O DEL SESSO DEGLI ANGELI - Speciale di Sineresi n. 7

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O del sesso degli angeli


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Comune di Mercogliano

Speciale “O DEL SESSO DEGLI ANGELI” a cura di Anna R.G. Rivelli allegato al n° 7 di SINERESI Periodico edito dall’Associazione PAN - centro di produzione culturale Via Flavio Gioia, 1 - Brindisi di Montagna (PZ) e-mail: sineresi.sineresi@gmail.com Cell. 342 325 1054 www.sineresiarte.it Si ringraziano: Vittorio D’Alessio, Sindaco di Mercogliano, Barbara Evangelista, Assessore alla cultura di Mercogliano. Per i crediti fotografici grazie a Rossella Orsi e Marco Tancredi. I ringraziamenti di Sineresi vanno anche a Carlo Cremona, Fiorenzo Gimelli, Antonella Giosa, Nadia Girardi, Vladimir Luxuria, Giuseppe Melillo, Alessandro Santarsiero, Massimo Saveriano, Nadine Sirignano.


Si racconta che nel 1453, mentre infuriava feroce la battaglia e Costantinopoli era sul punto di essere espugnata dagli Ottomani , un gruppo di ossequenti teologi bizantini se ne stava a discutere con fervore sul sesso degli angeli, ritenendo forse l’argomento cogente più degli eventi che di lì a poco avrebbero decretato la fine dell’Impero Romano d’Oriente. Non si sa se l’episodio sia storico o leggendario, tuttavia è da esso che deriva l’espressione “discutere del sesso degli angeli”, che nella nostra lingua significa discutere del nulla, di argomento, cioè, poco importante e di nessun valore o interesse. Nella nostra età evolutissima, però, così distante da quel Medioevo morente in cui si colloca l’episodio citato, del sesso degli angeli si continua a discutere troppo, proprio mentre sarebbe più urgente vincere la battaglia sui diritti e riconoscere che la persona è un’essenza, una realtà propria e immutabile di cui il sesso è solo un accidente fortuito. Per questo Sineresi ha scelto di dedicare lo speciale del n.7 alla festa della Candelora a Montevergine, evento in cui c’è fede, c’è interesse antropologico, c’è magia, musica e arte, ma c’è soprattutto la storia della lungimiranza di una comunità accogliente, già progredita e matura fin dai tempi più antichi. La “iuta”, ben lungi dall’ essere una episodica baracconata, è un pellegrinaggio festoso e intenso in cui la quintessenza del sacro è nella forza della demarginalizzazione. Mamma Schiavona è, insomma, ciò che Dio dovrebbe essere per i teologi e per i credenti; Mamma Schiavona è anche ciò che dovrebbe essere lo Stato per i politici e per tutti i cittadini: chi accoglie, chi non discrimina, chi garantisce tutti, chi riconosce pari dignità, pari diritti, pari possibilità di felicità. E Mamma Schiavona è anche un po’ ciò che dovrebbe essere la cultura: un faro che guida, una “madre” che aiuta a crescere. E così rispondiamo anche a chi ritiene che la cultura debba vivere in un recinto, crogiolarsi di sé e non occuparsi di altro: la cultura o si occupa della vita o … del sesso degli angeli. Anna R. G. Rivelli


Festa della Candelora a Montevergine

“Tutt’ pe’ te se fa Mamma Schiavona”. Vittorio D’Alessio

«Nigra et formosa es, amica mea», questa è la frase che si legge sul frontone che ospita l’immagine sacra della Madonna di Montevergine all’interno della cappella ad essa dedicata. L’espressione, tratta dal Cantico dei Cantici, riprende le parole di una sposa che celebra la sua bellezza sebbene abbia la pelle arsa dal sole e le sue membra consunte dal lavoro nei campi. Probabilmente c’è già in questo primo elemento, che passa sotto gli occhi di tutti i devoti e i visitatori del Santuario montano, un invito a scorgere attrattività e fascino in quello che, a prima vista, non corrisponde ai nostri canoni del “bello” o della “norma”. Proprio dietro questo gioco simbolico delle antitesi si cela l’aspetto più interessante che probabilmente muove e rinnova le varie e longeve forme di devozione per questa icona sacra. L’immagine della Madonna di Montevergine è un simbolo intorno al quale storicamente si raccolgono le “marginalità sociali”: disperati, sofferenti, contadini, funestati, diseredati, emarginati dalla società e tutti coloro che potremmo definire in modo generico “portatori di una diversità”. Da queste poche, iniziali considerazioni comincia ad apparire già meno casuale la presenza, proprio nel territorio Mercoglianese, di una singolare pratica devozionale della Candelora, popolarmente definita “’a juta dei femmenielli”. Il 2 febbraio, infatti, il Santuario in cima al monte diventa meta di migliaia di esponenti del mondo LGBT che salgono per rendere omaggio alla “Protettrice locale degli ultimi”; quella Mamma, da tutti soprannominata Schiavona, proprio perché rifugio per chi è assoggettato ad un’esistenza grama o marginalizzato. Una madre rappresentata con quelle tinte bizantine che la avvicinano ai suoi devoti, “sporchi” di vita, di lavoro, di sofferenze (nigra) ma non per questo meno bella (formosa), anzi, è proprio in queste caratteristiche “fuori dai canoni” e in questa sua “diversità” che risiede il fascino.


Marcello Colasurdo


Ecco che quindi i “femmenielli” diventano una comunità che si ritrova a mettere in mostra la propria diversità, a reclamarne la dignità e a manifestare (insieme alla popolazione autoctona) la loro devozione nei confronti di un’icona che simbolicamente ne sintetizza la condizione esistenziale. Ma, intorno all’effervescenza innescata da questa pratica rituale, all’esplosione di colori sgargianti messa in mostra dagli abbigliamenti vistosi, alle invocazioni intonate che si fondono con le musiche ritmate e, quindi, intorno alla “discrepanza” che sempre si genera tra comportamenti religiosi e comportamenti laici della devozione, si articolano tutta una serie di elementi che fanno parte della cultura e dell’identità storica e mitica locale. La tradizione vuole che il Santuario mariano sorga proprio su un antico sacello dove era attivo il culto della dea Cibele, meta dei Coribanti, i sacerdoti che praticavano l’autoevirazione per offrire il proprio sesso alla dea. La processione era caratterizzata proprio da abbigliamenti sgargianti e colorati e dall’utilizzo di strumenti a percussione. Non vi sono attestazioni che certifichino la continuità tra il culto pagano e l’edificazione del santuario.


Come ha spiegato l’antropologa Gianfranca Ranisio, c’è però da tenere in considerazione che «la montagna di per sé, per il suo tendere verso l’alto, con la sommità vicina al cielo ma con la base radicata sulla terra, appare sin dall’antichità soggetta a processi di sacralizzazione, come dimostra la presenza di antichi culti della montagna». [Santità e tradizione, Meltemi, Roma, 2000, p.81] Sin dal Medioevo, le popolazioni locali hanno generato tutta una serie di mitologie che sono diventate la base sulla quale i culti si sono progressivamente susseguiti e appoggiati per dare senso alla loro esistenza, ma anche per caricare di senso la montagna stessa. Ecco che Montevergine, nelle narrazioni locali, diventa il luogo rifugio del Virgilio alchimista, che coltivava sulla cima il proprio orto di erbe medicinali o il tempio della dea Cibele. Tutte attestazioni mitiche del valore e del rapporto di timore reverenziale che c’era tra l’elemento naturale e chi ne abitava le adiacenze. Lo stesso rapporto mitico-sacrale si evince nelle cronache che parlano della fondazione del monastero da par-


te di San Guglielmo da Vercelli, che decise la costruzione dell’edificio dedicato alla Madonna dopo la visione di Cristo che gli indicò il luogo; oppure nella narrazione del miracolo del lupo addomesticato, compiuto dal santo stesso sempre durante le fasi di edificazione della chiesa. La “Juta dei femmenielli” in occasione della Candelora si inserisce, dunque, in quell’articolato sistema di pellegrinaggi per devozione alla Madonna di Montevergine che interessano il territorio in molti momenti dell’anno e proprio per questo non è esente dalla presenza di componenti che fanno parte delle tipicità storiche, sociali, economiche e tradizionali mercoglianesi, sulle quali il rito innesta le sue radici e ne legittima la storia e l’esistenza. Gli strumenti musicali e i ritmi che accompagnano le invocazioni e i balli in onore della Mamma Schiavona sono quelli tipici della tradizione contadina meridionale (nacchere, tammorre, organetti e fisarmoniche), strumenti figli di quella sapienza popolare che ancora oggi è mantenuta viva da qualche artigiano locale che vive alle falde di Montevergine. I cibi che vengono consumati ristorando devoti e i visitatori in quel giorno sono anch’essi quelli della tradizione contadina e delle manifatture locali, fatte di prodotti della montagna (ad esempio, funghi, tartufi, castagne), insaccati e carni locali derivate dalla macellazione dei maiali (salsicce, soppressate, cotechini), derivati della caseificazione artigianale del latte caprino e ovino (il territorio di Mercogliano è ancora luogo di transumanza e di attività legate all’allevamento di greggi che si spostano dai pascoli alti alle pianure). Sono questi solo alcuni degli aspetti che possiamo considerare collaterali al rito della Candelora, ma che rappresentano quel concetto del “consumo ecologico del territorio” e della sua narrazione che passa attraverso i vari aspetti delle specificità locali. Ma c’è un punto su tutti che probabilmente va tenuto in considerazione. Se da un lato i “pellegrini” della Candelora giungono a Mercogliano e salgono a Montevergine rappresentando loro stessi, le loro “alterità identitarie” e le loro specificità individuali e collettive, dall’altro Mercogliano, i Mercoglianesi e tutte le comunità alle falde del Monte Partenio, mettono in scena la loro capacità di accoglienza e supporto per questo “travaso di diversità”.




Ci si mette in relazione mescolando il lascito di quella cultura popolare contadina locale (fatta di saperi, alimenti, suoni, strumenti e modi di essere) con tutto ciò che entra nei confini del paese. Un “esercizio di integrazione” che potremmo definire “moderno” e che invece scopriamo già attivo e vitale nel passato mercoglianese. Mercogliano e i paesi che sorgono lungo l’itinerario che porta a Mamma Schiavona sono i custodi di storie e di elementi tradizionali locali radicati nella coscienza collettiva che, però, rispetto ad altre manifestazioni folcloriche, non sembrano ancora toccate dal pericolo di una “contemporaneità” che ne minaccia l’esistenza. Queste pratiche restano vive e vitali proprio perché continuano a rigenerarsi, a modificarsi e a circolare sui piedi dei devoti che raggiungono questo luogo, sorretti dalle invocazioni, dai canti, dai balli e dalle diverse manifestazioni della propria fede che ognuno porta con sé fin qui per metterle in scena, in un gioco sempre nuovo di comportamenti che oscillano tra i codici del sacro e del profano. Ecco, quindi, dove forse risiede la “fortuna” di questo fenomeno e di queste forme di devozione che il territorio ospita. La pratica rituale si rinnova e non sembra mostrare i segni del tempo, perché l’esigenza di rinnovamento ed emancipazione è insita anche nelle intenzioni e nelle richieste dei “femmenielli” a Mamma Schiavona (ma anche di tutti gli altri devoti che giungono ai piedi dell’immagine sacra) e la Candelora a Montevergine rimarrà tale finché nel mondo esisteranno individui o gruppi di persone che hanno sete di quel cambiamento in grado di conferire loro la dignità che ogni uomo merita.


E alla base di questo mistero

Solo Napoli, città liquida ante Bauman e luogo liminale in cui si “vive tra i miracoli”, poteva avere tra i suoi vicoli una figura come i “femminielli”. Una figura accettata e parte del tessuto sociale di una città in continua trasformazione e movimento, antica e post moderna, liquida eppure solida. Una realtà dai più volti e dai più significati, dalla leggenda di fondazione con la sirena Partenope, fino ai miracoli dei suoi 52 Santi tra Protettori e co-patroni. Tra questi Santa Patrizia di Costantinopoli, co-patrona della città e protettrice delle single, il cui culto, come il più famoso San Gennaro, è legato al prodigio della liquefazione del sangue, che si manifesterebbe miracolosamente sciogliendosi i martedì e il giorno della festa della Santa. Il sangue si trasmuta e cambia forma, e nel cambio avviene anche la rappresentazione del femminile, fino alla tradizione popolare con Pulcinella, che tra i suoi significati ha la raffigurazione dell’ermafroditismo. Qui più che altrove Dio è in tutte le creature “per essentiam, praesentiam et potentiam”. Solo in questo contesto “i femminielli” potevano esprimere la loro fluidità e varcare il tempo diventando parte di ogni cultura che ha attraversato Napoli. Si trovano attestazioni sui femminielli a Napoli già nel XV secolo nel De Humana Physiognomonia di Giovanni Battista della Porta, letterato, alchimista e filosofo.

Ciro Cascina

Giuseppe Melillo



Una presenza totemica in una città tribù - così Pasolini definiva Napoli - composita tra vicoli e suoni, con un senso non ancora perduto di vicinato e di rapporti umani. I femminielli non si vestono da donna, ne usano gli accessori e le movenze senza modificare il corpo per diventare altro, ma confermano entrambi i generi abbattendone il confine. Vivono come donne e ne riproducono il ruolo, ma sono uomini e si autorappresentano anche in maniera dissacrante e caricaturale. La loro figura liminale, a tratti soprannaturale, permette loro di essere vicini al sacro quanto al profano per il loro essere il trait d’union degli opposti. Passivi e attivi, patriarcali e matriarcali; realizzano un diverso orizzonte simbolico. I codici di classificazioni sfuggono, vanno oltre la rigidità del codice binario maschio-donna creando una identità culturale propria. Gianfranca Ranisio, antropologa dell’università di Napoli, rafforza il valore simbolico sacrale: “la diversità del femminiello non è tanto collegabile al tema dell’omosessualità, quanto al valore simbolico della sua diversità, del suo essere una figura “liminale” e quindi un tramite con la realtà ultraterrena e la morte”. Non a caso il femminiello è un portafortuna per le sue capacità di essere in contatto con il magico e il trascendentale, infatti la credenza popolare indica come buon auspicio mettere in braccio a un femminiello un bimbo appena nato. Il mondo dell’antica Grecia è carico di riferimenti legati all’androginia e ai miti a essa correlati: Platone ne scrive nel Simposio. Mircea Eliade, storico delle religioni e antropologo, affermava che i riti e i racconti dei miti dell’androginia avevano la funzione di annullamento della differenza e dell’alterità. L’“immagine pubblica del sentimento” del femminiello, per usare un’espressione dell’antropologo americano Clifford Geertz, si mostra in tutta la sua espressività esteriore e trasporto interiore nel culto alla Madonna di Montevergine, chiamata dai suoi fedeli Mamma Schiavona. La festività si celebra alla Candelora, il 2 febbraio, nel pellegrinaggio al santuario di Montevergine, nei pressi di Avellino, dove sorgeva un antico luogo di devozione precristiano dedicato alla Dea Cibele, i cui sacerdoti “raggiungevano attraverso l’evirazione e il travestimento con abiti femminili l’unione estatica con la dea”.




Il culto della Madonna di Montevergine, “Mamma Schiavona che tutto concede e tutto perdona”, risale al XIII secolo. Una leggenda narra che Maria intervenne per salvare due amanti omosessuali che furono legati ad un albero sul monte a morire di freddo, fame e sbranati dagli animali selvatici. In loro aiuto intervenne la Madonna di Montevergine, che posando su di loro dei raggi sole li salvò dal freddo e dalle lastre di ghiaccio in cui erano imprigionati. Il pellegrinaggio, o la “juta dei femminielli”, affianca al rito religioso la parte profana della festa che si svolge tra canti, danze e tammurriate, ove si recita,e canta,”Non c’è uomo che non sia femmina e non c’è femmina che non sia uomo”. Nominare e codificare è una faccenda complessa che esula da qualsiasi giudizio valoriale quando riguarda i femminielli, come ci fa capire Giuseppe Patroni Griffi nel romanzo Scende giù per Toledo (1975), storia di Rosalinda Sprint, femminiello napoletano: “il figlio del sarto sta nella guardiola con la testa affondata in un libro, la vede arrivare – quell’aria stravolta, lo strillo in pizzo al labbro – si spaventa (vuoi vedere che mi rifà la storia di ieri?) e premuroso, senza aspettare che Rosalinda Sprint attraversi l’androne, si slancia fuori vociando a tutto fiato verso i ballatoi in alto: «Papààààà, il ricchione!». Uno schiaffo che rintrona nell’imbuto del palazzo gli incolla guancia a guancia, strepiti, pianto, il precipitarsi del sarto giù per le scale e della moglie fuori dal suo tugurio. Rosalinda Sprint è pronta a perdonare, dimentica di quanto si sono buttati in faccia, il sarto sente ancora il dovere di giustificare suo figlio. «Quello va a scuola, è un ragazzo istruito, le cose le dice col nome scientifico. Voi non vi dovete offendere, lui non ci ha messo malizia. È l’istruzione che lo fa parlare così. Il ragazzo non ci ha ancora quel, diciamo, corrompimento della vita che abbiamo noi grandi, che ti fa comprendere, è vero, che anche se la cosa scientifica si chiama così, anche se ha il suo nome nei libri, non si deve dire. Il ragazzo crede ancora che tutto quello che ha un nome si può dire». I femminelli hanno un nome ma non si possono declinare, sfuggono alle catalogazioni e vengono da un passato soffuso e resistono ai cambiamenti dei vicoli e dei rapporti sociali. La loro fluidità e il vivere sulla soglia dei tempi, oscillando tra il sacro e il profano, li rende una figura che, pur nella loro tangibilità caricaturale, assume i connotati di un mistero antico, perché come dice Beppe Barra in Napoli Velata, film di Fernan Ozpetek: “Questa è ‘na storia antica. Anzi, eterna. Da quann’ è nato il mondo le cose so’ iut semp’ accussì. Eppure io non ho mai potuto trovare filosofo o scienziato che mi sapesse svelare questo mistero! E alla base di questo mistero che ci sta? Un uomo e una donna...”.


Massimo Saveriano Nadine Sirignano

Una tradizione dai mille colori

Dicono che le tradizioni di un popolo dimostrino il suo modo di concepire la vita, il suo modo di interpretarla e, ovviamente, di viverla. La Candelora è una delle tradizioni più antiche del nostro territorio ed è emblematico che l’Irpinia – porzione di territorio circondato da montagne – consideri da sempre l’accoglienza il proprio punto di partenza ma anche di arrivo. Ed è nel solco della tradizione senza tempo che nasce la sinergia e la collaborazione tra amministrazioni e tra comunità: per anni il Comune di Ospedaletto d’Alpinolo (guidata dall’amministrazione del sindaco dr. Antonio Saggese e più nello specifico nella persona dell’assessore Avv. Nadine Sirignano) si è trovato solo nella gestione del flusso dei pellegrini, mentre dal 2019, anno della nuova amministrazione per il Comune di Mercogliano (guidata dal sindaco avv. Vittorio D’Alessio) la nascita di una rete solidale è stata inevitabile. Nessun territorio come il nostro può pensare di rimanere da solo, anzi, parafrasando l’illustre prof. Draghi, solo cedendo la propria sovranità (territoriale) si può trovare maggiore sovranità condivisa. È stato un percorso tortuoso questo del Comune di Ospedaletto, paese a 800 m sul livello del mare e popolato da circa 2000 anime. Partire dalla tradizione speciale di un territorio per diventare baluardo dell’avanguardia dei diritti civili è stato un passo breve: dalla formale dichiarazione di essere paese contro ogni forma di violenza di genere e di omotransfobia, all’istituzione di un bagno “no gender” (il primo d’Italia), al conferimento della cittadinanza onoraria alla prima coppia omosessuale unita in Italia nel 2016. Non è stato fatto nemmeno un passo indietro, anzi l’assessore Sirignano ha portato l’argomento omofobia ed emarginazione nelle scuole delle due comunità, affrontando il tema con un’attivista omosessuale, per sdoganare i dogmi, i tabù ed evitare il più frequente fenomeno di bullismo omofobico che, nei casi più gravi, conduce le giovanissime vittime al suicidio. Ma forse l’azione più importante condotta dall’assessore è stato organizzare dal 2017 l’annuale

incontro tra l’Abate Luca Riccardo Guariglia e una delegazione di associazioni LGBT. Dal 2017 l’Abate Guariglia incontra una delegazione sempre diversa, ascolta le difficoltà che gli rappresentano e benedice i presenti: un piccolo gesto per qualsiasi cristiano ma di enorme significato per chi si sente escluso ed emarginato. Dal tema dell’emarginazione è partita la programmazione artistica del 2020, dalla brillante idea del direttore Artistico Massimo Saveriano: portare sul territorio i “protagonisti” di queste vicende per mostrare gli effetti distruttivi cui conduce questo fenomeno. Il percorso narrativo voluto da Saveriano è stato ascendente: primo tra tutti, è stato illuminato con i colori dell’arcobaleno uno dei simboli del pellegrinaggio: la funicolare; si è proseguito con la presentazione del libro e la straziante testimonianza di Teresa Manes, madre di Andrea, adolescente suicida perché vittima di bullismo, per poi portare in scena gli ultimi anni di vita di Reinaldo Arenas, scrittore e drammaturgo cubano morto in esilio negli Stati Uniti perché oppositore omosessuale di Fidel Castro. Eppure il racconto artistico non poteva avere che un epilogo positivo, portare con sé un messaggio di speranza, di emancipazione e di festa: ultimo sul palco dell’unico “speak easy” della provincia (il 35 mm), un artista di fama internazionale: Mariano Gallo, esuberante e super riflessiva drag queen emblema di Mikonos, Priscilla. Sì, perché la Candelora è LA FESTA DELL’INCONTRO, il momento in cui l’inverno cede il passo alla primavera (Quanno vene a Candelora, ra vernata simmo fore), il giorno in cui tutti si sentono accolti e trovano conforto in un unico luogo, un monastero sul pizzo di un monte, che diventa il centro del mondo e l’emblema di una Chiesa che accoglie e abbraccia tutti. E se è vero che “La tradizione non consiste nel mantenere le ceneri ma nel mantenere viva una fiamma” siamo convinti che questa, la nostra, sia una fiamma di speranza eterna.



…Cannlora Cannlora, n’ati cient’anni t’o dicimm ancora. Tutt’ pe’ te se fa Mamma Schiavona…


Candelora Candelora, altri cento anni te lo diciamo ancora. Tutto per te si fa Mamma Schiavona…


Vladimir Luxuria

Il diritto alla fede

Era venerdì primo febbraio 2002, sono passati un po’ di anni. Ero in scena al teatro Augusteo di Napoli, con un musical con la regia di Iapino, che si chiamava “Emozioni”, con Ambra Angiolini, Sabrina Salerno e altri. In genere quando vado fuori mi piace leggere le cronache locali e quindi ovviamente leggevo i quotidiani napoletani e rimasi colpita da una notizia che probabilmente, se non fossi stata lì a Napoli, mi sarebbe sfuggita, essendo stata pubblicata solo nelle cronache locali. Era la notizia di una polemica tra l’abate di Montevergine, che si chiamava Tarcisio, e la comunità trans sopratutto napoletana. L’abate Tarcisio aveva ammonito la comunità trans di non andare a Montevergine, di non fare i canti, le tammorre, i balli; insomma c’era stato questo scontro, e lì mi si è aperto un mondo, perché io non conoscevo assolutamente la “ iuta “ a Montevergine, quindi mi sono chiesta cosa c’entravano i trans con la Madonna, con il pellegrinaggio ed ho cominciato ad informarmi e quindi ho conosciuto Mamma Schiavona, “ a mamm e tutt’ quant’ ”, come canta con la sua tammorra Marcello Colasurdo sulle scale che salgono alla chiesa, e sono così venuta a conoscenza di questa Madonna nera, ovvero una Madonna Bizantina che viene chiamata appunto nera, poiché le madonne bizantine hanno la caratteristica, oltre ad avere queste mani affusolate e questi segni di occhiaie sotto gli occhi, del colore olivastro e per questo vengono chiamate madonne nere.





Questa madonna nera, questa “mamma schiavona”, è questo quadro, appunto di origine bizantina, a cui sono devoti tutti ovviamente, ma in modo particolare la comunità trans e la comunità gay. Tutto questo affonda le radici in un mito di Cibele, deriva dal fatto che i sacerdoti che andavano a rendere omaggio a Cibele spesso vi si recavano in abiti femminili, qualcosa di molto antico che poi ha trovato il suo sincretismo in questa idea di una Madonna che protegge i diversi. Tutto trae origine da una leggenda del 1200 secondo la quale due gay erano stati scoperti a baciarsi e per questo condannati a morire per assideramento appunto a Montevergine, sulla cima di monte Partenio, legati ad un albero, in attesa di morire congelati proprio nel mese di febbraio, mese abbastanza freddo. Secondo la leggenda ad un certo punto le nuvole si sono diradate ed è apparsa la Madonna che ha liberato questi due omosessuali, salvandoli dalla morte. E da allora c’è questa usanza, questo pellegrinaggio della Candelora, ogni 2 febbraio, con la “iuta” dei femminielli a Montevergine. Decisi di andarci e rimasi molto colpita dalla complessità dell’evento, perché sicuramente c’è l’elemento un po’ dionisiaco, c’è la danza, la festa, ma c’è anche un fortissimo sentimento religioso. Ricordo che la prima volta andai accompagnata da due trans: una pregava per trovare un lavoro, l’altra pregava per la salute della madre che versava in cattive condizioni. Sono rimasta fortemente colpita da questa tradizione. Il fatto di essere un personaggio noto (la mia presenza fu sottolineata anche dai giornali) ha fatto sì che io che ero andata a sostenere questa tradizione abbia potuto operare un’azione diplomatica fra l’abate e la comunità trans, affinché il tutto potesse continuare a svolgersi senza troppi scontri. Ed effettivamente devo dire che forse ogni tanto bisogna anche che io mi


dica grazie da sola, perché dopo tanti anni di contrasti, oggi c’è una bellissima situazione, un ottimo rapporto fra la comunità trans e Montevergine, anzi la gente si è così abituata che ora se non ci fossero i “femminielli alla Candelora la festa quasi sembrerebbe incompleta. Sono in stretto contatto anche con tantissimi monaci dell’abazia e Montevergine mi ha riavvicinata alle fede cattolica. La luce della Candelora è stata per me anche il fatto di avere scoperto che non può esserci incompatibilità tra identità di genere e diritto alla fede. Ognuno di noi ha il diritto di credere, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale o dall’identità di genere. Ho cominciato a credere e a voler sperare in una chiesa più aperta, grazie anche al sostegno di un altro grandissimo sacerdote che ho avuto la fortuna di conoscere, don Gallo; anche don Ciotti devo dire che mi ha dato una grandissima forza; mi ricordo ancora l’abbraccio di don Ciotti al funerale di don Gallo, è stato veramente straordinario. Sono ritornata ad essere cattolica e non mi sento esclusa tutte le volte che mi reco in chiesa, non mi sento indegna di partecipare alla Sua mensa; secondo le parole dello stesso vangelo “non giudicate solo dalla carne” vorrei tanto che la gente giudicasse più secondo l’anima delle persone e non solo dall’involucro esterno. La Candelora a Montevergine è una festa bella, ovviamente purtroppo quest’anno molto limitata a causa della pandemia, però mi auguro davvero che la tradizione possa continuare e che questo sia un grandissimo messaggio di apertura, i famosi ponti, di cui parla papa Francesco, contro i muri. Questa è “mamma schiavona”, questo l’insegnamento che mi ha dato, molto semplice, nulla di estremamente teologico, ma soltanto qualcosa di profondamente sentito.



Anna R.G. Rivelli incontra Carlo Cremona, presidente dell’Associazione “i Ken”

L’associazione “i Ken” di cui sei presidente è un punto di riferimento per il territorio e non solo. Mi dici come nasce e di cosa si occupa? L’associazione “i Ken” è un punto di riferimento nazionale e anche internazionale del movimento lgbt ormai da tanti anni. Nasce nel 2005 da un gruppo di giovani napoletani che non si sentiva pienamente rappresentato da una sigla associativa che contenesse una etichetta legata non alle capacità umane, caratteriali, professionali, intellettuali della persona, ma legate unicamente all’aspetto della sfera sessuale. “i Ken” è l’unione tra il nome proprio Ken e la i che vuol dire o richiamare la information technology. Infatti nel 2005, quando ci costituimmo, era appena nato l’ipod e la musica cominciava a trasmettersi attraverso il dispositivo mobile e la rete che diventava il primo accesso o gateway dove i giovani cominciavano a entrare in contatto con la globalizzazione della informazione e dei diritti. Inoltre il nome “i Ken”, pronunciandosi allo stesso modo di “I can” (io posso), diventa la rappresentazione della possibilità che l’individuo ha o che si dà nella trasformazione dei processi sociali, e quindi sottolinea la volontà di cambiamento che ispira l’associazione, il cui scopo è quello di compiere una rivoluzione culturale in modo pacifico; per questo c’è un richiamo anche ad un simbolo pacifico, una saponetta Rosa che appunto si chiamava “i Ken”. L’associazione interpreta in senso moderno lo stare insieme di una comunità fortemente connessa con la società globalizzata, progetta interventi di welfare e di assistenza attraverso sportelli e servizi alla persona e attività culturali per la divulgazione dei principi del valore della differenza, dell’amore quale luogo del non conflitto e dell’impegno civico contro il patriarcato, contro la misoginia in ogni sua forma ed espressione e contro la malavita organizzata. Le linee-guida in tutti questi anni sono rimaste sempre due: il riformismo come fare culturale e politico e l’antimafia come scelta indispensabile, cosa quest’ultima che ha portato l’associazione nel 2010 a chiedere ed ottenere in uso un bene confiscato alla mafia per destinarlo ad attività di carattere sociale. Il rito della juta dei femmenielli a Montevergine, ben al di là di quello che è l’aspetto folcloristico, ha un senso profondo per la comunità LGBT. Puoi raccontarmi qualcosa, un ricordo che ti lega a questa tradizione? Agli inizi degli anni duemila il conflitto tra l’Abbate di Montevergine e una parte della comunità dei femmenielli napoletani portarono l’Associazione i Ken insieme ad altri



volontari del territorio dell’Irpinia e all’attivista Vladimir Luxuria ad occupare lo spazio del sagrato di Montevergine per rivendicare la libertà di amore in un libero Stato che, attraverso l’articolo 3 della Costituzione, sancisce la necessità di eliminare ogni ostacolo che impedisca “il pieno sviluppo della persona umana”, a fine del conseguimento di una società più equa e giusta. Agli inizi o degli anni 2000 a Montevergine salivano pochissime persone, la “mamma schiavona” sempre vicina al suo popolo risultava essere un’immagine sbiadita e la partecipazione ai riti di devozione nel mese di febbraio era scarsa. L’elezione al parlamento di Vladimir Luxuria, e quindi la sua partecipazione come deputata, riportò, insieme all’associazione i ken, l’attenzione dei media nazionali sulla vetta del Monte Partenio che dopo quasi un ventennio tornò ad essere il luogo di quel pellegrinaggio partecipato e popolare che negli ultimi anni del 900 aveva animato la storia dell’antica casa della “mamma schiavona”. Poi la passione di uomini e donne come Donata Ferrante, Carolina Vesce, Maria Tolmina Ciriello, Francesco Pennella, Roberto Buglione e Rino De Vinco, insieme all’associazione capitanata da Carlo Cremona, ha fatto sì che oltre al rito ecclesiastico, al rito delle paranze di Marcello Colasurdo ed altri come “o Lione”, si organizzassero in occasione della ricorrenza della Candelora anche eventi culturali quali dibattiti, rassegne cinematografiche e teatrali, feste con Muccassassina e l’immancabile trans bus. Il tutto avveniva in un’Italia ancora priva del minimo indispensabile riconoscimento legislativo alle unioni civili, in un Paese in cui si tollerava e non si rispettava, in una nazione che non riconosceva il diritto di cittadinanza quale diritto fondante uguale e paritario incardinato nello stato di diritto moderno. Ogni anno ad Avellino trascorreva sempre nella speranza che fosse l’ultimo di una lunga serie in cui per molti di noi l’uguaglianza era rimasta una chimera o un sogno irraggiungibile. La nostra preghiera alla “mamma schiavona” era sempre la stessa, che facesse realizzare il nostro sogno: non essere giudicati nell’amare qualcuno, tornare a casa e poter abbracciare i propri cari senza sentire il peso della discriminazione e della violenza. Un giorno ci svegliammo e quel miracolo avvenne, perché il nostro impegno aveva portato al risultato tanto atteso: il Parlamento italiano aveva riconosciuto le unioni dello stesso sesso come lecite e legali e l’anno successivo alcuni di noi tornarono a Montevergine non più come amanti ma come coniugi.



foto di Marco Tancredi



foto di Marco Tancredi

Il perché di un patrocinio

Avviene il giorno della Candelora, in cui si benedicono le candele, simbolo di Gesù «luce per illuminare le genti», come viene definito nell’episodio della presentazione al Tempio. Avviene a Montevergine, in Irpinia, dove i devoti “femminielli” della Madonna Schiavona che ha il volto bruno “schiavo”, infatti, in dialetto napoletano significa “scuro di pelle”, si recano in pellegrinaggio, la cosiddetta “juta (andata) dei femminielli”. Ormai da qualche decennio, è la comunità trans tutta proveniente da ogni parte dello stivale a recarsi in pellegrinaggio in questo luogo il 2 febbraio di ogni anno. Questo perché, secondo una narrazione orale, in quel giorno del 1256 la Madonna di Montevergine avrebbe miracolosamente liberato due amanti omosessuali, legati a un albero tra lastre di ghiaccio dalla comunità escludente, e destinati a morte certa. Nel corso dei secoli è rimasto profondamente intatto l’attaccamento dei femminielli a Mamma Schiavona che rendono unica questa giornata col loro abbigliamento, i loro atti di pietà popolare e gli struggenti canti in napoletano. «Oggi, anche se a Napoli essere femminiello significa far parte di una tradizione culturale molto forte, questo non li esclude dall’essere discriminati. Nella vita quotidiana, spesso vengono emarginati, mentre a Montevergine ritrovano la normalità, nel senso che si sentono accettati. Avere alle spalle una figura come quella della Madonna Nera li tutela e ne legittima l’esistenza e la presenza al Santuario. Un rito come quello di oggi serve certamente da dispositivo di inclusione sociale (Jesus 6/2020)”. La rilevanza dell’avvenimento è all’insegna degli incontri tra opposti. Da un lato tra il cristianesimo ed il paganesimo, in cui questa figura è talmente antica da sembrare quasi eterna, e ancora tra la religiosità e la magia, che attribuisce al femminiello il potere quasi protettivo verso i neonati o nascituri, ed ovviamente il cross-dressing (travestitismo), ossia il vestire con indumenti tradizionalmente appartenenti al genere opposto. Quello che ci auguriamo come A.GE.D.O. (Associazione di genitori, parenti e amici di persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, +) è che per essere inclusi e sentirsi parte di comunità integrate oggi non occorra spostarsi nel mondo della tradizione popolare ma che questo sia realtà di ogni giorno, di ogni luogo e contesto a partire dalla famiglia, dalla scuola, dal mondo del lavoro e delle istituzioni. Le situazioni stanno cambiando, i giovani vogliono vivere alla luce del sole la loro identità e le loro relazioni e non in un mondo parallelo e sotto traccia, come in un passato anche recente, e questo ci porta verso un mondo migliore. Questo è il motivo per cui c’è sia in ambito politico che sociale e religioso, una levata di scudi identitaria da parte di una minoranza rumorosa che in nome della cd “famiglia tradizionale” vorrebbe continuare ad escludere ed emarginare i nostri figli, le nostre sorelle, i nostri amici e noi stessi. Noi andiamo avanti per dare il nostro contributo per costruire una società plurale, accogliente dove ogni persona possa aspirare alla felicità. Siamo assolutamente contenti che in un contesto di una rivista d’arte si affronti anche questa angolatura ed è con grande piacere che diamo il nostro patrocinio a questo numero di Sineresi, augurando grande e meritato successo all’iniziativa.

Antonella Giosa Presidente di Agedo Potenza

Fiorenzo Gimelli Presidente di Agedo Nazionale


Il Santuario di Montevergine è un complesso monastico mariano situato sulle cime del monte Partenio ed è stato dichiarato monumento nazionale. La sua costruzione si fa risalire al 1126, data della consacrazione della prima chiesa, di cui tuttavia non è rimasto nulla a causa di un crollo avvenuto nel 1629. Ricostruita nel 1645 , nel corso dei secoli fino ad oggi la chiesa ha subito notevoli trasformazioni. L’attuale conformazione vede la nuova Basilica, l’antica Basilica, il monastero, la foresteria, il campanile, la cripta e locali annessi. All’interno della Basilica è collocata l’icona della Maestà di Montevergine, nota ai pellegrini con il nome di “Mamma Schiavona”; un’antica leggenda attribuisce l’opera addirittura alla mano di San Luca che l’avrebbe dipinta a Gerusalemme. La storia dice invece che essa, realizzata dal pittore Montano d’Arezzo, giunse in possesso dei monaci di Montevergine nel 1310 e fu collocata in una cappella voluta da Carlo II d’Angiò.



no all’omolesbobitransfobia, sì al DDL Zan


foto di Marco Tancredi

“oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.


Rosabianca Cinquetti

www.rosabiancacinquetti.it




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