Sa 115 maggio

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Nino Ciglio

r e c e n s i o n i

Management del Dolore PostOperatorio - McMao (Martelabel,2014) Genere: rock, art, indie, wave Dai tempi dell’esordio Mestruazioni – fanno ormai cinque anni – la band di Lanciano non si è evoluta granché, semmai sembra essersi concentrata a rendere sempre più tosto il tiro e riconoscibile la calligrafia, di per sé d’altronde già un bel mostriciattolo a base di punk rock abrasivo col vizietto wave/dance, frutto tardivo degli anni Zero, che all’imbronciamento generazionale d’un Vasco Brondi preferisce lo sdegno caustico di Zen Circus ed il disincanto senza appello d’un Paolo Zanardi, magari conditi con l’hybris chimica dei !!!. Cinque anni però non te li metti dietro le spalle come se niente fosse, c’è da fare i conti con la maturità, la stanchezza, l’esperienza, il logoramento delle intuizioni. Insomma: c’è da fare i conti. In questo senso l’opera terza McMao non si tira certo indietro. La formula viene riproposta e consolidata, il piglio è allo zenit, però forse le manca lo scatto in avanti decisivo, non c’è nulla cioè che nel sophomore Auff!! i MaDe DoPo non avessero affrontato con maggiore brillantezza e intensità. E’ buona Oggi chi sono, con quel modo svenevole di affrontare dandysmo decadente per material boys degli anni Dieci, così come quella Hanno ucciso un drogato che stempera gravità e voglia di riempire gli altoparlanti con soluzioni sonore più raffinate del solito (da qualche parte tra Notwist e Yuppie Flu, col fantasma di Rino Gaetano a mettere dita nel culo alla solennità). Niente male anche la cover di Fragole buone buone, che spennella di amarezza spigolosa e acidità sintetica la trepidazione sorniona dell’originale firmato Luca Carboni. Altrove, tuttavia, le tessere non vanno tutte a posto. In particolare, episodi come Il cantico delle fotografie e James Douglas Morrison sono buone idee che avrebbero meritato svi-

m a g g i o

ottovolante di suoni metropolitani da ascoltare in qualche block party clandestino, veloce, troppo veloce per essere goduto. Come un calcio in culo. Gli ospiti abbracciano i mondi delle sonorità dei Magellano: Raphael (personalità di spicco nel panorama reggae) accompagna il singolo Calci in culo, che fra Bomfunk MC’s e rime ossessivo-compulsive si addice (come forse consiglia la copertina) ad un clima da tagadà o autoscontro; meglio, a questo punto, la base jazzata e un po’ swing (che nel precedente Tutti a spasso faceva pensare a qualcosa dei Gorillaz) de Il terzo pezzo, con tutta la solita cascata di rime che solo Pernazza può concepire; così come cabarettistico e circense risulta essere il feat. della Swingalong Electro Arena in una ambigua e divertente Cerchi nel grano. Piccolo salto nel folk, con il kit del cantautore “indie”, scritto e redatto insieme a L’orso in La canzone dell’Okulele: fuori luogo è dir poco, ma per lo meno si ride. Forse i momenti migliori sono in apertura e in chiusura. Benvenuti/E se Einstein avesse ragione e Terminal, rispettivamente feat. Escobar e GnuQuartet, riescono a tradurre l’agitazione interiore in un mix veramente schizofrenico, in cui violini e melodie si scontrano con la finezza delle rime e l’ingenua (in senso buono) “tamarraggine” delle basi. Calci in culo alla fine diverte, malgrado si faccia non poca fatica ad arrivare alla fine senza schiacciare ogni tanto lo skip. Ciò non toglie che il passo indietro rispetto a Tutti a spasso rimane palpabile. Il primo era, infatti, un disco tenuto in qualche modo a bada dalla forma canzone (oltre che dall’idea del concept sul viaggio), questo Calci in culo raggiunge un’indomabilità che si fatica a concepire. 6/10

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