente doveva essere lui, Roderick. Dopo qualche decina di pagine, però, ho sentito il bisogno di sdoppiarlo, per disporre al tempo stesso di un suo sostituto e di un suo potenziale avversario: è nato così il personaggio di Michael, con le cui vicende e la cui identità Roderick continuamente si confonde. Ma abbastanza presto è risultato evidente che anche altri personaggi potevano legittimamente ambire al rango di protagonisti: penso in particolare a Jones e a suor Allison (quest’ultima, introdotta come figura marginale, si è ricavata via via uno spazio e un prestigio direttamente proporzionali alla sua intelligenza e alla sua anomalia fisica). 1 Traduzione di Oriana Previtali.

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La sua scrittura è intrisa di amore per la lettura, che, secondo molti, sembra essere diventato meno vigoroso anche tra gli scrittori. Cosa anima questa sua passione per la lettura in generale, e per i classici in particolare? La letteratura mi ha dato quasi tutto, e scrivere è sempre stato per me un modo per rimanere dentro il mondo fantastico che mi ha esaltato o turbato o commosso o semplicemente distratto quando ero un adolescente. In questo senso sono profondamente convinto che la letteratura nasca dalla letteratura, e che abbia senso (e dia piacere) scrivere certe cose proprio perché altri le hanno scritte prima di noi, fornendoci un formulario magico di nomi, di modi, di ritmi, di fantasmi. Essere tradizionalisti e inattuali, in letteratura, non è segno di conservatorismo: semplicemente, come affermò Stevenson, è una forma di regressione. Come professore di Letteratura Italiana presso l’Università Statale di Milano ha molte opportunità di confrontarsi con i giovani. Com’è cambiato, nel corso degli anni, l’approccio allo studio della letteratura? Grazie anche alla sciagurata riforma dell’università, i requisiti richiesti sono sempre più bassi, e dalla scuola secondaria superiore arrivano studenti che hanno un bagaglio di letture sempre più esiguo. Citare Melville o Kafka o Mann come autori che per definizione devono essere stati letti è ormai pressoché impossibile. C’è stato un periodo in cui mi sono illuso di poter ripiegare su citazioni cinematografiche, ma mi sono arreso quando ho scoperto che in aula non c’era nessuno che avesse visto Metropolis o 2001: Odissea nello spazio. Rispondendo alla domanda in modo più tecnico e circostanziato,

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posso dire che un vizio didattico particolarmente diffuso è l’abuso della narratologia, pseudodisciplina che spesso impedisce un approccio sanamente ingenuo e abbandonato al testo. Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2014? Non pensandoci. In quanto uno dei vincitori sono più che appagato: quello che poi avverrà avverrà, sportivamente.

Michele Mari Nato a Milano nel 1955, è professore di Letteratura Italiana presso l’Università Statale di Milano. Il suo esordio nella narrativa risale al 1989 con Di bestia in bestia, edito da Longanesi, seguito, tra gli altri, dalla raccolta di racconti Euridice aveva un cane (Bompiani, 1993) e dai romanzi Verderame e Rosso Floyd, pubblicati entrambi da Einaudi, rispettivamente nel 2007 e nel 2010.

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Stefano Valenti,

La fabbrica del panico di Morgan Palmas

campiello opera prima La fabbrica del panico, pubblicato da Feltrinelli, è dedicato, oltre a suo padre, anche agli operai del reparto aste della Breda fucine, per quale ragione? Mio padre è stato operaio in Breda. Quando sono nato per lui la fabbrica era un ricordo, ma un ricordo indelebile, presente nei suoi quadri, nella pittura praticata con la stessa energia, gli stessi orari, le stesse scarse risorse della fabbrica. Un ricordo che tornava a vivere in occasioni di cene, camminate, durante le quali raccontava con tristezza la gioventù che se n’era andata in fabbrica. Volevo raccontare la sua storia, la storia di un uomo fuggito dalla fabbrica per diventare quello che aveva sempre voluto essere, un pittore. Volevo renderla collettiva, affiancarla a storie di altri uomini segnati come lui dalla fabbrica. Quando ho conosciuto gli operai che hanno fondato il Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio di Sesto San Giovanni ho capito che l’alter ego di mio padre doveva essere Giambattista Tagarelli, operaio al reparto aste della Breda fucine dal 1973 al 1988, co-fondatore del Comitato, ucciso dall’amianto. Il protagonista del romanzo nasce dunque dalla fusione di queste due rappresentative figure della classe operaia. Che cosa ha portato nella storia della sua Valtellina?

no. Perché?» si chiede Thomas Bernhard in Gelo, romanzo d’esordio. La mia Valtellina è un luogo dell’anima che affonda le radici nella narrativa di montagna – nel freddo, nella follia e nel suicidio, nella solitudine. Ho cercato di portarmi dietro il meglio di quella narrativa di cui Bernhard è maestro, e che nella montagna è forgiata: da La passeggiata di Robert Walser a Infelicità senza desideri di Peter Handke. E l’ho portata con me in pianura, dove ha incontrato Tempi stretti di Ottiero Ottieri, Memoriale di Paolo Volponi e La vita agra di Luciano Bianciardi. Ci vuole coraggio a riprendere il tema della fabbrica in un romanzo contemporaneo, il rischio è di essere etichettati per facile propaganda. Entrando nella storia si trovano invece distanze prudenti dalle bandiere politiche, riversando così energie nella modestia del giudizio e nell’intimità dei rapporti. Non sono vicende consolatorie, non vogliono per nulla coccolare il lettore, e allo stesso tempo presentano la realtà, densa e privata. Le interessano i rapporti umani che si instaurano nella fabbrica e nell’indotto emozionale della fabbrica. Perché?

«La gente dice: la montagna confina con il cielo. Non dice mai: la montagna confina con l’infer-

Ho scritto La fabbrica del panico perché sentivo l’esigenza di un racconto che il mercato editoriale non offriva più e per ricostruire la mia storia, la storia della classe operaia, in questi anni negata, censurata. Nel farlo ho cercato di attenermi a uno statuto

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di necessità restituendo la distanza emozionale delle cose vissute. La fabbrica del panico è una dichiarazione di appartenenza, di internità alla classe operaia. Nasce dalla necessità di raccontare un elemento dimenticato della realtà. Dare voce alla classe operaia in un romanzo vuole dire raccontarla dall’interno e non in termini agiografici o astratti. Non era mia intenzione omaggiare la figura di mio padre fuori contesto, ma riconoscere il tributo della classe operaia all’economia di mercato che, fagocitando se stessa, è più che mai forza annichilente di corpi e menti vendute, massacrate in fabbrica o nello sfruttamento clandestino, ultima frontiera di un precariato diffuso che con i suoi sentimenti di incertezza fa ammalare e consuma. La giustizia si interseca con l’amianto. La mancanza di chiarezza in certi rapporti, la mancanza di tempo, la mancanza di sintassi complicate a descrivere le complicazioni della vita dei personaggi, la mancanza di emozioni perse per sempre. Un autore, lei, che sviluppa una certa attenzione verso ciò che manca. Che cosa manca alla giustizia per fare giustizia vera alle morti di amianto? Mio padre è rimasto un anno coricato a causa di un tumore che poi l’ha mandato all’altro mondo. Era ridotto uno scheletro. So bene cos’è la morte naturale e la trovo una cosa tremenda. Infatti chi la subisce, sebbene fatichi a comprendere, è ancora

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attaccato alla vita ed è una cosa tanto spiacevole a vedersi che diventa difficile parlarne. La vita e la morte sono in genere processi del tutto naturali e come tali dovrebbero essere accettati. Ne La fabbrica del panico racconto un processo niente affatto naturale. La morte industriale. Una morte inaccettabile. Fin dal 1974 – sulla base dei rapporti dello Smal (Servizio di medicina preventiva per gli ambienti di lavoro) e delle Usl che facevano controlli nelle fabbriche (alla Breda Fucine in particolare) – era noto che l’amianto fosse nocivo. Lo Smal redigeva rapporti sulle sostanze cancerogene usate nei processi produttivi che consegnava alla direzione aziendale della Breda Fucine, al consiglio di fabbrica, all’assessore alla sanità, all’ufficiale sanitario, all’ispettorato del lavoro, all’assessorato regionale alla sanità, al servizio sanitario aziendale, a Cgil, Cisl, Uil e alla Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici), come riportato in calce al libro Operai carne da macello (reperibile su internet). Ne erano a conoscenza tutti tranne gli operai. In questi anni comitati, associazioni, sindacati di base, hanno organizzato convegni pubblici, attività di informazione e controinformazione rilanciando la pericolosità di molte organizzazioni produttive. Queste iniziative hanno consentito di comprendere come nell’economia di mercato la tutela della produzione, e quindi il conseguimento del massimo profitto economico, abbia anche la massima considerazione a detrimento del benessere di uomini e ambiente. Queste considerazioni dimostrano che la tutela della vita e della salute dei lavoratori non può essere delegata ai tribunali ma deve tornare patrimonio comune.

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Ma lei è un traduttore, perciò la precisione della lingua rappresenta il suo pane quotidiano. Come si è rapportato, scrivendo il romanzo, con la mancanza e la precisione? In altre parole, se, da un lato, ha cercato come uno scultore di togliere per trovare l’essenza, e, dall’altro lato, per deformazione professionale, è stato costretto a cercare la precisione nel periodare, come è riuscito a definire il giusto equilibrio? È necessaria una sintassi concisa per raccontare morte e dolore. Non c’è contraddizione tra mancanza e precisione, concetti conseguenti. Mentre elaboravo La fabbrica del panico traducevo per i Classici Feltrinelli Germinale di Émile Zola, testo fondativo della narrativa sociale, romanzo in cui l’asciuttezza del testo nasce dalla profonda conoscenza del tema trattato, dalla precisione nell’utilizzo dei termini, dalla ricerca. Per prepararmi alla stesura de La fabbrica del panico ho consultato decine di romanzi, di studi critici. Credo che l’equilibrio di un romanzo nasca dalla dedizione al tema. Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2014? Sono molto felice del Premio Campiello Opera Prima, tanto più felice perché credo che con questa decisione la giuria abbia voluto premiare una tendenza nella produzione narrativa italiana: la narrazione sociale – narrativa d’inchiesta o romanzo civile – una forma di narrazione che conferisce nuo-

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vo valore al romanzo e al racconto, un racconto che tenti di colmare il vuoto lasciato dall’informazione giornalistica e dalla narrativa commerciale uniformate al mercato. La narrazione sociale racconta le storie che non hanno voce.

Stefano Valenti Nato nel 1964, è al suo esordio come scrittore. È tra i più affermati traduttori italiani. Tra le opere tradotte ricordiamo Questo non è un Manifesto di Michael Hardt e Antonio Negri (2012) e Invecchiando gli uomini piangono di Jean-Luc Seigle (2013), oltre ai classici Germinale di Émile Zola (2013) e Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne (2014), tutti editi da Feltrinelli.

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La letteratura insegna a varcare i limiti, ma consiste nel tracciare i limiti, senza i quali non può esistere nemmeno la tensione a superarli.

Claudio Magris, vincitore del Premio Fondazione Il Campiello 2014, Utopia e disincanto, 1999 Garzanti.


Mariachiara Boldrini,

Odore di sogni di Sara Minervini

campiello giovani «Amo leggere e scrivere sin da quando ho imparato a farlo. Attualmente frequento il penultimo anno di liceo linguistico e studio francese, inglese e spagnolo. Ho amici di più nazionalità e più culture e da sempre sono attenta ai problemi socio-umanitari. Nel futuro vorrei frequentare scienze politiche e studiare relazioni internazionali e la lingua araba e specializzarmi nel campo del giornalismo». Ecco come si presenta Mariachiara Boldrini, una dei cinque finalisti di questa XIX edizione del Premio Campiello Giovani, con Daniele Comunale, Chiara Di Sante, Deborah Osto e Carmelita Noemi Zappalà. Il suo racconto, Odore di sogni, rielabora in chiave narrativa, una storia vera, quella di Salima, una ragazza saharawi arrivata in Italia per curare un problema di salute e che poi decide di ritornarvi definitivamente «in cerca di un futuro e di se stessa». Attraverso un'originale soluzione stilistica che sceglie di procedere per binari sincronici, le voci congiunte dell’autrice e della protagonista ripercorrono insieme emozioni, incertezze, timori e responsabilità, dell’una in quanto testimone e dell’altra in quanto eroina del proprio destino, decisa a dominarlo piuttosto che a subirlo. Un’opera ammaliante, come l’ha definita la giuria nelle sue motivazioni, pervasa di umori, colori, odori, intrisa di vento, di sabbia, di sogni che non vogliono più essere solo oasi nel deserto ma solidi edifici fatti di autodeterminazione, indipendenza, libertà e rispetto per la propria identità civile e politica anche a costo di pagare un prezzo altissimo.

Un tema per certi versi ingrato, anche per il rischio di cadere in facili stereotipie da cronaca fin troppo quotidiana, e proprio per questo, colpisce, anzi ammalia, il modo accorto, maturo e consapevole in cui Mariachiara lo interpreta, facendo vibrare la pagina di energia, coraggio e tenacia. Le stesse qualità che contraddistinguono la personalità di questa giovanissima donna.

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Mariachiara, così giovane ma con molte idee, e ben precise aggiungerei, per l’avvenire. Una giornalista, specializzata in relazioni internazionali e con uno spiccato impegno in ambito socio-umanitario: sembra un progetto molto ambizioso, vuoi parlarcene? Quando penso a quale facoltà iscrivermi quando uscirò dal liceo, penso a scienze politiche perché mi piacciono la cultura dei popoli, la storia delle nazioni, la geopolitica… ma in realtà più che un progetto il mio è ancora un sogno! Ho diciotto anni, un anno di liceo ancora da frequentare e sicuramente un sacco di cose da scoprire. Per ora mi limito a cercare di capire cosa vorrei fare “da grande”, sicuramente nel futuro mi formerò, maturerò e capirò ancora meglio quali sono i miei interessi. Ho deciso di studiare le lingue per poter comunicare con gli altri, penso che conoscere la diversità sia in tutti i casi un arricchimento e mi entusiasmo quando mi rendo conto che al mondo esiste davvero chi ha il coraggio di raccontare storie che a noi sembrano impensabili, vivendo spesso lontano da casa e magari a volte rischiando la propria vita. Quan-


estratto Odore di sogni di Mariachiara Boldrini Tre seggioline verdi, di plastica, una sopra l’altra. Ne prende una e la mette accanto al divano. I lembi di un foulard verde che ricopre il divano scivolano a terra. «Il mio letto saharawi» dice. Scosta il divano e mi invita a sedermi. «Facciamo un tè, un tè saharawi?» Ha gli occhi profondi come la notte e il viso paffuto ride, incorniciato dai capelli stremati dalla cheratina. «Quando ero piccola avevo i capelli riccissimi, tipo afro – iniziò –. La prima volta che sono arri-

do mi chiedo cosa può spingere tanti giornalisti a fare questo lavoro, mi rispondo che un lavoro del genere lo si può fare solo per passione. Io, nel mio piccolo, amo scrivere… e ho sempre pensato che sia fantastico conciliare la propria più grande passione con il lavoro! Vorrei intraprendere questa professione perché ne ammiro, sin da quando ero piccola, la vocazione per le storie e il costante bisogno di trasmettere notizie soprattutto di chi non ha voce e non è visibile ai più. Non so se sarò in grado di realizzare tutte le mie innumerevoli idee, per ora mi è concesso solo sognare e impegnarmi il più possibile per raggiungere i piccoli traguardi del presente. Torniamo al presente e al racconto che ti è valso la selezione finale per il Campiello Giovani di quest’anno, Odore di sogni. La scintilla, leggo, è scoccata da una storia vera, capace di accendere il fuoco di un’ispirazione potente. Chi è, dunque, Salima e cosa ha rappresentato per te? Salima è un personaggio di fantasia ispirato a una ragazza e amica saharawi che mi ha raccontato la sua storia. L’anno scorso la scuola ci ha proposto di partecipare come volontari a un progetto di accoglienza estiva di un gruppo di bambini che vivono nei campi profughi e questa esperienza mi ha toccato profondamente! Il breve periodo di stage mi ha aperto gli occhi sulla realtà del popolo saharawi: parlare della sofferenza delle persone, dei problemi di popoli che vivono lontani è abbastanza

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vata in Italia me li hanno tagliati corti come a un maschietto. Succede spesso che ai bambini arrivati in Occidente vengano tagliati i capelli, per togliere i pidocchi». Accende un fornellino portatile e vi mette a scaldare una piccola teiera color muschio riempita di acqua, zucchero ed erbe del tè. «Vivevo nella daira di Mabhes nella wilaya di Smara. Le daira sono come le nostre cittadine e le wilaya sono i nostri quartieri. All’interno di ogni daira vi sono più o meno sei wilaya e all’interno di ogni wilaya un ufficio anagrafe e delle zone di amministrazione affidate alle donne. In queste zone di discussione le mamme si ritrovano e decidono l’accoglienza dei bambini negli Stati

facile, tutti riusciamo ad avere compassione tramite un televisore; vedere in prima persona il dolore dei Saharawi e dei tanti ragazzi che sin da bambini emigrano in Italia è stato molto più commovente. Il popolo saharawi è, tutt’oggi, dopo anni di estenuante attesa, un popolo senza terra: fu esiliato dal Sahara occidentale prima dai colonialisti europei e poi dal Marocco e, ancora oggi, a dispetto di come questo tema sia ancora poco conosciuto nel resto del mondo, anche le “piccole pesti” che vivono nei campi profughi e che trascorrono l’estate in Italia sono molto agguerrite sul tema dell’indipendenza e attaccate alle loro tradizioni. Quando ho iniziato a pensare di scrivere qualcosa per il Premio Campiello Giovani, tra le varie storie che avrei voluto raccontare, questa era quella che più mi “pulsava” dentro. Sentivo il bisogno di dare una voce, anche se piccolissima, ai giovani che ho conosciuto e che hanno lasciato la propria famiglia per lottare per il proprio futuro e per la propria nazione, ai bambini che vivono nel deserto algerino e nonostante tutto sorridono e al lavoro dei rappresentati dell’associazione che ci hanno “iniziato al mondo saharawi”. In particolare la maggior parte delle vicende accadute alla mia protagonista sono fatti veri, tasselli nella vita di una ragazza che esiste nel mondo reale. La mia “musa” mi è stata simpatica fin da subito ma io non conoscevo, quando le ho chiesto il permesso di scrivere di lei, i particolari del percorso che ha fatto per arrivare a essere la donna che è oggi. Nella sua storia (quella di una donna, araba e musulmana, che a diciassette anni ha deciso di emigrare, da sola,

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europei durante l’estate. Quando vivi nel deserto il caldo nei mesi estivi è folgorante e le cure degli ospedali da campo sono insufficienti per mantenere un figlio in salute. Poco importava che vent’anni fa nei campi profughi nessuno avesse un cellulare per sentire il figlio in Occidente, una madre è contenta che tu sia scelta per andare via dai campi per qualche mese». Salima prende quattro bicchierini di vetro da una vaschetta del gelato che fa da contenitore, li dispone in fila su una delle seggioline verdi e ne riempie uno con l’acqua che aveva fatto scaldare. «Immaginati di essere in queste grandi scuole improvvisate nei campi profughi e di vedere

arrivare dei volontari europei, che vestono i nostri turbanti per proteggersi dal caldo. Ci sono tantissimi bambini e loro li fotografano tutti, ti schedano, ti chiedono come ti chiami. Il Polisario, il fronte di liberazione che ha creato la Repubblica Saharawi in Algeria, decide chi ha il privilegio di andarsene via qualche mese d’estate. La scelta ricade sempre tra i bambini dai sei ai dieci anni e quell’anno presero tutti i bambini nati nel 1987, più qualche altro bambino con dei gravi problemi di salute. Io fui inserita in un gruppo che aveva il visto per partire per la Spagna. Venne l’accompagnatore a conoscermi, era un ragazzo saharawi alto e magro, che aveva passato qualche anno a Madrid. Le mamme si

in Italia) ho ritrovato la voglia di libertà presente in ogni adolescente come me e il coraggio che ammiro. Mi sono emozionata moltissimo nel conoscere i suoi sentimenti, le sue paure, il suo senso della giustizia e l’immensa devozione per il suo popolo e per una terra che non ha mai visto. Ovviamente il mio racconto non ha la pretesa di essere un testo giornalistico o di raccontare pedissequamente la storia di questa donna, anche perché ho integrato il tutto con altri racconti e ispirazioni tratte da libri, articoli e saggi; è piuttosto l’intento, di una ragazza occidentale, di raccontare la storia, verosimile, di una ragazza africana, musulmana e soprattutto saharawi, che ha avuto il coraggio di scegliere di realizzare i propri sogni.

sotto le stelle, balli ora esotici, ora tribali e abbracci infantili sprigionati da una luce di gioia negli occhi di un bimbo. Sognare mi dà la forza di credere in me stessa e nella possibilità di costruire un futuro nel quale mi possa sentire realizzata.

Che cos’è un sogno per te? Quale odore particolare ha il tuo sogno? Considerato che sono una sognatrice nata, la risposta a questa domanda in realtà è infinita. I sogni per me sono desideri fortissimi e spesso anche surreali. Ciò che secondo me è davvero importante non è solo non smettere mai di cercare la forza per tentare di realizzarli, ma soprattutto avere sempre speranza e leggerezza d’animo per immaginarne altri quando quelli irrealizzabili si infrangono! I miei odorano di brezze leggere di venti primaverili che annegano la pelle in un mano soave, essenze africane di terra risvegliata da tramonti rossi, ricordi orientali di spezie che popolano mercati di strada, racconti di melodie ancestrali cantilenate dal mare, odore di legna, umido e notti in un bivacco

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Leggi e scrivi da quando hai imparato a farlo. Ricordi qual è stato il primo libro che hai letto e la prima cosa che hai scritto, in assoluto? Ho imparato a leggere mentre mia madre mi leggeva Pinocchio e Cipì di Rodari ma, tralasciando questo, il primo “vero libro” che ho letto completamente da sola e che mi ha segnato indiscutibilmente è stata la saga di Narnia; avevo otto anni e lo nascondevo alla maestra a scuola sotto il libro di matematica. Da lì è nata tutta una passione per i fantasy che poi è andata scemando; infatti, dopo le poesie infantili, il primo racconto che ho scritto e che, con grande sostegno e risate dei miei genitori, ero convinta di pubblicare, era un racconto che narra la storia di alcuni amici, i quali, varcando il confine di una piccola cascata di montagna, scoprono un mondo fantastico chiamato Aliseus. Ci sono libri, secondo la tua esperienza, in qualche modo necessari nella formazione di un adolescente? E, comunque, quali sono stati i tuoi e perché? In realtà, io stessa sono ancora un’adolescente che si sta formando, quindi non penso di essere veramen-

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raccomandavano perché si prendesse cura di noi durante l’estate». Salima sposta l’acqua marrone del tè da un bicchierino all’altro. Riempie di nuovo la teiera color muschio e riaccende il fornellino.

te capace di rispondere a questa domanda. Oltre ai classici, attualmente leggo molte storie vere o verosimili che spesso parlano di guerra o di problemi e sofferenze contemporanee. In passato hanno raggiunto la classifica dei miei “best” libri come Il gran sole di Hiroshima di Karl Bruckner e Mi ricordo Hanna Frank di Alison Leslie Gold, ma anche Buongiorno, buonasera, ti voglio bene di Alberto Rivaroli e J.J. contro il vento di Sgardoli. Sono state letture indimenticabili I ragazzi dello zoo di Berlino di Christiane F. e L’aggancio di Nadine Gordimer, oltre a La danzatrice bambina di Anthony Flacco, La notte di Wiesel e recentemente Tre tazze di tè di D. O. Relin e Greg Mortenson. Ho consigliato a molti miei amici Mille splendidi soli di Khaled Hosseini e Venuto al mondo di Margaret Mazzantini perché, come dico spesso, sono libri che mi hanno “fatto rinascere”, rinascere in una storia che non è la mia, ma che ho vissuto scorrendone le pagine e questo, credo, sia il grande fascino della lettura: quello di poter vivere, in una, tante vite, di fare tue altre storie, che diventeranno inesorabilmente parte del tuo essere. Sicuramente la cosa è molto soggettiva, libri interessanti, “di formazione” ve ne sono tantissimi ed è difficile fare una lista dettagliata. Sia che tu li segua oppure no, la tua giovane età mi suggerisce che conosci bene l’universo dei talent; in altre parole fanno parte della “cultura” della tua generazione (e non solo). E forse il vero caso editoriale dell’anno è stato Masterpiece; mi piacerebbe chie-

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derti cosa ne pensi, se credi che un talent sulla scrittura possa essere una vetrina o pista di lancio o quel che è per gli aspiranti scrittori, magari sostituendosi, nella funzione, proprio ai tradizionali concorsi e premi letterari come il Campiello? In realtà, nonostante ne sia molto incuriosita, non ho seguito Masterpiece e comunque penso che un programma del genere, per quanto più “intelligente” di tanti programmi contemporanei della televisione italiana, non possa essere un possibile sostituto di premi come il Campiello. Dico questo perché, se è vero che la televisione ha il grande pregio di essere il principale motore di comunicazione dei nostri tempi, porta anche, spesso, alla formazione di una cultura dell’immagine che non so quanto sia necessaria e proficua per chi scrive. Esistono scrittori, pietre miliari della letteratura, famosi per il loro essere solitari. Ciò che deve rimanere davvero impresso a un lettore, secondo me, non è tanto lo scrittore con tutte le sue doti di eccellente scrittura creativa e i tratti della sua personalità, ma soprattutto ciò che ha scritto e che ha voluto trasmettere. Non può essere importante solamente la tecnica narrativa espressa dall’autore, ma, al contrario, il vero fulcro di un romanzo deve essere la storia e il suo messaggio. Un libro scritto divinamente, ma che non dice niente, rimane un libro vuoto. Continuo a sostenere che, anche in un mondo tecnologico come il nostro, dove leggere un e-book è indubbiamente più veloce e economico, il fascino di sfogliare un libro su carta e di lasciarsi andare alla riflessione annusando l’odore delle pagine sia insuperabile. Temo che aver affidato il ruolo di stimolare riflessioni a un programma televisivo dove, in quanto tale, i romanzi si raccontano e non si leggono e gli scrittori, più che aver creato personaggi, sono loro stessi personaggi, possa essere stata un possibile punto di debolezza. Nonostante ciò non posso non attribuire all’idea della Rai il grande merito di aver tentato di diffondere una cultura della lettura e aver dato importanza a chi scrive, cosa non sottovalutabile considerato quante poche persone leggono ancora oggi in Italia e l’oceanica cultura che questo Paese possiede ancora da mostrare e raccontare. In tutti i casi per me questo programma è stato una novità e una sperimentazione importante e interessante, mi spiace solo che il programma sia andato in onda un po’ troppo tardi la notte, per chi come me la mattina deve alzarsi presto per non perdere l’autobus per la scuola.

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Daniele Comunale,

Antropofania

di Sara Minervini

campiello giovani Diciannove. Ovvero quasi in pari con la media dell’età anagrafica richiesta per partecipare (15-22 anni). Stiamo parlando del Campiello Giovani, giunto quest’anno alla sua XIX Edizione. Un Premio giovane per i giovani e tuttavia sufficientemente maturo da accogliere tra i finalisti 2014 un’opera complessa e intrigante come Antropofania del romano Daniele Comunale.

Un racconto turgido, una scrittura consapevole, capace di entrare nel vivo della realtà come un coltello, ferendone la materia e facendo sgorgare quella pietas che, sebbene celata, ancora sopravvive in ognuno di noi.

Sullo sfondo di una Roma inquietante, allo stesso tempo splendida e decadente, si muove l’eccentrica figura di Pilar, una vecchia chiacchierona e provocatoria, che tenta di adescare uomini nonostante sia sposata e madre di un figlio disabile che ha lasciato legato al letto per non farlo cadere. Nel suo vagabondare per la città, incrociando ambiguità vacillanti specchio di un universo in disfacimento, Pilar incontra anche il marito omosessuale mentre si confessa a un giovane. Più tardi li ritroverà a casa, insieme, mentre il figlio si è impiccato nell’altra stanza.

Parliamo del tuo racconto Antropofania, che tu descrivi come «un’ode alla realtà nelle sue sfumature più documentaristiche, nelle cui pieghe però si nasconde la poesia». La giuria l’ha definito “conturbante”. Cosa dovrebbe aspettarsi un lettore da un racconto realistico e conturbante?

Antropofania come massima rivelazione, palingenesi dell’autenticità dell’uomo, nei suoi risvolti più tormentati e precari, aleatori e realisti, che richiede, tuttavia, uno sforzo di partecipazione e compenetrazione tra gli uomini, segnati da un medesimo, irriducibile, destino di angoscia e di castigo ma che trovano una qualche forma di riscatto nella sublimazione di un gesto o di uno sguardo, una bellezza forse nascosta agli occhi ma limpida e visibile alla sensibilità di chi intende il genere umano come fosse un coro di angeli caduti in disgrazia.

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Ecco cosa ci dice in proposito (e non solo) il giovane autore.

Leggere un racconto realistico e conturbante dovrebbe essere – nei suoi risultati più indovinati – come mettersi davanti a uno specchio o passeggiare nelle strade della propria città: guardare se stessi, guardare gli altri, essere guardati, per rendersi contro che fra le tre azioni la differenza è minima e che fondamentalmente si sta guardando sempre la stessa cosa. Pilar, la protagonista, si specchia, si guarda attorno, viene guardata. «Una realtà documentaristica nelle cui pieghe si nasconde la poesia». Quando ho letto questa espressione mi è subito venuto in mente quello che diceva Cesare Zavattini a proposito del cinema neorealista: «Per spettacolo naturalmente bisogna decidersi a in-

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estratto Antropofania di Daniele Comunale

tendere non l’eccezionale, ma il normale; cioè lo stupore deve derivare nell’uomo dalla conoscenza e dalla scoperta dell’importanza di tutto ciò che ha sotto gli occhi ogni giorno, e di cui non si era mai accorto». Sostituendo letteratura a cinema e narrazione a spettacolo, mi pare che col tuo racconto si resti sulla stessa frequenza d’onda. Sei d’accordo? Assolutamente sì, non a caso il cinema neorealista è una delle mie più grandi fonti d’ispirazione. Non sento il bisogno di creare mondi tanto lontani dal mio. Voglio e devo tenere i piedi ben piantanti nel fango della realtà, immaginando le sue possibili declinazioni e varianti. Vivo la mia vita come testimonianza di un qualcosa di complessivo che sento il dovere di fissare attraverso le parole. La domanda precedente era, chiaramente, tendenziosa, perché ho letto nella tua biografia che ti sei aggiudicato il terzo posto alla Prima Edizione del concorso per cortometraggi “Mamma Roma e i suoi quartieri” nell’ambito della manifestazione “L’isola del cinema”con il corto Antiqua Mater (che ho visto e per il quale ti faccio sinceramente i miei più sentiti complimenti; molto suggestivo, soprattutto nel rapporto che si crea tra montaggio, fotografia e colonna sonora). Questo per sottolineare come, mi pare, tu abbia un rapporto col cinema altrettanto fecondo di quello con la letteratura. Ma vorrei che fossi tu stesso a parlarcene…

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La signora Pilar non l’hanno mai vista piangere, non l’hanno mai vista arrabbiata, mai pensierosa, sofferente. Aveva però perennemente l’espressione di una bestia ferita, una piccola civetta ferita. E come una civetta Pilar si spostava nei nugoli di strade adiacenti a Piazza Navona. Una bellissima creatura notturna: due occhi grandi e vispi, ombrettati d’azzurro; un naso adunco, un becco rapace, smussato dagli anni. Settant’anni che non la distolgono dalla maliziosa caparbietà che ogni sera, prima di uscire, le impone di svitare il tappo del suo impiastricciato rossetto rosso Chanel: lo preme sulle labbra e gira, gira, gira, seguendo i confini immaginari di labbra più carnose e meno sgualcite delle sue. Una voragine sdentata e morbida la sua bocca. Quei denti caduti uno ad uno e mai sostituiti, quelle gengive calde mai coperte da nessuna protesi, nessuna dentiera. Quella bocca unta da troppi uomini in passato. Unisce le labbra davanti allo specchio per omogenizzare il tratto del rossetto. Si accarezza il collo rugoso e fa scivolare la mano fino al seno cadente: lo spreme provocante, mentre si sporca gli incisivi di rossetto, mordendosi il labbro inferiore. Continua ad accarezzarsi il corpo, arrivando ai fianchi sformati. Lì si ferma Pilar e li stringe forte, ad immaginare che un uomo la stia afferrando da dietro. Continua, arriva al pube bianco e gonfio: si sfiora la vagina e sorride. Arriva alle gambe, un brivido le increspa la superficie liscia. Solleva le mani e si toglie dallo specchio ovale che aveva difronte. La stanza della donna è sempre rimasta uguale a com’era cinquant’anni prima: l’angolo toletta, il grande baldacchino d’ebano, lo sdrucito tappeto persiano, la cassettiera opaca per gli anni. Tutti questi oggetti alla luce calda e diffusa dell’abatjour risultano più pesanti: il peso degli anni, della nostalgia che trasuda quella camera. Più pesanti di qualsiasi altro oggetto del resto della casa, più eloquenti nel loro significare peso e perdita. Pilar indossa una svolazzante vestaglia velata, si precipita verso l’armadio scuro ed imponente, lo apre. A colpo sicuro tira fuori un consunto vestito di raso rosso. Lo infila, il bordo della scollatura è rovinato. La donna sale su due tacchi rossi tutti raggrinziti e si avvicina alla toletta. Lì prende il fac-simile di J’Adore e lo vaporizza sul collo grinzoso con una sensualità senza tempo. Il vapore in controluce la fa sembrare la donna più bella del mondo per po-

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Foscolo nel proemio delle Grazie chiede alle dee «l’arcana armoniosa melodia pittrice», ovvero la parola che sappia con la sua melodia creare immagini, ed il cinema – per la sua stessa natura audiovisiva – rende più semplice rispetto alla parola la corrispondenza tra idea e risultato. Antiqua Mater è nato per questo motivo e non so se sia un esercizio, un valido accenno o una cosa da dimenticare. Solo il tempo me lo saprà dire. Al di là di ogni distinzione o etichetta (lettori forti, deboli, etc.,…), un lettore è un lettore e il suo potenziale sta proprio nella varietà. Tu che tipo di lettore sei? E quali caratteristiche dovrebbe avere il tuo lettore ideale, intendo proprio il tuo, quello che immagini leggerà le tue opere, presenti e soprattutto future… Sono un lettore capriccioso che scrive sui propri libri, che piega le copertine. I libri che leggo devono ricordarmi particolari momenti della mia vita, quindi li scelgo in base alla capacità o meno di penetrarmi in determinati periodi della mia vita. Il mio lettore ideale è colui o colei che porta un mio eventuale libro in borsa, anche se sa che non avrà occasione di leggerlo in quella giornata. È colui o colei che si appunta una parola nelle ultime pagine, per poi andarsela a cercare sul dizionario o su Wikipedia. Vorrei che fosse un lettore che vuole essere stimolato. Il futuro, appunto. Il futuro di Daniele in quanto giovane uomo e del Daniele promessa della narrativa italiana (il Campiello è un buon auspicio oltre che una gran bella premessa). E dunque che si riserva Daniele per il futuro? Per il futuro mi riservo di non essere mai troppo simile a me stesso, di mantenere l’ottimismo un po’ ammaccato che mi contraddistingue, di continuare a creare al di là della forma espressiva che sentirò più adatta a me. Per il mio racconto si è parlato di decadenza, di disfacimento, di inquietudine: è la verità, ma non mi rinchiudo in un atteggiamento fatalistico e vittimistico. Il fatto che la realtà contemporanea non sia delle più floride per i giovani potrebbe tornarmi utile in futuro.

chi istanti. Lo spruzza sui polsi e lentamente li fa scivolare dietro le orecchie. A dispetto del resto del corpo, l’incarnato della pelle di Pilar è bello: puro come la superficie del posacenere in quarzo rosa poggiato sul comodino. Quel posacenere nel quale sta bruciando il filtro dell’ultima sigaretta: la prende, tira l’ultima boccata, si brucia all’altezza delle falangine e la soffoca con colpetti veloci e potenti tra gli altri mozziconi. Esce dalla camera da letto, chiude silenziosamente la porta. Si sente un lamento che proviene dalla stanza di fronte alla sua, un richiamo tenero, gutturale che si spegne nel buio del corridoio. La mano della donna, dalla pelle tanto rilassata da sembrare un guanto usato, abbassa la maniglia della scrostata porta bianca dalla quale proveniva il gemito ed esce di casa.

si dice che le donne leggano indifferentemente sia scrittori che scrittrici, ma che non sia vero il contrario, in altre parole che gli uomini non leggono volentieri le opere del gentil (si fa per dire) sesso. Puoi citarmi i nomi di almeno tre autori che consideri fondamentali per la tua ispirazione? E anche se non sono donne, tranquillo, non mi offendo…

È impossibile non notare che sei l’unico autore maschio in una finale… molto rosa (inteso come colore e non come genere, precisazione superflua ma tant’è…). Vediamo allora se puoi aiutarmi a sfatare un mito:

Penso che nell’arte la distinzione di genere sia limitante: preferisco utilizzare il termine indole piuttosto che genere. Queste due indoli sono convenzionalmente definite – e penso che questo sia l’elemento fuorviante della questione – maschile e femminile. Potremmo chiamarle attiva e contemplativa, o esteriorizzante ed interiorizzante, poiché non strettamente legate al sesso dell’artista. Gli autori che più mi stimolano a creare sono proprio quegli autori in cui vi è una mescolanza di questi due principi. Sono autori che faccio miei, per poi lasciarli indietro. Cambiano al mio cambiare nel tempo. Per Antropofania fondamentali sono stati Pasolini – non solo come scrittore –, Pirandello e Lucrezio. In questo caso sono tutti uomini…

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Chiara Di Sante,

Zucchero

di Irma Loredana Galgano

campiello giovani Laureanda in Comunicazione media e pubblicità, Chiara Di Sante è originaria di Bergamo ma vive a Milano. È una ragazza attiva, dinamica, forse anche un po’ frenetica, specchio della metropoli che l’ha accolta. La sua scrittura rispecchia in pieno le sfaccettature del suo carattere. Il ritmo della narrazione è incalzante, la storia vorticosa, il finale sorprendente. Frasi minime, immagini forti, pensieri sfiorati e rimandi notevoli donano particolarità al testo. «Lavarsi le mani. Chiudere la porta di casa. Lavarsi le mani. Mettere l’acqua a bollire. Mettere la tazza rossa sul tavolo. Versare l’acqua della teiera. Controllare che la porta di casa sia chiusa. Lavarsi le mani. Prendere la zuccheriera. Versare il tè nella tazza. Mettere tre cucchiaini di zucchero nel tè. Controllare che la porta di casa sia chiusa. Bere il tè». Ambientato nell’arco di una sola giornata, Zucchero narra le storie di quattro personaggi, delle loro solitudini che si intrecciano senza mai incontrarsi: uno psicanalista diabetico; sua moglie che ha perso un figlio e si consola preparando marmellate per un carcerato che la guarda dalle sbarre della sua cella; un giovane paziente che mangia ossessivamente bustine di zucchero, alla ricerca disperata della dolcezza negatagli nell’infanzia. Abbiamo rivolto alcune domande all’autrice per meglio comprendere la sua scrittura e i meccanismi che l’hanno generata. A prima vista lo stile della narrazione potrebbe sembrare il riflesso dell’epoca in cui

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viviamo, fatta di mail, sms e chat, mentre in realtà dietro ogni parola, dietro ogni frase si cela un grande mistero che tu vuoi raccontare anche attraverso le immagini che esse rimandano. Oltre alla scrittura è il cinema la tua grande passione? Siamo nell’epoca dell’immediatezza, delle comunicazioni brevi e mirate, questo credo che, in parte e forse involontariamente, abbia influenzato in generale il modo di scrivere. Mi piace lo stile minimalista, mostrare emozioni e sentimenti attraverso dettagli, oggetti; spesso l’introspezione è ridotta al minimo. Il cinema è una grande passione che mi accompagna sin dall’infanzia e che negli anni ho avuto modo di coltivare e approfondire grazie anche ai miei studi. Credo che la passione per il cinema si rifletta nei miei racconti, in cui cerco di coniugare visualità e scrittura. Zucchero, in particolar modo, é strutturato per stacchi, montaggi alternati e paralleli. Sotto lo sguardo di un narratore onnisciente che, come l’occhio di un regista, si sposta da un luogo all’altro, si articolano le vicende dei quattro personaggi. Ogni parola è fondamentale, insostituibile, come i fotogrammi di un’immagine. Zucchero non è il primo racconto che scrivi e non è neanche il primo a ricevere attenzione da parte di una giuria, però il Premio Campiello Giovani riserva quasi sempre dei risvolti importanti, come le immagini nascoste tra le righe della tua storia. Quali sensazioni provi in questo momento?

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Scrivo da tutta la vita ma, quasi come una fase di passaggio obbligata, ho scritto in principio solo per me. Maturando, ho sentito la necessità di confrontarmi con gli altri per affinare la mia tecnica e condividere ciò che sentivo e scrivevo. È il primo anno che partecipo al Premio Campiello, l’ho sempre visto come un traguardo inarrivabile e, forse, avevo paura di rimanere delusa. Questo era l’ultimo anno in cui avevo la possibilità di inviare un racconto e sentivo di essere maturata molto. Essere stata selezionata per la cinquina finalista è stata una delle emozioni più belle della mia vita, molto banalmente, un sogno che si avvera. La bellissima notizia é giunta durante un periodo terribile in cui ho perso mia nonna: la mia lettrice numero uno. Questo traguardo lo dedico a lei, che ci ha creduto fino in fondo, sin dal principio. Scrivi per immagini e sei appassionata di cinema. Cosa vedi in questo mondo quando ti guardi intorno? Quando mi guardo intorno vedo involontariamente “materiale” per i miei racconti. Sono attratta dalle persone, soprattutto da quelle più strane: ognuno sembra avere qualcosa da raccontare, da raccontarmi. Sono convinta che prima di scrivere ci sia bisogno di vivere, di nutrirsi delle esperienze e delle emozioni che i luoghi e le persone possono regalarci. Poi, però, bisogna ritirarsi, tornare a casa, allontanarsi da quella realtà che ci ha nutrito, e scrivere. In Zucchero hai scelto di affrontare argomenti delicati come possono esserlo le patologie ossessivo-compulsive che emergono, ancora una volta, attraverso le immagini di una persona che ripete infinite volte il gesto liberatorio di “lavarsi la mani”. È uno dei sintomi più comuni della misofobia che è anche uno dei mali simbolo della nostra epoca. Cosa ti ha spinto a voler parlare di questo aspetto del mondo moderno? Il giovane paziente ossessivo-compulsivo é solo uno degli sventurati personaggi di cui parlo, ma forse è quello che maggiormente rappresenta la condizione di disagio attuale, di incomunicabilità, che pure accomuna tutti i protagonisti. Il ragazzo é l’unico descritto usando un tipo di focalizzazione interna. È paradossale che l’unico personaggio che parla con la propria voce, lasciando fluire i propri pensieri senza mediazione, è infine colui che soccombe proprio per una mancanza di comunica-

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zione. I disturbi ossessivo-compulsivi sono la manifestazione visibile del suo disagio interno. Sono sempre stata affascinata dalla psicologia e, forse perversamente, anche dalla malattia mentale. Ho voluto assumere il punto di vista di una persona disturbata per provare a immaginare come vivono queste persone che si nascondono tra la folla, lanciano soffocate grida di aiuto e spesso nemmeno ce ne accorgiamo. La solitudine è un altro aspetto della società contemporanea. Un tormento che assale ogni giorno sempre più persone, soprattutto nelle grandi città dove, schiacciati e circondati da innumerevoli volti sconosciuti, gli esseri umani si sentono sempre più soli. La narrazione di ciò in Zucchero è una constatazione, una denuncia o un tentativo di dare una svolta? Lontano da ogni superba pretesa di cambiamento, la mia è una constatazione di come la società odierna, o network society che sia, precipiti sempre più verso forme di neo-solitudine collettiva e di come le grida d’aiuto vengano spesso soffocate dagli individualismi. Sicuramente le metropoli provocano un sovraccarico cognitivo e sensoriale, così come la Rete. Entrambi gli ambienti sono caratterizzati dalla solitudine. Anche i personaggi del mio racconto sono connessi, collegati tra loro ma, in ultima analisi, soli, come in un social network. Cosa ti aspetti e quali sono i tuoi progetti per il futuro? Non so se vincerò il Premio Campiello, ma essere stata capita e apprezzata è stata già la soddisfazione più grande. L’ unica certezza che ho è che non smetterò di scrivere, è un’urgenza imprescindibile. Nel futuro mi piacerebbe riuscire a coniugare le mie passioni, cinema e letteratura, in una professione: sceneggiatrice o critica cinematografica, anche se non mi dispiacerebbe intraprendere la carriera accademica. Sono consapevole che i miei sono obiettivi molto ambiziosi, ma quando voglio so essere molto determinata. Intanto, sto pensando di scrivere la sceneggiatura di Zucchero per farne una trasposizione in un corto cinematografico; ad oggi è solo un’idea allo stato embrionale ma chissà che non diventi realtà.

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estratto Zucchero di Chiara Di Sante Lavarsi le mani. Chiudere la porta di casa. Lavarsi le mani. Mettere l’acqua a bollire. Mettere la tazza rossa sul tavolo. Versare l’acqua dalla teiera. Controllare che la porta di casa sia chiusa. Lavarsi le mani. Prendere la zuccheriera. Versare il tè nella tazza. Mettere tre cucchiaini di zucchero nel tè. Controllare che la porta di casa sia chiusa. Lavarsi le mani. Bere il tè. *** «Angelo, alzati. Il caffè è pronto». Notti in bianco e risvegli neri segnavano l’inizio di dicembre. Troppo freddo per nevicare. Troppo tardi per fare una colazione come si deve: un caffè amaro, bevuto quasi freddo, un biscotto per diabetici, mangiato in piedi, sbriciolando sull’immacolata camicia azzurra a righine bianche. Serrò la mascella ed emise una specie di grugnito, poi afferrò la valigetta marrone di cuoio consunto. Maria sedeva in cucina, reggendosi la testa con il braccio: lo sguardo fisso in direzione della finestra coperta dalle lunghe tende bianche ricamate con disegni di frutta. La porta si chiuse di colpo; lei sobbalzò senza distogliere lo sguardo dal nulla che fissava. Lui quelle tende le odiava, celavano alla vista il paesaggio circostante, inghiottivano i giorni, i mesi, le stagioni, la luce del sole e ti restituivano solo una mela, una banana e due cazzo di pere ricamate in Cina. Il rombo del motore della macchina era un colpo di tosse bronchitico; i tergicristallo erano pattinatori zoppi sul vetro ghiacciato; l’aria condizionata gli sputava in faccia il gelo della Siberia. Ignorava i suoi pensieri come ignorava i mendicanti ai semafori e guidava, come un automa. Ripugnante l’odore di detersivo al limone che pervadeva l’androne del palazzo e le scale; ripu-

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gnante persino la targa di bronzo sulla porta di ingresso: “Dott. A. Sigmondi”. Trent’anni a farsi vomitare addosso le disgrazie altrui, i problemi altrui: quelli veri, quelli inventati, quelli inutili e quelli patologici. Trent’anni che avevano reso le orecchie il suo organo più sporco. Il mezzobusto in pietra di Freud ed il ritratto di Jung lo fissavano dall’altro lato della stanza, con il più insopportabile degli sguardi: lo sguardo della coscienza. Angelo si sdraiò per la prima volta sul lettino di pelle nera. Le doghe ondulate seguivano la forma del suo corpo che da rigido divenne sinuoso. Estrasse dalla tasca della giacca un glicometro blu; un ago penetrò il suo indice sinistro che si tinse di rosso. Strizzò gli occhi. Cinquanta anni non erano stati sufficienti per imparare a sopportare la vista di quell’unica e perfetta goccia di sangue, pronta ad essere risucchiata, scomposta e analizzata in ogni sua componente, in ogni rimpianto, in ogni ladra molecola di insulina entrata dalle finestre dell’infanzia per rubare la dolcezza e lo zucchero. *** Aspettare la metro. Strofinare le mani con il gel igienizzante. Mangiare una bustina di zucchero. Salire sul treno. Respirare. Meno 4 fermate. Non toccare nulla. Stare in equilibrio. Meno 3 fermate. Respirare. Mangiare una bustina di zucchero. Meno 1 fermata. Strofinare le mani con il gel igienizzante. Scendere dal treno.

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Deborah Osto,

Corpi celesti

di Elena Spadiliero

campiello giovani Deborah Osto: nata diciotto anni fa in un giorno di sole, iscritta all’ultimo anno del liceo scientifico e attualmente con un futuro ancora da progettare. Una cosa, però, Deborah la sa: ama la musica e da un pezzo vorrebbe un giradischi per sentirla come Dio comanda; quando non ascolta musica, va ai concerti, legge, si diletta a fare la videomaker, adora viaggiare. Ma, soprattutto, Deborah Osto ama scrivere. E anche se per lei viaggiare significa essere in costante contatto con la gente, in spazi grandi e sconfinati, non rinuncia mai al suo piccolo mondo, fatto di libri e di tanti personaggi, come quella signora con il cappotto giallo che, perché no?, sarebbe la perfetta protagonista di un racconto.

Bisogna possedere la giusta sensibilità per trasmettere al lettore gratitudine, affetto, calore, senza risultare banali o eccessivamente stucchevoli. In più, tu inserisci questo personaggio della prostituta, con un passato difficile da cui cerca riscatto. Da dove ti è venuta l’idea di base per questa storia? È puro frutto della tua fantasia o hai letto, visto, sentito qualcosa che ti ha fornito la giusta ispirazione per scrivere il racconto?

Deborah, quello che affronti è un argomento molto duro, perché parlare di sentimenti non è mai facile, soprattutto quando si tratta di amori platonici più che carnali.

Non passa giorno in cui nei giornali non ci sia la notizia di una donna stuprata, maltrattata dal marito, colui che dovrebbe amarla e rispettarla fino a che morte non lo separi da lei, di ragazze finite in rete senza il loro consenso o stuprate da un gruppo di conoscenti; è risaputo poi come molte ragazzine provenienti dall’est Europa siano vendute dalle famiglie stesse, o rapite, e trasportate nel nostro Paese per prostituirsi. Quando ci mettiamo ad analizzare la società dei nostri tempi è inevitabile non tener conto di queste persone che trascorrono la loro vita in un inferno in terra, sebbene spesso siano viste come qualcosa di alieno: sappiamo che ci sono, ma ce ne ricordiamo solo quando succede un evento molto brutto, o quando ci lamentiamo tornando a casa di notte, perché non è decoroso stare ai margini della strada a fare quello che fanno. Credo che semplicemente la mia mente, come quella di tutti noi, sia permeata dalle storie di queste ragazze sfortunate, e che quasi in automatico si sia delineato il personaggio della mia storia, che necessitava essere al di fuori degli schemi sociali, al

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Al Premio Campiello Giovani, Deborah è arrivata con Corpi celesti, racconto inquietante incentrato su un uomo e una prostituta, due personaggi che hanno perso loro stessi e che trovano un’identità personale nel reciproco confronto. Una narrazione che si compone di gesti più che di dialoghi, perché Deborah ci ha detto che quando parla fa sempre gran un disastro con le parole: Corpi celesti analizza la psicologia dei caratteri, li penetra, studia, cerca di trovare risposte. E anche noi vogliamo fare qualche domanda a questa giovane autrice, soprattutto per capire meglio la genesi del suo racconto.

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estratto Corpi celesti di Deborah Osto

di fuori dell’educazione, della vita che tutti viviamo, fuori della sfera del quotidiano. E così ho cominciato a riempire questa ragazza, a cui era stata strappata l’identità, di parole, di vita, di normalità. Non c’è stato un fatto in particolare quindi, solo piccole notizie che le mie orecchie hanno recepito giorno dopo giorno fino a quando non ho deciso di dare vita al mio personaggio. Trovo la storia di base molto interessante. Sarebbe bello riprenderla, ampliarla, e scriverci un romanzo. Insomma un testo più corposo, dove approfondire ancora di più il passato dei protagonisti e la loro psicologia che, a quanto ho capito, a te interessa molto, magari creando anche dei retroscena, che riguardano il passato di entrambi. Non ci hai mai pensato? Il bando del concorso imponeva un limite di battute che inizialmente mi sembrava invalicabile: sarei riuscita a scrivere tutte quelle parole? Man mano che la narrazione prendeva forma e corposità mi sono accorta che sì, ci sarei riuscita. Avevo così tante idee in mente che delineavano i miei due personaggi che mi sono trovata spiazzata quando ho controllato il contatore di parole e mi sono accorta che stavo superando il limite. In queste settimane in cui mi sono spesso state poste domande sulla storia, mi sono resa conto che archiviato in qualche cassetto del mio cervello avrei materiale sufficiente per scrivere un libro serio, in cui appunto parlare meglio del passato dei protagonisti, e perché no, anche del loro futuro. Mi

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La prima volta che la vide stava masticando una caramella alla menta seduto sulle scale fuori casa, gli occhi talmente serrati da fargli male alla testa, le dita a tamburellare il marmo dei gradini, i pensieri una matassa informe e incasinata. Voleva nevicasse, almeno se ne sarebbe stato al caldo in cucina a guardare i fiocchi scendere veloci attraverso la finestra. E se proprio non voleva nevicare, avrebbe potuto piovere, così si sarebbe steso a letto ad ascoltare lo scroscio e il battere forte delle gocce sul tetto di legno. E se proprio non voleva piovere, avrebbe almeno potuto esserci il sole, giusto per sedersi sullo sdraio in terrazza a leggersi il nuovo fumetto che gli aveva spedito nonna via posta qualche ora prima (insieme alle caramelle latte e menta). E invece il cielo era di un apatico e poco sopportabile bianco. Quel colore troppo forte, troppo luminoso nella sua impresa d’imprigionare il sole, troppo denso per non sembrare un muro invalicabile, troppo fastidioso per gli occhi. Tempo dopo avrebbe pensato «Bianco come il colore dei suoi capelli che, biondi com’erano, brillavano». La prima volta che lo vide stava camminando sul ciglio del marciapiede. Aveva la vescica che le scoppiava e i capelli che continuavano a caderle davanti alla faccia. E male alla mano, male alla mano, male alla mano. L’aveva ucciso? Ci sperava. L’aprì tremante e vide dei rivoli di sangue scarlatto colarle giù, altro sangue già seccato al lato del braccio, altro ancora dentro alle vene pronto a sgorgarle fuori. Le venne da vomitare, quando avvicinò gli occhi per vederci meglio: vetro incastrato ovunque. Una bottiglia di vodka, che avrebbe volentieri voluto bersi, letteralmente conficcata nella sua mano; era un bel modo per iniziare la sua nuova vita, pensò ironicamente. Si sistemò meglio sulle spalle nude il giubbetto di jeans con le borchie, giusto perché l’umidità la stava facendo innervosire, e si tolse le scarpe con il tacco perché le stavano uccidendo le caviglie. Doveva trovare un posto dove pisciare o sarebbe esplosa. Un vetro le si conficcò sulla pianta del piede. Si sedette per terra e se lo tolse con rabbia. Urlò per la frustrazione. In quel momento le prospettive le sembravano meno rosee di come se le era immaginate ore prima, seduta su un materasso sformato e sporco che sembrava comunque più comodo di quelle mattonelle colorate. Sbuffò, si rimise in piedi, e nascosta dietro un cassonetto alla fine di un vicolo cieco, fece quello che doveva fare, vomito incluso. Lo stomaco le bruciava come se avesse ingerito veleno, e con esso la gola, la lingua, l’esofago e tutti quegli altri organi che stavano lì intorno di cui non sapeva il nome né l’esistenza. Camminò con le scarpe in mano fino SUL

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piacerebbe diventare di nuovo loro amica, entrare ancora una volta nel loro mondo interiore, capirli, parlare di loro, farli innamorare per altre mille volte e tutte le volte riscoprirsi una persona nuova. Ho letto che ti piace anche andare al cinema e, in effetti, la storia che proponi ha un che di filmico. Mi è ritornata alla mente la protagonista di La sconosciuta di Giuseppe Tornatore. Hai mai pensato di cimentarti nella stesura di qualche sceneggiatura, magari unendo alla scrittura la tua passione di videomaker? Sarebbe una bella idea per superare “l’avversione” per i dialoghi! Credo sarebbe una bellissima esperienza, un modo diverso di vedere la scrittura. Spesso mi ritrovo a ripensare ad alcune battute che ho sentito in un film, ad alcuni dialoghi, e mi dico che non potevano essere più perfetti. Conoscendomi probabilmente ne uscirebbe un film muto, ambientato in grandi spazi silenziosi, in cui il protagonista solitario è vittima di una crisi di mezza età, o divorato da qualche tumulto interiore. Sarebbe in ogni caso un’esperienza molto interessante, una sfida contro me stessa, un cavarmi le parole di bocca, se così si può dire, e donarle a una persona in carne e ossa, non a una che vive fra l’inchiostro stampato.

scrivere? C’è un traguardo che ti piacerebbe raggiungere? Una casa editrice con cui sogni di pubblicare, per esempio? Mi ritrovo spesso a lasciare storie incompiute, perché non sono soddisfatta del risultato o perché gli impegni scolastici e sociali mi impediscono di donarmi appieno alla creazione di nuove vicende e nuovi personaggi, ma sicuramente il mio sogno più grande è quello di riuscire a scrivere un libro corposo e perché no, uno di quelli che i critici letterari definiscono come “sfavillante” o “geniale”, o “illuminante”, ma credo sia il sogno di un po’ tutti i giovani scrittori. Se dovessi scegliere una casa editrice la mia scelta cadrebbe su Einaudi e Feltrinelli, ma l’unico motivo sarebbe che amo le loro copertine e il loro modo di impaginare. A proposito di viaggi, sai già quale sarà la prossima meta? C’è qualche Paese che ti affascina più di altri, dove ambientare qualche bella storia?

Hai detto di non avere dei progetti definiti per il futuro, ma immagino che ci sia qualche sogno nel cassetto, come continuare a

Io e le mie amiche stiamo organizzando proprio in questi giorni il viaggio che vorremmo fare una volta concluso l’esame di stato, e le città più gettonate sono Parigi, Vienna e Praga. Un tour de force nella cultura è quello che ci aspetta, indipendentemente dalla città che sceglieremo, e adesso che mi ci fai pensare le storie ci sono già tutte nella mia mente, ad esempio quella di un uomo di circa sessant’anni, seduto davanti al Bacio di Klimt, che chiude gli

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occhi e riesce ancora a sentire il suo profumo, quello della donna che lo aveva fatto innamorare tanti anni prima, quando ancora era un ragazzino e della vita non sapeva niente, quando ancora non amava l’arte, quando ancora non sapeva chi era… oh, la sua ragazza rossa, la sua ragazza dalla vita sottile!, dove sei adesso, ragazza mia? Mi immagino già davanti a un pittore a Montmartre, un uomo che ha perso la moglie, magari la casa, ma che vende i suoi quadri, e la sua sofferenza la sente un po’ meno pesante. O una coppia di giovani sposi che si tengono per mano e decidono di girare il centro di Vienna in carrozza, perché lei, almeno per un giorno, vuole sentirsi come l’imperatrice d’Austria. Mi immagino con una cartina in mano, orientata dalla parte sbagliata, alla ricerca della pasticceria più buona della città, quella consigliatami dai miei vicini di appartamento, “perché come li fanno lì i dolci, non li fanno da nessun altra parte, vedrai!”. Non attendo quindi altro che l’arrivo dell’estate per poter conoscere nuove persone, fare un salto nelle loro vite e rubare loro piccoli aneddoti e caratteristiche per creare nuove storie sempre diverse. In che modo ti stai preparando ad affrontare questa sfida del Campiello? Hai delle aspettative particolari? Non mi aspettavo di arrivare tra i cinque finalisti. Dentro di me c’era ovviamente la speranza, ma nel momento in cui ho ascoltato le trame dei racconti

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a quando non trovò un negozio, dove si comprò un pacchetto di sigarette da dieci e un accendino color viola prugna, poi ne fumò avidamente due. Ora che era libera, non si sentiva comunque meglio. Probabilmente aveva la faccia pallida, l’ombretto colato fino alle guance e il rossetto rosso sbiadito e secco. Si passò il dorso della mano sulle labbra, togliendone via qualsiasi residuo, poi si sfilò le calze nere smagliate e bucate da sotto la gonna inguinale, e si sentì meglio. Appoggiate le spalle al muro di una casa, si fece scivolare lentamente a terra – temeva di star perdendo tutte le forze – e si fumò una terza sigaretta, lentamente, sentendo il fumo dentro e fuori dai polmoni. Si guardò intorno, gli occhi lucidi per la stanchezza, il fumo, i conati, e sentì l’impalcatura di sicurezze che aveva costruito dentro di sé ore prima cadere a pezzi, smantellarsi e sparire. Non era spaventata e la paura ormai risiedeva in una piccola parte del suo stomaco, che ogni tanto sussultava e protestava, ma per la maggior parte del tempo se ne rimaneva assopita, nascosta, come se in realtà non esistesse. Non aveva paura, non sentiva niente in quel momento ed era questo forse che le faceva tremare le spalle magre. Se la immaginava una cosa chiassosa, la libertà, come fiori spazzati via dal vento, o fiamme che si specchiano sulle finestre quando di sera fuori è buio, o persone che urlano creando una stessa voce, e invece tutto quello che sentiva era silenzio. Ma lei era libera, continuava a ripetersi che lei era libera. Tempo dopo avrebbe pensato «Libera di amarlo come non sapevo fare».

degli altri ragazzi, mi sono data per spacciata. Per me quindi è già stata una grande vittoria arrivare fino a questo punto, con un racconto di cui non sono stata convinta fino alla fine, ma che evidentemente qualcosa di buono aveva. Non ho nessuna aspettativa, se non godermi i tre giorni a Venezia che l’organizzazione ha pensato per noi, divertirmi e conoscere meglio i miei compagni di gara. Se sarò fortunata e meritevole abbastanza da vincere, allora sarà un gioia grandissima, ma non ci voglio pensare troppo, sono una persona ansiosa. Meglio cogliere l’attimo e approfittare di tutto ciò che questo concorso mi sta portando, come ad esempio questa interessante intervista.

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Carmelita Noemi Zappalà,

Corpi di carta di Irma Loredana Galgano

campiello giovani Carmelita Noemi Zappalà, diciannovenne originaria di Catania ma trasferitasi per studio a Londra, una ragazza che, attraverso i suoi versi e le sue parole, lascia trasparire la sua giovane età, il suo mondo poco più che adolescenziale, con tutto il corredo di problemi a esso collegati: anoressia, bulimia, bullismo, ansia, isolamento volontario che nel caso della Zappalà hanno portato alla nascita di una stella. La Zappalà è entrata in contatto con persone che vivevano il tormento legato alla patologia medica dei disturbi alimentari e direttamente ha vissuto il problema sociale del bullismo. Il primo caso l’ha spinta a indagare, conoscere, entrare più a fondo e scandagliare il problema per poterlo poi sapientemente raccontare, mentre nel secondo caso si è sentita braccata al punto da preferire rimanersene da sola, rintanata tra i suoi libri. Da una situazione scomoda e negativa ha saputo trarre il meglio, sfruttando tutto il tempo a disposizione per leggere, leggere e ancora leggere fino al momento in cui ciò non le è bastato più e ha cominciato a desiderare di raccontare, di tirare fuori i mille pensieri che intanto si erano generati. Sono nate così delle storie, profonde, intense, sentite… storie di vita, tra cui Corpi di carta, opera con cui Carmelita Noemi Zappalà è stata scelta tra i cinque finalisti al Campiello Giovani 2014.

lui e una lei che rappresentano anche le voci narranti, lasciate volutamente anonime dall’autrice per evidenziare il fatto che potrebbero essere chiunque, che sono chiunque… «non puoi salvare un altro essere umano se quest’ultimo non vuole essere salvato – e se non vuole salvarsi a sua volta» è il messaggio che vuole lanciare la Zappalà con il suo racconto. Per conoscere meglio Carmelita Noemi Zappalà e il suo Corpi di carta le abbiamo rivolto alcune domande. Partiamo dal titolo del racconto: Corpi di carta. Leggendo i tuoi scritti e ascoltando le tue parole sono sicura che l’hai scelto per un motivo ben preciso. Ti va di spiegarcelo?

Corpi di carta è un racconto d’amore ma è soprattutto la narrazione di due vite che si intrecciano, si scontrano, si confrontano. Un

Il titolo del racconto si riferisce direttamente a una riflessione che fa la protagonista a un certo punto della narrazione, durante un dialogo: cioè che, appunto, siamo tutti dei “corpi” che fin troppo spesso, proprio come carta, si lasciano utilizzare e poi buttare via da altre persone. È un pensiero che permea tutto il racconto, che perseguita continuamente la ragazza fin dalla prima pagina, e che ho avuto modo di applicare anche a me stessa e alle mie esperienze. Credo che sia capitato a tutti, comunque, a un certo punto della propria vita, di essere stati utilizzati da qualcun altro solo per essere poi buttati via – e di aver utilizzato altri, inconsciamente o meno, a propria volta. È come quando continui a cancellare qualcosa scritto a matita su un foglio, ancora e ancora, fino a rovinarlo – alcune volte fino a strappar-

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estratto Corpi di carta di Carmelita Noemi Zappalà Ogni anno nella metropolitana di Londra si suicidano circa centocinquanta persone. Centocinquanta, come i giorni di pioggia. Una persona ogni tre giorni prende un treno di sola andata. Tu ci pensi mai alla morte, amore mio? Tu ci pensi mai, ai treni di sola andata? Perché io ci penso sempre. Ci sto pensando anche adesso, mentre parlo con te, anche adesso che tu sei dall’altra parte del binario. Lei. «Cos’hai?» ha chiesto.

lo. Più ci capita di essere utilizzati, più diventiamo fragili. Dovremmo tenere di più ai sentimenti altrui, e parlo anche per me stessa, visto che spesso e volentieri faccio questo errore. A diciotto anni hai spopolato sul web con la tua pagina social per le frasi intense, profonde, particolari che condividevi con tutti e che ti hanno portato in brevissimo tempo ad acquistare una certa notorietà. Hai diciannove anni e sei finalista al Premio Campiello Giovani 2014 con un racconto in cui affronti tematiche difficili con lo spirito di una teenager e la maturità di uno scrittore navigato. È evidente che confermi la regola che vuole un bravo scrittore preparato, nel senso che deve aver letto tanto ma proprio tanto, e al contempo attento alla realtà in cui vive o in cui decide di ambientare i suoi scritti. Se ti guardi indietro cosa vedi? È strano leggere il termine “notorietà” riferito a me, visto che non mi sento affatto “nota” o “popolare”. Per me qualcuno è noto quando viene riconosciuto per strada, e ancora non mi è successo (e dubito mi succederà, se è per questo, però non si sa mai nella vita, giusto?). È anche strano leggere “maturità di uno scrittore navigato”… per quanto sia lusinghiero, e per quanto mi faccia piacere dal più profondo del cuore, non riesco ad associare a me alla parola “scrittore”. Addirittura navigato, o maturo! Certe volte faccio qualcosa e riesco solo a pensare che,

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«Nulla, non ho nulla» ho risposto, e non credo abbia capito. Ho scritto “LOOK” su centocinquanta bigliettini bianchi, su tutt’e due i lati dei fogli, e li ho lasciati cadere a terra uno dopo l’altro in tutte le stazioni più frequentate di Londra, in mezzo alla polvere e allo sporco lasciati dalle scarpe degli altri – cinquanta a King’s Cross, trenta a Waterloo, trenta a Holborn, venti a Warren Street, dieci a Knightsbridge, gli ultimi a Green Park. Li ho lasciati scivolare in mezzo alla folla di gente, lasciando che si librassero nell’aria, leggeri, danzanti come ballerine classiche, prima di cadere a terra. Aspetta, mi sono detta, aspetta,

per alcune cose, io sia mentalmente rimasta più o meno ai dodici anni. In ogni caso, sto divagando. Se mi guardo indietro, vedo solo una ragazzina di sedici anni che, come avevano fatto già molte altre persone, decide di aprire una pagina Facebook per condividere quello che scrive, e che, per qualche bizzarro miracolo, si ritrova a venire apprezzata da un po’ di sconosciuti. Anche se ora rileggo ciò che scrivevo e mi vergogno un po’, sono incredibilmente grata per tutti coloro che almeno una volta hanno apprezzato la mia scrittura e che mi hanno incoraggiato a continuare. Ho chiuso la mia vecchia pagina ormai da tempo, ma con alcune di queste persone sono più o meno in contatto ancora oggi, e con altri ho sviluppato addirittura legami d’amicizia. Io mi limitavo a scrivere ciò che provavo, o avevo provato, eppure c’era chi mi diceva “grazie” perché in qualche modo avevo espresso ciò che provavano anche loro. Credo sia questa, ancora oggi, la cosa più importante. Anche se non ho mai scritto pensando agli altri – a cosa sarebbe potuto piacere o no –, è comunque incredibile. Mi commuovo, letteralmente, ogni volta che qualcuno mi ringrazia perché ho scritto qualcosa che lo ha toccato. Non m’interessa nient’altro, finché riesco a fare questo, finché riesco a scrivere principalmente per me stessa e allo stesso tempo, sempre per qualche bizzarro miracolo, per qualcun altro. E se guardi avanti? Onestamente, cerco di non pensarci troppo. Sono una persona fin troppo ansiosa, che tende a entrare

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qualcuno leggerà, qualcuno leggerà, qualcuno leggerà. LOOK, LOOK, LOOK. Il pavimento urlava di guardare. LOOK, LOOK, LOOK. Un mocassino ha calpestato il primo biglietto. Uno stiletto rosso il secondo. Una scarpa da tennis della Nike il terzo. LOOK, LOOK, LOOK. E io aspettavo, aspettavo, aspettavo, ho aspettato per un secolo intero, per un tempo lungo una vita e allo stesso tempo breve come un salto, e alla fine ho pianto, ho pianto per ognuno di questi foglietti che non erano stati raccolti, ho pianto e mi sono detta: «Ma che ti aspettavi? Non è questo, che fa la gente? Non lo sai che quando sei a terra ti calpesta, anziché tirarti su?», e allora ho singhiozzato più forte, perché vedevo i

biglietti bianchi diventare sempre più neri, più sporchi ogni secondo che passava, e non riuscivo a non pensare alle centocinquanta persone che dovevano essere state calpestate allo stesso modo, che dovevano aver urlato: «GUARDA, GUARDA, GUARDA! GUARDAMI!» in mille modi diversi, e che nessuno aveva raccolto da terra. Ho pianto perché ero una di loro.

nel panico per qualunque cosa, e il solo riferimento al futuro mi fa venire voglia di chiudermi in camera mia e buttare via la chiave. Ho diciannove anni. Sono in quella fase della vita in cui ormai sei fuori dalle superiori e devi affacciarti in un mondo, quello degli adulti, che sembrava lontanissimo fino al giorno degli Esami di Stato (ecco, lì – è stato allora che ho capito che il “futuro” era arrivato), e che fa sempre più paura ogni giorno che passa. Perlomeno, così la vivo io. Come ho detto, tendo a entrare nel panico. Non nego che ormai da anni nutro la speranza di essere pubblicata, perché non riesco a vedermi in nient’altro; l’ho, però, sempre trattata più come un sogno che come una possibilità reale, perché so quanto sia difficile “farcela” in questo campo. Innanzitutto, voglio laurearmi, trovare un lavoro, e scrivere qualcosa di più lungo di un racconto (e un po’ ci sto già lavorando, università permettendo), anche se dovesse rimanere in un cassetto. Voglio rendere fieri di me i miei genitori. Voglio stare bene. Ecco, se guardo avanti, spero di vedere una ragazza che sta bene con se stessa e con gli altri. Poi viene tutto il resto.

non provare a scriverne una?”. Era divertente prendere personaggi di opere già esistenti e farli agire a modo mio, spesso catapultandoli in realtà differenti da quelle originarie. Scrivo ancora fanfiction, ma all’epoca, a differenza di quanto faccia adesso, non m’impegnavo molto, di certo non curavo lo stile (non ne avevo nemmeno uno), infilavo delle faccine qua e là durante la narrazione, la caratterizzazione dei personaggi e la trama erano l’ultimo dei miei pensieri. Un disastro, insomma, un vero disastro. Però mi piaceva e mi faceva stare bene, e in fin dei conti, allora, questo era l’importante. Spero che ciò che scrissi in quel periodo, comunque, sia magicamente sfuggito alla regola secondo cui “niente si cancella mai veramente da internet”, e sia quindi scomparso senza lasciare tracce. Non vorrei mai, mai, mai rileggerlo oggi. Sarebbe imbarazzante.

Poi, come un miracolo, ho visto una mano allungarsi nella mia direzione – prima le dita arrossate per il freddo, poi il bordo di un cappotto nero con in mano un biglietto, infine il braccio, il corpo, la persona che mi stava facendo vedere uno dei biglietti.

Quali sono gli autori, classici o contemporanei, che maggiormente hanno segnato il tuo percorso letterario?

Perché era semplice, divertente, e riusciva a svagarmi (che era una delle cose che volevo ottenere). Avevo dodici anni e passavo già il tempo libero a leggere fanfiction, quindi un giorno mi sono detta “Perché

Ho cominciato la mia “carriera” da lettrice a dieci anni, con la saga di Harry Potter di J.K. Rowling, scrittrice a cui devo un sacco di cose – la passione per la lettura in primis, seguita da tutta una seria di insegnamenti che porto con me ancora oggi –, quindi a lei spetta una menzione d’onore. Ci sono molti altri autori, tuttavia, che si possano ritrovare o meno nella mia scrittura, che mio hanno influenzata tantissimo nel corso degli anni: Chuck

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Ti sei avvicinata alla scrittura scrivendo fanfiction. Perché? Voglio dire cosa ti attraeva in questo genere letterario?

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Avevi ancora i capelli un po’ troppo lunghi, spettinati, ed erano bagnati fradici. Te lo ricordi? Era uno di quei centocinquanta giorni di pioggia. Ci siamo incontrati così, ed è strano, sai? Avremmo potuto incontrarci per caso in ognuno di quegli altri duecentoquindici giorni di sole o di nuvole chiare lì a coprire il cielo come cipria sulla pelle, avremmo potuto incontrarci in mezzo al gregge di turisti di fronte ai cancelli dorati di Buckingham Palace per il cambio della guardia, o in un café, o ancora mentre passeggiavamo in bici per Hyde Park, e invece no, ci siamo incontrati lì dove le persone non fanno che passarsi accanto senza vedersi e senza vedere, e ricordo che allora mi hai detto «Io sto guardando» e io mi sono portata le

mani al volto perché stavi guardando me, e, se è vero che è negli occhi che si legge una persona, avrei voluto che mi guardassi per la prima volta mentre ero un bel racconto e non un mucchio di pagine strappate. Fuori pioveva e io ho ripensato per un secondo al barbone coi capelli ricci e sporchi e con la barba incolta a cui avevo lasciato una sterlina, a cui avevo detto mi dispiace, ma non posso darti altro mentre lui tremava per il freddo sotto l’insegna di un negozio chiuso, accartocciato come una foglia d’autunno o come un foglio di carta buttato via – a quello stesso barbone che adesso nella mia testa si scioglieva, perdeva consistenza, invisibile, calpestato e poi distrutto come carta bagnata.

Palahniuk, Jonathan Safran Foer, George Orwell, per citarne alcuni.

te dei giorni in cui vi sembrerà impossibile riuscire a sopportare oltre, avrete sicuramente dei giorni in cui vi convincerete che forse “gli altri” hanno ragione, che siete solo dei perdenti, che non meritate nulla. È comprensibile. È umano. Va bene avere dei momenti di sconforto, e non dovete sentirvi ancora peggio perché non siete “coraggiosi” o “forti” o cose del genere. Ognuno, di fronte a queste cose, reagisce come può. Però voglio che in quei giorni, almeno in uno di quei giorni, riusciate a trovare la voglia di uscire da casa, tornare a scuola, affrontare la giornata. Dovete capire che meritate di combattere per voi stessi – per stare bene, per imparare a ignorare chi vi fa del male. Non lasciatevi andare, non lasciate prevalere lo sconforto, perché non sarà per sempre. Non è mai per sempre. Sarà difficile, sarà un percorso lungo, ma alla fine, come ho già detto, finisce tutto. Crescerete e cambierete ambiente e amicizie, e allora andrà meglio. Fino ad allora, tenete duro. Andrà tutto bene, prima o poi. Con me è stato così. Vi auguro tutto il bene del mondo.

Sei stata una vittima del bullismo e sei riuscita a venirne fuori anche grazie ai libri che ti hanno fatto compagnia e non solo, ti hanno dato la possibilità di una scelta. Hai trovato la forza dentro di te. Che consiglio senti di dare a chi magari sta affrontando proprio adesso questo problema? Anche se ne ho sofferto molto, mi rendo conto che a me è andata meglio che a molti altri. Non sono mai arrivati a picchiarmi, le angherie si limitavano a insulti sul mio fisico – sono sempre stata sovrappeso – o sulla mia “bruttezza” (si può dire?) in generale. Ne ho sempre sofferto tanto, comunque, forse pure ingigantendo le cose, perché non sono mai stata particolarmente combattiva e tendevo a pensare e ripensare a ciò che mi dicevano i miei coetanei, tenendo tutto dentro di me. A chi ne sta soffrendo oggi, vorrei dire soltanto che alla fine, anche se sembra impossibile, finisce tutto. Finiscono gli insulti, finiscono le prese in giro, finisce l’ansia di andare a scuola ed essere derisi ancora una volta. Si cresce, si va avanti. Lo so che è dura, so che certe volte sembra impossibile riuscire a superare un’altra giornata passata così, ma dovete farcela. Dovete convincervi di valere abbastanza da andare avanti e, soprattutto, da meritare di volervi bene. Avrete sicuramente dei giorni in cui non avrete altra voglia che rimanere in casa e non dover incontrare chi vi fa del male, avrete sicuramen-

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