Fiori gettati al fuoco

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Aldo Gerbino

Fiori gettati al fuoco Steri, quadreria mediterranea

“plumelia� edizioni


~Acheni/Sfere~


Aldo Gerbino

Fiori gettati al fuoco Ipotesi per una collezione: Steri

qM

Quadreria mediterranea, dipinti, incisioni

“plumelia� edizioni


Fiori gettati al fuoco

COLOPHON

Ipotesi per una collezione: Steri qM Quadreria mediterranea, dipinti, incisioni

[1a edizione, 2014]

Collana ~Acheni/Sfere~ Cura grafica Vincenzo Fiore Foto Enzo Brai (p. 5, I-XIII, XVII-XIX, XXIX, XXXIX, XLI-XLV)

Archivio degli artisti: (XV, XXI-XXVII, XXXI-XXXVII)

2014 © Plumelia Edizioni Bagheria - Palermo Stampa: Officine Tipografiche Aiello & Provenzano S.r.l. 90011 Bagheria, Palermo-via del Cavaliere, 13 Tel. 091.902385-Fax 091.909419 E-mail: officine@aielloprovenzano.it www.plumeliaedizioni.it Tutti i diritti riservati Printed in Italy

Gerbino, Aldo <1947-> Fiori gettati al fuoco : ipotesi per una collezione: Steri : quadreria mediterranea, dipinti, incisioni / Aldo Gerbino. - Bagheria : Plumelia, 2014. ISBN 978-88-98731-09-1 1. Opere d’arte – Collezioni [dell’] Università degli studi di Palermo. 708.458231 CDD-22 SBN Pal0275772 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”



Renato Guttuso, particolare dalla Vucciria, [1974]

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Ite, rose lascive, ite d’amore pegni vani e nocenti, un tempo cari, e da l’arido vostro e dal pallore qual sia chi mi vi diè, per me s’impari. [Bartolomeo Tortoletti, da Fiori gittati al fuoco, 1645]

“NON È TUTTO”. FIORI, VITA Due quadri segnano, in un certo senso, l’incipit di questo percorso figurativo quietamente assopito lungo le stanze trecentesche del complesso monumentale Steri dei Chiaromonte il quale occupa, con la sua mole, l’antica platea marittima panormita. In tale corpo edilizio incupito dalle sue storie tragiche e, allo stesso tempo, indefettibile organismo d’arte, essi si rispecchiano, nell’attesa d’essere accolti, con altri lavori, nello scrigno d’una più equilibrata e solare macchina della figurazione per una futuribile raccolta di opere donate. Un ensemble alimentato dall’arco ‘breve’, quanto intenso – per fertilizzazioni di saperi e tragica post-marcusiana socialità, – del trascorso secolo novecentepagina 9] ♦


sco così come del nuovo millennio. Sono, all’ombra della grande tela guttusiana della Vucciria1, un ‘Vaso con fiori’ che potremmo oggi titolare C’est n’est pas tout, nel rispetto della frase iniziale d’una annotazione leggibile nel verso della tela e scritta di pugno dallo stesso de Pisis; mentre l’altro dipinto, Strada, si mostra quale opera abbagliata da un getto di luce compreso nella misura dell’ordine classico e che la firma fanciullesca, calligrafica, di Ottone Rosai, sostenuta dal colore magenta, definisce, in quell’insistere sul piano inclinato dell’immagine paesaggistica, il suo messaggio anti-descrittivo. Sono, comunque, i ‘malinconici fiori’ del ferrarese de Pisis, il marchesino pittore 2, suggestionato dalle cifre secentiste e settecentiste della nostra civiltà figurativa, a integrare, nella pienezza sincopata di un personale tratto, lo spirito del suo e del nostro tempo. Tempo innervato d’inquietudini le quali, dopo avere attraversato gli effetti disgreganti dei conflitti mondiali e delle ferite dell’anima e del corpo, guidano all’approdo nell’atono hédonisme di quest’attuale incerto mo♦[pagina

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mento. Proprio i fiori, che hanno accompagnato in oltre un centinaio di prodotti (olî, acquarelli, disegni), vita e pulsioni di Luigi Filippo Tibertelli3 ben conosciuto come de Pisis, non posseggono, come l’artista stesso dichiara, nulla di spontaneo, di gestuale, considerando quel suo misurato alone post-impressionista sempre pungolato da impazienti scatti nervosi, e, nel governo dello spazio rappresentativo, da giovanili reminiscenze dada. Del resto accade così in tutto il suo portato creativo; è piuttosto il pianeta botanico, la passione per gli erbari, a rivelarci il suo più pertinente ritratto intellettuale, cerebralmente intimo, eretico in alcuni punti, e in cui viene ribadito come niente sia «casuale e spontaneo nel senso più preciso dell’espressione» per raccontarci, invece, di «un gusto innato alla complicazione, all’ironia, alla magia»4. Ma essi – sempre i fiori – appaiono rivelatori della tenace poetica di questo tormentato uomo riaffiorando persino, per cruda ‘ironia’, nel nome di Villa Fiorita, la clinica che registrò amaramente parte pagina 11] ♦


della sua consunzione mentale, a Brugherio, manzoniano luogo ricco di arbusti e flora selvatica (centro in prossimità di Monza in cui si custodiscono persino le preziose falangi ossee appartenute ai Re Magi!). Fiori che si mostrano, di colpo, anche nel resoconto di un suo pranzo in una trattoria veneta, dove su di una tavola bianco-verde essi prepotentemente sporgono, quasi appassiti, da un vaso. Così egli racconta: «…un garofano rosso vivo dal lungo stelo si sbilanciava nell’aria come una specie di tic nervoso, un mazzo di piccoli astri bianchi eran come stelline di un mondo irreale, molluschi fragili, fantasie leggere. Il vaso proiettava sulla tovaglia ombre delicatissime… Non mi stancavo», ricorda, «di guardare e pensare ai tratti che su un foglio bianco avrebbero potuto fissare un po’… della grazia e della melanconia di questi fiori. E mi era venuta voglia di piangere.»5 E di tale ‘grazia’ scriverà nella poesia Mazzo di fiori: «Lo so, è la tua grazia / che vibra nei teneri petali, / ciglia, occhi-ciechi / anima vegetale /che s’offre abbacinata a la luce, / fronte, bocca, mento, ♦[pagina

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cuore, / vicina e lontana / dolce irraggiungibile»; per concludere, in un involontario rimando al poeta Meli: «Io sono l’ape immota / a suggere questo nettare / dolorosamente»6. Parole più mature per continuare quel suo viaggio poetico iniziato, da una primissima operina – nel suo cassetto dal 1914 – La città dello cento campane, di cui riferisce Aniante. Di certo Montale, misuratissimo e cauto nei giudizi, non imbalsamato nella griglia cara ad Alfredo Gargiulo sulle dicotomie avanzate contro il mescolamento delle arti (leggero/pittura: pesante/scultura), esprime, deciso, la convinzione (in un’intervista del 1962 e nella recensione alla seconda edizione vallecchiana delle Poesie di de Pisis7) che “le arti hanno un fondo comune”. Ne troviamo esplicita traccia nelle sue parole di presentazione per «il falò poetico di Beppe Bongi»8, pittore ‘occultatore’ dei suoi quadri e struggente quanto iniziatico poeta della natura maremmana. D’altronde se Filippo, con la sua pittura ‘a zampa di mosca’, a favore del quale aveva insistito l’amico di Montale, il critico Mario Bonzi, col sottoporpagina 13] ♦


gli una cartolina del ferrarese inviata al futurista Francesco Meriano9, ecco che l’autore degli Ossi di seppia si mostra in quel momento alquanto guardingo affermando: «… Ciò dico nel caso che l’ottimo Tibertelli (Luigi Filippo) ti avesse scritto qualche insulsaggine»10. Ma dopo qualche anno, nelle Occasioni (1928-1939), destina, invece, al Beccaccino (1932) di Filippo, col peso delle parole di Lapo Gianni, “l’Arno balsamo fino”, i cinque versi della calzante poesia “Alla maniera di Filippo de Pisis nell’inviargli questo libro”: «Una botta di stocco nel zig zag / del beccaccino - / e si librano piume su uno scrìmolo. // (Poi discendono là, sgorbiature / di rami, al freddo balsamo del fiume).» Le Rose bianche, tela dipinta da Filippo nel 1950, un anno dopo i fiori palermitani, sono il frutto d’uno tra i tanti soggiorni nella lombarda clinica di malattie mentali: esse, dunque, si proiettano quali tragiche protagoniste rese inaccessibili ad ulteriori ridondanze della scrittura pittorica, in quanto già sature di una loro connaturata eccedenza emotiva; rose contrap♦[pagina

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poste, nel deperimento della loro fine, alla stessa fine dell’artista portatore fin dall’adolescenza del suo cupo dolore, esaltato, pare, dallo sbarazzino stile di vita coltivato durante il soggiorno parigino, in quel brio atmosferico degli artistes italiens de Paris e di cui vi è traccia nel lavoro d’illustrazione di Giovanni Comisso, Questa è Parigi, pubblicato con scarso successo da Ceschina nel 1931, e dove figurano irritanti giudizi: «Mi sono accorto solo ora che questa Parigi non vale niente, gente miserabile, inelegante, borghesissima, stupida fino alle più alte sfere11. Un ‘tempo’, questo, restituitoci da Antonio Aniante, lo scrittore di Viagrande e autore dello spugnoso saggio gobettiano del 1925 sulla Vita di Bellini, il quale riteneva, scorgendo il pittore a Saint Sulpice (popolosa parrocchia in cui erano state rinvenute le tracce mortali del grande ceroplasta siracusano Gaetano Giulio Zumbo) infagottato in un precario pigiama, intruppato con ‘avvinazzati marinai’ e con la testa saldamente fasciata da improvvisate garze, che la sua bizzarria fosse pagina 15] ♦


frutto dell’incontinenza, per cui: «Nessuno mi leva dalla testa», dichiarava Aniante non tenendo in gran conto la diagnosi veneziana a seguito dell’internamento per ‘nevrastenia’, «che i gravi disturbi cerebrali, che lo portarono alla tomba e dei quali parla lungamente ma vagamente Comisso nel suo libro, erano dovuti al tremendo colpo di bottiglia che aveva ricevuto sul cranio.»12 Una tangibilità floreale sempre filtrata da un vetro, dallo spazio rettangolare d’uno specchio che non riflette, e che si affida all’iridescenza della sua captiva percezione; gli «ireos s’erano avvizziti», registra per la notte parigina tra il 6 e il 7 giugno 1928, «ma i gigli erano ancora belli. Erano ormai fioriti uno per volta tutti i boccioli fino in cima. Gli steli tesi fra le antere gialle un po’ deboli. I bocci si aprivano come all’improvviso, uno per uno fiorivano come ceri, come lagrime o baci»13: medesima tangibilità che ritroviamo, appunto ben materiata, in questo C’est n’est pas tout del 1949, certamente opera d’una drammatica intensità a piene mani ♦[pagina

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versata dalla sua architettura sentimentale. In essa vigono tracce cinematiche caratteristiche di quell’incedere nella intercapedine degli spazi dove il centro focale viene generosamente affidato alla florealità: metafora del ciclo esistenziale, della casualità tragica della vita, luttuosa, a segnare quella abilità “schermistica” efficacemente messa in evidenza da Renato Barilli, quando si sottolinea per la sua opera, di «quel suo colpire di punta, o del procedere con unghiate, con rapidi passaggi del polpastrello; a patto che tutti questi interventi facciano cagliare un grumo di materia»14. In tale palermitano ‘vaso di fiori’ i grumi ‘cagliati’ si offrono nell’alveo della morfologia botanica che de Pisis ama rappresentare come agitata dal brado scompiglio delle sue visioni: bianche e gialle margherite selvatiche, pansé, carnose bocche di leone, da cui traspare l’arcana sensualità naturale, agile nel ricondurci a quelle incise parole di Emilio Cecchi per cui «l’amore pei fiori non è che un’oscura trasposizione di lirismo sessuale»15. pagina 17] ♦


In ogni caso una contenuta (se non compatta) deflagrazione, una dilatazione dello spazio da cui si proiettano petali, corolle, pistilli in un terreno divaricato, appena posto in un altrove, lungo una scia non frantumabile di oggetti in dolorosa vicinanza, ove, nella policromia icastica e vigile della scena, il nero sembra penetrare ogni parte del tessuto vegetale, delineandone con foga i contorni, come a preservarne una sorta di memoria futura, un segno di luce trascorsa, di un’ombra pronta a tramandarne l’immagine, la stessa secrezione, l’ibridazione con un più vasto respiro cosmico. In tale siderea pregnanza, pulsata nella carne e nella terra, nel cielo e nell’acqua delle marine, nei fiumi, per fossili, conchiglie, per detriti sabbiosi ecco la vicinanza con oggetti che, usati dalla mano, per pennelli, per dita si preparano a tracciare e tradurre, vere e proprie protesi della mente, il sogno e l’idea; in tal modo il calamaio, il segno nerissimo appena abbozzato a pennino, si attestano quale fusione di parola e poesia, e questa nella poesia della pittura (vige ♦[pagina

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l’Ut pictura poësis di Quinto Orazio Flacco senza privarla del suo cestello di morte), e, insieme, nella vita, in quello stesso connaturato disagio che fa dire a Pasolini: «ma [proprio] in questa malinconia è la vita». E allora, in C’est n’est pas tout, elaborato sette anni prima della morte, si trova, annotata, l’indicazione frontale del disagio che ha alimentato pittura e vita di Gigi, così era chiamato in ambito familiare, (“Bologna, giugno 1949, Clinica neurologica”): quadro in elaborazione nella Clinica neurologica universitaria di Bologna, poi ultimato, nel giugno 1949, nella Casa di cura bolognese del professore Mario Gozzano16. Se è vero che de Pisis, l’artista en plain air, colui il quale si dimenava per le calli veneziane bizzarramente abbigliato da pittore e con il pappagallo Cocò sulla spalla, «le cui tasche», ricorda nella sua officina di de Pisis il poeta e critico pugliese Raffaele Carrieri, «sono piene di farfalle, di fazzoletti arborei, di scarabei», è sopratutto vero che egli «è l’ultimo dei pittori che si esprime in termini lirici quando parla di pagina 19] ♦


anatomia», rivelandoci tuttora, con le sue opere in apparenza innocue, l’anatomia della sua anima convulsa e sensibilissima, fragile e corrosiva. Posti di fronte alla Strada di Ottone Rosai17 ci troviamo, invece, sotto altro impegno luminoso e spaziale; opera pervasa da quieti e decisi percorsi coloristici vibra, nell’impasto uniforme delle aperture coraggiose dei bianchi, e scalda, come in una camera percorsa da ultrasuoni, la materia dei pigmenti azzurro-verdi, dei tocchi del cromo o di quella lancia improvvisa, tagliente, fatta d’un rosso deciso e qui collocato sulla linea di confine tra tetto e casa: vera e propria centralità espressiva dell’immagine. Una azzurrità che già registrammo in altra opera di Rosai presente in una collezione pubblica palermitana: Giardino con cipressi 18. Qui il pigmento appare destinato, per sua vocazione naturale, all’ordine arboreo in cui fugacità e solidità dell’armonia cromatica, straniata e allo stesso tempo avvolgente, consegna, con determinazione, una delle tante, ricche, pagine ♦[pagina

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pittoriche restituiteci dalla mano dell’artista fiorentino, permeate da quiete e vigore emotivo nel modo in cui spesso si assiste in anime fortemente provate dalla vita. E se nel ‘Giardino’ la condizione geometrica viene sancita dalla carducciana filiera di cipressi nell’ordinata preponderanza di verdi, caldi e pregni di zolle di colore, nella Strada, il verde e il rosso, appaiono quali punti di attrazione, o, come accade per la verde sagoma d’un cipresso, si assiste alla imprevedibilità crepuscolare d’un nero ombroso. Poi ogni cosa: dalla via affondata nella curva cieca, ai muri vibranti di un metafisico tocco impressionistico, fino alla chiarità aspra del cielo, rafforzata dal rettangolo chiarissimo del taglio della finestra incisa sulla sagoma della casa, viene attraversata da una compatta lastra di luce cilestrina, stemperata da trame azzurrognole e rosacee. Azzurrità e verdezza che riscontriamo, in forma di miscuglio, intrico materico, succulenta rappresentazione di ricerca di luce, nell’olio Studio di cavoli del 1945 di Giovanni Omiccioli19: un pagina 21] ♦


sincero ‘ramage’ naturalistico, fatto di mescolamento e schiacciamento di arbusti, foglie, macerazioni botaniche. Ciò che si raccoglie in questo ‘Studio’, lavoro a tratti vincolato da fughe informali o da umorose pastosità, è la percezione di uno scavo biologico, non distratto da leggibili quanto leziosi orpelli figurativi, piuttosto un andare al sodo, per tale costruzione, del problema visivo e intellettivo. Un’estetica della natura che, da de Pisis a Rosai ad Omiccioli, si oppone al persistere dell’oleografia tardo-ottocentesca di un Vincenzo Udine20, presente con i dipinti Tramonto sul mare e Paesaggio, a cui si affiancano nei vasti camminamenti dello Steri anche materiali figurativi di pittori di modestissimo impegno collocati come oggetti destinati all’arredo. Pittore ‘vernacolare’ tetragono ad ogni rinnovamento linguistico dell’arte, attivo nell’alveo di un itinerario figurativo sulla scia di vari epigoni dell’area palermitana come Nino Teresi o Sabatino Mirabella o Antonio Cutino, appare fortemente adeso, nelle sue dominanti verdi o ♦[pagina

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azzurre, alla illustrazione tardo-romantica, legato a soluzioni estetiche care al commercio borghese, a gozzaniane tracce salottiere. Comunque le tele scenografiche di Udine, comprese nell’ordine di un paesaggismo consolatorio, raccontano di nature morte, squarci naturalistici delimitati da quinte rocciose, laghetti solcati da barche, pescatori al mare nell’atto di trarre le reti, nature morte, scorci cittadini, alimentando di continuo un lezioso bagaglio decorativo, e, in qualche caso, collocandosi come un antropologico documento di liminare gusto territoriale. Il tema floreale insiste, con ben altro solido vigore espressivo, nel Vaso con fiori N. 1 di Sebastiano Milluzzo21 e dei due dipinti, segnati in inventario con la dizione ‘Vaso con fiori’, di Nino Garajo22. È l’espressionismo geometrizzante di Milluzzo a conferire non soltanto eleganza formale, rigore compositivo e ‘nuances’ post-cubiste a questo interessante segmento pittorico della Raccolta, quanto la sua tessitura sorretta dalla cangiante tendenza alla monopagina 23] ♦


cromia, pur contenendo, nel suo fondo, un policromatismo vibrante e plastico, un’elettrica trascrizione dei dati aritmetici emanati dagli oggetti che, nell’insieme dell’opera, sanciscono una spazialità elegante ed equilibrata. I toni verdastri, la scansione perentoria dei bianchi, qui trattati con quella stessa esigenza dei neri usati nei bordi delle figure da Guttuso, impongono una ben definibile armonia per questo artista catanese alimentato da un sensibile trasporto per la natura, per la figura umana, ammaliato dalla cifra sacrale che pervade le umane cose, dagli stessi fatti operanti nell’esercizio del mondo. Senso del ritmo, in Sebastiano, per una figurazione attestata tra passato e future esigenze estetiche, capace di sollecitare quelle lontane corde proprie delle avanguadie storiche indirizzandole verso un’ampia fruizione intellettuale. Già in opere comprese tra la metà degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Settanta, che collocammo in una rassegna romana23, i temi di Milluzzo rispecchiavano, per scelta e strategia esecutiva, questo ♦[pagina

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interessante olio: così La pineta a Linguaglossa (1954) o Il nido (1968) o L’agave bianca (1970) offrivano (ed offrono) la scomposizione dello spazio in una valenza che potremmo definire musicale, pervasa da fibre vegetali affacciate nell’armonia del Creato. Nel Vaso con fiori N. 1 di Milluzzo tali coordinate sonore provenienti dai piani pittorici lasciano intravedere frammenti di tela: supporto piagato alla ricerca di una attenta restituzione di essenze elementari. I fiori posti in un vaso o nell’umile ventre d’una pentola, realizzati nel 1956 e nel 1961 da Nino Garajo, presentano quella verve pittorica sostenuta da un disegno agile e robusto, a tratti nervoso, ma sempre vitalissimo. Elementi, questi, del suo realismo che non raccontano di una pedissequa osservanza ai canoni della tradizione, quanto mostrano un artista che dal realismo ha tratto e assorbito la profondità emozionale. Un’emotività simile, anche se sfrondata dalla suggestione mitologica, a quel vitalismo del segno mediterraneo pagina 25] ♦


consegnatoci dal registro di Alfonso Amorelli. La postura del pigmento e del taglio compositivo di Garajo riconducono, in alcune pieghe, a scorci urbani invasi da toni sironiani, e, per certe sue scattanti e verticali pennellate, alla tavolozza che appartenne ad Eliano Fantuzzi, esente però da cifre grottesche o sognanti. Nel rosso di questi friabili petali di papaveri come nel corpo dei fiori di campo attraversati dalla luce abbagliante, posizionati verso le imposte semiaperte della finestra, oppure nei papaveri avvoltolati in una luce tutta propria, quasi ad escludere altri rimandi figurativi, viene a significarsi, dopo tutto, il fascino dell’attrazione visiva, e la elaborazione di un modello che si qualifica per la precipua rispondenza alla natura. Ma tale progetto linguistico del coerente e solitario Nino il quale, pur condividendo speranze e amicizia con Renato Guttuso, traccia il suo peculiare percorso marcando il cerchio dei temi non a caso legati agli scenari sociali e naturali del meridione, al portato della luce, alla fascinazione dell’am♌[pagina

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biente, alla gioia del racconto per esemplari figure quotidiane: ritratti, nature morte, figure di adolescenti, scorci ornitologici, minatori, zolfatari, carrettieri; il tutto immerso in visioni urbane della sua Bagheria o di Roma: periferie, insenature marine della costa palermitana, fiori e frutta, visioni di tetti, lavoratori. Ma vi aleggia sempre, nei diversi periodi sostenuti dal suo impegno creativo e civile, il turbinio delle cose che agitano il suo spirito. I fiori sono comunque energicamente presenti: dalie, fiori di cardo, mazzi selvatici, iris, gladioli, magnolie, rose, papaveri. L’opera del 1956, che potremmo con maggiore pertinenza intitolare Pentola con papaveri e margherite, in considerazione anche del fatto che la pentola non è certo un vaso (così come trascritto nell’originaria scheda di presentazione), si distribuisce, con carattere, nell’opposizione tra dominanza dell’azzurro (proveniente dall’esterno) e del rosso (centrato all’interno dell’ambiente domestico). La stesura del colore appare rapida, calda; sembra pagina 27] ♦


che vada colmando i piani visivi lungo un’espressività estemporanea dal respiro intenso, liberatorio, a tratti esultante in virtù del suo vigore narrativo. L’altro vaso con fiori, meglio Vaso con papaveri del 1961, precede per altro l’opera segnalata da Franco Grasso Finestra con papaveri del 1972 in cui il colore esprime, contro la più grintosa espressione precedente, campiture più distese, piene, accordate da una geometria algida e immalinconita, tenacemente adesa alla realtà; una adesione, per altro, propugnata con convinzione dall’autore, attento a mantenere, a dispetto di tutto, la coerenza. Guttuso dedica diversi momenti del suo lavoro produttivo a Garajo e questo, per alcuni aspetti, aiuta proprio a capire la coerenza cui si faceva cenno. Crispolti, a tal proposito, segnala il «vivido» Ritratto di Nino Garajo (1933) e l’Uomo che fuma (1961), e ancora leggiamo dei due Ritratti del pittore Garajo, un disegno acquarellato del 1932 e un olio del 1961. Il curioso è che proprio questi ultimi, a trenta anni di di♦[pagina

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stanza l’uno dall’altro, non offrono mutata l’espressione del riservato pittore bagherese, anzi sembrano potenziarne la poetica e l’esistenza stessa: ‘coerenza’ corporale e psicologica, acquietata e pensosa. Una pensosa levità naturalistica si diffonde nell’imponenza fito-geologica del paesaggio siciliano concentrato in La ‘carrubella’ di Chiusa del 1967 firmata da Gianbecchina24. Essa è tra le prime opere di Giovanni Becchina che si attesta, dopo la breve esperienze astratta25, nell’alveo del suo più congeniale orientamento estetico e poetico, contribuendo, per altro e a suo modo, a quella stoffa pittorica che fu propria della Nuova Figurazione. Un sentimento avvertito da molti artisti italiani fortemente votati ad una ricerca antiretorica, i quali tentarono, con vari atteggiamenti creativi, il recupero di frammenti della figurazione tradizionale. Da Baj a Perilli, da Recalcati a Schifano, da Del Pezzo a Vacchi (accolti nella collettiva «La Nuova Figurazione» presso la galleria “Strozzina” di Firenze nel 1963), viene pagina 29] ♦


sentito, comunque, il bisogno di aggiornare al più presto le istanze espressive. E se Argan sottolinea (nel 1962) come la figura non abbia ormai più valore, in quanto essa «non è più modello dato né un risultato da raggiungere», ma piuttosto si pone come «frammento di realtà, quasi un residuo o un rottame», Italo Tomassoni (1971) sottolinea come la realtà viene invece assorbita e reinventata, o reintegrata ai valori della nostalgia, della rievocazione e trascrizione del racconto. Proprio con queste modalità ideali si attua in Gianbecchina una sorta di scontro tra le sue precedenti visioni – la parentesi astratto-materica e le istanze della Nuova Figurazione – consentendogli di ritornare, con maggiore convinzione e foga, al suo connaturato schema figurativo, arricchito, però, degli umori che attraversano il panorama pittorico italiano degli anni Sessanta. D’altronde la sua rinnovata forma d’arte, lo sottolinea, nel 1975, Raffaele De Grada «nasce da un antagonismo che si è maturato in lui tra l’antica Sicilia, alla quale egli ha dedicato la sua ♦[pagina

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vita e il mondo moderno che tenderebbe a cancellare quel volto a lui tanto caro». Ecco, allora, come in tale conflitto tra il vecchio e il nuovo, l’artista siciliano “vada a frugare”, – è detto, – «con mezzi inediti la terra più ascosa, quella che “solo lui conosce” e che risulta come una grande scheggia di monte, come un sovrapporsi di fasce geologiche al di sopra delle quali, come nei giorni della Creazione, si libra un gran volo di uccelli e capre e buoi stanno per essere ingoiati da una terra che si muove, che non è più ferma alla contemplazione»26. Quindi dalle ‘nature morte’ (Arance e cocomero, 1966) ai luoghi attraversati dai segni della durezza sociale e pronti ad immergersi nelle colme vasche del suo precedente realismo lirico (La carbonara e La ‘carrubella’ di Chiusa del 1967 o Valverde del 1969), alle figure (Ragazze del 1966, Gente di Sicilia e Donne al mare del 1967), ogni cosa si mostra percorsa dal vento della commozione per le ritrovate virtù, coinvolgendo le linee dei monti, dei vólti, degli occhi gioiosi od oppressi dal peso del lavoro, delle apprensioni e mortipagina 31] ♦


ficazioni della povertà, degli interrogativi che una terra contraddittoria come la Sicilia pone nel suo divenire. Il ritorno alla figurazione proprio di questi anni, che poi si consoliderà con maggiore e più maturo impegno nel futuro percorso d’arte di Gianbecchina, appare deciso, e, allo stesso tempo, arricchito da spezie informali, dal tuffo in acque astratte, dalla sensibile captazione di materia terrestre. Su tutto vi incombe il canto, un senso corale di umana partecipazione, di sociale corresponsione di valori, mentre vaghi bagliori di fuoco, che raccogliamo in Terremoto (1968), iniziano ad incendiare gli orizzonti. Un incendio che ritroviamo, sotto altre forme, nella luce e nell’imponenza architettonica, pregne di ancestrale coinvolgimento, di Joaquín Vaquero Palacios27: maestosità pervasa da abbacinata luce mediterranea, concentrata nella termografia litica dell’Eretteo (olio degli anni Cinquanta), per scansione di fasci luminosi a piene mani versati attraverso la lettura del tempio ionico posto sull’acropoli ateniese. ♦[pagina

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Quel tempio, firmato da Filocle e dedicato ad Atena Poliade, irraggia luce e calore, forza naturale nell’abbaglio deposto sulla loggia delle Cariatidi a custodia di re Cecrope. Luce sorta dalle acque irate di Poseidone, intrisa dei verdi umbratili dell’ulivo. Pittore denso di sostanza, mediterraneo nel senso più arcaico e sacrale, con i suoi paesaggi palpitanti per scie impressionistiche, ha attraversato la storia intima delle civiltà antiche servendosi, nei suoi percorsi di ricerca, del paesaggio: ora della “visione” (1913-1940), ora “ricreato” (1940-1987), ora “ricordato, intravisto e sognato” (19871998). Un artista in cui il bianco vischioso sembra promanare dalle pagine di Gottfried Benn per mescolarsi con quello tragico amato da García Lorca. Per il poeta di Fuente Vaqueros egli elaborò, non a caso, sue scenografie alla “Barraca”, il sanguigno teatro popolare ambulante. Il pittore di Oviedo consegna, con quest’opera esposta a Palermo nel 1956 per il ciclo “Grandi Pittori Mediterranei”, il suo senso del sacro, la sua devozione alla bellezza meridiana. pagina 33] ♦


FRUTTA, ORTAGGI, CORPI. I CRISTALLI DI PALERMO In una delle conversazioni epistolari tra Renato Guttuso28 e il poeta futurista Castrense Civello29, ambedue tenaci propugnatori di un caloroso sentimento di bagheresità (trasporto dell’animo esaltato dal recente Baarìa di Tornatore), amici sin dalla fanciullezza, comunicatori dai vicini balconi delle loro abitazioni che davano sul corso Butera (al numero civico 252 abitava il giovanissimo Aldo Renato30), emerge, di colpo, il denso valore della poetica guttusiana. Dal ricordo della «vecchia casa di corso Butera, da dove sai che ci chiamavamo da balcone a balcone»31, scrive il trentenne Renato nella lettera inviata al vecchio amico Castrense, ora «sto dipingendo un quadro grande che dovrebbe andare al Pr(emio) Bergamo quest’anno se a finirlo ce la farò»; esso è – continua – «una crocifissione di due metri per due un’impresa terribile - ci lavoro da quasi un anno e l’ho già distrutto e ridipinto tre volte. ♦[pagina

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Ma ora mi pare», sottolinea Guttuso, che «abbia trovato il suo verso e non dovrebbe scapparmi di mano. Ma tu puoi capire come oggi, tempo in cui i pittori logorano la loro vita per imparare a dipingere una bottiglia o una mela, come oggi sia difficile dipingere un vero quadro, con uomini, animali, paesaggi, sentimenti. Non è che io faccia una questione di contenuti, ma certo è un’impresa molto grave e pochi sono quelli che se la siano presa sulle spalle. Il difficile consiste nel non riproporre quella scena come una cronaca o una illustrazione, ma come realtà plastica. Occorrerà dico io dipingere una “crocifissione” come una “natura morta”, ove si abbia la forza di dipingere “una natura morta” come una crocifissione. Ma ci vedremo presto e parleremo anche di questo che in una lettera ha sempre un senso vago.»32 La lettera, inviata da Guttuso a Civello, collocabile tra la fine del 1941 e il 1942 accenna alla discussa Crocifissione (1940-1941, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma), che Guttuso finiva di dipingere, rileva Vittopagina 35] ♦


rini, nell’inverno del 1942, non trascurando la lezione del manierismo, per poi inviare l’olio, qualche mese più tardi, alla mostra nazionale di Bergamo33 (l’opera riceverà il II Premio). Tale lettera costituisce una minuscola gemma incastonata nell’idealità dell’artista bagherese, in quanto essa delimita alcuni aspetti, più che metodologici, estetici e ancor più passionali nell’approccio al tema commisurato alle esigenze del suo pensiero, sempre alla ricerca di ‘ragioni politiche e sentimento poetico’. Nel momento in cui afferma quanto sia necessario trattare una «“crocifissione” come una “natura morta”» e «“una natura morta” come una crocifissione», consegna l’esecuzione e il trasbordo creativo non più alla guidata abilità della mano, ma al traino di un vento intimo capace di soffiare sulla drammaticità del quotidiano, spingendosi, attraverso la pittura, contro ogni oppressione, tentando di ridisegnare il percorso degli umani drammi e delle cose che ad essi pertengono. Concetto già ribadito da Sgarbi per il Fanciullo con canestro di frutta del ♦[pagina

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Caravaggio ove, appunto, «la natura morta ha lo stesso peso della figura umana.»34 Drammi che, non posti su di un piano elitario (o retorico) di sofferenza, coabitano e intridono ogni cosa del mondo animato ed inanimato che abita lo spazio dell’esistente, per essere nerbo stesso con l’interezza della loro immagine plastica, integri nel loro midollo passionale e confrontarsi, così, corpo a corpo, con il dominio dell’angoscia. Allora sembra che tutto debba muoversi nella ellissi di accadimenti percepibili lungo una tranche trans-visiva, trans-tattile; in tal modo ogni cosa, in relazione alle prospettive non soltanto etniche ma intellettuali, può essere raccolta nella intima drammaticità (cioè nella sua valenza di dra ~ ma, vale a dire: azione calata nella storia) della vita oggettiva e soggettiva, farne umore per nutrimento non esclusivo dell’artista, piuttosto di ognuno cui è dato godere e soffrire dell’opera. Investire, dunque, drammaticamente sulla natura morta, significa consegnare, vivificare le cose dell’umana dignità attraverso la pietosa, pagina 37] ♦


quanto disincantata, osservazione, operando una dissezione degli oggetti, ciascuno degno di un atto di pietà, situato nei ‘fatti’ del momento, cosicché esse appaiono «tanto più sconvolte, autenticamente, pittoricamente sconvolte, Nature morte». Sono questi gli accenti sulla pittura di Guttuso (confrontata con il quadro a lui contemporaneo) da Elio Vittorini, e precisamente sul Guttuso della Crocifissione e della Natura morta di proprietà Cruciani35, opere in cui gli sconvolgimenti operati dalla storia segnano con dolenti strie di sangue ogni azione dell’artista. Più avanti è la ‘natura morta’, attraversata dal vento plastico del ‘dramma’, a deporsi nella Vucciria, com’è già avvenuto con la Crocifissione, con tutto il suo peso apocalittico: tattilità trasversale, carnale recrudescenza di vita e di morte, proiettate in quel catalogo di verdure, carni, esistenze impigliate nel crocicchio inestricabile del giorno, tragicità che cogliamo nel termine stesso d’ascendenza angioina di ‘Vucciria’ (Bocharria, Bocceria, Bucceria, Vucciria), il Ma♦[pagina

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cellum magnum del XIV secolo: mercato adibito alla macellazione delle carni nella zona oggi occupata da piazza Caracciolo; Bocceria Grande, o Vucciria appunto, formatasi, ricorda Rosario La Duca, tra il X e il XII secolo sull’area interrata «dell’antico porto causato dai detriti riversàtivi dai due corsi d’acqua settentrionale (Papireto) e meridionale (Fiume del Maltempo)»36. Le icone del bue squartato, della violenza resa palpabile dalla catena alimentare, e in cui fanno luce, per più agra conoscenza del reale, come in una tavola settoria, le grosse lampade accecanti su di una ragione biologica verso cui nessuno può sottrarsi, avvolgono, nell’onda chiaroscurale che esalta a suo modo la psicologica architettura rinascimentale del dipinto, le acroniche mobilità delle dodici vite sospese alle estremità di vita e morte. In tali estremità navigano, nascoste, le allegorie dell’abbondanza e del sacrificio: gli avventori, quattro donne e quattro uomini, schiacciati dal rigoglioso tracimare di materiali, in quella maniera in cui siamo abituati a leggere negli allestimenti presepagina 39] ♦


piali barocchi delle terre di Galilea, delimitati dal macellaio impegnato al taglio sul quarto di bue, dal banco del droghiere, dal fruttivendolo, dal pescivendolo. E di nominazione si carica l’approccio retinico; tutti gli oggetti del catalogo dei cibi, quotidiani prodotti dell’alimentazione, dispongono una involontaria pedana all’antropologico ‘famismo’ un tempo caro a Gino Raya. Sono commisurate tassonomie carnali e vegetali; una historia naturae umana ed animale: storie incrociate e coinvolte da una ancestrale coscienza biologica per quel far parte, tutti, d’un comune denominatore: cellulare, tissutale e umorale in continua, inarrestabile, disseminazione di materiali organici. La Vucciria (1974), per Goffredo Parise37, è apocalittico quadro-emblema, segno mortale del nostro paese; in esso può cogliersi – dice – un “buflare di vapori” (da un verso nascosto dello scrittore cogliamo questa adattabile e pertinente immagine38) disteso su d’una concentrata (300x300 cm) fabbrica di sinestesie. Tabula di contaminazione sensoriale gemmata da un rutilante carrier metaforico, ♦[pagina

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prodotto da quell’intensa gestazione che investe fin nel fondo l’intensità dell’opera. Il ricordo del mercato che ne ha Guttuso, riportato in più aree di pubblicazione, è ben conosciuto, ma non è superfluo risentire le sue parole: «La ‘Vucciria’ me la ricordo da ragazzo, quando da Bagheria venivo a studiare a Palermo. Scendevo dalla parte dei gradini di via Roma entravo in piazza Caracciolo e sbucavo nella piazza San Domenico. Mi bastava questa ventata popolaresca, i suoni, le luci, le voci per cambiare registro alla mia mente. Senza saperlo, forse senza volerlo, nella retina si impressionavano quei canestri di canna dove c’erano trionfi di frutta, i grandi banchetti di pesci distesi a semicerchio sui marmi dei pescivendoli.» “Suoni, luci, voci”, dunque, pronti a gettar scompiglio nel bagaglio sensitivo dell’artista, a sospingerlo nella rielaborazione e riflessione multisensoriale lungo la vastità di questo mobile scenario, scrigno di suoni, colori, voci, sapori vagoli e penetranti, evocazioni, rimembranze, calchi di vita esposti al sacrificio e alla mortale pagina 41] ♦


dissoluzione nel rievocare, in parallelo e pur nella diversità dell’approccio temporale ed estetico, estremi lacerti baconiani (da Figure with Meat del 1954 aThree Studies for a Crucifixion del 1962). La corposa rappresentazione quadrata (9 m2 di superficie), quasi in assonanza con il corpo squadrato, severo, dello Steri, luogo di collocazione dell’opera donata dall’artista (destinata alla Sala Magna del Rettorato), condensa il suo primo abbozzo embrionale in un disegno del 20 di luglio 197439 (già nel Natale del 1973 un copioso reportage fotografico ne costituisce il primo ideale e materiale emblema) mentre la completezza dell’opera, dipinta e portata a termine a Velate, si compie (dal primo ottobre 1974) il 6 novembre del 1974. Una completezza che poggia su di un interessante percorso di formazione testimoniato dai laboriosi bozzetti: Studio per la Vucciria (74/15, collage); Studio per la Vucciria (74/16, acquarello); Bozzetto per la Vucciria (74/17, disegno a matita), dalle varianti compositive realizzate in lunghe carrellate di nuclei figurativi, metaforici, di evidente ♦[pagina

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impatto viscerale. Così, ‘natura morta’ o ‘viva’ che sia, il ciclo, in fondo, si chiude con la corruzione degli oggetti in quell’«esalare», afferma lo stesso Guttuso40, nel grande piceo fondale rilevato da Brandi41, «un sentimento di morte» nutrito proprio dall’eccesso dei materiali biologici: cardi, finocchi, melanzane, peperoni, uova, carni macellate, insaccati, pomodori, agrumi, pesci, frutti di mare, olive, in cui ogni cosa pare essere percorsa da una sorta di ossimorico destino. In esso si riflette tanto dell’identità siciliana: un furore vitalistico e, nel contempo, una ferita mortale, a sostenere, altruisticamente, il soccorso, e consentire, crudamente, di chiudere il ciclo. In questa sintesi di vita e cose entrate a far parte dell’umano scenario grazie all’emersione dei loro sensi originari, ristagna il fantasma sepolto dell’allegoria a sollevare, come nei versi di Pier Paolo Pasolini dedicati a Guttuso, “i significati [che] diverranno cristalli”, traducendo la realtà perseguita dal maestro bagherese, tenuta distante dalla imitazione, ma sempre indagata. Ed è proprio in questa discesa nel buio delle cose a consepagina 43] ♦


gnare, con la grazia dell’arte, il nuovo, il vólto della realtà più vicino al vero. Le forme nella Vucciria, simbolo panormita e morfologia dell’uomo e del suo vivere il mondo, consegnano quella “solidità”42 che Guttuso dichiara di trovare nella pienezza espressiva dell’opera di Gustave Courbet. Tale solidità viene addensata, come un grumo, nella Vucciria: i suoi profili, i personaggi, sono già in essa diventati pasoliniani “cristalli”. I cristalli di Palermo, vorticanti sui mostri litici di Villa Palagonia, sulla Sicilia ammantata nel suo degrado morale, sugli incubi dell’uomo contemporaneo, sulla libertà di vivere, di morire.

PER MUSÉE IMAGINAIRE, PER LIRIOS E RABDOMANTI La linea decisa del mare chiude l’ambiente musivo, proprio nello sfumato di un celeste serigrafico assorto nell’atmosfera di un meriggio appena iniziato. La donna appare pros♦[pagina

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sima al centro della sala, osserva l’imponenza dell’Ercole Farnese raccolto nella sua possanza muscolare. Su tutto si distende, com’è naturale nelle opere di Ceccotti43, e per tutto il suo intimo e antiprovinciale cammino creativo, il terreno della sospensione; anche per quella fascia di anacronismo che Calvesi aveva sostenuto, in virtù di una letterarietà insistita purché non esclusivamente esercitata nella sua pura valenza di citazione, ma piuttosto come immersione, attraverso tropi lungamente meditati, nella dimensione visionaria, alla ricerca di nuovi possibili svelamenti in cui pittura e letteratura riscoprano la via di un riscatto intellettuale. Ora, il percorso di Sergio Ceccotti, sommerso dalla architettura di un realismo magico vergato da quella lacca che ben si amalgama alla surrealtà poetica di un Soupault, sembra accostarsi alla scrittura del belga Hubert Lampo che, del realismo magico, ha rappresentato forse la punta più moderna, di certo meno retorica. In tal modo anche la schiera intellettuale di questa scia di pagina 45] ♦


“imaginal realism”44 in cui si riversa una sostanza luminosa, a volte diremmo aliena, acquietata e pur vigile, vive la sua atmosfera nebulizzata, dove sembrano scuotersi i leggeri frammenti che dolcemente cozzano, come in un anello di asteroidi, l’un con l’altro, emettendo quella particolare lieve sonorità, indistinta, in uno sfregare accorto, insinuante, tra i fatti del pianeta. È il Musée imaginaire VIII di Sergio Ceccotti (un olio del 1992) che segna, allora, la sua piena dimensione anacronistica, pencolante tra i fili d’una contenuta surrealtà e la convincente memoria di un futuro reso impervio dalla attesa d’un qualcosa pronto a spezzare il filo del discorso, magari nella consolante e provocatoria visione di un paesaggio e con la regìa della figura femminile avvolta, come in un peplo, dal suo leggero vestito rosato. Oppure è una scultura a raccontarci la storia di un’anima, una emozione trascorsa e mai ritornata, una piega rintracciabile, con sempre maggiore difficoltà, nei meandri della memoria. Ecco che il luogo ♦[pagina

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si trasforma, in Sergio, quale luogo per un viaggio in cui, in apparenza, si descrive l’evento cui siamo convinti di assistere, anche se, in realtà, l’accadimento è posto altrove. Esso si dispiega tra i velami di un tempo indeciso e frattalico, si scontra con la precisione di un disegno ammiccante alle frange più ravvicinate della pop art, alle trascrizioni del disegno di fumetto (indicativo riferimento ad Angela e Luciana Giussani), a tutta una serie di mixage in cui soltanto l’intelletto vaga. Esso acquista cittadinanza nel momento in cui trova il suo approdo; allora il quadro assume la propria indefettibile identità: un determinato indirizzo in cui vengono situati, sulla pedana della rappresentazione, non soltanto sogni e desideri, ma incubi, umbratili tensioni, fragilità del comportamento, contenuta esultanza delle passioni. Tutto, poi, sembra essere sopravanzato, non tanto dal giudizio morale quanto dall’onda di condivisione malinconica della realtà, dalla assunzione loica disciolta lungo i travagli pagina 47] ♦


dell’attualità. La città di Ceccotti, ambiente privilegiato dalla sua pittura, viene ordinatamente descritta, vaga per le ombre della notte, vere e proprie “notti bianche” di viscontiana memoria, stancamente deserta, ravvolta dai toni caldi d’un arancio smorzato, nel ricamo di oscurità proiettate sulle strade, mentre pungola, dall’angolo della tela che sembrava aver concluso con la sua autobiografia, una coppia di amanti pervasi da un addio: il vólto di lei rigato da una lacrima nell’alone crudo di una luce giallastra. Ciò non soltanto accade in un’opera recente (Una sera, una piazza, 2010), ma fa parte della struttura intima dei dipinti di Sergio, artista scrupoloso e sincero, uomo riservato che attinge al corredo metafisico senza mai aggrovigliare l’estremo delle corde emotive. I personaggi ceccottiani sanno perfettamente che su quanto vedono può irrompere, di colpo, il fatto epifanico; avvertono come dietro ogni spigolo possa nascondersi lo scarto che appaga intelletuali di vaglia: il nocciolo del mito ♦[pagina

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in De Chirico o in Savinio, il numinoso nella scrittura di Eliade, l’agguato nel conflitto odierno, la scarificata fascinazione del luogo in David Hockney. Il tutto in una griglia visiva in cui tempo e sua sonorità si espandono e si misurano con le azioni dell’universo. La città è dunque “Città della mente”, così come dichiara Guglielmo Gigliotti45; l’uomo che la vive, è spesso prodotto speculare della sua stessa rappresentazione, specchio riflettente della personale visione, condensa di un desiderio, di paure, che possono essere improvvisamente cancellati dall’irrompere di un taglio, dall’inesorabile senso di dispersione. Proprio per tali dissipazioni di tempo e passioni, ecco i sedimenti architettonici e psicologici di Ceccotti, i suoi simboli categorici e poetici, le sue spiagge e i suoi dolci, i suoi interni e le strade parigine o fiorentine, i suoi ovali su cui si staglia, in primo piano, il disegno d’una giacca che offre le spalle ad un’opera di De Chirico, le sue scale urbane, nuvole ed aerei che solcano l’azzurro incombente dei cieli, pagina 49] ♦


poltrone e baci di amanti, il caldo barbaglio delle finestre illuminate nella notte e tram che sciabordano sulle rotaie mentre, da un negozio, ammicca, sorniona, un’insegna con la scritta ‘Ceccotti’. Ecco, ancora, gli occhi di un gatto sull’abbaino, la sagoma terrifica d’un gorilla: stanze d’albergo e nudi femminili vaganti per le sere romane. E, non ultimi, proprio quei musei immaginari che son raccolti in una nutrita serie di fogli per intima esigenza di verifica della sua poetica; filosofia della fissità, dell’immobilità attiva di persone e cose che abitano il dipinto, nell’ironia che governa il mondo e denuncia l’inutile affanno di umani traguardi materiali. Così questo Musée imaginaire VIII, tra rimandi classici e severiniani spiragli, tra offerte paesaggistiche e astrazioni, coagula proprio tale fissità, tale aurea ironia, l’orgoglio di chi può percepire la fluviale musica del tempo, la pupilla aperta sull’arte, sulla enigmaticità del vivere. D’altronde «quando Apollo e le Muse si mettono a fare le parole incrociate, nascono combinazioni ♦[pagina

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stupende». Sono parole di Pietro Paolo Trompeo che Leonardo Sciascia espunge da una recensione, stilata dal francesista, sulla principessa Brambilla, sapido romanzo di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Espressione riproposta in nota dallo scrittore di Racalmuto al suo saggetto Un cruciverba su Carlo Eduardo (suggestivo incrocio tra Carlo E. Stuart, Alfieri e la contessa d’Albany), emulsionando, nel 1983, con il titolo Cruciverba, la raccolta einaudiana per la collana degli “struzzi”. Sciascia vi ribadisce come tante cose possano leggersi proprio nell’intersezione tra “verticali” e “orizzontali”, così come mirabilmente accade nelle pagine di Stendhal; ma anche Trompeo: «magari per delega di Apollo e delle Muse», - si riafferma «riesce a stupende combinazioni, quando si mette a fare i cruciverba.» Gioco dell’intersezione, dunque, è quello che alimenta pensiero ed emozione di Sergio Ceccotti: un tavolo sobrio su cui riposano oggetti ammantati dal liquore secreto in straziati meriggi domenicali, per melancoliche ore italiane profondate nel sapagina 51] ♦


pore e nel sopore d’una luce obliqua, appena tracimata, con le sue ferite, nelle inquiete pieghe di sere romane o parigine. Lacaniano sguardo di obliquità, mantello pulsante su cose, sulla loro essenza, come a ripristinare quel modernismo firmato da William Carlos Williams, il poeta e medico amico di Pound, ma anche di Charles Demuth, non a caso protagonista di quel ‘precisionismo’ pittorico che servì da nutriente al realismo magico, qui richiamato dall’edilizia industriale in una tela di Ceccotti del 2006 da porre in ideale vicinanza all’opera precisionista del 1921 Aucassin and Nicolette pudicamente suggerita dal noto ‘fabliau’ piccardo. Per Williams «nessuna idea», appunto, «se non nelle cose», nella loro immanenza, nella loro semplice plastica fissità. Lastra della memoria quale segno di rivelazione, catalogo e rito della quotidianità prendono piena sostanza in Ceccotti, dove l’interno è viscere (così accade in Piccola malinconia italiana del 2006), come la tavola cardiaca che campeggia nella stanza, icona d’un ♦[pagina

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tempo fagocitato dalle escare degli oggetti: libri, affievolite foto famigliari, cruciverba, piatti colmi di pasticcini o lo sboccio di una flûte, mentre dalla finestra un tram scivola sulle rotaie spandendo la sua luce tremula su di un manifesto da cui spicca un italico stivale che sarebbe piaciuto a Bruno Barilli. C’è del crittogramma in tutto questo: il rebus della vita, il cruciverba, appunto, che ci viene offerto un giorno dopo l’altro per continuare ad esistere, a vivere degli odori, di tattili pigmenti polverizzati nell’aria e collocati nelle pagine di una personale rêverie. Quanto di antididascalico troviamo nelle apparenti narrazioni di Sergio Ceccotti, lo leggiamo in quel “vero” ed “ineluttabile” suggeriti dalle sue immagini antidecorative, in quell’insistere sul podio da ‘guardatore’ di tramonti, naufragi, silenzi, assorbendo l’armonia del soffice e feroce colare del tempo, in cui l’apertura sonora riconosce l’incipit nella stessa sigla di Sergio (SC) quasi ad emulare, con le sue iniziali intrecciate, una personale chiave di violino pagina 53] ♦


saggiamente collocata sul pentagramma dell’esistenza. Nel perenne e sincrono oscillare del tempo, mosso nel confine tra la pellicola magica del realismo e le volute dell’anacronismo, tra pause e sussulti asimmetrici, si agita la poetica di Ceccotti, con grazia, con ironia, con l’eleganza di chi possiede solida capacità di ascolto nei confronti della contemporaneità. In questo e per questo amiamo il lavoro di Sergio il quale, dell’oggettività e della fisicità che lo circonda, riesce a sfogliare il ventaglio delle passioni sopite, privandole della ridondanza, e, soprattutto, a mescere da un’anfora arcaica la melanconia, per trasformarla, da spleen meditativo, in agire poetico. Un modello sentimentalmente configurato alle umane inadeguatezze, alla lenta smaterializzazione delle forme: siano esse dettate da un mappamondo o da un corpo di donna acceso e scrutatore. L’inabissarsi d’una nave nella colonna verticale della pagina enigmistica stesa tra due corpi stretti in un tango, lo spartito di Brahms chiuso tra strumenti musicali, il tocco di un’arpista o il flautato suono ♦[pagina

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per camere d’albergo nel viaggio acerbo tra guide e lumières46, fanno da contrappasso al cielo mediterraneo battente su Roma con quella “luce”, lo annotava Vincenzo Cardarelli nel suo Il Cielo sulle città, «sempre assoluta, sfolgorante e si potrebbe dire cattolica, in quanto sembra risplendere al di sopra delle stagioni». Per Sergio, più laicamente, essa dilava nel sonoro tapis roulant del tempo, nel midollo delle cose, alla scoperta d’uno sguardo, di un contatto. Poi, un sonno leggero, una corda del cuore o d’una viola da gamba: figure e cose compatte, turbate di fronte alla vita; di fronte alla terra, al suo sparso, sidereo brusio. *** Appaiono quali lamelle vibratili: impervie euforie dell’acqua appena addolcite in forma di gigli marini, di bianchi calici nell’attesa d’una qualche stilla d’ambrosia o del moto spregiudicato degli iris silvestri, tutti distribuiti sul pentagramma d’acquarelli che Cano47 ha dipagina 55] ♦


sposto per gli occhi, per le mani, per il cuore. Ancor meglio aggettano incerti metabolismi botanici: succhi endolinfatici, sollecitando, in Pedro, il tatto, il contatto, la possibilità di percorrere, per così dire, il tragitto d’una foglia, fino a conquistare un petalo, il bianco furore dell’intimo corpo del fiore, lacerato per destino, fragile sino all’imponderabilità: frantumabile essere, disseccato, turgido, immoto nelle pause tra flessibili respiri. Si raccoglie, da queste immagini, la loro sensibilità organica, la loro sensitività; ecco perché il petalo si concede al volo, al sospiro, al desiderio di ombra proprio partendo dalla luce, oppure immergendosi in quella materia di pena che essi, i gigli, riposti a volte tra iris spontanei e scarni, emanano dalla profondità del loro calice. Luttuosa pena, si diceva, e che Lorca colse già nell’assolutezza del bianco, quale incombenza di mortale ferita. Ora è il giglio selvatico ad insistere, offerente, sulle tracce in apparenza abbandonate da Pedro Cano: con quel procedere privo d’intenzione; e, proprio per questo, reso incolpevole, inno♦[pagina

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cente, tanto lieve da celarsi alle spalle di una sostanza umbratile, selenica. Eppure in tale levità pare annidarsi il contrario della lieve trasparenza offerta dagli ectoplasmatici lirios, e, forse in virtù di questo, ci suggeriscono del peso alieno del mondo, di quanto in esso vi giaccia d’irrisolto, di quel taglio inconfondibile che è invece posseduto dall’oscurità. Ecco il fiore: foglie, fusto, pistilli, corolle incise dal palpitare del gesto inconfondibile di Pedro, mosso nel ragguaglio costante di pervadente manipolatore di biologie fatte proprie, assunte per eluizione nel suo corpo, quasi immagazzinate nel suo stesso ordine cellulare. Sospettiamo che Pedro conservi nel pensiero primario d’artista questa fragile essenza, tale visionaria e pur sicura fortezza. Pare che egli stesso possieda quei movimenti nastici i quali, come per rami e fronde, si dirigono verso un specifica sorgente, un tactismo, nel modo in cui, per altre vie, avviene nei “Fiori di campo” tanto amati da de Pisis, e, per poi far ritorno alla propria area di fuoco, al propagina 57] ♦


prio baricentro in una quiete transitoria. Allora questi lirios48 s’aprono, se vogliamo, prima d’ogni altro fiore, nel suo animo, così irruente così gentile, per travasarsi nel tono deciso e sentimentale della mano, un presentimento in quel che di sensuale, nella maniera già ricordata da Emilio Cecchi, sepolto in quell’«amore pei fiori» e che qui appare obliato nel ventre di tali fragili e pur tenaci tessuti, ma anche per quel condividere, come accade nel narciso, una parte consistente dell’albero genico tanto prossimo all’umano organismo. Ora son gli occhi di Pedro che stanno acquattati dietro l’arco flebile di questo Lirio (un acquarello del 2013) vagolo tra un pistillo cromo, spruzzato di vernice liquorosa, germinale, posto nella contemplazione di una piega, di un sussulto, di ogni possibile erosione, dell’ambigua virginale pellicola, per usare una pertinente aggettivazione dannunziana, in quanto a volte, proprio nell’iperbole, il tutto si mostra più vero, più tangibile: unico possibile linguaggio come accade per la fioraia Vic♦[pagina

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toria, – personaggio della Diffenbaugh, – la quale attribuisce ai gigli il senso non orgoglioso della regalità, e ai giaggioli il gesto aperto del messaggio. Messaggeri di regale e casta pregnanza, dunque, i lirios di Pedro si auto-scarnificano sino all’essenziale, ma lasciando sul tappeto tutto quanto è servito per la costruzione del suo tessuto floreale, della sua più antica materialità. Essi si proiettano nel velluto oscuro del viola, mentre con il nero viene sancita la soglia dei petali, dei sepali, nella volontà di rafforzare quel bianco lattescente appena vergato dall’acqua, quasi a far condensare quelle «lagrime e baci» depisisiani o a divaricare su di un piano inchiostrato, gli azzurri scoscesi e fondi. Da tale sottrazione Pedro sembra distillarne il valore lirico appena accostato ad un vago eroismo di morte, simile all’immagine consegnataci dalla parnassiana Chimera firmata, nel 1908, dal palermitano Achille Leto, in cui spontaneamente, tra le esistenze, «fiorivan prode di gigli»; qui è l’impronta d’un affetto vaporizzato e necessario, pagina 59] ♦


impalpabile e concreto come l’intima visione della sua Región de Murcia. Ora il coagulo è bolla di luminescenza: sono lirios tremuli punti da un bagliore effimero ma penetrante, cui soltanto il diffuso crepuscolo di Blanca riesce, con molta probabilità di memoria, a filtrarne i bisbigli; ma è il tocco di Pedro a discioglierne, per acquarello, la sensualità come dal vetro rosso di lontani versi: quelli che, in Majorca, chiusero per sempre e in limpida cecità l’esemplare diwan di Hamdis. Sensualità e succulenza prodotte dalla terra ritroviamo invece in Rabdomante in blu (pastello a cera del 2004) di Ercole Pignatelli49. Un capriccio che ci conduce a Remigio Zena, lo ‘scapigliato’ dai vividi ritorni simbolisti, da cui traiamo (Olympia, 1905) quel sonetto connotato quale “piccolo capriccio mimetico”dal titolo “Tra le rose”. Nell’invocazione iniziale: «Datemi delle rose», si coglie l’inebriante sua necessità tattile, desiderosa però di una totalità di contatto epidermico e olfattivo. Poi si assiste, rigogliosamente, ad un precipitare, nel ♦[pagina

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sogno, di fiori disposti «a nembi, a ghirlande», definite dalla sensibilità poetica: «roride e folte». Inoltre, si attesta, incastonato nelle terzine finali, il senso pittorico, intenso, che quasi sfora, dal simbolismo rarefatto ed estetizzante, in un mondo simbolico più carnale, uno sfiorare la frastagliata soglia espressionista. Un sentir la pittura, dunque, pertinace, sottoposta ad un lavorio fatto di sensi, di desideri e palpiti, e insinuanti tragitti dell’occhio. Proprio in questa valutazione mimetica, sembra che il desiderio di Zena sia quello di affondare i propri recettori nella cadenza intensissima d’una realtà pronta a esondare bellezza e dismorfia. Gian Pietro Lucini, con quella vividezza critica (1967) che gli è congeniale ed espressa, in forma di ‘prolegomena’, per Poeti simbolisti e liberty (una strenna del pesce d’oro per il 1968, curata da Glauco Viazzi e dall’indimenticato Vanni Scheiwiller, ornata da raffinate illustrazioni quanto strenui disegni di Alberto Martini, Romolo Romani, Antonio Rubino e Adolfo Wildt), nota come l’eccesso del simpagina 61] ♦


bolo sospinga alla dimensione ‘jeratica’, ‘classica’, ‘personale’. Quei poeti, aggiunge [così come quei pittori], «ordirono l’amore e la carità: dal Golgota discese alle bellezze reali dei sensi ed alle mirabili attività umane, poetando il panteismo di Spinoza». Per analogia e metamorfosi, in Ercole Pignatelli, le «bellezze reali dei sensi» e le «mirabili attività umane» s’intrecciano, dissecano gli orizzonti stessi del sogno, lambiscono i recessi della memoria e di una nostalgia che potremmo definire non passiva. La condizione espressiva di Pignatelli si avvale di un elemento fondamentale: la linfa della sua fluviale percezione. È la retina a regnare sovrana sul mondo; ed è il mondo del colore; è la sua natura terrestre e celeste. È, soprattutto, la sua pregnanza, l’accesa, rigogliosa sua fluidità vitalistica. Bisogna osservare come i temi che hanno costruito la narrazione pittorica di Ercole (Basamenti-Frutteti, Masserie, Nudi, Bucrani-Oasi, Siccità, Paesaggi) sono, per questo leccese di prestigio, centro propulsore per la sua fantasia, il nucleo di condensa ♦[pagina

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per il suo prensile e gestuale modello visivo. Sembra opportuno ricordare come l’artista tenda a convogliare, in una gestualità ampia e pastosa, grido e malinconia insieme, un cantare l’anima del pianeta, le immagini della rammemorazione innestati agli aspetti biologici: piante, palpebre femminili, cuori e cosce, grandi steatopigie (in accordo con le note vestigia paletnologiche) e prolifici uteri. Un sensuale richiamo al corpo e alla sua capacità riproduttiva, alla sua solare macchineria poetica, a quel rutilante segno che è parte ineludibile dell’umana brillantezza. Una sorta di furore espressivo, alimentato da congerie estetiche le quali, mutuate dall’imponenza del dettato picassiano e dechirichiano, hanno nutrito la multiforme priorità dei segni, i suoi connaturati marchi, le enclavi fatte delle icone di un Sud ri-creato e stemperato, frantumato e ricomposto su matrici multiculturali, sin da 1953, in virtù di quella visione europea che l’approdo a Milano (città maturata con le esperienze di «Corrente») sapeva distribuire attrapagina 63] ♦


verso il pungolo intellettuale di Brera; e, ancora, con le frequentazioni e sodalizi di alto lignaggio e di volitiva sollecitazione: da Giuseppe Migneco a Lucio Fontana, da Franz Kline a Virgilio Guidi, da Raffaele Carrieri a Luigi Carluccio a Basilio Reale. Su questa intima impalcatura di saperi, di percezioni, di interne ed esterne aspirazioni votate ad un continuo arricchimento (dall’astrazione al disegno industriale), sostenute da una forma connaturata di curiosità analitica, Ercole Pignatelli irraggia il suo sensitivo e personale modello visionario. Esso è modulo ipertrofico, verticalista, condotto, con accanimento, all’incandescenza verbale, al grido di nativa esultanza per quel gioioso appartenere al mondo, per quel voler manifestare, attraverso segnali policromatici, anche quel senso della proporzione affidata al decoro insito nella stessa realtà contingente. Siamo – osserva Pierre Restany, – «su questa linea morbida e acuta che segna le ultime possibilità percettive del nostro nervo ottico. Le turbolenze cromatiche ♦[pagina

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sull’orlo dell’eccesso abusivo rimangono ancora nella dimensione squisitamente piacevole della lussuria decorativa» (2001); una ‘lussuria’ qui sottesa ad una affabulazione che coopti i valori antropologici, quei sostrati di manualità, di fabrilità pronti a riportarci al manufatto, al lavoro domestico senza implicazioni né ambizioni, se non quella di comunicare uno stato di pacificazione ideale e corporale. Già nei “Nudi” di Solarium del 1974 la donna diventa magmatica ed essenziale, un vero e proprio metaforico sistema di nutrizione; un nutrimento votato alla generazione linfatica, cavernosa, del mondo vegetale e, per fisiologica afferenza, a quello animale: ora palme, ora rigogliosi pergolati dove i chicchi d’uva, come nel verso di Papini, nascondono «begli occhi color d’uva fatta» (O corrente di liquida ametista); e ancora, piante vive da cui sviluppano altri organismi ansiosi, in necessaria simbiosi, destinati a fomentare un sincretismo biologico e culturale, un meticciato necessario, pronti a rinvenire, attraverso il miscuglio di acrilici, olî, pagina 65] ♦


matite, idropitture sintetiche, tempere grasse, una prorompente meccanica vitalistica. È sempre quella “pressione vitale” messa in evidenza dal poeta e critico Raffaele Carrieri (1982) dove il flusso perenne dell’esistenza può conservarsi e autogenerarsi. La donna traslucida nel suo dissolto azzurro cupo si sparge, rabdomantica virtù dei sensi (Rabdomante, 2004), tra espansi petali sessuali, seni in competizione con polposi esperidi, foglie attorte, fusti, ora in fluorescente contrasto tra rossi violenti, verdi densi e invitanti, morbidi cupi tessuti del fondo, aperti al baratro del ricordo. Il suo capo si offre reclinato; da esso emerge, composta, la piramide nasale, lievemente incurvata, addolcita dal dilavare visibile dell’olfatto, tanto magneticamente percepito, così femminilmente brillante, pronto a trasmettere alla coscienza tutto ciò che si nasconde nell’intima dolcezza della terra, nell’intricato e trascorso scenario della memoria. Varianti e individualità pongono i ‘nudi’ recenti di Ercole sul versante d’una eteroclita ritrattistica ♦[pagina

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della spiritualità carnale, nella quale i simboli ovogenetici (si pensi al dominio della sfera, della ellissi, della spirale, della losanga, della forma lenticolare) ricostruiscono germi, semi per la monumentalità del corpo femminile: ora in posizione eretta, ora capovolto alla ricerca di nuove sensazioni baricentriche, ora annusante liquori della terra e, ancor più, d’un cosmo rimasto emblematicamente distante e notturno. Superfici corporee pervase da rossi squillanti, da un rastremato celeste mediterraneo, da un rosa malizioso e sensuale, da una lunare epidermide. E tutto cova nel fitto buio astrale, tra efflorescenze di gusto saviniano, con accenni mitografici ai lontani ‘basamenti’ riflessi in accennati paesaggi salentini e che già ritrovammo nel suo fruttuoso percorso degli anni Settanta. Tracce, inoltre, di quel vibrante scenario di Nocturna lucent (2001), in cui ‘luci’, nell’accezione latina di ‘lucus’ (Livio, 24.3), designa «quella parte di bosco delimitata dagli alberi, dove si celebrano atti di culto» (Cippo ‘A’, Museo Archeologico di Spoleto) e pagina 67] ♦


dove può anche cantare il verso di Yeats: (il poeta amato da Lucio Piccolo): «Io conosco i sentieri di foglie che le streghe seguono, quando / Vengono con le corone di perle e coi fusi di lana». Territorio magico e sacro, dunque, che c’investe con il suo mistero e la sua connaturata ansia dell’inconoscibile, dell’evento terrifico e liberatorio. Ancora: orizzonti e architetture del Sud, accenni di palmizi e baccelli s’inscatolano e si producono come spalliere al corpo denso della donna, allo sciogliersi lieve dei suoi capelli castani, al ritmo silente delle sue labbra. Corpi e floreali iridescenze centrati nell’immediatezza d’una prospettiva variata, vogliosamente disarticolata, per molti aspetti assorta, oltre che nella corporeità, nel gioco simbolico e metaforico. Quasi una via di trasmigrazione tra surrealtà e ciò che Josè Ortega y Gasset definiva, nel suo celebre La deshumanización del arte (1925), “infrarealismo”, in cui la metafora viene a costiture «il più radicale strumento di disumanizzazione artistica» e nel quale - si dice - «il ♦[pagina

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più semplice, consiste in un mero cambiamento della prospettiva abituale», in quanto «dal punto di vista umano, le cose posseggono un dato ordine, una data gerarchia». La gerarchia del vedere - si chiarisce - e dell’assorbimento percettivo rivelano come «alcune cose ci sembrano più importanti, altre meno, altre addirittura totalmente insignificanti. Per soddisfare l’ansia di disumanizzare, non è necessario, quindi, alterare le forme primarie delle cose. Basta invertirne la gerarchia e fare un’arte dove vengano messi in primo piano, distaccati con rilievo monumentale i minimi accadimenti della vita». Tale «rilievo monumentale» si distribuisce, in Ercole, con maggiore potenza espressiva, grazie anche all’alterazione delle “forme primarie” operata costantemente dall’artista italiano, dimodoché il procedimento metaforico ne risulta ampliato, superando la soglia della traslocazione del significato, amplificandone la portanza. Ecco allora ritornare, tra magmatici registri neobarocchi, quella “irritazione” nella pittura di pagina 69] ♦


Pignatelli, già evidenziata dalla perseveranza critica di Luigi Carluccio, «che arrovella le figure, le aggroviglia, le arruffa e si manifesta con una grazia sottile il cui sviluppo analitico tende tuttavia a fissarsi nella perfetta e chiusa forma del bozzolo» (1959). Oggi tale ‘bozzolo’ (esaminato negli anni da vigorosi sostegni critici, dal primo del 1953 di Lino Paolo Suppressa, ai valorosi: Giorgio Kaisserlian, Raffaele De Grada, Milena Milani, Dino Buzzati, Giancarlo Vigorelli, Franco Solmi, Luigi Cavallo), s’è aperto alla dinamica della contemporaneità, fingendo la sua rilevanza e la sua capacità di districarsi nel tessuto aperto attraverso la sua poetica. Una poetica allacciata alle parole d’un leccese di vaglia, Vittorio Bodini, dove questa città magica, ben sintetizzata in quel Febbre a novembre (un testo dedicato a Lino Suppressa del 1943), appare con le sue paure superstiziose, con le sue ossimoriche tensioni cromatiche: lo «smeraldo dei giardini», la «calce bianca ed il cielo sonoro» - disperso in Via De Angelis - o, come in Lecce, appare attraversata da «an♦[pagina

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geli dalle dolci mammelle». L’oro barocco del cosmo si frantuma, ancor oggi, nei temi e nei pigmenti di Ercole. Ed è oro, polvere stellare e secreto di fanciulla che riposa al suo fianco (al fianco di ciascuno); forse è un misurare meglio le “mille guise” dell’infinito.

MIGRAZIONI PER CITTÀ, PALMETI, E TIEPIDI NOTTURNI LUNARI

L’Occidente di Giovanni Iudice50 (olio del 2014) si nutre della diacronia in una capace attendibilità tra passato e sua classica accensione al futuro, ai suoi conflitti alimentati dalla globalizzazione. C’è, comunque, in tale approccio figurativo un primo sentimento legato allo scorrere del tempo, al suo travolgere, pur mantenendo un legame di solidarietà visiva col ‘fare’ dell’uomo per input mediatici, fotografici. La colonna di stampo quasimodiano («Su la sabbia di Gela colore della paglia»51) e le gru,

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al confine cementizio della città, riconducono alle parole del romeno Duilio Zanfirescu, scrittore amante dell’Italia, per il quale la fune con i panni stesi «fermata con un gancio al rudere di un tempio antico e legata per l’altro capo alla baracca dell’operaio»52 restituisce la misura infinita del tempo. In tale spazio dove maturano civiltà, ecco la speculare scena dei migranti, qui tradotta nel bianco e nero dell’anima sofferente, posti nei loro fatiscenti barconi, nel loro approdare sul magma incomprensibile di un dialogo da costruire. La pittura calda e civile di Iudice, tra hopperiane scansioni e pacato quanto rutilante impressionismo, si dipana, così, nell’azzurrità del cielo mediterraneo, per strie sanguigne e dolenti. Doglianza, d’altronde, è nel bagaglio spirituale da cui trae alimento la lunga parabola artistica di Tino Signorini53, e la tempera grassa Da via Monteverdi (2007) lo denuncia apertamente, con l’interazione del registro espressivo, con l’interezza del suo esistere, per quel porsi, pittore sensibile qual è, di fronte ♦[pagina

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al mondo, al circostante che ne costituisce il nocciolo metaforico, per la sua declinata tendenza, resa sempre più problematica, a rapportarsi con le crescenti difficoltà della città in cui vive, in cui produce, in cui secerne, dolorosamente, pensieri in forma di pitture, segni in forma di ferite, spinose erosioni. In questo egli vi riconosce, – almeno crediamo, – la propria solitudine, la precarietà di trovarsi in un ambiente fortemente depauperato dei valori cui intere generazioni si sono plasmate, indelebilmente, organicamente, forgiate. Ecco, allora, che la città di Palermo54, città morente, posta nella lente di Signorini, si avvolge e si dilata nella sua stessa contraddittorietà (vera e propria emulsione categoriale della sua essenza), nella quale appare epigeneticamente tramata, in quel suo stesso brodo: equoreo e palustre territorio di abbandono. Un distacco opposto agli autoreferenziali fuochi d’artificio rivolti a quegli epidermici tentativi, cui spesso assistiamo, di volerla proiettare, pur senza mezzi e attuali qualità, verso scenografie pagina 73] ♦


future a forte impatto comunicativo, tralasciando invece quella radicalità d’azione sostanziale che dovrebbe essere assunta come ‘impertinente’ segnale di cambiamento. Perché riteniamo che oggi ci sia bisogno d’una positiva impertinenza contro la reiterata modestia delle proposizioni politiche ricolme di orpelli narcisistici, d’insostenibili ipocrisie sociali. Ecco che al franare di importanti istituzioni culturali, al continuo gemere d’una città la quale depone sotto i nostri occhi la perennità delle sue ferite, ai disattesi bisogni fondamentali, cardine di ogni vivere civile, a quanto di inascoltato, di inevaso si va accumulando, si persevera colpevolmente con quella non tramontata “spocchia” (termine già usato nel contesto panormita da Cesare Brandi), con quella ofanità (superficiale vanità) direbbe l’abate Meli, ben cristallizzata nell’esercizio politico. Un esercizio sempre più inadeguato a colloquiare con quegli umani drappelli vestiti, secondo molti, d’ingenuità e che, in malafede, vengono catalogati come ‘stupidi’ (d’altronde ♦[pagina

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la furbizia, endemico male italiano spacciato per qualità, quando non praticata si riversa sull’individuo come inequivocabile marchio di minorità). Sono, però, questi ‘noiosi’ manipoli ad affermare su tutto la priorità dell’assetto morale, dell’avvio fabrile, anticonsortile, dell’antiappartenenza ai sistemi di potere, e che contestano quella cultura inserita nelle lobby, e che si oppongono a quanti abdicano alla ginnastica imposta dalla ‘parola’ dando persino consenso alla torrentizia banalità della canzonetta i cui protagonisti vengono salutati come maître à penser, al vacuo parlottio da villaggio globale, misconoscendo la diversità degli ‘specifici’, alterando, così, i livelli di merito. Desiderî ritenuti infantili, che insistono a ritrarre cielo e mare di Palermo o la stessa olfattività lacerata, quale rinnovo per una efficace modernità sollecitatrice di progresso, custode della sua storia classica, del suo racconto antico. Su tale piattaforma ideale la pittura di questo ottuagenario artista, sempre fedele a se stesso, alla sua poetica, all’indiscussa sua antipagina 75] ♦


graziosa idea dell’arte, privata da affabulazioni, tramata nella matassa di colori freddi e corrosi, oppure vibrata per segni intimi, scuotenti, attraverso la catena dei suoi ‘conté’, diventa, soprattutto nel nostro tempo, una pagina politica. La città di notte di Tino dipinge la città nella notte, la ‘città prigione’: quella notte perseverante, incapace di guardare, più che mai di vedere, e di far propri quelle mutazioni germinanti nel bozzolo della storia attuale, delle storie trascorse e non concluse, delle singole civiltà oggi fortemente globalizzate sul podio asfittico dell’economia, difficili da decrittare, fuori da ogni piega di ardore civile. Dal limite sbrecciato di un terrazzo, dalla fessura irregolare d’una finestra, dal disadorno quanto gelido angolo di cucina, da un interno macchiato da lastre di luce calcinata, Signorini ci restituisce le baluginanti icone della sua/nostra città: lettura che non si proclama prigioniera di un’alcova senile, piuttosto denuncia quanto sia incapace l’agire politico a sciogliere il cumulo sempre più alto dell’indifferenza, ♦[pagina

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della quotidiana crudeltà espressa in quel perpetuare offese al nostro vivere. Il profilo inciso di un albero, un portone corroso nelle voragini di storie urbane (tracce per quelle sensibili malinconie care ad un Rosario La Duca), la cupezza azzurrognola d’un cielo per poco tempo acceso nel grido scattante del colore terroso, i tagli inferti da un nero deciso o dal rosso straziato dal quale si accende la macchia improvvisa e combusta del cromo, il colare, nella profondità solenne del buio, di corpi appena riflessi, resi informali, gravidi d’inquietudine, sono tutte queste le voci che percorrono le tele di Signorini. E ancora lo spazio urbano con i suoi simboli contrapposto ad oggetti dimenticati, silenti, oppure l’elegante espressività minimale delle superfici euclidee in cui si affronta la circolarità di un tavolo contro l’onda crepuscolare diffusa dall’esterno, diventano anime inquiete e pervadenti. E i tagli, o i calchi di orografie con architetture riflesse per cangianti, tenui penombre di asseramento, ci offrono luci residue pagina 77] ♦


appena tagliate nell’olio da un giallo ossidato, impervio, quasi elemento ustorio d’incenerimento per tracciare, almeno nelle opere che riguardano quest’ultimo biennio (Case e montagne; Interno domestico, 2013), il catalogo più pertinente a quel realismo esistenziale in cui la liricità minimalista di Signorini si oppone alla descrizione, alla ridondanza e alla esasperazione tecnica della ricerca contemporanea. In tal modo la sua sofferta intimità coagulata per interni di abitazioni, già annotata in tempi remoti da Renzo Vespignani, nel suo sguardo tenace verso l’insostituibile lezione morandiana, si consolida in quella metafisica appartenuta a Gianfranco Ferroni, alla poetica della “metacosa” promossa da Roberto Tassi (1979) in cui Ferroni, Bernardino Luino o Lino Mannocci, hanno segnato quella cifra di ricerca dilatata dalle istanze della nuova figurazione. Da questi accordi intellettivi e percettivi una partecipata patina espressionista si aggiunge oggi sull’essenza di ambienti e cose: uno stillicidio di forme accarezza il volto d’una ♦[pagina

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città in cui Tino avverte il suo lacero sapore antico, la sua estenuata notte, densa per echi scomposti, per traboccate ‘amaritudini’. Al contrario, ma sempre con la pupilla, si assiste alla intima ricerca di Enzo Nucci55, all’apertura ancor più marcata rivolta alla luce, alla sua ialina trasparenza, meno affocata, filamentosa, come la si può cogliere nell’interno delle campagne siciliane. Una sorta di vaporosa brillantezza, dunque, in cui possono riflettersi i temi di una mediterranea fragranza vissuta quale indiscutibile categoria spirituale, luogo d’anima e polarizzante accensione di sentimenti visivi. Già in altra opera di donazione Luminosità mediterranea del 200456 sono, a larghe mani, distribuiti quei sensi malinconicamente immersi nel corpo attento della contemplazione, per irraggiarli, in una catenaria di scorci urbani nel registro della sua Sciacca, sempre con la fedeltà a quel trasporto visivo in Enzo ben connaturato. Un territorio avvolto da una vegetazione intricata da cui svettano palme pagina 79] ♦


fruscianti nella aprica silenziosità dei cieli, impressioni di luce per orbite cave di finestre da antiche case padronali, per dimenticate costruzioni simbolo d’una dispersa civiltà agropastorale. E ancora un itinerario creativo attestato, con l’uso sapiente del pastello e dell’olio, nella ricostruzione lirica declinata nei suoi notturni, precipitati nella spirale avvolgente della memoria archeologica, dispersi in eco selinuntine frante su onde lattescenti di lune accennate; il tutto tra ponderate espressioni d’una mitologia rarefatta e spesso sopraffatta dal gusto della evanescenza. Questa Finestra sul Mediterraneo, opera del 2010, sancisce quanto già più volte criticamente sottolineato per la pittura di Enzo Nucci, e, soprattutto, per quel suo insistere sulla dimensione del paesaggio permeato dalla luce e l’insistenza nel voler cogliere l’interiorità contemplativa, le cangianti emozioni che soltanto una ricerca ossessiva può restituire all’anima; vale a dire: la qualità delle cose, la percezione d’una realtà non raccattata mime♦[pagina

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ticamente, ma restituita prima a se stessa e poi agli altri nella gloria irrinunciabile di una grazia cosmica, ibridata con l’idea del mito e la lucentezza dell’occhio. D’altra lucentezze riferisce il lontano giudizio di Maria Poma Basile57 ma sempre adeguato a questa Donna mediterranea (olio del 2008) di Aldo Pecoraino58; proprio quando vi si afferma come in questo artista palermitano «paesaggio colore e pittura sono una identica cosa: ma c’è in questo fauvismo ancora un poco per l’amore di Braque, e soprattutto la sua esperienza dell’antico che amalgama i timbri squillanti del colore su toni più bassi ed asciutti.» E ancora per questa recente opera, si osserva, con maggiore evidenza, una fluidità capace di entrare in simbiosi con certe movenze guttusiane, ma che qui assume una personale, quanto concretata, elaborazione della sua centralità culturale, figurativa, che è baricentro visivo, desiderio per una condizione dell’impulso creativo in cui il cuore si trasporta e si distende nella totalità del podio femminile, su quella verticale esuberanza in cui pagina 81] ♦


l’eros cede posto alla conservazione di un appagato paesaggio corporeo ora violento, per l’accensione di fervida carnalità, ora soffuso e disciolto nel fuoco aurorale della matura fertilità. Un tremore cromatico e un impulso del gesto che ritroviamo nel suo Vaso con fiori (altro olio del 1970), carico di gaio vitalismo, di una tumultuosa e spontanea offerta dei sensi. A tale offerta si oppone l’esigenza del mito nell’olio-acrilico di Salvatore Caputo59, Mediterraneo lunare (insieme alla tavola Venere sul prato), che impone all’occhio dell’osservatore tutto l’arco di una ricerca figurativa condotta dall’artista con l’impegno che gli è proprio, riversando quelle suggestioni nebrodensi a testimonianza della sua origine, le trame di arcipelaghi eoliani, accenni ai vulcani, ad Eolo ventoso e ai ferri di Efesto, a tutto quel corredo geologico in cui si contrappongono, quasi ad esaltarne un contrasto o avvalorarne una esigenza di surrealtà, le statue collocate in angoli di giardini, tra fronde, oltre i recinti della propria visibilità, quindi nella memoria e nel gusto d’un ♦[pagina

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attraversamento classico da cui possa emergere, sempre rinnovata, la struttura della sua nuova figurazione. Ma qui sembra ancor più rivolgere il proprio occhio alla densità geologica del territorio e al suo catturare impronte cosmiche: fragilità di un universo in continua espansione e con un gusto rivolto al senso della compostezza e del decoro per una elegiaca visibilià del Creato. E sempre sulla visione naturalistica il Paesaggio madonita di Francesca di Carpinello60 consegna l’agilità del suo incavo pittorico, in cui semplicità e accortezza distribuiscono la propria visibilità del mondo, della sfera botanica, attraverso quell’area d’espressione gestuale velata da segni incisivi e accorti. In sintonia con quei suoi diradamenti determinati, nell’osservazione tracciata da Maurizio Calvesi, dai «contorni (che) perdono ogni asprezza, per depositare un’impronta come indiretta, filtrata attraverso il sogno o la favola; l’impressionismo depisisiano si coagula delicatamente in una stesura modulata, velata di trasparenza». Fuor dalla trasparenza Liliana Conti Cammarata61 consegna, pagina 83] ♦


invece, il suo disegno acquarellato Corteo degli animali, lucente esecuzione del 1990. Si assiste ad un uso spigliato degli inchiostri colorati, segnando così, in una girandola di citazioni (dal registro delle icone siciliane: musivo, arte popolareggiante, plastica barocca, fino alle sperimentazioni novecentesche), la carta spirituale della cultura del Sud. Un percorso grafico, quello di Liliana Conti Cammarata, che si pone nel contesto dello scenario figurativo contemporaneo, votato soprattutto alla cultura siciliana da cui l’artista trae spunti e motivi per una visitazione, e, a volte, per una ri-creazione, di quei temi legati, con profonde radici, alle strutture storiche d’una sfera mediterranea emotivamente avvertita e raccontata per immagini e didascalie. L’aspetto composito si dipana, con l’eleganza del gesto, nell’opera di Gigi Martorelli62 e, nella iterazione del segno, con Maurilio Catalano. La Composizione del 1964 di Martorelli è pittura capace di frantumarsi e costruire intorno a sé miriadi di frammenti, infinite tracce che, come ci suggerisce il lungo e proficuo percorso di ♦[pagina

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Gigi, possono essere simbionti multiestetici, resi vivida materia germinativa, mutevole nella forma, così nella stessa sostanza. Sul corposo richiamo informale viene esercitata la sua trazione espressiva nella quale Martorelli segna, con decisione, la sua personale cifra linguistica. Al contrario, è la diramazione logotipica, voluta da Maurilio Catalano, a deporre le sue eteroclite Barchette63 in quel fluire geometrico delle onde, per significanti profondità simboliche in cui il mare si rapprende nel proprio umore antropologico. Un «sentire popolaresco», come annotava Sciascia nel 1972, capace di restituire paure e fiabesche icone che appartengono al mare.

FLÂNEUR PER STAMPE Un caldo fluido, un qualcosa di corporale, una densità visionaria, un manipolo di segni procacciati con forza dalla realtà, delimitano lo stato delle cose, “il corpo incisorio”64 e ritraggono ora il perimetro oscuro del volto, ora pagina 85] ♦


i lacerti appassionati dell’esistenza, tutti pronti a decrittare il percorso di Piero Guccione incisore sin dagli anni Sessanta e artista eretico per la scelta di un franco ‘ritorno alla pittura’65 quando, nel dilagare della percezione astrattoinformale, il suo occhio scrutava e fissava le impervie fluidità del pianeta. E allora il materiale stesso delle acqueforti: i solchi, secchi, decisi nel loro impianto architettonico, il fulgore impaziente dei rossi o l’espressività cinematica di una figura (ne sono esempi emblematici il Cancello rosso del 1964 o il Calciatore del 1967, fino alla bella Pagina di nudi del 1969), s’imprimono nel miracoloso limite posto tra una loica disponibilità dilatata alla suggestione aritmetica (qui espressa nei segni, persino nella lucidità geometrica delle misure), e la frammentazione di un protagonista assoluto: uomo, donna, sentimento aspro e pur dolcissimo della natura. Ecco che i due mondi si contrappongono, si frastagliano in macule o si ornano di macchie rosse, compatte, ribaltate sulla pelle luminescente di un’auto in corsa, tra lame di aerobus, ♦[pagina

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sogni metafisici e ri-creazioni operate sui grandi maestri. Ma anche il desiderio di cogliere il mondo poetico e doloroso di un Rocco Scotellaro, della sua Lucania amata e assunta nella parabola della grande tela di Carlo Levi, e qui, in Piero, ridotta a simbolo estremo, a diradata poesia delle realtà oggettive, per apparire, oggi, in tutta la sua gravezza esistenziale. E, negli anni Settanta, il decisivo impegno cromatico che sempre più si fa strada, si condensa nei “campi di grano”, nel ritmo lineare insito nel mare del Canale di Sicilia, o nelle impronte litiche della terra iblea pronte a sospingere, in una dimensione ultra-fisica, il raccordo visivopercettivo di Guccione. In quest’ansia del rivedere, attraverso occhi essenziali, fuor dalla ridondanza, lo stato delle cose, egli ci restituisce, in modo esemplare, il tracciato più ampio del suo modificare i sensi (da Dürer alla cultura americana, alle iperestesie nipponiche), intonando quel vasto ventaglio espressivo qui trasformato in una sorta di epopea della similitudine. In questa epopea vi si scorge lo sforzo pagina 87] ♦


sotteso alla ricerca della verità, l’abbaglio del confine, l’ambita soglia dell’acquietamento e del malessere. La tecnica calcografica e le morsure proiettano di continuo sulle lamiere barocche il flusso di ombre dei nuovi idoli della tecnologia (Siepe nella macchina nera, 1973; Fiori, macchina e muro, 1973; Sul far della luna, 1973), poi addensate su di un pianeta spirituale e geologico: ombre, petali di fiori offerti al genio di Munch, icone meccaniche capaci di dilacerare e repentinamente ricucire, ancora una volta, la struggente compostezza di un paesaggio. La contrapposizione dei piani, dei colori, l’ossimoro ideale (colmo di fascino sensuale il Per Edvard Munch del 1978, dove l’ibisco trova il suo baricentro vitale nell’inquieta sagoma del teschio), le scomposizioni, le impaginazioni e un certo gusto per l’ipertesto, riversano lungo gli anni Ottanta, i riflessi, le macchine, le sagome fantasmatiche delle sue vele offerte a Friedrich, fino a raggiungere l’immersione totale nella assolutezza del “grande mare” (1982). Poi, e siamo alla contempora♦[pagina

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neità creativa dell’incisione guccioniana, il segno si fa più caustico, mentre la materia tonale diventa più pastosa, ora caricata d’un brio iridescente, ora impalpabile e velata di tattili suggestioni come quella creata tra “l’ombra” e “l’ibisco” (1996) o disperse nel Ramo di Oleandro (1997) o nel tempo del “Dopo tramonto” (1997), infine per rimanere, sino ad oggi, un’assorta essenza affidata al mantello asciutto e friabile del pensiero, al vento delle idee in un silenzio fatto di sommovimenti lucreziani che soltanto il cielo può raccontare. E di cielo si racconta nella volta galileiana del Cipresso di Taormina (accanto vi brilla la picea luce di un “paesaggio”)66; acquaforte-acquatinta intensissima nel suo cangiante registro dei blu, della fluidità del colore pensato più che dalla mano, dall’anima, della densità visionaria, in quel manipolo di ‘segni’ procacciati con forza dalla realtà. Il dilagare di Piero con occhi e mente sulle orme del pianeta, sulla sua impervia mutabilità quel “movimento dell’immobilità” di cui riferisce spesso Guccione, conduce per solchi secpagina 89] ♦


chi, decisi, qui geometricamente disposti a ridisegnare la calotta celeste, il suo poderoso impianto architettonico, ad imprimere, in tal modo, quel miracoloso limite nel procedere verso un dantesco «gran mar dell’essere». Ammicca, infine, il Pesce rosso67 di Nino Cordio nella sua asciuttezza di linea, nel fragile cieco cipiglio e nelle sue ombre azzurroverdastre colme, tra i solchi dell’acquaforte (una prova d’artista del 1965), di una linfa ancor percepibile. È così il segno di questo maestro incisore, sensibile e volitivo: marchio del suo bulino steso nervosamente, e in parallelo, per dipanarsi sulla carta in una tessitura fine, impalpabile, a granuli nebulosi. Da ciò fino a toccare, come in sue lontane e note lastre e nella restituzione dell’acquatinta, il racconto della terra e del fuoco di Sicilia, un racconto fatto di forza e di lirica tenerezza, di acqua e di cielo.

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CATALOGO Quadreria Mediterranea Sala 1 ~ Sala 2

Herab端ste, [Stampa n. 21 (Dresda); Inv. n. 483 - Steri - Palazzo Abatelli]


Renato Guttuso (1911-1987), La Vucciria [olio su tela, cm 300x300, 1974]


I♦


Filippo de Pisis (1896-1956), C’est n’est pas tout [olio su tela, cm 70x50, 1949]


III ♦


Ottone Rosai (1895-1957), Strada [olio su tela, cm 80x65, 1955 ca.]


V♦


Giovanni Omiccioli (1901-1975), Studio di cavoli [olio su tela, cm 65x85, 1945]


VII ♦


Sebastiano Milluzzo (1915-2011), Vaso con fiori N. 1 [olio su tela, cm 70x55, 1962]


IX ♦


Nino Garajo (1918-1977), Pentola con papaveri e margherite [olio su tela, cm 75x58, 1956]


XI ♦


Nino Garajo (1918-1977), Vaso con papaveri [olio su tela, cm 78x63, 1961]


XIII ♦


Gianbecchina (1909-2001), La “carrubella” di Chiusa [olio su tela, cm 80x100, 1967]


XV ♦


JoaquĂ­n Vaquero Palacios (1900-1998), Eretteo [olio su tela, cm 56x97, 1950 ca.]


XVII ♦


Sergio Ceccotti, MusĂŠe imaginaire VIII [olio su tela, cm 81x100, 1992]


XIX ♦


Pedro Cano, Lirio [acquarello, cm 24x18, 2013]


XXI ♦


Ercole Pignatelli, Rabdomante in blu [pastello a cera, cm 30x20, 2004]


XXIII ♦


Giovanni Iudice, Occidente [olio su tela, cm 56x66, 2014]


XXV ♦


Tino Signorini, Da via Monteverdi [tempera grassa su cartone, cm 45x40, 2007]


XXVII ♦


Enzo Nucci, Finestra sul Mediterraneo [olio su tela, cm 62x80, 2010]


XXIX ♦


Aldo Pecoraino, Vaso con fiori [olio su tela, cm 60x45, 1970]


XXXI ♦


Aldo Pecoraino, Donna mediterranea [olio su tela, cm 120x100, 2008]


XXXIII ♦


Salvatore Caputo, Mediterraneo lunare [olio e acrilico su tela, cm 50x70, 2013]


XXXV ♦


Francesca di Carpinello, Paesaggio madonita [olio su tela, cm 120x70, 2013]


XXXVII ♦


Liliana Conti Cammarata, Corteo degli animali [disegno acquarellato, cm 170x350, 1990]


XXXIX ♦


Gigi Martorelli, Composizione [olio su tela, cm 70x100, 1964]


XLI ♦


Maurilio Catalano, Barchette [acrilico su tela, cm 89x118, 1985]


XLIII ♦


Nino Cordio (1937-2000), Pesce rosso [acquaforte, cm 30x35, 1965] Piero Guccione, Il cipresso di Taormina; Paesaggio [acquaforte acquatinta, cm 43x33,5; cm 43x30,5, 2000]


XLV ♦



NOTE 1

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La Vucciria, la natura morta ‘Vaso con fiori’: C’est n’est pas tout, e la Strada sono rispettivamente inventariati ai nn. 2271, 675 e 660. Le indicazioni inventariali e le ubicazioni delle opere sono fornite dall’Area Patrimoniale e Negoziale (Area 6) e Sistema Museale (UOA12) dell’Università degli Studi di Palermo. La prima versione di questo saggio appare nel volume, a mia cura, Organismi. Il Sistema Museale dell’Università di Palermo, Plumelia edizioni, Bagheria - Palermo 2012 (pref. Roberto Lagalla, Magnifico Rettore), pp. 186-211. Filippo de Pisis, Il Marchesino Pittore, Longanesi, Milano 1969. Luigi Filippo Tibertelli de Pisis, nasce a Ferrara l’11 maggio del 1896 e muore a Milano il 2 di aprile del 1956. Formazione scolastica privata, disegna dal 1904 sotto la guida di Odoardo Domenichini, scomparso nel 1943. Conseguita la licenza ginnasiale a Cento, si dedica alla entomologia (1911). Nel 1914 consegue la licenza liceale, disegna, dipinge ampliando i suoi orizzonti letterari. Entrato in contatto con Corrado Govoni, con Giorgio De Chirico e il fratello Alberto Savinio, scrive a Villa Pallavicini, presso Bologna, i Canti della Croara (Bresciani, 1916) dedicati a Pascoli e che vedranno luce a Ferrara con la prefazione di Govoni. A Venezia, chiamato per sottoporsi alla visita militare viene internato, e poi riformato per “nevrastenia”. Si intensificano i rapporti con De Chirico che lo ritrae; poi contatti amichevoli ed epistolari con Soffici, Tzara, Morandi. Nel 1919 conosce Cardarelli, Marinetti e Giovanni Comisso con il quale consoliderà un

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forte sodalizio intellettuale. Del 1920 è la prima personale da Bragaglia a Roma, città dove si trasferisce; scrive il diario, Vert-Vert, e, dalla sua ‘camera incantata’ di via Monserrato, matura incontri con Verga, De Chirico, Prampolini, Evola, Dottori. Partecipa alla III Biennale romana con Donghi e De Chirico. Si reca a Parigi ed inizia a scrivere il romanzo autobiografico Il marchesino pittore. Dopo partecipazioni espositive a Milano, a Parigi, è invitato alla XVII Biennale di Venezia ordinata da Mario Tozzi (introduzione di Waldemar George). Dal 1931 al 1939 presenze a Roma (I e II Quadriennale, 1931, 1935) e Venezia; Scheiwiller gli pubblica una monografia con un saggio di Sergio Solmi. Dopo la presenza alla XX Biennale veneziana (1936), nel 1938 espone a Palermo nel neogotico palazzo Forcella-De Seta che, dal 1937 al 1940, fu sede della galleria “Mediterranea” diretta da Lia Pasqualino Noto. Nel 1941 stabilisce a Milano contatti col gruppo di «Corrente»; incontri assidui con Marino Moretti, Leonardo Sinisgalli, un giovane Guttuso, Domenico Cantatore, Orfeo Tamburi. Nel 1942 Vallecchi pubblica le sue Poesie e gli viene affidata una sala alla XXIII Biennale di Venezia. Eugenio Montale dedica una pagina sulla sua poesia su «Il Tempo». Nel 1944 a Roma, per Palma Bucarelli, è alla Galleria d’Arte Moderna. Premio Marzotto alla XXVII Biennale di Venezia nel 1954. Nel 1956 si spegne, nell’abitazione del fratello Francesco, a Milano; nel mese di giugno retrospettiva alla Biennale veneziana curata da Umbro Apollonio e Marco Valsecchi. Filippo de Pisis, I miei fiori, in «Tempo», Milano, 22 febbraio 1940. Sulla passionalità botanica, oggi restituita all’attenzione, cfr. Paola Roncarati e Rossella Marcucci, Fi-

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lippo de Pisis, botanico flâneur. Un giovane tra erbe, ville, poesia, Leo Olschki, Firenze 2012. Ibid. Cfr. Martina de Luca, Gli ultimi anni tra Milano e Venezia, 1939-1956, pp. 143-146, in: De Pisis, dalle avanguardie al “diario”, Mazzotta, Milano 1993. In: Filippo de Pisis, Poesie, Vallecchi, Firenze 1942; cfr. anche le ‘poesie’ di de Pisis, con prefazione di Giovanni Raboni, Garzanti, Milano 2003. In: «Corriere della Sera», 1954, recensione di E. Montale alle Poesie di de Pisis,1953; cfr. anche i materiali della mostra:De Pisis e Montale. “Le occasioni” tra poesia e pittura, a cura di Paolo Campiglio, 2012. Si rimanda alla presentazione e ai sei acquarelli di Eugenio Montale a: Giuseppe Bongi, Amo l’estate, Vallecchi, Firenze 1968. Di Bongi (Firenze 1920-1968), dipintore d’erbe, fiori, uccelli, insetti, scrive Carlo Laurenzi: «Amava occultare i suoi quadri piuttosto che mostrarli, preferiva regalarli che venderli. I suoi quadri così circolavano in un ambiente quasi iniziatico», in: Enciclopedia dei pittori e scultori italiani del Novecento, “Il Quadrato”, Milano 1991. Francesco Meriano (Torino 1896-Kabul 1934), fonda e dirige il mensile «La Brigata», con Bino Binazzi a cui Ardengo Soffici, nei suoi Ricordi di vita artistica e letteraria (1965), assegnava le qualità di “nobiltà, bontà e poesia”. Il vasto epistolario di Meriano con molti protagonisti della cultura, soprattutto d’Oltralpe, ci consegna un’interessante geografia letteraria del tempo; abile curatore della propria immagine, futurista e interventista, è l’autore di Equatore notturno (1916) e Parole in libertà, e dell’antologia di poeti belgi Anime fiamminghe (1915).

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Cfr. la prefazione di Laura Barile in: Eugenio Montale, Lettere e poesie a Bianca e Francesco Messina, Libri Scheiwiller, Milano 1995. p. 9. Enzo Dematté (a cura di), Trecento lettere di Giovanni Comisso a Maria e Natale Mazzolà, 1925-1968, Editrice Trevigiana, Treviso 1972. In: Antonio Aniante, Memorie di Francia, Sansoni, Firenze 1973, p. 59. Cfr. anche, per il riferimento a Comisso, la recente edizione di: Giovanni Comisso, Mio sodalizio con De Pisis, Neri Pozza, Vicenza 2010; qui l’atmosfera parigina, descritta da de Pisis, in una lettera del 2 maggio 1931, è dipinta come una «giornata di pioggia e di cielo plumbeo e cianotico», p. 66. Cfr. Il Marchesino Pittore, cit. p. 183. Renato Barilli, L’arte di de Pisis: collezione e montaggio, in: De Pisis…, cit., p. 23. Emilio Cecchi, Corse al trotto e altre cose, Sansoni, Firenze 1952, p. 140. Mario Gozzano (1898-1986), professore dell’Ateneo bolognese nella Clinica delle malattie nervose e mentali; direttore dell’Istituto dal I dicembre 1941 (Facoltà di Medicina e Chirurgia di Bologna; www.archiviostorico.unibo.it) Ottone Rosai nasce a Firenze nel 1895. Frequenta con scarso successo l’Accademia di Belle Arti fino a farsi espellere. Stringe amicizia con Giovanni Papini, Ardengo Soffici, intellettuali legati alla rivista la «Voce» di Prezzolini, quella vivace intelligenza, ricorda lo stesso Soffici in “Nascita della Voce”, che «aveva avuto l’idea di fondare una rivista di viva cultura per il rinnovamento spirituale dell’Italia». Dal futurismo marinettiano al cubismo, alle ideologie del primo fascismo, s’impegna anche nella bottega di stipettaio del padre

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morto suicida. La sua pittura, più avanti, si consolida nella visione classicista di un Le rappel a l’ordre, in quello scenario caro a «Valori Plastici» che ruotava attorno alla rivista di Mario Broglio, in una bilanciata mescolanza tra estetica classica toscana, e, come più volte rilevato, spettro cromatico dell’impressionismo cézanniano. Assume, così, interesse la visione antropologica della quotidianità, il rilievo pittorico di umili esistenze. In conflitto ideale con le dinamiche politiche del tempo, fino alle ostilità successive con gli oppositori al fascismo, e, non ultimo, il subire ingiuriosi atteggiamenti omofobici, consolidano e maturano nell’artista una psicologia votata al pessimismo. La personale del 1932, nel fiorentino Palazzo Ferroni, consacra il suo percorso pittorico e l’irraggiamento delle sue presenze in molte sedi italiane ed europee. Partecipa alla II Quadriennale romana del 1935; aderisce, agli inizi degli anni Cinquanta, alla ‘Collezione Verzocchi’ (Forlì), e, nel 1956, la Biennale veneziana dedica una ‘retrospettiva’ al suo itinerario creativo. Soltanto l’anno dopo, nel 1957, muore, a 62 anni, ad Ivrea mentre era impegnato ad allestire una mostra al Centro Culturale Olivetti. Tra le sue opere letterarie vanno ricordate: il vibrante diario di un interventista, Il libro di un teppista (Firenze1920), la raccolta di liriche Via Toscanella (con pref. di A. Soffici, Firenze 1932. Si veda, a tal proposito il quadro Via Toscanella del 1922), le esperienze di trincea Dentro la guerra (Roma 1934), Vecchio Autoritratto (Firenze1951) e, postumo del 1974, Lettere (1914-1957). Fu redattore de «Il Selvaggio», «Il Bargello», «L’Universale». Su Rosai si vedano: S. Volta, Ottone Rosai, (a cura di G. Scheiwiller), Milano 1932; M. Tinti, Ottone Rosai o della tradizione toscana, in «Emporium», marzo 1935; A. Gatto, Ottone Rosai pittore, Firenze

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1941; R. Franchi, Ottone Rosai, Milano 1942; A. Parronchi, Ottone Rosai, Firenze 1947; A. Parronchi, Preistoria di Rosai (1911-1919), in «Paragone», n. 25, genn. 1952, pp. 31-40; Gli amici di Rosai, (prefaz. di Francesco Rosai e scritti di autori varî), Firenze 1957; P. C. Santini, Ottone Rosai (catalogo della mostra al Centro Culturale Olivetti), Ivrea 1957. L’opera fa parte della Collezione dell’Assemblea Regionale Siciliana (inv. 483/2). Cfr. il mio: A zonzo per un quadernetto pittorico novecentesco. Appunti da un Inventario, pp. 269-274. In: Piero Longo, La cultura figurativa nel Palazzo Reale di Palermo. Le pitture murali e la quadreria, ARS, Palermo 2012. Giovanni Omiccioli (Roma 1901-1975), esponente della ‘Scuola Romana’ (1928) si lega d’amicizia con Mario Mafai, Antonietta Raphael e Scipione (Gino Bonichi), firmando dopo la Liberazione, per sua sensibilità alla partecipazione politica, con Guttuso e Mafai, la prima testata dell’«Unità». Intensa la sua partecipazione, su invito, a mostre di grande prestigio (Quadriennali romane, 1955, 1959, 1966; Biennali di Venezia, 1952, 1954, 1956; VIII Biennale d’Arte Sacra di Bologna, 1959; VI Biennale di Roma, 1968). Fu sempre fedele ad una figurazione attenta a modulazioni tonali mosse, con trasporto, dalle nature morte (esemplare la mostra romana, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Orto suburbano) ai temi realistici più impegnati (Partigiani impiccati; I fucilati della Storta). Cfr. G. Bassani, Omiccioli, Roma 1952, (Inv. n. 676). Vincenzo Udine (Palermo 1898-1981). Cfr. V.U. al “Circolo della Stampa”, Palermo 1969 [Cinegiornale- Cinecittà Luce, 1969]; V.U., “Una vita per l’arte”, retrospettiva al Palazzo Reale di Palermo, ‘Fondazione Federico II’, 2010. L’opera Tramonto sul mare al n. d’inventario 631, Paesaggio al n. 640.

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Sebastiano Milluzzo (Catania 1915-2011). Affascinato in gioventù dai valori plastici e decorativi, viene introdotto all’arte da Santi Cacciaguerra, un allievo di Domenico Morello. Nel 1936 registriamo la sua presenza a Roma dove frequenta la Scuola libera del Nudo, diplomandosi, nel 1939, al Liceo Artistico, e intraprendendo, subito dopo, l’attività didattica. Grafico e scenografo, fonda e dirige, negli anni Sessanta, la rivista «Sicilia Arte». È presente, oltre alle molteplici personali allestite nel lungo arco della sua attività pittorica e direttore artistico del suo centro ‘Galleria Sicilia Arte’ (1956), alla Biennale di Venezia nel 1948, alla IV e VI Quadriennale romana. L’opera Vaso con fiori N. 1 è inventariata col n. 690. Cfr. Giuseppe Frazzetto, Solitari come le nuvole. Arte e Artisti in Sicilia nel ’900, Maimone, Catania 1988; Id., Sebastiano Milluzzo. Opere 1938-1996, Maimone, Catania 1996. Nino Garajo (Bagheria 1918-1977), inizia ad esporre nel 1937. Nel 1939 e nel 1942 partecipa alla IX e XI Mostra Sindacale di Palermo. Partito per il fronte trascorre il periodo bellico tra Verona e Trento. Tornato a Palermo si laurea e fonda, con il poeta Ignazio Buttitta e Paolo Ajello, la Camera del Lavoro di Bagheria. Nel 1951 è in Abruzzo, poi, nel 1954, si trasferisce a Roma. Partecipa all’VIII Quadriennale romana; Personale alla ‘Galleria Flaccovio’ di Palermo curata da Franco Grasso, e, nel 1964, la Personale romana, presentata da Guttuso, alla ‘Galleria del Vantaggio’ che registrò un vistoso insuccesso, e nello stesso anno, a Napoli, alla ‘Galleria San Giacomo’. Nel 1971 è presente alla ‘Galleria Mediterraea’ di Palermo con interventi di Elio Mercuri, Renato Guttuso e Dacia Maraini. Muore, a 59 anni, a Roma. Le opere, Pentola con papaveri e margherite

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e Vaso con papaveri sono rispettivamente inventariate ai nn. 691 e 693. Cfr. Dora Favatella Lo Cascio (a cura di), Garajo, Falcone Editore, Bagheria 2005. Cfr. Aldo Gerbino (a cura di), L’Isola dipinta. Sicilia cinquant’anni di natura e paesaggio 1948-1998. Catalogo Mostra Roma, Palazzo del Vittoriano, 18 aprile-12 maggio 1998, Fratelli Palombi Editori, Roma 1998. Gianbecchina (Giovanni Becchina, Sambuca di Sicilia, Agrigento 1909-Palermo 2001). Giovanissimo decoratore autodidatta (Agrumi, 1928), sarà in seguito ammesso all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Trasferitosi, prima a Roma e poi a Milano, consuma tra gli anni 1934 e 1939 il suo apprendistato e la sua formazione intellettuale. L’incontro con il corleonese pittore futurista Pippo Rizzo, il sodalizio con Guttuso e Pizzinato, la frequentazione dell’Accademia di Belle Arti di Roma diretta da Umberto Coromaldi, maturano la sua sensibilità pittorica; al termine del 1939 ottiene una borsa di studio per Palermo e intraprende un viaggio alla volta di Milano. Nel capoluogo lombardo, in via del Guercino 8, con gli scultori Tarantino, Nando e Pierluca, avviene l’incontro con Beniamino Joppolo, e tutto il clima in cui aveva preso sviluppo «Corrente», la rivista già fondata come «Vita giovanile», da Ernesto Treccani (Salvatore Quasimodo, Giuseppe Migneco, Arnaldo Badodi, Raffaele De Grada, Renato Birolli, Giansiro Ferrata, Carlo Bo, Mario Luzi, Luciano Anceschi, Piero Bigongiari ed altri). Per Raffaele De Grada l’anno di nascita di Gianbecchina, come pittore, va considerato il 1930, con il suo quadro Concertino in piazza, avvicinando la sua giovane pittura all’estetica di un Birolli: «Una terrazza con figure nude intorno a un pianoforte, mentre le note si diffondono verso gli scogli e il ri-

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suonante mare di Isola delle Femmine. Gianbecchina disegna con il colore, con una bella pittura pastosa, di tradizione post-impressionista, completamente fuori dai pericoli dell’illustrazione». Marco Valsecchi rilevava (1963) come grazie alla «molteplicità delle intenzioni che animarono, fin dal principio, le giovani personalità degli artisti che vi confluirono, Corrente [per la sua opposizione alla retorica de Novecentismo] non fu una teoria, un manifesto, un codice estetico, ma un moto appassionato dell’intelligenza e dell’insoddisfazione morale». Tornato a Palermo (insegna, grazie all’aiuto di Pippo Rizzo, al Liceo palermitano), condivide le idee di rinnovamento promosse dal “Gruppo dei Quattro” (Renato Guttuso, Giovanni La Barbera, Lia Pasqualino Noto, Nino Franchina); partecipa, nel 1938, alla XXI Biennale d’Arte contemporanea di Venezia (nel 1954, alla rassegna veneziana, sarà presente con l’opera La zolfara che conquisterà il premio “Bevilacqua-La Masa). Il suo lungo percorso artistico espresso in una ricchezza di opere singole o raccolte in cicli (“Ciclo del pane”), si impone con: Aratura, Raccolta, Vaglio, Impastata, e poi la serie degli Amanti (1967-1969), la Mattanza (1973-1975), L’età della falce (1976), Le déjeuner sur l’herbe (1977), La gola delle aquile (1988). Muore a Palermo all’età di 92 anni. Cfr. Aldo Gerbino, Gianbecchina: percorsi figurativi e astratte emozioni, pp. 158-161, in Id., La corruzione e l’ombra, civiltà figurativa siciliana, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1990. Cfr. il mio Gianbecchina, cronologia critica, in Terra, creta e mani, ARS/Istituzione Gianbecchina, Palermo 1999, pp. 44-46. Joaquín Vaquero Palacios (Oviedo 1900-Madrid 1998),

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architetto (si laurea a Madrid nel 1927 alla “Scuola di Architettura”), pittore e scultore, subisce il fascino del paesaggio e della monumentalità architettonica. Dalla visione del paesaggio «segnato dal registro impressionistico francese» (Francisco Egaña Casariego) allo studio dei monumenti in rovina, è a Roma nel 1950, pronto «a catturare l’imponenza dei monumenti architettonici in rovina». Come inventore di staccabili edifici in legno di Vaqlan (1933) si ricordano: il Mercato alimentare di Santiago di Compostela, il Padiglione spagnolo della Biennale di Venezia del 1952, l’Idroelettrico Cantabrico del 1964. Inventariato al n. 674. Renato Guttuso (Bagheria 26 dicembre 1911/all’anagrafe, Palermo 2 gennaio 1912-Roma 1987), nato nell’Italia giolittiana, nipote di un garibaldino e di un padre anticlericale, sin da fanciullo, subisce il fascino del colore e della pulsione creativa insita nel chimismo stesso della partitura cromatica. Questo figlio dell’agrimensore Gioacchino e di Giuseppina D’Amico sarà un protagonista del realismo italiano, interlocutore del Novecento europeo, agitatore e propugnatore d’una pittura votata all’ascolto e alla visione della realtà sociale circostante. Frequenta lo studio del pittore Domenico Quattrociocchi (1872-1941), l’allievo di Francesco Lojacono e Salvatore Marchesi, e le botteghe dei pittori di carretti (Emilio Murdolo per poi, negli anni, stringere amicizia con i fratelli Ducato). «Tra me e i carretti [– racconta Guttuso – in una intervista trascritta da Mario Farinella nel 1971– ] c’è di mezzo molta falsa letteratura. Mi piaceva sostare nella bottega di Murdolo, vederlo lavorare. Io ho cercato sempre una pittura molto comunicativa, a tinte forti perché in Sicilia la luce è così forte

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che brucia i colori. Se li vuoi far vedere, li devi rinforzare. La pietra gialla dell’Aspra, la terra rossa, il giallo dei limoni, ecco i colori che mi sono rimasti nel sangue, nel sentimento.» Si dà alla copiatura dei grandi maestri, e presto, seguendo studi liceali a Palermo, segue con assiduità lo studio e il lavoro del pittore futurista Pippo Rizzo. È il 1929 quando partecipa alla sua prima collettiva (II Mostra del Sindacato Provinciale degli Artisti al foyer del Teatro Massimo) con un futuristico ritratto su cartone del poeta Giacomo Giardina; seguendo in apparenza studi di giurisprudenza si dedica alla pittura. Negli anni Trenta partecipa alla I Quadriennale romana (1931) con Donna alla fontana e Cavallo al mare, l’edizione che registra la presenza di Carlo Levi nella sala XIX. Fa ritorno in Sicilia «ero iscritto alla facoltà di legge, ma non ci misi mai piede; frequentavo, invece, le lezioni di filosofia di Fazio-Allmayer e quelle di Natalino Sapegno, allora professore di prima nomina a Palermo e intanto mi ero legato di amicizia con la famiglia Pasqualino e con i Lombroso che il fascismo aveva mandato per punizione in Sicilia, dopo il loro rifiuto di prestar giuramento al regime… ». Apre studio a Palermo, in corso Pisani, con quegli amici artisti con cui costituirà il “Gruppo dei Quattro” (Lia Pasqualino Noto, e gli scultori Barbera e Franchina). A Milano fa parte del movimento di «Corrente». Egli stesso afferma (1971): «Fu però a Milano che presi i primi contatti politici veri e propri con gruppi del PSI da una parte e dall’altra con la mia adesione al gruppo di “Corrente”, punto di incontro dei giovani artisti e critici più impegnati contro la degenerazione politica e artistica di allora: da Cassinari a Migneco, a Birolli a Sassu, da Treccani a De Grada, da

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Morosini a De Micheli. Eravamo presi come da una febbre di sapere, di apprendere; le nostre letture erano confuse, caotiche, ma esaltanti. Leggevamo Lenin e Malraux, Kafka e Faulkner, Labriola e Thomas Mann. E, inoltre, era l’azione stessa a chiarirci il senso della nostra rivolta. Da Milano a Roma, da Roma a Palermo: si conoscevano gli operai, i compagni. Zevi, Antonio Amendola, Alicata, Trombadori, Ingrao, Socrate, li conobbi e li avvicinai nel corso dei littoriali del ’37 a Napoli che si trasformarono, praticamente, in un vero e proprio congresso della gioventù comunista. Viaggiavo in terza classe, nei traghetti sempre con un tanfo di agrumi marci addosso, con la gente che si vomitava. Erano viaggi estenuanti, compensati però da incontri decisivi, da esperienze entusiasmanti. A Milano conobbi Vittorini e abitammo per due stagioni nella stessa pensioncina, a Bocca di Magra: lui, allora, era un corriere del PCI, viaggiava con la valigia piena di manifesti e di stampa clandestina, correva l’Italia e scriveva Conversazione in Sicilia. Fu sulla scia di quel libro rivoluzionario e riecheggiante il titolo, che dipinsi la mia Fucilazione in campagna dedicato alla morte di García Lorca, ucciso in quegli anni dai fascisti spagnoli.» Molte delle sue opere hanno segnato consistenti approdi di riflessione artistica (da “Corrente” al “Nuovo Fronte delle Arti” al “Nuovo Realismo”), umana e sociale: dalla Fuga dall’Etna (1937) alla Crocifissione (1940-’41), dalla Natura morta con drappo rosso al Gott Mit Uns al ciclo delle Occupazioni delle terre incolte alla Strage di Portella delle Ginestre, dagli Zolfatari alla Battaglia del Ponte Ammiraglio a La spiaggia (XXVIII Biennale di Venezia). Poi: dal ciclo dell’Autobiografia (1966) a I funerali di Togliatti (1971) alla notissima

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La Vucciria (1974) a Spes contra spem (1982). Muore a Roma nel 1987; il suo corpo è tumulato nel giardino di Villa Cattolica a Bagheria, dove è allogato il museo ‘Guttuso’ d’arte contemporanea, nella tomba realizzata dallo scultore Giacomo Manzù. Cfr. Elio Vittorini, Guttuso, Edizioni del Milione, Milano 1960; Costanzo Costantini, Ritratto di Renato Guttuso, Camunia, Brescia-Milano 1985; Leonardo Coen, Leo Sisti, La morte del Maestro, i misteri di casa Guttuso, Mondadori, Milano 1987; Aldo Gerbino,“ La morte della mula” come primissimo Guttuso, in Id. La corruzione e l’ombra, Sciascia, CaltanissettaRoma 1990, pp. 191-204; Renato Guttuso, Discorsi di gioventù, Introduzione di Franco Grasso, Nuova Editrice Meridionale, Palermo 1990; Pasquale Hamel, Il romanzo di Guttuso, Marsilio, Venezia 2003; Fabio Carapezza Guttuso, Dora Favatella Lo Cascio (a cura di), Renato Guttuso dal Fronte Nuovo all’Autobiografia 1946-1966, Falcone Editore, Bagheria, 2003. Per il Centenario della nascita cfr cat. Guttuso1912-2012, a cura di Fabio Carapezza Guttuso ed Enrico Crispolti, Roma, Complesso del Vittoriano (12 ottobre 2012-10 febbraio 2013). Cfr. anche il recente: Renato Guttuso, Scritti, a cura di Marco Carapezza, Bompiani, Milano 2013. Cfr. Aldo Gerbino (a cura di), Con serietà e modestia. Da Guttuso a Castrense Civello. Un manipolo di lettere 19411977, (con una testimonianza di Maria Civello), Plumelia Edizioni, Bagheria, Palermo (in stampa). Rosario Scaduto (a cura di), Renato Guttuso. Celebrazioni per il centenario della nascita 1911-2011, Falcone Editore, Bagheria 2011. Con serietà… cit.

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Ibidem. Elio Vittorini, Storia di Renato Guttuso, Edizioni del Milione, Milano, 1960. Vittorio Sgarbi, Il punto di vista del cavallo. Caravaggio, Bombiani, Milano 2014, p. 25. Vittorini, op. cit. p. 12. Rosario La Duca, I mercati di Palermo, Sellerio, Palermo 2011. Goffredo Parise, Un quadro di Renato Guttuso. L’Italia com’è, «Corriere della Sera», 9 febbraio 1975. Parise poeta, a cura di Maurizio Cucchi, in Almanacco dello Specchio 2010-2011, Mondadori, Milano 2011, p. 18. Cfr. Fabio Carapezza Guttuso, Storia di un quadro, in Andrea Camilleri, La Vucciria, Renato Guttuso, Skira, Milano 2011. A. Segala, Guttuso. Io dipingo nell’ora della tigre. Intervista a Renato Guttuso. «Epoca», 4 marzo 1983. Cesare Brandi, Dall’apparenza all’immagine, in Guttuso, Milano 1983. Sul tema della ‘solidità’ si veda il film di Giancarlo Bocchi, La vita è arte, 2001. Sergio Ceccotti (Roma 1935). Frequenta i corsi di Oskar Kokoschka a Salisburgo (1956, 1957) e i corsi di disegno all’Accademia di Francia (Roma, 1956-1961). Inizia ad esporre dal 1960. È presente alla III, V, VI Quadriennale romana, alla IV Biennale Internazionale della Grafica d’Arte. Sue personali a: Milano, Genova, Monaco, Roma, Palermo, Ancona, Napoli, Firenze, Terni, Pescara, Bruxelles, New York, Uppsala, Tarascon. Sue mostre personali ad Arezzo, alla Galleria Comunale d’Arte Contemporanea, e, nel 1993, ad Uppsala, al Upplands Konstmuseum. Fre-

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quenti le sue mostre parigine, alle gallerie: Liliane François (1977, 1979), Artcurial (1982), Jan de Maere & Ozenne (1988), Th. Montparnasse (1989), Alain Blondel (1990, 1992, 2000). A Roma, dagli anni Sessanta, dalla Galleria Hermes alla Nuova Pesa, dal Polittico al Maniero. Presente alla XI, XIII Quadriennale romana, al Salon de la Jeune Peinture, Paris (dal 1971 al 1983), a Comparaison, Paris (dal 1976 al 1998), Biennale di Venezia-Padiglione Italia 2011. Cfr. P. Roegiers, Sergio Ceccotti, éditions Galerie Jan de Maere, Bruxelles, 1986; Ph. Soupault (preface), Sergio Ceccotti. L’insolito quotidiano, Valori Plastici, Roma 1980; Edward Lucie-Smith, Sergio Ceccotti, Lachenal & Ritter, Paris 2000; Aldo Gerbino, Temporalità e “musique du temps”, in “Plumelia”, Bagheria, Palermo 2005, pp. 167169. Del ‘gruppo’ cfr. Alberto Abate, Genny di Bèrt (a cura di), Imaginal Realism (Alberto Abate, Ubaldo Bartolini, Carlo Bertocci, Paolo Borghi, Sergio Ceccotti, Nino Panarello, Franco Piruca, Lily Salvo), Cinn Worldwide, New York, s.d. Cfr. quanto scritto in prefazione alla mostra Chiaroveggenti a Roma da Guglielmo Gigliotti, Galleria Maniero, Roma 2012. Riferimento al mio testo per la mostra Lumières. Dolci malinconie, Galleria Ellearte, Palermo febbraio 2014. Cfr. il recente catalogo: Sergio Ceccotti. La vita enigmistica, a cura di Cesare Biasini Selvaggi, Carlo Cambi editore, Poggibonzi 2014. Pedro Cano (Blanca, Murcia, Spagna 1944). Frequenta a Madrid la Scuola di Belle Arti di San Fernando (1964) guidato da Antonio Lòpez, esponente del Realismo, dall’espressionismo di Juan Barjola e dal paesaggista Raphael

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Martínez Díaz. È in Italia nel 1968, vincitore del “Prix de Rome” nella romana Accademia di Spagna. Il 1972 è l’anno della sua prima personale a Murcia, poi si stabilisce ad Anguillara Sabazia sul Lago di Bracciano. Alla Galleria Giulia espone le sue opere; viaggiatore instancabile trae dai suoi itinerari in America latina l’interessante Giornale di viaggio. Negli anni Ottanta, con la regia di Maurizio Scaparro, elabora le scenografie per il Galileo Galilei di Brecht e i costumi per le Memorie di Adriano della Yourcenar (Teatro di Roma). Trascorre (dal 1984) cinque anni a New York esponendo a Dallas, Toronto, New York, Los Angeles; poi in Italia, in Spagna, in Brasile. Tra le sue importanti rassegne espositive: Ad Portas (Museo delle Mura di Roma); Dubita un filo d’oro (Palazzo Reale, Palermo); Identità in transito (Terme di Diocleziano, Roma; Palazzo Vecchio, Firenze; Santi Esteban, Murcia; Museo del Carmen, Valencia); IX Mediterranei (Museo del Teatro Romano, Cartagena; Museo dei Fori Imperiali, Roma; Spazi Bomben Fondazione Benetton, Treviso). È presente in diversi percorsi museali (Musei Vaticani; Autoritratto al ‘corridoio vasariano’ della Galleria degli Uffizi, Firenze). La Fondazione Pedro Cano, in Blanca, raccoglie oltre duemila lavori dell’artista spagnolo. Cfr. catalogo Limones y lirios, testi di Aldo Gerbino e Piero Longo, elle/edizioni (Astra), Palermo, ottobre 2013, pp. 3-5. Ercole Pignatelli (Lecce, 1935), ha frequentato l’Istituto d’Arte « Giuseppe Pellegrino » di Lecce, per poi, abbandonata la scuola, iniziare la sua esperienza milanese incoraggiato da Raffaele Carrieri. Sue opere sono in permanenza al Museo Fukuyama Art, Fukuyama (Giap-

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pone), Castello Sforzesco, Milano, al Castello Carlo V di Lecce, al Museo d’Arte Kamakura (Giappone), alla Galleria d’Arte moderna e contemporanea di Lecce, al J. Paul Leonard Biblioteca di San Francisco (Stati Uniti). Dal 1953 sue personali :a New York, Shanghai, Washington, Saint-Paul de Vence, Londra, Palm Beach, Bruxelles, Antibes, San Francisco. Presente alla XXXVIII Biennale veneziana del 1978, attivo in Italia presente con continue e qualificate personali a rappresentare l’evoluzione del suo mediterraneo progetto creativo. Cfr. Aldo Gerbino, Ercole Pignatelli, Suono, sogno del corpo, Edizioni Centro d’Arte Mercurio, Milano 2005; lo stesso in: Ercole Pignatelli, a cura di Alessandro Riva, Charta, Milano 2005, pp. 190-191. Giovanni Iudice (Gela, Caltanissetta 1970), autodidatta, rivolge la sua attenzione alla dimensione storica dell’evoluzione pittorica, al parlar diretto della fotografia, alle incognite proposte dalla realtà. Tra le sue personali: Ragusa, Acqui Terme, Milano, Spoleto. È presente, con l’opera Cava Paradiso (1999), alla rassegna “Arte Italiana 19682007” (Palazzo Reale, Milano 2007, a cura di Vittorio Sgarbi), alla Biennale di Venezia del 2011 (“Padiglione Italia”) e ad “Artisti di Sicilia. Da Pirandello a Iudice”, a cura di Vittorio Sgarbi, Palermo, 2014. Da Salvatore Quasimodo, “A un poeta nemico” in Epigrammi. Duilio Zanfirescu, dalla introduzione di Agnese Silvestri Giorgi a La vita in campagna, UTET 1932, p. 12. Tino Signorini (Tripoli, Libia 1933), inizia a disegnare e a dipingere da autodidatta. Stabilitosi nel 1946 definitivamente a Palermo, dopo peregrinazioni che lo hanno por-

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tato dalla Libia a Fano, a Trieste, insegna nel palermitano Liceo Artistico fino al 1994. Dedicatosi in prevalenza alla ricerca grafica, già notato e incoraggiato da Renzo Vespignani, affina la tecnica del conté. Numerose le personali nazionali dal 1963 ad oggi (Caltanissetta, Bologna, Palermo, Marsala, Sciacca, Agrigento, Ascoli Piceno). Rassegne collettive in Lussemburgo, Svezia, Polonia, Germania, Israele, Tunisia. Cfr. Catalogo elle/edizioni, La città di notte, Palermo, dicembre 2013 Enzo Nucci (Sciacca 1944). Compie i suoi studi presso l’Istituto Statale di Palermo e l’Accademia di Belle Arti di Agrigento. Dopo aver insegnato tecniche murali si dedica totalmente alla pittura. Espone, dal 1960, in varie città italiane (Reggio Calabria, Palermo, Brescia, Teramo, Ravenna, Cagliari, Roma, Ravenna, Imola, Verona, Padova, Ragusa, Pescara, Salerno, Lanciano) esprimendosi su tematiche sociali. Dal 1980 si dedica al paesaggio siciliano. Nel 1989 è invitato alla XXXI Biennale Nazionale d’Arte Città di Milano, al Palazzo della Permanente. Nel 1991 conosce Philippe Daverio che lo invita ad esporre alla rassegna d’arte “Anni Ottanta in Italia” (ex Convento di Sciacca) e ad una personale milanese. Nel 1994 Marco Goldin organizza l’antologica “Vincenzo Nucci, opere 1981-1994” (Palazzo Sarcinelli, Conegliano). Nel 1998 è invitato alla rassegna “L’Isola dipinta. Il paesaggio siciliano 1948-1998”, a cura di Aldo Gerbino, allestita al Vittoriano di Roma. Ancora a Palazzo Sarcinelli partecipa alla rassegna “Da Fattori a Burri. Roberto Tassi e i pittori”, e, sempre nello stesso luogo, nel 1999, alla rassegna “Elogio del pastello. Da Morlotti a Guccione”. Sempre nel 1999, alla

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Casa dei Carraresi (Treviso), l’antologica “Pastelli 19811999” con testi di Marco Goldin ed Enzo Siciliano. Nel 2003-2004 l’Antologica palermitana alla Provincia regionale-Loggiato San Bartolomeo: “Nucci. Opere 19812003”, testo di Aldo Gerbino. Nel 2007 è a Milano nella mostra curata da Vittorio Sgarbi “Arte Italiana, 19682007, Pittura”; nel 2011 partecipa alla 54° Biennale di Venezia, Padiglione Italia, e, nel 2014, “Artisti di Sicilia” a cura di Vittorio Sgarbi “Palazzo Sant’Elia, Palermo. Cfr. Aldo Gerbino (a cura di), Nel corpo, nel paesaggio. Quindici artisti per l’Accademia delle Scienze Mediche, (con testi di Alfredo Salerno, Maria Concetta Di Natale), Plumelia Edizioni, Bagheria - Palermo 2008. Maria Poma Basile, in Artisti di Sicilia a cura di Franco Grasso, edizioni «Il Punto», Palermo 1969, p. 104. Aldo Pecoraino (Palermo 1927). Conseguita la maturità artistica, negli anni Cinquanta si affida alle indicazioni dei suoi maestri, da Bernardo Balistreri, abile modellatore, a Eustachio Catalano a Michele Dixit. Il 1951 segna la sua prima partecipazione artistica (Roma, ‘Palazzo Venezia’); si diploma all’Accademia di Belle Arti con Pippo Rizzo. Docente all’Accademia di Belle arti di Palermo, tra le sue partecipazioni e personali vanno ricordate: Mostra Collettiva Internazionale delle Belle Arti (Brera, Milano 1953), Mostra Interprovinciale di Villa Whitaker (1955, con: Eustachio Catalano, Leo Castro, Sebastiano Milluzzo, Gianbecchina, Giovanni Varvaro, Alfonso Amorelli), prima personale alla Galleria Flaccovio, presentata da Franco Grasso (1956), Galleria Alibert (Roma 1956), Mostra Nazionale dell’Autoritratto (Milano 1957), III Premio “Alcide De Gasperi” (Palermo 1957), Festival del-

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l’Internazionale Giovanile d’Arte (Strasburgo 1958), “Junge Sizilianische Kùnstler” (Bonn 1958), “Pintores italianos” (Caracas 1959), Galleria Arte al Borgo (Palermo 1964, 1982, 1985), Galleria La Robinia (Palermo 1970, 1972), Galleria Sellerio (Palermo 1973), “Artisti siciliani dal 1925 al 1975. Cinquant’anni di ricerche” (Capo d’Orlando, Messina 1976), “Otto pittori siciliani” (Galleria Marino, Palermo 1981), Mostra Antologica (Civica Galleria d’Arte Moderna, Palermo 1989), “Il canto della sera” (Gibellina 1993), “In Arcadia” (Galleria Elle Arte, Palermo 2002). Cfr. Vittorio Fagone, Stanze della Via Dante: Aldo Pecoraino e gli amici dei Lolli, «L’Ora» 4 gennaio 1969; Michele Perriera, Quelle sere da Flaccovio, «L’Ora» 22-24 novembre 1962; Franco Grasso, L’arte tra le due guerre e il movimento realista, in Storia della Sicilia, X, Napoli 1981, pp. 231-232. Salvatore Caputo (Castell’Umberto 1947). Esordisce con una personale a Patti nel 1964; una pittura che Guttuso riconosce per quella «qualità dell’invenzione e il modo particolare di trattare il colore». Si trasferisce a Palermo dove si laurea in Architettura, intensificando la sua ricerca pittorica. Attratto dalle tecniche incisorie, distribuisce il suo impegno tra grafica e pittura, allestendo personali (Taormina, Roma, Palermo, Padova, Parigi) e partecipando a numerose rassegne collettive. È presente alla rassegna “L’Isola dipinta. Sicilia cinquant’anni di natura e paesaggio 1948-1998” (Roma, Vittoriano, 1998). Con la figlia Ilaria, scultrice, espone con “Tra sogni, miti e ricordi” a Palazzo Sant’Elia (Provincia regionale di Palermo), 2012 e, nel 2014 presenta il ciclo “Colori vissuti” promosso dal Centro Internazionale di Etnostoria.

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Francesca di Carpinello (Palermo 1931), formatasi artisticamente a Palermo, inizia la sua attività alla fine degli anni Cinquanta, ma sposta i suoi interessi anche a Roma. Ulteriori sue presenze a Taormina, Catania, Sciacca, Firenze, Lucca, Venezia, Milano, Assisi, Malta. Interessante la sua attività di illustratrice: La Baronessa di Carini e Immagini del Gattopardo (pres. Gioacchino Lanza Tomasi); Il mito della Tonnara (testi di Renato Guttuso e Gioacchino Lanza Tomasi); Omaggio alla Santuzza (testo di Salvatore Orilia); La supernova Sicilia e i Beati Paoli (testi di Massimo Ganci). Cfr. Franco Grasso (a cura di), Artisti di Sicilia, 1969, Il Punto, Palermo 1969; Maria Concetta Di Natale (a cura di), Palermo e San Martino delle Scale nel segno di Francesca di Carpinello, Bagheria-Palermo 2002. Liliana Conti Cammarata, nata a Caltanissetta, vive ed opera a Palermo. Segue i corsi di Belle Arti e completa i suoi studi alla Scuola Internazionale di Salisburgo, frequentando corsi di tecniche incisorie sperimentali e, con Luca Crippa, tecniche litografiche presso la Scuola Internazionale della Grafica di Venezia. Cfr. documentazione presso il National Museum of Women in the Arts, Washington. Gigi Martorelli (Palermo 1936). Dopo aver frequentato l’Istituto Nautico e conseguito, successivamente, il diploma di Maturità artistica, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Palermo, diplomandosi nel 1959, sotto la guida del suo maestro Pippo Rizzo. All’Accademia di Brera (1957) crea rapporti con Migneco, e si incontra, al Bar Giamaica, con artisti, intellettuali di varia estrazione, critici. Qui conosce Baj, Crippa, Manzoni, Dova, Purificato, Matta. Nel 1962 la galleria “Flaccovio” di Palermo ospita la sua prima personale. Insegna al Liceo Artistico

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della sua città (1962-1970), poi si trasferisce a Roma, per fare ritorno in Sicilia agli inizi degli anni Ottanta. Partecipazioni a collettive e personali (arricchite nell’ultimo decennio da antologiche): Palermo, Monreale, Maracajbo, Agrigento, Milano, Como, Viareggio, Trento, Firenze, Trabia, Marsala, Roma, Erice, Siracusa, Bagheria, Catania, Capo d’Orlando. Cfr. Giovanni Bonanno, Novecento in Sicilia, Serpotta, Palermo 1990, pp. 235-236. L’opera Composizione è inventariata col n. 694. Maurilio Catalano (Palermo 1942), ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo, e, dal 1963 dirige la galleria e stamperia “Arte al Borgo”. Premio ‘Ignazio Buttitta’ 2009, del suo lavoro si sono occupati: Leonardo Sciascia, Alfonso Gatto, Vittorio Frosini, Francesco Giunta. Personali: Palermo, Roma. Catania, Venezia, Glencoe (USA). Cfr. il mio Guccione: natura e segno, in Antonio Motta, Le cose impalpabili, Conversazione con Piero Guccione, Centro Documentazione Leonardo Sciascia-Archivio del Novecento, San Marco in Lamis 2012, pp. 43-49. Si veda la collettiva “Arte come eresia”, con testo di Rocco Ronchi; presenze: Bulzatti, Ferroni, Guarienti, Guccione, Kopp, Luino, Mattioli, G. Modica, R. Savinio, Tornabuoni, Riva. Cat. Edizioni Bandecchi & Vivaldi - Le Muse, 2014. Le acquaforti di Piero Guccione (Scicli 1935) Il cipresso di Taormina e “Paesaggio” (2000), accompagnano il volume Galileo Galilei (2001), n. di tiratura 25/125, ed. Il Cigno (Roma). L’acquaforte Pesce rosso, una Prova d’Artista dello scomparso maestro incisore Nino Cordio (Santa Ninfa 1937 Roma 2000), è inventariata col n. 6411.

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INDICE “Non è tutto”. Fiori, vita pag. De Pisis, Rosai, Omiccioli, Milluzzo, Garajo, Gianbecchina, Vaquero

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Frutta, ortaggi, corpi. I cristalli di Palermo Guttuso

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Per Musée imaginaire, per Lirios e Rabdomanti Ceccotti, Cano, Pignatelli

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Migrazioni per città, palmeti, e tiepidi notturni lunari Iudice, Signorini, Nucci, Pecoraino, Caputo, di Carpinello, Conti Cammarata, Martorelli, Catalano Flâneur per stampe Guccione, Cordio Catalogo

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Finito di stampare per conto delle Edizioni Plumelia (di A&P) nel mese di novembre 2014 presso le Officine Tipografiche Aiello & Provenzano Bagheria (Palermo)


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