Sineresi n. 6

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Periodico edito dall’associazione PAN - Centro di produzione culturale Via Flavio Gioia, 1 - Brindisi di Montagna (Pz) Tel. 342 32 51 054 e-mail: sineresi.sineresi@gmail.com www.sineresiarte.it

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Il sottile confine tra sogno e realtà Vive Il sogno di un’utopia realizzabile e l’utopia come sogno Il diario dei collage delle similitudini I mostri dello stato di veglia L’infinito di un sogno ribelle Abbiamo esaurito i sogni? Cesare Berlingeri. Pitture piegate fra realtà e sogno Il sogno della coesistenza Michele Guido Seminare l’uomo Un sogno manifesto Siamo sogni sognati Sentire tutto in tutte le maniere Storia di un reveur turco Frac Baronissi In hoc sogno vinces Matematicamente sognando Canto popolare Tricarico Clandestino per un sogno

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Willy Verginer

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Sognare non è da tutti. Non si sogna perché si ha la mente sgombra, ma si sogna perché la mente è piena di desideri, di pensieri, di voglia di scrivere un’altra storia, di bisogno di riempire i vuoti etici ed estetici di ogni tempo. Proprio per questo non tutti sognano; i più al limite fantasticano, arzigogolano sulle proiezioni del proprio cammino, spesso dimenticando il vissuto proprio e quello comune. La fantasia dei più è una fantasia egoista e malata di protagonismo, una fantasia che dimentica che il proprio vantaggio si coniuga spesso con il dolore di qualcun altro, che la felicità ha fette ineguali che non saziano tutti. Sognare è un’altra storia; sognare è provare l’angoscia di non essere mentre sei, di morire mentre vivi, di far male mentre fai bene. Sognare è superare questo mondo perché ne vedi già un altro ed è urlare di dolore mentre aspetti di far capire agli altri che un altro mondo c’è; è essere sempre avanti perché mentre gli altri ti raggiungono tu hai già intravisto un’altra galassia. E ti fai male ancora. Il sogno è dolore straziante, il sogno è solitudine nera, il sogno è l’incomprensione di chi dice di amarti, il livore di chi ti invidia perché non sa quanto tutto ti costa. Sognare è finire per essere alieni sempre, per non appartenere più neanche a te stesso che sei costretto a sopravvivere laddove non può vivere il fuoco di te. Sognare è saper mettere il punto e… ricominciare sempre. Anna R. G. Rivelli

Direttore Anna R. G. Rivelli Collaboratori Rossella Batassa - Daniele M. G. Cafarelli - Linda Cioni - Donato Faruolo - Luna Gubinelli - Cristiana Elena Iannelli - Roberto Lacarbonara - Ghino Mori - Giuseppe Passavanti - Mara Sabia - Vito Santarsiero - Antonello Tolve - Melanie Zefferino Direttore responsabile Marco Lovisco Responsabile editoriale Giovanni Cafarelli Progretto Grafico Salvatore Comminiello Segreteria Roberto M. G. Cafarelli

Responsabile sito web Daniele M. G. Cafarelli Impaginazione e stampa Editing srl - Potenza di Gianluca Arcieri Prezzo di una copia + inserto € 10,00 Abbonamento solo sostenitori € 50,00 Estero € 70,00 Per richiesta abbonamenti info: sineresi.sineresi@gmail.com Registrazione Tribunale di Potenza n.457 del 13 agosto 2015


Giuseppe Passavanti

Il sottile confine tra sogno e realtà

Proprio in questo momento avete davanti agli occhi una rivista. Siete svegli, vero? Scommetto che avete assunto un’e-

spressione ironica, quando ve l’ho chiesto. Non avete però considerato che nella solitudine della vostra lettura trattate dei fogli stampati come un interlocutore vivente. Evitate di pensare allo stato allucinatorio che fa di un grumo di lettere un discorso. Le lettere mute diventano in voi - grazie a voi - una totalità organica vivente, dei frammenti di carta e inchiostro si fanno in qualche modo realtà. Cos’erano, prima che li leggeste? Cosa sono adesso, mentre vi parlano? Certo, la rivista e le parole che leggete sono oggetti che hanno una certa propria realtà extramentale. Nello stesso tempo, tuttavia, ‘rivista’ e ‘parole’ sono nozioni, cose pensate. Siete davvero convinti che, al di là del vostro pensiero, esistano in purezza e letteralmente? Avete forse tenuto conto di tutto il lavoro nascosto del corpo umano che dà materia e oggetto al pensiero, trasformando onde elettromagnetiche, sonore, stimoli pressori, passaggi di calore e tante altre possibili fonti di informazione in una rete di segnali elettrici che, in un modo che ancora ci risulta oscuro, ha coscienza di sé? Quanto della rivista che avete davanti agli occhi è costruzione della silenziosa, nascosta, meno che conscia attività simbolica della mente e quanto, invece, si trova letteralmente fuori di voi? Cosa ci sia di ‘periodico’ nel periodico, di ‘rivista’ in una piccola pila di carta stampata e rilegata, di ‘oggettivo’ nell’oggetto, è difficile a dirsi. Il tentativo di immergersi in un lemma qualsiasi, al fine di trovarne una definizione che consenta l’uscita dal piano linguistico in direzione di un ‘fuori della mente’, è puntualmente frustrato: siamo come rinchiusi in una spirale infinita di significati e significanti, di indicazioni e luoghi del pensiero e mai collocati nella cosiddetta realtà. Parole, parole, parole ovunque. L’impossibilità di pensare senza simboli, di uscire dalla gabbia del linguaggio per puntare dritti alle cose stesse, si fa chiara. Le cose esistono nei segni, sono fatte di segni, sono per noi già sempre segno. La realtà è un impasto di cose e linguaggio, di esterno ed interno. Come distinguerla dal sogno? Durante la veglia la mente lavora in maniera invisibile e a noi trasparente, restituendoci la cosiddetta realtà esattamente come fa durante il sonno. Realtà e sogno costruzioni della mente differenti ma incredibilmente prossime fra loro. La realtà è esterna e indipendente dal soggetto, il sogno interno e allucinazione del soggetto: così crediamo. In maniera più radicale e meno superficiale potremmo provare a pensare la stessa distinzione fra ‘interno’ ed ‘esterno’ come interna al pensiero stesso. Ciò che abitualmente chiamiamo realtà (esterno) può essere considerata come un’allucinazione collettiva (interno); il sogno (sempre interno), come un’allucinazione solitaria. Il prodotto di più attività creative che in qualche maniera, mettendosi in comunicazione fra loro, convergono e si armonizzano facendosi uno è ciò che chiamiamo il reale, l’effettivo, l’obiettivamente vero. In quest’ottica il sogno è divenuto il presupposto della realtà, esattamente come l’allucinazione individuale è il presupposto della collettiva. Si impone alla realtà, come alla


verità, una monolitica unitarietà e unilateralità. Il disaccordo, in tale contesto, è lo spazio dell’irreale, del falso. L’accordo fra le allucinazioni è a fondamento della realtà. Questa fede nell’unicità del reale condiziona silenziosamente, ovunque, vite e pensieri. L’omologazione, si sa, infonde sicurezza. L’artista, con la sua attività di creazione cosciente, disturba la continuità del processo con cui la collettività si mette al riparo dall’assurdo procurandosi in anticipo, col consenso generale, una realtà coerente, limpida, razionale, in cui è possibile far progetti e disporre di se stessi e degli altri secondo schemi condivisi. Chi fa arte ci mette nella condizione di ricordare che la vita è sogno che troppo spesso non sa di esserlo: allontanandoci dal noi stessi abituale, restituendoci ai recessi profondi da cui emergiamo, l’artista dà voce al mai omologabile in noi. La molteplicità delle differenze resa unica nella distinzione fra dominanti e dominati, la sottomissione gaudente e tanto diffusa a padroni invisibili, è possibile in virtù della creatività intrinseca della mente, generatrice di mondi condivisi. L’uno viene dai molti e non viceversa. L’identico, l’omogeneo, è il parassita del diverso, del disomogeneo. L’unicità del reale è infeconda e ha vita breve; ha bisogno disperato di figli ed eredi, che ruba alla molteplicità creatrice del sogno. La realtà nasce dal sogno, da voi che sognate le mie parole e discorrete solitari e folli (inconsapevoli) con uno sconosciuto che si presenta come foglio nel muto carattere stampato: uno sconosciuto, un nulla che fate uomo. Che forse esista qualcuno che ci legga e renda reali, come voi fate con me e le mie parole, chi lo saprebbe dire?

Eduardo Paolozzi


TEO JANSEN


Anna R.G. Rivelli

Vive

La creazione secondo Theo Jansen

Il pensiero è creazione. Nulla potrebbe esistere se prima non fosse

pensato. Il pensiero, però, può essere rigoroso e razionale o immaginoso e visionario, può stringersi su calcoli e passaggi logici o inseguire fantasie persino al limite della farneticazione. Ma quando il pensiero è circolare e passa dal sogno alla logica, dalla visione al calcolo matematico, quando tra il dio del sesto giorno della Genesi e l’uomo del ventesimo secolo c’è uno scarto infinitesimale di stravaganza, ecco che ci si imbatte nelle Strandbeesten di Theo Jansen. Creature docili, animate di vento, che avanzano simmetriche come falangi, inquietanti come celiferi, leggiadre come un sirtaki, si aggirano sulle spiagge della costa olandese fin dagli anni Novanta, evolvendosi col tempo e acquisendo capacità omeostatica per avere autonomia di movimento anche durante la bonaccia. Theo Jansen è un genio; più artista o più ingegnere poco importa, se è lui stesso ad affermare che “i confini tra arte e ingegneria esistono solo nelle nostre menti”, se è lui stesso a farci notare quanta tecnica esiste nell’arte divina della creazione, nella perfezione del movimento di ogni essere animato, nella coordinazione ineccepibile di ogni nostro muscolo. Non vorrebbe copiare la natura - dice - eppure è lì l’archetipo, il paradigma imprescindibile. Il movimento ha bisogno di gambe; ed eccolo Jansen a dotare queste sue “Bestie da spiaggia” di decine e decine di gambe leggerissime di PVC giallino, in tubi sottilissimi legati in vario modo con fascette, nastro adesivo, elastici; eccolo a dar loro polmoni di bottiglie per conservargli il fiato e immense creste bianche con cui abbracciare il vento.


C’è un che di leonardesco in queste sculture così vive, come la severità di un lungo studio, l’ansia di superare un limite, un desiderio arcano di bellezza. Sono scheletri sfuggiti alla morte le Strandbeesten di Jansen? O forse insetti ingigantiti da un incubo nucleare? Figlie di un dio minore o soltanto creature tra le creature? Certo è solo che ormai popolano il paesaggio marino sulle coste olandesi, con il loro incedere frusciante, i loro aculei in armi, i loro “musi” sensibili, le loro creste innalzate come vele verso un sogno di onnipotenza. Certo è che vivono di vita propria per quella perfetta combinazione di lunghezze e rapporti studiata e ristudiata in digitale, per quella memoria che consente loro di orientarsi nello spazio e persino di “percepire” il pericolo e non inoltrarsi troppo oltre la battigia, per non correre il rischio di annegare, o picchettarsi nelle tempeste per non ribaltarsi. Certo è lo stupore del mare che incontra la meraviglia della creazione fuori di sé, certa è la gaiezza della terra che a dispetto del cielo ha finalmente i suoi aquiloni, certe sono le migliaia di impronte sulla sabbia, vestigia di un futuro già così tanto presente. E del padre di queste mirabili creature cosa dire? È un artista? Un ingegnere? Un fisico? È tutto questo insieme? Theo Jansen è l’incrollabile pazienza di un sogno. Theodorus Gerardus Jozef Jansen, più semplicemente noto con il nome di Theo, è un artista olandese tutt’ora vivente, nato a Scheveningen, a 6 km da L’Aia, nel 1948. Appassionato sia all’arte che alla fisica, studia presso la Delft University of Technology , la più grande e antica università tecnologica olandese, senza mai laurearsi, ma anche senza mai smettere di coniugare le sue conoscenze tecniche con la sua attività artistica. Le sue opere, infatti, dal Disco volante fino alle Strandbeesten, nascono dalla splendida simbiosi di arte e tecnologia.




Linda Cioni

Il sogno di un’utopia realizzabile e l’utopia come sogno

“All this time we have worked with ideas revolving around the imagination and utopia. And we really believe that art, which occupies an important place in our culture, can change our way of thinking, dreaming, acting, reflecting. It can transform the way we live”. Emilia Kabakov

Utopia, οὐ «non» e τόπος «luogo», è un «luogo che non esiste»

e che non trova riscontro nella realtà. Sin dalla notte dei tempi è ambizione dell’uomo quella di cercare qualcosa di “altro”, di diverso e magari di migliore di ciò che ci circonda. Può l’arte evocare un cambiamento nella società in cui viviamo? Può l’arte realizzare il sogno dell’utopia di un nuovo mondo, o è solo vana illusione quella di poter credere di cambiare l’andamento delle cose? L’arte dei coniugi Kabakov riflette proprio su questi interrogativi. Ilya è considerato il padre del concettualismo russo. Nasce in Ucraina nel 1933, frequenta la Scuola di Belle Arti di Mosca, città nella quale vive a lungo come illustratore di libri per bambini. Nel 1989 in America incontra Emilia, una lontana cugina concertista che presto diventerà sua moglie, al suo fianco nella vita e nelle opere, che d’ora in poi verranno firmate a quattro mani. La forma espressiva più ricorrente nella loro arte è l’“installazione totale”, capace di combinare elementi architettonici, pittorici, cinematografici e scenografici, ritagliando uno spazio a sé stante all’interno dell’ambiente espositivo. Lo spettatore si trova così immerso in un mondo altro e parallelo. Rivive, attraverso i suoni, le immagini e le ambientazioni, scorci di una vita che egli non ha mai vissuto ma che, per qualche istante, diventa anche la sua. The happiest man (2000) rappresenta la casa del “più felice degli uomini”, quella in cui ognuno di noi almeno una volta ha immaginato di abitare. Sulle finestre dell’appartamento scorrono spezzoni di pellicole cinematografiche in perpetuo movimento,

metafora della nostra perenne ricerca della felicità in un mondo altro di evasione, astratto e inconsistente, che fa da ninnolo ai nostri fallimenti e alle nostre paure, nel “secolo delle illusioni”: il ventunesimo. Come al risveglio da un sogno, quando al mattino la dura realtà si riaffaccia con prepotenza alla nostra coscienza, così uscendo da quello spazio espositivo tutto tornerà come prima e la quotidianità riprenderà inesorabile a fare il suo corso. Scorre velocemente, troppo velocemente, come quei frammenti di film, trascinando dietro di sé sfumature di qualche felice ricordo che la memoria umana non è in grado di trattenere a lungo vivido. The fallen angel (1997-2004) rappresenta il fallimento dell’utopia che si materializza dinnanzi ai nostri occhi. Il nastro segnaletico che delimita la scena del crimine solleva domande che rimarranno irrisolte: chi era questo angelo caduto dall’Empireo? Qual è la sua storia? Egli è la materializzazione dei nostri sogni infranti, ognuno lo riconosce col proprio nome e cognome. Le sue ali sono spezzate ed egli giace a terra, scomposto. Non si rialzerà. La sua ambizione di volare in alto verso un’altra dimensione, come quella di Icaro che osò avvicinarsi troppo al sole, non è riuscita ed egli piuttosto vi ha trovato la morte. I sogni, le illusioni e le utopie sembrano permanere solo se non si concretizzano nella realtà. In un mondo così veloce e materialista, è mai possibile fare marcia indietro e migliorare le cose o anche il nostro destino è quello di schiantarci a terra, rovinosamente, come l’angelo caduto?


Secondo i coniugi Kabakov per intervenire sul corso degli eventi, basta indossare un paio di ali bianche. In How to make yourself better (1998) gli artisti ci forniscono la ricetta per renderci degli esseri umani più onesti. Il cambiamento deve partire anzitutto da noi stessi. È necessario confezionare un paio di candide ali piumate, indossarle e rimanere in assoluto silenzio e solitudine, nella nostra stanza, per cinque-dieci minuti al giorno. Un esercizio che, se condotto con costanza, dopo qualche settimana porterà gli effetti sperati. Tutti possono diventare angeli custodi e fare qualcosa di buono, basta crederci. Nell’arte dei coniugi Kabakov la figura angelica è ricorrente, allegoria della salvezza e della spiritualità che l’uomo contemporaneo sembra non avere più, legato com’è al Dio denaro e al Genio profitto. Il colore bianco rappresenta il silenzio suprematista, l’azzeramento, il nulla, il non essere dal quale ripartire. Se i confini tra utopia e realtà sembrano stabili, almeno in apparenza, talvolta possono essere squarciati. The man who flew into space from his apartment (1985) racconta la storia di un uomo che dalla sua stanza volò nel cosmo, lasciando dietro di sé i calcinacci provocati dal grande varco aperto nel soffitto e il disordine della vita che fu e che ora non gli appartiene più, rappresentata dalle pareti imbrattate e tappezzate confusamente dai manifesti di propaganda sovietica, dall’essenziale brandina e da un modesto paio di scarpe. Fulcro dell’istallazione è la grande catapulta con la quale l’uomo è riuscito a librarsi. Nel piccolo plastico di una città si vede la traiettoria che egli ha calcolato nei minimi particolari per sfuggire dall’angosciosa quotidianità. Abbandonata l’angusta e buia camera, gli si schiudono davanti nuovi e infiniti mondi possibili. Questa anche è un po’ la speranza di chi oggigiorno sale a bordo di un barcone, in cerca dell’utopia di un’esistenza migliore al di là del Mediterraneo. Un sogno che per molti si infrange durante il percorso, come nel caso di Icaro che proprio in quelle acque trovò la morte, oppure sul finale, una volta raggiunta la meta, dinnanzi alle difficoltà legate alla paura del diverso. La via per la salvezza è riposta nelle mani delle nuove generazioni, come dimostra The ship of tolerance (2018), un progetto artistico itinerante che porta il suo messaggio di pace e di speranza in diverse parti del globo. Si tratta di un’imbarcazione in legno lunga venti metri, la cui vela è composta da tele dipinte da bambini di età, cultura, etnia e provenienza geografica distinte, sul tema della tolleranza, e del dialogo tra culture. Il desiderio di Ilya ed Emilia Kabakov è che i visitatori, guardando il grande veliero “possano provare gioia, felicità, speranza, sogno e possibilità di realizzare un’utopia”, in cui la convivenza tra popoli “diversi” diventi una naturale coesistenza tra uomini e donne.



CEREM BULBUN


Luna Gubinelli

Il diario dei collage delle similitudini

Avere un dialogo diretto con la natura è una condizione fondamentale per creare arte, e questo perché l’artista è un uomo e come tale fa parte della terra in cui lui e la natura convivono radicandosi con essa e tra loro. Per Paul Klee questo passaggio aveva qualcosa di scientifico ed era fondamentale per costruire il suo sguardo attraverso cui rappresentare da artista tutte le cose contenute nell’universo conosciuto. L’artista è il portatore delle funzioni elementari della natura e deve cogliere con il suo sguardo le funzioni attraverso cui questa vive presentandole al mondo oltre che rappresentarle. Questo punto di vista ha sovvertito il concetto di “imitazione della natura” che aveva dominato l’arte dei secoli precedenti e, in ambito artistico, ha aperto le porte alle interpretazioni del rapporto uomo-natura che da subito hanno mostrato infinite possibilità. Partendo da tali considerazioni non risulta inconsueto osservare, in questo inizio del XXI secolo, come gli artisti, nonostante il moltiplicarsi di strumenti e tecnologie a disposizione, continuino a fare della relazione uomo-natura un punto focale della loro produzione artistica. Interessante ed entusiasmante è approfondire come le nuove leve, i nuovi sguardi, si approccino a tale aspetto avendo come ulteriore punto di riferimento il mondo virtuale e il caos dei social network. Ceren Bülbün, giovane e riservata artista di Istanbul, lascia che siano le sue immagini a parlare per sé stessa sulla piattaforma sociale di Instagram. Le sue opere sono dei collage fotografici che mettono in evidenza le similitudini tra le particolarità del corpo umano e la complessità dei paesaggi fino ad arrivare ai singoli dettagli che arricchiscono lo spettacolo della natura. In una dimensione spazio-temporale parallela come quella delle “comunità virtuali” è impossibile capire se lei sia stata la prima a cimentarsi nell’ormai inflazionato mondo delle giustapposizioni fotografiche, più o meno animate, che nell’ultimo biennio sono diventate particolarmente di moda nella espressività massmediatica. La cosa indubbia è che gli insta sul profilo, seguito da 66 mila persone, attraggono per accuratezza estetica ed efficacia narrativa delle associazioni proposte. Il collage le permette di lavorare con ogni tipo di materiale, sia fisico che virtuale come le gif animate, ed è tecnica essenziale per l’artista poiché in un mondo di immagini appiattite dallo schermo è possibile tramite questa via suggerire al pubblico l’idea dello spessore. Inoltre, l’associazione di due elementi in uno spazio delimitato, facilita l’approccio critico a ciò che stiamo vedendo. Ci permette di valutare e riflettere su argomenti che conosciamo ma che non avevamo considerato nel loro insieme, quindi, ci induce a pensare al di là delle nostre esperienze. L’intento non è creare una illusione o compiere un mero esercizio di stile. I confini delle immagini sono ben delineati, spesso spigolosi e geometrici, e sottolineano la similitudine attraverso la differenza.


René magritte “Le séducter”

Le opere sono rigorosamente senza titolo. Sono postate, quindi esposte, senza nessuna distinzione rispetto a quelle di genere diverso. Come se Instagram fosse il suo diario visivo virtuale, quello in cui si raccolgono immagini significative o semplicemente ricordi, citazioni ed esperimenti. Questo è ciò che @ cerenbulbun ci vuole mostrare: “la vita è una realtà, l’arte è il modo in cui la guardi”. Figure o parti maschili e femminili sono avvicinate per struttura o forma a paesaggi naturalistici, come per esempio la prospettiva fotografica di un collo femminile che, nella tensione indotta dalle braccia alzate, suggerisce l’andamento ondulato (e impervio al tempo stesso) di un paesaggio collinare. Le similitudini più utilizzate dall’artista e più ‘amate’ dai followers sono quelle che mettono a confronto le trame (texture) della pelle umana con quella animale, tra un’anziana e un elefante. Riconoscibili e immediate, sembrano suggerire la finalità ultima del destino umano.


Il tessuto rugoso dell’umanità ci ricorda i Cretti di Burri, o la craquelure, fitto reticolo di screpolature che si forma sui dipinti antichi.Le citazioni più o meno consapevoli sono testimonianza del background artistico della Bülbün che, come tutte le menti brillanti, riutilizza e formula in modo diverso ciò che ha visto, appreso o semplicemente ciò che carpisce dall’immaginario comune. Più esplicito invece il riferimento ad un artista del secolo passato che, sia per l’utilizzo della similitudine, sia per la riflessione sul linguaggio, deve essere particolarmente caro a Ceren Bülbün: René Magritte. Una donna in procinto di togliersi un maglione fatto di acqua è un omaggio a Le Séducteur, opera del 1950 dell’artista di Lessines. Magritte sosteneva che le “similitudini e le differenze sono rivelate esclusivamente da atti possibili del pensiero, ossia dagli atti di considerare, comparare, distinguere e valutare. Si ha una immagine pittorica, quindi, solo nel momento



in cui l’aspetto dei colori stesi su una superficie coincide con un’immagine che presenta similitudini col mondo visibile.” Nella sua produzione porterà questa idea fino alla soglia dell’assurdo (per l’epoca): il veliero sul mare non somiglierà solo a un veliero, ma anche al mare, sicché la chiglia e le vele saranno fatte di mare. Nei Sette Sigilli dell’affermazione, Foucault parlando di Magritte scrive: “La somiglianza comporta un’affermazione unica, sempre la stessa: questo, quello, quell’altro, è tale cosa. La similitudine moltiplica le affermazioni differenti, che danzano insieme, appoggiandosi e cadendo le une sulle altre”. Nella decolcomania della Ceren non è importante capire quale immagine cade l’una sull’altra, se il mare o il maglione. Lo scopo è porre l’immagine in una regione dell’osservazione che non sia per niente familiare, perché “l’automatismo del pensiero non mancherebbe di evocare per sottrarsi all’inquietudine”. Così si innesca un pensiero critico su ciò che osserviamo. Come abbiamo visto, le opere delle Bülbün non hanno titolo, nel caso appena analizzato sembrerebbe proprio che la scelta del soggetto sia una traduzione visiva del titolo seduttore di Magritte. Ma il diario dei collage delle similitudini di Ceren Bülbün approccia anche al classico. Il confronto uomo/natura va esteso anche alle opere scultoree considerate parte dell’uomo, e quindi della natura come ci suggeriva Klee, proponendo la fusione tra ciò che è e ciò che è stato. Il risultato di questa fusione crea una atemporalità in cui passato e presente si confrontano. In una delle immagini presentate dalla Ceren, l’innesto di un occhio umano arrossato e tumefatto si inserisce perfettamente nel volto di una scultura antica, come se il processo di metamorfosi, la trasformazione di uno nell’altro, fosse ancora in atto. La duplicità dei registri a confronto, alto/ classico e moderno/quotidiano, crea una dimensione che ha il compito di descrivere l’attuale: i frammenti del passato sono essenziali per descrivere il presente poiché parte della stessa essenza.


Matilde Puleo

I mostri dello stato di veglia

In perfetto equilibrio tra le immagini personali e collettive che

Ali Elmaci

dominano lo stato cosciente, il sogno è in grado di convivere col confine, di sostare al limite e poi tutto d’un tratto, di compiere il passo e attraversare la soglia. Offre immagini prodotte dalla mente senza consultare la volontà e poi ci fa credere che tutto sia vero. Lo riconosci quando t’accorgi di essere stato coinvolto e di esserti trovato dentro relazioni complesse che al risveglio – come non bastasse - ti rifiuti di considerare semplice finzione. C’è chi però privato della libertà d’espressione o più comunemente sospeso nella comunicazione, ha bisogno di quella soglia e cerca di capirne le condizioni, spaziando nella veglia. Trasformato in codice comunicativo, mi convince l’idea di trovare il sogno nel come l’artista - perseguendo la propria liberazione e diffondendo il suo lavoro - trasmetta ad altri le immagini che rappresentano l’indicibile, ricapitolandone il senso. È infatti sulla scia di questo tipo di tutela delle visioni differenti e di sublimazione intellettuale che ci accorgiamo delle nostre gabbie mentali, sociali e digitali, spesso conseguenza di quelle culturali. Zehra Doğan affronta con coraggio queste gabbie. Nel 2018 aveva già trascorso in carcere 2 anni, 9 mesi e 22 giorni per aver dipinto un quadro nel quale aveva raccontato un bombardamento condotto dalle forze pubbliche in Turchia. Con l’accusa di far parte di un’organizzazione antigovernativa, Zehra scrive, fotografa e realizza un acquerello per un’agenzia di stampa curda che registra cosa sta succedendo nel paese di Erdoğan. Sogna mondi aperti contro chi limita la libertà di pensiero critico e nell’incubo della veglia indica per contrasto un modello


Kutlug Ataman

Zehera Dogan

di Ragione e di ragionamento. Come quello di Ekin Onat. Ex ballerina, ora attivista, Ekin sperimenta la solidità dell’incubo costituito da 330 pagine di rapporti sulla polizia che lei pubblica per denunciare migliaia di casi di violenza nei confronti di semplici cittadini. Esiste un clima politico in grado di interferire col sogno in Turchia. Ciò è innegabile. Sappiamo però che non è l’unico caso. Questo mio riferimento alla Turchia vuole leggere questo paese solo come emblema, perché analoghe riflessioni si possono fare per la Russia di Putin, la Corea del Nord, la vicina Siria o l’Africa oltre che per quei regimi a noi più vicini che si definiscono democratici e poi si sentono feriti da un lapis. La Turchia sarà solo il supporto di un breve excursus che chiarirà (spero) come la sperimentazione artistica sia chiamata a diventare quella “realtà riflessa” - missione dell’arte per Truman Capote – che potenzia la nostra esperienza. A Istanbul trovo il vigore della rappresentazione nel poliedrico modo col quale Halil Altindere guarda la crisi dei rifugiati dopo le elezioni e racconta con sculture iperrealiste la repressione, le minacce di morte contro le esibizioni femministe, la chiusura di siti web e la tortura senza un ordine del tribunale. Anche Kultug Atman vittima di uno stato di veglia insensato, cerca rifugio nell’agognata incoerenza del sogno realizzando il premiato film Küba di ventotto ore e quaranta episodi, al solo scopo di scoraggiare o rendere difficile la normale esperienza comunitaria.

Elif Nursad


Mehmet Aksoy


Ekin Onat

In quest’opera nessuno potrà godere della fruizione del proprio vicino perché percepiamo il mondo sempre in modo individualistico. Su questo assunto, la logica della rivelazione afferma: se nemmeno un film può farsi garante della comune assegnazione di senso allora perché lasciarsi condizionare da discorsi nazionalisti? Purtroppo però, la realtà manipolata produce mostri e la Statua dell’Umanità o della Pace dello scultore Mehmet Aksoy ne è la prova. Segno dell’amicizia tra turchi e armeni, il monumento viene abbattuto nel 2011 perché ritenuto “brutto” e offensivo del presidente. Nazionalisti offesi nella loro sensibilità estetica distruggono un simbolo di 30 metri, visibile dalla vicina Armenia e chiaramente riferito al genocidio del 1915, scegliendo così non più categorie estetiche discutibili o condivisibili, ma il più mostruoso degli incubi. Nel 2016 il nazionalismo islamista prende d’assalto la fiera d’arte contemporanea e punta l’indice contro una scultura creando il panico. L’opera incriminata di Ali Elmaci, ritrae una figura femminile tatuata, in bikini con due teste sorridenti, una delle quali tiene un coltello tra i denti. Ritirata dalla fiera, questo tipo di intolleranza racconta quanto l’arte sovverta, turbi e scandalizzi l’oscenità del potere. Gli oltre 2.000 procedimenti giudiziari per “insulti” al presidente trasformano dunque le finzioni dell’arte in immagini credibili della protesta, assegnando loro il senso di un paradigma pericoloso per punta alla dittatura. Ecco come una fumettista, pittrice e graffitara come Elif Nursad può permettersi di ispirare tantissime donne turche. Elif collabora con un fumetto femminista che raggiunge 50 mila lettori in un paese dove si licenziano 8.000 docenti e ricercatori universitari. Dice loro che il sogno è una dimensione concreta che sceglie, decide, vuole. A me conferma che quei disegni diventano connessione fra conoscenza e azione, perché permette di vagliare l’esperienza personale e passare all’azione in nome di un’utilità sociale o cercando risultati concreti. La recente vittoria elettorale dell’opposizione forse non cancellerà facilmente l’arroganza. Tuttavia ci permette di ipotizzare che in generale, non c’è esperienza del reale senza la mediazione di un sogno che punta alla consapevolezza e liberazione delle energie vitali. Laddove i fatti convivono con le interpretazioni immaginative, si apre uno spazio cioè che si fa soglia, modella il vuoto e rende abitabile l’indicibile.


ONE PIECE Daniele M. G. Cafarelli

Dal passato al futuro sul vascello di One Piece

L’infinito di un sogno ribelle


“Lo sapete voi quand’è che un uomo muore davvero? Non quando il suo cuore è raggiunto da un proiettile e nemmeno quando viene colpito da una malattia incurabile e nemmeno quando mangia un fungo velenoso! Muore veramente solo quando viene dimenticato da tutti”. [Dr. Hillk]

Nella società post-moderna e nichilista nella quale viviamo un bel sogno è proprio quello che ci vuole. Non s’intende però il vacuo fantasticare o il nonsenso dei nostri teatri notturni, bensì quel sogno che ti spinge a lottare, a prendere la via del mare, come quell’Ulisse che per fame di conoscenza oltrepassò le Colonne d’Ercole. One Piece è un fumetto che parla di pirati, considerati dall’autore i sognatori per eccellenza, gli esploratori che mettono in gioco la loro stessa vita per un futuro più bello e più ricco. Il Sogno è infatti il motore che muove tutta l’opera; come i protagonisti volano sulle ali di un sogno, anche i comprimari e in particolare gli antagonisti (lungi dal chiamarli malvagi) vivono, lottano e muoiono alla ricerca del loro sogno e per dignità di questo schiacciano e vituperano quelli degli altri. Nell’opera questo è molto chiaro, tant’è che quei personaggi che non sono portatori di sogni finiscono sconfitti, perché lottare senza ambizione è mera sopravvivenza. Eiichiro Oda (l’autore) ha creato una dicotomia tra un mondo pieno di misteri da scoprire e un potere corrotto e giustizialista che mira a insabbiarli per il mantenimento dello status quo. In questa ottica i pirati sognatori sono ribelli, sovversivi che non accettano la visione del mondo imposta dall’alto dalla mano oscura dei governi, ma che anzi scavano a fondo nel passato, riscoprendo segreti che ridanno vita a sogni millenari. E cosa sono le ideologie e le tradizioni e la


stessa memoria se non sogni che hanno attraversato le decadi, i secoli o addirittura i millenni di storia per arrivare fino a noi? One Piece infatti parla anche di sogni a lungo sepolti nelle sabbie del tempo, ma mai del tutto dimenticati. Può d’altronde esistere un sogno senza la memoria del passato? Non è forse perché ricordiamo che possiamo portare avanti il sogno di qualcun altro che noi tutti sogniamo ancora? Molti dei sogni che i personaggi di One Piece portano avanti non sono nati con loro, ma sono l’eredità di qualcun altro, un parente, un caro amico o semplicemente un altro sognatore. Tutta la narrazione oscilla in continuazione tra presente e passato, non solo per mostrare come si è arrivati alla realtà corrente, ma anche per tracciare una sorta di genealogia del sogno. L’autore infatti non solo mostra nei numerosi flashback la storia di quegli uomini che hanno lottato e fallito nel realizzarne uno proprio, ma anche il percorso attraverso il quale esso è stato trasmesso a qualcun altro, perché se anche l’uomo muore, il suo sogno non si spezza con lui. Luffy, il protagonista, è l’emblema di tutta l’epopea di One Piece, perché il sogno che lui porta avanti è quello della libertà e dell’avventura, premesse fondamentali di qualunque altro sogno (può infatti esistere un sogno senza libertà? Esistono sogni che non ci portano a rischiare l’avventura?). Con il suo candore, per certi versi bambinesco (non a caso i bambini sono molto più affini ai sogni degli adulti), egli continua il suo viaggio senza guardare in faccia a nessuno e senza ascoltare quelle voci che continuano a dirgli che i sogni sono cose ridicole. Dobbiamo ricordare a noi stessi e alla società che per costruire il futuro bisogna partire dal sogno e dall’ambizione e poi eventualmente venire a patti con la realtà. Se ci dimentichiamo di sognare, anche quei sogni che vanno avanti da secoli, i sogni millenari dell’umanità, moriranno con noi.




Marco Lovisco

Abbiamo esaurito i sogni?

Chiharu Shiota “The key in the hand”

Ogni epoca ha i sogni che merita. Non lo dico io, lo dicono le ope-

re d’arte che diventano specchio di un immaginario che si evolve insieme alla società e che solo la sensibilità dell’artista riesce, spesso inconsapevolmente, a cogliere e fermare. E con l’immaginario cambia il modo di sognare e cambiano i mondi che gli artisti riescono a raccontare. Pensate a Chagall, pensate ad un’opera come “Parigi dalla finestra”. Cos’altro non è se non un sogno raccontato in una sola immagine? Sullo sfondo c’è un elemento reale come la Torre Eiffel ma in primo piano vediamo un gatto dal volto umano, sulla destra una testa bifronte e in alto un uomo che viene giù dal cielo, con un improbabile paracadute. Niente pare avere senso, ma tutto è perfettamente sensato. Come nei sogni dei bambini. Come nei film di Melies. Non è un caso se ho citato proprio il grande cineasta parigino. L’opera di Chagall è infatti datata 1913, e mi piace pensare che il pittore bielorusso sia stato in parte ispirato dalle atmosfere fantasiose delle pellicole di George Melies, pioniere del cinema. Era il 1913, qualche anno dopo la Grande Guerra avrebbe infranto per sempre i sogni di una generazione di ragazzi, ma a Parigi in quegli anni c’era ancora spazio per sognare. E Chagall era l’artista perfetto per dare voce ai sogni di una generazione talentuosa, ingenua e troppo idealista per sopravvivere. Ai sogni della Parigi della Belle Epoque si sostituirono gli incubi, purtroppo reali, della guerra di trincea, con una violenza efferata che sembrava venir fuori da uno degli inferni di Bosch. Inutile sottolineare come anche gli incubi siano influenzati dall’epoca e


Marc chagall “Parigi dalla finestra”

Marc chagall “Sopra Vitersk”

dunque cangianti. Il pittore fiammingo disegnò il “Trittico del giardino delle delizie” con il suo spaventoso “Inferno musicale” tra il 1480 e il 1490, quando la paura della dannazione eterna era reale almeno quanto oggi lo è la paura di un attacco terroristico. È come un piccolo tarlo che si agita nel subconscio e magari la notte ritorna sotto forma di incubo. Bisogna aspettare la fine Settecento perché l’incubo non abbia più la forma di un diavolo armato di forcone ma assuma l’aspetto di una donna voluttuosa, tormentata da demoni dispettosi che sembrano protagonisti di una fiaba. Chi non conosce il celebre “Incubo” dello svizzero Johann Heinrich Füssli? L’opera è del 1781 e attinge a piene mani dal folklore e dalla fiaba, ambiti privilegiati dagli artisti romantici dell’epoca. Dopo questa parentesi, tornerei all’argomento principale: il sogno. Vi avevo lasciato allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Quando tutto finì, le macerie lasciarono poco spazio agli artisti per sognare. Bisognò aspettare il 1924 per poter ammirare nuovamente dei sogni su tela. Il primo a crederci fu André Breton, pubblicando a Parigi il “Manifesto del Surrealismo”. In pratica, mise nero su bianco il diritto di creare sogni. Come altro si possono definire le figure colme di energia di Miró, gli uomini che piovono dal cielo dipinti da Magritte o le tigri partorite da un pesce che assalgono una giovane e voluttuosa (ancora) donna nel sonno? Cos’altro non è “Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio”, se non l’incubo settecentesco di Füssli rivisto a due secoli di distanza? È in quegli anni che il sogno riafferma fieramente il suo diritto di esistere. Fu necessaria un’altra guerra per azzoppare definitivamente la voglia di sognare. Se la Prima Guerra Mondiale fu superata anche grazie allo sforzo dei Surrealisti, le macerie della Seconda Guerra Mondiale furono spazzate via non più da un manifesto culturale

Salvador Dalì


Renè Magritte “Il figlio dell’uomo”

Joan Mirò “Carnevale di Arlecchino

Renè Magritte “Golcomda”

ma da un progetto economico: il piano Marshall. Dal secondo dopoguerra in poi lo spazio per sognare e immaginare rimase una nicchia in cui lasciar giocare i bambini, mentre i sogni dei grandi diventavano sempre più reali e tangibili. Fu allora che si posero le basi del capitalismo, e le frasi come “il tempo è denaro” segnavano la differenza tra gli uomini concreti e i perdigiorno. Non c’era più tempo da perdere. Per questo dormire non significava più sognare ma solo riposare, per ricaricare le energie e ripartire verso nuovi traguardi. Probabilmente lo aveva intuito Warhol, con la sua opera “Sleep” del 1963. In quel lungo filmato non c’è più spazio per i sogni, solo per il sonno. Emblematico a questo proposito è l’opera “David” che l’artista inglese Sam Taylor-Wood tributò a Warhol nel 2004. Nel caso di Taylor-Wood ad essere ripreso mentre dormiva non era un uomo comune, ma il calciatore David Beckham. Volendo potremmo intendere tale scelta (niente affatto casuale) come un ulteriore ferita inferta all’idea naif che avevamo del sogno, che somigliava a quello dei bambini. Nel sonno senza sogni di Taylor-Wood l’inconscio e la parte profonda del soggetto cede il passo all’esteriorità, perfetta, di un atleta, sogno vivente a cui ambiscono uomini e donna. Detta in modo più semplice: se con Chagall raccontavamo quello che avevamo dentro e che ci rendeva speciali, con l’opera di Taylor-Wood prevale il racconto dell’esteriorità. Ma questa è una mia opinione. Non sappiamo più sognare? Forse, ma se andiamo lontano, forse in Estremo Oriente qualcuno che è ancora capace di dare voce ai sogni c’è. Provate letteralmente ad entrare nell’opera “The Key in the Hand” del giapponese Chiharu Shiota, esposta alla Biennale del 2015. Forse, tra un’opera come questa e un libro di Murakami possiamo trovare ancora lo spazio per sognare.



Anna R.G. Rivelli

Cesare Berlingeri. Pitture piegate fra realtà e sogno. Intervista con Tommaso Trini

Di che materia sono fatti i sogni? I sogni sono fatti di labili con-

fini, di barriere cadute, di limiti immaginari. I sogni sono crinali, sipari di nebbia che si attraversano, pieghe che trasformano il senso della storia, che cambiano i termini di una realtà immutabile dandole altra forma, altro spessore, altra lettura. Sognare è la metafora dei nostri silenzi interiori, è la meta di un viaggio che ancora deve cominciare. Ecco perché non si potrebbe parlare di sogno senza pensare a Cesare Berlingeri, artista librato nel mondo e caparbiamente aggrappato al suo cielo, sopra la terra che lo ha generato. L’artista Berlingeri è il sogno della Calabria, il sogno suo stesso e forse anche quello dell’homo logicus con la malinconia dell’incongruo. Parliamo di lui con il professor Tommaso Trini che dal 1989 lo sostiene e lo segue. Professor Trini, Cesare Berlingeri - che espone in Europa, Stati Uniti, America Latina, ma risiede in Calabria - è sicuramente tra i più grandi artisti viventi; ha realizzato i suoi sogni d’arte fondandoli anche sull’amore viscerale per la sua terra e sulla forza delle sue radici. Lei, che ha con lui una consuetudine lunga un trentennio, ritiene che le sue opere siano anche permeate in parte dei nostri sogni?


Sì. Essendo il creatore delle pitture piegate, in strati di tela e di colori su strati avvolti, Berlingeri è certamente il demiurgo di un universo nuovo, tra il visibile e l’invisibile, un “vasaio” della vita raffigurata a due e a tre dimensioni. Lui modella sogni plastici che in realtà noi percepiamo come veri con i nostri sensi. Berlingeri è un pittore che dipinge enigmi, segni, figure, sia sopra la tela e sia sotto, così che le pieghe rinchiudono un dentro. Berlingeri è lo scultore che stratifica tele e colori che noi desidereremmo toccare, abbracciare. Come lo fu in teatro, quando vi inventava scene e “notti stellate”, Berlingeri è anche un architetto di spazi. Non è questa l’azione dei sogni, in cui ci immergiamo col desiderio di agirvi, perché l’agire pare vero? Ma, attenzione, questo Maestro non dorme né sogna, lui è sveglio tre strati sopra il reale, sempre deciso a fare, mutare, e rinnovare. Berlingeri è un realizzatore di passi, albe, tramonti, e luci. Lui non risiede dentro i suoi singoli artefatti mentre la sua opera fa sognare noialtri, noi circostanti. Di testo in testo, io ho pensato persino che lui crei cellule viventi come quelle avvolte negli oceani. Nei suoi diari, l’artista ha scritto: «Ciò che è dipinto in questi quadri è lo svanire della luce stessa nella luce (1994)». È una preziosa metafora subliminale che rende simili e contigui il reale e l’onirico.Il suo lavoro ci interroga: l’ignoto è forse una scultura nelle pieghe della pittura? Dopo mezzo secolo di lavoro instancabile, qual è il valore storico di Berlingeri? Alto. Le piegature di Berlingeri sono l’opera d’arte più originale che sia emersa in Italia nella seconda metà del decennio 1970. E ben presto è circolata in crescendo nell’ambito internazionale fino a oggi. Ora l’artista è reduce da una mostra a Miami, nonchè da un’importante esposizione antologica presso il Marca a Catanzaro, sta ottenendo un consenso definitivo, già condiviso da una ben nota galleria di Milano e da collezionisti a largo raggio. Si aggiungano un libro e più cataloghi di noti editori. Si studiano sia il corso delle sue ricerche, sia l’unità del suo linguaggio performativo, ossia scenico oltre che visivo e plastico, da parte di numerosi altri critici e storici.

Rosso piegato, tecnica mista su tela piegata, 93x81x20, 2000 Un giallo per Vincent, olio e pigmenti su tela piegata, 94x95x5 cm, 2006


La sua pittura è complessa, in effetti, stratificata di storia, ricca di echi diversi. È vero e affascinante. Nell’epoca in cui Cesare inizia come pittore alla grande ossia, scenografo (per necessità) ed abile narratore (per passione) di eventi e storie mediante vasti teleri per quinte e fondali, che ripiega e riavvolge a fine spettacolo - le arti visive internazionali attraversano la fine storica delle avanguardie e ritornano indietro o inventano “transavanguardie” di successo o analizzano concetti filosofici. Il giovane artista di Taurianova sperimenta una struttura di campi monocromatici a dittico o trittico avvicinando pigmenti a metalli, dunque una pittura di tipo analitico ossia concettuale, che lo riporta all’avanguardia della pittura-come-oggetto anni 60. A quel punto si rende conto che lui, quella arte oggettuale alla Manzoni, Castellani, ecc., la sta già facendo in altro modo a teatro; anzi, a teatro spento. È la piegazione. Possiamo dire che Berlingeri ha radici nel teatro popolare itinerante di Calabria. La questione posta dalle prime pitture piegate o avvolte, che risalgono al 1978, può essere così sintetizzata: ogni costrutto visivo plastico è un oggetto in sé, globale se non proprio sferico, le cui ondulazioni oscillano tra il visibile e l’invisibile, quale che sia il mezzo utilizzato per ottenere una maggiore precisione di intenti e risultati. Così Berlingeri, mentre si affermava, spiegherà in seguito il suo personale concetto: «Ciò che è dipinto in queste opere è il passaggio delle immagini pensate, vale a dire l’entrata nell’occultamento, il ritorno alle ombre, all’oscurità. Nei dipinti piegati, la superficie esterna è la prima immagine che nasconde totalmente o parzialmente le altre. La loro è una struttura dalle facce infinite. In tale struttura è il tempo stesso, imprigionato nello spazio, a creare la distanza. La luce mette in discussione la forma e le consente di emergere attraverso il dialogo con l’ombra, creando il mistero del non-visto proprio per la sua fisicità tridimensionale (2003)». Anche se prosegue un caposaldo ribadito dall’arte moderna, in particolare da Paul Klee, secondo cui l’arte fa sì che “l’invisibile diventi visibile” a favore della conoscenza, Berlingeri è tra gli artisti che oltrepassano il primato della sola vista. Lui comprende e dispone

Deposito di stelle, tecnica mista su tela piegata, 88x135x73 cm, 2005


Sul rosso, tecnica mista su tela piegata, 32x28x11 cm, 2002


che si tenga conto dell’infinita preponderanza universale del buio e delle cose ignorate o velate. Crea dunque un dispositivo plurimo, una sorta di generosa pittura a rotoli di antica memoria e, al contempo, assimilabile a forme di missive in busta, o cuscini mentali, o tascapani spirituale, o segni apotropaici, verso i quali “non basta rendere visibile l’invisibile, bisogna rendere visibile l’invisibilità del visibile”, secondo il filosofo Michel Foucault. Sì, l’invisibilità del visibile ha trentamila anni dentro la grotta di Chauvet, ha aperto un teatro intellettuale nella veggenza metafisica di De Chirico, ha steso un sudario ottico sul quadrato nero di Malevič, e infine ha chiuso, attualmente e in terra calabra, rutilanti membrane di tele istoriate intorno alle nuove cellule di Cesare Berlingeri, non meno misteriose di quelle generate dalla vita.

3 elementi Oltremare piegato, 2017 Acrilico e pigmento su tela piegata Varie misure


Salvatore DavĂŹ

Manifesta 12 Palermo e il progetto DRIFT

Il sogno della coesistenza.


La storia di Palermo racconta di una città in piena trasformazione, immersa nel presente, ma legata indissolubilmente al suo passato. Il capoluogo siciliano è da sempre una città aperta, transnazionale, cosmopolita, attraversata da una pluralità di culture e di etnie, di narrazioni e di rappresentazioni, che ne definiscono un’identità eterogenea e inclusiva. Anche per queste ragioni la città è stata scelta per ospitare la dodicesima edizione di Manifesta - Biennale nomade di Arte e Cultura Contemporanea, quest’anno dedicata ai temi dei diritti civili, della rigenerazione urbana e dell’inclusione sociale. Manifesta è una biennale itinerante nata in Olanda negli anni Novanta, che nel corso degli anni, ha cambiato diverse sedi, sperimentando, ogni volta, nuovi processi di riqualificazione attraverso la cultura e l’arte contemporanea. I luoghi preferiti da Manifesta, che ha il suo raggio d’azione in Europa, sono sempre stati i territori liminari, i confini del continente, le città “minori”, le eccezioni e i luoghi con un potenziale inespresso. Il 2018 è l’anno di Manifesta 12 Palermo, con un programma culturale di livello internazionale, che ha avuto inizio nel 2015 con l’avvio di un laboratorio di idee, volto a riflettere su temi estremamente attuali e interrogare un territorio complesso, diventato metafora delle vicende legate all’accoglienza e all’integrazione dei popoli. L’intento di Manifesta è stato quello di ipotizzare un modello di coesistenza, alla luce della crisi umanitaria che coinvolge tutta l’Europa e il Mediterraneo. Si tratta di un crollo delle certezze che coinvolge l’identità collettiva e che destabilizza il senso di comunità, mettendo in discussione anche i concetti di patria e nazione. In un periodo inequivocabilmente post-moderno, entro il quale ogni identità ridefinisce se stessa con una continua rinegoziazione, il vecchio continente, e l’occidente in senso ampio, alzano trincee verso il diverso per difendere i confini di un concetto identitario monolitico, tanto obsoleto quanto strenuamente protetto. Non c’è integrazione senza sangue, la storia lo insegna, però il sangue di oggi non ha più lo stesso valore, quel che conta è mantenere lo status quo, pure a costo di fomentare l’odio verso l’altro, in nome di una razza perduta. Detto ciò, è chiaro che la Fondazione Manifesta, insediandosi a Palermo, abbia colto l’anima della città, rappresentata come una sacca di resistenza contro la xenofobia, con un progetto curatoriale dal nome emblematico, Il Giardino Planetario. Coltivare la Coesistenza, messo a punto dai creative mediator di Manifesta 12: Bregtje van der Haak (film maker olandese), Andrés Jaque (architetto e ricercatore spagnolo), Ippolito Pastellini Laparelli (architetto partner dello studio OMA di Rotterdam) e Mirjam Varadinis (curatrice svizzera).


Manifesta 12 Palermo è stata inaugurata il 15 giugno 2018 con il progetto principale che si è snodato lungo un itinerario fatto di sedi storiche e luoghi di notevole bellezza: l’Orto Botanico, Palazzo Butera, la Chiesa di Santa Maria dello Spasimo e il Giardino dei Giusti, Palazzo Ajutamicristo, Palazzo Forcella de Seta, la Casa del Mutilato, Palazzo Trinacria, Palazzo Costantino, l’Oratorio della Madonna dei Peccatori Pentiti, l’Oratorio di San Lorenzo, la Chiesa SS. Euno e Giuliano, l’Istituto Padre Messina e infine, il programma ha coinvolto la costa sud della città e i quartieri periferici ZEN 2 e Pizzo Sella. Tanti luoghi e tanti artisti coinvolti, contestualmente ai tanti progetti collaterali di elevata qualità. Dunque, il bilancio dell’operazione Manifesta si può ritenere positivo, soprattutto per la città: vitalità straordinaria, che si aggiunge a quella di ordinaria amministrazione, atmosfera fantastica, Palermo d’oro splendente, artisti, professionisti e stampa da ogni dove. Nonostante ciò, sarebbe stato meglio vedere qualcosa in meno, nello specifico, qualche video in meno, non per i video in sé, ma per la maggior parte, questi, sono stati pensati come dei dossier istruttori (ma questa roba, nel contemporaneo, è ormai una battaglia persa). Opere, ma soprattutto video, che hanno ceduto il passo agli spazi espositivi, senza pietà. È strano che artisti e curatori non abbiano fatto i conti, fino in fondo, con la difficoltà della “coesistenza” tra queste opere e questi spazi espositivi. Palermo ha divorato l’arte contemporanea, ma nonostante tutto, si può ritenere ottimo l’insieme di Palazzo Butera e Palazzo de Seta, anche se il video di Allora &Calzadilla, “The Great Silence”,


all’Orto Botanico (progetto collaterale Radiceterna) ha una marcia in più, perché solleva in altri termini il problema dell’umanità dei non-umani e della ricerca di una nuova idea di collettività. Altro livello anche per la videoinstallazione dei Masbedo, “Protocol n. 90/6” (progetto collaterale presso l’Archivio di Stato), che ha retto seriamente il passo, senza essere divorato dal maestoso e incantevole spazio espositivo. Tuttavia, accantonando la questione “video”, questi non sono gli unici progetti collaterali che nell’insieme del progetto Manifesta hanno funzionato bene, poiché altre mostre ed altri eventi hanno inquadrato bene la mission della biennale (troppi, per essere citati), dando filo da torcere all’evento principale. In sostanza Manifesta, nonostante la difficoltà di interagire con luoghi estremamente carichi di significato, ha saputo mostrare come creare il giusto dispositivo per immaginare la coesistenza, nell’ottica attuale delle ondate migratorie; coltivare il sogno della convivenza tra popoli, ma anche tra identità individuali diverse, con tutto il carico eterogeneo di valori e principi morali, sulla base di un diritto primario che riguarda ogni individuo: essere se stessi e immaginarsi in un posto migliore. Che cos’è, quindi, la coesistenza, se non si ha il diritto di sognare una vita appagante, attraversando nuovi confini, nuovi mondi, per raggiungere nuove prospettive? L’ipotesi peggiore è quella del miraggio che si traduce in un sogno tramutato in incubo, quella migliore è l’integrazione. È proprio sul crinale di questa metafora, che oscilla tra la speranza (il sogno) e lo sconforto (l’incubo) verso le dinamiche che implicano il coesistere di identità


citario. È stata affissa, dunque, una singola immagine, come anticipazione dell’intero progetto (una serie di 20 creazioni stampate in formato poster 6x3mt) dal 06 agosto 2018, visibile fino al 31 dello stesso mese. Le immagini saranno affisse su una serie di billboards inseriti nello spazio urbano della città, dal centro alla periferia, grazie al sostegno tecnico di Alessi S.p.a, società di pubblicità esterna e partner del progetto. La prewiev dell’11 giugno è stata pensata come un input simbolico, attraverso la visione di un’immagine elaborata dagli artisti e affissa nel cartellone pubblicitario presente a Piazza Luigi Sturzo, in una zona della città a ridosso tra la Palermo più antica e i quartieri del primo Novecento. L’immagine ha funzionato da cerniera tra due zone limitrofe della città: il quartiere liberty di via Libertà e quello popolare di Borgo Vecchio. Uno spazio di “confine”, emblema del sogno della coesistenza tra contesti sociali differenti. Gli autori di DRIFT, Lovett/Codagnone, vivono e lavorano a New York (USA). La loro produzione passa dalla fotografia alla scultura, dal video all’installazione, fino alla performance, medium che li vede protagonisti

Lovet

multiple all’interno di un regime etico predefinito, che si muove il concept di uno dei progetti collaterali di Manifesta 12; si tratta di DRIFT, intervento pubblico del duo artistico italo-americano Lovett/Codagnone, curato dal sottoscritto e da Antonio Leone. Nelle righe che seguono, visto il diretto coinvolgimento, provo a raccontare in prima persona il processo che ha delineato l’evoluzione e gli obiettivi del progetto. La collaborazione tra noi curatori e i co-fondatori di Azoto projects&communication, Francesco Costantino e Fausto Brigantino, che hanno ideato e coordinato l’intero progetto, in collaborazione con ruber.contemporanea, ha permesso la realizzazione di un processo virtuoso di confronto su tematiche molto attuali. Il tutto è stato unificato dal lavoro degli artisti, che hanno guidato il messaggio visivo verso la realizzazione di un prodotto finale che ha oltrepassato lo schema della mostra (spazio espositivo + inaugurazione). DRIFT ha preso il via senza inaugurazione e senza spazio espositivo, si è presentato alla comunità cittadina durante la prewiev dell’11 giugno 2018, con l’allestimento di “DRIFT/t damned” su un impianto pubbli-


Codognone

di un ironico gioco delle parti, teso a smascherare i ruoli di potere, socialmente definiti, all’interno delle relazioni interpersonali. Se nei primi lavori i due artisti rispondevano criticamente all’assimilazione della cultura gay nelle pratiche del consumismo estetico di massa (moda, musica, spettacolo) e all’inadeguatezza del linguaggio rispetto alla complessità della relazione di coppia, nei lavori più recenti riflettono sull’identità collettiva e sulle modalità di definizione e affermazione derivante dalle dinamiche di conflitto in relazione ai dispositivi di potere.A partire da questi presupposti, è facile comprende come l’obiettivo di DRIFT sia quello di innescare un processo di riflessione sui dispositivi che interagiscono criticamente con una visione monolitica della società. Lovett/Codagnone attivano una forma di conflitto percettivo, mimetizzando il loro messaggio in un territorio estetico diverso da quello strettamente legato alle finalità artistiche, e sollecitando un processo di riflessione e analisi critica rispetto alle diverse forme di controllo che agiscono sull’individuo e sull’identità collettiva. Le immagini sono fotografie scattate dagli

artisti negli ultimi anni, tra gli Stati Uniti d’America e l’Europa. L’impianto estetico degli scatti crea una voragine all’interno delle allettanti grafiche pubblicitarie; sono immagini opache, paesaggi in penombra e velati da un’atmosfera dolcemente apocalittica, che a tratti, come in un sogno, sembrano riesumare qualche anelito di incerta e angosciante speranza. La crudezza della quotidianità sembra presentata come figlia minore della paura, mentre alcune frasi, lapidarie e inquietanti, tratte da canzoni e ricontestualizzate dalle immagini, creano nuovi significati, testando, in mezzo alla città, l’idea dello status dei social network. Si tratta di una resistenza iconica al sistema socio-economico imperante, che giocando in modo ironico con le strategie del marketing, cattura l’individuo come in un bagliore onirico, creando un desiderio inconscio. È proprio questa la riflessione messa in campo da Lovett/Codagnone: far convivere penombra e bagliore, con la speranza che accada qualcosa che il sistema non ha previsto. Magari il superamento di ogni barriera etica e sociale.


Antonio Leone

Michele Guido

Metamorfosi naturali

Ceiba garden project è un progetto di Michele Guido legato ad una ricerca che l’artista conduce dal 2001, ispirata agli studi rinascimentali sulla proporzione aurea e allo schema dei rapporti armonici teorizzato da Leon Battista Alberti, secondo cui la trama del mondo, il fondamento della rappresentazione sia della persona umana che degli edifici, è legato al rettangolo aureo, inteso come elemento di rapporti perfetti, quegli stessi rapporti che definiscono l’armonia. In seno a queste teorie si sviluppa l’idea che la più alta espressione della percezione del bello derivi dalla capacità della natura di manifestarsi mediante perfetti rapporti nelle forme, essenzialmente geometrici e matematici, così come argomentato da Luca Pacioli nel De Divina Proportione, pubblicato a Venezia nel 1509: una proprietà intrinseca riscontrabile nei vegetali, nelle cadenze musicali, nell’equilibrio fra i colori. In Garden project, Guido sviluppa una ricerca tesa a rilevare il rapporto formale tra architettura e geometria vegetale, incentrando lo studio sulle relazioni tra la fillotassi propria della morfogenesi delle piante, le strutture geometriche e le proporzioni matematiche architettoniche. Attraverso un procedimento analogico Guido crea delle icnografìe, in cui l’immagine grafica che si compone innesca una precisa composizione euritmica. Il lavoro di Guido imprigiona lo sguardo sulla fascinazione della ricerca formale. Con sapiente maestria, e con un approccio estremamente razionale, crea connessioni tra luoghi, storie, geometrie e nature, il cui risultato è la costruzione di immagini tridimensionali, architetture naturali, tramite cui intravedere la trama del mondo e coglierne l’insita armonia.

Il processo creativo di Guido, rigoroso e lucido, si svolge per stratificazioni di immagini: dalla lastra della sezione del vegetale, in cui è possibile identificare la struttura geometrica della pianta, l’intersezione visuale procede, per analogia, in relazione con le piante di specifiche costruzioni, in cui individua delle corrisponde elettive, innescando una relazione dialogica. Nella realizzazione si serve di materiali diversi, come il vetro su cui viene serigrafata la geometria interna del vegetale, ossia la sua architettura; oppure intervenendo su di essi per estrusione, in questo modo il disegno si stratifica e diventa forma e struttura. L’interconnessione fra le relazioni geometriche e matematiche e il loro assiduo manifestarsi in molteplici contesti naturali e culturali, incoraggiano una riflessione in chiave teleologica circa l’esistenza di un rapporto tra macrocosmo e microcosmo, tra l’universo e la natura: l’idea di un cosmo vivente di cui la natura costituisce un tutto organico, di cui l’uomo è manifestazione. Nel lavoro di Michele Guido l’attenzione si concentra sull’armonia delle corrispondenze, delle relazioni formali fra universo vegetale e paesaggio antropizzato, fra la natura e la capacità creatrice dell’uomo, quasi a sottolineare l’urgenza di un dialogo che è necessario ritrovare. In un ideale viaggio in Sicilia, Michele Guido connette l’isola, in un gioco di correlazioni e rimandi storici e culturali, alle geografie del mondo. In robn_23.02.11_03.04 _ottagono _castel del monte _2011/2013 Guido ci conduce, a partire dallo studio della sezione del fusto dell’Euphorbia ripresa nell’orto botanico di Napoli, all’osservazione delle relazioni con la pianta di Castel del Monte, una for-


Palazzo Spada Pk Sebastiano Luciano

Si potrebbe pensare che la natura sia il prodotto di un accordo inintellegibile di esseri infinitamente diversi, il legame straordinario del mondo degli spiriti, il punto di unione e di contatto di innumerevoli mondi. (Novalis, I discepoli di Sais)


Studio per Villa Farnese Ph Sebastiano Luciano


tezza del XIII secolo fatta costruire nel 1240 da Federico II di Svevia, Re di Sicilia, nell’altopiano delle Murge occidentali in Puglia, attuale frazione omonima del comune di Andria. Nelle opere robn_07.05.14_27.08_pietro cataneo_1567/2018 e robn _10.09.10_03.09_ Grammichele _2010/2013 la correlazione è sempre con il fusto dell’Euphorbia, che si presenta sia in forma ottagonale che esagonale, in rapporto alle due città siciliane di Avola e Grammichele distrutte dal devastante terremoto del 1693 e ricostruite entrambe, negli anni immediatamente successivi, sulla base dei disegni di Pietro Cataneo, contenuti nel famoso trattato I primi quattro libri d’architettura. Nei due lavori, la corrispondenza ideale fra pianta ed architettura genera un processo metamorfico per cui l’architettura stessa trasmuta diventando giardino. L’attività plasmatrice, “forma impressa che viva si sviluppa” (Goethe) agisce sullo spazio antropizzato, generando un’azione di ri-significazione. La fecondità della natura, ancora in nuce nelle due tavole, ma di cui percepiamo l’agire - le linee fittissime che ricoprono gli studi della città ideale altro non sono che le proiezioni delle radici sullo spazio urbano - si realizza in atto nella scultura gbs_23.05.05_02.35_città fortezza da pietro cataneo_1567/2016. La morfologia del trifoglio e la sua proiezione geometrica in relazione analogica al disegno della città fortezza di Pietro Cataneo, danno corpo ad una architettura germinata tridimensionale. La città si rigenera e trasmuta in un giardino vibrante che si proietta sulla cupola.

Come la gemma contiene in nuce la forza generatrice della vita, l’opera di Michele Guido ne evoca la vis vivificante in una costruzione che ne sviluppa la potenza in atto: «come da dentro del seme o radice manda ed esplica il tronco; da dentro il tronco caccia i rami; da dentro i rami i rami principali; da dentro questi spiega le gemme; da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le frondi, i fiori, i frutti». (Giordano Bruno, De la causa, principio et Uno). In ceiba garden project_1896/2018, il viaggio immaginario di Guido ci conduce dall’orto Botanico di Palermo, in cui la pianta è stata introdotta intorno al 1896, fino all’America Latina, areale naturale della specie. La Ceiba è considerata nella mitologia delle civiltà precolombiane mesoamericane come l’Albero sacro, l’Albero della vita. In particolare nella cosmologia Maya le sue radici e la chioma collegavano il Cielo, la Terra e gli Inferi. La caratteristica principale della Ceiba speciosa è nel tronco, rigonfio nella parte inferiore e munito di grosse spine coniche. Quest’ultime sono state per la civiltà Maya fonte d’ispirazione per la realizzazione di svariati manufatti artistici, vasi ed urne in ceramica, rinvenute dagli archeologi nella regione meridionale della pianura Maya. Il progetto ceiba garden project_1896/2018 mostra alcune riprese con ottiche macro proprio delle spine della piante di Ceiba presenti nell’orto Botanico di Palermo. In obp_31.08.07_03.11_guachimontones_circulo la iguana_2016, la relazione analogica innescata da Guido è con la piramide de


Michele Tempio di Ercole

la Iguana, una delle principali costruzioni dell’epoca dell’insediamento di Guachimontones. La sua importanza è data dalla struttura, costituita da cerchi concentrici che conducono all’altare in cima, legata alla numerologia del calendario agricolo mesoamericano. Le attività rituali si svolgevano infatti in conformità con i cicli agricoli, in quanto la funzione principale del culto era quello di regolare e controllare la vita sociale ed economica. La costruzione, rotonda nella parte centrale presenta 13 gradini nel primo livello e 4 nel secondo. Nelle due parti laterali del lavoro, la piramide compare sezionata e rovesciata trasformandosi in un anfiteatro che trova il suo vertice nel terreno, mentre la progressione dei gradini più grandi si sviluppa nella parte aerea. Lo studio sulla Ceiba garden project_2018 si chiude con le due tavole


Guido Ottagono Castel del Monte

obp_31.08.07_05.09 _piramide rotonda di calixtlahuca_alzato e obp_31.08.07_03.14_ piramide rotonda di calixtlahuca _pianta del 2016. Nei due lavori la relazione geometrica fra architettura e vegetale che innesca il processo analogico è su uno degli esempi più belli di piramide rotonda azteca situata nella valle di Toluca. I lavori mostrano la costruzione architettonica della piramide sia nella vista in pianta che quella in alzato, seguendo lo schema dei rapporti armonici di Leon Battista Alberti legati al rettangolo aureo con un tentativo del prolungamento dei lati della piramide fino a costruire una figura conica. La forma armonica delle piramide è data dalla proiezione sul vetro della struttura geometrica delle spine del Ceiba, innescando una precisa composizione euritmica.


Luna Gubinelli

Seminare l’uomo.

Emanuele Astengo e l’operazione Arcevia.

L’eredità di un sogno. Arcevia 2.0 L’operazione Arcevia era un progetto di ripopolamento poco convenzionale di un borgo che viveva un periodo di crisi demografica attraverso cui è stato possibile utilizzare l’arte per creare un nuovo tipo di condivisione. Presentato alla Biennale di Venezia del 1976 ed esposto alla Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roma nel 1979, è rimasto sostanzialmente su carta. Ma il sogno che nasce dal pensiero e si fa idea continua a vivere nella comunità che ha guardato al passato per tradurre nel linguaggio dei giorni di oggi quella visionarietà dell’arte che genera progresso. Operazione Arcevia 2.0 rinasce nel 2012 dalla volontà di un collettivo di giovani artisti che ha guardato all’esistente in modo nuovo, dando vita a processi creativi che attraverso l’arte aiutano gli avventori a guardare la natura con occhi diversi.

Nella metà degli anni Settanta del Novecento, in un piccolo borgo delle Marche, un progetto sociale, architettonico e culturale coinvolge un gruppo di pittori, scultori, musicisti, registi ed altri artisti contemporanei: Operazione Arcevia. L’imprenditore Italo Bartoletti, i critici d’arte Enrico Crispolti e Pierre Restany, insieme allo psicologo Antonio Miotto, sono a capo della commissione che ha il compito di selezionare una serie di progetti, con l’obiettivo di creare, attraverso interventi estetici e non, “una ipotesi di comunità esistenziale.” Una comunità che non è terapeutica, ma Esistenziale, cioè che esiste e che collabora per creare una nuova tipologia di sperimentalità. Arcevia era, in quel periodo, un paese in una fase di acceso spopolamento. La necessità del progetto nasceva dalla volontà di dare un segnale positivo al piccolo borgo in difficoltà. La semplice creazione di un villaggio residenziale non era quindi sufficiente, ciò di cui si sentiva realmente il bisogno era una nuova possibilità di fusione fra la tradizione dell’area e la sua natura rurale tramite una visione illuminata che guardasse al futuro e a nuove potenzialità.


Emanuele Astenco “Muro del pianto” particolare, 2012 Porta di San Martino Zagarolo

Il progetto prevedeva tra le altre cose attività economiche agricole, pensate ad integrazione delle fattorie preesistenti, nel rispetto e nella conservazione dell’ambiente; la creazione di strutture per favorire un turismo silenzioso e meditativo; attività culturali aventi una base in cui si svolgevano ricerche in campo artigianale; una scuola di perfezionamento e di ricerca di modelli di ispirazione affiancata da un centro di produzione che costituiva il perno delle attività di natura economica e produttiva dell’insediamento. Il carattere rivoluzionario del progetto permetteva di avvicinarsi quanto più possibile alla realtà di un mondo povero, semplice e di propositi modesti, in contrapposizione alle città spaziali e utopiche del domani pensate in genere senza preoccuparsi di dissipare risorse energetiche, e soprattutto lontane dalle reali necessità di coesione tra le persone che le dovrebbero abitare. Lontani dal jet set del mondo dell’arte, il progetto coinvolgeva anche personalità di spicco, tra cui Antonioni, Arman e Burri. Il pensiero che meglio traduce l’essenza di una creazione di questo tipo, in riferimento all’aspetto strettamente progettuale utopico e pragmatico è, a mio avviso, da ricercare nel confine del significato della parola arte. O meglio, nel confine in cui risiedono tutta una serie di definizioni che tendono a inquadrare il lavoro degli artisti. Emanuele Astengo, scultore ceramista, dà vita ad Arcevia ad un progetto che non solo abbraccia a fondo l’idealismo dell’operazione prevista per quel luogo, ma sintetizza con semplicità disarmante una serie di concetti appartenenti al mondo “alto” dell’arte rendendoli fruibili a tutti senza che ci sia bisogno di un intervento intellettuale per riconoscerli. Fa del sogno un pensiero, lo sviluppa e lo rende potenzialmente concreto, abbattendo le barriere culturali attraverso una semplicità a cui è abituato soltanto qualcuno che ha necessità di sporcarsi le mani quando è il momento di creare. Nel 1976, a seguito di tre ricognizioni ambientali, sociali e culturali, Astengo dà vita al pensiero “Seminare l’uomo”, identificando la funzione, il campo e le linee teoriche di questo progetto, cioè un percorso pedonale che congiunge la piazza panoramica



(struttura architettonica della comunità) alla parte del borgo immersa nella natura, un luogo che lui definisce come un vero e proprio ritiro laico. La funzione consiste nel fruire metaforicamente del passaggio da una condizione naturale a una artificiale, una condizione onirica, se vogliamo, in cui la realtà si lega indissolubilmente alla poesia del pensiero. Il prodotto artistico, scultoreo-ceramico, realizzato in questo percorso diventa un tramite, una transizione attraverso cui verificare le possibilità che le due condizioni concedono all’artista e ai fruitori della sua opera. L’identificazione del campo è frutto dell’analisi della componente topologica effettuata mediante le ricognizioni. Tutte le componenti attive considerate (sociali, politiche, economiche, psicologiche e di dibattito artistico) confluiscono nell’elaborazione del progetto: Seminare l’uomo e i suoi oggetti. Il pensiero progettuale nasce dall’esplorazione, dall’identificazione e dal confronto dell’artista con il luogo, trova forma creativa nel “calcare” l’uomo e i suoi oggetti, nel ceramicare, e nel solcare la terra per seminare l’uomo. Con un impasto di gesso, sono eseguiti i calchi delle persone (in parte o intere) partecipanti alle operazioni. Il positivo in ceramica è realizzato nel centro artigianale della comunità, durante un momento di socializzazione e animazione. Ceramicare significa esaltare la corposità del materiale ceramico piuttosto che la sua trasudante lucentezza. Attraverso la materia, Astengo indaga le possibilità di significazione simbolica della stessa: la terra si fa uomo e l’uomo plasmato si riperde nella ter-

ra, per essere metaforicamente seminato nei luoghi di appartenenza e per dare vita a germogli di condivisione che utilizzano la natura come tramite imprescindibile per la sopravvivenza. Ciò che durante l’identificazione del campo era una impressione statica, con il calco e la sua dispersione si introduce quella dinamica spazio-temporale che è propria dell’intenzione esistenziale di tutto il progetto. I solchi aperti nel paesaggio con un grande aratro da scasso, delineano il percorso pedonale e il percorso di diffusione delle ceramiche umane colorate e degli oggetti. Camminando lungo il percorso, gli abitanti, i visitatori, gli artisti, ritrovano pezzi di sé stessi, si riconoscono nella natura, sono consapevoli di farne parte, così come sono consapevoli di partecipare ad un progetto ideale in cui sono stati coinvolti plasmando la materia, con il solo scopo di stare bene, di esistere. Analizzando le singole parti dell’operazione potremmo “nominare” ciascuno degli interventi con una definizione critica. Seminare l’uomo è, da questo punto di vista, un progetto di Land Art o di Earth Art ossia di manipolazione del paesaggio con lo scopo di creare un’esperienza esemplare. È Iperrealismo plastico o Body Art per l’utilizzo del corpo come linguaggio artistico; è Conceptual Art poiché si concentra sul pensiero piuttosto che sul piacere estetico. L’intervento di Astengo ad Arcevia, pur essendo identificabile in singoli momenti, è concepito come un tutt’uno, in transito, una somma degli istanti e di visioni del mondo. Oltre i confini della definizione, che limitano la libertà della creazione, Astengo rende la sua arte con-


divisione, ricercando quella radice espressiva comunicativa comune a tutti gli esseri umani. Non c’è bisogno di soffermarsi sulle parole, sull’apparire, ma è necessario creare, appunto, un’ipotesi di comunità esistenziale. Il sogno di Astengo si spinge anche al di là del luogo in sé: focalizza l’attenzione sulla possibilità di trasformare una condizione umana disattenta, degradata e massificata, in concetti di semplice condivisione, concetti che vengono traslati attraverso operazioni pratiche e accessibili alla comprensione di tutti. Del lavoro di Astengo rimangono due pannelli di documentazione che, ancora una volta, trasformano il progetto pratico in proiezione bidimensionale. Arcevia diventa happening raccontato da immagini, l’esperienza della ceramica diventa meta-esperienza che vive in un pannello fotografico (desunto da un film girato in super otto), e il sogno eredità dei posteri. Ecco perché Astengo è un eretico, lontano dalle dicotomie di Ceramisti d’arte e di Ceramiche d’artista. Il suo tentativo è quello di rivoluzionare un genere di confine, pieno di potenzialità, che fino a quel momento è riuscito a toccare i livelli più alti solo grazie ai grandi nomi come quello di Fontana o Leoncillo. Il sogno dell’artista è, e rimane, quello di mantenere viva questa utopia, di lavorare l’argilla con le sue mani, di scolpirla, distruggerla per poi ricostruirla (Distruzione della Ruota, 1974). L’artista dà vita, utilizzando le abilità di chimico, a impasti desueti, come il Kerlast (Keramos+Astengo, ovvero, ceramica–last =ultima ceramica), che oltre a essere pensati come parte creativa dell’opera ne suggeriscono l’aspetto concettuale e mistico (Mandala). Credere nei sogni è l’unico modo di portare avanti le proprie idee, coniugando passione e pensiero creativo a favore della collettività. Erede di Arcevia in questo senso è Il muro del Pianto (2012), un’opera corale realizzata qualche anno fa dagli allievi di Astengo. Volti, braccia, mani, frammenti umani si intrecciano nella porta di San Martino a Zagarolo, così come le opere del ceramicare si perdevano nella semina di Arcevia. La tecnica giapponese del Raku viene utilizzata questa volta come medium prediletto, e la sua celerità gli consente di essere alla portata di chi sta imparando e sperimentando. Arte sacra in Giappone, il Raku ritrova dignità sociale in Occidente. Nuovamente Astengo riesce, attraverso la rielaborazione dei materiali e al pensiero collettivo, a farci comprendere che vale la pena continuare a pensare fuori degli schemi per di aprire la mente a dettagli che ad un primo sguardo potrebbero sfuggire.



Fiorella Fiore

Un sogno manifesto

Icone e miti tra cinema e arte

Quando il cinema iniziò ad affacciarsi nel sistema delle arti fu naturale che la cartellonistica, genere illustrativo già utilizzato per la promozione degli spettacoli di lirica e teatro, confluisse anche in questo ambito. L’impostazione originale di questo linguaggio, più propriamente pubblicitario e grafico, derivava dal contesto francese: le prime affiches, dipinte da illustratori già noti, riprendevano le caratteristiche della comunicazione promozionale, caratterizzata da un messaggio immediato e riconoscibile, dalla capacità di attirare l’attenzione del possibile spettatore e nello stesso tempo informarlo sui dettagli della pellicola. Il manifesto tipico del cinema muto ricalca stile e atmosfere del film che promuove, evocandone trama e contesto. Lo schema è quello di un’immagine centrale, contornata e a colori, che raffigura la scena madre del film; le tecniche più utilizzate sono quelle dell’acquerello, della tempera e del pastello. Sebbene lo stile di questi illustratori si faccia inevitabilmente influenzare dall’arte ad essi contemporanea, sin da subito, in questi manifesti, si utilizza un particolare linguaggio di scrittura che equilibra immagine e contenuto. Il manifesto deve attirare l’attenzione, evocare una trama, ma, soprattutto, deve cercare di vendere un’emozione, dare l’illusione, cioè, di acquistare un sogno. Anselmo Ballester, Silvano (Nano) Campeggi, Alessandro Simeoni, i fratelli Giuliano e Lorenzo Nistri, Ermanno Iaia, solo per citare alcuni dei nomi più noti, sono gli illustratori che lavorano per gli studios internazionali e quelli nazionali, e si specializzano nella produzione di questi manufatti. Tra ritrattistica e illustrazione popolare, con incursioni d’avanguardia, quando il produttore lo consente, i bozzetti si trasformano in vere e proprie opere pittoriche, in grado di far presa sul pubblico ampio e variegato del cinema. Il fine, naturalmente, è promozionale: per questo gli artisti seguono strutture comunicative precise, cercando di condensare l’atmosfera del film per invogliare lo spettatore alla visione. Ad uno stile più propriamente narrativo e realistico si accosta quello aulico reso tale dalla presenza del “divo”, che assume in questi

anni un aspetto quasi mitologico, e di cui proprio il manifesto diventa un feticcio. Da un lato ci sono i venditori di sogni, dall’altro chi li utilizza per provocare una rottura che, attraverso l’arte, pone la società di fronte allo specchio. Mimmo Rotella capisce bene che quel linguaggio parla del suo tempo. Partendo dalla rivoluzione estetica di Andy Warhol, che aveva avuto modo di conoscere dopo un’esperienza negli USA, Rotella opera una dissoluzione del messaggio artistico che, nel gesto dello strappo, è qualcosa di più che mera provocazione: è il raggiungimento di una nuova consapevolezza. Nel 1953 crea il primo décollage. Fino al 1958 utilizza pezzi di manifesti che strappa in giro per la città, incollandoli su un nuovo supporto; successivamente l’artista passa ad incollare i manifesti interi sulla tela e poi sapientemente li strappa lasciando tuttavia ben visibile la riconoscibilità delle figure. L’operazione compiuta da Mimmo Rotella è funzionale ad una efficace operazione critica che desemantizza il messaggio, traducendolo nel suo esatto opposto: mostrare l’assoluta fragilità della società contemporanea e soprattutto del suo pantheon cinematografico. Tutto questo diventa evidente soprattutto attraverso la figura di Marilyn Monroe che accomuna, in un certo senso, il suo operato a quello di Andy Wharol. Quando l’artista americano realizza la prima opera a lei dedicata, Gold Marilyn, la divina per eccellenza è appena stata scoperta cadavere nella sua casa Hollywoodiana: Warhol consegna all’America la sua icona, la sua Madonna imperfetta. Il sogno si è ormai spezzato. Rotella utilizza più volte il volto di Marilyn per le sue opere, inevitabilmente attratto anche lui da questa fragile donna nel corpo di diva. Nello strappo del feticcio, nella decostruzione del mito e del sogno che esso rappresenta, egli pone uno di fronte all’altro, l’illusione del sogno e la durezza della realtà. In questa dicotomia si esprime la crisi dell’intero Novecento. A noi spettatori resta la nostalgia che porta la rottura di un incantesimo, pronti, però, a trovare, famelici, un nuovo mito, un nuovo feticcio che ci regali la necessaria illusione di sognare, ancora.



Marcello Mantegazza “Spremersi le meninci� 2009


Anna R. G. Rivelli

Siamo sogni sognati

La scuola, la visione, l’attesa e noi

C’è un sogno nella vita degli uomini che si confonde a lungo con gli incubi, e che spesso torna e ritorna e torna ancora di notte quando, ormai lontani da tempo dai banchi, ci si rivede sotto lo sguardo austero di un professore, l’incombere di una valutazione, un esame perso. Ci si rivede con la stessa angoscia, lo stesso identico desiderio di evadere, la stessa interminabile attesa di una fine che sembra non arrivare mai. Poi ci si sveglia e ci si accorge che ognuno di noi è esattamente il prodotto di quel sogno così frainteso; anzi ognuno di noi è il sogno sognato da quel sogno. Questo è la Scuola. E troppo facile sarebbe argomentare scomodando le realtà più povere della terra, dove scuola significa accoglienza, cura, spesso anche cibo e acqua sicuri. Meglio parlare invece del nostro mondo, quello che ogni giorno contattiamo e che pure, forse, conosciamo così poco. La Scuola è un sogno; è un mondo che non uscirà mai da noi quantunque noi saremo usciti da lui persino troppo presto; è l’aura che ci circonderà, la vera invisibile immagine di noi che resterà per sempre. E benché la cultura travalichi di gran lunga la scuola, benché essa sia un percorso infinito e inesauribile, tanto più sostanzioso quanto più non riesca ad appagare mai, la scuola è il guado che ci consente, magari fradici e infreddoliti ma sicuri, di passare al di là delle nostre linee di confine, attrezzati per la libertà. Perché la scuola è il luogo dove si fabbrica la libertà, è il luogo della parità, della giustizia, del merito; è il luogo della conoscenza, del ragionamento, è il modello da realizzarsi ampliato oltre se stesso. Purtroppo però la scuola è il sogno che non tutti sono capaci di sognare. Il sogno è proiezione, capacità di vedere lontano, non è mai miope né gretto. Chi sogna rielabora, inventa, non copia né adatta modelli improbabili di mode diverse. La scuola italiana è tra le migliori. I curricula disciplinari sono strutturati in modo da fornire gli strumenti idonei ad un apprendimento continuo e da creare una visione più ampia possibile del mondo, non si focalizzano su molteplici conoscenze, ma costruiscono la conoscenza come percorso unitario che offre chiavi di interpretazioni del nostro presente offrendoci la “preveggenza” della storia. Solo chi non la conosce può pretendere che la scuola sia prodotto, industria, riscontro immediato. E una politica colpevole di ignoranza la sta distruggendo. La crescita culturale è per una società il patrimonio più prezioso, ma è un patrimonio immateriale che si renderà visibile solo col tempo.

Non a caso la parola cultura ha la stessa etimologia della parola coltura e già solo da questo sarebbe facile comprendere a quali processi bisognerebbe fare riferimento. Nessuno mai si aspetterebbe di raccogliere il grano ad ottobre, qualche giorno appena dopo la semina; ma nemmeno ad aprile quando le erbette verdeggianti pure sembrano già qualcosa di buono. Bisogna aspettare, avere la capacità di attendere che il seme dia frutto, che il frutto maturi. E perché questo avvenga ci vuole pazienza, ma anche lunga cura e l’arrivo della giusta stagione. Nel secolo scorso i contadini lucani, in un rito di magia omeopatica, subito dopo la semina inscenavano una sorta di danza in cui mimavano di mietere il grano in grandi quantità e di accumularlo in grossi covoni. Anticipavano, cioè, in una finzione collettiva, il momento della raccolta, si proiettavano in là nel tempo cercando di concretizzare nell’attesa il sogno di una sostanziosa mietitura. Nella scuola è questo che accade: si semina e coltiva e poi si attende sapendo che il frutto verrà. Ma questa consapevolezza non può che venire da menti visionarie, capaci di vedere e di credere a quello che non c’è, che non c’è ancora, a quello che i più dubiterebbero che possa esserci mai; perché non è da tutti fare come quei contadini, vivere lunghe stagioni senza avere nulla in mano se non la speranzosa certezza del raccolto sognato, mentre tutto il mondo intorno ti pressa, ti urta e sconfessa, ti chiama, ti tira, ti appella perché tu possa pretendere “cose” dalla leggiadra armonia dell’attesa, perché tu possa riempire di “prodotto” quel vuoto che vuoto non è, perché nulla è più pieno del tempo della crescita. Governi avveduti e società scaltre dovrebbero comprendere quanto sia importante questa capacità di sognare, questa preveggenza che fa degli insegnanti non gli infingardi produttori di un nulla, ma i pazienti e lungimiranti costruttori del futuro dei singoli e della collettività; dovrebbero sostenere e non frustrare e umiliare quell’attesa in cui si dà forma alla consapevolezza del cittadino che verrà e contenuto alla sua intelligenza, via al suo motore in rodaggio. Laddove agli insegnanti si impedisse di sognare, laddove si continuasse a mortificare la loro attesa con la pretesa del prodotto immediato, la Scuola smetterebbe di essere stagione di visioni e non potrebbe che ridursi a quell’incubo che torna di tanto in tanto di notte come una fabbrica di nonsenso.


Mara Sabia

Sentire tutto in tutte le maniere.

Fernando Pessoa e il terreno del sogno.

Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso volere essere niente. A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo. […] (Álvaro de Campos, Tabaccheria, incipit 1928)

Esiste una sola dimensione autentica per Fernando Pessoa,

quella del sogno. Nel libro dell’Inquietudine si legge: “Sono quasi convinto di non essere sveglio. Non so se non sogno quando sono vivo, se non vivo quando sogno, o se il sogno e la vita formano in me un ibrido, un’intersezione dalla quale il mio essere cosciente prende fisionomia per interpretazione”. Leggere Pessoa è abbandonarsi a qualcosa simile alle atmosfere di Kafka e Chagall: irreali opprimenti talvolta, delicate e colorate altre, ma sempre oniriche, comprensibili solo nella dimensione evanescente che accomuna tutti gli umani, che fa dire a tutti i lettori: eccomi, sono io quello descritto nel verso! Tutti leggendo Pessoa si riconosceranno con semplicità e complessità meravi-

gliosamente umana. Ed è forse questo il motivo per cui ci si appassiona con veloce voracità alla sua poetica. Antonio Tabucchi, lo scrittore “italiano di Lisbona”, ha legato indissolubilmente il proprio nome a quello di Pessoa. Studiò le sue carte quando ancora erano chiuse in un baule a casa della sorella, lo cercò per le strade di Lisbona che divenne la sua città di elezione, gli dedicò numerosi scritti e molte sono le opere in cui sono evidenti le scelte letterarie vicine a quelle dello scrittore portoghese. In una domenica torrida di luglio, come questa, Antonio Tabucchi, ambientava il suo Requiem, un’opera completamente scritta in portoghese, in cui entrano sogni, incubi, ricordi; una storia affollata di voci e persone in cui si affaccia anche Pessoa, che si esprime in inglese. Il sogno, per Pessoa è l’unico luogo fertile della comunicabilità tra realtà e immaginazione. Questa la cifra del poeta degli eteronimi; un caso, Il Caso Pessoa, che innumerevoli novità ha portato nella letteratura internazionale. Benché il primo Novecento sia ricco della consapevolezza della frantumazione dell’Io, Pessoa è l’unico a presentarsi al lettore con una serie di eteronimi che sono parte dell’autore e incarnano, talvolta, qualità dell’autore


stesso, sviluppate all’ennesima potenza. “Ho posto in Caeiro tutte le mie capacità di spersonalizzazione drammatica, ho posto in Ricardo Reis tutta la mia disciplina mentale, adornata dalla musica che le è propria, ho posto in Álvaro de Campos tutta l’emozione che non do né a me né alla vita”. È il 13 gennaio 1935. Fernando Pessoa scrive così a Adolfo Casais Monteiro, critico e direttore della celebre rivista “Presença” di Coimbra e gli spiega l’origine dei suoi numerosi eteronimi, manifestatisi in un giorno “trionfale” del 1914. Ne elenca solo alcuni di quella “misteriosa orchestra” che sente suonare e stridere dentro di sé e di cui farà parlare il semi-eteronimo Bernardo Soares, ne Il libro dell’inquietudine. Una moltitudine di almeno settanta elementi, alcuni rivelatisi allo scrittore quando questi aveva appena sei anni, e tra i quali egli si erge a una sorta di direttore d’orchestra, consapevole della frammentazione dell’Io, eppure sempre alla ricerca di un filo rosso che tenga insieme la sua anima affollata, bramosa di un desiderio d’universo o, meglio, della comprensione del tutto, che lo condurrà anche sulla strada dell’esoterismo, al fine di dare risposta ad alcune delle sue domande più intime. Le atmosfere di Pessoa sono sempre eteree; è un poeta com-

plesso eppure incarna semplicemente l’uomo e il suo andare, con le sue domande esistenziali e pulite, che spesso descrivono un sentire. Sentire tutto in tutte le maniere, scrive Pessoa in Passaggio delle ore del 1916, ovvero in modo moltiplicato e avanzato, anche in modi diversi, come si fosse diverse persone. Gli eteronimi sono la chiave che trova Pessoa per comunicare, dal sogno, con il mondo e cercarsi a sua volta. Non è strano che dopo tanto cercare, pare che sul precoce letto di morte nel 1935 - vittima di una crisi epatica, annientato dall’alcol, dalla sua strenua difesa dal mondo e dalle sue complicazioni- abbia dichiarato che allora, sì, sarebbe stato pronto a pubblicarsi a proprio nome, a pubblicare finalmente sé stesso riconoscendosi. La vera vita di Fernando Pessoa non è quella reale, monotona, immobile, solitaria dell’impiegato in una azienda di import-export, ma quella ricca, bizzarra, caleidoscopica, affollata, che si dipana nella sua dimensione onirica e letteraria. Una vita composta da figure eccentriche che si somigliano poco e che dialogano tra loro, anche in varie lingue, su un terreno fervido e fecondo che apre le porte a mille storie, sensazioni, possibilità: l’unico possibile, quello del sogno.


Storia di un reveur turco

S U N AY A K I N

Roberta Luongo

Gioco di Specchi Non so perchè fra tutte le mani di tutti quei bambini io ero sempre che afferravo la luce riflessa sul muro dal suo specchio. [‌] (S.A.)


In Europa nessuno conosce SunayAkın; tuttavia - una volta giunti ad Istanbul, in Turchia - è molto semplice impattersi nel suo nome. Per incontrarlo di persona, invece, bisogna recarsi nelle sale del museo che egli stesso ha fondato nel 2003, l’Istanbul Oyuncak Muzesi, il Museo del Giocattolo di Istanbul. Chi incontra Sunay Akın rimane agganciato, stregato. “Noi conosciamo l’Europa; è l’Europa che non conosce noi. […] La Turchia ha bisogno di luce, e di gente in grado di sognare. Io, io sono soltanto la mano che regge questa fiaccola, per fare luce e vincere le ombre. […]” (S. A.) C’è qualcosa di magnetico in Sunay Akın. È conosciuto come uno scrittore, uno storico e un museologo mentre lui si considera un folle collezionista e un sognatore ed è per questo che si impegna a raccogliere i giocattoli nei quali, afferma, “sono precipitate di certo le aspirazioni e i sogni dei bambini dei quali la società ha bisogno di nutrirsi per andare avanti”. Sembra che Sunay Akın abbia ben individuato la maniera di «collocarsi nel contesto dello scenario dei processi epocali che rivendicano la possibilità di essere raccontati» (Clemente).

Sunay ha fondato dunque il suo museo in una casa coloniale di legno bianco, una delle poche strutture sopravvissute alla ventata di modernità che tra gli anni 70 e 80 del secolo scorso ha cementificato la città di Istanbul. Sunay Akın è l’unico curatore del museo. Le vetrine e le scaffalature sono sotto la sua diretta responsabilità. Lui decide cosa spostare, cosa aggiungere e cosa rimpiazzare con cosa nonostante la presenza di numerosi collaboratori. Per lui la differenza tra cose animate e cose inanimate non esiste. Tutte le cose hanno un cuore e Sunay si impegna a non sciuparne mai nessuno. Sunay Akın è nato a Trebisonda, in Turchia, il 12 settembre 1962. Suo padre era sarto. All’ingresso del museo, infatti, una vetrina con un cappotto e degli strumenti di sartoria raccontano il senso di appartenenza di Sunay in seno alla sua famiglia. Tutto inizia con quel cappotto commissionato al padre di Sunay da una cliente, la mamma di Sunay. “Sono il secondo bottone di quel cappotto che mio padre cucì per mia madre”. Nel 1972 la famiglia di Sunay Akın si trasferisce ad Istanbul. La sua vicenda biografica si biforca tra una formazione prettamente

scientifica (è geologo) e una tendenza spiccata al romanticismo e alla poesia. Sunay Akın conosce come abitare le storie. È un grande comunicatore e agisce in vista di un obbiettivo molto ambizioso. “I musei sono i ricordi delle società. […] Il futuro di un paese è nelle astuzie e nei sogni dei bambini, non nelle promesse dei politici. Nei paesi sviluppati, i giocattoli sono considerati come quegli strumenti che aiutano i bambini a sognare più in grande, ma nei paesi non sviluppati, i giocattoli sono solo roba per tenere i bambini occupati. I paesi che aiutano i bambini a sognare più in grande sono quelli dove si correrà sul mondo, mentre i bambini dei paesi non sviluppati stanno solo indugiando fuori dalle loro porte”. (S.A.) Quando il 23 ottobre del 2011 uno dei terremoti più violenti degli ultimi anni colpì la provincia di Van, in Turchia, e poi violentissime nevicate peggiorarono le condizioni di vita degli sfollati, il contributo di Sunay fu quello di inviare due camion pieni di giocattoli nuovi per i bambini terremotati che avevano perso tutto. C’è in Sunay uno spirito guida che lo conduce verso nuovi lidi, immaginati o reali che siano egli li vive con il medesimo entusiasmo.


Maria Apicella

Frac Baronissi

Da tre lustri un laboratorio di ricerca e di promozione delle vicende artistiche contemporanee in Campania, incastrato nel cuore della Valle dell’Irno.

Frac BARONISSI

Il Fondo Regionale d’Arte Contemporanea di Baronissi (Frac,Baronissi), dal 2010

museo d’arte contemporanea d’interesse regionale, è stato promosso dal Comune di Baronissi, una cittadina al centro della Valle dell’Irno, a pochi chilometri da Salerno e sede della Facoltà di Medicina, in accordo con la Regione Campania. Esso rappresenta dal 2002, data della sua costituzione, una delle prime esperienze del genere presenti in Italia. Il FRAC si propone sia come struttura museale rivolta in prima istanza alle personalità della cultura artistica contemporanea in Campania, sia come centro di documentazione e di promozione dei movimenti e delle personalità che hanno segnato le vicende artistiche degli ultimi cinquant’anni, in particolare nel Mezzogiorno d’Italia. L’attività di ricerca è svolta attraverso accordi avviati con istituzioni universitarie specifiche del settore storico-artistico, quali la cattedra di Storia dell’Arte contemporanea dell’Università di Siena, quella dell’Università di Ferrara, le Accademie di Belle Arti di Brera, di Napoli e di Frosinone. L’attenzione, oltre che alle arti visive e plastiche, è rivolta al design, ai nuovi media, al cinema d’artista, al teatro sperimentale e alla danza contemporanea. Questo approccio metodologico consente ai giovani studiosi di sollecitare rapporti di scambio, aperture, nonché una più ampia promozione in campo nazionale dell’attività del FRAC, così come è stato per le rassegne dedicate alla scultura contemporanea e alle installazioni di light art realizzate dagli studenti dell’Accademia di Brera, in occasione della manifestazione “Luci dell’Irno” tenutasi tra novembre 2016 e gennaio 2017. Attualmente il patrimonio consta di oltre 500 opere, tra dipinti, sculture, disegni, grafiche, fotografie, ceramiche in gran parte conservate nel deposito presso i locali del FRAC, sito nel trecentesco convento francescano della SS. Trinità, altre collocate come opere site specific vale a dire sculture di arte ambientale, negli spazi urbani comunali. “La raccolta del MUSEO-FRAC, Baronissi - precisa il direttore Massimo Bignardi è articolata in due sezioni: “Collezioni” e “Fondi”. Al primo fanno riferimento sia la Collezione permanente 1 che raccoglie i dipinti, le sculture, le ceramiche e le opere d’arte ambientale collocate negli spazi urbani, di artisti campani attivi negli ultimi cinque decenni e pervenuti per donazione o per comodato decennale, fatta eccezione delle installazioni ambientali precedentemente acquisite dal Comune di Baronissi; sia la Collezione permanente 2. che si suddivide in due parte. La prima è rappresentata dall’ “Archivio del disegno italiano contemporaneo” con significati e ricche raccolte di disegni quali il Fondo Peter Ruta (che documenta il lungo soggiorno italiano dal 1947 al 1965), il Fondo dei disegni di Guido Gambone (con oltre 50 opere realizzate dal ben noto ceramista italiano dal 1937 al 1968); il secondo nucleo è dedicato alla grafica d’artista e alla fotografia e si compone del Fondo Barisani della grafica, la Raccolta dei Segnalibri d’artista, il Fondo degli incisori italiani contemporanei 1950 - 2013, la raccolta ViDea, realizzata a seguito delle tre rassegne di videoart dedicate alle esperienze di giovani artiste under 35, la raccolta delle opere che hanno dato vita nel 2014 alla rassegna “Icona”, donate dall’Associazione “Open Space”, di Catanzaro, con significative presenze, tra gli altri, di Alviani, Staccioli, Mainolfi, Summa, Spagnulo, Bressan, Del Pezzo, De Mitri, Arcuri, Violetta, Paradiso”. Mostre e rassegne documentate dalla collana “Contemporanea. Quaderni del Fondo Regionale”, diretta da Bignardi.


I LUOGHI DELL’ARTE


Vito Santarsiero

In hoc sogno vinces

Vivere la esperienza di amministratore significa vivere una esperienza di potenza, avere a disposizione strumenti forti, decisivi, autentici per cogliere obiettivi di cambiamento vero di una comunità: sono gli strumenti possenti della cosa pubblica. In sostanza essere amministratori significa poter realizzare sogni, i sogni di una società che vuole crescere e i sogni di chi vuol dare corpo e sostanza alle proprie idee ed ai propri valori. I sogni chiedono però anche altro: visioni, passione e perseveranza. Senza tutti questi elementi il sogno in politica sarà sempre un sogno infranto già in partenza o, se vogliamo, sarà semplicemente un non sogno; si infrange il sogno se deboli sono i valori e le idee e se si è risucchiati dall’oggi, se si guarda al massimo al domani e si rinuncia a guardare ai giorni successivi. Le istituzioni non sono contenitori entro cui poter mettere ogni cosa o un semplice insieme di norme astratte; con esse il sogno si realizza se si ha la capacità di alzare lo sguardo, guardare oltre, se la gestione dell’oggi è dentro il disegno del domani, se il consenso è quello cercato per le idee e non per le urne, se i cittadini sono persone vive, teste pensanti e non già clienti. Basta? No, non basta. Vi è di mezzo il freno della realtà, dura da sconfiggere con i suoi limiti, le sue insensibilità, i suoi disvalori, i suoi interessi, ma il valore del sogno resta, resta il piccolo, o anche un po’ più grande, passo fatto, resta il suo peso, segna una traccia, indica un percorso che è lì , ci lascia un faro acceso. Il 1799 fu la rivoluzione dei sogni; una generazione di giovani entusiasti voleva l’utopia al potere, si batté per i valori universali della libertà, della legalità e della uguaglianza, nelle piazze del regno si innalzava l’albero della libertà, la reazione borbonica soffocò ogni cosa, al cambiamento subentrò la ferocia della repressione, il nostro Mezzogiorno vide sparire una intera generazione di fervide intelligenze. Vincenzo Russo, uno dei giovani dell’utopia, sul patibolo gridò “Popolo! Calcola bene i tuoi interessi e lacera la benda fatale che il fanatismo e la tirannia ti hanno posto davanti agli occhi; sappi che il sangue dei martiri della patria, che ora tramanda vortici di fumo, fermenterà, e la fermentazione ne produrrà maggior numero, sicchè la Repubblica risorgerà più bella dalle sue rovine”. Mario Pagano chiedeva che la santa morale e il costume fossero la dote del moderno patriottismo e voleva che le cariche importanti non fossero accordate a persone prive di probitá e di talenti. Il “ Monitore Napoletano”, luogo della elaborazione di un nuovo pensiero sociale, sparì, la stampa di regime tornò ad imporre la nebbia ed il pantano di un potere dal pensiero vuoto. Restò però il seme lasciato dalla utopia portata in piazza, la reazione decapitò le persone, bruciò documenti e libri ma nulla poté contro il sogno e le sue “idee-forza”; già solo sette anni dopo, quel seme favorì cambiamenti profondi con l’arrivo dei napoleonidi, ma soprattutto fece partire un processo che portò all’Italia democratica e unita. Il sogno in politica ha dunque bisogno della precondizione dei singoli, del loro sentire, del loro disegno, della loro visione, passione e mobilitazione, ma quella precondizione per lo più non basta; il contesto è contro il sogno, lo frena, lo infrange, ma il sogno lascia il seme e vince, vince alla distanza, vince quando lo vedranno altri occhi, vince sempre; basta metterlo in campo, basta avere idee e valori per farlo partire.


Cerem Bulbun


Mimmo Paladino


Alfonso Ernesto Navazio

Matematicamente sognando

I numeri ci sembrano così familiari che viene da pensare che sia-

no esistiti da sempre, scritti così come li conosciamo. E ovvio che uno, due, tre, quattro…sono lì e sono sempre stati lì, noti a tutti (beh, non proprio tutti ). Non ci siamo mai chiesti, però, come sono stati pensati, cioè come sono venuti fuori. Sappiamo che i numeri sono nati per contare, cioè per risolvere problemi più o meno pratici. Da quello semplice e primordiale (quante pecore ci sono nel mio gregge?) a quelli un po’ più complessi (quante molecole ci sono in 100 gr di acqua?). Spesso la soluzione di un problema matematico sembra uscire come per magia da un cappello. Un cappello pieno di…pensieri?, creatività? Ognuno di noi affronta lo stesso problema da approcci diversi. Ognuno segue un filo logico che il proprio pensiero trova. «Ma come diavolo ti è venuto in mente di provare quell’approccio? È pura magia!». È la tipica frase di chi, con meraviglia, apprezza la soluzione appena trovata. Ma nel buio della notte come si rincorrono questi benedetti numeri? Come si trovano queste soluzioni? Frutto di passaggi (cioè un insieme di operazioni logiche consequenziali), complicati o semplici che siano. Il ragionamento matematico è al tempo stesso razionale, creativo e …visionario. Tradurre numeri che si inseguono, equazioni che legano numeri, simboli che si intersecano in strutture matematiche è solo frutto di un pensiero? Pensiamo alla famosa scena del film su John Nash (matematico

celebre per la sua Teoria dei Giochi) “A beatiful mind”, sulle dinamiche dominanti nelle quali all’entrata di un gruppo di ragazze nel pub i colleghi del giovane e acerbo matematico dissertano su come meglio approcciarle, andando a scomodare persino Adam Smith, il padre dell’economia moderna, secondo il quale “Nella competizione l’ambizione individuale serve al bene comune”. Ognuno per sé, quindi! Ma qui entra la visione, un sogno che si materializza. L’attore Russell Crowe “sognando” ci dice che “Adam Smith va rivisto!... perché se tutti ci proviamo con la bionda... ci blocchiamo a vicenda e alla fine, nessuno di noi se la prende; allora… ci proviamo con le sue amiche e tutte loro ci voltano le spalle perché a nessuno piace essere un ripiego. Ma, semplice, se nessuno ci prova con la bionda, non ci ostacoliamo a vicenda e non offendiamo le altre ragazze. È l’unico modo per vincere! (e per scopare!) ”L’affermazione che fino a ieri sembrava una certezza - il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé - nel sogno-pensiero risulta incompleta e va modificata: il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del gruppo farà ciò che meglio per sé e per il gruppo. Dinamiche dominanti. La teoria che valse il premio Nobel dell’Economia a John Nash.Un sogno accompagna ogni nostro passaggio della nostra vita e non è necessario essere svegli o addormentati! Un sogno non è solo un sogno, perché “non puoi sapere dove ti porterà un sogno”.



LUCANIA INVENIENDA

Antonietta Vizzuso

Canto popolare Tricarico

La pubblicazione Il canto popolare di Tricarico è frutto di una ricerca con-

dotta sul campo, intervistando gli ultimi depositari di questo grande patrimonio culturale che si va gradatamente perdendo, registrando dalla viva voce degli informatori, protagonisti del relativo documentario, le loro storie di vita insieme ai canti e ai loro contesti. Il canto popolare appartiene alla tradizione orale ed è un documento in quanto ne riflette concezioni, tradizioni e abitudini della vita e del tempo in cui si realizza. Nasce per essere cantato, è vero, ma spesso ne è rimasto solo il contenuto letterario, mentre il più delle volte si è persa la melodia; ciononostante, questo contenuto resta di grande interesse storico, antropologico, sociologico. La canzone popolare aveva un carattere tipicamente funzionale; oltre a quella estetica aveva una funzione magica o di regolazione del lavoro: tanti sono i canti legati al lavoro contadino, moltissimi quelli che cantano l’amore nelle sue sfumature di corteggiamento, dichiarazione, tradimento o beffa. Anche a Tricarico, dove si sono sedimentati secoli di storia e tradizioni, si rende necessario recuperare e salvare dall’oblio questo patrimonio, quasi in una lotta contro il tempo, per documentarlo e renderlo fruibile. La terra di Lucania, terra di contadini ma anche di poeti e di cantori, vanta un ampio repertorio di questi canti, sempre più rivalutati e interpretati da gruppi di musica popolare e Tricarico non fa eccezione. Basti qui ricordare per tutti il compianto maestro Antonio Infantino, con il suo storico gruppo de I Tarantolati di Tricarico, ad esempio. Dei tanti canti che accompagnavano il lavoro e la vita dei nostri nonni, è significativo che a Tricarico si siano conservati soprattutto quelli legati al Carnevale, forse per via delle serenate, tradizione ancora oggi viva e praticata.


I canti del lavoro, invece, i canti narrativi, o quelli a rampogna, le ninne-nanne, i lamenti funebri, le varie ‘arie’ d’amore, i capitoli, ossia i canti religiosi che raccontano la vita di un santo, di Gesù e della Madonna, stanno scomparendo, insieme agli ultimi depositari di questa ricca tradizione orale. Ecco perché bisogna far presto. In passato ci sono state spedizioni di rilevamento sonoro in Lucania, come quelle di De Martino e Carpitella negli anni ‘50, qui giunti per ripercorrere i luoghi leviani. De Martino è a Tricarico già negli anni ’40, ospite di Rocco Scotellaro diventato punto di riferimento per tanti studiosi che, a seguito della pubblicazione del “Cristo si è fermato ad Eboli”, vedevano nella Lucania “l’altra Italia” da esplorare. Le spedizioni etnografiche lucane di De Martino effettuate tra il ’52 e il ’56, per il loro approccio multidisciplinare, rappresentano una delle tappe più importanti dell’etnografia italiana, anzi, come ebbe a dire più tardi Diego Carpitella: “L’etnomusicologia italiana è nata in Lucania”. Lo stesso Scotellaro, meridionalista oltre che sensibile poeta di Tricarico, non ha resistito al fascino di raccogliere e trascrivere i canti dei contadini. Troviamo infatti tra le sue carte testi popolari e dialettali, canti raccolti direttamente da lui o che si faceva inviare e numerose annotazioni sulla loro trascrizione e interpretazione, segno del suo interesse per i canti tradizionali, fonte di ispirazione per la sua poesia ma anche oggetto di osservazione scientifica. Il progetto rientra tra le iniziative di Promozione e Comunicazione del Patrimonio Culturale Intangibile della Regione Basilicata e ha visto la collaborazione di diverse professionalità: Giuseppe Fedele (A.P.S Planar) e Paolo Fedele (Namias fotografia e informatica), autori del coordinamento artistico, videoriprese, montaggio ed elaborazione grafica; Antonietta Vizzuso, studiosa di demoetnoantropologia che ha curato la ricerca, i testi, la trascrizione, la traduzione e l’analisi dei canti; Antonio Guastamacchia, cantore di musica popolare, voce e collaboratore della ricerca. La pubblicazione, primo capitolo di una più ampia raccolta, comprende un vinile e un cofanetto con CD, corredato di opuscolo con i testi dei canti selezionati in base al ciclo della vita, e DVD del documentario che racconta i risultati della ricerca. Un’operazione complessa che si pone lo scopo di valorizzare questo grande bene immateriale della cultura lucana e che non sarebbe stata possibile senza la generosa collaborazione e genuina spontaneità dei preziosi informatori, cantori e interpreti della nostra tradizione.



Clandestino per un sogno

Breve storia di un grande musicista

Il 17 febbraio 2018 è ricorso il 160° anniversario della nascita del compositore Vincenzo Ferroni (Tramutola(PZ), 17 febbraio 1858 - Milano, 10 gennaio 1934) al quale a Tramutola è dedicata una strada, è intitolato un Circolo Culturale e, per volere del maestro Pasquale Menchise, è intestata l’orchestra lucana che suonò per il Papa nel 2000. Come purtroppo spesso avviene,però, l’oblio copre per lunghi periodi, non solo tra un decennale e l’altro, la conoscenza e la valorizzazione di personaggi importanti che hanno dato lustro al luogo natio. È con questa consapevolezza mista ad orgoglio che la cittadinanza , insieme all’Amministrazione Comunale e ai soci del Circolo, ha voluto ricordare la figura del compositore, la sua vita e le sue opere in una mostra allestita nel Palazzo Comunale, curata dalla Proloco e arricchita dalla diffusione di brani di musica da camera da lui composti, seguita da un convegno e dall’esecuzione dal vivo di alcuni tra i più noti brani musicali e canori della sua ampia produzione. Ferroni , di famiglia umile, primo di otto figli, fu un raro esempio di tenacia nel perseguire la passione per la musica e l’apprendimento dei suoi canoni tecnici e creativi. Sin da bambino, insieme al fratello minore Domenico, fu avviato dal padre, sarto, ai corsi di musica e suonava il corno nella banda della Tramutola del tempo. A dodici anni dovette seguire la famiglia che emigrava a Montevideo, in Uruguay, ma a sedici ebbe il coraggio di imbarcarsi clandestino per tornare in Europa.

LUCANIA INVENIENDA

Teresa De Noia


Scoperto, fu fatto scendere a Le Havre e sopravvisse suonando dove capitava. Tra mille sacrifici riuscì tre anni dopo a pagarsi l’iscrizione al Conservatorio di Parigi. Qui, compagno di studi di Claude Debussy, si diplomò con onore, lui, un ragazzo solo e straniero, che si faceva però apprezzare per la sua serietà e gli eccellenti risultati, tanto da essere nominato, ancora allievo, supplente del maestro Savart per l’insegnamento di Armonia. Continuò a rivelarsi didatta di valore, avendo assimilato perfettamente gli insegnamenti di Composizione impartiti dal già famoso maestro Jules Massenet.A 27 anni , con “Hymne d’un patrelydien pour le piano” vinse un importante concorso internazionale del “Figaro” su 613 concorrenti . Ormai noto nel mondo musicale parigino per le sua musica orchestrale e sinfonica, a 30 anni decise di tornare in Italia, vincendo a pieni voti il concorso al Conservatorio di Milano per la cattedra di Composizione, che tenne per oltre quarant’anni anni. Fu proprio il maestro tramutolese a portare a Milano non solo i principi teorici del Conservatorio di Parigi, ma anche i testi lì in uso, per oltre un secolo adottati anche a Milano, fatto che testimonia quanto siano stati determinanti il contributo e l’esperienza di Vincenzo Ferroni per il Conservatorio G.Verdi di Milano. Come compositore ha lasciato un ricco catalogo, musica da teatro, musica per orchestra, musica da camera, vocale e pianistica, concerti per violino, per arpa, due sinfonie, un melodramma, musica sacra e numerosi altri lavori. Come didatta , oltre ad aver diplomato un gran numero di compositori di valore, ha scritto tre opere di teoria di cui un “Corso di Contrappunto e Fuga”molto rinomato e in uso in numerosi conservatori. La sua musica concertistica e da camera è stata pubblicata ed eseguita con successo anche all’estero, ma la piena affermazione della sua Arte non è avvenuta come meritava, vuoi per la innata riservatezza del carattere dell’artista lucano, vuoi per un sostegno forse poco marcato della stampa e delle case editrici. Ha dato comunque molto alla sua terra, dove spesso tornava, anche onorandone i sentimenti religiosi con la scrittura di inni e canti per le festività mariane, sollecitato anche da Monsignore Anselmo Pecci, altra figura tramutolese di spicco nella cultura regionale. Vincenzo Ferroni merita certamente di essere ulteriormente valorizzato nella sua grandezza e reso patrimonio culturale condiviso in una Basilicata 2019 e ben oltre i suoi confini.


Piero D’Alaimo

Nel continuo ricostruire il proprio vestito urbanistico, la città di Potenza ha da sempre visto l’antico e il nuovo convivere. Ancor di più in un centro storico in continua trasformazione, i grandi palazzi e gli edifici di pietra hanno convissuto costretti nella stretta di un crinale appenninico, riciclando su se stessi ogni nuova costruzione così, pur rimanendo sempre gli stessi, anche i punti di aggregazione sono mutati. Nel corso del ‘900 uno dei punti più attrattivi per l’intera comunità intellettuale della città è stato da sempre un “café”, il Gran Caffè Italia, situato proprio al centro dello struscio cittadino, poi punto focale quando il nuovo palazzo delle Generali lo piazzò sotto i grandi porticati di fronte al palazzo della Prefettura. Anche la storia del celebre caffè è stata condizionata dalla follia urbanistica della città, tante sono state le chiusure e tante le ripartenze, fino all’ultima a firma della pasticceria La Delizia di Piero D’Alaimo, accetturese di nascita come il commendatore Antonio De Luca, primo proprietario del dopoguerra e padre dello storico nome ‘Gran Caffè Italia’. La nuova proprietà ha preso questa sfida come un impegno civico, la chiusura dello storico locale è stata l’ultima coltellata ad un centro città sempre più vuoto. Ripristinarlo non può che essere un segnale diretto alle istituzioni, alle stesse che ci facevano colazione e che, con la stessa facilità, hanno trovato nuove abitudini. Ma il nuovo Gran Caffé La Delizia non ha perso lo spirito di una volta, in vesti nuove e scintillanti non lascia nulla al caso, tornando a riprendere quelle iniziative culturali fulcro di una agenda dall’antico sapore: libri, pittura, musica e poesia rivivranno tra i tavolini e le tazze profumate di caffè. Se la rinascita del nuovo ‘salotto’ potentino segna un’inversione di tendenza, lo stesso non si può dire per l’interesse della politica nella riscoperta della cultura come forza trainante di una ripresa. Ed è forse proprio nella memoria che risiede la soluzione, in quei posti che hanno lasciato un segno indelebile in tante generazioni si possono ritrovare gli ideali ormai segnati da abitudini di consumismo sfrenato. E se “a riempire una stanza basterebbe una caffettiera sul fuoco” così a riempire una piazza basterà un Gran Caffè con il suo nuovo aspetto moderno e il suo animo da vecchio saggio. Michele Lilla






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