Soul Running #4

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RUNNING

The Soul Experience:

Elba Deep Blue Trail

Marco Gazzola

Giovanni Storti

Nico Valsesia

Luca Vismara

Dino Bonelli

Elena Gatto

Tite Togni

Francesca Canepa

Krissy Moehl

Jerome Bernard

I miei colori preferiti sono il verde, diciamo più verde militare che verde acqua, e il marrone in tutte le sue sfumature: i colori della natura.

La corsa è entrata nella mia vita nel 2010, ma forse più che entrarci è semplicemente venuta allo scoperto, probabilmente da qualche parte è sempre stata annidata dentro di me, nascosta ad aspettare il momento buono.

C’è un tempo per ogni cosa.

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Molto più vicino: Elba

Dove: ISOLA D’ELBA CliCk: ANDREA VALSECCHI

Terra grezza, selvaggia, autentica. La natura veste tinte ruvide e fluorescenti, il clima è il signore del luogo. Il runner è ospite gradito. Islanda.

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Surf Running! Un gioco di luci e ombre trasforma l’erba autunnale nella schiuma di un’onda oceanica.

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editoriale

NEW

“Se vuoi fare un passo avanti, devi prima perdere l’equilibrio per un attimo”

Massimo Gramellini

SQUILIBRATI

Ho imparato talmente tante cose in due anni che devono essere stati molti di più, senza che me ne sia accorto. Ma d’altra parte sto crescendo. Affronto questo momento di adolescenza del mio Book Magazine con il massimo delle energie psico-fisiche. E’ come nascere nuovamente, ma con un po’ di consapevolezza d’avanzo. Stimolante. Conscio di dover correre a capofitto e che ciò comporterà non poter soffermarsi su tutto, non giudicare adeguatamente le direzioni da prendere, perdersi nella nebbia, cadere su sfasciumi mirando “ometti” sparsi, ma anche rialzarsi di slancio, godere del sole in faccia quando sorge, condividere pezzi di strada o intere gare con piccoli, grandi eroi.

La gioia profonda del lasciarsi andare. Dell’accettare l’errore, il piccolo fallimento perché si ha la certezza, la convinzione che la strada sia quella giusta e la mia meta, il mio talento siano obiettivi ben fissati nella mia mente.

Soul Running affronterà una giovinezza del terzo anno nel 2013. Lo farà crescendo ulteriormente per quanto riguarda la distribuzione che, dalla Guida all’Acquisto di fine Marzo, sarà diffusa su tutto il territorio nazionale tramite edicola ed una selezione di negozi running e outdoor per quanto riguarda i Book Magazine che usciranno a Maggio, Luglio e Novembre, insomma saranno 4 i numeri nel 2103 del nostro Soul Running.

Inoltre saremo in libreria e nei negozi con la prima delle guide al Trail di Soul Running dedicata alla Val D’Aosta, un lavoro immane per le nostre penne e per le nostre gambe.

Per il 2013 partirà anche la prima campagna abbonamenti, l’abbiamo studiata a causa vostra! Le richieste su FB sono state davvero tante. L’offerta sarà ricca di sorprese, le potrete vedere ed acquistare on line sia dalla nostra pagina Facebook Soul Running, che dal nostro sito web (rullo di tamburi...suspance...) www.distanceplus.com

Già! dulcis in fundo, Soul runners di tutta Italia.....Mr Luca Revelli! “Cubo”, per quanto mi riguarda, ha approcciato Soul Running con la voglia, l’entusiasmo e la competenza necessarie ed è un onore avere una sua rubrica fissa sul giornale e concertare con lui tantissime iniziative che nel corso dell’anno siamo convinti vi coinvolgeranno sempre di più.

GRAZIE A TUTTI & FOLLOW US.

Davide Orlandi

SOMMARIO

RUBRICHE

18 Run for Free - Andrea Pizzi

20 Soul Book - Marta Villa

22 La zanzara - Luca Revelli

98 Testati per voi

OUR FRIENDS

42 Gazzola, Storti, Valsesia, Vismara - I Gran Visir del Salar

54 Elena Gatto, Dino Bonelli - La cinquantesima stella

66 Francesca Canepa - Francesca

82 Tite Togni - Tite a nudo

SOUL EXPERIENCES

24 Elba Deep Blue Trail

78 La Strada della luce

94 Libertè, agilitè, sûretè. L’esperienza Raidlight

EXTRA

74 Jerome Bernard ITW

89 La ricetta di Krissy

92 Soul Rewoolution

100 Alpe di Siusi Running Shoe Experience

101 Campagna abbonamenti di Soul Running

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INTROSPETTIVAMENTE

La velocità, si sa, è relativa. A scuola mi hanno parlato dei sistemi di riferimento, quella storia che se siamo in macchina e veniamo sorpassati notiamo solo la differenza di velocità, quella relativa quindi, non quella assoluta dell’auto...insomma il nostro sistema di riferimento funziona come un filtro. Mi sono accorto negli ultimi mesi che nella corsa, specie in quella off road, i sistemi di riferimento non esistono, ce li creiamo noi. La velocità diventa ancor più relativa perché la avvertiamo ogni volta in modo diverso in base alle sensazioni che arrivano dal nostro corpo, è solo nostra. Questo quando corriamo da soli. Quando invece siamo in compagnia cambia tutto, si può giocare con la velocità per tenere il ritmo degli altri, imporre il nostro, per semplice divertimento o per uno scopo preciso: la vittoria se si è in gara. Nelle gare di trail impostare la velocità è un’arte, frutto di esperienza e conoscenza di sé stessi. Chi corre per la classifica deve essere veloce ma deve comunque “settare” la propria velocità, in un ultra trail difficilmente si corre sull’avversario perché distanze e tempi si dilatano e tutto può succedere. Se si imposta male la velocità si compromette la gara. Marco Olmo ha scritto: “Se hai fretta di finire una gara, non la finirai”.

Correndo off road, sia che si tratti di un allenamento, di un’esplorazione o di una gara la velocità viene regolata in modo completamente diverso dalla strada, dove si tiene lo stesso ritmo per più tempo. E’ questo che mi piace: la continua varietà. E’ il terreno che guida il nostro passo con

i suoi saliscendi: ciò che ci finisce sotto i piedi, in completa antitesi (dico per me, non voglio parlare in senso assoluto) dalla monotonia dell’asfalto, regola la nostra progressione. Quando senti la gamba che “gira” bene, quando riesci a controllare il respiro, quando hai la sensazione di correre in economia, ecco, quella è la tua velocità, la tua e di nessun altro. Quando invece non è giornata, il respiro è affannoso e allora rallenti, ti guardi ancor di più intorno, scatti una foto e mangi un frutto, anche questa è la tua velocità, tua e di nessun altro. Il bello della corsa off road per me è proprio questo: non c’è il cronometro, se non si vuole correre si può continuare semplicemente a camminare osservando cosa ci sta intorno. Forse non sono l’unico a pensarla così, basta guardare cosa succede al termine di una gara di trail dove pochissimi, a volte solo davvero i primi, premono il pulsante stop del cronometro.

L’importante non è il riscontro cronometrico ma il viaggio appena concluso con tutto quello che si porta dietro. In una gara su strada si corre contro il tempo, contro il proprio personale, e all’arrivo non conta cosa abbiamo avuto intorno per quei chilometri, conta solo il beep dell’orologio. In un trail la linea del traguardo segna la fine di un viaggio dove spesso si è passato più tempo a guardarsi intorno che a controllare lo scorrere dei minuti.

Per il trail runner la velocità non è un parametro valutabile, confrontabile e assoluto: è soggettivo, relativo e dipende quasi sempre da quello che la Terra ci mette intorno e sotto i piedi.

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Scoprite tutta la linea Trail Running su www.patagonia.com/eu/itIT/shop/trail-running Sul sentiero Mescal Trail impolverato dalla neve, Jenny Konway fa un primo assaggio dell’inverno. Sedona, Arizona. COLIN MEAHGHER © 2012, Patagonia, Inc.

che porta

ha rapinato di morbi sinuoso. La corsa è

scava, restituiscesvuota, in

del meraviglioso su che anni di benessere hanno regalato. E produce giorno eroi aggiungonosconosciuti, Soul book

Da Marco Olmo a Kilian Jornet passando per Paolo Giordano con un filo conduttore: il corpo umano che è anche il titolo dell’ultimo libro dell’autore torinese. In tutti e tre i libri si legge delle reazioni del proprio corpo allo sforzo, al dolore, alla sofferenza, al desiderio di riscatto, al voler realizzare i propri sogni, alla nostalgia.

Paolo Giordano - Il corpo umano. - Ed. Mondadori, 19 euro, 312 pagine

Con lo sfondo del conflitto in Afganisthan, che in queste pagine non è più così lontano e staccato dalla nostra realtà, Giordano racconta sensazioni e vita di un gruppo di soldati italiani che, purtroppo, saranno i protagonisti di una vicenda che li segnerà per sempre. Con loro si rivivono le sensazioni e tutto il percepito dal corpo, appunto, durante la guerra. Anche loro alla fine del romanzo cambieranno, non saranno più gli stessi, il loro corpo reagirà in modo differente agli stimoli del mondo esterno.

Kilian Jornet - Correre o morire, - Ed. Vivalda, collana I licheni, 19,50 euro, 200 pagine

Un predestinato per eccellere nello sport, un fuoriclasse con doti “pazzesche”, un ragazzo che ha al suo attivo un palmarès difficilmente eguagliabile. Kilian è diventato un personaggio”mito” ma rimane uno di noi, è davvero un uomo che non rinuncia mai ai propri sogni. Determinato a raggiungere una meta con allenamenti continui e, anche se “mito”, umano nei limiti di infortuni o sconfitte e per questo ancora più affascinante. Racconta la storia della sua vita, nei momenti fondamentali, alla continua ricerca dei propri limiti portando avanti pian piano i propri sogni. Emozionante la prefazione di Simone Moro.

Marco Olmo – Gaia De Pascale - Il corridore - Ed. Ponte alle grazie, 12,50 euro, 140 pagine

Olmo è il riferimento del trail, è l’italiano riconosciuto dai francesi (e con questo abbiamo detto tutto), è colui che c’è prima e anche durante il tempo di Kilian. Nel libro scritto a quattro mani con Gaia de Pascale troviamo una serie di pensieri legati ai momenti importanti della sua vita, un’esistenza pensata al riscatto da qualcosa, con un onnipresente sottofondo di malinconia, con Marco si rivivono le sensazioni e le sofferenze di un uomo, e di uno sportivo, in grado di raggiungere traguardi che nemmeno lui si aspettava.

Luigi Mundula - Io e la maratona, una passione infinita - Ed. Albatros, 14,90 euro, 245 pagine

Luigi ti contatta su FB come tanti in questo periodo e si presenta con simpatia, cortesia ed una rara e sana umiltà e così ti trovi a leggere in pausa a pranzo il suo lavoro. Ti trasporta a Ozieri in Sardegna dove tutto sembra essere semplice, dove i rapporti sembrano essere molto diretti, efficaci, dove Luigi può correre per metà della sua vita anche dall’altra parte dell’oceano ma nulla lo toglie dalle sue radici. Credo che siano proprio le radici ad attrarre l’attenzione del lettore, quando con simpatia, intelligenza e passione, in un misto di bovini da salvare (è un veterinario molto apprezzato Luigi) ed allenamenti sofferti, ci viene proposta con semplicità la gioia del vivere con passione, con trasporto senza troppe ansie la corsa! Un po’ di sana invidia!

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LA ZANZARA

Chi da qualche anno pratica il Trail running, acquistando questa rivista, se arriverà a leggere questa rubrica, sicuramente “stabuzzerà” gli occhi e si domanderà: “…ma davvero quel semianalfabeta di Luca Revelli, in arte Cubettoz, cura uno spazio tutto suo su una rivista cartacea di successo?!?”

Ebbene sì, non ci avrei creduto nemmeno io, ma è proprio così! Mentre scrivo questo primo articolo mi sento davvero a disagio e per questo proverò a entrare in punta di piedi in questo mondo, cercando di fare al meglio quello che ho sempre fatto, vale a dire, analizzare in maniera logica e razionale questo tipo di eventi sportivi, sfruttando l’esperienza accumulata negli anni.

Innanzitutto, ringrazio l’editore di questa rivista, Davide Orlandi, che ha creduto in me fin dall’inizio e mi ha permesso di cimentarmi con questa nuova esperienza. Di fronte a questo (in)carico, non so bene come iniziare, normalmente si cerca di dire qualcosa, e per evitare di risultare un po’ impacciato, le prime righe di questo mio esordio le dedicherò alla mia presentazione. In fondo, ogni gentlemen che si rispetti ,quando entra in casa d’altri, stringe la mano al padrone di casa e poi, racconta qualcosa di sé. Io non sono propriamente un gentiluomo, ma sono convinto che un minimo di buona educazione non guasti, per cui ecco che cosa posso dire a questo proposito.

Parlo in terza persona, come Cesare nel De Bello Gallico… lo faccio solo per questo, per un minimo di distacco oggettivo.

“Cubettoz (il soprannome che mi hanno rifilato i miei amici) nasce, sportivamente parlando, nel settembre 2005, portando a termine l’ecomaratona dei Cimbri. Poi, col passare degli anni, una serie “spaventosa” di gare, grazie alle quali può vantare di essere diventato, per esempio, “finisher” alla Cromagnon, all’Ultra trail du Verdon, alla Vanoise, alla CCC, alla LUT e ad altri acronimi che non sapeva neanche potessero esistere. Ma la stagione agonistica di Cubettoz è durata quanto la vita di un moscerino, il nostro eroe muore “sportivamente parlando” il 26 Giugno 2010, con il ritiro alla Lavaredo Ultra Trail. La sua grande fortuna (cosa che si comprende meglio “a bocce ferme”), è stata quella di aver cominciato accanto a persone speciali che hanno precorso i tempi di questa disciplina in Italia. La prima volta che ha corso su un sentiero si trovava in Val Veny con Checco Galanzino. Le tre regole fondamentali del Trail le ha apprese attraverso i consigli del suo “guru” Fulvio Massa. Il momento in cui ha compreso l’essenza e la spiritualità del Trail stava “balisando” (segnando il percorso) per la seconda edizione di “Le Porte di Pietra”, insieme a Giorgio Simonetti, il Colonello, il Varano. Tre nomi, tre persone che gli hanno permesso di migliorare e di comprendere che il Trail è uno sport di sacrificio e fatica. Dal momento in cui ha esordito le cose sono cambiate enormemente e, ovviamente, è cambiato anche lui. Il ricordo di quei momenti, però, è quello che gli permette di credere ancora in questa disciplina fantastica”.

È chiaro che ci voleva la parte retorica, quella che deve far commuovere il lettore. Ora, però, veniamo alle cose serie, che come vedrete si concretizzeranno in tre righe: il mio intento è quello di dare un taglio tecnico a questa rubrica, considerando il fatto che il prossimo numero uscirà a Marzo 2013 quale migliore occasione per disquisire a lungo su di un argomento di ampio repsiro e di interesse comune: Qual’è il “Livello del Trail in Italia” oggi? Dove può arrivare? Cosa manca? Miro ad avere un vero dialogo con voi lettori, così da “preparare insieme” la prossima rubrica, per cui, se mi hai sopportato e sei riuscito ad arrivare fino a qui, questa è la mia mail… luca@soulrunning.it

ELBA DEEP BLUE TRAIL

100

KM DA CORRERE.

SASSI, TERRA, SABBIA, ROCCIA, ERBA. AMICI.

OSPITALITÀ INNATA. CUORE.

UN SOLO LUOGO: ISOLA D’ELBA

Tendine caviglia destra rotto. Operiamo, non operiamo, operiamo, non operiamo....NON operiamo. E così per l’ennesima volta nella mia vita decido per il medico fai da te. Devo anche dire che le opinioni in merito erano più che discordanti e mi è piaciuto seguire il consiglio della mia amica Tite che via TW mi ha detto: “non operare! cerca spazio là dentro!”.

Se sapete chi è Tite saprete leggere in modo corretto il consiglio.

Dopo 60 giorni di riposo assoluto mi ritrovo con poco più di un mese per allenarmi per la Soul Experience programmata per ottobre all’Isola d’Elba con Max Russo, Deus Ex Machina dell’Elba Trail: è poco ma ce la voglio fare. Ma non avevo fatto i conti con l’inserimento all’asilo di mio figlio Giacomo che ha convogliato un flusso di batteri/virus verso la mia abitazione. Io non ne ho evitato uno! E così alla partenza per l’Elba Deep Blu Trail mi ritrovo reduce da antibiotico, ancora tossicchiante e con nelle gambe sei allenamenti alla montagnetta di San Siro in settembre e qualche uscita in bici ad agosto. Perfetto direi!

Per fortuna ho una certezza che mi continuo a ripetere come un mantra: tanto c’è il Pizzi. Lui è in forma. Io inizio, dove arrivo, arrivo... mal che vada faccio da driver/base vita con Marta. Il mio mantra si sgretola al sesto chilometro quanto un urlo echeggia sulla cresta tra Cavo e Porto azzurro, è Andrea. Caviglia destra. Il mio mantra cambia di colpo e diventa: adesso ce la devi fare!!

Qui ho iniziato a correre davvero, al sesto chilometro del primo stage. Ho incominciato a ripetermi, e l’ho fatto per tutto il tempo, che era il miglior modo per ritornare in forma in fretta, diciamo un metodo “da 0 a 100”.....chilometri in 4 giorni. Non pensare al dolore! Cavigliera e via. Ho così iniziato a fare il mio dovere/piacere di runner giornalista, pur sapendo che l’unica cosa difficile da governare sarebbe stata la testa.

PRIMO STAGE

Umidità. Ci inoltriamo nelle nuvole basse. Saliamo subito per percorrere una lunga cresta che offre panorami a 360° su tutto lo sviluppo dell’isola. Sembra piccola, ma mi renderò conto dopo che non possiede trenta metri dritti e in piano! Beh in fondo è quello che cercavo. L’ambiente si fa esaltante, il vento è forte e fresco, due strappi su terra e sassi mobili si fanno ricordare, e poi appaiono le sinuosità dell’isola che emergono dal blu, tutte le sue curve sensuali, tornite. mi sento 25

Di Davide Orlandi. Foto Andrea Valsecchi

accolto e finalmente le sensazioni sono buone, provo a scendere più veloce pur con il terrore di bissare il Pizzi, ma l’attrezzo che ho ai piedi by La Sportiva tiene sia dentro che fuori alla grande. Tutto va bene e magicamente ci ritroviamo in un angolo di Grigna trasportato al mare a picco sul santuario di.....qualche passo tecnico e poi giù di corsa rapidi in un bosco di abeti già nella sua veste autunnale. Sole! Improvviso, forte, pieno. Arrivo a Porto Azzurro girando attorno alle mura dell’antico carcere. Scogli e blu cobalto sono gli ultimi metri prima di arrivare al porto.

SECONDO STAGE

Come sto bene oggi! Colazione del campione (tralascio particolari non propriamente consoni al magazine) e via. Si corre subito e si correrà

tanto. Si corre lungo tutto il perimetro di una zona completamente irraggiungibile altrimenti se non in bici, i cugini bikers che la conoscono sono davvero tanti. Si respira mare oggi, lo sento nei miei polmoni milanesi, Entra si fa largo tra le macerie e pulisce. Macchia mediterranea. Si sale poi con pochi e piacevoli strappetti per poi scendere. Paesaggio lunare. Ferro, zolfo ed altri minerali o metalli colorano le vecchie miniere. Sarà un caso ma il Monte Calamita colpisce e ferma il mio Garmin (come mi piacerebbe far nascere la leggenda ma non me la sento, l’ho spento in una sosta fotografica ed il resto è cronaca... beata onestà). Caldissima la risalita ed interminabile l’arrivo a Capoliveri. Il bagno nella spiaggetta di Porto

Azzurro è qualcosa per cui vale la pena rifare tutto il secondo stage subito!

TERZO STAGE

Come sto male oggi! Mi sento debole, demotivato, assonnato. Partiamo, come sono lento. Terribilmente lento.

Ecco la lotta con la testa che ripete: fermati, sei stanco, corri male, prenderai un’altra distorsione sulla caviglia andata. Richiamo alla mente vecchi corsi di yoga e cerco nella respirazione una via di fuga. Dopo 10 chilometri davvero difficili mi libero e nonostante io rimanga lento ed affaticato sono sereno e per me è solo questo che conta. Attraversiamo in tutta la loro lunghezza rincorrendo la risacca, tre lunghe spiagge, approdando infine a Marina di Campo dove ad aspettarci c’è anche la RAI. Io mi defilo e mi tuffo!!

QUARTO STAGE

Recupero. Oggi mi risento quasi un runner di montagna e ne avrò bisogno! Lasciata Marina di Campo si sale verso il Capanne, vetta elbana per eccellenza, parco giochi per tutti i runner isolani e teatro dell’Elba Trail. Ambiente forte, colorato, con variazioni di vegetazione, panorama e clima davvero incredibili per un ecosistema così piccolo. Latifoglie, boschi di abeti e felci a perdita d’occhio, roccette di vetta, valloni di macchia mediterranea corrono infiniti verso il mare, Corsica sullo sfondo ed iniezioni, commistioni inaspettate di cultura corsa nell’estremità occidentale dell’Isola. Arrivo a Pomonte nell’incanto. In quel momento ho desiderato svernare lì. Nel nulla. Nel Blu. Ed infine Fetovaia il traguardo.

Acque limpide ed accoglienti. Faccio un lungo bagno e guardo gli altri parlare sulla spiaggia. Sarà l’ultimo giorno dell’estate 2012.

Il barista è simpatico. Una turista runner teutonica si interessa a noi. Il corpo è rinato, 97 km di trail guariscono anche i tendini rotti, vedi un po’ che aveva ragione Tite e lo spazio all’Elba l’ho trovato. Fuori e dentro di me!

IL POTERE DEL GRUPPO

E’ la prima volta che corro con una compagnia numerosa, io sono molto solitario dal punto di vista sportivo. La cosa però incredibilmente non mi disturba, sento subito empatia, la percepisco quando ogni filo d’erba che calpesto acquisisce un nome ed una storia attraverso una sana onniscienza su tutto ciò che riguarda l’Elba del Presidente Gigi, illustre pensionato ex pigro, fumatore e auto-dipendente, che viaggia nella sua seconda giovinezza a suon di maratone. La vedo nei gesti gentili e curati di Andrea e sua moglie Claudia (radiologi...utili al Pizzi). Nella toscanità magnifica di Gianni (cosa corre questo!) e della sua Ivanna (cosa corre questa!), da chi come come Michele butta il cuore al di là dell’ostacolo per questo sport, o meglio al di là del tratto di mare che collega la sua odiata/amata Piombino dove vive, alla sua amatissima Elba dove corre. Ed ancora Minna e Petunia, una coppia da film, Susanna che solo per il suo cognome avrà la copertina del prossimo numero dedicata (si chiama come me).

Chiudo con licenza giornalistico/poetica affibbiando a Max Russo una strisciata di aggettivi: stratega, ideatore, organizzatore, generoso, lungimirante, caparbio, nobile (chissà se la capisce....), splendidamente vanitoso, vincente, insomma un runner! Grazie.

CLOSE UP

L’obiettivo di una macchina fotografica è il terzo occhio, a volte ritrae l’anima e l’aura di ciò che ci circonda. Il Valsex ci e si racconta così.

Testo e foto di Andrea

T e ATR o D elle o P e RAZ io N i : M i N ie R e D el M o NT e CA l AM i TA - i S ol A D’ el BA - ore 12.00

Lunedì 8 ottobre 2012: mentre mi avvicinavo alla costa guardavo dal traghetto lo skyline dell’isola cercando di immaginare su quali profili ci saremo stagliati il giorno dopo io e i miei compagni di Soul Experience, Andrea Pizzi e Davide Orlandi. Operazione riuscita poi, grazie alle generose e precise mappe forniteci dal nostro ospite Max Russo. Situazione chiara, morfologia del territorio memorizzata e in testa aspettative di un percorso davvero notevole. Siamo così partiti da Cavo per la prima tappa ben preparati alle difficoltà e ai pregi di ciò che ci attendeva. Man mano che i pendii ed i panorami si presentavano innanzi all’obiettivo l’Elba, come una signora avvezza alle arti sottili della seduzione, ci ha fatto letteralmente perdere la testa. Roba da “cotta” giovanile!

Colli, sentieri, panorami, scorci di mare e golfi dai colori mutevoli,

nuvole rapide e vento che cambiavano la policromia degli scenari, temperature che oscillavano tra il fresco e una calura mai opprimente, tutto condensato nel giro di una mattina. Un susseguirsi di piacevoli sorprese ora dopo ora… giorno dopo giorno… pioggia, sole, vento, bagni nelle acque smeraldine di Fetovaia, la nebbia in cima al Monte Capanne… L’ Elba ad Ottobre è uno scenario da sogno.

Di questi luoghi mi ha folgorato il promontorio del monte Calamita, un angolo di isola ancestrale con una forza possente che prorompe dalle viscere della montagna, con cascate di ciottoli che ti circondano di colori che passano dal nero all’indaco, al giallo, spruzzati dal verde della macchia mediterranea e incorniciato dagli azzurri intensi del mare e del cielo.

Valsecchi

Queste foto, dalle cromie a volte bizzarre ma reali, vi raccontano l’essenza di questa avventura, più che le mie parole che comunque non riuscirebbero ad esprimere l’impatto che si prova a correre su questi sentieri. Sentimenti che, come sto scoprendo, nel trail sono estremamente “profondi” per l’impegno e la passione che ogni Runner mette in questo modo di intendere la corsa, ma in egual misura “superficiali” nel senso che il corpo vive “sulla” sua pelle intensamente ogni metro, ogni dislivello, ogni variazione del terreno e della temperatura.

Soul Running corre e vive intensamente ogni metro...io vi regalo alcuni squarci con lo zoom…keep on running!

IL GRANDE CUORE DELl ’ELBA

Storie

Sono in credito, con la sorte sicuramente.

Partito carico e con la voglia di correre questi inediti 100 chilometri sull’Elba, carico perché questa volta non eravamo solo noi di Soul Running ma c’erano anche Max, Michele, Gigi, Gianni, Ivanna, Minna, Andrea... insomma questa volta una bella corsa in compagnia.

La gamba, dopo un’estate di relax e allenamento, sembrava anche rispondere bene. Tutto sembrava perfetto. Sarà stato l’impeto, la voglia di correre, la disattenzione, la sfiga o qualcuno che mi ha tirato un accidente: dopo solo sei chilometri, in discesa, arriva la prima distorsione alla caviglia. Capisco subito che non è niente di buono ma proseguo. Incontriamo la Jeep di appoggio ma decido di correre ancora. Poi arriva la seconda distorsione, quella decisiva e il cui urlo ancora rieccheggia sul crinale tra Cavo e Rio Marina. Salgo sulla Jeep.

La speranza è che nel giro di un paio di giorni io riesca a tornare di corsa ma così non sarà, solo rientrato a casa scoprirò l’entità del danno.

Si va avanti. Le tappe sono disegnate sulla carta, spetta a noi farle vivere. Mi metto alla guida della Jeep, farò da driver e da fotografo, tocca a Marta e Andrea alternarsi tra bici e corsa per fare in modo che la compagine Soul Running non sia rappresentata solo da Davide, tra l’altro reduce anche lui da un infortunio alla caviglia, sempre destra... dovremmo fare una riflessione su questa cosa?

Qualche anno fa venni all’Elba in agosto e la guardai con gli occhi del turista (il trail era l’ultimo dei miei pensieri): non è assolutamente paragonabile a rivederla i primi giorni di ottobre, le possibilità di viverla diversamente, correndo, sono davvero tante. Colori caldi, pace, strade libere, temperatura perfetta. Scopri allora che l’Elba ha una fortissima vocazione sportiva: l’Elba Trail, l’Elbaman di triathlon, la Granfondo Elba Ovest di mountainbike oltre a numerose gare podistiche, tanti modi per vivere questa terra in modo attivo. Se poi si ha la possibilità di venirci in primavera o a fine estate c’è anche la sicurezza di paesaggi stupendi. Lo hanno capito gli svizzeri, scesi davvero in massa sull’Isola in questi giorni di inizio ottobre.

L’Elba non mette sul piatto solo le spiagge, i crinali, le miniere e una cima che supera i 1000 metri ma anche i suoi abitanti. Sarà che quando si fa sport insieme è facile stringere buoni rapporti ma con i ragazzi dell’Atletica Isola d’Elba è stato tutto veloce e profondo, evidentemente ci siamo piaciuti a vicenda. Ogni giorno il team cambiava, si davano il

cambio per accompagnarci, per divertirsi correndo e oserei dire, forse peccando di presunzione, per stare in nostra compagnia. Forse sì. Un gruppo di amici con in prima fila Luigi Benassi, conoscitore di qualsiasi aspetto dell’isola, dalla natura alla storia, nonché presidente della società sportiva e ottimo runner. Max Russo è la nostra guida: punto di riferimento non solo del trail elbano ma conosciuto ovunque sia in qualità di organizzatore che di forte trailer: UTMB, corse nei deserti, x-terra...insomma un uomo appassionato di sport e della sua Elba. Ma Max è qualcosa di più, ed è quello che ci ha portato da lui. Con grande lungimiranza nel 2007 ha capito la potenzialità del trail in Italia, ha sposato una causa, un progetto, e ha organizzato nel 2008 la prima edizione di una gara davvero unica, l’Elba Trail, soprattutto perché è una manifestazione che realmente devolve l’intero ricavato in beneficenza. Il progetto si chiama EleonoraXvincere ed è nato nel 2007 per ricordare Eleonora Cinini, scomparsa a soli 30 anni in Perù per un incidente stradale. La famiglia ha deciso di ricordare lei e la sua grande passione per lo sport organizzando gare, di corsa, di sci e di trail appunto, sposando la causa benefica dell’associazione Amici del Madagascar. In cinque anni il primo progetto, quello di costruire una scuola, non solo è stato portato a termine, ma ne ha lanciati di nuovi con una raccolta di fondi che ha raggiunto i 400 mila euro.

L’Elba Trail è organizzata dalla A alla Z da volontari, non deve aver nessun costo, questo è il punto fermo. Una manifestazione che deve il suo successo anche alla disponibilità delle strutture alberghiere che mettono a disposizione, gratuitamente, le proprie camere in modo tale che i partecipanti, oltre alla quota di iscrizione versata direttamente agli Amici del Madagascar, non abbiano costi aggiuntivi per il pernottamento. Con gli anni sono arrivati a un totale di 500 camere offerte dall’associazione albergatori e da GotoElba, oltre 900 persone ospitate. Un evento unico sotto molti punti di vista a cui vale la pena partecipare: una volta conosciute le persone coinvolte e lo spirito che le guida vien voglia di esserci più per dare il proprio contributo che per correre. Non ho vissuto da protagonista il nostro inedito Elba Deep Blue Trail, non ho raggiunto la vetta del Monte Capanne ma mi sono comunque arricchito. Con la sorte sono in credito, devo tornare per correre con questi amici. Per quello invece che mi hanno lasciato l’Elba e gli amici elbani sono in debito.

RENZO MAZZARRI – CUNCTATOR

Puro istinto. Massima concentrazione, visione pura. L’ho sentito parlare di notte sulla spiaggia e non sono ancora sicuro se averlo sognato. Ieri tre volte campione del mondo di pesca in apnea, oggi corre e apre sentieri all’Elba. Di Andrea Pizzi

Renzo Mazzarri si definisce prima di tutto un pescatore ma ha anche una grande passione per la corsa e all’età di 65 anni, portati in modo incredibile, ama correre lungo i sentieri dell’Elba.

Renzo è un personaggio con cui non si può non fare una lunga e piacevole chiaccherata, specie per chi non sa cosa significhi pescare in apnea. Lui in questa disciplina è un campione del mondo, nel vero senso della parola perché di mondiali ne ha vinti ben tre e per giunta consecutivi, l’unico ad aver fatto tanto. Pescare in apnea è un gesto atletico e mentale incredibile, altro che trail running!

Immaginate di trovarvi a 35-40 metri di profondità, la luce è poca e si deve attendere immobili il passaggio del pesce, appoggiati a uno scoglio o sul fondale, ecco perché si chiama pesca “all’aspetto”. Tutto, ovviamente, senza respirare (!). E quando il pesce è stato arpionato bisogna recuperarlo mentre si risale in superficie, tutt’altro che una passeggiata: una vera lotta tra l’uomo e la natura. Renzo ha un palmares incredibile, per lui la pesca è passione per il mare ma soprattutto agonismo, nel vero senso della parola. Agonismo e passione che, seppur lontano dalle competizioni, lo hanno portato lo scorso ottobre a pescare il pesce più grande della sua carriera: una ricciola di 60 kg!

Da grande amante della natura terminata la carriera di apneista si è dedicato alla corsa, sua seconda passione. Lo ha fatto in compagnia di un amico quando partecipò alla Roma-Ostia, famosa mezza maratona, con il solo obiettivo di partecipare e arrivare in fondo. A 52 anni la sua seconda partecipazione, questa volta per migliorarsi, segno che l’agonismo del mare era sbarcato sulla terra. Quando non è impegnato nella gestione del suo residence (Appartamenti Lorella di Lacona) ama accompagnare amici o clienti a camminare, oppure correre, sui percorsi elbani, specie in primavera quando è il trionfo dei colori e dei profumi, aprendo nuovi sentieri e ripristinando i vecchi.

MARCELLO “BOBO” BONISTALLI NATO LIBERO

Uno dei pochi veri anarchici coerenti che abbia mai conosciuto. Un uomo. Un uomo buono. Un uomo onesto, folle. Ha corso a piedi nudi attraverso un epoca e ha corso veloce!

Ha vissuto fuori dagli schemi e la vita gli ha reso in cambio emozioni forti, che gli hanno lasciato il segno nello sguardo, nel modo di fare e anche nel decidere di correre a piedi nudi: una scelta radicale di interpretare il running.

Marcello Bonistalli, “Bobo”, è stato sicuramente il personaggio più

Soul incontrato durante l’Elba Deep Blue Trail. Autentico hippie tra gli anni ‘60 e ‘70, Angelo del fango durante l’alluvione di Firenze del 1966, in prima linea durante le manifestazioni del maggio parigino e poi uomo autentico, schietto, diretto e sportivo con un personale in maratona di 2h33’ (Firenze 1987).

La sua particolarità è correre a piedi scalzi, anche sullo sterrato, e indossare sempre solamente i pantaloncini, la maglietta è per il periodo invernale. Oggi il barefoot è di moda ma per Bobo è una scelta, perché “la terra è come una bella donna, va accarezzata con i piedi nudi, non calpestata con scarpe di plastica”.

Lo abbiamo incontrato una sera durante una aperitivo in cui il nostro entusiasmo per le giornate di running è aumentato nel conoscere una persona che non ha mai rinunciato ai suoi ideali. Bobo ha come motto l’“ozio retribuito”, restio, per non dire “allergico” al lavoro ma non alla fatica, rappresenta forse quello che tanti hanno perso, il mettersi in gioco fino in fondo, non rinunciando al proprio io e alle proprie ispirazioni. Operaio alla Breda ferroviaria di Pistoia dove tutti lo conoscevano anche come appassionato di corsa, tanto che i colleghi fecero una colletta per farlo partecipare alla New York City Marathon.

Eh sì perché dopo un passato non proprio sportivo nella vita di Bobo c’è stata una svolta. 1980, Pistoia Abetone, una classica con 50 km di salita che decide di correre per scommessa. Arriva 71esimo, con una folla a seguire questo capellone che corre e, alla fine, ce la fa.

Da lì non si è fermato, nel 1987 a 43 anni il suo record personale a Firenze, ha all’attivo 143 prestazioni sulla lunga distanza, è ancora campione italiano di categoria sui 42 Km con 3h13’.

La “vocazione” barefoot arriva sulla spiaggia delle Ghiaie di Portoferraio quando prova per la prima volta a correre a piedi scalzi, si accende così una passione, un credo. Nel 2006 la sua prima corsa a piedi nudi, la Stracosmopoli dell’Elba, 70 km, i suoi primi 42.195 metri scalzi arrivano nel 2007 a Firenze. Da quel giorno per ben 11 volte è giunto a piedi nudi al traguardo di una maratona. A Roma ha il suo record sulla distanza con 3h27’ e nel 2010, per il cinquantesimo anniversario della celeberrima maratona olimpica scalza di Bikila (1960), Bobo si presenta ai Fori Imperiali anche lui a piedi nudi, come il grande maratoneta africano.

Di Marta Villa

Una vita al massimo, un grande bagaglio di esperienze positive e negative. Ha provato anche la prigione: 4 mesi per le manifestazioni di Parigi e ancora in Italia, quando già aveva cambiato vita e stava preparando il campionato italiano nel 1986. Gli arrivò un mandato di cattura tardivo e fu rinchiuso nuovamente: anche lì non si fermò, i secondini gli prendevano il tempo sul giro del cortile durante l’ora d’aria. Uscì e vinse quel campionato italiano.

Ora Bobo ha come obiettivo per il 2013 i 100 Km del Passatore scalzo, poi gli europei a Smirne nel 2014 e nel 2015 i mondiali a Lione, perché la sua voglia di viaggiare per correre non si è spenta, la corsa ti dà anche questo. Un profondo amante dell’isola del’Elba tanto da sceglierla durante il passato per alcuni soggiorni decisamente qui fuori dagli schemi, vivendo per esempio in una grotta, e oggi per viverci da pensionato. Oltre a correre Bobo si occupa come volontario di uno dei campetti di calcio all’Elba, a stretto contatto con i ragazzi che gli vogliono bene e da un personaggio come lui hanno solo da imparare.

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I Gran Visir del Salar

Marco, Nico, Giovanni, Luca...

quattro amici, quattro visioni diverse dello stesso obiettivo

e la poesia degli scatti di Morgan

ALTIPLANO

Un viaggio infinito, due scali e diverse ore di volo prima di venire letteralmente “scaraventati” ai 4200 mt di quota di La Paz. Uno shock termico impressionante pensando alla partenza da Milano per non parlare della mancanza di ossigeno che si è fatta subito sentire. Il primo impatto per chi non è mai stato in questo luogo è di sicuro destabilizzante. Da El Alto si scende in un canyon dove sorge La Paz, una città che si sviluppa su quasi 1000 metri di dislivello: case arroccate sui pendii, in equilibrio quasi a sfidare la legge di gravità, soprattutto durante il periodo monsonico.

Il luogo più tipico da visitare nelle città sudamericane sono sicuramente i mercati: frutta, verdura, pane, polli, uova, ogni genere alimentare e non, perfino le immancabili foglie di coca.

Gironzoliamo in mezzo ad una miriade di bancarelle gestite dalle donne campesine (cholitas). Profumi, odori a volte anche nauseabondi, colori, forme nuove, siamo incuriositi da tutto ciò a noi sconosciuto.

Dopo due giorni siamo ben contenti di cominciare il nostro viaggio verso sud, verso la tanto sognata meta del Salar de Uyuni, anche se non ci lasciamo sfuggire l’opportunità di fare una leggera deviazione verso la metropoli più in quota al mondo, Potosi, anche conosciuta per l’estrazione di argento dal Cerro Rico e per la prima zecca al mondo.

dell’attraversamento no-stop del Salar de Uyuni, il più vasto deserto salato al mondo.

Muoviamo i primi passi di corsa con cautela, quasi non volendo far rumore, corriamo mettendo i piedi in mezzo a tutte queste enormi piastrelle esagonali congiunte da un piccolo bordino che cerchiamo assolutamente di non rompere. La temperatura è molto bassa (corro con il piumino d’oca), l’aria in gola fa quasi male, ci copriamo la bocca con il buff. Corriamo appaiati e ben presto ci accorgiamo che non avendo punti di riferimento (strada, sentiero, marciapiede...) spesso ci scontriamo con i gomiti. Invertiamo le posizioni e succede che lentamente ci allontaniamo tra noi, ma che strano, una sensazione mai provata, vuoi dire che corriamo spingendo di più da una parte?

Corriamo parlando oppure in silenzio, assorti nei nostri pensieri, il sole sorge lentamente ed il clima si scalda, ogni passo viene posizionato bene in mezzo alla “piastrella” di sale, facendo attenzione a non rompere il bordino. Alla nostra destra il Tunupa, un vulcano che ci accompagnerà per diversi chilometri e davanti a noi l’infinito, si intravvede solo la sagoma dell’isola che dovremo raggiungere.

Continua così il nostro acclimatamento percorrendo la nuova strada che da Potosi ci porterà al mare di sale più vasto al mondo. La striscia di asfalto si perde nel rosso, ocra e marrone chiaro dell’altipiano, qua e là un qualche cactus, arbusti bassi che sfidano il vento costante, teso, che non molla mai.

Da lontano scorgiamo una distesa bianca infinita, eccoci, ci siamo quasi: il Salar de Uyuni.

2 agosto ore 06.00, -10°C (forse anche meno) scendiamo dal fuoristrada e poggiamo i piedi sul sale: scricchiola come uno strato sottile di ghiaccio, forse lo è veramente viste le temperature, sale ghiacciato!

Dopo alcune foto e riprese di rito per la partenza eccoci pronti.

Spontaneamente Nico ed io ci abbracciamo, comincia l’avventura

E’ impressionante pensare che non ci sia nessun segno di vita, nessun animale, scarafaggio, insetto, o altro, non vola nemmeno una mosca! Anche Giova e Luca ci accompagnano per diversi chilometri, il clima migliora, l’aria è fredda (4-5 gradi) e il sole si sente, mani e viso incremate, anche il suolo comincia a cambiare consistenza: non più piastrelle lisce esagonali ma un terreno “rugoso”, grumi di sale che obbligano le caviglie ad una continua correzione per l’appoggio dei piedi, questo non era previsto, le gambe ne risentono, adattiamo il ritmo.

Il sole è sorto alle nostre spalle, ora dopo ora ci ha superati, l’abbiamo di fronte, e pian piano le nostre ombre si allungano sempre di più, diventano infinitamente lunghe sulla distesa bianca. La temperatura scende di nuovo e dobbiamo coprirci.

Il sole tramonta ma la luce non scompare del tutto: una luna piena, accecante, rischiara e riflette il bianco del sale, abbiamo la pila frontale ma non ci serve, anzi, al fuoristrada di supporto chiediamo di allontanarsi per non guastarci questa meraviglia con i suoi fari e il rumore del motore.

Le ore passano, le gambe sono stanche, non ci chiediamo più quanti chilometri possano mancare, non importa, presto o tardi arriveremo dall’altra parte, a Llica. Diventiamo più loquaci, forse per tenerci svegli, forse l’adrenalina, chi lo sa. Il terreno comincia a cambiare colore, da bianco candido ad un grigio chiaro con macchie scure: vuoi vedere che ci stiamo avvicinando alla “costa” ? E’ lo stesso colore visto alla partenza da Colchani, 19 ore prima. Giova, Luca e Morgan con le luci ci fanno capire che manca veramente poco, improvvisamente le gambe prendono vitalità, sentiamo anche il rumore del clacson, una sensazione strana mi assale, un nodo in gola, un “magone”, sentimenti che salgono sempre più fino ad una lacrima di emozione.

PRIMI OMINIDI AD AVER ATTRAVERSATO DI CORSA IL SALAR...

INTANTO CI FREGANO UN ORO NELLA BOXE ALLE OLIMPIADI

Di Giovanni Storti - Foto di Morgan Bertacca

Se si vuole andare in Bolivia dall’Italia bisogna mettersi il cuore in pace riguardo al viaggio: è infinito. Si fa prima ad andare in Australia. Una giornata intera di viaggio per poi approdare in un hotel tra i più inospitali del pianeta. Naturalmente scelto da Nik, il cui motto è: “bisogna vivere come i locali”; si, ma perchè quelli più sfigati, dico io? Tutte le scelte di hotel e ristoranti, bettole, saranno dettate da questa regola spartana. Il gruppo è formato da Nico e Marco, i due atleti nonché promotori del viaggio, Morgan, operatore

NIK E MARCO: I

Scopo del viaggio, ma non unico, attraversare il Salar de Uyuni di corsa.

Intanto l’Italia vince i primi due ori alle Olimpiadi.

regista, Luca, osteopata-ricercatore ed io, Giovanni, che vorrebbe un po’ più di agiatezza.

Scopo del viaggio, ma non unico, attraversare il Salar de Uyuni di corsa. Ci acclimatiamo un paio di giorni a La Paz, 3600/4000 mt.

Purtroppo Morgan soffre la quota e passa il tempo tra il letto e quello che viene definito, dai locali, bagno. Intanto l’Italia vince i primi due ori alle Olimpiadi. Lungo la strada incontriamo i famigerati bloqueros.

Sono lavoratori che attuano una forma di sciopero estrema: bloccano arterie principali gettando sassi e massi sul selciato. Se non ti fermi ti prendono a sassate. Nik, alla guida, devia con scaltrezza nei campi, così aggiriamo il blocco. Ne incontriamo un altro pochi km dopo e, con una lunga deviazione tra le montagne che ci porta nell’oscurità della notte, evitiamo anche quello, per poi rimanere bloccati un km dopo. Piovono pietre da una collinetta. Fortunatamente, causa l’incazzatura di una terribile signora di 150 kg e l’ora tarda, poco dopo ci fanno passare. Scopriremo poi che i blocchi hanno interrotto la viabilità per tre giorni. Intanto vinciamo un altro oro alle Olimpiadi.

La mattina dopo partiamo di buon ora, abbandonando un hotel a cui, poco dopo, viene strappata l’unica stella che mostrava.

Passiamo bellissimi altopiani, siamo sopra i 4000 mt, circondati da montagne innevate. Zone di grandi cactus attraversate da branchi di Lama e Vicugne; rischiamo di investirne un paio...ci saremmo potuti fare dei caldi golfini... peccato.

Intanto ci accaparriamo anche l’oro nel Taekwondo. Dietro una curva appare, all’improvviso sotto di noi, la vista magnifica del Salar, bianco accecante. Eccoci finalmente ad Uyuni, alle porte del Salar.

La sera si fa la spesa per la traversata del deserto bianco e, alle 4 del mattino di giovedì 2 agosto, ci si muove per essere alle 6 sul luogo di partenza. 135 km di deserto salato a 3600/3700 mt d’altezza, no stop. Purtroppo a nulla è valso il mio allenamento nelle saline di Trapani: troppo diverse.

Si parte inondati dalla luce di una luna piena magnifica. Il sale la riflette e sembra giorno. Ci sono 11 gradi sotto zero. Nik e Marco sono sorridenti e determinati. Noi della “scorta” li precediamo o seguiamo nel caldo della jeep, sgranocchiando biscotti che, qui in Italia, sarebbero vietati dalla legge. Spunta il sole e tutto diventa abbacinante.

La temperatura sale attorno ai 10 gradi.

Il sale, di cui è composto il deserto, non si trova sotto la stessa forma. Nel primo tratto è composto da grandi esagoni col bordo rialzato. Nel centro è granuloso. Nell’ultimo tratto tornano gli esagoni ma col bordo scavato. Interrogati sulla particolarità di queste forme, i locali danno risposte ambigue. Mando una mail a Piero Angela ma, a tutt’oggi, ci portiamo addosso questo atroce mistero. Intanto l’Italia porta a casa un altro oro. Adesso è giorno pieno. Sembra di essere sospesi. Le distanze diventano incalcolabili. Bisogna bere e “incremarsi” abbondantemente per non evaporare e la protezione per gli occhi deve essere totale per non ritrovarseli come quelli del camaleonte. Ci dicono che d’estate c’è una spanna d’acqua. Un lago bianco che riflette il cielo e le montagne. Un posto da visioni. I Giapponesi vanno matti per questo ambiente...se ne perdono una decina all’anno. In genere vengono ritrovate solo le macchine fotografiche. La traversata è dura: per la quota, per la durezza del sale, per il clima ma, c’è una bellezza così pura che Nik e Marco attingono forza da ciò che li circonda. Si fa buio e comincia a fare freddo. I due eroi corrono al chiaro di luna e, sembra di esserci sulla luna. L’atmosfera è di una bellezza essenziale, rimane stampata nella mente. Tagliamo il traguardo, un cartello solitario delimita il lato est del Salar. E’ l’una di notte. Ci sono 12 gradi sottozero. Si brinda tutti assieme, tremanti. Nik e Marco: i primi ominidi ad aver attraversato di corsa il Salar e, noi, i primi ad averli accompagnati. Intanto ci fregano un oro nella boxe alle Olimpiadi.

LA LOGISTICA DEL SALAR

Premetto che quando faccio dei progetti, o meglio, quando “sogno” dei progetti, inizio a fantasticare. Così la parte tecnica, cioè quella logistica, fondamentale per progettare un viaggio in maniera seria, avviene, erroneamente per ultima. Prima si ipotizzano le cose più assurde, me ne viene in mente una in particolare per quanto riguarda questa spettacolare impresa: nel “gettare” lì ogni ipotesi possibile avevamo pensato di iniziare la traversata del Salar lanciandoci tutti e cinue col paracadute da un aereo, ed una volta a terra sganciarci dalle nostre “vele salva uomo” partendo subito di corsa, io e Marco, mentre Morgan, dopo aver filmato il nostro volo con atterraggio sarebbe partito con Giova e Luca a tutto gas con un fuoristrada, pronto con il motore già “caldo”, soprattutto caldo per riscaldare i tre congelati che avrebbero dovuto sopportare il “gelo polare” del Salar. Bè non è successo, alla fine non c’e’stato nessun aereo e tanto meno nessun paracadute, ma non per questo l’impresa si è rivelata meno emozionante anzi, è stata una delle avventure più incredibili a cui io abbia preso parte, sia per aver corso nel luogo che sulla terra è forse quello più simile alla luna, sia e soprattutto per averlo condiviso con quattro “soci” che potrei definire, senza azzardo i “fantastici quattro”.

centro, diventa duro come il marmo, tanto da permettere il transito di jeep e bus. Stabilito il periodo, abbiamo quindi deciso per i primi giorni di agosto. Per quanto riguarda la traccia da seguire, potrebbe sembrare facile costruirla con computer, Google maps ecc...si scaricano le cartine e poi si misurano i km, si scarica la traccia e via… Il problema è che i chilometri di chi lo aveva già attraversato in jeep, o in bicicletta sulla linea più ampia, in diagonale, non corrispondevano. Così come i racconti di chi lo aveva già fatto a piedi in più giorni, come per esempio l’attraversata più famosa, quella di Carla Perotti, che nel suo libro “deserti” racconta di aver fatto 180 km in 6 giorni, sempre nel tratto più ampio, da Uyuni (Colciani) fino a Llica. Per noi alla fine i chilometri reali sono stati 135. Per quanto riguarda la nostra attraversata tutti gli strumenti di rilevazione sono stati tre Gps più il contachilometri del fuoristrada: seguendo la traccia della Perotti abbiamo coperto i 135 chilometri in 16 ore di corsa, più gli stop per un totale di 19 ore.

Potrei descriverli ognuno per la propria particolarità al di fuori del comune, anzi mi piace di più dire al di fuori del normale.

Ma questo non è il mio compito, a me tocca raccontare di come ci si organizza per una spedizione di questa portata, prima, durante e dopo…

Partiamo avvantaggiati dal fatto che io avevo già attraversato il Salar in bicicletta nel 2002, quindi ne conoscevo già i mutamenti climatici al variare delle stagioni.

Per questo era già scontato che avremmo dovuto affrontare l’impresa nel periodo compreso tra maggio/giugno fino a settembre/ottobre, periodo in cui si prosciuga tutta l’acqua ed il lago salato, con il suo spessore di sale che va da 20 cm del bordo fino ai 15 metri verso il

Ora veniamo all’aspetto tecnico e logistico. Come forse si sarà capito a me piace moltissimo viaggiare allo sbaraglio, farsi sorprendere dagli eventi. Quindi oltre ad aver prenotato i voli dal nostro sponsor, più che sponsor amico Paolo Nugari (titolare di Avventure nel Mondo), la jeep e aver contattato lo “stupendo” hotel Torino di La Paz per un paio di notti, tutto il resto è stato deciso strada facendo, lo conferma il fatto che il programma dei nostri venti giorni di avventura è stato stravolto almeno trenta volte...ma questa è stata forse la cosa più bella... Quindi il mio consiglio a chi volesse ripercorrere questa impresa è quello di non pensarci molto, decidere, prenotare e partire, senza farsi troppi problemi, il bello viene strada facendo. La mia fortuna che i fantastici quattro, i miei soci di viaggio, erano dello stesso calibro, senza problemi e senza pregiudizi.

Grande Marco, Grande Morgan, Grande Luca e Grande Giova!!

Grazie Nk

ASPETTI CLINICI E SCIENTIFICI DI UNA TRAVERSATA UNICA

Di Luca Vismara - Foto di Morgan Bertacca

Decidere di attraversare di corsa un deserto di sale a 3700 metri è una scelta affascinante da tutti i punti di vista, ma che comporta rischi rilevanti dal punto di vista clinico. Il luogo è difficoltoso sotto l’aspetto emergenziale perché non ha la possibilità di cure veloci in caso di urgenze, non ci sono elicotteri di emergenza, non ci sono strutture sanitarie adeguate per affrontare eventi gravi e soprattutto non c’è possibilità di scendere di quota velocemente. Il principale problema che si può affrontare in Bolivia e nel Salar è il mal di montagna, condizione patologica causata dal mancato

adattamento dell’organismo alla quota, derivante dagli effetti correlati alla bassa pressione che riduce l’ossigeno nel sangue e quindi uno stato generale di ipossia. I sintomi più gravi del mal di montagna sono dovuti ad un aumento della permeabilità capillare con conseguente fuoriuscita di liquidi (edema) ai polmoni (edema polmonare) e al cervello (edema cerebrale), sintomi che potenzialmente potrebbero essere fatali. Per questi motivi l’attenzione era incentrata su tutti i sintomi manifestati (nausea, anoressia, cefalea, vomito, disequilibrio, fatica, irritabilità insonnia ecc). Altri aspetti preventivi rilevanti che abbiamo dovuto affrontare sono stati quelli correlati al sole in quota e al riverbero del sale (occhiali esclusivi con lenti molto potenti), alle temperature molto variabili da -20 a +15 e all’orientamento in un ambiente molto

confondente. Perché studiare una traversata di questo tipo? Nel viaggio e nell’impresa ho visto la possibilità di analizzare e studiare le condizioni fisiologiche correlate alla quota, all’adattamento e allo sforzo in condizione di grande deficit funzionale. Basti pensare che abbiamo una riduzione delle capacità aerobiche del 10% ogni 1000 metri dopo i 1500 metri (Salar: -20%).

Nella ricerca continua della salute, legata alla mia attività di osteopata, ho visto questa impresa come un messaggio rivolto a tutte le persone che stanno affrontando una malattia o una disabilità da accettare: affrontate e vincerete, anche solo adattandosi, questa sfida.

Prima di partire

Una valutazione medica è importante per comprendere eventuali

problematiche cardiache, polmonari, neurologiche, circolatorie o coagulative. Importanti i test ECG da sforzo, prove spirometriche, esami ematochimici e di coagulazione.

Inoltre si possono effettuare esami specifici all’ipossia ed eventuali esami neurologici. E’ consigliabile una visita odontoiatrica: in quota cattive otturazioni possono creare parecchi problemi.

Allenamento all’altura con camminate o pedalate al di sopra dei 2500 mt, dieta ricca di carboidrati, aminoacidi ma anche aglio, omega3 e idratazione, soprattutto nell’ultimo periodo prima della partenza

Arrivo a La Paz

Arrivare a la Paz non è come arrivare in una città normale perchè dopo

molte ore di volo atterri a 4000 metri. Immaginate di essere sbalzati dal livello del mare al Colle del Lys ai piedi del Capanna Margherita, sul Monte Rosa. La sensazione fisica è di affaticamento e spossatezza. Da qui scendiamo dall’altopiano di El Alto e soggiorniamo vicino al centro di la Paz a circa 3700 mt per l’adattamento necessario. Iniziamo il lavoro di acclimatamento con camminate, anche a quote superiori ai 4000 mt, esercizi di respirazione e trattamenti osteopatici con l’obiettivo di migliorare l’adattamento del sistema. Ovviamente da adesso in poi inizia un’attenzione particolare nell’utilizzo dell’acqua dei rubinetti e ai cibi a rischio o crudi.

Parametri Esaminati e Metodologia di analisi

L’analisi dei parametri valutativi è stata effettuata: prima della partenza, all’arrivo, al primo giorno, secondo giorno, terzo giorno, prima e dopo la traversata del Salar, dopo sforzo anaerobico. La scelta temporale dei test è stata effettuata per valutare gli effetti della quota, dell’adattamento, del trattamento osteopatico, delle tecniche respiratorie e dello sforzo in quota.

cardiaca risponde velocemente a tutti questi fattori, modificandosi a seconda della situazione, per meglio far adattare l’organismo alle diverse esigenze che l’ambiente continuamente ci sottopone. Un buon grado di variabilità della frequenza cardiaca è correlabile ad un buon grado di adattabilità psicofisica alle diverse situazioni. La HRV e’ correlata alla funzionalità del sistema nervoso autonomo e all’interazione fra il Sistema Nervoso Simpatico Parasimpatico. L’equilibrio dinamico tra questi due sistemi è fondamentale per l’organismo sia dal punto di vista fisiologico che psicologico. Questo tipo di valutazione ci ha consentito di monitorare il quadro generale di tutto il Team.

Risultati dello studio

Alcuni valori basali sono risultati predittivi al mal di montagna quali minor variabilità HRV, minor saturazione basale, maggiore frequenza cardiaca e positività alle scale per la cefalea. L’effetto del trattamento osteopatico e delle tecniche respiratorie sono risultate utile nell’adattamento alla quota. Per quello che riguarda i due atleti la valutazione più significativa è risultata quella riguardante la capacità psichica allo sforzo che è risultata superiore al resto del Team.

MISURE:

> Frequenza Cardiaca

> Saturazione o 2 (81-90%)

> Pressione arteriosa

> o re sonno

> Scala di Borg per valutazione dello sforzo

> Scala Hit-6 per valutazione della cefalea

> Test Romberg per equilibrio

> Peso

> HR v - Heart Rate variability

(variazione del ritmo cardiaco) misurato

tramite M i N i cardio Pro della Hosand

HRV

La HRV e’ la naturale variabilità’ della frequenza cardiaca in risposta a fattori quali il ritmo del respiro, gli stati emozionali, lo stato di ansia, stress, rabbia, rilassamento, etc. In un cuore sano, la frequenza

In poche parole, oltre alle ovvie qualità fisiche, è la loro grande capacità di sopportare lo sforzo che li porta ad ottenere risultati straordinari.

Attraversata…senza distanza…

L’organizzazione generale dell’impresa è avvenuta per gran parte ad Uyuni in cui abbiamo dovuto organizzare un’impresa su una distanza che non potevamo conoscere bene e che poteva avere delle variazioni di ±35 Km.

Da un punto di vista biomeccanico un terreno piatto e liscio richiede una perfezione posturale. Piccole disfunzioni posturali possono sottoporre il sistema muscolo-schelettrico a sovraccarichi che potrebbero essere fatidici per la conclusione dell’attraversata. La scelta della scarpa è fondamentale.

Dott. Luca Vismara - D.O. Osteopata M.R.O.I

Laboratorio di Ricerca in Biomeccanica e Riabilitazione, Istituto

Auxologico Italiano, Piancavallo, Oggebbio (VB)

SOMA - Istituto Osteopatia Milano, (MI)

Studio Medico, Massofisioterapico e di Recupero Motorio. Centro EDEN di Omegna (VB) - Mail. lucavisma@hotmail.com

HAWAII

LA CINQUANTESIMA STELLA

OHAU – BIG ISLAND – MAUI – KAUAI – MOLOKAI – LANAI – NIIHAU – KAHOOLAWE

OTTO PUNTINI SUL MAPPAMONDO DALLA PARTE DEL LATO AZZURRO.

HAWAII E’ SINONIMO DI LONTANO, VIA DA TUTTO, MAGNUM P.I., SURF, SQUALI, BELLEZZE E MILLE ALTRI STEREOTIPI.

MA QUI ABBIAMO SGUINZAGLIATO IL BONELLI E LA GATTO ET VOILA’! L’INEDITO E’ SERVITO!

HAWAII

L’ANIMA DI MAUI

Un primo timido raggio di sole sprigiona il suo tepore rassicurante e riscalda i colori della terra, ammorbidendo il contrasto tra il nero profilo del cratere e i graduali colori sfumati dell’alba. Il sole qui non nasce dall’oceano ma dal soffice mare di nuvole che abitualmente avvolge ad anello tutta la base dell’estinto vulcano Haleakal, che domina l’isola di Maui con i suoi 3.055 mt di altitudine.

L’aria è pungente, le mani insensibili, la mente incantata. La brina sulle ceneri con l’intensificarsi della luce incomincia a sciogliersi.

Le Hawaii rappresentano i lembi di terra di più recente formazione, dove la conformazione vulcanica caratterizza ancora enormemente il territorio. A Maui il vulcano Haleakal rappresenta l’anima dell’isola, coprendone il 75% del territorio. Il suo nome hawaiano vuol dire “casa del sole” e da secoli la gente del posto fa pellegrinaggi sulla sua vetta

per vedere l’alba. Nel folklore della leggenda locale, la depressione al vertice del vulcano avrebbe ospitato la nonna del semidio Maui, che aiutò il nipote a catturare il sole e costringerlo a rallentare il suo viaggio attraverso il cielo, al fine di allungare la giornata.

L’atmosfera è tersa e il richiamo magnetico di questo sorprendente paesaggio lunare affascina, guardando verso il basso in una depressione che potrebbe contenere l’isola di Manhattan con i suoi 12 km di lunghezza, 3,2 km di larghezza e circa 900 mt di profondità. Il più grande vulcano inattivo del mondo.

Proprio alle prime ore del giorno inizia la nostra discesa all’interno dell’enorme cratere estinto, seguendo lo Sliding Sands (Keonehe’ehe’e) Trail, che parte dalla sommità e scende fino ai coni di cenere vulcanica alla base della vallata.

Accompagnati solo dallo scricchiolio dei passi veloci sulla sabbia, qui padroneggia un silenzio ovattato. Il terreno è sdrucciolevole, le scarpe affondano nella cenere mista a ghiaia e pietre taglienti come denti di squalo. Ogni appoggio è instabile e invita a volare semplicemente verso il prossimo, lasciando una scia di polvere dorata dal sole.

La vegetazione è scarsissima, solo qualche forma di vita e pochissime piante riescono a sopravvivere in questo ecosistema primordiale, tra cui una specie rara di ‘ahinahina o silversword, fragile pianta dai delicati riflessi argentati che vive solo sulle pendici del Haleakal.

Il paesaggio brullo è disegnato dai colori della terra: ocra, marroni, grigi e verdi dominano la vista. Non stupisce che gli antichi Hawaiani venissero qui a pregare. Il sole già scalda, il vento è costantemente presente e il deserto di cenere nera e grigia si staglia tutto intorno.

L’escursione termica dal vertice all’interno del cratere è rapida e notevole, specialmente con il salire del sole, in più l’aria rarefatta e la costante disidratazione in quota rendono questo trail comunque indicato a runner allenati. Qualsiasi parte in risalita richiede almeno il doppio del tempo necessario per la discesa.

Il sentiero prosegue e arriva ai coni di cenere vulcanica, attraversa tutto il fondo del cratere, tra lava liscia solidificata e la vegetazione sempre più verde che incomincia ad intensificarsi, irrigata dalle abbondanti piogge tropicali che scaricano in questa zona.

Il percorso totale dello Sliding Sands Trail prosegue risalendo attraverso il Halemau’u Trail, permettendo con i suoi 18 km e un’intensa giornata di corsa di vedere tutta la varietà dell’ecosistema del parco e respirare l’anima di Maui.

Big Island non è solo la più grande isola delle Hawaii, ma sta ancora crescendo. E’, infatti, la patria di uno dei vulcani più attivi del Pianeta, il Kilauea, che con le sue eruzioni ininterrotte da quasi trent’anni stupisce i visitatori con il suo spettacolo naturale, brutale ed affascinante, che distrugge e crea nuova terra nello stesso tempo.

Correre in questo territorio di così recente formazione ci regala sensazioni uniche, attrae l’inconscio, accompagnando i nostri passi con le forme irregolari della lava pietrificata e una quiete interrotta solo dal

letteralmente seguire il percorso epico della lava fusa, che dall’apice della caldera è arrivato fino all’oceano, e perlustrare gli impressionanti tubi di lava sotterranei oppure correre tra infinite rocce vulcaniche nere che scricchiolano ancora come vetro.

Proseguendo verso l’oceano, la nostra corsa ci porta a un saliscendi tra una colata e l’altra, tra i disegni morbidi e rotondi, intrecci di fuoco e bolle di calore cristallizzate dagli anni. La lava di più recente formazione si distingue per la sua superficie ancora lucida, dai riflessi dorati e

fischio del vento. Per gli hawaiani indigeni, il vulcano Kilauea è considerato il corpo di Pele, la Dea del Fuoco e dei Vulcani. Secondo l’antica leggenda Pele entrò in conflitto con il dio della Pioggia Kamapuaa: le forze viscerali della terra in lotta contro la vegetazione rigogliosa al suo esterno. Rendendosi conto che ognuno avrebbe potuto minacciare l’altro con la distruzione, gli Dei decisero di dividere l’isola tra di loro: Kamapuaa ottenne il lato nord-est a favore di vento e Pele ottenne il lato più secco, sottovento. L’isola, infatti, è nettamente diversificata in termini di zone climatiche e vedute paesaggistiche, passando dalle verdissime foreste pluviali dell’area orientale a deserti vulcanici, distese di lava, secche steppe della zona occidentale. Cime innevate coesistono con bellissime spiagge nere contornate da palmeti.

All’interno dell’immenso Hawaii Volcanoes National Park, esteso sulle pendici dell’attivo vulcano Kilauea e del maestoso Mauna Loa, si può

rossi, che riflettono sotto il sole cocente del primo pomeriggio. I crepitii di ogni appoggio lasciano percepire la composizione vetrificata della sua superficie. Strato molto sottile che verrà presto corroso dalle avversità atmosferiche e portato via dal vento.

Le colate di più antica formazione, che vediamo e seguiamo fino all’ingresso dell’acqua salata, perdono, infatti, questa luminescenza e diventano nere, opache e divertentissime da usare come supporto meno scivoloso per saltare da una roccia all’altra.

La sensazione di essere lì, di correre su questa crosta che riporta ancora le bolle di lava solidificata spaccate dall’antico calore sottostante è assolutamente affascinante. Soli, immersi in un paesaggio surreale, le gambe si muovono autonome, i pensieri sfumano, un tonfo sordo ritma ogni falcata e ci si sente parte stessa di questa natura: Soul Running! A padroneggiare l’intera visuale emergono imponenti

HAWAII

i due principali vulcani che caratterizzano il paesaggio dell’isola e che hanno creato, con le loro enormi eruzioni, l’intero arcipelago:

il Mauna Loa e il Mauna Kea. Il primo, il più grande al mondo per volume, copre più della metà dell’isola. Il secondo, con i suoi 4.206 mt, è la vetta più alta delle Hawaii. Correre sul Mauna Kea è un’esperienza mistica.

Per gli hawaiani questo è il luogo più sacro delle loro terre. Dove ogni roccia ha una ragione di essere. Qui la Dea Pele incontra la Dea della neve, Poli’ahu, creando nei mesi invernali un magnifico contrasto tra la neve, il cuore vulcanico e il clima tropicale dell’isola.

L’aria sottile, il freddo e l’acclimatamento all’altitudine assorbono la nostra attenzione, richiedono abbigliamento tecnico e preparazione fisica. Il panorama da questa cima attraversa caldere estinte, profili di coni vulcanici neri e marroni a seconda della luce, nuvole fino all’infinito. Rocce e sabbia, polvere e cenere sono la base sgretolata del terreno. Il silenzio è assoluto. Il vento fortissimo.

Il paesaggio lunare contrasta con i super moderni telescopi bianchi e argento che sembrano rappresentare la città futuristica in un nuovo

Pianeta lontano. Il sacro è accompagnato dal profano. Le credenze locali dalla scienza internazionale.

Il sole sta calando, i colori tornano a scaldarsi, mentre la temperatura continua inesorabilmente a scendere. Le nuvole anche qui creano una cornice stratificata e sembrano aspettare come un soffice materasso la caduta del sole. Rosa, azzurro e viola ridefiniscono il limite del cielo in contrasto con i colori scuri della terra.

La giornata sta finendo, i telescopi stanno aprendo i loro enormi obiettivi su quella che a breve sarà una delle più nitide volte celesti al mondo. Le gambe affaticate lasciano spazio alla meraviglia delle stelle e all’immensità dell’Universo.

Lasciamo una terra che ci ha toccato per la naturale bellezza e la cordialità del suo popolo, per il rispetto che hanno verso qualunque tipo di attività sportiva e soprattutto nei confronti di Madre Natura. Un vecchio detto hawaiano dice “He ali’i ka ‘ina, he kau ke kanaka”, cioè “la terra è il capo, l’uomo il servo”.

Venite, corretela, amatela e, soprattutto, rispettatela.

Mauna Kea > Di Dino Bonelli

Mauna Kea in hawaiano significa “Montagna Bianca”, nome derivato dal costante innevamento invernale, e per gli hawaiani è un luogo sacro.

Se si dovesse considerare anche la parte sommersa di questa montagna, che è di circa 5.000 mt, il Mauna Kea sarebbe con un totale di 9.205 mt il monte più alto del mondo. La sua costante crescita per eruzione lo fece sbucare dall’acqua circa 30-40 milioni di anni fa e la sua continua attività eruttiva, insieme a quella degli altri vulcani della zona, creò le Hawaii, il lembo di terra emersa più giovane del mondo.

Il Mauna Kea smise la sua attività 4.500 anni fa circa e ora è considerato un vulcano inattivo, a differenza del vicino Mauna Lea e soprattutto del più piccolo Kilauea che invece sta eruttando ininterrottamente dal 1983.

Nel 1960 l’astronomo Gerard Kuiper salì sulla vetta della Montagna Bianca e vi posizionò un telescopio, asserendo che questo era il più bel posto al mondo per scrutare lo spazio. Il tempo gli diede ragione. Nel 1968 lo stato diede all’Università delle Hawaii la concessione per 65 anni della sommità del vulcano ad uso astronomico, questi a loro volta la subconcessero alle altre principali organizzazioni internazionali. Sulla vetta è, effettivamente, assente ogni tipo di inquinamento luminoso e atmosferico, offrendo a chiunque la visiti una visione nitidissima della volta celeste. Oggi 13 enormi telescopi e le loro lenti nascoste, che arrivano a 10 metri di diametro, caratterizzano il paesaggio della sua sommità, creando con le loro apparecchiature all’avanguardia il centro astronomico più importante al mondo.

Viste le caratteristiche geologiche, nel 1968 anche la Nasa usò questa zona per provare il veicolo di superficie per esplorazioni extra terrestri adoperato poi nella missione Apollo sulla Luna.

D’inverno il Mauna Kea si riveste del suo manto bianco che fece conoscere ai pionieri polinesiani il freddo della neve. Alcuni local salgono con robusti 4x4 e ridiscendono i pendii innevati con sci e snowboard. La neve è normalmente dura per la notevole escursione termica tra giorno e notte, con uno strato superficiale ammorbidito dal forte sole tropicale che la rende piacevole e scorrevole. Sciare o fare snowboard sul Mauna Kea è un’emozione ovviamente diversa che farlo altrove, ma la particolare location e la spiritualità del sito rendono questa esperienza una piacevole avventura.

HAWAII

Volcano è un villaggio di quattro, cinque mila anime che ben distribuite popolano un’area discretamente estesa e nascosta nella fitta foresta pluviale ai piedi del Mauna Lea. La statale numero 11 l’attraversa tutta da est ad ovest, ma se non si fa attenzione ad un paio di cartelli che ne indicano l’esistenza, si rischia di andar oltre senza aver visto nemmeno una casa. La vegetazione è assoluta e ogni abitazione è letteralmente affogata nel verde.

Un verde con mille sfumature, un verde a tratti impenetrabile, un verde assolutamente originale, il verde intenso e a volte cupo della vera foresta pluviale. Un paio di negozi di alimentari che sembrano uscire dal vecchio Far-west, un paio di pompe per servire benzina e tre ristoranti rappresentanti altrettante differenti cucine internazionali sono unitamente all’immancabile ufficio postale tutto quello di cui la popolazione locale ha bisogno.

Qualche B&B difficilmente rintracciabile nella foresta è tutto quello in cui un viaggiatore può sperare come ricovero per la notte. In un verde così assoluto potrebbe esser difficile comprendere la derivazione del nome di questo tranquillo paesone, ma appena fuori dalla foresta, tutt’intorno, crateri più o meno attivi caratterizzano l’intera area del sudovest di Big Island e rendono giustizia alla suddetta denominazione. Nella terza settimana di Agosto, ogni estate ormai da parecchi anni, a Volcano si corre la Rain Forest Runs, un’interessante gara di corsa che con i suoi 5, 10 e 21 km si snoda nella foresta che la circonda. Anni fa il percorso, specie della distanza più lunga, usciva dal rigoglioso verde e percorreva un lungo tratto nell’arido grigio dell’Hawaii Volcanoes National Park, poi le continue eruzioni in atto nella zona, con relativi pericoli oggettivi ne hanno sconsigliato il proseguo. Ora la gara, che vanta un pasta party di rara qualità e gustosa varietà, ha una sua identità ben definita e correrla, benché interamente su asfalto, è un vero piacere.

VOLCanO > Di Dino Bonelli

Francesca

DI FRANCESCA CANEPA - FOTO LUCA BENEDET, LORENZO BELFROND

La mia casa è piena di girasoli. Finti naturalmente, non potrei mai strappare un fiore dal suo prato per portarmelo a casa. C’è molto da imparare dai girasoli, mi piace la loro attitudine a seguire sempre il sole, orientandosi verso la luce. Ho riempito la casa di questi fiori affinché mi ricordino con la loro presenza di concentrarmi sul lato luminoso delle cose.

Mi piacciono parecchio anche alcuni indiani d’America: in breve, questi al mattino si alzano e vanno fuori a correre. Ci vanno tutti, bambini compresi, senza scuse tipo fa brutto o sono stanco, poi iniziano la loro giornata, sempre in sintonia con la natura. Questi indiani mi ispirano moltissimo.

I miei colori preferiti sono il verde, diciamo più verde militare che verde acqua, e il marrone in tutte le sue sfumature: i colori della natura.

La corsa è entrata nella mia vita nel 2010, ma forse più che entrarci è semplicemente venuta allo scoperto, probabilmente da qualche parte è sempre stata annidata dentro di me, nascosta ad aspettare il momento buono. C’è un tempo per ogni cosa.

Ho scritto e detto molte volte che sono un’atleta da sempre, l’ho avvertito fin da subito perché a me piace esprimermi attraverso il corpo, ma quando ho incontrato la corsa ho capito una cosa in più, una cosa che fino a quel momento mi era sempre sfuggita lasciandomi un senso d’incompiuto. Sono salita su innumerevoli podi insieme alla mia tavola, e pennellando un muro ghiacciato riuscivo perfettamente a esprimere il mio corpo. Avvertivo però che c’era sempre qualcosa che mancava. Non riuscivo a esprimere la mia anima, ecco l’anello mancante, il tassello senza il quale potevo continuare a vincere senza tuttavia scrollarmi mai di dosso una specie di ombra. La corsa mi permette di esprimere il corpo ma ha lasciato uscire anche la mia anima, finalmente ho capito. Anzi, più che lasciarla uscire direi che l’ha letteralmente tirata fuori, quasi con la forza.

Il motivo per cui trovo ispirazione negli indiani d’America è che la loro essenza consiste nel vivere in accordo con la natura e con se stessi. Questo è un concetto che ha sempre guidato ogni mio passo fin da quando ero piccola: ho sempre incontrato una certa difficoltà a fare qualcosa che non mi stia bene, che non sento. Il corpo mi ha sempre suggerito benissimo ciò che è giusto per me e ciò che non lo è, tanto per fare un esempio ho sempre odiato la carne fin da piccola per poi scoprire, pochi anni fa, che la gente con il gruppo sanguigno A non digerisce la carne. Io sono del gruppo A.

E poi c’è la lezione che ho imparato dall’acqua: faccio dighe da quando avevo 5 anni, ho allagato campeggi e affinato la velocità di corsa per scappare dai campeggiatori inferociti. Ora faccio di nuovo dighe con i miei bambini e il più piccolo, Tobia, dorme con un castoro. Tutti e tre abbiamo imparato che puoi bloccare il corso di un ruscello, ma l’acqua trova sempre un altro modo per passare, si scava un’altra via. Il suo potere è assoluto.

L’anima è come l’acqua: puoi provare a soffocarla, incanalarla a forza in un percorso che non è il suo. Puoi tentare di tutto, ma prima o poi arriverà il momento della piena, del troppo: il momento di sfondare gli argini.

Io ho cercato di adeguarmi alla “vita normale” di tutti i giorni e di gran parte delle persone: una vita fatta di parco giochi, spesa, pranzi e cene da preparare, lavori da fare. E giorno dopo giorno avvertivo che la mia luce si faceva sempre più fioca, sentivo di essere diventata quasi trasparente per il mondo e per me stessa. Avevo imprigionato la mia anima in una vita che non mi corrispondeva, o meglio, alla quale mancava qualcosa.

Continuavo a seguire alla tele le imprese sportive di altri atleti, tifavo per loro, gioivo per loro, mi commuovevo per loro.

E in un certo senso, in quei momenti, anche la vita che vivevo era la loro.

Il 2010 è stato una pietra miliare della mia storia: l’anima ha infranto gli argini, dovevo offrirmi un’opportunità. Era giunto il momento di tornare a scrivere la mia storia. Ci sono delle eccezioni, ma in generale posso dire che preferisco correre dei rischi piuttosto che rimpiangere di non averlo fatto.

Così mi sono buttata in uno sport sconosciuto e ho iniziato a raccogliere informazioni leggendo le riviste. Avevo già una discreta conoscenza della materia prima di aver concretamente acquistato un paio di scarpe. Dal 2010 al 2012 ho percorso parecchia strada, non soltanto in chilometri.

Adesso i girasoli si contendono lo spazio della mia casa con scarpe, riviste e trofei. Ho trovato il lato luminoso. Correre ha riacceso la mia luce, e mi ha dato l’impagabile opportunità di condividerla.

L’esperienza del TOR des GEANTS è stata l’apoteosi di questo concetto: una gara che ritenevo ai limiti dell’impossibile per me, per la facilità con cui mi stufo e per l’impazienza che mi attanaglia sin dal primo chilometro di qualunque competizione, mi ha dimostrato che quando fai le cose con il cuore non ci sono limiti alle risorse che puoi mettere in campo. Più andavo avanti nel percorso più mi accorgevo che avevo smesso di guardare

quanti chilometri avevo fatto o quanti ne mancavano: la mia impazienza era stata dirottata verso l’attesa dei ristori, delle basi vita, dei punti in cui il sentiero incrociava la strada. Aspettavo solo l’accoglienza incredibile che continuavo a ricevere: la positività di tutte quelle persone che mi aspettavano e m’incoraggiavano era così intensa che mi sembrava di poterla toccare.

Il problema del TOR è che all’atto dell’iscrizione dovrebbero chiederti un certificato d’idoneità psicologica più che la solita visita medica. Dovrebbero assicurarsi che uno sia in grado di gestire l’ondata di emozioni. Che sia capace di tornare alla normalità dopo, senza sentirsi inghiottito dal vuoto. Scrivo questo pezzo dopo aver vissuto intensamente un’altra esperienza inedita: un ritiro al 50 esimo chilometro pur essendo in testa alla gara. Non sono riuscita a gestire il “vuoto”: vuoto di energia, di motivazione, di emozione. Era la mia prima gara dopo il TOR, ed era un’altra gara iconica, il Festival dei Templiers.

Ma tolto il mio TEAM, non c’era nessuno ad aspettarmi agli angoli della strada, nessuna persona ha speso una parola per me nei punti in cui il sentiero incrociava la strada. L’ho pure perso il sentiero, ma probabilmente è successo perché avevo già perso me stessa nel corso di quei chilometri. Con Renato abbiamo deciso per il ritiro perché il nostro criterio guida è il rispetto delle mie sensazioni, della mia anima. Se l’anima non vuole correre, non si corre.

E il giorno dopo, condividendo la seconda gara con il team nelle vesti inedite di “assistente ai ristori”, incoraggiando gli amici e tifando per loro, ho ritrovato me stessa. Si è riaccesa la mia luce. Adesso è autunno e posso tornare a correre tra le foglie colorate, ma lo farò con calma, per dare al corpo e alla mente il tempo di recuperare e rigenerarsi. Non ci saranno più persone ad aspettarmi dove il sentiero incrocia la strada, ma spero che molti occhi di animali incroceranno i miei in mezzo ai boschi.

Chi è

FRANCESCA CANEPA

Nata ad Aosta il 14/09/1971

Psicologa e maestra di snowboard

Inizio attività Trail 2010

RISULTATI:

2010 > 13 gare – con 7 vittorie, 1 secondo, 1 terzo, 2 quarti

2011 > 17 gare – 8 vittorie, 5 secondi, 3 terzi, 1 quarto vittoria Salomon Trail Tour e vittoria classifica Top Italia Endurance

2012 > 18 – gare 12 vittorie tra cui TDG e 2 titoli italiani,

3 secondi posti tra cui UTMB, 2 terzi posti

Ama definirsi un’atleta. Stando vicino a lei ho scoperto che l’atleta non potrebbe esistere senza la persona. Sensibile, a tratti fragile, soltanto la fiducia che ho riposto in lei ha permesso alla caparbietà e alla forza dell’atleta di emergere. La sua è una storia costellata di successi, che diventano importanti solo quando possono essere condivisi con gli altri. La musica sull’ipod deve raccontare una storia, trasmettere intensità. Per questo è Francis Cabrel, cantautore francese ad accompagnarla sui sentieri, dove corre sentendosi un’ospite. Le prime volte rimanevo stupito davanti a un cenno di saluto agli animali che incontra o quando sposta una lumaca dal sentiero, ma lei dice: “ bisogna rispettarli e poi mi fanno compagnia…”. Dalle interviste di altri atleti cerca di imparare qualcosa e alle loro vicissitudini si appassiona. Ogni cosa vista dai suoi occhi si semplifica e ogni cosa nella sua mente si può fare, ricordo che quando le ho detto che avrei fatto il Tor Des Géants il suo commento è stato “Gli uomini primitivi dovevano correre e camminare giorni e giorni per cacciare, spostarsi e fare tutto. Lo facevano persino da affamati, anzi forse quella era la condizione più comune. Conclusione: lo puoi fare anche tu. Quindi coraggio e non si molla mai.” Questa è lei e poter condividere il suo cammino è per me un privilegio importante.

VIBRAM

Intervista a Jerome Bernard Foto di Luca Benedet e Cyril Crespeau

Età, intanto.

42 e qualche mese.

Tu sei francese, ma vivi in Italia

Del tutto vero. Sono nato in Francia, studi in MBA Management International e primi lavoretti come insegnante di freeclimbing: è il mio hobby da quanto avevo 12 anni, ma ora l’ho un po’ tradito per il trailrunning.

E il lavoro, come mai in Italia?

Sono Marketing e communication director di Vibram, ad Albizzate, e in giro per il mondo, per il Trailrunning Team Vibram, per esempio.

“Il team”, ecco, come ti è venuta l’idea?

Un paio d’anni fa, alla partenza dell’UTMB. Mi sembrava il momento di entrare in gioco sul serio, non semplicemente sponsorizzando la gara: da pubblico in protagonisti, et voilà!

Quanto marketing e quanto passione in questa scelta?

Certo il marketing c’entra: del resto la suola Vibram è quanto di più vicino ci sia fra uomo e strada, qualunque sia il tipo di strada. Un’appendice dell’uomo, direi. Ma l’intervento, la scelta, la filosofia sono stati un percorso

E’ un dato di fatto: il trailrunning coinvolge un numero sempre maggiore di praticanti, in tutto il mondo, grazie anche ad aziende leader nell’outdoor e a manager molto attenti all’evoluzione dei mercati dello sport. Bernard Jerome, Vibram, è uno di questi e cerca di far convivere lavoro, tempo libero e sport. Pratica freeclimbing, mountain bike, trailrunning, scialpinismo, trekking, torrentismo. Per lui non cambia salire la Cassin al Pizzo Badile o attraversare le highlands scozzesi con zaino e tenda, gli basta essere in simbiosi con la natura. Quando gli chiedi se si sente più manager dello sport o sportivo che fa il manager hai una risposta semplice: “I confini sono molto sottili, todo depende. Credo d’aver portato la cultura dell’outdoor in azienda e di essere uomo di sport, ma quando mi alleno o mi diverto con addosso la divisa del Team Vibram la mia anima sportiva è completamente quella del manager”.

tutto aziendale; io sono uomo di sport, ma nell’ambito della moderna comunicazione dobbiamo tener conto di media, brand reputation, visibilità, viewed impression, budget… Per rispondere, direi che ognuna delle due voci vale un buon 50%.

Cosa differenzia il Trailrunning Team Vibram© dagli altri analoghi team?

E’ diverso l’approccio: il valore primario non è battere i concorrenti. Tutto nasce da una osservazione: se guardi gli oltre 2500 concorrenti alla partenza dell’UTMB - tolti i pochi atleti delle prime file – cosa hanno di diverso dalle persone “comuni”, tutti gli altri partecipanti? Poco o nulla. Anzi sì: che “loro” sono alla partenza di una grande, grandissima avventura sportiva, una sfida alla montagna e a se stessi. Ecco, Vibram ha pensato di creare un team di persone comuni, capaci però di essere straordinarie: “Ordinary people being extraordinary”.

E per questo avete nel team persone comuni, come la mamma Francesca Canepa?

Certo, Francesca viene dallo snowboard, ma è soprattutto mamma, e questo condiziona tutta la sua attività. Del resto anche gli altri del Team Vibram sono persone comuni: David Gatti, è responsabile dei mercati professionali di Polartec; Beppe Marazzi è ingegnere informatico; Ronan Moalic è un chirurgo che ruba tempo al tempo libero, per la sua passione; Sébastien Nain fa il vigile del fuoco; Nicola Bassi è ancora senza una attività definita.

Quali sono gli obiettivi del team?

Test, ricerca, simpatia, passaparola, ma con un valore in più, l’invito ad avventure non comuni, l’invito a provarci. E l’educazione all’utilizzo di un equipaggiamento davvero adatto a performance e sicurezza - caratteristiche queste che sono nel DNA di ogni suola e di ogni prodotto Vibram. Non per nulla questa filosofia e le nostre tecnologie sono da anni adottate da grandi brand, come Saucony, Scott, Lafuma, New Balance, Scarpa, La Sportiva, Salewa e via dicendo. Del resto è noto a tutti che nessuno oggi può garantire prestazioni elevate in termini di sicurezza, qualità, grip e trazione quanto le nostre suole. In tutto il mondo. E questa non è pubblicità.

A chi si rivolge il Team Vibram?

Si va oltre gli attuali 10.000 finisher della The North face® Ultratrail du Mont Blanc®; miriamo alla comunità crescente di runners che hanno optato o stanno optando per la corsa off road: sono già diversi milioni nel mondo, specialmente in Europa e in America.

A loro Vibram vuole continuare ad offrire prodotti e strumenti altamente funzionali in grado di garantire la massima sicurezza

La R&D Vibram ha questa mission quotidiana e Il nostro team ha il compito di essere ambasciatore e promotore presso i mercati di nuovi modelli di calzature powered by Vibram ,“High Performance Rubber soles”, frutto dei feedback e delle loro esperienze.

Come gestite il Team?

E’ una gestione che definirei bicefala: gli input generali, la filosofia, il programma e i ritmi sono portati dalla Direzione marketing di cui sono responsabile. La gestione tecnica degli atleti pre, post e durante le gare è curata da Nicola Faccinetto del Tester Team Vibram, specialista aziendale in scienze motorie e in prove prodotti. Il team ha inoltre il supporto di Stefano Punzo, noto fisioterapista specializzato nella corsa in montagna.

Come considera ad oggi i risultati del Trailrunning Team

Vibram© nel 2012?

Chapeau! Ma provo ad essere più uomo d’azienda, vediamo. E’ indubbio che immagine, notorietà, simpatia, brand reputation di Vibram stiano ulteriormente crescendo; è altrettanto indubbio che questo tool moderno abbia consentito una visione più precisa del trailrunning, grazie anche al film documentario “The extraordinary story” che racconta l’avventura sportiva e umana del Team all’UTMB, movie tuttora diffuso in TV e nei maggiori film festival europei. Ma se c’è un punto che più ci piace è quello umano: le vittorie di Francesca Canepa al Tor des Gèants, alla LUT e il suo secondo posto all’UTMB; l’ottava posizione di Ronan Moalic alla LUT e la sua ventesima all’UTMB; e ancora: il 45° posto di Sébastien Nain - sempre all’UTMB, dove David Gatti, trailrunner quando riesce, è arrivato a quota 549 e dove Beppe Marazzi e Nicola Bassi hanno dovuto cedere e ritirarsi... ecco, queste, per il nostro modo di pensare, sono tutte vittorie, dalla prima all’ultima.

La Strada della Luce

135 km di viaggio a ritroso nello spazio e nel tempo. Partners Raidlight & rh+ Activewear bike

DI DAVIDE ORLANDI - FOTO SOUL TEAM

PREQUEL

Sono tre settimane che mi sono messo in testa di fare un pezzo “multisport” dedicato ad un percorso storico sulle Apuane (non dico quale perché prima o poi...) e sono tre settimane che il meteo mi rema contro, ha pure nevicato!

Complice il maltempo e svariati bacilli mi trovo alla Feltrinelli di C.so Vercelli, che tra l’altro odio, mi sembra il bon marchè del libro, Io ho bisogno di consigli, di confronto col libraio, di silenzio e non di Tiziano Ferro alla radio; insomma giornata uggiosa per dirla alla Lucio. Riflettendoci sto proprio invecchiando male, ora sono anche snob....

Giro, pigro e sbadigliante, tra pile di novità e best seller che urlano un venduto di milioni di copie a settimana sulla fascetta (sarà vero?) e nulla catalizza il mio interesse. Passeggio tra i romanzi storici che ho sempre evitato come la peste da quando il prof Pogliani, storia e filosofia, mi rifilò come dono natalizio “La Società Feudale”, 551 pagine ricche di empatia... Inaspettatamente, invece, mi attrae una copertina che ritrae il Duomo di Milano e mi ritrovo a camminare verso casa con il sacchettino rosso pieno di scetticismo e del “Tempio della Luce” di Daniela Piazza. Mi inoltro così nella cultura della mia città da fine 1300 a fine 1400 circa e mille volte, leggendolo, mi sono chiesto perché a scuola mai nessuno ci ha portato davanti alla targa di una via per presentarci un nostro concittadino, per poi vedere cosa aveva fatto per la nostra città, che so, uno a caso....Giovanni Solari?

Mi appassiono al valzer delle parentele della nobiltà, ai contrasti tra

violenza e classe, stile ed arroganza, cultura e ignoranza, miseria ed inestimabili ricchezze che ancora oggi resistono inalterate. Mi lascio conquistare dalla cultura celtica di cui profuma tutta la storia di Milano e nei giorni seguenti mi ritrovo ad allenarmi con dei casuali “Urban Trail” che mi portano inevitabilmente sotto il simbolo della mia odiata e amata

Milano: il Duomo, il Medhelan, l’inizio. Lo guardo con un occhio diverso. Il libro si fa leggere velocemente e le Apuane sono momentaneamente appartate. Il percorso ora mi è chiaro, non ho dubbi. Sarà una corsa a ritroso verso le origini di Milano per come la conosciamo ora.

Voglio riscoprire il luogo dove vivo, lavoro, amo, soffro, corro tutti i giorni ed ho un obiettivo chiaro e forte nella testa: voglio far conoscere ai runners/bikers che orbitano su Milano, e non sono pochi, il luogo dove mettono i piedi e le ruote tutti i giorni, dove le mettono i loro figli. Sono convinto che si sia perso tanto in termini di educazione, senso civico, rispetto per il luogo in cui viviamo e sono sempre più persuaso che si tratti principalmente di una perdita d’amore.

Se ami una cosa non puoi trattarla male (dementi a parte, ma quelli...). Non puoi amare qualcosa o qualcuno se non lo conosci a fondo, se non lo apprezzi, lo stimi. Oggi vorrei creare uno spunto, un primo spunto non solo di riflessione. Voglio pensare e percorrere tragitti, vie, collegamenti. Voglio che attraverso lo sport, mezzo di comunicazione di massa, si possa amare di nuovo ciò che abbiamo: il nostro territorio, le nostre città, la nostra esaltante cultura.

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Milano e la Lombardia possiedono tutt’ora la più grande rete di collegamento fluviale esistente, creata per scopi agricoli e commerciali ed interamente navigabile. Sono collegati e navigabili i laghi Maggiore e Como, i fiumi Adda, Ticino, Toce, Po, l’intera cerchia dei navigli, i canali, insomma centinaia di chilometri di strade d’acqua, ancora oggi conservate perfettamente, tranne le parti del centro di Milano che dopo lo scempio degli anni ‘60 sono state interrate.

Uno dei percorsi più importanti portava da Candoglia, sulle rive del Toce, i blocchi del rarissimo marmo rosa destinato alla costruzione del Duomo di Milano. I marmi della Cava Madre percorrevano l’estuario del Toce, il lago Maggiore fino a Sesto Calende, poi il Ticino, il Canale Villoresi ed infine il Naviglio Grande fino ad entrare a Milano ed approdare in Via Laghetto e Festa del Perdono accanto al Duomo di Milano, dove oggi sorge l’università statale. Il percorso fluviale venne studiato e realizzato grazie a diversi architetti, il più famoso indubbiamente fu Leonardo che progettò l’ingegnoso sistema delle chiuse del tratto di Paderno. L’obiettivo del Ducato di Milano era non pagare i dazi delle svariate dogane che via terra avrebbero incontrato. Curiosità: sulle chiatte atte al trasporto vi era la scritta AUF (ad usum fabricae operis) da qui il detto “magiare a ufo” cioè....a sbafo, gratis!

Il Marmo di Candoglia fu destinato a tale grandioso obiettivo da Galeazzo Visconti durante la fine del 12° secolo; venne anche posto un “cippo” in cima al monte Faiè che segna tutt’ora il confine dell’usufrutto della cava. Il cippo ancora oggi è li, ed è la nostra meta.

THE FILM

Ore 7.00, Venerdì. Piazza Duomo, Milano. Il sole si sta alzando e squarcia le nubi dei giorni scorsi. La Cattedrale meneghina corre verso il cielo. E’ una saetta rosa cha da terra si proietta verso la luce. Poca gente, tanta emozione. Io non sono un bikers esperto anche se rh+ ci ha vestito come Contador, già i primi tratti su pavè e traffico con i pedali bloccati richiedono massima concentrazione.

Porta Romana, Porta Ticinese, Darsena e finalmente il Naviglio Grande. Ancora pochi attraversamenti stradali ed inizia una lunga ciclabile. Silenzio. Guardo il Garmin e mi dice che abbiamo fatto solo 11, 2 km, mi guardo intorno e sono praticamente nel nulla. Primo pensiero: Milano è piccola. Secondo pensiero: siamo in troppi!

Abbiategrasso, Robecco, capolavori artistici, ville, castelli, ponti antichi e acqua limpida, siamo veramente a 25 km da Milano in bici?

Canale Villoresi una quantità d’acqua sorprendente.

Penso che comandi lei, lo capisco. Ha regolato e regola la vita da sempre ci ha dato e continua a darci la sua energia. Ci alimenta, ci fa viaggiare, ci arricchisce. La uccidiamo. Scambio impari. Prima o poi si ribellerà.

Breve strappo per superare il dislivello di Vizzola Ticino, attraversando delle antiche chiuse. Sembra di passare una varco spazio temporale. Via veloci verso il Parco del Ticino, che grazie a dei lavori in corso riusciamo a conoscere meglio. Per stradine sterrate costeggiamo aziende agricole, campi coltivati, animali. Continuo a ripetermi: Ma siamo sempre a pochi chilometri dalla mia città? Impossibile! Siamo senza dubbio a Frittole. Ora sua maestà il Ticino ci accompagna con i sui pesci, i suoi uccelli fino a Sesto Calende. Il Pizzi fiuta odor di casa e con il Rosa, il

Tasch e il Dom che si riflettono nelle acque, ci regaliamo una breve pausa. Per la cronaca fino a qui sono 85 chilometri senza una automobile!

Ponte di Sesto, superiamo il Ticino e costeggiamo il Lago Maggiore. Arona, Meina, Lesa e finalmente Stresa, e qua sono io ad essere in odor di casa e la sosta al Gigi Bar sa di antico rituale. La bici si ferma da sola. E’ un dovere.

Via veloci. Ora sopra il Toce, guardando le cave di Marmo sopra il Lago di Mergozzo.

Salita. Ecco il nostro appuntamento con la situazione Alpe Ompio. Nessuno di noi sa esattamente come reagiranno le nostre gambe dopo 120 km nell’affrontarne altri 8 con un dislivello di 750m e punte di pendenza del 27%... La prima parte è docile e siamo veloci, rincuorati.

Si gira a sinistra ad una chiesetta e scopriamo che l’abitato di Bieno dovrebbe avere una funivia per andare in municipio, la stradina stretta che lo taglia è breve...per fortuna, ma terribile. Il Valsex molla, nel giudicarlo tenete conto che corre da 6 mesi e i 48 (anni) li ha salutati.... Chapeau! Andrea ed io proseguiamo con grande sforzo, siamo stanchi. Andrea si alza sui pedali, alterna salendo zigzagando cercando linee di asfalto più accoglienti. Io penso solo che se vado su dritto faccio prima, perché è l’unico pensiero che il poco O2 nel mio cervello mi consente di fare. Scendendo un paio di volte dalla bici riusciamo ad arrivare in cima. Ci ha raggiunto in auto Ennio per portarci il cambio d’abito: scarpe, abbigliamento, accessori Raidlight, già perchè non è mica finita qui! Mancano 500 D+ alla cima del Faiè. E’ l’imbrunire, ma le Soul Experience ad oggi non conoscono il fallimento. Raccogliamo le energie mentali sufficienti e via. Il Valsex ha recuperato e non molla. Si unisce al gruppetto che ha acquistato anche Ennio. Rifugio, mulattiera, sentiero sempre più irto che risale il crinale e punta dritto alla cima, senza sconti. Poesia. Musica. Immagini velate di rosa. una sottile linea azzurra porta lontano, a Milano ed oltre. Gente che aveva coraggio, gente che progettava, gente che ha costruito cose solide, gente con i nostri padri fondatori.

TITE A NUDO!

Quanto tempo ci vuole per elaborare un episodio

intenso della nostra vita? Non esiste una regola. Dopo tre anni Tite si confronta con sè stessa così a fondo da regalarci una lucida analisi della

sua esperienza. Da leggere con l’evidenziatore e il post-it in mano!

SPLASH! Lasciarsi cadere nell’acqua gelida di un ruscello a 2700 mt e sentirla accogliente come quella di una fumante vasca da bagno. Non è il potere dello yoga ma lo svuotamento delle forze da parte dell’ipotermia al suo ultimo atto, quello del “fumbles”, del barcollare. “Il classico metodo per identificare l’ipotermia è quello di avvertire gli “umbles”. Questo è un termine della medicina specializzata e si riferisce ai cambiamenti che avvengono nei livelli di coscienza e di coordinazione. In breve: incespicare, borbottare, barcollare e annaspare (“stumble, mumble, bumble and fumble”) sono sintomi di ipotermia.

La Tete aux Vents, ore 4:00 am circa, 30 agosto 2010. Piove da più di 16 ore, in questa mia seconda CCC, ancora una volta in team con Aug (Augusto, ndr), ma assai differente per il resto, a partire dal meteo, che in montagna è il padrone indiscusso. “Si tenga presente che nella maggioranza dei casi l’ipotermia colpisce anche a + 5°C e non solo in pieno inverno...ed è il killer numero uno nelle attività all’aperto”.

Fino a Trient, il 70° km, stavamo procedendo bene, con 3 ore di anticipo rispetto all’anno precedente, nonostante il tempo inclemente: soste più brevi e passo più deciso sia in salita, sulla Tete de la Tronche, che al Grand Col Ferret, ma anche e soprattutto in discesa.

Tuttavia, a ben vedere, qualche segnale di “umble” era già visibile a metà percorso, ma soprattutto la stanchezza e il sottile logorìo conducono ad una catena di errori accumulati già al ristoro di metà percorso, a Champex: declino l’offerta del mio team (la banda dei miei figli) di cambiarmi con indumenti asciutti, mangio poco, bevo poco e, via, si riparte. Tre errori in uno. Ci aspettano la notte e le due salite più tecniche e non smette di piovere.

Nell’uscire dal ristoro iniziano i tremori (“umbles”!) ma chi corre gli ultra in montagna sa che succede sempre quando si riparte dai ristori dopo una pausa per quanto breve. La differenza è che, mentre l’anno prima, sotto un cielo stellato, nell’attaccare la salita mi sono sentita

Di Tite Togni - Foto di Augusto Mia Battaglia

di nuovo rifocillata e in piene forze, questa volta succede il contrario: una stanchezza improvvisa mi assale e ad ogni gradone della Bovine barcollo (“stumble, mumble”!) nonostante l’aiuto dei bastoni. Arriviamo a Trient, il ristoro di fondo valle e, guardando le espressioni degli altri, mi consolo...e mi illudo. E continuo a fare lo stesso errore: mangio poco, bevo poco e non ho più ricambi asciutti. Aggiungo un altro errore: decido di ripartire subito, per non sentire il freddo e i tremori.

Ripartiamo alla volta della salita più impegnativa per raggiungere il punto più alto: La Tete aux Vents a 2200 mt: oltre alla notte, alla pioggia delle ultime diciassette ore si unisce la nebbia. Ci perdiamo, ritroviamo il percorso insieme ad altri, ma poi il passo si fa lento, più lento e sento che siamo rimasti soli, Aug ed io, ma non mi preoccupo: preoccuparsi è stancante – penso - e poi c’è Aug che mi fa da apripista, andando avanti e indietro, prima in cerca delle balises (i gavitelli segna percorso) e poi verso di me …

“Gli atleti hanno una tendenza a ignorare la percezione del freddo - dice il dottor Thomas Cappaert della Central Michigan University - perché ritengono normale avere freddo in montagna e ignorano gli impulsi fisici. Ripetere questo errore nel tempo porta ad un indebolimento dell’impulso stesso, così che si ignorano i sintomi fino al punto da non potere più reagire ad essi.”

PREOCCUPARSI E’ STANCANTE? Questo è esattamente il campanello d’allarme che non suona più, perché è come se si spegnesse un intero quadro elettrico e tutti gli interruttori di colpo finissero sull’off.

Le estremità, il corpo e infine la mente, i pensieri, i sensi e le emozioni, tutto insieme rallenta di colpo fino a non sentire più nulla, nel momento cruciale in cui occorre fare il contrario, come spiega il dottor Cappaert: “Succede che il corpo si sta raffreddando più velocemente di quanto tu stia facendo per riscaldarlo. Di colpo la temperatura corporea scende al di sotto di quella da cui il corpo può riprendersi. Il tremore e le altre difese non riescono più a far fronte al cambiamento. La temperatura continua a scendere e gli organi vanno in blocco”.

Gli organi erano ormai in blocco quella notte su La Tete Aux Vents, nonostante la temperatura fosse al di sopra dello zero, ma, peggio ancora, il limite lo si stava sorpassando ancor più velocemente perché la situazione, di corsa al buio e nella nebbia, non permetteva di fare quello che il dottor Cappaert raccomanda come prevenzione (“listen to

your body”) che come trattamento: “Continuare a muoversi e cercare rifugio, abbracciarsi con il compagno, mangiare, perché la digestione crea calore e l’energia per continuare a tremare”.

E invece SPLASH , finalmente – penso - un pò di riposo a gambe all’aria. Ho sperato che Aug non mi sentisse e mi lasciasse lì, potevo assopirmi e sarebbe stata una morte dolcissima. In questa mancanza di paura della morte forse c’entra lo yoga, ma credo che sia in gran parte la magia del funzionamento del corpo insieme alla mente di chi affronta situazioni estreme come l’ipotermia. “La morte è ciò che unisce gli uomini e gli animali. Dove c’è vita c’è morte. Il problema è che nella società ci sono rischi che si assumono più facilmente di altri. Il rischio sta dappertutto ed è il rischio a tenerci vivi. Anche in montagna è così. Non penso che nessuno degli alpinisti sia un suicida in cerca di rivalsa. Tutti afferriamo la vita con le unghie, ma una cosa è attaccarsi alla vita e un’altra è rinunciare alla vita, ai sogni, ad innamorarsi, a lottare, a soffrire”.

Come in mare, per le immersioni, così in montagna è vitale non essere soli. Aug mi ha aiutato e spronato fino a quando, a pochissimi ma interminabili chilometri siamo giunti all’ultimo ristoro de La Flegere, a meno di dieci chilometri di facile discesa dall’arrivo. Solo lì le mie orecchie captano la notizia che la gara era stata interrotta al ristoro di Trient. Mi lascio sprofondare su una barella su cui tremo per tre ore senza sentire più nulla, tranne i miei denti che sbattono. L’alba a La Flegere ha coinciso con il ritorno alla vita, il ritorno della natura, del sole, ma soprattutto il mio ritorno alla vita: come se nulla fosse stato, mi sono alzata e avvolta dalle coperte sono arrivata a Chamonix in funivia. Quell’anno la classifica non riporta la brutta scritta: “s’arretez”, l’indomani ho ricevuto comunque il gilet Finisher ma...ho continuato per tanto tempo ad avere sensazioni contrastanti: ero davvero al limite? Oppure bastava aspettare ancora un attimo e grazie a qualcuno che mi spronasse, mi facesse realizzare che fuori non pioveva più, e che in meno di un’ora avrei potuto tagliare il traguardo insieme ad Aug?

T O BE OR NOT TO BE...”NUMB”, che significa sordo, insensibile e anche stupido, proprio perché non ci si ascolta. Il dilemma che ho conservato dentro di me mi ha fatto sentire tale e sprovveduta, una che comunque ha tanto, tantissimo ancora da imparare in fatto di trail. Fino a quando, quest’anno, nel giro di un mese in tre differenti gare muoiono dei concorrenti “esperti” (come nel caso di Teresa Fariol alla Cavalls

de Vent) e dei ritiri eccellenti come Terry Conway, Joe Grant e persino Tofol Castaner, colui che un mese prima aveva vinto una CCC innevata e tempestata come mai era successo: “Persi i guanti al 27° km e da lì cominciai a tremare, poi a muovermi in maniera strana, a correre senza alcuna tecnica. Arrivai al rifugio, ma ho dei vuoti di memoria.

Mi misurarono la temperatura ed era a 33°C. Mi coprirono con le coperte e tuttavia continuava a scendere fino a 32°C.

Così terminai la mia Cavalls de Vent. Commisi due errori che non ripeterò mai più: in nessun ristoro mi sono alimentato e idratato a sufficienza.

Chissà perché pensai che per il fatto di essere bagnato potessi bere di meno. Di fatto successe il contrario. Iniziai ad andare in riserva per mantenere la temperatura e mi svuotai. Arrivai molto vicino al limite, alla morte...A volte non diamo sufficiente importanza all’ambiente in cui corriamo. La montagna non è matematica e forse ho dimenticato che è imprevedibile, a volte portiamo all’estremo limite l’idea di correre con il minimo peso possibile. Questa gara è uno spartiacque per me: se c’è la minima possibilità di cattivo tempo, la montagna non mi avrà se non con abbigliamento e alimentazione necessari”.

La scienza spiega che l’ipotermia è molto relativa: ”Negli esperimenti nazisti a Dachau, si era calcolato che la morte sopravvenisse quando la temperatura corporea scendeva a 25°C. La temperatura più bassa mai registrata in un essere umano sopravissuto all’ipotermia è di 16°C. Per un bambino è più bassa ancora: nel 1994 una bambina di due anni è stata trovata viva dopo aver passato la notte dispersa nel Saskatchewan a -40°C e la sua temperatura corporea era 14°C. Ma altri furono meno fortunati a temperature molto superiori, anche di 8°C. Nonostante tutte le conoscenze mediche e statistiche sul congelamento e la sua fisiologia, nessuno può predire esattamente quanto velocemente e in quali casi l’ipotermia colpisce e/o colpisce mortalmente. Il freddo rimane un mistero, che agguanta più gli uomini delle donne, più i magri degli adiposi ed è spietato con gli arroganti e gli sprovveduti... Fossimo dei pescatori norvegesi o dei cacciatori Hinuit, potremmo sfruttare il “riflesso del cacciatore” per cui le nostre mani, abituate a lavorare al gelo senza guanti, sviluppano l’abilità interna di far aprire periodicamente i capillari in modo da irrorare sangue e mantenere la flessibilità. Altri processi d’adattamento al freddo sono ancor più misteriosi. Esistono monaci buddisti che riescono ad alzare la temperatura corporea nelle estremità anche di 15°C con la meditazione. Gli aborigeni australiani, abituati a dormire nudi per terra al freddo, si lasciano scivolare in

uno stato di leggera ipotermia, riuscendo a sopprimere il tremore, fino a quando il sole dell’alba non li riscalda nuovamente. Ma noi, occidentali abituati ad ambienti climatizzati, non abbiamo tali difese...”

“NON ABBIAMO LE DIFESE” significa che dobbiamo delegare a qualcuno la responsabilità o che dobbiamo fare un passo ulteriore di auto-responsabilizzazione come singoli? E’ probabile che la risposta stia nel giusto mezzo. Infatti da una parte il boom dell’ultra trail e degli ultimi incidenti sta portando le federazioni a accelerare il processo di regolamentazione (richiesta di certificato medico completo, referenze da altre prove, punti qualificanti, ma anche percorsi alternativi prestabiliti in caso di maltempo).

D’altra parte, la convenienza di aumentare i filtri non trova consenso unanime: all’ultima UTMB quest’anno, a causa del maltempo improvviso, sono stati cambiati i percorsi di ben 3 delle 4 prove, moltissime sono state le critiche e molti concorrenti si sono rifiutati di partire per protesta. Lo stesso Kilian Jornet sottolinea che “esigiamo troppa responsabilità dagli altri e mai assumiamo le nostre nelle decisioni e azioni. Il principale agente di sicurezza siamo noi stessi...dobbiamo fare il nostro cammino, prendendo ispirazione dai passi altrui, ma sempre con la consapevolezza di chi siamo, cosa abbiamo a disposizione, e quello che può succedere. In montagna è la paura quella che ci fa tornare indietro, prima di rischiare troppo”.

“La montagna non è né buona né cattiva, è pericolosa”, Reinhold Messner - “Bisogna ascoltarla”, Kilian Jornet

E per ascoltarla ci vuole esperienza, che può significare rinuncia, attesa: l’impresa del 23 novembre di Kilian e di Vivian Bruchet sullo Chardonnet a 3840 mt, che aprirono di fatto una nuova via sciabile lungo il canale Migot, è frutto di un’attesa di due anni affinché il ghiacciaio si ritirasse al punto giusto per percorrere la via più verticale. Studio, pratica e gradualità sono gli strumenti già recitati migliaia di anni fa nei testi dello yoga, la disciplina che più di ogni altra mira alla consapevolezza.

Per questo, anche quest’anno di tempesta, in cui “la montagna ha detto no”, come recita il titolo di uno speciale dedicato all’UTMB in Endurance Trail Mag, ho preferito ritirarmi al 60° km della TDS, al ristoro a 2600 mt prima di affrontare la notte, nell’unica delle quattro gare a non avere subito variazioni di percorso.

Per gli stessi motivi con Aug siamo pronti a riprovarci anche il prossimo anno. Con un bagaglio di esperienza, di indumenti e di cibo in più.

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TITE TOGNI: Insegnante certificata Iyengar Yoga ( www.iyengaryoga.it ), corre sulle lunghe distanze e preferibilmente in natura montana “grazie allo yoga” che la allena allo “sforzo senza sforzo”, come recita uno degli aforismi più antichi dello yoga. E’ di quest’anno il titolo regionale veneto di categoria per i 30km FIDAL, ha un personale in maratona sotto le 3:30 (3:27), ha vinto la 100ELODE, una 100 chilometri sulle montagne vicentine e poi l’intero Vicenza Ultra Challenge ( wtww.transdhavet.it ).

Dal 2008 si è sempre posizionata tra le prime alla Lavaredo Ultra Trail e ha partecipato a tre edizioni dell’ Ultra Trail Mont Blanc. Tra l’insegnamento e la pratica dello yoga, gli allenamenti e le gare, si sta dedicando a diffondere la sua creazione, lo YOGAXRUNNERS (www.yogaxrunners.com), con stage, articoli sulle principali riviste, interviste radiofoniche (Essere e Benessere su Radio24) e, a breve, con un libro.

Namasté

LA RICETTA DI KRISSY

Gli spazi aperti sono fonte di ispirazione, l’avventura e la scoperta domano i pensieri di tutti i giorni e regalano sensazioni di libertà e pace.

Words Krissy Moehl
Photo by Patagonia

“Trascorrere il mio tempo tra le montagne è come un regalo per me. Le linee che tracciamo attraversando luoghi unici per giungere a panorami mozzafiato sono tutte gemme da esplorare. Mi piace l’esplorazione, l’avventura e la scoperta. Corro sugli sterrati per questo motivo.”

“C’è una parte di me che ama ogni forma di corsa: su strada, il trail e addirittura la pista. Adoro la sensazione di libertà che mi da il potermi muovere velocemente su tutti i terreni.

Preferisco però correre off road perché mi permette di scoprire posti nuovi grazie solamente alle mie gambe, ai miei piedi. Lo sforzo lungo una salita impegnativa e la successiva vista che toglie il respiro sono quello di cui ho bisogno per rendere completa la mia giornata”.

“Correndo su un sentiero vivo sensazioni diverse e sempre intense. Mi piace il respiro affannoso, il movimento del corpo e il dono della scoperta. Studiare le mappe, disegnare nuovi percorsi e poi viverli in prima persona è una grande soddisfazione. Una giornata può dirsi completa dopo un lungo trail”.

“Quando inizio una corsa la mia mente è ancora impegnata nella “lista delle cose da fare”, nelle discussioni e in ogni problema della vita quotidiana. Quello che succede dopo una lunga, lunga corsa è che il cervello pian piano sposta la sua attenzione dalle questioni della vita verso il semplice e naturale movimento della corsa.

Mi sento rilassata, libera, presente e allo stesso tempo lontana dai pensieri che mi riempivano la testa nei primi chilometri”.

SOUL REWOOLUTION

Trail running, mountainbike, kayak. Cosa hanno in comune queste discipline? Semplice, sono outdoor e quindi fanno parte del nostro mondo. Anche se non le pratichiamo con costanza, o non le abbiamo mai praticate, sono in qualche modo presenti nel nostro Dna e se si viene invitati a un raid multidisciplinare non ci si può tirare indietro. La seconda tappa dei Rewoolution Raid svoltasi a Torbole, sul lago di Garda, a fine settembre è stata l’occasione per un’esperienza nuova e diversa dal solito, sopratutto perché abbiamo costituito per la prima volta un Soul Running Team. Come runner siamo soliti correre per lo più da soli, a volte in compagnia, a volte in gara ma mai in team, è una cosa diversa. Non si tratta solamente di rimanere insieme, aspettarsi l’un l’altro, darsi forza, è qualcosa di più: ci si trova a condividere esperienze, fatiche, sensazioni, positive e negative, come difficilmente succede nel trail, disciplina sicuramente più individuale. Insomma un’esperienza diversa ma divertente, aggregante, impegnativa, oltremodo tecnica...davvero SOUL.

La prima giornata ci ha visti impegnati in un tratto iniziale di quasi sei chilometri di corsa, percorso veloce

Di > AnDre A Pizzi
FOtO Di > Angel A Tr Awoeger, giovAnni MArchesi e AnDre A Pizzi

SOUL REWOOLUTION

e con poco dislivello, che ci ha portato alla spiaggia dove, recuperati i kayak, abbiamo affrontato le impervie acque del Benaco (non è vero, per fortuna erano calmissime e senza vento, ideali per le doti di canoista di chi scrive...) per cinque chilometri, che pagaiando sono comunque una bella distanza.

Tornati a riva si è incominciato a far sul serio con le gambe: dieci chilometri con 2000 mt D+, praticamente sempre in salita fino alla cima del Monte Altissimo, splendido balcone sul Trentino, il Gruppo dell’Adamello e le Dolomiti di Brenta. Giù il cappello agli organizzatori di Spiagames che ci hanno fatto trovare bagagli e tende già montate oltre alla calda ospitalità del rifugio Damiano Chiesa.

L’indomani il menù del raid prevedeva una veloce e tecnica discesa a piedi prima di raggiungere le mountainbike e percorrere quasi 50 km di percorso per rientrare a Torbole. A dirla tutta i chilometri dovevano essere meno ed era prevista anche una calata dalle balconate rocciose sopra Nago oltre a un finale di nuovo correndo...ma complice

l’inesperienza in questo tipo di gare e la troppa diligenza nel voler a tutti i costi passare per i check point segnati sulla mappa, il Team di Soul running ha sbagliato strada sul finale. Abbiamo percorso molto più chilometri e siamo giunti al traguardo in mountainbike, gli unici. Poco male perché i team che hanno affrontato l’impegnativa ultima salita in bici sono stati solo quattro dei venti classificati, altri hanno preferito saltare i check point giocando a tavolino sulla differenza tra le penalità e il tempo complessivo. Noi abbiamo voluto onorare il tracciato, forse con un po’ di astuzia ed esperienza avremmo potuto fare meglio, ma anche questo è SOUL. Un grazie a Max e Pietro per la compagnia. Il Raid è stata l’occasione per testare nuovamente, questa volta con climi più estivi, l’abbigliamento in lana merino di Rewoolution. Confermate le sensazioni riscontrate quest’inverno quando durante i test per la nostra Guida all’acquisto quando abbiamo potuto apprezzare la morbidezza e le doti termiche di questo filato: oltre al comfort è la totale assenza di odore che fa la differenza con le fibre sintetiche.

Liberté, agilité, sureté L’esperienza Raidlight

Questo è quanto offrono le nostre

Prealpi e metà novembre, quando l’inverno ha provato a dire la sua ma c’è ancora tempo per qualche scampolo di caldo e sole.

La salita al monte Faiè ci ha messo voglia di tornare su quelle foglie e correre con quei colori, di correre ma anche di divertirci per una volta, senza un vero percorso da seguire. Ci siamo detti: “scattiamo qualche foto, per fare archivio, proviamo qualcosa magari di diverso, qualche salto...”.

Salto? Si è mai visto un trail runner saltare? E perché no!

Ci siamo spostati allora di qualche chilometro in linea d’aria e siamo saliti verso il Mottarone, cima che domina da un parte sul Lago Maggiore e dall’altra sul Lago d’Orta, con lo sguardo che prosegue fino al Monte Rosa e le cime della Corona Imperiale. Vestiti i panni dei runner seri abbiamo incominciato invece a fare i ragazzini inventandoci salti, discese su morbidissimi tappeti di foglie...per una serie di scatti

DIANDREA PIZZI - FOTO SOULTEAM

sicuramente diversi dal solito. Diciamola tutta: l’occasione per fare foto un po’ diverse e divertirci nascondeva anche il dovere/piacere di continuare a testare i nuovi prodotti Raidlight, marchio francese molto conosciuto oltralpe e che sta crescendo anche in Italia.

Un brand che vanta un catalogo prodotti incredibilmente completo: se si vuole fare trail si trova di tutto, non solo abbigliamento ma anche una quantità di accessori unica. Avevamo già avuto modo, in Basilicata, di utilizzare lo zaino Olmo da 5 litri che con le sue caratteristiche borracce sugli spallacci è molto diffuso tra i trail runner di casa nostra. Impressioni molto positive dall’abbigliamento, studiato nei minimi particolari a testimonianza che dietro questa azienda c’è davvero gente che corre e disegna prodotti per poterlo fare nel modo migliore. Abbiamo indossato maglie realizzate con l’aggiunta di fibra di bambou (non puzzano come le classiche fibre sintetiche!) morbide e molto calde, pantaloni altrettanto tecnici, dall’ottima vestibilità e cura dei dettagli. Ma la sorpresa più interessante è stata la scarpa.

Sì perché Raidlight produce anche una scarpa da trail. Sarebbe lecito chiedersi: perché solo un modello? La risposta è: perché è così personalizzabile che ne basta uno solo, ognuno può crearsi la sua calzata. Le solette a disposizione sono 3, rispettivamente per supinatori, pronatori e per appoggi neutri, prodotte da Sidas, una garanzia. Ma la vera curiosità è l’Abshock Pad, un cuscinetto inserito nell’intersuola a livello del tallone, rimovibile e disponibile in 3 differenti gradi di assorbimento. Ma non finisce qui: la suola, nei punti soggetti a maggior usura come tallone a margine anteromediale, può essere rinnovata, risuolata nel vero senso del termine per avere a disposizione sempre il miglior grip. Un’opportunità unica per le scarpe da trail.

Ma non finisce qui: vogliamo usare questa scarpa nel deserto o sulla neve? Disponibili due differenti ghette dedicate, una sorta di doppia aletta che aumenta la superficie di appoggio della suola per non sprofondare e addirittura delle vere e proprie catene da neve. Tomaia e suola sono state disegnate appositamente per l’aggancio di questa serie di accessori davvero unici. La scarpa è protettiva, un po’ rigida se si vuole correre veloci ma molto sicura e precisa in discesa. E ovviamente nei salti...!!

Testati per voi Testati

Testati per voi

Patagonia Evermore

L’offerta di calzature con differenziale minimo da 4 mm di Patagonia Footwear diventa ancora più ampia con la nuova EVERmore: la scarpa più leggera mai prodotta dall’azienda californiana (178 grammi per il modello femminile e 221 grammi per quello maschile).

L’abbiamo provata per voi su tratti boschivi, molto umidi, mulattiere con muschio autunnale, roccette viscide e sentieri insidiosi ricoperti di foglie secche.

Insomma il banco di prova più duro per una scarpa da trail.

La EVERmore regala sensazioni pregiate: grazie all’ampio avampiede le dita possono allargarsi e sentire il terreno, permettendo alla punta del piede di lavorare fino all’ultimo per dare una spinta completa ed efficace alla corsa.

Il Grip è più che eccellente. Il look è studiato, nuovo, come se la scarpa facesse già parte dell’ambiente circostante.

Per saperne di più aspettate i test dei nostri esperti che pubblicheremo sulla Guida all’Acquisto di Marzo 2013!

The North Face runner glove

Un guanto da running adatto a tre stagioni che isola dagli agenti atmosferici e favorisce la ventilazione. Il rivestimento TNF® Apex ClimateBlock protegge il dorso della mano, mentre il tessuto traspirante agevola la ventilazione sul palmo e tra le dita. I guanti sono provvisti inoltre di un taschino per riporre le chiavi sul palmo e di inserti asciuga-naso.

Il sistema Watch Notch™ è adatto a computer da polso, mentre i copri dita

X-Static® consentono l’utilizzo di telefoni cellulari e lettori MP3.

Mammut 141 Gtx

Nuova scarpa in GoreTex della collezione Mammut Alpine Performance: suola Gripex di fabbricazione Mammut e tomaia single shell che elimina tutti i punti deboli costituiti dalle cuciture.

Il sistema Mammut Base Fit permette il trasferimento delle forze dal laccio alla pianta e una migliore chiusura della scarpa attorno alla caviglia e al piede

Testati per voi Test

Testati per voi

La sportiva Adjuster Jacket

Un prodotto in Windstopper davvero versatile, pensato per un utilizzo in montagna in qualsiasi condizione atmosferica. La combinazione di materiali appositamente scelti garantisce protezione da vento, pioggia e neve.

Realizzato con tessuti che consentono l’eliminazione del sudore e dell’umidità, favorisce il mantenimento della temperatura corporea ottimale durante l’attività fisica.

Caratteristiche: trattamento water resistant “Dwr”, regolazione rapida del cappuccio, polsini in velcro, predisposizione per cuffie Mp3, ventilazione sotto le braccia per una ottimale regolazione della temperatura. Tasche frontali scaldamani e due interne.

Black Diamond SPOT

Più potente che mai con i suoi 90 lumens, la lampada frontale Spot di Black Diamond offre l’illuminazione ideale per ogni situazione. Che si stia rientrando da una corsa nel tardo pomeriggio o per un allenamento in una serata invernale questa frontale compatta e ultra potente include differenti modalità e intensità di luce e consente di personalizzare l’illuminazione alle diverse esigenze di utilizzo. I LED rossi SinglePower garantiscono la visione di prossimità notturna e la funzione di bloccaggio previene lo spreco accidentale delle batterie quanto la frontale é nello zaino o nella giacca.

Calza Lorpen

Lorpen presenta ABC, Anatomically Balanced Compression, una calza senza piede a compressione graduata e calzata differenziata. Realizzata con una tecnologia medica certificata può essere utilizzata in abbinamento alla calza preferita, riducendo così la frequenza di lavaggio, offrendo un livello di compressione che viene adattata in modo preciso, in base alla circonferenza della caviglia e del polpaccio. Il design differenziato destro/sinistro con una grafica specifica frontale/posteriore permette di indossare correttamente le calze per beneficiare al massimo dei vantaggi. La differente compressione determina un miglioramento delle prestazioni e della resistenza, un ridotto accumulo di acido lattico, un miglior recupero muscolare veloce, ottimizza la circolazione prevenendo le lesioni muscolari, riduce la sensazione di fatica.

2012 edizione 0

Uno degli altopiani più belli del mondo, fortunatamente nelle mani di gente, i locali, che sanno cosa farne ed il team di Soul Running, noi, che puntiamo d’azzardo e ancora in fasce ci inventiamo un vero gioco da adulti nel mondo della comunicazione e del trade.

Si perchè, un anno dopo il battesimo in edicola del Magazine, ci siamo letteralmente inventati di fare incontrare negozianti e produttori per “testare” fisicamente gli articoli che saranno sui loro banchi di vendita la prossima stagione. Cose che solitamente le grandi aziende organizzano con meeting dedicati e le piccole non hanno il tempo di fare.

In pochi mesi Davide Orlandi, editore ed ideatore di Soul Running, è riuscito, non senza difficoltà a mettere d’accordo la fondamentale e lungimirante APT di Seiser Alm e numerosi tra i più grandi brand di scarpe e abbigliamento da Trail Running, portando in questo luogo incantato una cinquantina di dealers specializzati del settore outdoor e running che hanno, in un momento focale della stagione, potuto apprezzare l’idea e lo spirito con cui l’intera manifestazione si è svolta nei tre giorni del week end dal 20 al 23 luglio 2012.

Alcuni inconvenienti dovuti alla “gioventù” dell’evento, che stiamo risolvendo, un po’ il tempo che non ci ha premiati soprattutto il sabato, poi tutto si è svolto a meraviglia in uno spirito costruttivo/goliardico in cui amateurs, testers, inviati e proprietari di negozi, hanno trovato la massima disponibilità degli operatori commerciali di marchi quali The North Face, Scott, Brooks, Garmin, Hoka, La Sportiva, Alpina, Dynafit, Falke, Mammut, Treksta e Vivobarefoot a fare indossare scarpe da trail o indumenti di nuova concezione per una corsa di un ora o più, sui meravigliosi sentieri dell’Alpe di Siusi. Per noi che la abbiamo organizzata, vissuta e sofferta, questa tre giorni è stata ricca di soddisfazioni, moltissimi i volti sorridenti tra i negozianti che hanno accettato l’invito, distributori e agenti commerciali che hanno incontrato i clienti al di fuori dell’ambito impettito degli usuali orari di lavoro, magari facendo una corsa proprio al loro fianco, e poi la sera tutti a cena insieme e la domenica dopo la gara di 12 km. “Alpe di Siusi Running” tutti sotto il tendone per premiazione e rinfresco. Atleti, appassionati e semplici escursionisti che non hanno disdegnato di curiosare tra i gazebo allestiti e magari provare anche loro un paio di scarpe.

Ci siamo posti l’ obiettivo di rendere un servizio alle aziende e ai dealers che spesso per questioni pratiche e di tempo vedono e toccano il prodotto solo quando lo hanno già acquistato. Permettere loro di scambiare opinioni e valutazioni in modo anche informale, in questo modo aumenta sia la conoscenza degli articoli che la specializzazione e competenza del punto vendita, sempre più richiesto dal consumatore finale e dai marchi stessi.

L’ evento Alpe di Siusi Running Shoe Experience è nato da questi stimoli, spinto da passione e dall’amore per la corsa in generale e il Trail in particolare. Lavorare divertendosi e godendo della natura è il modo giusto per dare un contributo all’affermarsi di questo piccolo angolo di universo.

Keep on running & see you soon..... a luglio 2013, ovviamente all’Alpe di Siusi !

CAMPAGNA ABBONAMENTI SOUL RUNNING 2013

I lettori chiamano e Soul Running risponde! Prima di tutto grazie. Grazie per tutte le volte che ci avete scritto sulla nostra pagina Facebook per comunicarci che nella vostra edicola il magazine non era ancora arrivato, oppure era esaurito. Questo ci ha permesso di migliorare la distribuzione che dal prossimo anno sarà potenziata tramite la presenza del magazine in una selezione di negozi running e outdoor. Soprattutto grazie per averci anche chiesto in tanti la possibilità di poter sottoscrivere un abbonamento, significa che non volete perdere nemmeno una delle nostre fatiche editoriali. Eccoci allora a introdurvi la campagna abbonamenti con la quale sarà possibile avere la certezza di ricevere a casa i 4 numeri di Soul Running targati 2013, comprendenti la Guida all’Acquisto di inizio stagione ed in più la prima guida del Trail targata Soul Running del territorio Valdostano!!

E non è tutto! Infatti, come si usava fare qualche anno fa, insieme al magazine si potrà scegliere un regalo, non un semplice gadget, ma molto di più, un imperdibile e soprattutto utile accessorio da trail running, qualcosa che vi accompagnerà durante ogni allenamento o gara. Un oggetto ovviamente griffato Soul Running ma anche tecnico, di qualità e che contraddistinguerà i nostri lettori. Partner di eccellenza in questa operazione sono Buff e Raidlight!

Sarà possibile aderire alla campagna direttamente dalla nostra pagina Facebook e dal sito www.distanceplus.com a partire dal 20 dicembre 2012, scegliendo tra differenti opzioni per quanto riguarda la durata dell’abbonamento, le modalità di consegna (tradizionale o garantita) e il tipo di regalo.

Soul Running cresce grazie ai propri lettori.

Follow us! Come sempre!

In collaborazione con:

LORPEN FIT TECHNOLOGY

Una gamma evoluta di calze dedicata agli sportivi appassionati che assicura una gestione ottimale dell’umidità garantendo eccezionale comfort e durata

Calza ultrasottile per scarponi racing in Polycolon®, filato innovativo che combina lana e polipropilene.

• Ottima traspirabilità, rapida dispersione del sudore

• Calzata di precisione

• Grande elasticità data dalla Lycra®

• Cuciture piatte rifinite a mano

Taglie: S-M-L-XL

Distribuito da: Raffaelli srl via Mendola, 21 - Bolzano Tel. 0471 590477 - equipe@dnet.it www.francoraffaelli.com

Innovative Technical Socks

Soul Ru NN i N g S.P.M. PUBLISHING SRL VIA SFORZA 1, 20122 MILANO

Di R e TT o R e Re SP o NSAB ile MARCELLA MAGLIUCCI MARCELLA@SOULRUNNING IT

A RT D i R e CT o R CHIARA FABBRI ART@CHIARAFABBRI COM

Re DAZ io N e DAVIDE ORLANDI DAVIDE@SOULRUNNING IT

ANDREA PIZZI ANDREA@SOULRUNNING IT

MARTA VILLA MARTA@SOULRUNNING IT

LUCA REVELLI LUCA@SOULRUNNING IT

ANDREA VALSECCHI VALSEX@SOULRUNNING IT

H ANN o C oll AB o RAT o MARCO GAZZOLA, NICO VALSESIA, GIOVANNI STORTI, LUCA VISMARA, DINO BONELLI, ELENA GATTO, TITE TOGNI, FRANCESCA CANEPA, RENATO JORIOZ, KRISSY MOEHL, ANDREA VALSECCHI

FoT og RAF i RICHARD FELDERER, DINO BONELLI, MORGAN BERTACCA, LORENZO BELFROND, LUCA BENEDET, ANDREA VALSECCHI, CYRIL CRESPEAU, AUGUSTO MIA BATTAGLIA

FoT o D i C o P e RT i NA FOTOGRAFO: RICHARD FELDERER SOGGETTO: FRANCESCA CANEPA

Co NC e SS io NAR i A D i Pu BB li C i T à o ve R look Me D i A SR l VIA SFORZA 1, 20122 MILANO TEL. +39 (0)2 48517840

STAMPATO IN ITALIA DA gRAF i CAS e TT e S R l WWW.GRAFICASETTE.IT

DISTRIBUZIONE PER L’ITALIA:

Pie R o N i Di STR i B u Z io N e SR l VIALE VITTORIO VENETO 28, 20124 MILANO TEL. + 39 (0)2 632461

PERIODICITA’ TRIMESTRALE NUMERO 4 - DICEMBRE 2012/FEBBRAIO 2013

COLOPHON

Glycerin 10

È STATA SVILUPPATA IN STRETTA COLLABORAZIONE CON L’ULTRA RUNNER TSUYOSHI KABURAKI PER OFFRIRE STABILITÀ E AMMORTIZZAZIONE. È LA SCARPA DA TRAIL RUNNING PIÙ LEGGERA MAI PRODOTTA DA THE NORTH FACE ® , LA GAMMA SINGLE-TRACK TI PORTERÀ LONTANO GRAZIE ALLA TECNOLOGIA CRADLE™.

DELL’ IMPATTO

CONTROLLO DELL’ ANDATURA

Biomeccanicamente studiato, Cradle™ garantisce una buona sensibilità al terreno e controllo degli impatti, proteggendo il piede anche nei percorsi più accidentati.

II SINGLE-TRACK II
CONTROLLO
Patagonia.
Foto: Tim Kemple
Francia: Foto: Tim Kemple

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