Sa 110 dicembre

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digital magazine | dicembre 2013 | n. 110

Un imponderabile classico


sommario tune in – p. 4  Loop   Fuck Buttons   These New Puritans  Retrovirus  Furtherset

drop out – p. 34   Mark Lanegan

recensioni – p. 46 rubriche – p. 102


#110 dicembre

Direttore Edoardo Bridda Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Sarah Venturini, Antonello Comunale, Riccardo Zagaglia, Nino Ciglio, Stefano Pifferi, Gabriele Marino, Giulia Antelli, Tommaso Iannini, Edoardo Bridda, Daniele Rigoli, Diego Ballani, Fabrizio Zampighi, Marco Braggion, Ilario Galati, Giulia Cavaliere, Antonio Pancamo Puglia, Marco Boscolo, Luca Falzetti, Enrica Selvini, Luca Minutolo, Alessandro Liccardo, Stefano Solventi, Alessia Zinnari, Stefano Gaz, Alessandro Rabitti Copertina Mark Lanegan (© Francesca Sara Cauli) Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2013 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Alle porte della loro attesissima performance al Club To Club 2013, abbiamo incontrato (di nuovo) i Fuck Buttons: per parlare dell'ultimo album, dell'Italia, ma anche di relazioni complicate, trance e cubi d'oro. Testo di Sarah Venturini

Fuck Buttons Agli altri i pulsanti, a noi la musica

Che fossero di larghe vedute l’avevamo capito, basti pensare al loro ardito nome d’arte. Non potevano che definirsi una coppia aperta dunque, i Fuck Buttons. Per usare il tanto amato/ odiato gergo da social network che inesorabilmente ci perseguita, in effetti, sono proprio due tipi da “in an open relationship“. Pure un po’ “complicated” se vogliamo, tanto per dare un bel tocco hipster alla cosa. Eppure, ad Andrew Hung e Benjamin John Power, non dispiace af-

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fatto dichiararsi così, ed in fondo hanno diversi ottimi motivi per farlo, se pensiamo all’enigmatica relazione che fin dagli esordi hanno intessuto tra di loro, con il pubblico e, soprattutto, con la musica; riuscendo, nel corso di soli tre album, a scardinarne i più radicati e standardizzati principi, gravosi retaggi del nostro atavico bisogno di codificare sempre tutto-e-ad-ogni-costo, in funzione di un suono che mette finalmente la sensazione al primo posto. Un suono che è mu-


sica, ma anche rumore. E’ entrambe, ma nessuna delle due cose, allo stesso tempo. E’ la melodia confusa e distorta di chi, col solo sapiente gioco delle mani e dell’analogico, si dimostra capace di ridicolizzare il computer, arrivando persino ad imitarlo. Un paradosso? Forse, ma in fondo è la classica e reiterata sfida uomo-macchina, che una volta tanto, grazie a loro, ci vede vincitori. Reduci dal successo del loro ultimo album, Slow Focus, ed attualmente impegnati in un tour che sta registrando una sequela di olimpionici soldout pressoché ovunque, li abbiamo così incontrati a più riprese: dapprima solo Hung, per una chiacchierata generale sull’ultimo disco, e molto altro ancora. A seguire, tutti e due insieme, per parlare un po’ della loro prossima performance italiana in occasione del Club To Club 2013, prevista per il Gran Finale al Lingotto di sabato 9 novembre 2013. Non essendovi alcuno spunto testuale o vocale a dare suggerimenti sul disco, potresti spiegarci cosa c’è alla base di Slow Focus? C’è un genere in particolare che avete inteso esplorare con questo album? ANDREW: Abbiamo finito l’album alla fine dell’anno scorso e siamo molto curiosi di sapere cosa la gente possa pensare dopo averlo ascoltato senza avere troppi indizi, perché per noi è una cosa del tutto nuova. Penso che sia davvero grandioso. In realtà non volevamo esplorare nessun genere in particolare, di solito ciò che creativamente arriva, arriva e basta. Di sicuro c’è che non volevamo ripeterci, ma non abbiamo deciso in anticipo cosa avremmo fatto in questo disco; il lavoro è venuto da sé in maniera del tutto naturale. Il nuovo disco sembra sprigionare una sensazione di ansia ed inquietudine sempre più tangibile e suonare ancora più apocalittico rispetto ai precedenti. Come si è sviluppato questo processo di crescita di sensibilità? Cosa avete fatto in modo diverso, se lo avete

fatto, in Slow Focus? ANDREW: Ci siamo avvicinati a questo disco come facciamo da sempre. In ogni album che abbiamo scritto, ciò che di norma siamo soliti fare, è radunare un sacco di strumenti, e se abbiamo qualche soldo in più nelle tasche magari ne compriamo anche di nuovi. Il modo in cui poi proviamo a tirarne fuori suoni che ci piacciono, quello credo sia l’unica sostanziale differenza. Penso che quest’album non si differenzi molto dagli altri nella maniera in cui approcciamo la musica, piuttosto se ne distacca in termini di sensibilità. Rispetto all’ultimo disco, quello nuovo sembra forte di una maggiore varietà sonora. I tempi e ritmi di Slow Focus sono molto più pesanti e ricchi di groove, dall’evidente influenza hip-hop. E’ così? E’ un riflesso dei vostri ultimi ascolti? ANDREW: Non penso che qualcosa in particolare ci abbia davvero influenzato direttamente, perché ormai sono anni e anni che lo facciamo. Il groove è in ogni caso un aspetto importante della nostra musica, quindi è difficile per me dire se quest’album possa vantare più o meno groove rispetto agli altri. Sono molto contento però che tu senta questa cosa. Street Horrsing è stato prodotto da John Cummings dei Mogwai e per Tarot Sport avete lavorato con Andrew Weatherall, il maestro di Screamadelica dei Primal Scream, tanto per capirsi. I confronti istituiti con quei dischi erano spesso inquadrati nell’ambito del lavoro passato dei loro produttori di riferimento. E’ stata la necessità di affrancarvi da certe etichette ad innescare la decisione di auto-produrre Slow Focus? ANDREW: No, non è stato proprio per questo motivo. John e Andrew sono due grandi produttori, e abbiamo imparato così tanto da loro, ma abbiamo anche capito che forse era arrivato il momento giusto per fare un suono che fos-

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se davvero nostro, al cento per cento. Di base abbiamo sviluppato ben chiara in mente l’idea di cosa intendiamo per “produzione”, in fondo la facciamo da sempre, già ancora prima di registrare. Ci siamo semplicemente resi conto che approcciamo la musica dal punto di vista della produzione comunque, e in ogni caso: cercare suoni e ritmi, è produzione anch’essa. Dopo gli scorsi due album avevamo acquisito tutte le conoscenze tecniche necessarie per registrare un disco da soli, eravamo finalmente pronti per farlo. Ascoltare la vostra musica, è un’esperienza che coinvolge e sconvolge allo stesso tempo, dalle molteplici e variegate sfaccettature. C’è una sorta di latente senso dell’orrore, misto ad un pizzico di fantascienza quasi, che aleggia in modo pressoché costante. Puro sangue, sudore e lacrime? O c’è dell’altro in questo disco? ANDREW: L’ultimo album è più scuro, evocativo, direi, rispetto ai precedenti dischi. La musica, secondo noi, può esplorare quello che normalmente non si può esplorare nella vita reale, ed esplorare i sentimenti umani è quello che i Fuck Buttons cercano di fare da sempre con la loro musica. Siete unanimemente considerati dalla critica i nuovi re del “noise”. Ma qual è la reale differenza tra musica, suono e rumore? Quali sono i confini che le separano? Sempre che davvero ci siano… ANDREW: Penso che la parola “noise” abbia un sacco di diverse connotazioni e possa descrivere le tante proprietà di una musica. Puoi dire noisy, quando senti un suono un po’ fuzz-ato: ad esempio i My Bloody Valentine sono noisy, ma non noise. Potremmo andare anche verso descrizioni scientifiche più specifiche, se parliamo di white noise o pink noise, ma sarebbe abbastanza noioso (ride, NdSA). Se prendiamo il cuore della parola noise, letteralmente potrebbe voler dire

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di tutto. Penso che musica, suono e rumore siano in fondo la stessa cosa, in un certo qual modo. Nel giornalismo è necessario comunicare ed articolare idee musicali ben delineate, ma se lo fai, il noise, e ti diverti a farlo, non è detto che tu debba per forza definirlo e/o codificarlo entro canoni precisi. Altrove ho letto che vi piacerebbe “consentire all’ascoltatore di creare il proprio racconto“. È per questo che approcciate la musica in un modo tanto evocativo? Sembra quasi che il fine ultimo sia quello di insinuare nel pubblico uno stato di trance, col preciso intento di alterarne la mente attraverso il solo potere fuorviante del suono. È questo che tentate di fare con i Fuck Buttons? ANDREW: Questo è il motivo per cui ci piace così tanto, questo è il motivo per cui la nostra musica va verso quella direzione. L’evocazione è di fatto una reazione che il pubblico ha e che lo stimola, anche se non posso dire di sapere fino in fondo cosa la gente riesca davvero a percepire. Ad ogni modo, non concepiamo la nostra musica con l’intento di suscitare alcun tipo di effetto. Anche se trattasi di una sorta di trance, come potrebbe sembrare, scriviamo musica per arrivare a cliché che siano migliori di questo, a qualcosa che riesca in primis a soddisfare noi stessi. Parlando di grandi novità relative all’anno scorso, non è certo da tutti venire scelti per la cerimonia di apertura delle Olimpiadi. Che cosa si prova a sapere che la propria musica entrerà a far parte, in un modo o nell’altro, della Storia? Pensi che il titolo dei brani selezionati (Surf Solar e Olympians) abbia in qualche modo aiutato? ANDREW: E’ stato grande! All’inizio un tipo ci ha chiamato al telefono chiedendoci se volevamo fare questa cosa, poi più tardi il nostro manager ci ha richiamato per dirci che la nostra musica sarebbe stata parte della cerimonia di


apertura delle Olimpiadi. Sinceramente non puoi davvero immaginare come possa essere una cosa del genere finché non la vivi direttamente sulla tua pelle. Oh sì, Olimpians!! Il titolo è nato proprio in un momento in cui ci sentivamo vittoriosi. Non praticando sport, non avevamo idea di come ci si potesse sentire, ma questo è il risultato del modo in cui ci siamo immaginati potesse essere. Qual è il vostro approccio durante il processo di scrittura? Preferite iniziare a lavorare prima su un singolo componente sonoro isolato e da quello costruire poi la canzone, o è un processo del tutto casuale? Perché molte delle tracce sembrano nascere proprio attorno ad uno specifico riff, e tutto il resto scaturire come conseguenza di questa sorta di nucleo madre. Ci sono idee approssimative su cui si

basa il lavoro in linea generale o si struttura tutto in seguito? ANDREW: Sì, solitamente partiamo da un singolo suono. Quello che guida la nostra musica è la posizione tra le varie componenti musicali, e ciò che facciamo, in fondo, è semplicemente scovare suoni che piacciano ad entrambi, per poi trovare la combinazione adatta, che di solito non è altro che la direzione che prende la musica all’inizio del processo creativo. Dopodiché costruiamo tutto attorno a questo nucleo di base. In pratica, per prima cosa avviene una sorta di processo esplorativo. Abbiamo la capacità di essere molto sicuri del nostro gusto, e sappiamo bene cosa ci piace e cosa no. Come fate a trasferire la vostra musica dallo studio alla dimensione live? A livello di qualità, in che modo il live influisce sul processo

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creativo? ANDREW: Il processo è molto veloce, in pratica non facciamo altro che jammare. Tecnicamente, una volta finito il processo di scrittura, la canzone è pronta per il live. Penso che scrivere e suonare live, siano la stessa identica cosa. Anzi suonare live, proprio grazie al volume più alto ed alla maggiore intensità del suono, spesso ti porta a rivelare cose fondamentali della musica e delle canzoni, se sono in grado di funzionare o meno, che poi possiamo portare indietro al processo di scrittura. Il live è un modo molto efficiente per noi di comporre. Durante i live cambiamo spesso in corsa quello che non funziona, rispetto al disco. Per i primi dischi avete utilizzato alcuni attrezzi decisamente curiosi, come dei giocattoli Fisher-Price. Com’è cambiato il vostro ardito equipaggiamento musicale nel corso degli anni? Avete usato strumenti giocattolo

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in modo da poterli cortocircuitare? ANDREW: Abbiamo bisogno davvero di ogni tipo di strumento/oggetto possibile. Usiamo ancora tastiere per bambini e cose del genere e inoltre, appena abbiamo un po’ di soldi in tasca, compriamo strumenti nuovi da maneggiare. Ultimamente abbiamo iniziato ad investire i nostri risparmi per comprare vecchi sintetizzatori. Ad ogni modo, tutto quello che è in grado di produrre un suono può esserci utile. La vostra musica è vibrante di energia allo stato puro e solo vedendovi esibire dal vivo, si può dire di poterne cogliere appieno il livello di connessione fisica che è capace di stabilire. Com’è strutturato il vostro live set-up? E’ un grande tavolo “da disegno”con una miriade di pedali, pulsanti, e oggetti del genere? ANDREW: E’ buffo, ma il nostro live set cambia di continuo ogni volta, dipende da quante


cose possiamo caricare sull’aereo. Puoi portare sempre il solito set in tour quando hai un furgone a disposizione, ma negli ultimi anni abbiamo viaggiato spesso in aereo. Ad ogni modo non siamo schiavi di nessuno strumento in particolare, e questa cosa ci dà una sensazione di enorme libertà, è molto bello. Quando create una nuova traccia, è uno di voi che pensa ad accumulare le battute e l’altro la melodia, o non esiste alcun un ruolo specifico nel processo di scrittura? Lavorate sempre insieme, o ognuno di voi crea per conto proprio e solo in seguito unite gli stimoli in studio? ANDREW: Devo dire che non ci sono ruoli ben precisi nei Fuck Buttons, perché non siamo condizionati dal fatto di suonare ciascuno uno specifico strumento, quindi possiamo muoverci in libertà assoluta. Posso tranquillamente affermare che non c’è una precisa combinazione musicale tra di noi, nel senso di una combinazione tra due strumenti fissi, ma piuttosto, oserei dire, una relazione musicale aperta. Sì, lavoriamo sempre in una stanza insieme, siamo una vera coppietta a tutti gli effetti (ride, ndSA). Quando ovunque quasi tutti ricorrono al computer per comporre, rendendo il processo creativo sempre più audiovisivo, voi riuscite ancora in concreto ad operare una precisa distinzione tra il formato visivo e quello sonoro, una sensibilità unica da poter vantare in tempi come questi. È necessario fare uno sforzo non indifferente per rimuovere tale aspetto visivo dal fare musica ormai. Siete d’accordo? ANDREW: Domanda molto interessante, anche se ha più a che fare con la musica elettronica in realtà, perché è quella ad essere composta al computer, e per lavorare al computer non si può fare a meno di visualizzare cose e guardare di continuo il monitor. Se fai questo tipo di musica le implicazioni visuali per forza vanno ad in-

fluenzare il suono che ne deriva. Ma non è certo il nostro caso, noi stiamo fisicamente in una stanza piena di strumenti e non usiamo il computer per comporre, utilizziamo solo supporti fisici per ricavare il nostro suono. Ci avvaliamo dei computer solo quando dobbiamo registrare ciò che fino a quel momento abbiamo composto. Andiamo dal processo di scrittura direttamente alla dimensione live, la macchina riguarda la fase di registrazione, ma quella è solo l’ultima cosa. Abbiamo detto che siete soliti sfruttare una serie di strumenti decisamente non convenzionali e fuori dalle righe per scrivere ed eseguire musica, escludendo i computer. C’è uno strumento in particolare che vi permette di creare suoni senza l’ausilio di segnali visivi? ANDREW: Sì certo, ce ne sono diversi. In realtà tutto quello che ti circonda è un possibile strumento, il suono non dipende certo da ciò che vedi ma da ciò che senti. E’ molto utile separare gli indizi visivi dal tipo di musica che stai facendo. Se lo riesci a fare arrivi dritto alla musica e al suono puro, che poi è la cosa più importante di tutte, anche se al giorno d’oggi sembra che si stia decisamente perdendo. Quindi è vero che mentre si sta lavorando ad una traccia, si può arrivare ad ispirarne la creazione attraverso semplici idee visive? C’è un’idea o un’immagine in particolare che può visivamente definire il nuovo album? ANDREW: Certamente! Credo che essere ispirati da qualcosa sia molto differente, poi, dal rimanerne influenzati e/o condizionati. Sono sicuro che posso agire come voglio su buona parte della musica che faccio e penso che sia proprio una bellissima cosa. Mi piace quando riesci a “sentire” un luogo nella musica che ascolti, a percepirlo. Ma non c’è stata, per questo disco, un’immagine precisa che lo definisca appieno, ce ne sarebbero così tante in realtà. Avete mai pensato che il fatto di chiamar-

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si Fuck Buttons potesse essere in qualche modo invalidante per la vostra futura carriera? Vi siete mai pentiti di aver scelto questo nome d’arte? ANDREW: (Ride, ndSA) No,no, perché sinceramente all’inizio della nostra carriera non pensavamo certo che saremmo finiti a fare questo per vivere. Diciamo che è accaduto tutto per caso e perciò non ci sono ripensamenti sul nome. Come sta andando il tour? Avete suonato di recente a Roma al Circolo degli Artisti. Com’è andata quest’esperienza, vi è piaciuta? ANDREW: Sì, è stato veramente bello! Abbiamo suonato al Circolo già un paio di volte ed ogni volta è stata proprio una grande esperienza. Abbiamo appena finito il tour ed è andato tutto per il meglio, grazie per avercelo chiesto. E’ sempre bello vedere come sta il mondo. BENJAMIN: Ci è piaciuto un sacco, è la terza volta che passiamo da quel locale a Roma ed anche tutte le zone limitrofe con gli acquedotti etc. I live sono sempre stati grandiosi, lì al Circolo. Lo show è stato speciale anche per la presenza del nostro grande amico Zan Lyons, che ci ha raggiunto in tour per suonare. Era la prima volta che lo vedevo suonare live ed è stato fantastico. Per il quinto anno di fila Club To Club è stato dichiarato da RA come il miglior festival di musica elettronica in Italia, il migliore nel mondo nel periodo novembre/dicembre. Sembra che abbiate scelto molto bene ragazzi. C’è qualcuno, in particolare, tra i tanti, incredibili artisti inclusi nella line-up del festival, che non vedete l’ora di ascoltare? ANDREW: Sicuramente voglio vedere James Holden live. Non ho idea di cosa aspettarmi da qualcuno con la sua esperienza da veterano nella musica elettronica, ma che ha da poco iniziato la sua attività live. BENJAMIN: La line-up è semplicemente in-

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credibile, alcuni per me eccezionali sono Holly Herndon, Factory Floor, Andy Stott, James Holden, Kode9, Object, Adrian Sherwood, The Haxan Cloak e la lista potrebbe continuare. In Italia Club To Club è considerato una sorta di eccezione che conferma la regola, basti pensare a quanto ancora continuiamo a lamentarci della mancanza di festival all’avanguardia come questo nel nostro Paese. Cosa pensate della scena elettronica italiana? ANDREW: Ad essere onesto non ne so molto della scena italiana per quanto riguarda la musica elettronica. Penso che sia così facile ora mettere insieme due macchine per produrre musica elettronica, che in teoria potrebbe essere fatta un po’ ovunque in maniera decente. Ma questo non succede e non so spiegare il perché. Per esempio, ogni tanto vado ad Hong Kong, e quel posto è assolutamente pieno zeppo di persone. Tra quei sette milioni di persone in un così piccolo spazio potrebbe esserci un Aphex Twin o un Flylo? Siamo sicuri? Comunque, quando sono là non vedo succedere molto. Questo però potrebbe essere solo il mio punto di vista. Con l’avvento di internet come mezzo per collaborare e condividere, il risvolto della medaglia è l’incredibile quantità di rumore in cui è difficile addirittura riuscire a sentire e percepire te stesso. Parlando in generale, siamo comunque in un periodo musicale molto interessante e transitorio. BENJAMIN: La musica elettronica italiana ha un retaggio incredibile, se consideriamo Moroder, i Goblin e generalmente tutto il movimento Italo Disco così influente in molti artisti che oggigiorno amiamo. E’ nel DNA di una buona parte di musica di cui sono da sempre appassionato. Avete appena pubblicato il singolo Brainfreeze e a sorpresa una nuova traccia, Royal Flush. Diteci qualcosa in più a riguardo. ANDREW: Che dire, il singolo sarà su vinile


trasparente e sarà stampato in copie limitate, così dovreste affrettarvi a comprarlo prima che finisca. Royal Flush è interamente scritto, prodotto, registrato e mixato da noi e siamo molto soddisfatti di questa cosa. BENJAMIN: Royal Flush è uno di quei brani che abbiamo iniziato a scrivere per l’ultimo album, ma che poi è rimasto un po’ indietro, e lo abbiamo ripreso in seguito. Lasciare ad un brano tanto tempo per respirare che fa sì che, quando lo rivisitiamo, suoni nuovo e differente. Era giusto includerlo nel singolo. Quanto conta per voi l’aspetto visivo ai fini della buona riuscita di una performance? Molti musicisti lo reputano parte indispensabile per il funzionamento del live ed anche voi sembrate dare all’artwork un ruolo importante, in modo da poter così interagire meglio con il vostro pubblico. Sto pensando alla simpatica idea del Gold Cube contest. Da

dove vi è venuta? ANDREW: E’ una parte divertente dello show, per noi. La musica è ovviamente il cuore dei Fuck Buttons, ma siamo anche artisti visivi. BENJAMIN: Ci piacciono tutti i differenti aspetti di quello che facciamo. Che sia l’artwork, i video, i live visual, tutto. E ci piace avere il controllo di tutti questi aspetti, così ce ne occupiamo noi personalmente. Siamo veri maniaci del controllo, al più alto livello possibile. L’idea del Gold Cube è venuta fuori da una sessione di brainstorming e sembrava un interessante progetto da seguire. Penso abbia funzionato abbastanza bene. Qualcuno addirittura è andato oltre e lo ha fritto, il Gold Cube. E’ stato bello, nel senso che ha concesso ai fan o a chiunque importasse un’occasione per collaborare con noi in qualche modo. E’ bello avere una forza creativa che fluisce verso il pubblico e mi piace molto l’idea di “line-art“.

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Abbiamo incontrato i These New Puritans di Jack Barnett in occasione della loro unica data italiana al Locomotiv Club di Bologna. Ci hanno parlato di David Guetta, waka giapponese e del loro ultimo lavoro Field Of Reeds. Testo di Nino Ciglio

These New Puritans Metamorphosis

Il processo di metamorfosi è proprio delle creature del mito. C’erano anche uomini, però, nei cambiamenti che descrisse, ad esempio, il poeta latino Ovidio. La creatura di Jack Barnett, tuttavia, non è né umana, né mitologica. Di certo si porta dietro il pesante fardello di un’eredità definita, che affonda le radici in un 2008 che, mai come in questo, caso appare lontano anni luce. I These New Puritans non assomigliano a niente. Hanno preso di petto la modernità, si sono

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dichiarati non belligeranti (anche se una loro canzone si chiama proprio We Want War), hanno semplicemente preso strade diverse rispetto a quella dominante. A qualcuno questo ha fatto pensare al passaggio storico di Spirit Of Eden dei Talk Talk, la band synth pop 80’s per eccellenza che si convertiva all’ambient, al post-rock. Nessuna conversione, giura invece Barnett: tutto è stato naturale, tutto è fluito nel modo in cui era destinato. C’è da credergli?


Se Beat Pyramid (2008) le aveva appiccicato in fronte un marchio a fuoco, negli anni la band di Southend-on-Sea è riuscita a scrollarsi di dosso le categorizzazioni, arrivando a un sound unico, che s’avvicina lentamente (più che mai in Field Of Reeds) alle composizioni d’orchestra. Una musica difficile, direbbe qualcuno. Ma guai a farlo notare al gruppo, potrebbe non apprezzare o, chissà, magari approfondire l’argomento. La critica più che altro s’è divertita ad asserire (non a torto) che un peccato dei musicisti fosse quello di non saper mettere da parte l’ambizione, andando a puntare il cannocchiale sempre più in alto in cerca di lune e di mondi inesplorati o, se volete usare un’immagine tratta dal mito, cercando di volare troppo vicini al sole. Chiaro che un’operazione del genere a volte riesce, mille altre no. I Nostri sono stati furbi, lungimiranti forse, nel tenere parzialmente sepolti i sentimentalismi e nell’esporre la macchina musicale nuda, in tutti i suoi ingranaggi. L’hanno fatto grazie a un artigiano di un certo livello che si chiama Graham Sutton dei Bark Psychosis (già presente in Hidden) e, soprattutto, grazie a una serie di contaminazioni con la musica portoghese, la poesia giapponese e grandi maestri del calibro di David Sylvian e Robert Wyatt. Alla luce di tutto questo (e un po’ maliziosi), siamo andati ad incontrare Jack Barnett in occasione dell’unica data italiana al Locomotiv Club di Bologna. Un live intenso, notturno, quello del gruppo, a cui il pubblico delle grandi masse ha forse dovuto rinunciare visto il prezzo del biglietto, ma che lo zoccolo duro dei fan e della critica non si è lasciato scappare. Band di sette elementi: due fiati, la Rodrigues al controcanto e i soliti gemelli Barnett in compagnia di Paul Hein ai synth. Dopo un inizio smorzato dai toni affaticati di Spiral e Fragment 2, il live comincia lentamente a prendere quota, con i brani di Hidden finalmente interiorizzati al meglio e aggiornati alla voce della Rodrigues.

Un senso tragico pervade le (dis)armonizzazioni di Field Of Reeds, un inesorabile scioglimento dei ghiacciai della nostra anima. Il trittico 3000, Attack Music, We Want War difficilmente lascia indifferenti, con i bassi in rotta di collisione continua, la batteria che sentenzia condanne e la voce di Barnett a sfumare dietro il tutto. Chiaro, potrebbe nascere una critica in merito (di quelle sterili però, del tipo: “Non si sentono le voci!”), ma – e lo scopriremo nel corso dell’intervista – tutte sono comunque scelte di suono curate dall’estro maniacale del piccolo compositore inglese. This Guy’s In Love With You e The Light In Your Name riassestano i toni nel più naturale ed onirico modo possibile, lasciando ampi spazi ai gorgheggi mozzafiato della cantante portoghese – che è parsa, a dire il vero, un po’ fredda e poco coinvolta, magari spiazzata da un Barnett enfatico, abbracciato al suo basso. Magari, con composizioni musicali così sofisticate, i piccoli club non sono il migliore dei mondi possibili, nel senso che non permettono di apprezzare le sfumature, ma, in compenso, l’incontro ravvicinato consente di prendere dritte in faccia quelle deviazioni esistenziali, quei gridolini afoni, quelle scale di piano, quei contrappunti così azzeccati. Nessuno (a quando è parso) è venuto per assistere a un concerto indie-rock, nessuna voce è arrivata da dietro reclamando brani dell’antico repertorio di Beat Pyramid che i Nostri non eseguono live già da un po’. E di questo ce ne rallegriamo. Magari, durante l’intervista, ci sarebbe piaciuto indagare più a fondo le ragioni, le dinamiche della svolta, tanto quanto i meccanismi che hanno portato alla separazione da Sophie Sleigh-Johnson, ma in entrambi casi, con uno slalom degno del miglior Alberto Tomba, Barnett ha glissato. Il resto della conversazione, però, è filato liscio, con un Barnett generoso e alle volte anche ironico e giocoso. La metamorfosi si perpetua nelle sue fibre muscolari e ci restituisce l’immagine di un artista a tutto tondo,

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magari un po’ snob nei confronti di ciò che lo circonda (musica compresa), ma a uno con tali capacità da equilibrista nel far convivere lunghe divagazioni cervellotiche e accessibilità pop, si può anche perdonare. ph. Dean Chalkley Una volta hai detto che odi la musica pop. Come mai? Cos’è la musica pop per te e in cosa sono diversi i These New Puritans? Credo che stessi parzialmente scherzando. Adoro certa musica pop. Volevo solo dire che non ci preoccupiamo, tutte le volte, di essere una band pop o di ricevere l’approvazione di grandi masse. Facciamo la nostra musica nel migliore dei modi possibile e poi speriamo che piaccia alla gente. Mi dà un certo fastidio tutta la faccenda delle band che vanno in giro dicendo “noi

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siamo davvero una pop band!”. Beh, noi non lo siamo. Questa musica può essere difficile a volte. Infatti, probabilmente, siamo la band più “difficile” che c’è in giro, ma questo non significa che non siamo sinceri. Sono stanco di tutta l’ironia e del retrò che sembra essere ovunque ora, voglio solo fare cose di cui sono convinto al 100%. Anche se non è sempre la mossa più saggia nell’ottica della carriera. Ma devo dire anche che la musica pop è diventata molto conservativa, tutto si è davidguettaizzato. La roba post-Timbaland è morta da un po’: quella roba aveva della consistenza, dei ritmi, delle produzioni interessanti, ma ora le etichette sono così al verde che non possono permettersi rischi. Nonostante Hidden e Field Of Reeds abbiano due background diversi, due sound differenti,


mantengono in comune un’atmosfera orchestrale che sembra voglia arrivare sempre più in profondità. Avete raggiunto un sound definitivo, ovvero qualcosa che possiamo definire “nello stile dei These New Puritans”? E, soprattutto, quando (o se) ti rendi conto che un lavoro (una canzone o un disco) è concluso e non ha bisogno di altri aggiustamenti? Beh, noi siamo in continuo cambiamento, ma siamo anche sempre le stesse persone che stanno dietro alla musica, e questo si nota, al di là di tutto. Lavoro principalmente d’istinto. È tutta una grande casualità. Ma mi piace quando le canzoni prendono una piega inaspettata, quando le cose finiscono in un mondo diverso. Ed è qualcosa che non puoi fare, se ti piace improvvisare con la tua band. Noi non l’abbiamo mai fatto. Ecco perché mi piace la musica da composizione più di quella improvvisata, perché puoi avere questi cambiamenti repentini. Per me un disco o una canzone sono conclusi quando sono trascinato a forza fuori dallo studio. Qual è la più grande differenza fra Hidden e Field Of Reeds? Voglio dire, come sono cambiati il tuo processo creativo, i tuoi sentimenti, le tue influenze in questi tre anni? Il più grande cambiamento credo sia stato il fatto che ho provato ad allontanarmi dall’astrazione o dall’oscurità; a un certo punto non puoi evitare di scrivere riguardo a certe cose… o hai sentimenti che scavalcano ogni altra considerazione. In un certo senso, è un po’ come se tornassi a casa da scuola e scrivessi una canzone su come mi sentivo a suonare la mia chitarra quando avevo otto anni! Com’è lavorare con musicisti d’orchestra? Ha creato imprevisti durante le sessioni di registrazione? Sono musicisti fantastici, ma a volte sono stato duro con qualcuno che è arrivato pensando “è una sessione pop, sarà una passeggiata”. Poi vedi la loro espressione cambiare durante la giornata,

quando gli fai suonare qualcosa un centinaio di volte per fargliela fare nel giusto modo… Ecco cos’è stato magnifico di questo album: abbiamo avuto l’ensemble per due giorni e non ci sono state preoccupazioni di tempo o altro. Hanno semplicemente suonato finché reggevano fisicamente. Grandioso. Ho grande ammirazione per quei musicisti. Mi piacciono le persone che padroneggiano le loro specialità. È qualcosa a cui non è dato abbastanza valore oggigiorno: è un po’ un tabù essere bravi in qualcosa, devi solo sapere essere una pop star idiota. Ci sono moltissimi strumenti nel disco. Ci dici come funziona il tuo processo di scrittura, anche dal punto di vista stilistico? A volte al piano con un software, a volte con carta e penna. Non so, ho sempre fatto così. Non ci penso così tanto; faccio parte della classe dei “commercianti”, sono sostanzialmente il lavoratore, non il teorico. Chi è la persona di cui ti fidi di più quando vuoi far sentire i tuoi lavori a qualcuno? Il mio gemello George. E’, tipo, il mio editore. La voce di Elisa Rodrigues e la tua sono in perfetta armonia e arrivano dritte al cuore. Lei è una cantante di Fado e il sound di Field Of Reeds ricorda un po’ l’oscurità del Fado. E’ una coincidenza? Come vi siete conosciuti? Sapevo che doveva esserci una prospettiva femminile in questo disco. E avevo scritto molte melodie per una voce femminile. Quindi si trattava di trovare quella giusta. Sono arrivato ad Elisa attraverso varie ricerche, dal momento che adoro la musica portoghese e la lingua. Ecco perché cercavo una cantante portoghese. L’ho conosciuta e mi è sembrata fantastica, una voce e una presenza incredibile. Le abbiamo chiesto di venire in Inghilterra a cantare nel disco e lei ha accettato, per fortuna. Ha riposto fiducia in noi e noi altrettanto. Ma ne è valsa la pena, amo la sua voce. Si è buttata nella musica, ha lavorato sodo ed è stata paziente quando le abbiamo chiesto di


cantare la stessa cosa un migliaio di volte! Credo sia molto diverso il modo in cui lei registra brani jazz, cantando le cose una manciata di volte. Il fatto che si sia adattata è stato magnifico, è un gran personaggio da avere attorno. C’è un tema legato all’”isola” in questo disco? Ho trovato molte connessioni nei testi fra il tema della ricerca, del viaggio e dell’isolamento, che sfuma nel canto solitario di due amanti (tu ed Elisa, nel caso specifico). L’ho letta come una sorta di suite musicale. Può essere? Curioso, qualche settimana dopo che abbiamo finito di registrare l’album qualcuno mi disse: “Perché tutti questi riferimenti all’acqua? Fiumi, il mare, le onde, le navi?”. Ero davvero disorientato, non mi ero reso conto che quasi ogni canzone ha un qualche riferimento a quel tipo di cose. Ancora non so come spiegarmelo. Fondamentalmente questo disco ha molto a che fare con cose che ho vissuto. Quando scrivevo le canzoni, i sentimenti prevalevano e non avevo alcun controllo su di loro. Penso che il mare sia ottimo per spiegare alcune cose o passar sopra ad altre. In realtà, un’ispirazione è stata il waka giapponese. È molto semplice ed economico, ma allo stesso tempo potente e distillato. È molto breve e spesso si riferisce a qualcosa di semplice o piccolo, come le foglie su un albero, ma proprio per questo è potente. Lo consiglio vivamente! Tra l’altro, di solito non mi appassiono particolarmente alla poesia. Music From The Next Room è uno dei miei ascolti preferiti in questo periodo. È vero che Fields Of Reeds è stato registrato in stanze diverse? Grazie! È stato registrato in stanze diverse, in edifici diversi, in nazioni diverse… C’è stato un preciso momento in cui vi siete accorti che volevate lasciare l’esperienza di Beat Pyramid alle spalle e prendere strade

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diverse? No, è accaduto in maniera naturale. Al tempo in cui uscì, alcune canzoni erano già vecchie. Alcune le avevamo scritte quando avevamo 16 anni, tipo. Suoni della natura, vetri rotti, gufi… mi sembra che rigettiate i samples elettronici, cercando di arrivare a qualcosa di più puro al di sotto la superficie delle cose. Dico Bene? Che connessione c’è fra la natura e Fields Of Reeds? Non voglio samples. Voglio fare le registrazioni a modo mio, un modo molto scientifico e divertente. Non so niente di natura, è una domanda diffcile! Ci sono state conseguenze spiacevoli dopo l’uscita di Sophie dal gruppo? Possibile che ritorni? No, non è stata dura. Semplicemente non voleva più spendere tempo nel progetto. Prende molto tempo, essere in una band come la nostra. Forse tornerà, è una tipa pigra. Dicevi che la tua voce non sarebbe comparsa in questo disco, ma alla fine è lì, anche se molto lontana, sporadica, soffusa. Ma ci sono tante altre voci… c’è una ragione particolare? Ho cantato nel modo che mi era naturale. Se avessi declamato ogni parola, sarebbe stato strano: non è il modo in cui parlo. Io parlo quasi sotto voce. Mi piacciono le voci diverse che si intrecciano, i diversi personaggi che entrano ed escono e dicono, anche se per poco, quel che hanno da dire. In che situazione nascono i testi dei TNP? Prima o dopo la musica? Da dove hai preso ispirazione per scrivere quelli di Field Of Reeds? Le parole nascono dopo la musica. La musica mi viene facile, cresce in maniera naturale, ma con le parole, ho bisogno di sedermi e lavorarci. Ho preso ispirazione principalmente da esperienze personali e dai sogni, che sono un altro tipo di


esperienza personale, suppongo. Burberry, il lavoro con Heidi Slimane di Dior, We Want War per uno spot di Victoria’s Secret… pare che tu abbia un rapporto speciale col mondo della moda! Beh, non proprio. Se qualcuno ci dà soldi per usare la nostra musica, noi non possiamo dire di no. Fosse stato McDonald’s, sarebbe stato lo stesso. Non mi interessa la moda. Con Hedi è stata una situazione unica, creativa, niente a che vedere con l’essere fashion per se stessi. Storiella divertente: un amico, dopo un vostro live, è venuto da voi per farsi autografare Beat Pyramid, ma non avete voluto. Cos’è? La conferma del ripudio? Davvero?!? Non può essere vero! Magari non l’ho compreso!

Ho sentito che sarete nel nuovo album di Current 93. Cosa vi aspettate? Si, sono eccitato. David mi ha dato una copia dell’album. È magnifico, direzioni completamente nuove della musica, o almeno lo sono ai miei occhi. Suonerò dal vivo con loro a febbraio. A tutti quelli che ancora non li conoscono, consiglio Black Ships Ate The Sky, è un ottimo incipit!

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Una delle ragazze (più) cattive del rock’n’roll torna ora impavida e fiera a celebrare se stessa. E lo fa a modo suo, con un colpo di stiletto degno dei tempi andati Testo di Stefano Pifferi

Retrovirus Lydia Lunch e i germi della no-wave

Lydia Lunch non ha bisogno di presentazioni. Basterebbe scorrere la sua discografia ormai trentennale e la lista delle collaborazioni, per avere conferma del ruolo che questa ragazzina della suburbia newyorchese – Rochester, ad essere precisi – ebbe una volta trasferitasi, poco più che adolescente, nella scena sotterranea e off della grande mela di fine ’70. La Lunch fu dapprima ballerina in bar malfamati e magari anche qualcos’altro borderline

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tra legalità e illegalità, come dicono le cronache sfumate e ammantate della mitizzazione di un periodo d’oro per la musica e la cultura underground tutta; poi sodale di alcuni personaggi del sottobosco urbano come James Chance – con cui condividerà il letto e qualche esperienza musicale – o gli amici Suicide, influenti nella formazione dei Teenage Jesus and The Jerks; infine musicista (anzi cantante dalla scarsa tecnica ma dal carisma e dall’aggressività con pochi


pari) e performer irriverente e sboccata, priva di filtri e diretta all’obbiettivo. Specie se quell’obbiettivo aveva molto più a che fare con l’arte, la performance o il teatro d’avanguardia, che con la musica in senso stretto. Legami che si consolidano tra la fase aurea della No Wave (e il suo manifesto made in Brian Eno, No New York) e i sommovimenti vari del giro delle gallerie d’arte newyorchesi (la Artists’ Space tra tutte). Non solo musica, però, nella vita newyorchese della giovane Lydia Koch a.k.a. Lunch: di pari passo con le evoluzioni avanguardistiche dei Teenage Jesus – una delle poche band in cui il rapporto tra influenza e longevità è clamorosamente spostato sul primo versante – la Lunch ha trafficato a vario titolo col succitato versante arty della “frizzante”, ma anche rovinosamente malata e tentacolare (vedi alla voce droga, malaffare, delinquenza, ecc.) New York di fine ’70/ inizi ’80. Attrice, soprattutto, vista la filmografia del sottobosco che segna una parte importante del suo curriculum, con legami con Vivienne Dick e Richard Kern, ma anche poetessa, scrittrice, performer in spoken word poetry (in solo e in combutta con Exene Cervenka, Henry Rollins, Michael Gira) in un lungo rosario del dolore che indaga il lato oscuro di sé, tra violenza, rabbia, provocazione, percezione/esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, impatto disturbante e nichilista. Limitandoci all’aspetto musicale, basterebbero i nomi dei musicisti coi quali ha, nel corso degli anni, collaborato a vario titolo, per rendere ancora di più l’idea del personaggio: da J. G. Thirlwell a.k.a. Foetus a.k.a. Clint Ruin ai Sonic Youth in gruppo – le indimenticabili urla da sgozzata in Death Valley ’69 sono le sue – o in solo (i lavori con Kim Gordon e Thurston Moore), da Birthday Party e Einstürzende Neubauten, in solo o in gruppo (compreso lo spirito affine Rowland S. Howard) a Michael Gira, Etant

Donnes, Philippe Petit e Omar Rodriguez Lopez. Per non parlare, poi, degli infiniti progetti figli di una irrequietezza che ne ha caratterizzato e ne caratterizza tuttora una linea artistica frammentata e inquieta, schizzata e apparentemente ingestibile dal punto di vista archivistico, ma uniformata dalla persistenza di una poetica forte e sentita: dai citati Teenage Jesus agli ultimi Big Sex Noise e RetroVirus, passando per 8 Eyed Spy (no-wave con, tra gli altri, Jim Sclavonus), 13.13, Beirut Slump e Harry Crews – all female band pre-riot grrrls con Kim Gordon al basso e Sadie Mae alla batteria – c’è sempre una sorta di immediatezza “punk” (ma lei rifiuta in toto il termine che usiamo come scorciatoia per entrare nell’“urgenza” del mondo musicale della Lunch) e una sorta di etica dell’anticommerciabilità che la pone come una delle ultime figure integre del sottobosco internazionale. Una delle ragazze (più) cattive del rock’n’roll torna ora impavida e fiera a celebrare se stessa. E lo fa a modo suo, con un colpo di stiletto degno dei tempi andati: insieme autocelebrandosi e omaggiando un intero periodo, tra i più corrosivi e fondamentali per gli anni a seguire, come fu quello della no-wave newyorchese. Per farlo la Lunch ha messo su una formazione da urlo – Weasel Walter, Algis Kyzis e Bob Bert: in pedigree Flying Luttenbachers, Swans, Foetus, Pussy Galore, Sonic Youth, Chrome Cranks e molti altri – che l’accompagna on stage in un viaggio nel tempo in cui viene ripercorsa la sua impervia discografia, permettendole di offrirsi graffiante come quando lanciava squarci di nowave urticante coi Teenage Jesus and The Jerks e sensuale come quando ha cominciato a placare la sua acidità per trasformarsi in una dark lady senza rimorsi e artista a tutto tondo. Mai dimentica del primo amore, però. Quel palco sul quale riesce a tirar fuori il lato più ferino e selvaggio, metà “prostituta”, metà testimone di un mondo che fece dell’urgenza il suo grido e

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della schiettezza la sua bandiera. Lunga vita a Lydia Lunch. Cosa ti ha portato ad andare in tour con vecchi amici e con quel nome così particolare? La tua musica è un virus retroattivo in questi tempi di appiattimento e uniformità? È una retrospettiva che parte dai tempi dei Teenage Jesus e include qualche materiale inedito. E sì, spero di iniettare e infettare un po’ di brutalità sonora per dare una scossa alle persone stanche di subire passivamente le storture di questa realtà globale. Che mi dici dell’oggi e dei bei tempi andati? Voglio dire, sei una della “no future” generation, ma sei qui in piena forma a fare le tue cose come se niente fosse. No future era il punk. Io sono e sempre sono stata No Wave. Il che è semplicemente antitetico. Un pugno in faccia alla Storia, nessun compromesso, dissonanza sonica… C’è qualcos’altro dietro la scelta di pubblicare Retrovirus? È un greatest hits dal passato o qualcosa di diverso? È la testimonianza di un incrollabile senso di ribellione che mi scorre nelle vene. Ora e sempre. Registrerai qualcosa con i Retrovirus? È una delle migliori band che io abbia mai visto… Non appena Weasel finirà di scrivere alcune canzone per questo specifico progetto. Ti assicuro che non vedo l’ora. Sappiamo che con Weasel avete suonato una specie di tributo ai Teenage Jesus a Parigi. E’ il germe della no-wave che sopravvive a tutt’oggi? Io lo impersono quel virus. E lo stesso vale per Weasel Che mi dici della musica contemporanea? Segui qualche scena specifica, qualcosa che per te è particolarmente stimolante? Tantissime band: Evangelista/Carla Bozulich, Sightings, Cellular Chaos, Youthquake, Baba

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Zula, Phantom Family Halo…tutte grandi! Cosa voleva dire vivere nel Lower East Side? Ho molti dischi di quel periodo e di quella scena, ma non riesco a immaginarmi quel “post-atomic nightmare” che gente come Alan vega ha sempre rievocato… No, non te lo puoi immaginare. Una zona di guerra, di povertà assoluta, infinita criminalità, droga dilaganti, follia, serial killing. L’inferno di Dante. Era insieme bellissimo e atroce Sei una front-woman e una delle più carismatiche. Hai spesso usato il tuo corpo in maniera provocatoria. Qual è il tuo pensiero sul ruolo del corpo femminile nel rock? Mezzo di emancipazione o di sfruttamento? Dipende ovviamente da come viene utilizzato. E da chi sta proteggendo la puttana in pista. Come artista indipendente quella merda non ha nulla a che fare con me. Io sono il pappone e la zoccola. Ahahahah. Una puttana. Cosa hai in procinto di realizzare nel futuro prossimo? Qualche collaborazione interessante? Family in Mourning, un album di musica funebre con la Phantom Family Halo, A Fistful of Desert Blues con Cypress Grove, Medusa’s Bed, che uscirà a novembre su Monotype Rec, con Mia Zabelka e Zahra Mani, Taste My Voodoo, un doppio vinile con Philippe Petit; Collision Course, doppio CD con live e studio recordings dei Big Sexy Noise appena uscito per Cherry Red. E ovviamente Retrovirus su Interbang ORA!


In occasione dell’uscita, il 18 novembre 2013, del primo album di Tommaso Pandolfi aka Furtherset, Holy Underwater Love, su Concrete Records, abbiamo intervistato il giovanissimo (18 anni) produttore perugino Testo di Gabriele Marino

Furtherset There’s Magic Underwater. Elettronica per ansie subacquee

Il 18 novembre 2013 esce sulla romana Concrete Records (che conosciamo già per i Voices from the Lake di Donato Dozzy, Thelicious e tanti altri) il primo album di Furtherset, Holy Underwater Love, anticipato a maggio dall’EP A Piegon Painted of Blood. Furtherset è Tommaso Pandolfi, classe 1995, anconetano di nascita, ma “metà romano e metà perugino”, attivo dalla fine del 2010, con EP pubblicati su Technowagon, Homework e Bad Panda. Ha suonato in

vari festival (Dancity, Club to Club, Dissonanze/ Disslab, Flussi, S/V/N, roBOt), ha aperto per Laurel Halo e collaborato con Gianluca Petrella. I suoi lavori brevi lasciavano intravedere un giovane talento in via di definizione; a nostro parere, questo primo album, che vi presentiamo in anteprima e in esclusiva [potete ascoltarlo integralmente cliccando qui], mostra i primi frutti maturi del suo percorso di produttore. Ci è sembrato doveroso approfondire.

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Togliamoci subito l’impiccio. Com’è fare il produttore di elettronica a 18 anni? Essere un produttore a 18 anni significa dover considerare le varie condizioni del mio status: quella di studente, quella di produttore e quella, appunto, di diciottenne. Bisogna sempre trovare il giusto equilibrio tra questi tre aspetti; il che significa dover studiare con una certa regolarità, non per avere paura di rimanere indietro, ma per avere tempo per poter suonare, uscire e godersi il tempo libero. Non ho mai avuto molti problemi per quanto riguarda la scuola (semmai è la scuola che ha problemi nei miei confronti). Normalmente poi ho sempre suonato il sabato, ritornando di domenica, senza saltare scuola per via della musica. Succede raramente, solo quando vado a qualche festival, come al roBOt, dove l’anno scorso ho suonato e quest’anno mi sono fatto il fine settimana lassù. La stragrande maggioranza dei mie compagni di classe,

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fortunatamente, non sa quello che faccio. Sinceramente mi procurerebbe molta ansia sapere che sono a conoscenza della mia attività di musicista. Non credo che capirebbero. Vivono in un contesto culturale diverso dal mio, direi anzi opposto. Altri, ma pochi, sanno quello che faccio e lo apprezzano. Come nasce Furtherset? Quando e come hai cominciato a fare musica? Furtherset nasce, se non mi sbaglio, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. Negli anni precedenti, a parte le solite esperienze scolastiche di lezioni di musica, non è che abbia mai fatto altro. Basso, pianoforte, le solite cose. La svolta decisiva c’è stata quando il mio maestro di pianoforte e mio fratello mi hanno fatto entrare nel mondo della musica elettronica, prima tramite vari ascolti e poi con l’acquisto di un synth (Roland SH201, che tutt’ora uso), da parte di mio fratello. Sono due personaggi che hanno


influito molto nel mio percorso musicale, non tanto a livello di influenza sul mio suono, ma come spinta, incoraggiamento a fare qualcosa di diverso, a confrontarmi con linguaggi nuovi e sperimentare. Il nome l’hai preso da roba simile [link a un paper universitario intitolato “Set Theory and Further Logic”]? Il nome credo sia nato in modo totalmente casuale! Non sono un mago a trovare nomi. Ultimamente stavo pensando di chiudere con Furtherset e iniziare con un nome diverso, e una delle ragioni per cui non l’ho fatto è appunto che non riuscivo a trovare nomi che non fossero obbrobri. Mi interessa capire come lavori. So che usi il PC (non il Mac) e Ableton. Ma entra nel dettaglio. Campioni, produci, suoni? Che macchine usi? E dal vivo. Improvvisi (nel senso jazzistico, non cazzone del termine) molto? In studio uso Ableton Live con il mio amato Vaio; non sento il bisogno di comprarmi un Mac, almeno per ora. Non uso synth dal computer, registro tutti i miei strumenti in audio e poi li modello a mio piacimento. Ho diversi synth, quasi tutti digitali a parte un vecchio MS20, appartenuto fino ai primi anni ’80 a Maurizio Bianchi (insomma, è un bel pezzo da collezione). Modifico tutto poi tramite vari plug-in di effetti come Guitar Rig 3 e Korg MDEX, nonché gli effetti interni di Live. Aggiungo ogni tanto parti di voce, o uso questa come strumento principale, registrandola e mettendola nei sampler di Live. Un metodo semplice. Faccio anche registrazioni con il mio Zoom H1 e con un bruttissimo microfono da pochi euro, per voce e field recordings. Live invece fino a poco tempo fa avevo un approccio molto distante da quello dello studio: giravo con due synth e il pc (sostituito più recentemente da una SP404 SX) con loop di drums. Ora invece porto live i pezzi

dall’album e dall’ultimo EP su Concrete con due SP404SX, un Korg MPX8 e vari pedali delay e reverb. Prima la performance era meno, diciamo, “personale”: alla fine si può dire che portavo live delle jam, con due synth. Ora è tutto più ordinato, posso suonare i pezzi dell’album stravolgendoli a mio piacere, dopo aver preparato i loop che esporto nei sampler. Certo, è un bel casino, dato che ora gestisco la bellezza di 320 sample. Furtherset/Tommaso ascoltatore. I dischi più belli che hai sentito negli ultimi 3 anni… Questa è una di quelle domande a cui ovviamente risponderò e poi, fra qualche giorno, settimana o mese, mi dirò ma perché ho escluso questo o quell’altro? Laurel Halo /Quarantine. The Smiths / pressoché qualsiasi cosa. Clark / Totems Flare. DIIV / Oshin. Fennesz / Venice. Interpol / Turn On The Bright Lights. Tim Hecker / Virgins. Talking Heads / Remain In Light. Talk Talk / Laughing Stock. This Heat / Deceit. Wire / 154. Cap’ n Jazz / Analphabetapolothology. Majical Cloudz / Impersonator. Ho gusti, come potrai vedere, totalmente casuali. Ultimamente poi mi piace anche troppo Sky Ferreira, non chiedermi perché. I produttori più importanti degli ultimi anni, secondo te; ma anche “per te”, ovvero per il tuo percorso come produttore… Per il mio percorso è difficile stabilire un produttore di riferimento o, più sinceramente, forse non ce l’ho. Come vedi dall’elenco che ti ho fatto, ho gusti che, se non sono casuali, di certo sono molto vasti. Cerco di attingere da più cose possibili, cercando di essere originale. Produttori importanti degli ultimi anni credo siano invece persone come Jon Hopkins, Clark, Nathan Fake, Oneohtrix Point Never, Boards of Canada. Tutti artisti con una forte, unica, identità musicale e che, alla fine, condizionano la maggior parte di noi produttori, o almeno rientrano a pieno titolo nella categoria dei “we

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are the music makers / and we are the dreamers of dreams”. Altri produttori importanti, o che lo stanno diventando, sono persone come Laurel Halo e Morphosis. Almeno per me. Devo ammettere che, però, non saprei darti una grande prospettiva della scena attuale, non la seguo molto o almeno non sto troppo attento ai particolari. Non sono un grande ascoltatore, ahimè. Italia. Qualche anno fa ho seguito sistematicamente, o comunque, più sistematicamente di quanto non riesca a fare adesso, la scena dei produttori italiani diciamo HH strumentale / wonky (termine che nessuno ama, ma che secondo me ha una sua funzionalità) o come lo si voglia chiamare. Ovvero Digi, Ether (Colossius e Biga), Uxo (per inciso, tra le tue primissime cose che ho sentito c’è proprio lo split del 2011 con Uxo sulla sua Queenspectra), Apes on Tapes, Ad Bourke, Planet Soap, Railster, Grillo, Avanthopperz ecc. Chi ti piace e come vedi la “scena” nel suo complesso? Altra grande ammissione da parte mia: non seguo molto la scena che chiami wonky/strumentale HH italiana. Li ascolto spesso, ma devo ammettere che non è il mio genere, per cui non tendo ad ascoltarli estensivamente. Quando però escono nuove cose, se le trovo sottomano via blog o siti, le ascolto con piacere e normalmente ne rimango sempre soddisfatto. Poi ripeto, non è che le ascolti tutti i giorni, ma alcuni di loro li tengo nel mio mp3. Ho gusti più su altri versanti musicali. Che mi piacciono veramente, però, ci sono U.X.O. (lo split che feci uscire con lui rimane una delle mie release preferite, e poi lui non lo metterei nella scena wonky, è tutt’altro, è oltre i generi, uno sperimentatore nato) e HLMNSRA, nonché Digi. La scena comunque è viva ed esiste. In Italia siamo in molti, moltissimi, a fare elettronica e ne sono contento. Non solo per quanto riguarda wonky/HH, che è forse la scena più viva a livello produttivo, ma

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anche in altri ambiti. Penso a Mai Mai Mai, e poi ci sono anche i miei amici di Foligno Giesse e Infinite Delta (che insieme formano gli Schroeders) e Von Tesla, Primitive Art, Ayarcana, Broke One, Bienoise, Phooka, Mass Prod, Herva. Tutti molto attivi, creativi e sempre pronti a sperimentare qualcosa di nuovo. Questa è un’altra cosa che mi piace della scena italiana! L’unica cosa che mi rattrista è che abbiamo poco riscontro all’estero, non in tutti i casi ovviamente, però credo che nei prossimi anni riusciremo a fare grandi passi fuori confine. Il tuo rapporto con l’hip hop? So che lo segui, ma vorrei capire se pensi che in qualche modo rientri tra le tue influenze di produttore, che insomma si senta da qualche parte l’HH nei tuoi pezzi (secondo me, assolutamente no). Non ascolto troppo HH. Oltre a grandi classici del passato (robe della golden age o dai 90s come Wu Tang, GZA o Raekwon) ascolto al massimo Kendrick Lamar o a volte Tyler The Creator. Associato a quest’ultimo, anche Frank Ocean. Ogni tanto poi mi diverto ad ascoltare quell’HH tamarro da MTV. Ma non credo che mi sia minimamente di ispirazione a livello musicale. Diciamo che lo ascolto più per divertirmi, che per altri scopi. Old Quantum Theory EP, 2011. Tra IDM diciamo Warp/Autechreana, minimal techno calligrafica e wonky stilizzato. Da lì in avanti, mi sembra che tu abbia affiancato alla ricerca sulla tavolozza timbrica, preminente all’inizio, una ricerca sulla melodia, di costruzione di brani che fossero a modo loro “canzoni”, e non solo esercizi da producer. Credo che tu abbia colto perfettamente quello che è il mio percorso musicale, che ovviamente si sta ancora sviluppando e non so che direzione prenderà in futuro. Comunque sì, dai miei inizi ad ora ho cercato di fare più “canzoni”, non nel


senso della costruzione strofa/ritornello, ma come sviluppo di pezzi che siano un viaggio, lungo o comunque complesso al loro interno, che cambino sempre e non siano mai la stessa cosa o che si ripetano, dall’inizio alla fine. Questo credo si sia realizzato al meglio nelle mie ultime due uscite su Concrete, A Pigeon Painted of Blood EP e l’imminente Holy Underwater Love, il primo album. Sono opere molto più complesse rispetto alle mie precedenti uscite. E molto più legate a me, al mio essere una persona che comunque vuole fare musica su quello che vive all’esterno dello studio. Non produco neanche più con tanta frequenza, ora. Da quando ho lavorato all’album e all’EP, tra dicembre 2012 e aprile/maggio 2013, non ho prodotto quasi nulla, se non meno di dieci minuti di musica nuova, fino a settembre/ottobre di quest’anno. Ora tendo a mettermi in studio a suonare solo quando devo lavorare ai live set, o quando so

che posso scrivere qualcosa che rispecchi quello che sto vivendo. Questioni sentimentali più che altro, o problemi con amici, bla bla bla, le solite cose. Anche di ansia. Sembro leggermente emo eh? Emo 90’s però, dai. I tuoi titoli sono mediamente abbastanza lunghi e descrittivi, e spesso indulgono in immagini, diciamo, tetre. Ti interessa rendere immagini, atmosfere o sensazioni più o meno precise? È lo specchio di certe influenze letterarie? Più che tetre, direi tristi. Ti porto l’esempio di Holy Underwater Love, che forse ne è il miglior testimone: fondamentalmente è un album di “canzoni d’amore”, o almeno, di pezzi scaturiti come risposte a determinate situazioni che stavo vivendo fino a poco tempo fa. Se devo scrivere qualcosa e dargli un nome, ormai deve essere riferito a qualcosa che vivo, ho vissuto o sto cercando di comprendere, a livello persona-

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le. Non scriverei più nulla su, che ne so, teorie fisiche come facevo agli inizi. Divertenti, ma ero un ragazzino, alla fine. Scrivevo per divertirmi. Anche ora, ma adesso per me suonare è anche interiorizzare e cercare di capire quello che succede tra me e gli altri. Posso scrivere, parlarti di amore, ansia, frustrazioni, di miei pensieri, sogni, incubi, ma non più di calcoli matematici e teorie fisiche che in fondo non capisco e non mi dicono nulla. Diciamo che fare musica sta diventando qualcosa di molto personale. Ecco perché poi ora, suonando live le cose dell’album e delle mie prossime uscite, diventa difficile non tanto dal punto di vista tecnico, del suonarle di per sé, quanto dal punto di vista emotivo. E’ portare davanti ad altre persone cose che ho scritto su determinati sentimenti e situazioni, come ti ho detto. Mi crea molta ansia, devo dire, specialmente se devo pensare che a volte potrò trovarmi davanti al pubblico “sbagliato” e non potermi esprimere al meglio. Torna spesso il tema subacqueo (There’s Magic Underwater, su Two Lovers in a Room, 2012; e poi anche You’re Not a Dog Underwater, su A Pigeon Painted of Blood, 2013), fino ad arrivare al titolo dell’album. Ti piace Voices from the Lake? E i Drexicya? E come si sposa questa suggestione acquatica con la natura – per farla breve – spacey, o meglio siderale, di molte tue produzioni? A Voices from the Lake ho dato pochi ascolti, e non saprei dirti. Drexicya è una grande passione per me, anche se non credo che nessuno dei due c’entri molto con la mia “passione per l’acqua”. There’s Magic Underwater per me parlava della mia paura in generale dell’acqua, del mare, del nuotare. Non so nuotare (e non ho intenzione di imparare a farlo) e volevo scrivere qualcosa su tale argomento. Holy Underwater Love, invece, è una cosa più strana: quello che immaginavo era qualcosa come una cosa nascosta sott’acqua, irraggiungibile, che sai che sta lì ma che non

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potrai mai raggiungere. E’ un po’ la sensazione generale che ho cercato di esprimere nell’album. 5 EP e ora finalmente il disco lungo. Secondo me è il tuo lavoro migliore, dove fai il salto dal nome promettente, ma ancora acerbo, alla promessa mantenuta; intendo proprio come compiutezza, tanto dei singoli pezzi, quanto del disco come progetto. Ci sento dentro più brani e meno prove tecniche ecco. E’ molto diverso dall’advance che mi avevi mandato mesi e mesi fa, che era comunque ottima, tanto che mi ha subito ricordato, non nel senso di una derivazione, ma di una affinità, Andy Stott. Che cosa è cambiato in questi mesi, cosa hai cambiato del disco, e perché? Come ho detto prima, dalle vecchie esperienze musicali a quelle di quest’anno c’è stato un forte distacco. Vuoi forse una sorta di “maturità” musicale (direi temporanea, passeggera, data la mia età), vuoi per il fatto che ormai riesco solo a scrivere in determinati momenti di “ispirazione”, derivati da esperienze personali. Ora, poi, cerco sempre di dare un senso generale alle uscite, più che un senso ai singoli pezzi. Ovviamente ne hanno, da soli, ma nell’insieme rendono meglio che presi singolarmente. Poi sì, per Andy Stott hai ragione a parlare di un’affinità e non di una derivazione. Quello che mi piace di Andy Stott è il suo essere lentissimo, quasi esasperante, ma nel frattempo riuscire a contenere tantissime cose, cose che hanno un forte impatto emotivo sull’ascoltatore. Questo aspetto mi ha influenzato molto non tanto musicalmente, ma come approccio alla scrittura. Un discorso più sulla sostanza che sulla forma, sui contenuti, una più attenta ricerca della qualità, ecco. Più qualità e meno quantità, anche a livello produttivo. Ho appena chiuso un’uscita per la mia futura label, un mini-album di sette pezzi per quaranta minuti di musica, finito a inizio ottobre, e non ho intenzione di rimettermi a


lavorare su qualcosa che non siano i lavori per i live set e alcuni remix, fino almeno a marzo o aprile. Poi avrò anche gli esami di stato alla fine del quinto anno, a giugno, quindi… Mi hai consigliato di ascoltare il disco in cuffia. La dimensione “shake yer ass” non ti interessa? Proprio no. O almeno, non più. Nelle produzioni precedenti mi interessava, adesso no, e nemmeno live. Non credo faccia minimamente per me. Voglio fare qualcosa di più riflessivo, intimo, far sentire qualcosa agli altri, non semplicemente far ballare. Sia nei lavori in studio che live. Questa logica mi taglierà fuori dal poter suonare in molti club o altri posti, però alla fine è una mia scelta, che voglio portare avanti. Fare musica per far ballare non è da me, e non posso far acquisire nella dimensione live un aspetto “dance” alle mie produzioni in studio, non sarebbe una cosa coerente con me, come artista. Voglio continuare su questa linea di coerenza e sperimentazione, per quanto mi sarà possibile. Dopotutto, fare musica elettronica non significa, automaticamente, dover far ballare le persone: anche, ma non obbligatoriamente. Credo che con la mia prossima uscita di febbraio (il minialbum), questo percorso verrà chiarito ancora di più. Parliamo del lavoro sulla voce che hai fatto nell’album. Una cosa, mi pare, abbastanza nuova rispetto alle cose che hai fatto prima, e in linea con una ricerca che da qualche anno, da punti di vista diversi, ha fatto convergenza proprio su questo punto. Penso a cose anche diversissime tra loro, ma tutte accomunate da un qualche lavoro sulla manipolazione e la smaterializzazione della voce, come Burial, certa hauntology, Stott, certo footwork, certa trap e forme derivate, certa dark ambient, certa witch house, ma anche Blake… Tendo a usare la voce come lo “strumento prin-

cipale”. Ovviamente non ho smesso di usare i vari synth, però ecco, credo che usando la mia voce, modificandola, il tutto abbia un aspetto più personale. Per quanto mi riguarda è come prendere e buttare una parte di me nella mia musica, direttamente, senza ostacoli. Così è anche più semplice prendere e scrivere melodie: le canto direttamente e le modifico su Live. Dove ti troviamo in giro quest’anno? Per ora solo a Bologna il 23 novembre insieme a Schroeders e Walton, per i miei amici di Habitat al TPO, e a Firenze il 27 novembre, insieme a Mass Prod, Dukwa, Herva e altri per la showcase Wo Land allo Spazio Alfieri. Non ho ancora date segnate per il 2014. Chiudiamo con la più classiche delle domande di chiusura. Prossimi passi? Mini-album a febbraio sulla mia label, su cassetta. Qualche remix nei prossimi mesi, tra cui uno per Bienoise del quale sono veramente contento e che suonerò anche live in futuro, credo. Poi niente, ne parleremo dopo l’esame di maturità, finito il mio liceo delle scienze sociali.

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Robert Hampson, deus ex machina dei Loop, parla della reunion della sua band in occasione dell'ATP di quest'anno, curato proprio dalla storica formazione inglese. Lo sguardo dell'artista a 360 gradi, dalla musica concreta all'oscurità dei nostri tempi. Testo di Antonello Comunale

Loop Il mondo negli occhi di Robert Hampson

Ci sono cose che più di altre si inquadrano nell’ordine naturale dei tempi. Che da anni sia in atto il revival costante del cadavere rock è ormai assodato; il “retro” gusto verso il passatismo cartina al tornasole del presente. Una faccenda evidente, ben prima che Reynolds ci scrivesse sopra le sue righe griffate. I Pixies, gli Swans, i My Bloody Valentine, in generale tutta la decade degli eighties è sotto attenta disamina generazionale. Gli urban kids di oggi, ascoltano gli album di ieri e vanno ai concerti di gente che

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c’era già venti, trenta anni fa. Un serpente che si morde la coda? Il cerchio perfetto del genere che medita su stesso e che ripete di continuo la sua liturgia. Il rock, come il jazz con i classici, va venerato e ristampato ad ogni decade. La lista di reunion, complice l’atto epocale dei My Bloody Valentine e del dopo Loveless, è destinata ad allungarsi. Eppure anche togliendo i morti e i disabili, l’ultimo che ti saresti aspettato al varco era uno come Robert Hampson. Sempre defilato eppure sempre presente. Vista a


posteriori, la sua è una figura carismatica, ma di un tipo che ti sembra evidente solo dopo averla notata di sfuggita. Il classico personaggio che alle feste si vede in un angolo e che dice due battute in croce, sufficienti però a farti meditare per tutta la sera. Il ritorno dei Loop è l’ultima festa di un certo rock psichedelico, scuro, paranoico, acido, che ha indicato la strada per il sound più moderno dei ’90, ma senza lasciare eredi. E’ vero, Hampson probabilmente sarà catalogato nella Hall of Fame con i Main, per via del trend isolazionista e dell’ambient liquida di dischi culto come Motion Pool, Hz e Corona, eppure la storia dei Loop merita un’analisi più indulgente e meno severa. Di fatto, la triade di dischi ufficiali Heaven’s End, Fade Out e A Gilded Eternity rimane a suo modo di una modernità impressionante. Il remastering di tutto il loro catalogo aiuta certamente a calare le orecchie giovani in un sound ancora oggi denso, potente, preveggente. La richiesta di curare la line-up dell’ATP Festival di quest’anno è stata probabilmente la scusa buona per provarci. Un Robert Hampson, come sempre affabile e disponibile, conferma il sospetto che il ritorno dei Loop fosse un’ipotesi intorno a cui lui e gli altri della band stavano ragionando già da un pò e che necessitava giusto di una spinta: “Per quanto riguarda la reunion è un po’ difficile rispondere. Ci sono un pò di ragioni personali che non mi va di discutere, ma c’è anche qualcosa che dentro di me, ha fatto in modo che lentamente cambiassi idea. Mi sono trovato a pensarla diversamente e il tutto è coinciso con una richiesta sempre più pressante da parte dei fan e della gente in generale; così dopo alcune discussioni, ho preso la decisione di contattare gli altri membri dei Loop e vedere se potevamo trovare un accordo e considerare la cosa prima che ci venisse offerta una qualche committenza di sorta. Il mio solo desiderio era che ci fossero

tutti i membri originali dei Loop. Non mi piacciono le reunion di band che contano soltanto uno o due membri originali. Così il tutto è nato avendo ferma questa premessa. Grazie all’offerta dell’ATP di aiutare a curare il festival e sentendo che potevamo avere tutto sotto controllo, abbiamo fatto tutti un passo in avanti. Ovviamente, la cosa può essere vista esternamente con un certo cinismo, ma non mi preoccupo. I Loop non finirono nel migliore dei modi e sono sempre stato triste pensandoci. Questa reunion è un modo per cercare di riparare a tutto questo ed è anche presto per dire cosa potrebbe portare. Ma già così sono felice, perché stiamo provando a farlo nel migliore dei modi. Per quanto riguarda l’ATP, per la sezione curata direttamente da noi, ho voluto band che ammiro e che hanno fatto parte del mio passato musicale, come The Pop Group e 23 Skidoo. Sono un grande ammiratore di entrambe e ho sempre pensato che siano state largamente ignorate, nonostante la grande musica. E’ stato facile contattarle e coinvolgerle. Sono onorato che abbiano accettato. Mi hanno influenzato molto, quando ero più giovane”. La chiusura delle trasmissioni da parte dei Loop fu alquanto brusca, considerando che le vendite di A Gilded Eternity furono buone (39° posto nella chart inglese e per la prima volta distribuzione su larga scala in Nord America) e che il passaggio alla sigla Main sembrò inizialmente essere un corollario laterale alla band madre, piuttosto che una nuova attività a tempo pieno. Non che il suono dei Loop non si fosse spostato più avanti, partendo dalla matrice stoogesiana dell’esordio verso un approccio più avantgarde, ma a posteriori e considerando anche alcune dichiarazioni dell’epoca fatte da un Robert Hampson in piena polemica creativa con gli altri membri della band, i primi dischi dei Main, da Hydra-Calm fino ai due capitoli di Firmament, sembrano il naturale processo di evoluzione per un percorso musicale, molto coraggioso, ma

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anche molto ragionato. Robert, ripensando ora al passaggio Loop-Main, vede quelle sfumature che all’epoca sembravano poco importanti: “Prima di tutto, vorrei dire chiaramente che gli altri membri dei Loop non furono coinvolti in discorsi specifici riguardanti la qualità della musica che facevamo, per il semplice fatto che non arrivammo mai a discuterne. Io sentivo il bisogno di muovermi in avanti, come ho sempre fatto, ma ci furono altre circostanze che portarono alla dissoluzione dei Loop; così la mia visione di quello che fosse il giusto percorso da seguire fu subito quella di creare un progetto totalmente nuovo, invece di muovermi ancora nell’ambito delle dinamiche dei Loop. Quando ci sciogliemmo chiesi a Scott se voleva far parte di questo nuovo progetto e lui accettò. Ma anche se avesse rifiutato, io avrei comunque seguito quella strada”.

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Il rapporto con Scott Dawson è quello, artisticamente parlando, più significativo, in una carriera altrimenti fondamentalmente autarchica e solitaria: “Quella con Scott è una buona amicizia. Vista da un punto di vista musicale, lui entrò nei Loop solo dopo che finimmo le registrazioni di A Gilded Eternity, quindi non ebbe quell’impatto creativo diretto che invece ha avuto poi con i Main. Sfortunatamente, non ci siamo visti per molto tempo. Da quando mi sono trasferito in Francia, le conseguenze sulla mia vita sono state due. Da un lato ho perso contatto con le persone del mio passato e vivo una vita fondamentalmente solitaria. E’ il risultato anche delle mie cattive abitudini, la più grave delle quali è quella di starmene sempre tranquillo e di non socializzare molto. Ma in qualche modo ho sempre saputo che i percorsi delle persone importanti, prima o poi,


tendono ad incrociarsi di nuovo. L’altra conseguenza diretta sulla mia vita è stata quella di essere entrato in contatto con il GRM, Groupe de Recherches Musicales e la musica concreta, anche se avevo già lavorato timidamente con loro prima di lasciare l’Inghilterra. Sono sempre stato interessato alla musica concreta, che scoprii ascoltando band degli ’80 come Cabaret Voltaire, ecc. Non ha avuto una reale influenza sulle dinamiche dei Loop, ma ovviamente puoi trovare una connessione molto più diretta con i Main. Ho sempre amato la sua non musicalità. E’ puro suono”. Altra collaborazione storica che risalta nel curriculum vitae di Robert, è quella con i Godflesh del tour di Pure. Forse non a caso i loro destini si sono incrociati di nuovo quest’anno, al Roadburn Festival 2013, dove i redivivi Godflesh di K Broadrick, G. C. Green, e tutta la lineup dell’epoca, erano gli headliner con l’insana e storica missione di suonare per la prima volta dal vivo e nella sua interezza, Pure. A far loro compagnia sul palco c’era proprio Robert Hampson, che trovava il tempo di suonare anche Straight To Your Heart: “Abbiamo avuto tutti l’idea di suonare STYH per via della connessione Loopflesh/ Fleshloop. Ci è sembrato fosse un buon modo di finire un evento così unico. Quando all’inizio mi sono unito ai Godflesh, anche se da un punto di vista, per così dire…laterale, è successo troppo presto dopo la fine dei Loop, mi è piaciuto per la maggior parte del tempo che sono rimasto con loro. Era una delle mie band preferite dell’epoca, veramente unica. Ora puoi sentire la loro influenza sulla scena a cui sono associati, ma ancora, come sopra, non c’è poi nessuno che sia come loro. Ovviamente, gli Head Of David ci vanno vicino, ma i Godflesh arrivavano in zone molto più proibite. Gli avevo detto che avrebbero potuto contare su di me, se avessero avuto bisogno di un altro chitarrista, e quando Paul Neville ha lasciato, loro me lo hanno chiesto. Sono stato con loro per

un anno circa e quando i Main sono diventati più importati, ho ovviamente seguito questi ultimi perché era difficile concentrarsi su entrambi. In più, ho realizzato in che razza di tour massacrante mi trovassi e volevo smetterla di girare così tanto. Non ho visto Justin o Ben per molti, molti anni. Justin e io ci siamo poi trovati al festival di Tilburg in Olanda e siamo finiti a berci due birre dopo il concerto. E’ stato bello incontrarlo ancora. Subito dopo mi ha chiesto di unirmi a loro per lo il concerto di Pure a Tilburg. Non ho avuto bisogno di farmelo ripetere due volte. E’ stato grande. Abbiamo passato una bella settimana insieme fino all’ultimo show, che ha avuto un successo incredibile. Si è parlato di farne altri, ma non sono sicuro che la storia si ripeterà. Se me lo chiederanno di nuovo, comunque, accetterò”. Loop e Main rimangono, nella visione artistica del loro creatore, due figli separati e ben distinti, e nonostante i punti di contatto o il fatto che entrambe le esperienze siano risultate di fondamentale importanza nel ridefinire i canoni della forma rock, il discorso rimane, per lui, a margine: “Non c’è molto che possa dire riguardo allo spazio che Loop e Main possono meritarsi nella storia del rock, perché dopo tutto, questo è materiale per critici e giornalisti. Non ho opinioni particolari circa il fatto che entrambe le band possano essere dei precursori o sulla possibilità di una forma di avanguardia rock senza elettronica ed effetti. I Loop sono i Loop e i Main sono i Main. Questo è tutto. Se la gente desidera seguire ancora i Loop, ovviamente è una cosa per me positiva, ma se decide di lasciarli alle spalle, non c’è niente che io possa fare per convincerla. Voglio che le due band restino entità separate. Quello che faccio con i Loop deve rimanere diverso da quello che faccio con i Main o come solista”. Ragionando in questo modo, il discorso con Robert, si sposta in modo naturale sulla qualità trascendente della sua musica, in particolare sulla

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ripetizione circolare degli effetti e delle frasi di chitarra, ovvero il trademark dei Loop, diventato poi una chiave di registro di fondamentale importanza nella drone music del 2000. Di fatto, la ripetizione, in brani come Straight To Your Heart, Fix To Fall, Too Real To Feel, Fever Knife, Pulse, Afterglow, Blood e From Centre To Wave, è un’idioma del tutto particolare, che prende tanto dal minimalismo, quanto dal kraut, quanto dalla psichedelia, brutalizzando tutto attraverso il post-punk. ”La ripetizione, nei Loop, fu influenzata soprattutto dal minimalismo. Andando a cercare le varie influenze nel nostro sound, ho sempre pensato che le puoi sentire, ma non le puoi ‘ascoltare’ in maniera facile. I Loop erano una amalgama di diversi ingredienti che messi insieme hanno fatto qualcosa di nuovo. Non ti so dire se abbiano influenzato direttamente qualcuno. Non mi pongo questi problemi. Dirò solo che preferisco i musicisti che non suonano banali e hanno qualcosa che li differenzia. Molte band contemporanee mi lasciano alquanto freddo, pertanto non le ascolto. Questo ovviamente non

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vuol dire che altre persone non possano apprezzarle”. I Loop, all’epoca, facevano in qualche modo parte di un trend psichedelico non molto ben definito e a suo modo eretico rispetto alla tradizione. C’erano i MBV, lo shoegaze in generale, gli Spacemen 3, ma rispetto a questo e ad altri trend, il loro sound era ancora più strano, più scuro, più acido, in un modo che li poneva, naturalmente, al di fuori di qualsiasi mischia. Quello dei Loop era un modo del tutto naturale di brutalizzare il sogno hippie degli anni ’60. La loro era una rivincita cercata tanto nell’oscurità, quanto nella luce, ma una luce diversa, luminosa a tratti e quasi sempre sconcertante. “Penso che tutti cerchiamo la luce. In quanto esseri umani, gravitiamo intorno alla luce in modo del tutto naturale. Penso che l’unico disco veramente oscuro dei Loop, sia stato Fade Out. Penso che ci sia luce sia in Heaven’s End che in A Gilded Eternity. Ma c’è una giusta alternanza di luce e ombra, come nella vita. La domanda è: la vita di oggi è più oscura? Beh, uno potrebbe dire che


da un punto di vista politico non è mai stata più oscura. C’è un’infezione, nel mondo. E’ davvero una situazione in cui ti trovi a dividere Noi e Loro, su scala mondiale. Io vedo più corruzione e abusi di potere di prima, ma in qualche modo, sembriamo tutti più assuefatti e compiacenti, anziché alzarci e combattere. E se qualcuno lo fa, allora scompare o viene abbattuto rapidamente. Io sono sbalordito dal fatto che la gente voti per questi individui corrotti, ripetutamente. E’ una cosa che mi deprime. C’è molta ingiustizia e sembra andare sempre peggio. Non ho soluzioni, oltre a dire che mi auguro che prima o poi, qualcosa di veramente drammatico accada e dia inizio a un cambiamento culturale su vasta scala. Sfortunatamente, questo è quello che è accaduto in passato come risultato di una guerra mondiale. Forse, abbiamo bisogno di un’altra guerra per riportare indietro un sen-

timento di uguaglianza e per rendere la razza umana finalmente entusiasta per ciò che ha. Ovviamente, sarà sempre troppo tardi e non ci sarà rimasto poi molto da salvare. Mi chiedevi a proposito della luce? Io posso solo dire che ne serve sempre di più. Molto più di prima, perché i tempi sono veramente bui”. Poche speranze anche per il futuro dei Loop: “Non ci sono progetti per registrare nuovo materiale dei Loop. La reunion, molto probabilmente, sarà solo per un breve periodo. Le cose possono sempre cambiare, ma al momento siamo concentrati sul ritornare la forza che eravamo un tempo dal vivo. E’ davvero importante ricreare un forte live, sia per i fan di vecchia data, che per quelli che all’epoca non c’erano. Dobbiamo dare la giusta impressione. Dobbiamo essere tutti assolutamente concentrati o avremo fallito nella nostra missione”.

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Un imponderabile classico

In occasione della recente data al Teatro Duse di Bologna, ripercorriamo la storia dell'uomo e del mito. Retrospettiva di una delle ultime rockstar, nonchè songwriter di culto asceso all'Olimpo dei grandi Testo di Giulia Antelli

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Š Francesca Sara Cauli


© Francesca Sara Cauli

La prima volta che ho sentito Mark Lanegan dal vivo è stata il 13 novembre 2004, al Velvet di Rimini. Ricordo bene quel giorno, perché è stato l’avvenimento che ha segnato tutto il mio successivo percorso di ascoltatrice e appassionata di musica, ma potrei esagerare e dire che è stato un momento fondamentale anche sotto altri punti di vista. È stato principalmente dopo quell’incontro che mi sono decisa ­- a prescindere dagli esiti - a scrivere di musica. Insomma, se non fosse stato per Mark Lanegan molto probabilmente adesso non mi ritroverei a scrivere questo articolo, ripensando a come, quando e perché quest’uomo si è imbattuto nel mio cammino, stravolgendo non solo tutto quello che pensavo di sapere, ma anche tutto quello che credevo di amare della musica. Certo, so di non essere l’unica: chi predilige l’arte del suono, prima o poi trova la propria fede, il culto e feticcio da onorare in maniera totalizzante e imprescindibile, un credo che molto spesso ci accompagna per il resto della vita. Io ho trovato Mark Lanegan, avevo 17 anni. Quasi dieci anni dopo, ho smesso le vesti di ammiratrice per calarmi nel ruolo più serio e distaccato della

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giornalista, tralasciando amore e stima incondizionati per cercare di conoscere l’uomo dentro al personaggio, per andare oltre il mito, provando ad analizzare più da vicino un musicista la cui figura ha assunto contorni quasi da leggenda. D id you call for the night porter?

Ma torniamo indietro a quella sera. Avevo 17 anni, come ho detto, e per chi, come me, era cresciuto con i Nirvana nelle orecchie - anche se con uno scarto generazionale di circa dieci anni -, gli Screaming Trees erano notoriamente uno dei nomi più importanti in quell’enorme babele etichettata in fretta e furia come grunge, ma che solo diversi anni dopo sarebbe stata riconosciuta come il suono Sub Pop. Io non avevo mai badato troppo al mix tra psych, garage e rock del gruppo, tanto meno mi ero mai fermata ad ascoltare davvero quella voce. Peccavo di ignoranza giovanile, e ingenuamente consideravo Lanegan soltanto come una vecchia gloria di quella scena. Un sopravvissuto, in altre parole. Sapevo che si trattava di una figura umorale e umbratile, ma all’epoca c’era una marea di personaggi che trovavo infinitamente più interessante, anche se senza una ragione particolare: Layne Staley, morto un paio di anni prima, faceva parte della pura mitologia rock (allo stesso modo di Cobain), Dave Grohl era già una star del mainstream, mentre Andrew Wood rappresentava un passato lontano e tutto da scoprire. Le sole cose che sapevo di Lanegan, invece, erano che era vivo e vegeto, e con una lunga carriera solista alle spalle, peraltro consolidata da anni: a posteriori, posso dire che in quell’epoca la sua storia, ancora prima della musica, non aveva colpito abbastanza la mia immaginazione di adolescente. Ne sapevo ancora troppo poco, ma quanto bastava per capire che l’invito ad andare ad un suo live era un’offerta che non potevo proprio rifiutare. Di una cosa, infatti, mi ero resa conto perfettamente. Di lì a qualche ora avrei visto uno dei mostri sacri della storia rock alternativo, ed era certo un’occasione che non volevo lasciarmi sfuggire. Ricordo di aver pensato: “incredibile, sto andando a vedere il concerto di uno che era amico di Kurt Cobain!”, e già questo, nel mio immaginario di diciassettenne, mi pareva elettrizzante. Ancora, però, non sapevo cosa sarebbe successo poco dopo. In questi anni, sono tornata spesso con la mente a quella serata, ricavandone considerazioni che anche adesso trovo appropriate per la mia doppia condizione di ascoltatrice e redattrice. Innanzitutto, la consapevolezza che quel live ha rappresentato una rottura, facen-

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domi ripensare a tutto il mio modo di vivere la fruizione musicale e, soprattutto, all’importanza che questa aveva avuto su di me fino a quel momento. In secondo luogo, ho capito che in certi casi la distanza tra palco e platea rimane incolmabile. Si tratta di un piccolo abisso che, a causa dei rispettivi ruoli, nessuno può o vuole superare: il cuore prevale sulla lucidità, la leggenda oscura il reale, ed è così che ognuno edifica l’altare del suo idolo personale. Quando ho finalmente avuto l’occasione di incontrare e intervistare l’uomo che ho ascoltato, adorato e seguito incessantemente per tutti questi anni, mi sono ritrovata in bilico, indecisa tra l’abbandono totale e quasi auto-distruttivo che conduce all’idea per così tanto tempo vagheggiata, e la razionalità, che ti spinge invece a renderti conto che, in fin dei conti, l’intervista che farai sarà come tutte le altre, solo – in cuor tuo – un po’ speciale. A shanty man ’s life

© Francesca Sara Cauli

A Lanegan non è mai interessato nulla di cosa il pubblico, i giornalisti, i critici – o chiunque, in generale, possa gravitare intorno a tutto quello che riguarda la sua musica – pensino di lui. È sempre stato così, e dobbiamo farcene una ragione. Basta guardare un video intitolato programmaticamente Mark Lanegan Goes Crazy, girato al festival di Roskilde nel 1992, in cui durante l’esibizione,

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Mark perde la testa, comincia a inveire contro tutti i presenti, ed infine si scaglia contro i tecnici del palco, minacciandoli con un’enorme cassa stereo. Tralasciando i particolari e volendo trovare tutte le scusanti del caso – l’abuso di droga, gli screzi con la band, e pure il periodo storico, quello relativamente commerciale degli Screaming Trees, ovvero il dopo Sweet Oblivion -, sulle prime è difficile convincersi che quello sia l’impassibile e inamovibile crooner a cui siamo abituati, l’uomo in nero che concede solo un impercettibile thank you a fine show. Nel corso della nostra breve chiacchierata, abbiamo chiesto quale fosse il legame che unisce la sua discografia alla musica folk oltre al blues e al rock, un aspetto fondamentale, visto e considerato che stiamo parlando di uno che rimane prima di tutto un cantautore, o meglio, un songwriter profondamente immerso nella tradizione americana. “Non mi importa nulla di sapere cosa lega la mia musica ad altra musica” ci ha detto, “trovare legami è compito di chi studia questo genere di cose. Io sono solo uno che scrive canzoni, non mi interessa analizzarle”. Che è proprio quello che fanno i giornalisti, abbiamo chiosato. Lui ha riso, finalmente, e noi abbiamo tirato un sospiro di sollievo: “Sì, esatto. Non volevo dirlo io ma lo hai fatto tu…”. Ecco dunque un perfetto esempio del Lanegan-pensiero: tirare avanti per la propria strada, incurante di chi o cosa possa mettersi in mezzo, senza domandarsi cosa potremo pensare noi comuni mortali di quello che le sue canzoni lasceranno dopo di lui. Una prospettiva indispensabile per capire la storia del musicista di Ellensburg, ma anche per cercare di ricostruire un racconto che comincia da lontano, quando il Nostro era ancora un ventenne problematico, con la passione tanto per il punk quanto per il Blues del Delta. Le collaborazioni che si sono susseguite negli ultimi anni – e ce ne sono state moltissime, impossibile elencarle tutte -, sono da inserire in quest’ottica, ponendosi prima di tutto una domanda: come può un uomo così schivo e riservato, del tutto disinteressato agli ingranaggi e alle dinamiche che muovono il mercato discografico, riuscire ogni volta a calarsi in situazioni musicali così distanti da lui? A voler mettere insieme una breve cronologia dei contributi che ci sono stati dal 1987 in poi, basterebbe citare solo qualche nome per evidenziare come Lanegan si sia sempre trovato nel posto giusto al momento giusto, e di come abbia saputo selezionare e dosare la propria presenza nei progetti più disparati. Dai Mad Season ai Twilight Singers dell’amico Greg Dulli, passando per Soulsavers, Moby e UNKLE, finendo poi con Queens Of The Stone Age e Isobel Campbell, quello

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che colpisce è la sorprendente spontaneità con cui si è sempre mosso in territori apparentemente lontani da lui, spaziando dallo stoner al trip hop, dal blues al country-folk: “Credo di essere in sintonia con tutto quello che mi piace. Mi piacciono alcune canzoni folk, mi piace la musica elettronica, mi piacciono cose che io non canto affatto. Tutto quello che gli altri dicono sul rock o sul blues non mi tocca minimamente”. Remember that old song we heard when we were young

Arrivati a questo punto, è bene ricordare una tappa coincisa con un periodo di silenzio della Mark Lanegan Band, ovvero la collaborazione con l’ex Belle And Sebastian Isobel Campbell. Una parentesi inserita nella lunga pausa intercorsa tra Bubblegum e Blues Funeral, e non più l’ennesimo mordi e fuggi tra i tanti progetti, bensì una pietra miliare nel percorso dell’ex Screaming Trees. Tre album in quattro anni (con relativi tour in Nord America ed Europa) scritti e arrangiati per intero dalla Campbell, nei quali il contributo di Lanegan si è limitato alla voce e alla scrittura di una manciata di pezzi, ma che hanno rappresentato di fatto una svolta fondamentale. Non deve affatto stupire che il sodalizio con la violoncellista scozzese si sia concretizzato a tutti gli effetti – e fin dalla prima, splendida, uscita Ballad Of The Broken Seas, del 2006 – come una nuova carriera nel periodo post-Bubblegum, potremmo anzi considerarla come la naturale conseguenza dopo anni di lotte e inquietudini. Sconfitti presumibilmente per sempre i propri fantasmi, Mark appare come un uomo nuovo, addomesticato dal candido fascino di Isobel, credibilissimo e completamente a suo agio nei nuovi panni di cantastorie. Certo, rimane ancora il personaggio oscuro e cavernoso di sempre: il baritono nero e profondo che tutti conosciamo, tenuemente contrapposto al fragile sussurro di lei, per una strana e azzeccatissima coppia che è riuscita a reinventarsi come ultimo esempio di duetto tra lei e lui, pur rimanendo saldamente legata ai canoni di riferimento. Un gioco magicamente diviso tra maschile e femminile, un languido rincorrersi tra sguardi e voci in opposizione, che ci ha restituito un Lanegan magnificamente inserito in un filone di lunga e proficua memoria, che parte da Nancy Sinatra e Lee Hazelwood per arrivare a PJ Harvey e Nick Cave. Un’altra trasformazione che ci porta indietro nel tempo, a quel folk-blues acido e maledetto che ha segnato gli esordi di una personalità ancora tutta in divenire.

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Get me out it’s starting to burn

Nel 1989 il giovane Mark è ancora soltanto il frontman di una band indipendente – con all’attivo quattro album di discreto successo all’interno del circuito underground -, orientata per lo più a sonorità hard e psych rock. Frontman suo malgrado, non ancora abituato a quella voce così ingombrante per un ragazzo di poco più di vent’anni, che si limita a urlare le parole delle canzoni direttamente sul microfono. Insicurezza, dipendenze, un gelido ma quanto mai vivo Nord-Ovest americano a fare da sfondo: qui nasce The Winding Sheet, debutto solista del 1990 – pubblicato con l’onnipresente SubPop – e indiscusso capolavoro di quei neonati anni ‘90. Un disco che ha influenzato un’intera generazione di cantautori ma anche rockstar come il già citato Cobain (che vi partecipò assieme a Krist Novoselic), che non a caso lo indicò come fonte di ispirazione per l’MTV Unplugged In New York. La genesi di The Winding Sheet è nota. In crisi di identità con le atmosfere punk/garage della band madre, Lanegan, da sempre amante e cultore dell’old blues di Leadbelly e Blind Willy McTell così come del country/folk più antico e oscuro, aveva registrato solo alcuni dei brani che sarebbero poi finiti sul disco. Non ancora convinto di voler abbandonare, anche se solo temporaneamente, i compagni di gruppo, e soprattutto molto reticente nel mostrare un lato fino a quel momento inedito (quello del cantautore), il Nostro aspetta di incontrare il produttore e coautore Mike Johnson prima di decidersi a entrare in studio per registrare i tredici brani dell’album. Canzoni che per prime hanno raccontato l’essenza del suo viaggio solista, divise tra reminiscenze hard rock, in pezzi come Down In The Dark o Where Did You Sleep Last Night, e brume di blues fumoso, in veri e propri manifesti quali Mockingbirds o Eyes Of A Child. Altrove, è l’anima folk a stendersi addosso quel sudario a cui allude il titolo, lo spirito errante di una voce che riesce a buttar fuori la propria urgenza di vita anche nella quiete sgraziata di Wild Flowers o nella scarna ninna nanna di I Love You Little Girl. The Winding Sheet è un album di nascita, in cui celebrare l’arrivo del nuovo Lanegan, quello che percorrerà da solo due decadi di storia della musica, nonché preludio del testamento blues per eccellenza, Whiskey For The Holy Ghost. Back where the darkness comes, between the earth and skies above

Quello che sarebbe stato, quattro anni dopo, il successore di The

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Winding Sheet, sembra in qualche modo già scritto, come se qualcuno avesse tracciato il sentiero dell’uomo sovrapponendolo a quello del musicista, marchiando a fuoco una voce che, da lì in poi, avrebbe cantato – e vissuto – storie di ascesa e caduta, peccato e redenzione. Lanegan si rivela un prescelto dai fantasmi del blues, e forse se ne rende conto anche lui, visto che decide di intitolare il suo secondo album Whiskey For The Holy Ghost. Un lavoro che mette insieme tutti gli elementi della sua poetica, sintetizzandoli in quella copertina, specchio di uno spirito perennemente in bilico tra sacro e profano, ansioso di redimersi ma maledettamente attratto dalle proprie oscurità. Una Bibbia, un posacenere stracolmo, una bottiglia di whisky, a celebrare un rituale pagano e profondo, quello della discesa negli inferi del proprio io. Ancora su Sub Pop, Whiskey For The Holy Ghost esce il 18 gennaio 1994, e segna il punto di non ritorno nella carriera del cantante. Se nonostante la sua acerba bellezza, The Winding Sheet dimostrava ancora i dubbi di una personalità non ancora del tutto a fuoco, quasi timida nel confrontarsi con i propri miti, il secondo album mescola con straordinaria disinvoltura rimandi ed influenze, a cui si contrappone una scrittura ormai matura, in cui è la voce a tessere le intensissime atmosfere dell’album. Brani debitori in tutto e per tutto ai traditional americani, capaci, sempre attraverso quella voce, di calare l’ascoltatore nelle pieghe di un animo tormentato, confuso e annebbiato dagli eccessi, ma in grado di addentrarsi con sorprendente lucidità nei buchi neri dell’io, così come di riconnettersi alle proprie radici, quelle di un’America sospesa nel tempo, luogo di mistero e solitudine. Scenario perfetto di canzoni come Kingdoms of Rain o Carnival, esempi di quel country e folk secolari a cui fanno eco gli abissi emotivi di Borracho o Beggar’s Blues. Brindare coi demoni, danzare con loro sopra il cadavere della propria anima in una bettola all’Inferno. Questo sarà Lanegan per molto tempo ancora, ovvero l’ombra di sé stesso, in grado di curare le proprie ferite solo grazie alla forza arcana e rigeneratrice di un canto antico quanto l’uomo. I build a shrine , I set a monument, because you’re fire, because you’re a fire escape

I sentieri battuti dopo Whiskey For The Holy Ghost appartengono alla storia più o meno recente, e raccontano una parabola musicale e umana in perenne – anche se spesso difficoltosa –

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risalita. La prima immagine che torna alla mente di Lanegan sul palco ce lo raffigura immobile, vestito rigorosamente di nero, con l’immancabile sigaretta accesa sopra l’asta del microfono e i numerosi tatuaggi a ravvivare un’immagine altrimenti immutabile. Quel Lanegan, tuttavia, è ancora diverso da quello di adesso. Dopo l’atteso ritorno a firma Mark Lanegan Band lo scorso anno con Blues Funeral, in cui il Nostro ha voluto celebrare il suo insospettabile amore per l’elettronica, sono stati pubblicati altri due album a suo nome: il primo, Black Pudding, registrato assieme all’amico Duke Garwood, ma soprattutto Imitations, disco di cover che arriva a quattordici anni di distanza da quel capolavoro che fu I’ll Take Care Of You. Stavolta, però, non si è trattato di un omaggio a numi tutelari e spiriti affini quali Jeffrey Lee Pierce o Tim Hardin: con Imitations assistiamo all’ultima metamorfosi, quella di un musicista ancora legato ai maestri dei tempi che furono ma nel medesimo istante amante e conoscitore della musica del suo tempo. Così, accanto a Frank e Nancy Sinatra, troviamo Chelsea Wolfe e Nick Cave, John Cale e la chanson francese. Una selezione insolita, che il diretto interessato ci ha spiegato in poche parole: “avrei voluto registrare queste canzoni

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© Francesca Sara Cauli

già da molto tempo. Mi sono detto: mi prenderò cura di questo album, lo riempirò a poco a poco, e un giorno farò un disco con brani di questo genere. Quando ho registrato I’ll Take Care Of You mi sono dedicato al blues, al folk, al soul, ma anche a gruppi contemporanei come The Gun Club e Leaving Trains. Metto insieme cose differenti, questo è il mio modo di fare un disco. Scrivo canzoni, e se poi mi suonano bene insieme, le metto insieme”. Quello che magari non ci aspettavamo è la release, prevista per gennaio, di Has God Seen My Shadow?, antologia composta da venti brani che riassumono quindici anni di carriera, dall’esordio a Bubblegum, e da un secondo disco contenente inediti e rarità: si tratta del primo best-of a suo nome, e non è difficile immaginare che la scelta di pubblicarlo non sia stata sua. “In effetti non l’ho deciso io, è stata la casa discografica a volerlo fare. Me l’hanno proposto in un momento in cui le antologie andavano di moda e così ho detto di sì, perché no. Sapevo che avremmo fatto un buon lavoro. La casa discografica ha scelto molte canzoni, io poi ho corretto la lista togliendo quelle che non mi piacevano. È quello che fa un’antologia. Attraversa un periodo di tempo”. L’intervista sta per finire, e nonostante il tour manager ci abbia concesso circa mezz’ora, dopo una decina di minuti abbiamo esaurito le domande. Ringraziamo e ce ne andiamo, guadagnandoci un sardonico “it’s a pleasure, it’s a pleasure…”. Muto e imper-

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turbabile, Lanegan è lo stesso che vediamo sul palco, un personaggio che non ama dare spiegazioni, né tantomeno parlare di sé. Nel corso degli anni e dei numerosi concerti a cui abbiamo assistito, quest’uomo torreggiante e monolitico non si è mai mostrato diverso da quello che è, e lo dimostrerà anche qualche ora dopo, durante il concerto al Teatro Duse di Bologna. Inutile parlare della performance vocale impeccabile, o dell’atmosfera suggestiva di una location perfetta per l’occasione. È interessante invece notare cosa sia cambiato da quel freddo novembre di nove anni fa ad ora, e la risposta è: niente. Qualche tatuaggio e qualche anno in più, gli stessi abiti scuri, la stessa posa statica e l’espressione indecifrabile. Mark Lanegan che continua a fare Mark Lanegan. Non è cambiato nemmeno il pubblico, pronto a seguirlo ovunque e ad ascoltare attentamente ogni parola, osservando quasi avidamente il più piccolo gesto, come per assicurarsi che quello che sta vedendo sul palco sia davvero un uomo in carne ed ossa, e non la proiezione di una delle ultime rockstar viventi, ascesa all’Olimpo di quei grandi e maledetti maestri di cui si è fatto portavoce ed erede. Finito lo show, concluso con il classico degli Screaming Trees Halo Of Ashes, ripensiamo alle parole dell’intervista. Avevamo chiesto cosa lo avesse spinto ad inserire nella raccolta un archetipo della tradizione folk anni ’60 come Blues Run The Game di Jackson C. Frank, un oscuro e misconosciuto folksinger americano che nessuno meglio di lui avrebbe potuto omaggiare: “Non c’è nessuna ragione particolare. Non mi chiedo mai da dove derivi una canzone che mi piace, né cosa significhi. Sono solo grato che esista”. Molto probabilmente, è la stessa gratitudine che quella sera ha riunito in sala il folto pubblico accorso al Duse, venuto per celebrare ancora una volta la stella di un imponderabile classico.

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Genere: folk Aisha Burns è cresciuta e adesso canta da sola. Molti se la ricorderanno forse per essere stata la violinista dei Balmorhea, ma con il debut Life In The Midwater – uscito via Western Vinyl, la stessa etichetta del gruppo di provenienza, ma anche un ottimo biglietto da visita all’interno del panorama alt. folk statunitense – la cantante e polistrumentista texana ha finalmente deciso di mostrare le proprie doti di singer/songwriter. E che doti, verrebbe da aggiungere. Non solo per quella splendida voce cristallina infusa di ascendenze gospel, ma anche e soprattutto per la qualità delle canzoni: se il disco si colloca, giocoforza, all’interno del più classico female-folk a marca U.S.A., tutti i brani si caratterizzano per coesione e sostanza, nonché per una padronanza compositiva e tecnica che probabilmente convincerà anche coloro che potrebbero considerare questo esordio soltanto come uno spin-off dall’esperienza con i Balmorhea. A detta della stessa Burns, l’album è stato una sorta di auto-analisi, in cui le canzoni hanno costruito un cammino che mescola fragilità e sofferenza, ma anche dubbi e insicurezze di chi si trova a un bivio. L’elemento autobiografico, dunque, c’è e si sente, a cominciare da Sold, uno degli episodi più riusciti e toccanti. In quanto a sonorità, il brano mette in luce tutti i presupposti del disco: in primo luogo, l’intreccio tra archi e chitarra acustica, e poi una voce che rimane sempre al centro della scena,

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svelando ora accenti black, ora spiritual, vero veicolo di trasmissione di quel sostrato emotivo che permea tutto l’album. Non è un caso che, oltre ai grandi nomi del genere – Gillian Welch, una delle influenze espressamente dichiarate, ma anche Joan Baez e Carole King -, si senta la suggestione di una black music - Nina Simone in testa – che riecheggia ad esempio in Discerpo, brano in cui il crescendo corale tra organo e chitarra elettrica mette in mostra l’eccezionale versatilità interpretativa della Burns. La stessa che emerge anche in Midwater e Mine To Bear, ottimi esempi di un folk oscuro ed essenziale sempre teso alla ricerca di quel focus viscerale ed intenso che costituisce l’anima di Life In The Midwater, come sottolineano altri notevoli episodi acustici quali Shelly e Gatekeeper. La melodia in dissolvenza di Nothing che chiude il disco, diventa il suggello di un lavoro intenso e personalissimo, che pur rifacendosi ad una tradizione musicale ampiamente esplorata, è in grado di mostrare tutte le qualità di una nuovissima autrice. Una musicista che ci auguriamo possa trovare spazio accanto alle sue stesse fonti d’ispirazione. 7.3/10 Giulia Antelli

American Authors - American Authors EP (Def Jam Recordings,2013) Genere: pop Se avete gioito quando Dan Reynolds (Imagine Dragons) si è rotto una mano o se i The Royal Concept vi incitano alla violenza, è meglio

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Aisha Burns - Life In The Midwater (Western Vinyl,2013)


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Black Flag - What The… (SST,2013) Genere: punk, hardcore Ci sono due modi per approcciare quest’album. Il primo è far finta di non sapere nulla della controversia che ha contrapposto la coppia Ginn/Reyes a quella formata da Keith Morris e Dez Cadena, tutti impegnati a tirarsi gli stracci per dimostrare di essere più “Black Flag” degli altri. L’altra è leggere questo lavoro alla luce della storia della band, che per inteso fu una delle più importanti del rock americano degli anni ’80, e il cui raggio d’azione trascese l’hardcore per spingersi a commistioni con il free jazz e lo spoken word. Per non farci troppo male, scegliamo il primo approccio. Quello secondo cui What The…, al netto delle polemiche e della copertina orripilante (voluta o subita? A voi la scelta), è un album di rock furibondo e muscolare. Evitiamo accuratamente il termine punk, perché il chitarrismo di Gregg Ginn è sempre stato più articolato rispetto alla media del genere. Anche ora, pezzi come Down in the Dirt procedono lenti e massicci su un riffing circolare e interstizi noisey. Persino i frammenti più veloci, pur mancando del nervosismo schizofrenico dei tempi che furono, godono del suo stile febbricitante e convulso. In poche parole, unico. Poi, ovviamente, manca un Henry Rollins. Più come lyricist che come cantante e performer. E questo si traduce in un ulteriore impoverimento del progetto. Il povero Ron Reyes fa di tutto per starci dentro. Sbraita i suoi slogan banali e ripetitivi con la foga di uno a cui stanno rubando l’auto, ma l’unico risultato è che la monotonia trascina a fondo l’album come un macigno. Un peccato, perché in assenza di una gioventù scossa da quell’angst generazionale che animava dischi come Damaged, non v’è dubbio che Ginn e soci qualche calcione negli stinchi saprebbero ancora assestarlo. Purtroppo l’urgenza creativa è qualcosa che non si guadagna

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che stiate alla larga dagli American Authors: i bostoniani sono infatti il più becero punto d’incontro tra boy-band e mainstream pop-rockers folkizzati degli anni Dieci. Come se gli One Direction di Story of My Life non avessero ulteriormente abbassato la credibilità di certe sonorità, negli ultimi anni già ampiamente sradicate dalla propria natura, la band – un tempo chiamata The Blue Pages – capitanata da Zachary Barnett si è armata di chitarre, banjo e sorrisone perbenista e ha dato alla luce un EP di debutto intitolato semplicemente American Authors. Più conformisti dei Mumford and Sons, gli American Authors sembrano vivere in un mondo baciato dalla speranza e dal plastificato ottimismo. Zachary Barnett infatti ci tiene a farci sapere che “this is gonna be the best day of my life” e che “I’m just a believer That things will get better” nei due brani di punta del cinque tracce, Best Day Of My Life e Believer: il primo a metà strada tra strumentazione tradizionale e “bombastici” cori alla Imagine Dragons, il secondo sotto le spoglie di un antidepressivo che ottiene, però, l’effetto opposto. La forza d’animo, l’auto-realizzazione e la ricerca della propria strada lontana dal nido dei genitori vengono raccontate in Luck con la solita dose di retorica all’americana, mentre la meno radio-friendly e conclusiva Home ha il merito, grazie al suo essere anonima melodicamente e stilisticamente, di placare un po’ gli animi nella direzione dell’indifferenza, dopo l’astio generato dal Glee-rock della precedente Hit It (“I’m feeling lucky, I’ll bet my hometown, nothing can stop us now“). In loro difesa c’è da dire che già agli esordi targati The Blue Pages i quattro American Authors si cimentavano in ripugnanti laccate da spot-tv, con la differenza che ora c’è il rischio che possano approdare al grande successo. 3.5/10

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Genere: dub Progetto inizialmente avvolto da uno strategico silenzio stampa, Akkord aveva debuttato con due buone autoproduzioni numerate nel 2012, per poi apparire come colonna sonora del trailer di presentazione dell’etichetta elettronica Houndstooth. Una scelta fortemente voluta dall’aandr manager Rob Booth che già parlava chiaro riguardo al ruolo che questa misteriosa formazione avrebbe dovuto ricoprire nello scacchiere della neonata label e non solo. Successivamente, con l’annuncio del debutto lungo la scorsa estate, sono stati svelati i nomi dietro alla sigla, ovvero Liam Blackburn (Indigo) e Joe McBride (Synkro), due producer mancuniani con all’attivo variegate produzioni fin dal 2007, con McBride già famoso per via del remix 2 step della Night Time degli XX e per una serie di uscite in area soul-elettronica anni ’10. Nessun colpo di scena dunque, anche perché quel che conta, di fatto, è la musica, ad esempio la pubblicazione, lo scorso marzo, di un EP (Navigate) che aveva fatto drizzare molte orecchie. Nello speciale dedicato a Houndstooth, per gli Akkord azzardavamo anche un’idea di nuovi Autechre, ipotesi a conti fatti parzialmente sconfessata da un debutto che poggia certamente su solidi binari techno mancuniani (emblematica Hex AD), ma che regala le più grandi soddisfazioni viaggiando egregio lungo i continuum elettronici britannici più scuri (leggi darkside, jungle e dubstep), senza dimenticare il filo diretto con la tradizione dub techno tedesca (Basic Channel) e britannica (Mick Harris e Kevin Martin). La magia che Indigo e Synkro sono riusciti a creare sta nelle movenze di questa bestia oscura, innamorata tanto delle geometrie arcane, quanto di speleologiche discese negli abissi. Akkord è un album che non è stato pensato per il club, ma che dal dancefloor esala amianti, cadaveri, mostri e navicelle spaziali. C’è un’idea di morte del futuro dentro, ma anche una fiera resistenza a luci spente, a partire dall’iniziale odissea nello spazio di Torr Vale, come anche nel voodoo grime in zona dopo-la-morte (leggi Logos) di Undertow, traccia finale dell’album. Album che contiene alcuni colpi decisivi tra ritmi e ambienti, nello specifico una Smoke Circle che s’incastra in precise decostruzioni e un bel tocco di humor mancuniano (per chi lo vuol cogliere); la spola tra techno dub e dubstep di 3dOS, con tutto un gioco di ombre orrorifiche sui muri; le voci deformate à la Underworld che si stagliano sulla dialettica tra Keysound e Pinch di Folded Edge; l’ectoplasmatica disamina Basic Channel martoriata da marzialità dubby di Conveyor e, naturalmente, quella traccia killer che è Navigate (anche videoclip) già presente nel citato eppì. La scaletta è a prova di bomba e il debutto va diretto nella top 3 degli album elettronici dell’anno. Occhio, infine, all’eppì Storm su Samurai Red Seal del solo Indigo (in uscita a dicembre 2013), altro gioiello che fa esplodere il sound di Akkord secondo coordinate jungle più esplicite e dà chiari segnali su chi, nella coppia, tiene le molte fila del sound. 8/10 Edoardo Bridda

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Akkord - Akkord (Houndstooth,2013)


col mestiere e i solchi di What The… sembrano fatti apposta per dimostrarlo. 5.5/10 Diego Ballani

Genere: rock, blues, folk Dieci anni di vita festeggiati nel 2011 con una compilation (Looking for a Fifth Soldier in a Happy Ark) che racchiudeva il meglio della produzione della band e il qui presente The Darkest Sea a ribadire l’attualità di un percorso ancora in fieri: questi sono i Blessed Child Opera del 2013. Formazione che in realtà fa capo a un Paolo Messere che, di volta in volta, si circonda di musicisti diversi, a seconda (ipotizziamo noi) del percorso musicale che intende perseguire. Questa volta sono della partita Carmelo Amenta alle chitarre e Marco Scirè alla batteria, per un disco che tratta un folk ibrido e dal mood piuttosto oscuro. Il materiale è assai ispirato, registrato in terra di Sicilia e in bilico tra il blues cavernoso di Hugo Race (I Had Removed Everything), un Mark Lanegan terrigno (Misunderstood) e certe reiterazioni ossessive di un Nick Cave etnico e mediterraneo (una I Look At You (But I Already Know Your Answer) che è forse l’episodio più prezioso del pacchetto). Coordinate di base che, tuttavia, fungono solo da bussola, dal momento che la peculiarità del sesto disco targato BCO non è tanto il farsi contagiare dagli immaginari citati, quanto girarci attorno, annusarli, reinterpretarli. Magari con un arpeggio di chitarra che solfeggia i mai dimenticati Morose per poi buttarsi a capofitto in un elettricità sporca (Lazy Shot In The Belly) o grazie a certe malinconie folk circolari (45, Near The Sea). The Darkest Sea è un ottimo ritorno, oltre che una decisa prova di carattere. 7/10 Fabrizio Zampighi

Genere: pop, rnb Ai tempi dell’alias indie-pop-folk Lightspeed Champion, quando lo intervistammo, Devonté Hynes – Dev per gli amici – era in promo day a Londra e ci aveva dato l’impressione di essere un nerd cresciuto a pane e Hip Hop quanto un estroso timidone e un insaziabile divoratore di musica in rete. Portava un taglio di capelli impossibile, sfoggiava un gran talento arrangiativo ed era un meticoloso perfezionista, sia quando si occupava di mero blogging, sia quando si dedicava a disegnare fumetti, sia quando si trattava di comporre. Ci aveva raccontato di aver corretto refusi e imprecisioni delle schede di Wikipedia dedicate ad eroi quali 2Pac e Eminem e, in generale, dalla chicchierata emergeva un giocosa figura d’artista in transito, in crescita, un ragazzo baciato dalla fortuna che aveva preso i treni giusti (il primo si chiama Test Icicles) meritandosi il successo a colpi di estro e abnegazione. Life is Sweet! Nice to Meet You, secondo e ultimo album del progetto Lightspeed Champion, chiude una fase nella sua carriera all’insegna del classico sogno americano che per generazioni ha intrigato i musicisti Brit. Dev, nel frattempo, s’è innamorato di funk, soul, dub e, in generale, del black sound degli 80s, specie quello mainstream a stellestrisce. Già dal 2009, inoltre, dopo essersi trasferito a New York, produce tracce a nome Blood Orange sull’etichetta di Chris Taylor, la Terrible. Il Coastal Grooves che segue è un esordio delizioso, intarsiato di rimandi non banali alla vougeing New York e altrettanto abile ne ricreare quel senso di “pop per tutti”, canzoni che dalla televisione arrivano dirette a lenire i cuori, in particolare, dei più (sessualmente) emarginati. Non si può negare che sia un debutto da producer, più che da autore, così arriva la mossa

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Blessed Child Opera - The Darkest Sea (Seahorse Recordings,2013)

Blood Orange - Cupid Deluxe (Domino,2013)

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anni fa. C’è una bella sostanza e consapevolezza nell’essere young black and male in America per lui. E’ un qualcosa con cui il ragazzo fa i conti tutti i giorni entrando e uscendo dal personaggio con gli occhiali tondi e il cappello che s’è creato. Sta qui la differenza tra un album di puro e fugace citazionismo e una tracklist come questa, dove sotto il vestito non c’è soltanto Samantha ma un producer cazzuto che più che le hit cerca se stesso e un’integrità artistica. 7.1/10 Edoardo Bridda

Boardwalk - Boardwalk (Stones Throw,2013) Genere: pop, rock, dream Sono ritornati i Mazzy Star e i My Bloody Valentine, abbiamo avuto tre interessanti debutti (Postiljonen, High Highs, Pure Bathing Culture) e una manciata di convincenti sophomore (No Joy, Widowspeak, Still Corners, Big Deal), eppure l’impressione è che, in questo 2013, il revivalismo dream pop e i suoi derivati abbiano iniziato un po’ ad indebolirsi, dopo un inizio di decennio di assoluto protagonismo. Mentre l’attesa per un clamoroso comeback degli Slowdive si alimenta a più riprese, c’è chi – ancora oggi – decide di prendere in mano gli strumenti e tentare la fortuna seguendo, senza troppa fantasia, gli stilemi classici del genere. Stiamo parlando dei Boardwalk, duo californiano – diventato trio con l’ingresso di Mark Nosworthy alla chitarra – che ha recentemente pubblicato l’omonimo album di debutto per la Stones Throw Records, etichetta principalmente dedita alla black music (dal rap al soul). Solo un (futuro) miracolo potrà salvare Amber Quintero e Mike Edge da un destino artistico praticamente già segnato, ovvero quello di un gruppo che NON verrà citato nelle retrospettive o nei discorsi amarcord sul dream-pop revival del nuovo millennio. Dal canto loro i

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successiva: una naturale attività conto terzi dove Dev veste buone canzoni – anche più che buone, a dir il vero – con synth, drum machine, basso slap e una sana ed ispirata nostalgia. In particolare, il Nostro rifà il trucco a Solange nel prezioso True EP (regalandole il suo maquillage più riuscito e rilanciandole la carriera) per Losing You e, nello stesso periodo (fine 2012), spinge quello che è sinora il singolo più convincente dell’ondivaga produzione di Sky Ferreira, Everything is Embarrassing. Nel frattempo si trasferisce a Manhattan, si fidanza con Samantha Urbani (Friends), fa da fashion consultant per Jay-Z (!) e di certo diventa più sicuro di sé e ancora più ossessionato dal triangolo delle bermuda 80s / 90s / NY. Nel video che anticipa il secondo album dell’alias Blood Orange, dedicato ai luoghi dove visse la madre a Georgetown, Guyana (visitati per la prima volta assieme al videomaker d’eccezione Adam Bainbridge, ovvero Kindness), quel che colpisce di più non è la biografia del cantante ma il Dev personaggio che fa le mossette e le citazioni a Jacko, figura quest’ultima affine al Nostro prima di tutto su un piano sensibile, umano. Cupid Deluxe è un altro album di consapevolezze stilistiche e di totale immedesimazione in afflati soul pop, synth pop (Chosen, con gli stereotipici fiati in ballad 80s) come pop funk (You’re Not Good Enough, Always Let You Down) o disco funk (Uncle Ace con chitarrine à la Daft Punk, It is What It Is). Un lavoro pieno di ospiti eppure intimo, coeso, dove troviamo la fidanzata Urbani, il citato Bainbridge, una “spezzacuori” hispter come Caroline Polachek (Chairlift), il rap del grimer Skepta (High Street), David Longstreth – leader dei Dirty Projectors - con i suoi tocchi caraibici (No Right Thing), Clams Casino e Despot. Curiosa la press dell’album affidata a una video intervista dove Haynes (doppiato da sé stesso !?), è lontano eoni dal kid che abbiamo sentito farfugliare al telefono tre


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Riccardo Zagaglia

Booka Shade - Eve (Embassy One,2013) Genere: electro Dal 2010 sembra passato un secolo anche per i due zii della house tedesca Booka Shade. E infatti qualcosa è successo: Walter Merziger e Arno Kammermeier non sono più proprietari della Get Physical, storica label che hanno fondato nel 2002 con i M.A.N.D.Y. (Patrick Bodmer e Philipp Jung) e DJ T (Thomas Koch) e su cui hanno pubblicato molta parte del loro catalogo. Complice il cambio di etichetta (il nuovo disco è stampato su Embassy One) o il passare del tempo, la gestazione di Eve è stata abbastanza travagliata. Il lavoro è stato la causa di una crisi del duo, che nella prima metà delle sessioni di registrazione si stava addirittura sciogliendo. Il catalizzatore per la finalizzazione della nuova avventura è stato lo studio Eve di Manchester, ambiente che grazie alla sua atmosfera acco-

gliente e vintage (molte cose sono state registrate in analogico) è riuscito a ricompattare la liaison, insieme anche a un selezionato numero di featuring che hanno galvanizzano la playlist: Fritz Kalkbrenner, Friz Helder degli Azari and III e Andy Cato dei Groove Armada. Diversamente dall’ultima prova, More!, che viaggiava su coordinate standard, ballabilissime, ma non molto “protagoniste”, Eve centra il bersaglio. Già da quei lontanissimi 12” del 1995 su Touché (Kind of Good e Silk) la classe dei due tedeschi si è misurata con un difficile compito: mescolare deep techno e ascoltabilità, classe e anima, freddo e caldo. Col passare degli anni i Nostri si sono pure tolti lo sfizio di diventare pop e di sbancare come big star ai superfestival estivi. Oggi si ritrovano a fronteggiare il pubblico di chi li segue da quattro lustri e di chi li incontrerà per la prima volta. Il giusto compromesso per soddisfare gli aficionados e i newbies, è di presentarsi con un gusto sopraffino, fregandosene della fisicità e andando a parare su una superproduzione con i fiocchi. Dimenticate le maratone e mettetevi a bordo pista con un cocktail in mano a guardare gli altri che ballano. Sembrano dire questo i Booka. Non si rendono ridicoli nell’operazione, perché sfruttano le loro armi più efficaci: sax cosmici che ricordano la migliore G-Stone (Many Rivers in “fotta” Rodney Hunter), spunti di basso ambient à la Tosca (Kalimera e Love Inc., con il sample di Lil’ Louis), qualcosina di più dark per gli amanti dei Depeche Mode (Maifeld, Time’s On My Side) e pure la citazione ai club nordestini (nel titolo della conclusiva Jesolo). La mitteleuropa che si scalda, con voci suadenti, atmosfere rilassate e qualche cupezza che non guasta. Booka Shade in gran spolvero. Bentornati. 7.3/10 Marco Braggion

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Boardwalk non sembrano impegnarsi più di tanto per cambiare la propria sorte lungo le dieci C-sides dei Beach House (High Water in particolare) che compongono il disco: tracce anonime (Oh Well, As a Man) e monocordi che non riescono a catturare le attenzioni né di un pubblico generalista (mancano le canzoni per farlo), né tantomeno di un pubblico di riferimento difficilmente impressionabile da una voce eterea qualsiasi che ondeggia su tappeti di tastiere e pennellate di chitarra. In un mare di noia, fungono da salvagente le sfumature retrò-60s di I’m Not Myself (il primo brano scritto dalla band), le azzeccate incursioni chitarristiche di It’s Over (probabilmente l’episodio migliore), l’organo e il drumming da endless road-trip notturno di I’m To Blame ed alcune atmosfere da desert-sunset di scuola Mazzy Star. Troppo poco a cui aggrapparsi. 5.7/10


Genere: ambient, house, elettronica Album di debutto per Avatism, ovvero Thomas Feriero, producer di origini milanesi già attivo a livello internazionale almeno dalla firma con la tedesca Vakant di Alex Knoblauch. Il suo nome e stile, tech-house (o anche solo techno) scura e gassosa, umorale e aperta al formato canzone (e al “suonato” con piano, batteria, chitarra ecc.), caratterizzata da bpm spessissimo sotto i 120 e da una predilezione per certa electro/IDM, aveva già raccolto buoni consensi sia lato djing sia lato produzioni (su Luna Records, ma anche sulla Souvenir dei Tiefschwarz). Tutto buono e promettente e, di fatto, Adamant mantiene e rilancia una formula debitrice verso le lezioni dancefloor più lungimiranti di quest’ultimi anni. Parliamo naturalmente dei Darkside e prima di Nicolas Jaar in solo, forse il producer che, al netto di latinità, è il personaggio che più si avvicina all’approccio open minded del Nostro (basti ascoltare anche Thought Patterns EP) ma anche del James Holden e del giro Border Community - in particolare per le produzioni più lato IDM – e naturalmente di gente come Jon Hopkins e Apparat. Un ottimo cerchio di paragoni in cui inserire un lavoro certamente legato alla radice tech-, e ad una cangiante oscurità, eppure decisamente a fuoco nel missare costellazioni Boards Of Canada in soul bianchi e puntuti hi hat House (Different Spaces, con Forrest al canto), come in evocative e avvolgenti pennellate electro (i ganci a Holden di Planetario, Ghost Coil). In certe casse non può non saltar all’orecchio il parallelo con Andy Stott, ma è soltanto una questione di battito e piatti e di quanto entusiasmo e ispirazione possano scaturire dall’esplorazione di spazi e possibilità a bpm contenuti (citiamo anche John Talabot, giusto per snocciolare tutti i protagonisti di quest’acquario). Avatism ha portato in questo debutto il frutto maturo della sua visione sonica: può darci di funk (Serpentine), virare su un motivo 80s (Bitter Reminiscence), sulla folktronica (Blackened, e ancora Bitter Riminiscence con il feat. del duo Clockwork) o anche su smalti Trentemoller via Nathan Fake (Not Everything Is Lost) ed è sempre la sua mano morbida e spacey quella che si ascolta tra le note. Così come con gli ascolti emerge tutto un portato autoriale/umorale non racchiudibile nella mera metafora della copertina. Curioso che ogni traccia sia stata composta/eseguita, come metodo autoimposto, in un solo giorno. Classe e giusto mezzo anche per gli inserti di chitarra, piano e intarsi vari; citiamo ancora una Blackened come I’ve Never Thought I’d Find Myself Here (con richiami agli Asphodells) e Curtains (con feat. di Blue Mountain Club). 7.5/10 Edoardo Bridda

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Avatism - Adamant (Vakant,2013)


Genere: pop, easy_listening, mainstream, dance-pop Britney Spears timbra l’ottavo cartellino in carriera alla voce album in studio e lo fa contro ogni previsione: se infatti è vero che un prodotto discografico di questo tipo viene spesso spremuto e mantenuto in vita in qualsiasi modo, è anche vero che la ex-teen idol simbolo dei primi anni del millennio è stata più volte sull’orlo del baratro personale e non. Un percorso artistico disastrato che ha conosciuto sia la classica parabola discendente di chi ha la fortuna/sfortuna di vendere milioni e milioni di copie con il primo lavoro, sia i piccoli segnali di una ripresa che non si è però mai concretizzata del tutto, se non in qualche rara occasione (Circus e Femme Fatale). Terminato il contratto storico con la Jive Records, il brand Britney Spears – come sempre composto da almeno una dozzina di produttori e autori – pubblica (via RCA) Britney Jean, la propria risposta ai must-seller del tra$h-pop pre-natalizio 2013 (Artpop, Prism e Bangerz). Nonostante i numeri della concorrenza – per il momento – inferiori alle aspettative, Britney Jean parte sicuramente da sfavorito, penalizzato da un personaggio che ha ormai raggiunto lo status della matrona televisiva posizionabile a piacimento al tavolo dei giudici di X Factor o all’interno del villaggio dei Puffi (l’imbarazzante video di Ooh La La). Una dignità artistica – peraltro da sempre difficile da rintracciare – che ormai sembra irrimediabilmente persa, affogata in una patetica ricerca del dollaro facile che in questi giorni si è spinta fino all’accordo con il Planet Hollywood Casino di Las Vegas per cento date come resident-performer. Con un contorno mediatico di questo livello, Britney Jean – che tra l’altro può vantare un artwork da Amici – non poteva fare altro che adagiarsi sugli stessi standard. Un contesto so-

noro che non sfigurerebbe nelle peggiori discoteche commerciali di periferia, con la Nostra nel ruolo di cubista-vocalist con le Hogan ai piedi. Anticipato da due singoli – l’electro-house di Work Bitch (non a caso remixata pure da Azealia Banks) e la pop-ballad Perfume – tutto sommato funzionanti e di certo non inferiori ad altre hit targate Spears, l’album in realtà rimane intrappolato nel classico e stereotipato gioco di sponde tra dimensione dance-uptempo e rassicurante romanticismo di plastica cantato con la mano sul cuore e gli occhioni da cerbiatto alla telecamera. Con l’intenso apporto di will.i.am (con il quale ha dominato le classifiche a cavallo tra 2012 e 2013, con Scream and Shout), sigillato dal feat nell’oscena It Should Be Easy - già di suo appesantita dal lavoro di un David Guetta presente anche in Body Ache (una sorta di Scream and Shout versione 2) – il lato dancey di Britney abbandona alcune intese brostep presenti nel disco precedente e torna a battere i desueti quattro quarti didattici e telefonati dell’euro-dance più pacchiana. Caso a parte Tik Tik Boom con il featuring del trap-rapper per eccellenza (T.I., recentemente pure alla corte di Lady Gaga), ovvero uno sbiadito tentativo di abbracciare il pubblico americano. Dall’altra parte abbiamo un Diplo meno esuberante del solito che si adegua alla scrittura pop di Katy Perry (Passenger), la sorellina Jamie Lynn nell’inqualificabile Chillin’ with You (“I drank some red wine and now I’m walking on the sky“) e un paio di innocui passaggi melodici dallo spiccato appeal radiofonico: l’opener Alien (William Orbit) – comunque adatta ad eventuali remix club-oriented – e la conclusiva Don’t Cry. In un’epoca di forte ricambio generazionale, in cui personalità e trasgressione (per quanto finta) sembrano appartenere più al mondo del pop che del rock, Britney Spears fatica a tro-

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Britney Spears - Britney Jean (RCA,2013)

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vare la propria collocazione. Album destinato a condividere le giornate con la polvere, sugli scaffali dei megastore. 3.9/10 Riccardo Zagaglia

Genere: pop, folk Pupilla di Gruff Rhys dei Super Furry Animals, con un bagaglio di esperienze extracurriculari affatto male alle spalle – guest vocalist dei Neon Neon per il singolo I Lust U, una comparsata nell’ultimo album dei Manic Street Preachers con relativo tour, eccetera -, la gallese Cate Le Bon torna sulla scena con Mug Museum, fatidico, terzo album dopo il buon CYRK dello scorso anno. Se con il sophomore si era presentata nelle vesti di una Nico in salsa electro, a metà strada tra Stereolab e Goldfrapp, stavolta la ritroviamo immersa nei territori di uno psych-pop a marca sixties decisamente retrò, ma dai risultati interessanti. È evidente, infatti, che le influenze che permeano tutto l’album partono dai Beatles per allargarsi a macchia d’olio al surf pop californiano à la Beach Boys (probabilmente anche a causa del trasferimento della Nostra, lo scorso anno, dal gelido Galles all’assolata Los Angeles), includendo qua e là sterzate garage e declinazioni wave – rigorosamente british -, unite a leggerezza soul-pop. Un bel calderone, in cui la Le Bon mostra di sapersi ben destreggiare dosando alla perfezione sensibilità melodica e gusto per il ritornello di facile presa. A cominciare dal beat acido di una I Can’t Help You che apre il disco, vera e propria sintesi del mood di Mug Museum: tastiere, organo, chitarre e percussioni dalla patina vintage e voce perfettamente amalgamata a quell’appeal retro-nostalgico che anima tutti i brani del disco e che per la maggior parte dell’ascolto non tradisce le

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Connan Mockasin - Caramel (Mexican Summer,2013) Genere: cantautori, psych, art, experimental, spacey Non lasciatevi ingannare dal look da crooner anni 80 e da certi ammiccamente confidenziali del singolo I’m The Man, That Will Find You. L’universo di Connan Mockasin resta uno dei più squinternati con cui vi sia la possibilità di imbattersi in ambito pop. Il precedente Forever Dolphin Love distillava visioni psichedeliche che fungevano da sottofondo per performance sciamaniche e video artistici. Brani come la titletrack o Choade My Dear tracimavano di trovate surreali e si trascinavano in un deliquio narcotico, in cui space rock e suggestioni esotiche si fondevano senza soluzione di continuità. Caramel porta il tutto alle estreme conseguen-

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Cate Le Bon - Mug Museum (Turnstile,2013)

aspettative. Ne sono ottimi esempi brani come Are You With Me Now, Duke e No God, orientati verso quel pop acido di matrice beatleasiana di cui sopra, ma anche atmosfere più distese come l’ottima I Think I Knew a cui partecipa Perfume Genius, interessante nello scambio “androgino” tra le due voci. Altrove, troviamo il crescendo rock and roll di Wild o il tenue organo lisergico di Mirror Me, che sottolineano come Cate Le Bon ami giocare con i propri stili e generi di riferimento, senza però rinunciare alla propria essenza di autrice pop. Certo, a dispetto delle note della cartella stampa – l’album è nato in un periodo particolarmente difficile coinciso con la scomparsa della nonna materna -, si potrebbe rimproverare alla Le Bon la mancanza di un focus emotivo, ma forse non c’è n’è davvero bisogno alla fine, visto che Mug Museum è un album che fa della capacità di intrattenimento il suo punto di forza, unendo hype e sostanza. 6.8/10


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come ora rappresentano il meglio dell’ampia gamma delle musiche “per viaggiare”. Dalle svisate orientaleggianti dei sempre ottimi Goat, figli illegittimi dei Can e del kraut tedesco meno ortodosso (Goatjam), al tribalismo free degli Anthroprophh – gli Oneida primitivisti e lanciati a 100 all’ora? –, dal rock selvaggio e informe degli Uran (Emp, motorik corposissimo e synth alien(at)o per scatafasci di suoni alla Green Machine kyussiana) alle paludose, esoteriche, dilatazioni trancey dei Gnod (Holy Empire è una continua stratificazione di echi e riverberi su tappeto ritmico ipnotico, per un trip malatissimo), dal rituale panico dei nostri The Lay Llamas (African Spacecraft (2092 AD- lift-off, journey and landing), danza afroaliena da trip elicoidale) ai goblineschi miasmi messi in scena dai lanciati Teeth Of The Sea di Red Sun, è un continuo florilegio di declinazioni psych eccitanti e varie. A dimostrazione che 15 anni, quando si tira fuori roba del genere, possono anche non sentirsi affatto. 7/10

Diego Ballani

Genere: pop, electro Quello che intorno al 2007 rischiava di essere un ritorno spazza tutto di 80s pop, di elettronica old school, di oggettini vintage reindirizzati ai nuovi palati dell’era dei social network, alla fine si è risolto in qualcosa di più, con esperimenti più mirati: il ritorno del funk, l’italo disco e, soprattutto, sonorità più scure, meno liberatorie, più claustrofobiche. Ciò non toglie che, all’epoca di In Ghost Colours (2008), gli australiani Cut Copy avessero saputo negoziare, mostrare al mondo la loro versione (per quanto citazionista) dell’electro pop. E l’avevano fatto, senza scadere nel sapore da hit da classifica, che aveva colpito gente come Hercules And

Anthroprophh - Crystallized. Celebrating 15 Years Of Rocket Recordings (Rocket Recordings,2013) Genere: psych Tutto fuorché cristallizzato, l’universo Rocket Recordings, almeno a giudicare dai primi 15 anni di vita che la qui presente compilation ha l’onore e l’onere di celebrare. Da un catalogo che è la gioia pura per qualsiasi intenditore di psichedelie – al plurale, ça va sans dire, visto l’ampio spettro coperto dalla label inglese –, la Rocket ha estratto una quindicina di tracce per altrettanti progetti più o meno noti che ora

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ze e infonde una nuova e soffusa sensualità. Se da una parte Connan perfeziona il suo stile fatto di flussi di chitarre baluginanti, distorsioni sintetiche e vocalizzi grotteschi, dall’altra sciorina frammenti di soul mutante, che affiorano qua e là come un fiume carsico. Siamo dalle parti dei tardi 70s-primi 80s, per intenderci, tanto che nei singhiozzi erotici di Why Are You Crying? e nelle tracce in cui la sua voce suona meno “alterata”, sembra di trovarsi di fronte allo show subacqueo di un Prince sotto morfina. Tutto maledettamente affascinante, se non fosse che talvolta, in quell’umido flusso di coscienza, si perdono le canzoni. Succede quando la formula viene stirata all’eccesso, come nei cinque frammenti della suite It’s Your Body, in cui la musica si dilata al punto da inglobare lunghi silenzi e rumori d’ambiente, sperimentazioni digitali e frammenti melodici di inusitata dolcezza che evocano la wave ambientale dei Durutti Column. Al tutto manca la coesione del precedente lavoro, ma forse è proprio il risultato che Connan voleva ottenere con questo Caramel, un album destinato a parlare più ai sensi che al cuore. 6.1/10

Stefano Pifferi

Cut Copy - Free Your Mind (Modular,2013)

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Genere: psych, drone, kraut Riprende il discorso esattamente da dove lo aveva lasciato con Neverendless, il quartetto americano, ma fino a un certo punto. Le coordinate kraute sono quelle fondanti il progetto sin dalle prime apparizioni, ovvero motorik perenne e reiterazione. In questo ennesimo lavoro però, l’ingresso di una seconda chitarra – quella di Jeremy Freeze – e la spalla offerta dal sax di Rob Frye e dalle percussioni di Josh Johannpeter, sembrano aver donato nuova linfa e soprattutto nuove possibilità sonore alla formazione. Non più impantanata in un limbo di cavalcate da motorik incendiato o, per lo meno, non solo bloccata all’interno di quel recinto di genere, bensì diretta e aperta come il delta di un fiume pronto a inglobare elementi fino ad ora alieni agli orizzonti della casa. Innanzitutto il groove funk suonato con secchezze bianche (non sono lontani gli ectoplasmi del funk trattato del post-punk inglese, nella parte iniziale della lunga Sweaty Fingers) che rende sensuale un suono altrimenti algido e in b/n, riempiendolo di numerose sfumature senza perderne minimamente in monocromia. Poi una attenzione alle aperture d’impostazione jazz, da intendersi non tanto in maniera strettamente musicale, quanto in termini di apertura mentale pronta a (im) porsi variazioni sul tema mai scontate. Della serie, provate a mischiare ipnosi krauta, deliqui psych, sabbie stoner e incedere post-rock come in Silver Headband senza risultare banali. O frullare immaginario visivo blaxploitation e pulviscolo jazzato (Arrow’s Myth), groovedelia sixties e visionarietà afro (Shikaakwa) con simili sfrontatezza e risultati. Insomma, insieme ai ritorni di Wooden Shjips e Disappears, Threace sarebbe disco da podio del cosmic sound, se non stravincesse per la sottocategoria auto inventata del “rolling funk minimalism”. Il disco più “black” uscito dal panorama neo-kraut dell’ultimo decennio. 7.4/10 Stefano Pifferi

Love Affair o Empire Of The Sun. Tutto questo passando dalle fantasie art fine Seventies/ Eghties di Zonoscope (2011), che si perdevano persino in nomi del calibro di Talking Heads, Xtc et similia. Il suggerimento all’ascoltatore che approccia Free Your Mind è di perdersi per un istante nelle fantasie lisergiche delle Summer Of Love, sia di fine anni Sessanta che dei primissimi anni Novanta. Questo perché, come recita il titolo, il disco vuole essere non solo un omaggio a quel periodo, ma anche un viaggio in bilico fra la

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psichedelia dei figli dei fiori e quella sintetica della Madchester dell’Hacienda finalizzato alla perdita momentanea dei sensi, per recuperare un rapporto diretto con le passioni, con le cose importanti. Il tutto con al timone uno che di caleidoscopi sonori se ne intende: quel Dave Fridman che ha messo mano a dischi di Tame Impala, MGMT e Flaming Lips. Sintomatico e interessante risulta, quindi, l’avvicinamento non solo filosofico, ma di sound all’acid house, colorata di neon (e la copertina ne è l’esempio più emblematico), di cassa dritta

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Cave - Threace (Drag City,2013)


Nino Ciglio

Deluded By Lesbians - Heavy Medal / L’altra faccia della medaglia (Godz,2013) Genere: rock, indie Un buon motivo per passare alla Storia, oltre che per la denominazione sociale invero as-

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sai curiosa, i milanesi Deluded by Lesbians l’hanno. Hanno avuto infatti la bislacca idea di registrare un disco bilingue, nel senso che questo L’Altra faccia della medaglia ha un gemello speculare, Heavy Medal - ovvero un secondo CD allegato – con gli stessi dieci brani cantati in inglese. Un’operazione a metà tra il gesto situazionista e la necessità di farsi capire da tutti, con ambizioni di diffusione oltre confine più che lecite. La scelta però rischia di distogliere l’attenzione dell’ascoltatore dalla sostanza e di spostarlo più sulla “forma”, considerato anche che è assai improbabile che chi si avvicina all’album, possa sorbirsi senza soluzione di continuità entrambi i dischi. Anche il fan più accanito del combo meneghino avrà le sue preferenze in fatto di idioma. Per quanto ci riguarda, riteniamo che l’indie-rock dei Deluded By Lesbians si sposi inevitabilmente meglio con la lingua inglese, dove tutto scivola più fluido e senza intoppi di sorta. E la cosa è più evidente se si fa girare il CD in italiano dopo aver sentito quello in inglese. Questioni di idioma a parte, i Deluded By Lesbians suonano un rock maturo e dosano con sapienza gli ingredienti al servizio di un sound pastoso e coinvolgente, anche quando alle chitarre si preferiscono i suoni elettronici, come nel caso di The Drummer. Ma è un incipit illusorio, perché la spina dorsale di Heavy Medal è rock all’ennesima potenza, peraltro prodotto molto bene: asperità, melodie e ritmi sono dosati alla perfezione, mentre dal punto di vista dei testi il trio milanese mostra di saper giocare con le parole, manifestando un’ironia che fa difetto a molti colleghi. E’ un disco molto “estivo”, Heavy Medal, fatto per far casino senza perdere di vista l’attitudine pop di pezzi appiccicosi, come nel caso del punk-rock di Canzone per l’estate: due minuti e trenta di puro divertimento, in attesa dell’inverno e sen-

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e bassi profondi e sincopati, di tinte world, di sprazzi etno, con la particolarità esistenziale di far parte tutti di un unico viaggio interstellare. Il tentativo – che si coglie soprattutto in brani come Free Your Mind, Footsteps, Walking In The Sky – è quello di dare una propria versione della lezione di Screamadelica dei Primal Scream, magari aggiornandola e sintonizzandola col nuovo Jagwar Ma. I Nostri colpiscono meglio, però (ed è così da tempi non sospetti), quando vanno a mettere mano alle capacità vocali di Whitford (We Are Explorers, Meet Me In The House Of Love), così armonico e profondo da ricordare Bernard Sumner dei New Order, band che, non a caso, torna spesso in questo disco. Decisamente Mtv-oriented e, a tratti, molto fastidiosi, invece, quando cercano l’epico e il corale, come a dover smuovere le grandi arene (spesso viene in mente il periodo splendido, ma un po’ megalomane di Zooropa degli U2). A giochi fatti, resta comunque una sensazione di benessere. Il viaggio acido è riuscito, anche senza scomodare necessariamente Happy Mondays (molto più disordinati), Stone Roses (molto più seriamente massicci) o Inspiral Carpets (persino più scanzonati). Free Your Mind rimane un lavoro che si fa accettare, a scapito di un tentativo forse troppo pretenzioso. Ma, in fondo, anche se non ascoltiamo nulla di nuovo, anche se spesso storciamo il naso sospettosi della faciloneria dell’operazione, ci piace essere viziati con una manciata di melodie e un colpo di anca ogni tanto. 6/10


Ilario Galati

Destroyer - Five Spanish Songs EP (Merge,2013) Genere: rock, indie Nel corso della sua lunga carriera, cominciata nell’ormai lontano 1996 con il debut a firma Destroyer, We’ll Build Them a Golden Bridge, Dan Bejar ci ha abituati alle sorprese e ai cambi di rotta. Prima, ci sono stati i viaggi lungo i binari di un folk visionario e denso di atmosfere sotto il moniker Destroyer, poi l’esperienza con i New Pornographers ed infine la partecipazione al progetto Swan Lake. Lavori e percorsi sempre caratterizzati da una forte voglia di sperimentare, che torna anche in Five Spanish Songs, EP in cui il Nostro riveste nuovamente i panni del suo alter ego solista. Dopo un Kaputt del 2011 in cui dichiarava di essersi ispirato a numi tutelari quali Bryan Ferry, Ryuichi Sakamoto e Gil Evans, stavolta il punto di partenza è Antonio Luque, musicista sivigliano meglio conosciuto con il nome di Sr. Chinarro. Una personalità che Bejar

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ha deciso di omaggiare riprendendone i brani riproposti in Five Spanish Songs, attraverso un’operazione che è un tributo a Luque, ma anche un omaggio al background personale del cantautore, nato e cresciuto in Canada ma di origine spagnole. La decisione di cantare in spagnolo, dunque, non arriva soltanto dalla scelta delle canzoni, ma anche dalla volontà di misurarsi con un lingua che offre, a sua detta, maggiori possibilità di interpretazione rispetto al solito inglese, tanto nella musica quanto nelle parole. Il risultato sono brani che esulano da qualsiasi definizione, immersi tanto nella leggerezza del pop contemporaneo quanto in un folk “diverso” e altamente ricercato. A testimonianza, la ninna nanna Maria De Las Nieves, con quel suono languido e sensuale che permea poi tutto il disco, e che si pone a metà strada tra la preghiera e l’invocazione, quasi a voler suggellare il mistico folclore della cultura iberica. Una girandola di rimandi e riferimenti sempre diversi tra loro, come dimostrano il jazz-swing di El Monton, con le note pizzicate dell’acustica che invocano Django Reinhardt, o le scariche elettriche di El Rito, unico pezzo rock del lotto venato tuttavia da quell’esotismo caraibico che ritorna un po’ ovunque nell’album e ben evidenziato dagli echi samba e disco della successiva Babieca. Elementi, questi, che mettono in mostra la perizia filologica del musicista di Vancouver. Un artista che, andando oltre la semplice riproposizione e citazione di pezzi peraltro poco conosciuti, è riuscito a ricreare un songwriting naturale e personalissimo, sospeso nelle suggestioni di una Cuba onirica e decadente e calato in un presente in cui canzoni all’apparenza leggere raccontano invece un viaggio tra musica e memoria. 7.2/10 Giulia Antelli

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za troppi atteggiamenti da poser. Tutto questo non significa che la band, in nome dell’immediatezza, abbia sacrificato la naturale propensione ad altri suoni. Vacanze, party e spensieratezza non sono dunque l’unico registro delle canzoni di Heavy Medal, visto che gli episodi più riusciti dell’intero lavoro strizzano l’occhio allo stoner-rock o all’hardcore, come nel caso dell’hit immediato Cane morto o della marziale title-track. Brani più stratificati e complessi, da cui emerge una certa inclinazione per il blues e per la musica americana in generale. Non a caso, il trio cita nel suo personale pantheon gente come i Therapy?, Presidents of USA, Turbonegro e QOTSA. Anche se a ben vedere, in questi dieci (o venti) pezzi c’è anche molto altro. 6.8/10


Genere: pop, dance-pop, electro Nel secondo disco di Pilooski e Pentile si riconoscono molte delle coordinate disco-synth che hanno costruito l’immaginario degli anni ’00. In particolare l’influenza della DFA, già vista tornare di moda quest’anno con i Factory Floor (Seabox) e trampolino di lancio del duo con il singolo Synchronize in collaborazione con Jarvis Cocker nel debutto omonimo di qualche anno fa. In più la psichedelia visionaria dei MGMT (Dry By), il dark dei Cure (Dive Wet), i synth puliti à la Depeche Mode con qualche scontrosità arrangiata in tonalità minori (Sip Slow), un minimalismo che riscopre gli uptempo dei Franz Ferdinand e li taglia con ritmi vicini ai Bloc Party (Hydraa), per poi finire con qualche visione psych-balearic (Shades of Cyan). Pesante influenza del “passato appena passato” e ipotesi di una prima ondata di revisionismo dei Noughties: in questo stanno a fagiolo anche i featuring vocali di Kevin Parkes dei Tame Impala (Aydin) e di Mark Kerr, batterista nella band di Joakim. I Discodeine hanno buoni arrangiamenti e condimenti pop-indie-dance da spendere sull’hic et nunc 2.0. Ingredienti che non guastano e alleggeriscono la proposta, portandola su coordinate a cavallo fra dancefloor e palco. Un buon prodotto quindi, anche se c’è un qualcosa che non quadra. L’operazione di emulazione del passato di gruppi rock come Black Rebel Motorcycle Club, Thrills, Rapture, Strokes e Kings of Convenience aveva scatenato già anni fa su queste pagine una nutrita teoria sul loro valore relativamente minore (a parte pochi casi) rispetto ai nobili padrini. Che sia ora di tirar fuori anche il tag emul-synth? Non siamo ancora alla connotazione negativa, ma poco ci manca. Rifare gli Air con qualche battuta à la LCD Soundsytem, alla lunga, può stancare. Occhio

al plagio, ragazzi. 6.6/10 Marco Braggion

Eminem - The Marshall Mathers LP 2 (Interscope Records,2013) Genere: rap, hiphop Ne è passato di tempo dal 2000, anno di pubblicazione di The Marshall Mathers LP, terzo album di un Eminem allora lanciatissimo, in procinto di pubblicare, due anni più tardi, lo storico The Eminem Show. Tredici anni dopo il rapper bianco più famoso del pianeta pubblica il secondo volume del disco. Da allora sono cambiate molte cose per Mr. Mathers, compreso il turbolento periodo passato tra divorzi, droghe e soprattutto l’uccisione dell’amico Proof (membro dei D12) durante una sparatoria in un club di Detroit, eventi che hanno influito non poco sui passi falsi di Relapse (2009)e Recovery (2010). Come affermato da Eminem stesso, il nuovo disco vuole richiamare le sensazioni e le atmosfere del primo volume, concepito in un periodo artisticamente fecondo e pieno d’idee. Eppure, ascoltando The Marshall Mathers Lp 2 non è facile trovare punti di contatto tra i due album, semmai è più agevole riconoscere la linea tracciata da un’intera carriera, scoprendone pregi e difetti. Continuando il suo cammino su un solco rivolto a opere più pop, Eminem affida la cabina di regia all’amico/mentore Dr. Dre e allo stakanovista Rick Rubin. Le sedici tracce sono tutte ben mescolate tra loro: c’è spazio per i ritornelli orecchiabili – affidati spesso a voci femminili – come Legacy e Bad Guy (quest’ultimo con il delicatissimo canto di Sarah Jaffe) o il solito Skit fatto di fughe e sparatorie metropolitane. Rispetto ai tanti colleghi, Eminem opta per basi sobrie e mai “pompate”, evitando rivoli eccessivamente elettronici e beat iperprodotti, preferendo le rudi schitarrate crosso-

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Discodeine - Swimmer (Pschent,2013)

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Genere: electro, techno, elettronica Non parliamo bene di questo album di debutto di Furtherset perché abbiamo avuto lo streaming in esclusiva, semmai è il contrario. Dopo una manciata di EP promettenti Tommaso ha fatto il salto dell’album, noi lo abbiamo ascoltato, ci è piaciuto molto e abbiamo deciso di proporvelo. Per inquadrare Tommaso e il suo lavoro, vi rimandiamo alla nostra intervista, dove si parla di lui, dei suoi ascolti, e ovviamente di questo disco. Che non dice niente di particolarmente nuovo. Ma lo dice particolarmente bene, con uno stile sempre più personale e riconoscibile. La cosa più interessante, nonché il punto centrale della faccenda, è il modo di declinare in senso melodico un lavoro sui timbri che era già maturo negli EP, puntando soprattutto sulla manipolazione della voce. Tommaso costruisce pezzi che non sono i soliti – per quanto golosi – quadretti da producer, ma canzoni che restano in testa. Canzoni che sono anche piccole suite, come dimostra bene la lunga e vagamente paranoica Slow Unhappy Feelings: nel titolo, un piccolo manifesto dell’anima a suo modo emo – ma come potevano esserlo i primi Darkstar – del nostro; nei suoni, una IDM – etciù – che ha sotto un’anima soul, ma raggelata, che non intende liberarsi mai. Nell’incerto procedere e successivo strutturarsi di Doute; nel gioco di intarsi wonkeggianti a diverse velocità di Pleurer (introdotto da archi da Psycho acid techno e che a metà taglia una linea di voce di grande cantabilità, per assurdo che possa sembrare, non distante dalla sensibilità dei R.e.m. di Up, si veda anche l’a cappella finale); nei clusterini, negli stopandgo e nella melodia centrale acquarellata, alla Far Side Virtual, di Hands Hands Hands; nella voce szanzarante sul finire di A Kind Vision of Possibilities; nell’hallulujah coheniano ma come lo suonerebbe Washed Out della conclusiva title track: questi i momenti migliori, dove risulta evidente la metabolizzazione del lavoro stottiano di accumulo e addensamento dei materiali reso possibile dalla relativa lentezza dei bpm. Il risultato è però tutto tranne che pastoso, appesantito, melmoso, nonostante il concept acquatico dichiarato (la profondità non sta qui nell’uso di superbassi, né nelle mimesi sgocciolanti che si sentono a tratti, ma nella stratificazione di voci tutte piuttosto chiare, efebiche, ascensionali), e ha anzi una levità che rende questi pezzi appetibili anche per chi ha o cerca una sensibilità post-rock (versante elettronico-ambientale; vedere She Can See in Her Eyes). Diciottanni o ottanta, questo è comunque un gran bel disco e Tommaso sempre più un sorvegliato speciale. 7.4/10 Gabriele Marino

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Furtherset - Holy Underwater Love (Concrete Records,2013)


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una Headlights musicalmente spompata, ma che rappresenta il lato più sensibile del rapper di Detroit. Nel testo Eminem si scusa con la madre per le tante ingiurie scatenate contro di lei, soprattutto per la famosa Cleanin’ Out My Closet: “But I’m sorry mama for Cleaning Out My Closet / at the time I was angry“, “Don’t regardless I don’t hate you, you’re still beautiful to me, cause you’re my mom“. Al contrario, in “So Much Better” viene presa di mira una ex moglie a cui si augura la morte, morte grazie alla quale Marshall giura che vivrà molto meglio: “I hope you hear this song and go into a cardiac arrest / have a heart attack and just drop dead / and I’mma throw a fucking party after this, cause yes…“. La chiusura di Evil Twin, con l’invettiva contro Backstreet Boys, Justin Bieber, Lady Gaga e le solite Britney Spears e Jessica Simpson riaccende gli animi dei fan, rispolverando quella cattiveria e arroganza che ha fatto di Slim Shady uno degli artisti più amati e odiati della sua generazione, tra insulti ai protagonisti del jet set e bambole gonfiabili lanciate in aria (ricordate The Real Slim Shady?). The Marshall Mathers LP 2 è un disco costruito su fondamenta solide e sembra rappresentare la chiusura definitiva di un ciclo incerto e pieno di buche. Il confronto con il primo volume, lontano anni luce sia temporalmente che artisticamente, diventa difficile da accettare: ormai Eminem ha affrontato una radicale metamorfosi, conscio del fatto che i tempi in cui correva nudo per le strade sono solo un vecchio (e buon) ricordo, sostituiti da una maturità giustamente guadagnata con il tempo, ma che fa storcere il naso a molti. D’altra parte, rispetto ai lavori precedenti, il Nostro sembra essere tornato in forma come ai tempi di Encore (2004), seppur prendendo una strada più sicura e con meno rischi e mantenendo l’acceleratore al minimo. Consapevole del fatto che

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ver di una Survival (con il ritornello eseguito da Liz Rodrigues) usata come soundtrack nel famoso videogioco di simulazione guerra Call Of Duty Ghosts. Come in Love The Way You Lie, contenuta in Recovery, anche qui Eminem rappa al fianco di Rihanna (The Monster), creando la classica canzone impacchettata a dovere da gettare in pasto alle trasmissioni radiofoniche con un pop noioso (soprattutto se paragonato alla storica Stan con l’ammaliante voce di Dido) composto da ritornelli ruffiani: “You’re trying to save me/ stop holdin’ your breath / and you think I’m crazy“. A metà album troviamo gli episodi migliori: il singolo Berzerk, con il suo savoir-faire Beastie Boys (che difatti vede il campionamento di The New Style e Fight For Your Right) riconsegna un’artista in piena forma, sensazione confermata dalla successiva Rap God, dove i testi taglienti trattano il massacro della Columbine High School (riprendendo I’m Back del primo volume), della faida tra Fabolous e Ray J e dello scandalo Lewinsky. Trattasi di un’autentica prova di forza dell’artista, che arriva a definirsi “an immortal god“, rappando a velocità sostenuta (quasi 100 parole in 15 secondi), accompagnato da pianoforte e pulsazioni electro, a dimostrare che nonostante i momenti bui, il leone non è ancora sconfitto. Love Game, con la partecipazione di Kendrick Lamar, è un ritorno ai tempi d’oro, quelli della totale irriverenza e dell’assoluto rifiuto a prendersi sul serio, con l’esotico e storico ritornello di Game Of Love di Wayne Fontana and The Mindbenders; la camaleontica So Far… muovendosi con disinvoltura tra reggae, country rock e folk (e regalando anche due rapidi sample della già citata I’m Back e Without Me) brilla per originalità, diventando un piacevolissimo episodio a parte di una discografia parca di pezzi così trasversali. C’è spazio anche per il curioso featuring con Nate Ruess dei FUN. che produce


Genere: ambient, elettronica, grime Facile a dirsi, difficile da mettere in pratica, soprattutto complicato da descrivere e comunicare. Da vivere figuriamoci, sembra di stare in una trap house come la vedrebbe David Lynch. Un’allucinazione di rapidi gesti della telecamera, visi sfocati, droghe, armi, le strade dell’Eastend a notte fonda, un tobido giro di situazioni senza un inizio, né una fine, né un perché. Disorientante non è la parola giusta. Tutta una serie di aggettivi non servirebbero, Cold Mission è uno di quei lavori che ti catturano proprio perché si guardano bene dal lasciarti entrare da qualsiasi porta. Gli spioncini, certo, quelli sono garantiti e da quei buchi hai chiaro il fuoco di una storia precisa. Senti i tratti della jungle come del grime, vedi le strade di Bristol, respiri l’urbanistica londinese che ha sempre fatto da sfondo alle produzioni di Burial, riconosci i brandelli di un passato attraversato da una potente mitologia. Potremmo dire che Cold Mission è pura antimateria, un buco nero di continuum ‘ardkore, un incubo di Pinch senza ritmo, fino alla rullata junglista sul finale, il gesto liberatorio che Logos rifila con il partner in crime Mumdance. Wut It Do è una bomba a orologeria ma anche qui, quando il gioco è a carte scoperte, il sound corre lungo i bordi, scompone e ricompone ricordi, respinge la luce ed ogni cliché. Come per certi pezzi di Special Request, non sai bene cosa hai nelle orecchie, se breakbeat o jungle, sta di fatto che quello è l’unico episodio a spalancare le porte al dancefloor, roba che qualsiasi producer Keysound attualmente sta suonando senza tagli o mix. Il cuore di Cold Mission è un omaggio ad un alias dei 4Hero, ma anche a due tracce di jungle paranoide come Special Mission o Mission Accomplished firmate da Digital (ovvero Steve Carr), spiega James Parker nella press. “Mi interessa tracciare link tra le classiche produzioni Metalheadz e le prime produzioni grime, specie quelle più angolate che suonava Slimzee, ma integrate in un grezzo contesto clubbista a 130bpm“. Parliamo di un lavoro sicuramente pervaso da un senso di nostalgia per le radio pirata e per tutto un mondo perduto, eppure il tuffo nel passato non ha impedito al producer di entrare e rompere i confini temporali, arrivando ad una terra di nessuno a cui stava gà mirando nell’eppì Kowloon, dove gli ultimi scampoli di wonky e purple sound si perdevano in una nebbia di fitti pensieri non tanto distanti da quelli di Zomby. Anche lì quell’incastro tra ritmi laboratoriali, contrappunti di bass, effettistica da nastri in rewind, oscuri vocioni black; tocchi che ora, a distanza di poco più di un anno, sono elementi fondanti della 130 bpm family assieme ai sample dei caricatori e ai campioni in riavvolgimento. Più ascolti Logos, più lo senti suonare da altri (tipo Wen al N3XT Clubstepping), oppure ascolti altri nel suo stesso territorio (Tessela), e più risulta chiara la potenza di questo dedalo di strade buie. Genesis EP è un’altra bestia che mostra l’ennesima sfaccetatura di Logos e della sua lungimiranza: l’uso del reverse (Reverse VIP). Nel 12” in collaborazione con Mumdance / Jack Adams, l’impronta del producer è ancora fortissima. Ritroviamo la citata Wut It Do in un mix differente, un’altra scomposizione di jungle e grime questa, volta ripensata a due teste pestando bottoni e montando aspettative house poi disattese (Turrican 2); e poi c’è Truth, altro tuffo nel passato questa volta angolando il ’92 degli Orb sotto l’ottica degli Art Of Noise. Anche qui non c’è nulla di facile. Ma c’è assolutamente tutto quel che serve per rimanere intrappolati nella morsa. 7.3/10 Edoardo Bridda

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Logos - Cold Mission (Keysound,2013)


tornare a calcare le orme del passato sarebbe retrogrado e poco produttivo. 6.8/10 Daniele Rigoli

Genere: folk, jazz Che Francesco Giampaoli avesse un’indole curiosa, lo avevamo capito. Basti pensare alle avventure musicali in cui è coinvolto direttamente, sopra a tutto la Classica Orchestra Afrobeat e i Sacri Cuori, ma anche alle numerose produzioni sponsorizzate dalla sua etichetta Brutture Moderne. Per non parlare delle collaborazioni collezionate in una vita e del lavoro di produttore musicale dispensato ad ogni latitudine. In Danza del ventre, terzo disco pubblicato a suo nome dopo i precedenti A Caso (2010) e Mi Sposto (2011), Giampaoli costruisce un piccolo abbecedario della sua arte, riassumendo in quasi cinquanta minuti di musica strumentale un po’ tutti gli interessi che lo caratterizzano. Se in Fra poco i saluti sembra di ascoltare una versione tascabile dei già citati Sacri Cuori, con la title track ci si imbatte in un jazz minimale e rarefatto, Mischio inciampa in un blues acustico e defilato, in Al sole spunta fuori qualche aroma afro-caraibico; c’è poi l’ironia cinematografica dell’Italia di cinquanta anni fa mimata da una Rosa in condivisione con Antonio Gramentieri e soci, l’amore per certi valzer tra frontiera e Nino Rota (Firma) e persino una Sotto che assomiglia a un funk tex mex da zona giorno. Attitudine minimale, suoni pressoché acustici, campionario percussivo educato ma frizzante e una certa rilassatezza nei toni generali chiudono il cerchio, firmando un disco gradevole che si rivela una buona personalizzazione di un immaginario noto, ma non per questo banale. 6.9/10 Fabrizio Zampighi

Genere: avant, fieldrecordings Incontro tra opposti, in questo album licenziato dall’accoppiata Hysm/Lemming. Da un lato il sound sculptor italiano Francesco Giannico, co-fondatore e membro onorario dell’Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori; dall’altro il multistrumentista americano Zac Nelson, noto per le sue scorribande a nome Hexlove e decisamente lontano dalle atmosfere del primo. Proprio il clash tra mondi distanti rende le tre lunghe tracce che compongono questo minialbum una sfida interessante non solo per gli artisti coinvolti, ma anche per gli ascoltatori che li seguono da tempo. Il primo fornisce un tappeto sonoro al solito visionario e cinematico, sorta di ambient in divenire molto probabilmente figlia dei field recordings catturati nelle varie mappature sonore effettuate nel progetto AIPS; l’americano ci mette un altro tappeto, stavolta ritmico, fatto di tribalismo free, primitivo e fanciullesco insieme che chi lo segue, in solo o sotto i vari alias con cui spesso si traveste, riconoscerà come marchio distintivo. Il risultato è una specie di free-form applicata all’ambient textures (la parte centrale dell’opener Briques De Fer) o, quando la grana sonora si inspessisce, droning ascensionale alla ultimo Fabio Orsi sorretta da un drumming cangiante e vario (La Race Des Loups). Insomma, fidatevi: è roba molto più appetibile e coinvolgente di quanto possa sembrare leggendo queste parole. Musica adatta a paesaggi nomadici e orizzonti “altri”. 7/10

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Francesco Giampaoli - Danza del ventre (Sidecar,2013)

Francesco Giannico - Les Nomades Paysages (Have You Said Midi,2013)

Stefano Pifferi

Gesaffelstein - Aleph (Zone,2013) Genere: techno, tech-house Dopo un paio d’anni trascorsi a rimestare gli 80s di EBM, italo disco, synth music bladerun-

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Genere: folk “Emotions are no longer opposed, they complement in the most beautiful way”. Stupisce un po’ il modo in cui Matt Elliott parla del suo ultimo album, Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart. Un disco che, già dal titolo, ci fa ritrovare il cantautore di Bristol e fondatore dei Third Eye Foundation diverso dal passato, o, semplicemente, appena appena emerso da quelle nebbie oscure che fin da The Mess We Made avevano popolato il suo immaginario di musicista e cantastorie. Una figura alcolica, profonda e inafferrabile che, come poche altre all’interno dell’aristocrazia folk contemporanea, ci aveva abituati ad una sequenza di dischi intrisi, tutti, di malinconica solitudine e personale fallimento. Dunque, le emozioni non lottano più tra di loro, ma si fondono in una nuova ed eterna bellezza. Ma non confondiamoci, o meglio, non cadiamo nella trappola di una metamorfosi che probabilmente non avverrà mai: dopo sei album, Matt è ancora un abitatore del crepuscolo, un personaggio che continua a vivere in luoghi di tenebra e caverne, ma che – forse – ha deciso di venire a patti con i suoi fantasmi, di allentare il nodo della propria, spietata lucidità, per darsi modo di respirare e di trovare sollievo in primo luogo da se stesso. Così, le sette canzoni di Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart – ad esclusione dei due remix finali targate Third Eye Foundation, All Of Our Leaders Are Sociopathic e I’ll Sleep When You’re Dead, probabilmente da considerarsi come appendici esterne al disco – non hanno perso nulla dell’essenza passata, semmai raccontano una parabola diversa, quella di un uomo che dopo anni di inquietudine e isolamento è riuscito a trovare un fragile equilibrio. Sembrano lontane, anche se non affatto dimenticate, le raggelanti e tormentate auto-analisi della trilogia fondata sulle Drinking, Failing e Howling Songs, per dare spazio, a una sorta di perdono e consapevolezza che rendono ogni brano la pietra miliare di un ideale cammino di caduta e redenzione. Se nell’ultimo The Broken Man ci erano state offerte le viscere di un’anima sgretolata, di cui non rimaneva altro che raccogliere e custodire gelosamente i resti, stavolta lo spirito appare, se non ancora in pace, per lo meno sospeso nel limbo della tregua, quasi a voler intravedere una flebile speranza. Non è un caso, quindi, che il Nostro abbia deciso di affidare ai 17 minuti di The Right To Cry il compito di proseguire il racconto: una galleria sonora in cui si mescolano, al solito, arpeggi di chitarra e l’inconfondibile baritono, un viaggio in cui si cambia rotta a metà strada, sterzando su territori psych e avant che riconducono ad una spettrale amarezza acustica – in cui riecheggiano tanto l’alcolico “maledettismo” blues quanto la polvere morriconiana dei dischi precedenti –, per esplodere su un finale di convulsioni elettriche. Atmosfere lontane dalla successiva Reap What You Sow, sorta di ninna-nanna acustica in perfetto contrasto con la rauca profondità della voce: un brano quasi cullato, sospeso tra gli strumenti leggeri che l’accompagnano (per la prima volta troviamo anche una band), e che è un primo segnale di quella relativa leggerezza che anima il disco. Pur trattandosi ancora di canzoni che seguono dall’inizio alla fine lo spleen di uno spirito quanto mai errabondo e meditativo, Elliott fa emergere un nuovo lato di sé deciso a cominciare un nuovo

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Matt Elliott - Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart (Ici d’ailleurs,2013)


percorso, musicale e presumibilmente umano. Ne sono prova pezzi più “leggeri” come la strumentale I Would Have Woken You With This Song o il dolente flamenco di Again, che si ricollega alle stesse radici arcane e primordiali dell’opening track, a voler ribadire lo stretto legame che il cantautore ha sempre intrecciato con il folk europeo, in tutte le sue declinazioni e latitudini. Elemento sottolineato anche dall’incedere sensuale e spagnoleggiante di Prepare For Disappointment, altro esempio di quella vena maudit, esistenziale ed individuale a cui ci eravamo abituati già ai tempi di Drinking Songs. Matt Elliott è tornato, e tutti ci aspettavamo niente di meno che un album che lo riconfermasse come poeta unico ed indecifrabile: un disco eccezionale e complesso, per un autore fedele soltanto a se stesso, legato alla tradizione folk-cantautorale, ma in grado di esprimere tutte le sfumature di un sé in continua evoluzione. Rivolto verso i suoi sentieri oscuri, Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart oscilla tra passato e futuro, con la sola, apparente consapevolezza che catturare l’ineluttabile bellezza della musica antica sia l’unico scopo del presente. 7.5/10

neriana e citazionismo Kraftwerk assortito, Mike Levy ovvero Gesaffelstein ha iniziato a ingranare davvero sulla Turbo di Tiga, cavalcando la maschia ondata electro di fine 00s e calibrando il tiro su un rifforama stroboscopico dalle parti di Proxy, quel The Hacker senza il quale non sarebbe qui a suonare (parole sue), e indietro The Horrorist e i Chemical Brothers di Hey Boy Hey Girl (proposti in variegati bpm). Fissato su vibrazioni in bianco e nero e una techno mitteleuropea paranoide e paranoica, il suo percorso scorre sull’alta tensione fino ad oggi, toccando punte militaresche darkwave (Conspiracy PT. II) e, in generale, puntando sul bordone pensato per la main room del dancefloor. Levy non caccia i drop dell’EDM, ma si specializza sulle marce verso il nulla e, ciò che più conta, gli riesce talmente bene che, lo stesso Michel Amato / The Hacker collabora con lui nel 2011 (in Zone 4: Crainte / Errance su Zone) e Kanye West lo assolda l’anno successivo per Yeezus, alzando le sue quotazioni. L’esordio lungo del producer francese è pre-

sto detto: Aleph si nutre delle due produzioni per conto del rapper (Black Skinhead in solo e Send It Up con l’amico Brodinski e i Daft Punk) e, in generale, del sostrato electro di quell’album, ovvero della stessa materia che il producer mastica ormai da anni. Out of Line parte sicura su una base tribale, giochi in stereofonia, rintocchi di campane e declami di Chloé Raunet; Pursuit affonda il classico passo nel dancefloor più buio dove ad esser tirati in ballo sono i fratelli chimici e relativi scheletrini ma anche una certa teatralità sci fi à la Ridley Scott (niente di nuovo ma ben fatto); Nameless è interessante per via di profumi Air ben innervati nel tessuto 70s cinematico, oltre che per il fatto che introduce il lato più ambientale, affrescato e, a tratti, kavinskyiano (Piece Of Future) di un lavoro piuttosto funzionale, senza sobbalzi veri, ma con tutti i tocchi tra fashion design e pura vibrazione elettronica (i bassi di Walls Of Memories). Esempi perfetti? Obsession o Hate Or Glory, dal classico riffone synth, battuta lenta e una spirale di synth industrial, oppure la se-

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guente spiritata Hellifornia, con spazi liberi per certo HH testosteroneo e ancora luci di sirene in avvicinamento. Meno efficaci i tiri techno acid di Duel, ma forse la parte più compiaciuta sembra esser quella narrativo strumentale (Values). 6.8/10 Edoardo Bridda

Genere: elettronica, folk Gli album di B-side, alternative take, demo e quant’altro possa essere incluso in tutto ciò che riguarda gli extra di un determinato lavoro, costituiscono un mondo a parte nell’universo sterminato della discografia. E solitamente, non si fa fatica a liquidare tali operazioni come semplici strategie di marketing o, all’opposto, come egomanie di artisti che hanno fin troppa voglia di parlare di sé e di rendere i fan partecipi di qualsiasi suono partorito in sala di registrazione. È per tutti questi motivi che, di fronte all’expanded version dell’ottimo Shields, è inevitabile chiedersi se una band come i Grizzly Bear avesse davvero bisogno di dare alla stampe quella che potrebbe essere solo la versione allungata di un album che già di per sé ha detto molto sull’evoluzione dei quattro di Brooklyn. Poi, però, ci si ricorda di chi sono i Grizzly Bear, e richiamando alla mente Friend EP (era il 2007, ben due anni prima dell’hype generato da quella splendida perla che fu Veckatimest), altra release costruita tanto sulla rivisitazione di materiale inedito quanto sui contributi di amici e colleghi (Beirut, Dirty Projectors, Band of Horses, tra gli altri), nonché i remix del debut Horn Of Plenty, non stupisce affatto che Droste e compagni abbiano deciso di pubblicare Shields: B-sides. Una mossa sicuramente strategica ai fini delle vendite (le

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Hobocombo - Moondog Mask (Trovarobato,2013) Genere: avant, impro, jazz C’era una volta un vichingo, che si aggirava

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Grizzly Bear - Shields: B-Sides (Warp Records,2013)

B-sides sono infatti disponibili nella già citata expanded edition, in formato 12’’ e in digitale) e che non aggiunge nulla all’album vero e proprio, ma che risulta interessante per comprendere ancora più da vicino la natura di un gruppo unico nel suo genere. Gli otto brani che lo compongono si suddividono in bonus track, remix e Marfa demo, una distinzione che ben illustra la ragione sociale del lavoro: se i remix – firmati da Nicolas Jaar, Liars e Lindstrøm – danno l’impressione di essere appendici conclusive e pure un po’ superflue, lo stesso non si può dire di inediti come Smothering Green e Listen And Wait, esempi di quel folk venato di psichedelia che costituisce ormai l’essenza del gruppo. Stesso discorso per i Marfa demo, registrati nell’omonima cittadina texana alcuni mesi dopo la release dell’album, in concomitanza con un periodo di pausa tra i membri del gruppo (coinciso, peraltro, con l’uscita dei lavori solisti di Daniel Rossen e Chris Taylor/ CANT): su tutti, vale la pena citare Everyone I Know, brano migliore del lotto, che ben riflette la coralità bucolica della band a metà strada tra la grazia acustica e vocale di Fleet Foxes e Antony. Tirando le somme, è giusto considerare queste B-sides sia come un puro divertissement, sia come il rilancio sul mercato di Shields dopo oltre un anno dalla pubblicazione: una mossa che farà felici tanto i fan della prima e ultima ora, quanto gli affamati di inediti. Resta comunque intatto l’immenso talento di un gruppo che, fin dagli esordi, ha avuto la capacità di inventare un suono nuovo. 6.9/10


Genere: industrial Una escursione notturna nel passato atavico della Sardegna, tra richiami più o meno evidenti a paganesimo, esoterismo, occultismo e alterità. In buona sostanza Rebirth Invocations, primo passo a nome MS Miroslaw – sigla dietro cui si cela uno degli esponenti di punta del giro Trasponsonic, ossia Mirko Santoru, già negli ottimi Hermetic Brotherhood Of LuxOr – è la colonna sonora ideale per un film senza tempo su quella che è a tutti gli effetti la nostra Atlantide. Utilizzando tutto l’armamentario di riferimento – diciamo grey area nelle sue forme più esoteriche e possedute – MS Miroslaw dispone sul tavolo una ricognizione a tutto tondo sull’arcano dei propri luoghi di nascita e lo fa affidandosi ad una ritualità ossessiva, ancestrale e cullante. Non c’è, infatti, senso di minaccia, tantomeno plumbee ambientazioni: c’è invece una sorta di rendition delle atmosfere senza tempo di un luogo al quale MS Miroslaw, e prima ancora gli HBoL, hanno dimostrato di portare rispetto. Non è dunque casuale la scelta di registrare l’album in una grotta, così come quella di far sgorgare molti dei suoni qui compresi da un teschio di cavallo opportunamente trattato e modificato. C’è un senso di appartenenza evidente e fortissimo che traina il lavoro verso lande che diremmo da etnoantropologia applicata, se non fosse così evidente il lavorio di reinterpretazione e ripensamento attuato da Santoru attraverso le colate industrial con cui si ricopre il tutto. La lunga (e)stasi di Through Imbertighe (Tomb Of The Giants) rievoca visioni di lande desolate e pianori da preghiera rituale, le sovrapposizioni vocali di Jumis (Calls The Dyonisian Orgy) rimandano a riti ancestrali di appartenenza alla terra o a pagane preghiere da innalzare agli dei, il tribalismo rituale dell’epica …And The Golden Horse’s Sacrifice costruisce un ponte spazio-temporale tra risacca industriale e primitivismo materico. È però il senso del tutto a lasciare a bocca aperta, di fronte a un monolite notturno ed evocativo paragonabile ad alcuni momenti altissimi nella storia delle musiche d’area grigia. In poche parole, la Sardegna è grande e MS Miroslaw il suo sciamano. 7.4/10

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MS Miroslaw - Rebirth Invocations. Ritual Chants For The Vulture Goddess (Trasponsonic,2013)

Stefano Pifferi

fra la 53° e la 6° Avenue di Manhattan. C’era una volta un vichingo cieco, che era anche un poeta di strada, un musicista e un inventore. La Grande Mela era nel subbuglio degli anni della guerra e intravvedeva all’orizzonte una risalita che l’avrebbe porta allo splendore dell’Age d’Or. Questo vichingo, nato nel Kansas, si chiama-

va Louis Thomas Hardin (1919-1999), in arte Moondog. Visionario e poeta, la sua storia è strettamente legata al mondo del jazz newyorkese, da cui, con un pizzico di malizia, preferì prendere le distanze. D’altronde da uno strano omaccione che si esibiva per strada con elmo a corna e mantello lungo, ci si poteva aspettare

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Genere: avant, noise, metal, crust_grind Buttarsi a peso morto in questo nuovo Abisso – album fatto di atmosfere e sonorità che già conosciamo, ma impreziosite da risvolti sempre più interessanti e spiazzanti – è sempre una esperienza del limite. D’altronde, è tutta la storia targata OvO ad essere borderline, fatta com’è di confini, soglie da superare, interstizi e, nel caso attuale, precipizi. Tra ambientazioni mefitiche e disagio, post-metal ritualistico ed esoterismo maligno, litanie di sangue made in Stefania Pedretti e modulari strutture ritmiche ridotte all’osso (appannaggio di Bruno Dorella), l’orizzonte di questo Abisso ingloba elementi altri rispetto alla poetica da “giorno del giudizio” dei lavori precedenti. Quest’ultima comunque sempre ben presente, come una stella nera del mattino. I collaboratori: in primis Carla Bozulich a prestare la sua voce e gli Evangelista tutti a soffiare sul fuoco in Fly Little Demon, poi Alan Dubin (OLD, Khanate) a fare altrettanto in A Dream Within A Dream, per non dire del prezioso aiuto fornito da Rico degli Uochi Toki in sede di campionatura. Poi le atmosfere. Sempre ferine, slabbrate, apocalittiche, ma meno monolitiche rispetto al passato, in virtù degli elementi citati sopra. In particolare, è l’uso più ampio dell’elettronica, dei synth e dei field recordings a farsi notare e apprezzare, come nel tappeto di pezzi clamorosi come Harmonia Macrocosmica (suite d’ambient cavernosa e misteriosa rotta dalle eruzioni vocali della sempre più spiritata chanteuse) o in maniera più evidente altrove (la gemella Harmonia Microcosmica). Oppure le divagazioni esotiche – l’Africa nera e voodoo che emerge da Ab Uno – ben calate all’interno di un immaginario ormai pienamente compiuto e riconoscibile, ma pur sempre in grado di rendere il tutto più mobile, minaccioso ma meno monocromatico, sempre sul ciglio dell’apocalisse ma in forme meno violente. Abisso è un disco degli OvO, l’ennesimo disco di un percorso che non conosce soste, cedimenti o semplice reiterazione e l’ennesimo lavoro che invita a riflettere su una materia mai come oggi matura e devastante, onirica e malvagia, screziata e ricercata. Probabile che Bruno Dorella e Stefania Pedretti siano individualmente al loro zenith creativo e collettivamente al loro capolavoro. 7.5/10 Stefano Pifferi

questo ed altro. La sua musica, lo snaketime (“Non ho intenzione di morire in 4/4” dichiarava), ha cominciato ad appassionare, come succede ai grandi artisti, solo negli ultimi anni della sua vita. Negli anni ’50 fu prodotto da Arthur Rodzinski, direttore della New York Philarmonic, nel 67 i Big Brother di Janis Joplin eseguirono una cover di una sua canzone, che poi venne nuovamente ripresa dai Motorpsycho nel 1993. Ma Moondog, oltre ad essere

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un inventore di strumenti quali l’Oo (sorta di arpa triangolare), l’Oooo-ya-tsu (altra arpa) e la trimba (strumento percussivo), è soprattutto considerato come il precursore del minimalismo, tanto che Philip Glass gli chiese, alla fine degli anni Settanta, di dirigere la Brooklyn Phlarmonic Chamber Orchestra in un’importante manifestazione musicale. L’Italia che ama scoprire certi gusti, che gioca con l’ironia e con il virtuosismo, fa rima, quasi

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OvO - Abisso (Supernatural Cat Records,2013)


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dei mezzi di trasporto ingombranti, delle uscite dai locali fumosi nella Grande Mela, della metropoli in generale. Baltic Dance è uno di quei brani ritmati e sporcati al punto giusto da certi suoni che potrebbero piacere ai nostri Calibro 35; Response si adagia su un’atmosfera americana più da valli aperte, che da vita cittadina; Five Reasons è l’elegia finale, da banchetto medievale, che, con il suo ritornello appassionante (che fa pensare ad un mix azzeccato fra i Mariposa e Angelo Badalamenti), riesce nella non scontata impresa di rendere fruibile un prodotto che a un primo sguardo può risultare solo per palati raffinati. Ma non bisogna temere, perché, qualora ci fosse bisogno di una didascalica esegesi dei brani, ci si potrebbe comunque affidare a un Behind Moondog Mask – A Guide To The Magnetic Sound Of Hobocombo allegato all’opera, in cui la voce guida ci spiega per filo e per segno ogni passaggio dell’album. Roba da professionisti. 7.2/10 Nino Ciglio

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sempre con Trovarobato. In questo caso, Trovarobato/Parade dà alle stampe un originalissimo tributo (che scopriremo essere non solo un tributo) al musicista americano, attraverso il secondo lavoro degli Hobocombo, già notati ai tempi di Now That It’s The Opposite, It’s Twice Upon A Time. Andrea Belfi (ex-Rosolina Mar) alla batteria e alla voce, Rocco Marchi (Mariposa) alla chitarra, al sintetizzatore e alla voce e Francesca Baccolini (ex-Urania) al contrabbasso e alla voce, grazie anche alla produzione di Doug Henderson (che ha firmato I’m A Bird Now di Antony and The Johnsons), concepiscono un lavoro raffinatissimo, frutto di riflessioni sul mondo immaginario di Moondog, sul suo enorme e poliedrico repertorio, materiale che ha respirato anche certe prospettive teutoniche in Germania, dove i tre musicisti italiani hanno piantato le tende. Una Germania che non può non rivivere nelle composizioni di Hardin, che la vedeva come “la sacra terra del fiume sacro”(il Reno), vera patria del popolo a cui sentiva di appartenere. Tenendo conto di questa enorme potenzialità folkloristica, gli Hobocombo tentano di lanciare un ponte ideale non solo con la tradizione dei grandi compositori italiani (Morricone su tutti), ma soprattutto con l’exotica, i wax africani, i riti propiziatori e le cerimonie in onore di Thor/ Hardin. Rispetto al precedente LP, in Moondog Mask, solo cinque brani portano la firma del musicista americano. Se si esclude la bellissima East Timor di Robert Wyatt, che il trio filtra attraverso una lettura d’echi alla Cocteau Twins o Dead Can Dance, i restanti brani sono farina del sacco della band italica. Tutti, però, respirano l’atmosfera che negli anni aveva cercato di creare Moondog, quella cioè delle sonorità urbane, del chiacchiericcio imperterrito, della vita disordinata degli uomini d’affari visti dall’estremità di un marciapiede qualunque,

Hyaena Reading - Europa (SubTerra,2013) Genere: rock, post-punk, noise Tesa musica marginale, potremmo dire di questo Europa giocando col titolo di un altro album italiano di qualche tempo fa passato sotto silenzio. Nello specifico, l’ultimo degli Anatrofobia, con cui le affinità, è bene dirlo, finiscono qui, in questa suggestione catturata al volo ascoltando un lavoro pretenzioso e perfettamente centrato com’è quello degli Hyaena Reading. Art-rock teso e vibrante, marginale per la sua richiesta di impegno e attenzione superiore alla media di un gruppo “indie italiano”, in cui disimpegno e semplicità sono termini sconosciuti e che cozzano (cozzerebbero) alla grande col contenuto di queste dodici tracce di poesia dell’impegno civico.

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Genere: post-rock, elettronica, post I Teeth of the sea sono il gruppo arty di casa Rocket recordings, una delle più credibili etichette psych grazie ai vari Goat, Gnod, Anthroprophh e White Hills, tutta gente – tra l’altro – approvata dal bollino di qualità Julian Cope. Aggiungiamo anche che il quartetto londinese si è spesso gongolato in questo stilema arty, ricercando un suono post-tutto capace di unire synth 80s, riff metal, psichedelia, noise industrial e drumming tronfi in 4/4, con l’ovvio problema di assemblare il materiale in maniera fluida (vedi il precedente Your Mercury). Ora però le cose sono cambiate, e in meglio. Si dice sia stato fondamentale il passaggio di Reaper, brano/performance ispirato al film trash fantascientifico Doomsday (bah!) che ha permesso al combo di inquadrare al meglio un immaginario sci-fi di riferimento e di travasarlo nella nuova fatica in studio. Master risolve quindi la questione coerenza, trovando un filo conduttore retrò / sci-fi che macina gli anni ’80 – più del solito Blade Runner, il solito Carpenter – e li risputa in una versione 3d dei Trans Am. Tra le righe si legge l’amore per i Goblin, per la Industrial records quando appunto si parla di power electronics e industrial (Put me on your shoulders so i can see the Rats, All human is error), per i synth più che per le chitarre. Al di là di citazioni e influenze, comunque, è singolare il viaggio, costruito – come da artwork – in continua dialettica tra architettura post- e pensiero psych, tra ricercatezza e approccio popular. La svolta del combo è dunque il passaggio da un approccio frammentario a uno narrativo, uno stratagemma che tiene salda la rotta e trova un minimo comune denominatore nei dieci minuti finali di Responder: psichedelia a tutto tondo tra tribalismi, voci robotizzate, cassa in 4/4 e fiati in astrazione verticale. Disco della maturità. 7.3/10 Stefano Gaz

L’Enfance Rouge da una parte e Massimo Volume dall’altra sono le stelle del mattino di Europa: gli uni per le commistioni linguistiche e la fierezza iconoclasta che li ha fatti assurgere a nomadi del rock trasversale; gli altri per l’utilizzo della tensione narrativa all’interno di un corpus compositivo di matrice 90s, gli intarsi di chitarre soprattutto, ma evidentemente al di sopra della media di una contemporaneità vacua e stantia, fatta di slogan preconfezionati e dischi dall’appeal impercettibile. Francesco Petetta (voce, testi), Emanuele Celegato (chi-

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tarre), Gianfilippo Bonafede (chitarre) e Estelle Rouge (synth, rumori, nastri) non strombazzano pedigree da ben inseriti né rivendicano nulla più di una (notevole dose di) attenzione per ciò che hanno da dire e per come lo dicono. La nostra, per quel che conta, l’hanno avuta e non ce ne siamo pentiti affatto. 7/10 Stefano Pifferi

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Teeth Of The Sea - Master (Rocket,2013)


Genere: rock, indie, folk Chi aveva scommesso su questo ragazzino di Nottingham ci aveva visto decisamente giusto. Smaliziato come l’Alex Turner di qualche anno fa (con un pizzico di arroganza northern che fa tanto Liam Gallagher), il giovane Jake ha bruciato le tappe e, forte di un esordio robusto e ben accolto da pubblico e critica, nonché di una reputazione live in costante ascesa, l’estate scorsa è volato direttamente a Malibu da Rick Rubin per mettere su nastro una manciata di nuove canzoni nel minor tempo possibile. C’è maggiore urgenza ed elettricità in questo Shangri La (battezzato dal nome dei celebri studios, già di proprietà di The Band, dove è stato registrato), c’è la voglia di prendersi tutto e subito – com’è giusto che sia a vent’anni -, ci sono umori e toni certamente più vari rispetto all’omonimo dell’anno scorso, che pure vantava un songwriting più melodico (manca il pezzo killer alla Two Fingers, per capirci) e manteneva ambientazioni e mood saldamente orientati al folk e al r’n’r vintage. Qui invece, a partire dai singoli apripista What Doesn’t Kill You e Slumville Sunrise, pare subito evidente l’esigenza di portare il tutto sui territori di un alt-folk dai toni ora punky ora irriverenti alla primi Oasis (Kingpin, Simple Pleasures), watt e decibel a misura di palchi importanti quali Glastonbury, cui Bugg appare assolutamente votato (si veda anche la ballatona a ugola spiegata A Song Without Love). Detto che tanto l’apertura di There’s A Beast And We All Feed It quanto la chiusura Storm Passes Away pagano ancora gustoso omaggio al Dylan elettrico e a Woody Guthrie, le cose più interessanti vengono forse dalle vibrazioni Wilco di Messed Up Kids e quelle Decemberists di All Your Reasons, mentre sul livello qualitativo della scrittura c’è ben poco da eccepire. Non

buono nel complesso quanto Jake Bugg, tuttavia un album che forse indica già un luminoso futuro. 7/10 Antonio Pancamo Puglia

John Lennon McCullagh - North South Divide (Cherry Red Records,2013) Genere: cantautori John Lennon McCullagh ha quindici anni (sì, avete letto bene), viene da Doncaster (cittadina del South Yorkshire) e, a dispetto del nome, non ama i Beatles, bensì Bob Dylan. Un amore sbocciato a 12 anni, dopo aver seguito, insieme al padre, il musicista di Duluth nelle nove date di un tour in Australia, il paese dove è cresciuto. Fin qui nulla di strano, se non fosse che il ragazzo è la nuova scommessa di Alan McGee, meglio conosciuto per aver scoperto e lanciato gli Oasis, nonché manager di alcuni nomi di punta dell’underground britannico, come The Jesus and Mary Chain, Primal Scream, My Bloody Valentine, The Libertines. Non stupisce affatto, dunque, che una vecchia volpe come lui abbia deciso d’investire sul ragazzo presentandolo come la nuova rivelazione del folk inglese e diffondendo, a tale scopo, tutta una serie di aneddoti e stereotipi per ribadirne lo status di next big thing. A tal proposito, basti pensare al primo incontro tra l’artista e il suo mecenate, avvenuto in un fumoso pub di Rotherham, in cui John stava appunto esibendosi in un tributo a Dylan. Ascoltando il debut North South Divide scritto e registrato subito dopo l’incontro con McGee – tuttavia, non si può fare a meno di pensare che il giovane sia soltanto l’ennesima piccola meteora da dare in pasto agli affamati di emuli e imitatori, capace di colmare una nicchia – quella del songwriting – ancora vuota all’interno delle classifiche UK. A dispetto

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Jake Bugg - Shangri La (Mercury Records,2013)


Giulia Antelli

John Talabot - Dj Kicks (!K7,2013) Genere: pop, elettronica John Talabot si cimenta nella popolare serie Dj kicks e il suo non può che essere un viaggio tra il celestiale scazzo, la savana più terrigna e una dance floreale, da giardino botanico. Filo diretto con il caso discografico che è stato ƒin su Permanent Vacation (disponibile anche in una consigliatissima deluxe edition), la compilation rappresenta forse il migliore amplificatore e dilatatore delle produzioni dello spagnolo: anche qui grande attenzione per l’architettura

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complessiva, tracce che scorrono come l’acqua, l’una nell’altra, lungo i bordi della nu disco e di certe malinconie 80s, seguendo un macro (world) mood tagliato di fino in cesellate variazioni, sempre con l’occhio attento sui bpm e sugli strati di synth (strumento abbondante e cruciale nella poetica del ragazzo). Moltissimi i brani presenti in mix particolari o rari; praticamente, ogni cosa è stata missata e plasmata su una invidiabile visione d’insieme, a partire dai preziosi gradienti equatoriali: gli innesti latini nei ritmi africani in The Grasshopper Was The Witness di Harmonious Thelonious (ovvero Stefan Schwander) – nel remix di Elmore Judd and Rowan Park – che scivolano in un’afosa Anagrama di Tempel Rytmik, oppure il remix dei Maps di Andy Stott (I Hearsd Them Say, ovvero quanto di più solare si sia sentito nelle sue produzioni) che s’abbandona in ellittiche sintetiche con la Zero Centre di Pye Corner Audio/Martin Jenkins (producer già avvistato su Type e Ghost Box, di cui consigliamo vivamente l’eppì Superstitious Century). Talabot è inoltre sapiente nel togliere a piacimento luce al mix: con Escape To Nowhere di Motor City Ensemble, Innermind di Paradise’s Deep Groove o Streets di Abby (nel remix di Wraetlic) il viaggio inforca l’autobahn, s’accendono i fari, cala una certa oscurità nel canyon ritratto in copertina e si dispiegano scenari 70s, già ben piazzati ovunque nel mix, ma ancor più espliciti nella Sideral di Talaboman, ovvero lo svedese Axel Boman e lo stesso Talabot, altro bel tocco tra ritmo e incanto prodotto esclusivamente per questa compilation (come l’inedito Without You del solo producer, traccia non memorabile ma perfettamente funzionale al mix). Sempre riguardo ai vari dettagli, tra scelte e produzioni, segnaliamo certa ebm tagliata soul dream (l’ottima Klinsmann, ancora di Boman),

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delle influenze dichiarate – oltre a Dylan, troviamo i già citati Beatles, Oasis, Paul Heaton, Frank Sinatra, addirittura Donovan -, tutti i brani sono costruiti sull’acerba vocalità di John e sulla sua chitarra acustica, arricchita qua e là dalla presenza degli archi (Long Long Way, The Ballad Of The Blue Poet) e dall’indispensabile fisarmonica (55 Blues, la title track). Una serie di canzoni in cui manca soprattutto una vera originalità nelle melodie, così come nel registro vocale, quest’ultimo pressoché invariato in tutti i dodici pezzi dell’album. Il disco riesce ad evitare la monotonia solo quando abbandona leggermente il paradigma dylaniano, ad esempio nelle declinazioni old blues di Short Sharp Shock o nelle atmosfere country della conclusiva The Strand. Anche se la cover dell’album ci propone McCullagh come un musicista navigato, con gli immancabili occhiali scuri e le mani in tasca, a fine ascolto, viene da chiedersi cosa avrà in serbo il futuro per lui. Il rischio è quello di un ibrido poco convincente tra The Tallest Man On Earth e Jake Bugg, visto che la personalità – oltre che le canzoni – sono ancora troppo poco formate per poter parlare della classica nuova promessa. 5.2/10


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Edoardo Bridda

Johnathan Rice - Good Graces (SQE,2013) Genere: pop, folk Molti lo ricorderanno come il Roy Orbison del biopic su Johnny Cash, Walk the Line, ma Johnathan Rice ha un passato e un presente di tutto rispetto. Ad esempio, è la metà maschile del duo Jenny and Johnny, in compagnia della partner Jenny Lewis, che, a dire il vero, sovrastava con le sue doti folk il talento del giovane d’origini scozzesi. Dal 2005 di Trouble Is Real, dunque, e, in particolar modo, da Futher North del 2007, Johnathan Rice, ha tentato modi possibili di imporre il suo songwriting elegante e jingle-oriented. L’uscita dall’ombra, però, avviene in particolare con questo Good Graces, dal momento che il disco arriva dopo sei anni

di collaborazioni con la Lewis e dopo il successo di Acid Tongue. Dopotutto, il cantautore non fa fatica ad ammettere la sua dipendenza dal cantato femminile e dal gusto retrò di questo sound folk ammaestrato ed intermittente, un suono che in Good Graces resta sui binari del citazionismo, palesando il carattere intrinseco della forma-canzone pop. Il terreno battuto è quello dei Fifties, come si evince dalla copertina in stile James Dean giocata su un immaginario in celluloide. E i trenta minuti del disco non sono da meno. Si va dai giochetti traditional e twee pop di Acapulco Gold – che è un buon compromesso fra l’enormità della scrittura di Dylan e gli aggiornamenti folk della West Coast degli Avi Buffalo – alle interferenze Beatlesiane e più riflessive di My Heart Belongs To You. Il clima, s’è già capito, è quello vintage dei balli di fine anno di qualche college di provincia e si respira qua e là una voglia maliziosa e piccante di erotismo misto ad improvvise crisi esistenziali. Sentimenti adolescenziali collegati a una mirata riflessione su passioni e miracoli di questo periodo della vita. Non può mancare un tocco del compianto Lou Reed (palese fin dal titolo in Lou Rider), con la voce baritonale e principalmente parlata, i coretti femminili alla Nico e la chitarra spezzata sugli accordi aperti. Messe da parte le atmosfere revivalistiche un po’ stantie, le cose più interessanti si fanno sentire quando emergono le radici scozzesi. Se già si avverte in Acapulco Gold un brivido Belle and Sebastian, è Good Graces il brano più riuscito del disco. A metà strada fra la band di Murdoch e i Camera Obscura, è un intermezzo pop divertente, al massimo dell’orecchiabilità, con i controcanti femminili e i passaggi in minore che regalano al brano un’oscurità ben nascosta. Nowhere At The Speed Of Light , infine, tiene altrettanto alta la concentrazione, focalizzandosi sulle interferenze di The Suburbs

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una traccia “very Colonia” che, secondo Talabot, riassume perfettamente il sound Kompakt (Silikron di Kron nel Jürgen Paape Remix), della vintagistica anthemica di marca house in Old Song di Max Mohr, sempre nel viatico tra il quadretto melodico e una etnicità seppiata da cartolina instagram (vedi anche Tai Po Kau di Samo Dj) e la malinconia inscenata nel finale It’s All Over dell’amico e collaboratore Pional, ovvero Miguel Barros (occhio al suo 12” su Young Turks, Invisible / Amenaza), nella riedizione del bravo Locked Groove / Tim Van de Meutter, producer tra le altre cose affiliato alla Hotflush. Talabot ha dichiarato che questo mix rappresenta il suo mondo musicale, il suono in cui è stato immerso negli ultimi anni. Non è proprio un club mix, bensì un biglietto da visita delle sue influenze e della sua storia d’ascoltatore. Che questo Dj Kicks s’appiccichi come una seconda pelle a chi lo ascolta, è forse il migliore dei complimenti che si possa fargli. 7.3/10


degli Arcade Fire e soprattutto su atmosfere alla National. Rice ha tutti gli strumenti per crearsi un posto d’onore nel palchetto dei grandi del genere, ma fa ancora fatica a forzare la serratura. Colpa, forse, delle energie spese nel progetto con la Lewis e in mille altre direzioni, spesso non solo musicali. O forse semplicemente c’è da guardare con sospetto l’obiettivo di affiancarsi ai numi tutelari (Neil Young, Gram Parsons, Colin Blunstone), quando invece sarebbe più prolifico e stimolante imporre il proprio stile, che, fino ad ora compare solo sporadicamente. 6.2/10

delicati e su ritmi medio-bassi che ben si accordano ai sognatori del titolo. Nonostante non sia un concept, comunque, il sapore unitario del corpus di canzoni rende insensato soffermarsi su di un singolo episodio. Verrebbe da dire che nell’ascolto ci si debba lasciare cullare da quel dormiveglia in cui i sognatori riescono a ricordare i sogni, tra dissolvenze al bianco e gli svolazzi in tremolo della voce di Josephine. Oramai un’artista che non assomiglia ad altri che a se stessa, pur avendo deciso di portare con sé una lunga tradizione. 7.4/10 Marco Boscolo

Nino Ciglio

Genere: folk Per l’ottavo album da solista, la folk singer del Colorado mette da parte esotismi spagnoleggianti e, a quanto pare, anche il sodalizio musicale con (l’ex) compagno Victor Herrero. Se già il precedente Blood Rushing aveva segnato il ritorno al di là dell’oceano, I’m A Dreamer riannoda i fili del folk con Nashville (città in cui è stato registrato), con l’apporto di musicisti misurati ma dall’eleganza senza tempo. Potrebbe essere considerato il disco più accessibile per un’artista sempre intenta a caricare di uno strato “ulteriore” la già buona musica folk che scrive, si tratti di interpretazioni di poesie di Emily Dickinson o di Federico Garcia Lorca. Questa volta la Foster sembra aver deciso di voler fare tutto da sè, con una sicurezza che la vede già proiettata (ma lo era già) tra le grandi interpreti del folk internazionale. Teso per la sua interezza sulle vene sopranili del canto sempre più raffinato della Foster, sul piano musicale il disco si allontana dai muscoli della band spagnola di Perlas e Anda Jaleo; un lavoro di sottrazione tutto giocato su toni

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Genere: rock, psych, wave Che il fascino dei Kalweit And The Spokes derivi da quel masticare l’America rurale e blues per poi risputarla decadente e onirica o da certe brume wave oscure e vaporose, poco importa: quel che conta è che la materia trattata rimane, anche in questo secondo disco della band, assai intrigante. Forse superiore, in termini di impatto, rispetto alle buone cose già ascoltate nell’esordio di tre anni fa Around The Edges; di certo più a fuoco e personale, con la voce al solito fascinosa e matura di Georgeanne Kalweit a tracciare un’ideale parabola che parte da Nico per arrivare a Marianne Faithfull, passando per una Liz Phair sudista e laida. Il cambio di line up, con Mauro Sansone al posto di Leziero Rescigno dietro le pelli (il deus ex machina del gruppo rimane invece Giovanni Calella), non cambia le potenzialità di un suono avvincente, in bilico tra chitarre elettriche solcate da bottle neck acidi e un mood claustrofobico. Un minuto prima si ascoltano degli Shivaree sciolti nel fondo di un bicchiere di whiskey (Liquor Lyles), ci si fa rapire da

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Josephine Foster - I’m a Dreamer (Fire Records,2013)

Kalweit And The Spokes - Mulch (Irma Group,2013)


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Fabrizio Zampighi

Katy Perry - Prism (Capitol,2013) Miley Cyrus Bangerz RCA Genere: pop, mainstream, dance-pop Anche se non serve spulciare nelle charts ufficiali per capire che qualcosa sta cambiando nell’Olimpo del mainstream, è singolare notare come stiano lentamente calando le percentuali di vendita di mostri sacri del pop da classifica come Lady Gaga o Katy Perry. L’Artpop della Germanotta, pur mantenendosi saldo in vetta a Billboard, ha venduto al debutto “solo” 260.000 copie a fronte del milione totalizzato dal precedente Born This Way, mentre il nuovo di Eminem ne guadagna quasi 900.000. Non va meglio alla collega Katy Perry che, a fronte di un successo planetario col singolo Roar, riesce a vendere solo 286.000 con Prism, poche in più di Bangerz della “nuova” Miley Cyrus. Eppure la Hannah Montana del Tennessee (classe 1992) consegue un impressionante numero di posizioni in Top 10, fra cui spiccano le prime posizioni

in UK e U.S.A. A sentirli, i due dischi, paiono mondi lontani. Per scelte, per gusto, per tematiche. L’una – la Perry – tutta presa a sbandierare i propri sentimenti in faccia al primo fan cafone; l’altra – la Cyrus – impegnata a mostrare qualcos’altro perché “questo è il modo in cui voglio affermarmi nel 2013”. Pare proprio che qualcosa si muova lassù nell’Olimpo dei più pagati. Ma cosa? E perché questo cambiamento di gusto? Forse perché al pubblico, che si scandalizza (e gode, e si diverte in pantofole) davanti alle pose smaliziate (leggasi semplicemente di cattivo gusto) di una Miley Cyrus che un tempo cantava ninnananne ai bimbi su Disney Channel nelle vesti di Hannah Montana, evidentemente non basta più un po’ di panna che spruzza dal seno di una Katy Perry che, perlomeno, ci metteva una buona dose di (auto)ironia. Non basta più l’autoironia perché quella che forse era una presa per i fondelli consapevole, è diventata in poco tempo la realtà. Non è un caso che chi ha l’occhio attento ai fenomeni contemporanei, come Harmony Korine, non si sia fatto sfuggire tale tendenza, fissandola su una pellicola – Spring Breakers, recuperatela se l’avete persa – che, attraverso le gesta di quattro colleghe di Miley (per l’esattezza, le principessine Disney Vanessa Hudgens, Selena Gomez, Ahsley Benson e Rachel Korine) unite a un altro occhio attento all’attualità, James Franco (se non ci credete guardate qui), racconta la vacuità del contemporaneo senza risultare blasé. Tanto Prism quanto Bangerz nascono da una rottura. Il divorzio della Perry e la separazione della Cyrus con Liam Hemsworth. Ma il divorzio e l’età anagrafica della Hudson di Santa Barbara, congiunti con il cambiamento di clima di cui si parlava prima, hanno generato un insolito ritorno all’introspezione (leggasi pure, fare le cose sul serio). Anzi, proprio la teatralità non più autoironica del sexy, del dirty, dello sfacciato di Miley hanno probabilmente fatto nascere

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una Nancy Sinatra sotto LSD (Murky Stuff ) o magari ci si trova invischiati in un vociare di feedback e percussioni (Pea Green Sky); il minuto dopo si barcolla tra wave, psichedelia e percussioni dal vago aroma industrial (Kate And Joan) o si spulcia in un passato di ascolti fatto di Cardigans e Sons and Daughters (Hank’s Hour). Il trait d’union tra immaginari così diversi è un impianto strumentale che lavora con cautela coordinando synth, organo, batteria e chitarra elettrica, per un suono talmente caldo e corposo da dare l’illusione, in sede di ascolto, dello sfrigolare degli amplificatori accesi. La voce e i testi della Kalweit fanno il resto – intensa e sciamanica la prima, nient’affatto scontati i secondi – per un disco bellissimo, nella sua “normalità” solo apparente. 7.1/10


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ha sì l’aria di prendersi sul serio, ma in modo terribilmente contemporaneo. Lo fa in chiave dream pop con Adore You o rap con SMS, in chiave blues con 4×4 o tweet-dance con #GETITRIGHT. C’è persino lo sfottò all’indie folk più stantio in Maybe You’re Right e c’è qualche accenno di witch/dubstep in Drive e FU, per non parlare del funky daftpunkiano di On My Own. Come il Bling Ring di Sofia Coppola che andava a svaligiare le case delle star di Hollywood senza sapere più chi, cosa o perché, ma solo per il gusto di farsi dei sontuosi selfie in flagrante, la Cyrus colleziona figurine nel marasma della modernità. E, a giochi fatti, non le riesce neanche male. Sicuramente perché dietro ai mixer ci sono mani esperte, ma anche perché noi ascoltatori, allo stato attuale, percepiamo più in linea la sua di proposta rispetto a quella sdolcinata (e un po’ soporifera) della Perry. Percepiamo, ma non sopportiamo (si spera), perché solo l’occhio attento può farci distinguere il racconto di una decadenza da una decadenza effettiva. E se Spring Breakers (o Bling Ring – con modi diversi e risultati diversi) guardano con occhio distaccato (e ci costringono a guardare con una certa amarezza) la decadenza, Miley (come fenomeno) è la fonte che l’alimenta, pur tenendoci incollati al teleschermo mentre Robin Thicke, banalmente, glielo appoggia. La Perry, in tutto questo cambiamento, ha dovuto adeguarsi. Le cose andavano più veloci di lei. Bei tempi quando bastava dire “I kissed a girl and I liked it” per trovarsi nell’occhio del ciclone. Oggi s’è trovata spodestata da chi effettivamente non ha fatto nulla per meritarsi i risultati ottenuti, se non rendere seriose e vuote le sue stesse idee, che in un’ottica kitsch e simpaticamente melodrammatica potevano reggere la baracca. Prism si schianta contro il contemporaneo, esattamente come fa Artpop e in maniera speculare a quanto fa Bangerz. Se i

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nella Perry un rifiuto, una repulsione paranoica, come se ci dicesse: “Adesso vi faccio vedere io come si fa musica di un certo tipo”. Peccato che se uno nasce Fame Monster (per citare Gaga), non può cambiare con un po’ di polvere di stelle. E Prism, oltre che old-fashioned, sembra un brutto tentativo di fare la paternale. Lo stesso vale per Artpop, sia chiaro, premesso che la signora Germanotta non ha mai avuto l’autoironico nelle corde; semmai un piccolo santuario di ritualità, di epicità grottesche, mostruose, che l’hanno resa irripetibile. Ma se già Born This Way si faceva scimmiottare da Madonna nei concerti del 2012 (che la canticchiava sopra Express Yourself), Artpop sembra buttar giù persino i fan di vecchia data, delusi, ancora una volta, dalla mancanza di potenti brani da top 10. In Bangerz, dall’altra parte, si sente tutta la ragazzina di provincia, cresciuta al Sud e allevata sul mito di gente che – con un colpo di bacchetta magica – è finita nella produzione del disco. Parliamo di Pharrel, Will.i.am, Dr. Luke o anche Britney Spears, Big Sean o Nelly. La parabola cristologica della Cyrus è quanto di più ferocemente contemporaneo ci sia nel mondo in cui viviamo. Dal tubo catodico al meme, dalle tonnellate di parodie all’incontro/ scontro (a dire il vero un po’ moralistico anche quello) con Sinead O’ Connor, passando per gli avatar a forma di gattino: non c’è limite e non c’è controllo alla frenesia della Cyrus. Allevata – come le altre principessine Disney – nel nome della castità, dei buoni sentimenti, dei valori sacri (che a noi italiani fanno sempre venire in mente il Ventennio), Miley ha dovuto bruciare le tappe, schiantandosi rovinosamente con un mondo che, pur alimentando lei stessa, la scaricherà ben presto con la stessa facilità. Ma è questo il suo momento. E lo dimostrano (oltre alle vendite) persino le scelte stilistiche dell’album. A metà fra r'n'b e hip hop, il disco


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leggianti di Legendary Lovers, le riflessioni sul recente divorzio in Ghost. Tutto scade in un melenso-monotono giro di riflessioni (non più ciniche o ironiche come un tempo) su se stessa e sui colori rifratti nel prisma della sua anima ferita. Probabilmente il disco venderà, a lungo e forse più del precedente, e sentiremo Walking On Air in tutte le discoteche, club, pub, lidi, cabine doccia, water, bidet nell’arco di nove mesi, ma ciò non toglie che Katy ha bisogno di rivedere il suo orientamento musicale, magari tornando di nuovo a farci ridere un po’. 4.5/10 Nino Ciglio

Lanterns On The Lake - Until The Colours Run (Bella Union,2013) Genere: pop Del debutto Gracios Tide, Take Me Home scrivevamo che era uno di quei dischi che si sarebbero dimenticati al primo temporale autunnale, come gli amori estivi. Il secondo album, a due anni esatti di distanza, sceglie di irrobustire il sound dei Lanterns On The Lake, attingendo a territori più rock, cosicché il rapporto tra dream e folk della band di Newcastle si fa meno lieve, più spinto su territori epico-eroici che – sulla carta – ben si addicono alla voce angelica di Hazel Wide. Del riferimento arty per eccellenza, i Sigur Rós, rimane quella insistita ricerca dell’immobilità, del fotogramma (ancora una volta l’insistenza sull’immaginario cinematografico è forte) e dell’attimo perfetto. Quello che manca, accanto agli arrangiamenti comunque portati con mano sicura, sono le canzoni. E per quelle, gli artisti pop, devono essere valutati. Scrivevamo due anni fa che più che narrare, la musica dei Lanterns On The Lake ha il desiderio di evocare: atmosfere, sensazioni, momenti. Nonostante il parziale cambio di tavolozza cui accennavamo, con in più la scom-

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dischi della Perry e di Gaga sono lo smascheramento delle pop star, che non vogliono (leggasi, non hanno più bisogno di) inventare paesi dei balocchi, parrucche o scene lesbo per fidelizzare un pubblico che è diventato solo di devoti e che non gli girerebbe in ogni caso le spalle, quello della Cyrus è l’appiattimento definitivo, è la bandiera bianca, che, ironia della sorte, descrive al meglio (e fa identificare al meglio i) teenager del 2013. Se i nomi d’arte fossero nomi di supereroi, potremmo dire che Perry torna Hudson, Lady G torna Stefani, ma Miley Cyrus uccide il suo doppio (Hannah Montana) creando un canone inverso non da poco. In Prism, il kitsch (il cui padre, in arte contemporanea, si chiama Jeff Koons, creatore della copertina di Artpop) è solo accennato nel ruggito (timido) della tigre di Roar, nelle citazioni dance anni Novanta di Walking On Air, nell’occhio di bue puntato sulla diva a nudo (come nell’artwork, d’altronde) di Uncoditionally. Lo scopo di Prism, stando alle dichiarazioni, era quello di riprendere e rendere omaggio alla grande musica dance di matrice scandinava. Sebbene la produzione coincida (salvo i grossi nomi) con quella di Bangerz – con Dr. Luke e Cirkut di nuovo ai mixer ­­-, è soprattutto Klas Åhlund – storico collaboratore di Robyn – ad essere la vera e propria linea guida del progetto. Se è comunque da stimare il tentativo di rinnovarsi non rendendo perle (si legga hit) ai porci, è vero anche che solo lì risiedeva la forza del team della Perry. Quella capacità che ha pagato nei precedenti lavori (e che continua a pagare con Roar) di creare, per mezzo della potente ed affascinante voce di Katy, una macchina da guerra (si legga da soldi) in grado di sbarellare tutte le classifiche. Quando non ci si esercita su questo schema, il cattivo gusto e il puzzo di artificioso salgono ancora più in superficie. A poco servono le incursioni hip hop di Juicy J in Dark Horse, le citazioni orienta-


parsa da dietro i microfoni di Paul Gregory, la barra non sembra essersi spostata più di tanto. Manca sempre quel guizzo che faccia restare in memoria melodie e brani, mentre talvolta si è sorpresi negativamente da un’inseguimento sui Seventies di una band come Florence And The Machine (ascoltare la title-track per avere conferma): sul fronte della personalità, della forza “rituale”, ma soprattutto delle melodie e della scrittura (si ascolti una scialba Elodie, che dovrebbe dare il tono al disco, o una poco convinta You Soon Learn) il confronto a volte appare poco generoso per Hazel e compagni. 6/10 Marco Boscolo

Genere: pop, indie Squadra che vince non si cambia, o quasi. I Los Campesinos! sbandierano una fedeltà invidiabile che va di pari passo con un mantenimento dello status quo artistico che passa da Wichita Recordings e arriva fino al produttore – ormai di famiglia – John Goodmanson. L’unico neo in questo quadretto esemplare di coerenza che si incarna nel quinto disco No Blues, è l’assenza della bassista storica Ellen Campesinos! la quale ha abbandonato sul finire del 2012, concedendosi un’ultima performance immortalata nel forse prematuro disco live A Good Night for a Fist Fight uscito a maggio di quest’anno. Dal lato prettamente musicale, persistono i toni meno spensierati introdotti con il precedente e convincente Hello Sadness, ma l’attenzione si sposta nuovamente verso quei frizzanti brani indie pop-rock che sul finire del 2007 avevano trasformato i Campesinos! nella più credibile next big thing gallese. Una fiamma, la loro, che si era leggermente affievolita con l’interlocutorio Romance Is Boring ma che ora torna ad ardere nel cuore di tutti i seguaci del credo

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Riccardo Zagaglia

Lydia Lunch - Retrovirus (Interbang Records,2013) Genere: rock Il nome dice già tutto. Retrovirus è la celebrazione dell’esperienza trentennale di Lydia Lunch che si instilla nel corpo morto del rock come un virus retroattivo, pronto a risvegliare le sopite grazie della devastante lady di ferro della no-wave newyorchese. Ad accompagnarla in questa rendition discografica della tournée che l’ha vista gironzo-

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Los Campesinos! - No Blues (Wichita Recordings,2013)

indie-pop. Certo, il suono ha subito uno smussamento in chiave grandeur ma la voglia di divertire e divertirsi è rimasta quasi intatta. Il già per certi versi impeccabile – nella sua ricerca alla pop song - Hello Sadness, trova in No Blues un degno erede: chi è in cerca di capolavori può guardare altrove, anche se è difficile skippare brani come For Flotsam e la più patinata Avocato,Baby o non farsi scappare qualche sorriso davanti alla solita dose di ironia (Cemetary Gaits) a cui “i contadini” gallesi ci hanno abituati negli anni. Se l’apice del disco è forse da ricercarsi tra i solchi dell’epopea emozionale ed epica della malinconica Glue Me, abbiamo anche passaggi minori – fortunatamente rari – che suonano un po’ forzati e privi di quella convinzione melodica con la quale i nostri aggrediscono solitamente l’ascolto (As Lucerne/The Low), pur non impedendo al lavoro di mostrarsi incredibilmente diretto nella sua compattezza. Non saranno mai gli Arcade Fire del Regno Unito, ma i Los Campesinos! sono come un buon vecchio amico che nella frenesia quotidiana si tende a non considerare, ma che poi, una volta ritrovato, ci fa tornare in mente i piacevoli momenti passati insieme e la voglia di viverne altrettanti. 6.8/10


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benemerita Interbang, trovate pure il dwld per un altro pezzo, Black Juju, originariamente presente nell’edizione CD targata ugExplode: una noise-rock suite da 11 minuti abbondanti che, se possibile, chiarisce ancora di più il senso del tutto. L’artista con più retrospettive al mondo stavolta si omaggia e ci omaggia con la solita, graffiante, rabbia repressa. 7.2/10 Stefano Pifferi

M.I.A. - Matangi (Virgin,2013) Genere: pop, beats, grime Per una popstar da sempre votata alla controversia, che apriva il disco precedente con ‘connected to the Google/ connected to the government’, che soddisfazione deve essere stata vedere Snowden sputtanare tutti. Dopo questo bel boost di self-confidence, ma soprattutto dopo il duetto/caso mediatico con Madonna e Nicky Minaj al Super Bowl, tutto (o niente) era possibile per M.I.A.. Matangi poteva correre il rischio di perdersi in una deriva disarticolata, positiva o negativa, per il disco di una freak che passa metà del suo tempo a sottendere teorie cospiratorie internazionali e l’altra a lanciare trend da passerella insieme a Versace (la collezione si chiama Versus, e guarda all’India). E, appunto, ci troviamo di fronte a un album senza troppi compromessi, fatto di tanti spigoli e che quando vede un ostacolo non lo evita, bensì ci si schianta contro per poi tornare in retromarcia sui detriti. Un disco attentissimo a cogliere i trend “qui e ora”, che coinvolge i tutti i producer più out there (Hit-Boy, Surkin, Para One) ma allo stesso tempo torna a casa (Switch) quando ce n’è bisogno. Ai Jungle beats di Switch fanno da contraltare le influenze G.O.O.D. Music (Warriors, prodotta da Hit-Niggas In Paris-Boy), quindi grossa rilevanza alle percussioni, a ritmi future R’n’B e in generale a tutte le ultime mode dell’hip-hop (la trap di

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lare in lungo e in largo per gli States – e che la vedrà protagonista in questi giorni anche a casa nostra – tre pezzi grossi dell’underground. Alla chitarra mr. Weasel Walter, già Flying Luttenbachers – per fare un solo nome della infinita lista di collaborazioni ed esperienze – e tenutario della ugExplode; al basso Algis Kyzis, membro a più riprese di Swans e Foetus; alla batteria lo storico Bob Bert (Sonic Youth e Pussy Galore bastano come lasciapassare?). Il risultato? Una bomba per chi ami il versante più ossessivo del rock virato noise o industrial inizi anni ’90, tra chitarre che martirizzano il blues (o le spoglie de blues), bassi rotondi e secchi, batterie marziali e “pestone”. Se poi questo approccio “datato” ma sempre sulfureo e riottoso viene applicato a un giro a 360° nella discografia essenziale della Lunch, converrete che si parla di un ascolto imprescindibile per chiunque si sia formato negli ultimi 30 anni di musiche off. Pescando tra i lavori solisti, quelli di Teenage Jesus and The Jerks (I Woke Up Dreaming), 8 Eyed Spy (le abrasive Love Split With Blood e Ran Away Dark) e 13:13 (3×3 e Afraid Of Your Company), oltre che da alcune delle miriadi di joint-venture instaurate dalla Lunch (su tutte la Meltdown Oratorio in combutta con Clint Ruin a.k.a. JG Thirlwell e Burning Skulls con Rowland S. Howard), Retrovirus ci catapulta due volte indietro nel tempo: un prima facendoci assaporare alcune pagine tra le più ossessive, sfasate, cruente, irrispettose e deraglianti della dark lady della no-wave; una seconda mettendo in mano quel materiale alla seconda (de)generazione dei noise-addicted della big apple. Lo spettacolo, comunque sia, è sempre lei: che sia intenta a strillare le sue angosce o a sproloquiare lucidamente tra un pezzo e l’altro – registrati live alla Knitting Factory di Brooklyn – la Lunch non passa mai inosservata. In questa edizione in vinile rosso, opera della

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Luca Falzetti

Maurizio Bianchi - Isometrie Sonore (Gatto Alieno,2013) Genere: industrial Disco in collaborazione “a quattro”, questo Isometrie Sonore, col padrino dell’industrial italiano Maurizio Bianchi – ormai ritiratosi da tempo ma, a quanto pare, più in pista che mai – pronto ad unirsi in mailing-collaboration con alcune schiere tra le meno ortodosse della area grigia romana, come DBPIT (Der Bekannte Post Industrielle Trompeter, al secolo Flavio Rivabella) e la sua compagna Xxena aka

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Arianna Degni – video-artista e graphic designer oltre che musicista in proprio – e il noiser Massimo Croce. Il risultato è contenuto nel vinile limitato – con tanto di bonus cassetta nella prima, ancora più limitata edizione, con quattro tracce appannaggio di ognuno dei singoli contributori – in cui Maurizio Bianchi “gioca” singolarmente con ognuno dei restanti splitter, nel lato A, per poi unire le forze nel fluviale lato B. Andando con ordine, le tre tracce omonime che compongono la prima facciata del disco vedono MB incontrarsi con Xxena sul tappeto increspato di un noise acquatico e fluente (Isometria 01), scontrarsi con DBPIT tra sfarfallii di rumore bianco e ciclicità terminale (Isometria 02) e sintonizzarsi con Massimo Croce sulle note algide e sospese di un flusso montante di noise sinusoidale (Isometrie 03). Nella traccia collaborativa che occupa l’intero lato B, Metrianoria Soniso, i panorami si dilatano e inglobano passaggi ritmati reminiscenti Throbbing Gristle et similia o le nuove leve dell’IDM, passaggi quasi dark-ambient, esplosioni di noise al limite dell’harsh, così come la generale tendenza alla frammentazione e alla destrutturazione sonora che è il principio alla base del progetto. “L’esempio di isometria qui riportato transita attraverso le traslazioni elettroniche, e affascina le menti attraverso rotazioni e riflessioni nel piano o nello spazio sonoro, preservando i concetti geometrici delle superfici sperimentali”, MB dixit nel press sheet, sottolineando quanto sia robusto l’apparato teorico dietro questo lavoro. 7/10 Stefano Pifferi

Melvins - Tres Cabrones (Ipecac Recordings,2013) Genere: rock, hardrock, hardcore E così anche i Melvins sono invecchiati. Beh, non proprio invecchiati, perché Tres Cabrones è

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Double Bubble Truble). Il filo conduttore con i precedenti Kala e Maya c’è ed è forte, ma la produzione di Matangi sembra ben studiata per allargare ulteriormente il tiro. Se è vero che in alcuni episodi si perde facilmente il filo esagerando praticamente in tutto, come in Come Walk With Me, è vero anche che tra i brani c’è quella Bad Girls minacciosa e tremenda che è probabilmente il miglior singolo di M.I.A. ad oggi. Matangi è sostanzialmente un disco pop fino al midollo, che si muove su una piattaforma a metà tra l’hip-hop culture e i bass drops da dancefloor (Y.A.L.A.), con cui M.I.A. reclama lo scettro di iniziatrice di trend sostanzialmente rubatole da Kanye West con Yeezus e che raccoglie abbastanza punchlines da usare come tag-line sui social network. E se il sample/collaborazione dell’ultimo The Weeknd di Exodus suona forse solo come un pretesto e i testi si perdono troppo spesso tra retorica rivoluzionaria e celebrity ego, è in pezzi come Bring The Noize che, come uno schiaffo in faccia, ci viene ricordato perché M.I.A. è tutto sommato insostituibile: instant classic e mina vagante allo stesso tempo. Matangi ha qualcosa in più di Maya, la concorrenza è avvisata. 7.2/10


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Meteor - Cò Còl E Raspe (Offset,2013) Genere: crust_grind, mathcore Per la serie, album corti se non cortissimi, ecco a voi l’esordio (ehm) lungo del duo Meteor. Già incontrati in occasione del 7” single sided d’esordio Anemici, Sangue Dalle Rape (quattro spasmi vomitati fuori a velocità folle e con una insana passione per le brutture sonore), ora i due A. (al secolo Andrea Cogno, chitarra, rumori, voce) e B. (per l’anagrafe, Giuseppe Mondini, batteria, rumori, voce) dilatano i propri confini e ci offrono uno splendido vinile picture - opera di Sara Donati e ovviamente single sided - in cui infilano sette schegge di schizoide e mutante noise-rock dai risvolti math e dalla furia post-prog/grind, per un totale di quasi nove minuti. Un frullatone impazzito di ritmi forsennati, variazioni e cambi di tempo che dal veloce vanno al molto veloce, fino al velocissimo e dal folle passano all’insano: orge tra i Locust senza Pearson e gli immancabili Lightning Bolt, sporcizia digitale da quattro soldi e rumore da spie al rosso, l’instabilità caciarona-destabilizzante dei Mr. Bungle (l’eiaculatio precox di X, con ospite alla voce Marco Tagliola) e l’assalto all’arma bianca dei nostri Bologna Violenta/ Zeus! virato no-wave spastica versante Skin Graft (XXXXX), riflussi gastro-esofagei di storture post-Crom-Tech modulate su dimensioni horror (XXXXXX) e rutti no-wave-core, in una sarabanda che si dovrebbe dire nonsense ma che invece di senso è piena. Al punto da passare i confini musicali e materializzarsi in forme culinar-autoironiche nei live, in cui i Nostri affettano salumi e grigliano come se non ci fosse un domani. Ennesimo sberleffo, ennesimo pugno in faccia. Di sicuro la ciccia c’è. 7/10 Stefano Pifferi

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tutto fuorché un disco di un gruppo invecchiato. Però è innegabile che soltanto immaginare trenta anni di carriera, un po’ di spavento lo fa. Si può essere portati a pensare che magari ci si rammollisca, che si inizi a pensare a una specie di vecchiaia dorata e ripetitiva, che si conceda qualcosa di troppo all’aspetto commerciale. Tutto lecito ma anche tutto inutile, dato che si sta parlando dei Melvins: artisti che lasciano a bocca aperta ad ogni disco. Specie se, come in questo caso, il nuovo episodio è praticamente partorito da una formazione originaria che, fatto salvo qualche recupero di magazzino (vedi alla voce Mangled Demos From 1983) e certo materiale da completisti (le tracce sono apparse su vari vinili corti e limitati come l’EP 10” 1983 o il 7” Gaylord), non abbiamo mai ascoltato. Per l’occasione, infatti, i Melvins ritornano ad essere un trio, con un Mike Dillard a (ri)occupare il posto dietro le pelli che aveva ceduto nel lontano ’84 a Dale Crover. E ritornano pure a suonare quello che allora come oggi hanno sempre suonato: del crasso (e grasso), spettinato, sbruffone, autoironico e iconoclasta rock pesante. Acceso da quella lucida follia che nel corso degli anni è, se possibile, via via aumentata proporzionalmente alla consapevolezza del proprio essere unici, Tres Cabrones vive di brevi schegge – gli sketches alla Primus del nordest di Tie My Pecker To A Tree o l’insano acapella, che tiene fede al titolo, di 99 Bottles Of Beer – e di momenti più ampi ma non per questo meno schizzati. Così, tra panzer-rock declinato verso lidi swamp-metal (Dogs And Cattle Prods) - con tanto di chitarrina acustica che pare il campione rubato al Beck di Loser - e melmosi pantani electro-sludgey (I Told You I Was Crazy), i Melvins tornano sul luogo del delitto. Luogo che, si sarà capito, non hanno mai abbandonato. Lunga vita, come sempre. 7.2/10


Genere: pop, jazz Quattro fotografie e uno scatto allo specchio, realizzati non grazie a una reflex o chissà quale prodigio della tecnica, ma con l’aiuto di una penna, un quaderno pentagrammato, dieci dita pronte a scorrere sulla tastiera di un pianoforte… e una voce. È un breve susseguirsi di tableaux vivants, l’EP di debutto di Michèle Raffaele (canadese di Montréal ma di casa nel Nord Italia), che per un attimo riporta alla mente i gessetti colorati con cui Mary Poppins, nel celebre film, era capace di farci sentire in un mondo parallelo giocando con le sfumature, rimproverando i personaggi più goffi, incantandoci con la poesia del quotidiano. Primo assaggio di un’artista dalla formazione classica e con un buon approccio alla scrittura pop, Minor Offender non contiene miracoli ma canzoni oneste, dalla leggerezza a volte solo apparente. Che ci si trovi di fronte al pop-jazz irresistibilmente smorfioso di Lady Maybe - in cui la protagonista si tiene libera (rispondendo sempre “forse”) per giocare di volta in volta con chi riesce a sedurre – o al signor so-tuttoio di Superior, è chiaro che Michèle desidera mostrare i personaggi delle sue storie attraverso i propri occhi, con un’impronta ironica, non pedante, ma che lascia volutamente poco spazio a letture alternative. Anche l’accompagnamento allude alla loro tracotanza o frivolezza – uno stratagemma già ampiamente istituzionalizzato, tanto nella musica leggera (Cat Stevens), quanto nelle composizioni classiche (le Enigma Variations di Elgar) – e dà man forte a un’espressività vocale che può ricordare, a seconda dei momenti, la conterranea Sarah Slean o quella Beverley Craven, discepola diligente del maestro Jeff Lynne. Sono due i brani che lasciano il segno: toccante e quasi cinematografico, oltre che scritto ed

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eseguito dosando lo zucchero con parsimonia, il racconto di Remember Me Next Sunday nato dall’incontro tra Michèle e un giovane africano in una mensa per i poveri di Vicenza (anche in questo caso la musica aiuta a mettere a fuoco l’obiettivo e a inquadrare la scena, con il passaggio dalla foschia della strofa fino al raggio di sole in cui si spiega il ritornello); particolarmente ispirato l’omaggio alla città natale della cantautrice, Montréal… je reviendrai, unico brano scritto e cantato in lingua francese (si potrebbe continuare da qui la strada, visto l’ottimo risultato). Minor Offender non racconta una storia completa, ma si limita a lasciare una scia di indizi su come potrà essere un full length dell’artista – quali saranno gli strumenti invitati alla cerimonia? Quali altri personaggi conosceremo, se ne conosceremo? Quali nuove fragranze contamineranno le canzoni? – promettendo, intanto, solo di farsi ascoltare tutto d’un fiato. Non ci si stupisca se verrà voglia di premere nuovamente il tasto play. 6.5/10 Alessandro Liccardo

Mumpbeak - Mumpbeak (RareNoise,2013) Genere: prog, avant, jazz Nel recensire dischi come questo si rischia sempre di riservare più spazio al cursus honorum delle illustri figure coinvolte che all’album stesso, cercando magari garanzie sulla qualità del contenuto nella firma posta in calce. Vorremmo evitare questa fastidiosa tendenza – senza nulla togliere ai diretti interessati – esaurendo i preliminari con un semplice elenco, per poi occuparci specificatamente della musica: sono della partita Roy Powell (Naked Truth), Pat Mastellotto (King Crimson, Naked Truth), Tony Levin (Peter Gabriel), Shanir Ezra Blumenkranz (John Zorn), Bill Laswell e Lorenzo

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Michèle Raffaele - Minor Offender EP (Self Released,2013)


Fabrizio Zampighi

Nina Kraviz - Mr. Jones (Rekids,2013) Genere: techno, house, deep Ci eravamo lasciati appena un anno fa con l’omonimo LP d’esordio di Nina Kraviz, giovane e bella producer siberiana che con quattordici tracce aveva dato una bella lucidata alla deep, unendo sensualità e raffinati battiti senza dimenticare l’essenzialità del dancefloor più ragionato e meno intraprendente. Ci troviamo ora tra le mani Mr. Jones, nuovo EP registrato a Mosca che, a detta della stessa producer, tratta di una persona sempre alla ricerca della

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verità e che ha il coraggio di dire sempre quello che pensa. Coraggio che tuttavia la Nostra non è stata capace di trovare in questo quadro stanco, apatico e senza inventiva. È chiaro che la Kraviz gioca con la propria immagine riflessa, sensuale e decadente, e con quell’intrigante aria da femme fatale. Ritroviamo i lenti e felpati bpm con canto à la Miss Kittin dell’esordio (Desire, Mr. Jones), ma nulla di elegante e ricercato tra i battiti, nessuna costruzione, nemmeno in sottrazione. Identica situazione in Sheer e Black White, dove un inutile fischiettio prima e un atipico xilofono etnonatalizio poi, male si prestano al tocco morbido del soul. Nemmeno la collaborazione con il boss della label detroitiana DeepLabs, Luke Hess, riesce a risollevare le sorti (Remember) di un Mr. Jones che pare più un riempitivo in attesa di un nuovo album, che un lavoro dalla credibilità consolidata. 5/10 Daniele Rigoli

Oleg Poliakov - Random Is A Pattern (Circus Company,2013)

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Feliciati (Naked Truth). Il giro è in gran parte quello del roster RareNoise, etichetta che non a caso cura la pubblicazione del disco, in un ideale continuum che cita jazz, prog, avant senza soluzione di continuità. L’iniziativa parte da Powell, autore della maggior parte delle “strutture” dei brani (registrazioni implementate poi da ognuno degli altri musicisti), per “un suono molto più elastico e intriso di humor di quello espresso da vari gruppi di rock progressivo/math più irregimentati” (Laswell dixit). Un po’ perché il disco lavora su geometrie intricate, ampie e ai limiti dell’improvvisazione, un po’ perché il suono del Cavinet Hohner trattato di Powell è quanto di più amniotico e onirico si possa immaginare a queste latitudini. Le cose si fanno più interessanti quando le classiche coloriture progressive (Biscuit) lasciano il posto a un approccio filoambient/tribale (Nork) o magari a certe cadenze elettriche in bilico tra free e psichedelia (la conclusiva Piehole), allontanandosi così dagli stereotipi di genere. Una ragnatela di input disomogenea ma vincente coordinata da basso elettrico e percussioni che talvolta sfiora l’esercizio di stile, nonostante bagagli tecnici (o forse proprio per quelli) fuori dal comune. 6.6/10

Genere: techno, house, tech-house, deep Già conosciuto con il moniker di Scat, Oleg Poliakov arriva dopo una decina d’anni di carriera al tanto atteso full length. In passato l’uomo ha bazzicato su diverse etichette, tra cui la Bass Culture e la Eklo; oggi torna in casa Circus Company, una specie di certezza nel mondo tech-house. Il club, infatti, comprende nomi del calibro di Nicolas Jaar, Nôze, Seth Troxler e altri big del panorama internazionale. Le intenzioni del clubber di Rouen erano già chiare ai tempi del singolo C.A.V.O.K. (sempre su Circus Company e riproposto pure qui in scaletta, insieme al lato B Subterranean Rivers): ritmi ossessivi e nel contempo caldi, cose che ricordano la Roulée di protodaftpunkiana

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pop evoluto, la melodia accattivante ed enigmatica, i suoni studiati per destare meraviglia e sconcerto grazie ad accorti retaggi 80s e 00s, le ansie robotiche del passato catapultate in un ‘futuribile indistinto’ che diventa scenario di coreografie stilizzate, affascinanti. Ma il resto del programma di questo Arrows – opera seconda, a quattro anni dall’omonimo esordio – è nient’altro che fuffa. Una velleità dietro l’altra. Questa ventisettenne biondina vorrebbe convincerci di saper coniugare ricerca e orecchiabilità, ma non fa altro che decalcomania grossolana. Vedi l’estro Moroder un tanto al chilo di Disco Damaged Kid e Falling, oppure gli Human League col piano Coldplay a fuoco lento di Subsequently Lost, o ancora il tentativo di abbozzare atmosfera Sigur Rós via Peter Gabriel di Machines: un po’ come azzardare affreschi con gli uniposca. Il tutto cantato come da prassi radiofonica, innocua e senza slanci. Meglio sarebbe stato ammainare la bandierina avant, spacciarsi – chessò – per una nipotina zuccherosa di Cindy Lauper irretita dagli A-ha (Colours Colliding), invece di professare una stanca eleganza (Silver Lining) che ottiene solo di farci rimpiangere la franchezza pop di una Kim Wilde. Bah. E pensare che qualcuno è arrivato a definirla “la Kate Bush del ventunesimo secolo”. Bah e ancora bah. 4.5/10

Marco Braggion

Stefano Solventi

Polly Scattergood - Arrows (Mute,2013) Genere: pop Senti (e vedi) il singolo Wanderlust e ti viene da pensare che questa ragazza si sia messa in testa di proseguire nel solco lasciato deserto da Goldfrapp, ammesso che la cara Alison abbia mai avuto consapevolezza di dove volesse arrivare e come farlo. Comunque, c’è questa idea di

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Polvo - Siberia (Merge,2013) Genere: indie La reunion dei Polvo è tra quelle rimaste più “in sordina” degli ultimi tempi. Eppure il gruppo di Chapel Hill è stato davvero particolare, quasi unico negli anni ’90. Usando le lezioni di Sonic Youth e Dinosaur Jr come testata d’angolo, la band di Ash Bowie e Dave Brylaski aveva creato prima una delle formule più

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memoria, lunghe ripetizioni da club con stile francese, riempipista e potenziali sottofondi da cocktail squadrato-mittel. Random Is A Pattern aggiunge alla tecnica da pista anche l’architettura di ampio respiro che dovrebbe configurare la costruzione di qualsiasi full length di rispetto. E allora ecco l’intro con tagli hip-hop, una Beyond in crescendo deep che ricorda la Inner/Motor City di Kevin Saunderson, Amanite che riscopre minimalismi à la Richie Hawtin tagliati con echi postambient sempre in odore detroitiano, esplorati meglio in ambienti acquatico-drexciyani in A Quiet Storm, estesi a meditazioni pseudo-ambient-nippo in Ethereal Thoughts. La seconda parte ripropone i già citati episodi meno rischiosi e più da cocktail, aggiungendo chicche tribal-tech (Anatomy of Shipwreck) e addirittura post-blues di raffinata seduzione UK Bass (Lies). Che sia finalmente nata una nuova stella? A noi sembra proprio di sì. Non tanto per la qualità della produzione, che ovviamente è alta, bensì per un senso di varietà nella scelta delle soluzioni ritmico-stilistiche raro nelle iperspecializzazioni contemporanee. Viene da accostarlo alla lungimiranza di uno Stott o di un Villalobos (ovviamente su altri lidi), e perché no, magari anche a quella dei mai dimenticati Motorbass. Una graditissima sorpresa. 7.3/10


Tommaso Iannini

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Radical Face - The Family Tree: The Branches (Nettwerk Music Group,2013) Genere: pop, indie, folk I rami (the branches) che l’opera accurata e filologica di Radical Face (all’anagrafe Ben Cooper) sta tramando sul bellissimo tessuto di The Family Tree, si ritrovano, episodio dopo episodio, più empatici che mai. È doveroso ammettere, ben prima di dare indicazioni tecniche di alcun tipo, che il songwriter di Jacksonville colpisce in profondità, smuove frammenti impercettibili di anima, di memoria, che si riflettono facilmente nei nostri vissuti, come un detonatore dolcissimo e raffinato di nostalgia. Dopo aver assestato per bene le radici (the roots) della fittizia famiglia Northcotes – in un lavoro di ricostruzione storica degna dei migliori studiosi che ha usato solo strumenti dell’epoca (gli ultimi decenni dell’Ottocento) – e aver consegnato melodie destinate a divenire tema (nel senso musicale del termine) nei due episodi successivi della trilogia, Radical Face continua questo viaggio nella sua storia, che è un po’ quella di tutti noi. Di fatto, in The Branches, lascia invariato il sound folk, che tanta soddisfazione ha dato all’artista fin dai tempi di Welcome Home (che nel frattempo è passata, in un anno, dalle sette alle sedici milioni di visualizzazioni sul tubo). L’atmosfera è sempre quella della residenza familiare, immersa in ettari di verde, che già s’appresta a farsi dei colori dell’autunno che avanza. Il tempo della fabula però è cambiato: siamo agli inizi del Novecento e Cooper, da bravo filologo, tenta di sfruttare gli strumenti e gli elementi effettivamente disponibili anche in quegli anni. Non è certo cosa da poco, ma l’attenzione e la cura quasi maniacale di Cooper è tanta da non far declinare il tutto in un gioco manieristico. Ci sono le ballate instant classic come la Holy Branches che apre la saga familiare (“But

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progressive e aperte di noise rock – una musica che non disdegnava le melodie, a dispetto di una struttura di base sviluppata su intrecci di accordi dissonanti, timbri acidi e ritmiche contorte – e poi, in lavori come Exploded Drawing, aveva raffinato ulteriormente la scrittura e gli arrangiamenti, per giungere a una sorta di compromesso, una personale “terza via” tra il post-rock e la canzone. È questo l’anello di congiunzione che porta alla nuova Total Immersion, un esempio illuminante di power pop progressivo. La parte strumentale – di un’esuberanza debordante già nel riffone iniziale – e la melodia vocale sembrano richiamarsi seguendo un tortuoso contrappunto, più del classico schema verticale, dimostrando ancora una volta originalità nelle armonie. I brani più interessanti di Siberia, secondo disco dopo la reunion del 2009, sono come da pronostico i più lunghi e complessi: Blues Is Loss, aperta da una progressione incrociata di chitarre detuned (i bending a metà tra il tremolo e la scordatura sono un marchio di fabbrica) e chiusa da un finale hard rock a tinte lisergiche; The Water Weel, che suona come una versione meravigliosamente sbilenca “alla Polvo” di un (ipotetico) folk–rock elettrico à la R.E.M.; la conclusiva Anchoress, che ancora riduce (per rimarcare) le distanze tra Chapel Hill e Athens. Pezzi in cui i Polvo dimostrano la raffinatezza e, cosa meno scontata, l’immutata freschezza della loro proposta. Per il resto ci si deve accontentare di brani più normali, pure con qualche buono spunto: Light, Raking, dove fanno capolino felicemente i synth, e l’acustica Old Maps, dai sapori d’Oriente. E ci si accontenta bene. I Polvo hanno lasciato un po’ di velleità nell’altra vita, eppure fa piacere sentirli ancora vivi. 7.2/10

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songwriting. Una svolta che ci ha regalato una pulsante vena creativa fatta di storie, ma anche di uno stile immediatamente riconoscibile che è riuscito a non adagiarsi sui successi di classifica. 7/10 Nino Ciglio

Riccardo Zezza Pardini - Il cranio d’oro (LM European Music,2013) Genere: rock, blues Riccardo Zezza Pardini (in passato collaborazioni con Alessandro Benvenuti) è forse quello che sarebbe stato Alex Britti se, invece di buttarsi sul pop ad ampio spettro, avesse continuato a lavorare ai fianchi blues e funk. Il suo disco d’esordio Il cranio d’oro è un concentrato di fraseggi hendrixiani ripuliti per l’ascoltatore medio e “funketudine” sincopata, ammiccamenti Red Hot Chili Peppers e qualche esotismo sparso (il reggae elettrico di Jimi). OK, siamo lontani da qualsiasi forma di sperimentazione, eppure il trio basso/batteria/ chitarra (ad affiancare Pardini, ci sono Matteo De Luca e Leandro Bartorelli) ha dalla sua un groove niente male e certi “sleghi” tesissimi sulla sei corde in bilico tra peculiare crossover (Ho paura di affogare nel mare) e hard-blues (la title-track). La voce del padrone di casa, ipotetica via di mezzo tra Zakk Wylde e Layne Staley degli Alice in Chains, è solo l’ultimo dettaglio di un disco volutamente lontano da qualsiasi contemporaneità e cristallizzato in un’epoca di guitar heroes che potremmo tranquillamente posizionare a metà anni Novanta. La conseguenza diretta, in questi casi, è solitamente il doversi sorbire nostalgie con poche ragioni d’essere, e invece il Pardini riesce inspiegabilmente a suonare credibile e ironico. Il che non significa che Il cranio d’oro sia un disco destinato a cambiare la storia della musica, ma solo che gli

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everybody’s bones are just holy branches/Cast from trees to cut patterns into the world”) o Summer Skeletons, corale, ritmata a dovere e, soprattutto – con il suo violino – vicina alla tradizione irish; c’è qualche dark ballad (delle influenze di Nick Cave già parlammo) come The Crooked Kind o Southern Snow; c’è lo squillo della guerra (la prima mondiale) in Letters Home, che racconta dell’ultima lettera che un soldato scrive alla sua amata prima di venir ucciso; ci sono le storie arpeggiate e lancinanti come quella di The Mute, il bambino ripudiato dal padre perché muto e scappato a cercar fortuna altrove; ci sono, infine, le novità, con una The Gilded Hand assai diversa dal lavoro di Cooper svolto fino ad ora: cupa, biascicata, vicina alle ultime esperienze dei The National, la canzone termina con un infinita e inaspettata coda orchestrale. Solitario al timone del suo progetto, Cooper sta dietro a tutto, cercando in particolare di gestire la trama del suo racconto con melodie azzeccate. Se gli arpeggi di chitarra o le risalite sul banjo, sono ormai diventati tratto stilistico, sono gli accordi prolungati di pianoforte che generano profondità (e malinconia) nei brani, quasi a volersi fare sottotitoli delle vicende narrate. Sarà un caso, ma un altro grande cantastorie conta, nella propria discografia, un album dal titolo Family Tree: si tratta di Nick Drake, musicista che conserva diverse analogie con lo stile di Radical Face. Non ultima, quella di riuscire a parlare di famiglia e di farlo, non tanto grazie ai testi, quanto grazie alla musica. Difficile non immaginarsi su strade perdute, in gite fuori porta con i propri cari, alla ricerca di un tempo, di uno spazio, di un mondo che forse la nostra vita frenetica ha cancellato per sempre. C’è solo da rendere grazie, dunque, al momento in cui l’hard disk che conteneva i due romanzi di Ben Cooper è esploso convincendo l’artista a convertirsi dall’attività di romanziere al


undici brani in scaletta filano via senza troppi intoppi e con una certa soddisfazione per chi ascolta. Del resto, se i Negrita hanno sbancato con un singolo come Mama Maè, anche Pardini meriterebbe il suo quarto d’ora di celebrità sui principali network popolari, magari con la sudatissima e intrigante Black Guitar. 6.2/10 Fabrizio Zampighi

Genere: rock, stoner I Rubbish Factory definiscono The Sun esordio in studio pubblicato il 29 novembre 2013 – come “ il primo album in assoluto a essere stato scovato in una fabbrica di spazzatura”, e già per questo ci stanno simpatici. Una descrizione evocativa che porterebbe a scomodare, essendo fantasiosi, le atmosfere postindustriali e art-rock/post-punk di Pere Ubu o Devo. E invece no: qui si parla di puro stoner (post?) moderno, e l’immagine più azzeccata è quella di un deserto di Cadillac abbandonate sotto il sole cocente al confine tra Stati Uniti e Messico. Eppure il periodo di formazione di questo duo romano (Marco Pellegrino, voce e batteria / Gabriele Di Pofi, voce e chitarra) affonda le sue radici in quella che fu una cover band dei Radiohead, sciolta per dare alla luce questo progetto dai toni decisamente più aggressivi. Un’evoluzione al contrario insomma, per il gusto di rompere certi schemi. Il primo estratto è anche la traccia introduttiva, Bamsa, un brano che non a caso riassume fedelmente il contenuto concettuale e sonoro dell’intero album. Il lancio del singolo/video, lo scorso 7 Novembre, è stato curato almeno quanto le barbe dei suoi creatori: artwork impeccabile e vagamente pop che riprende l’immagine di copertina del disco, cassonetti della spazzatura e TV vintage che si alternano in un

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Rubbish Factory - The Sun (Modern Life,2013)

vortice psichedelico così accattivante, da distrarre quasi dall’ascolto del brano, che ad una prima impressone fa muovere tanto la testa ma non convince del tutto. Nel complesso, si tratta sicuramente di un buon album che, sia chiaro, non aggiunge nulla di nuovo a un genere cristallizzato da anni. Le chitarre sono decisamente il punto forte di un duo cresciuto a birra e Desert Sessions: piene e distorte, pura scuola Kyuss. Undici tracce che fanno viaggiare a ritroso nella discografia di qualsiasi amante del genere, citando più o meno tutti i nomi degni di nota, dai Black Sabbath agli MC5, passando per Blue Cheer, Fu Manchu (decisamente) e toccando tutta la scena di Palm Desert, senza dimenticare qualche eco degli australiani Jet e il buon Josh Homme con i suoi QOTSA. Il cantato, inaspettatamente “pulito” e a tratti fastidiosamente “corale”, si sposa bene con brani che giocano sugli opposti rumore/pausa/melodia (come le ben riuscite Stand up. Sit down e Dance El Washington, in cui la somiglianza con il timbro di Homme lascia quasi sconcertati), ma lascia nell’ascoltatore l’intimo desiderio di un urlo primordiale, sporco e liberatorio che (purtroppo) non arriva mai. La band ha comunque ancora tempo per continuare a crescere, distorcere, modificare, riciclare. Non resta dunque che vederla live, e aspettare che parta Dance With Silence In An Old Ghost Movie per pogare come se non ci fosse un domani. 6.6/10 Alessia Zinnari

Russian Circles - Memorial (Sargent House,2013) Genere: post-rock, sludge Memorial è il quinto lavoro dei Russian Circles, band di Chicago dedita ad un post metal sostanzialmente invariato dall’esordio targato

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imprevisto alle proprie composizioni a volte sconfina nell’eccesso, compromettendo in parte quanto di buono c’è in forno. Difficile isolare episodi singoli, in un disco concepito come un flusso di coscienza unitario. Diremo solo che in un attacco come quello dell’opener Reinassance! si ha per un’attimo l’impressione di essere all’ascolto di un incrocio tra Cherry Ghost e Meat Loaf. Per fortuna non è così, ma il solo fatto che il pensiero possa andare in quella direzione sottolinea come la linea dell’eccesso sia poco, veramente poco, al di là dall’essere scavalcata. La varietà di situazioni e soluzioni messe in campo testimoniano sicuramente il talento di Ellis Ludwig-Leone, con un’ambizione fortissima che non diventa molesta, ma che ha bisogno di un giro di ghiera dell’obiettivo per andare davvero a fuoco. 6.5/10

Stefano Gaz

Marco Boscolo

San Fermin - San Fermin (Downtown,2013)

Sepiatone - Echoes On (Interbang Records,2013)

Genere: pop, folk Ellis Ludwig-Leone ha studiato composizione e musica a Yale, e vuole farlo sentire forte e chiaro. Il suo disco di esordio – che porta lo stesso nom de plume che si è scelto – San Fermin, lo conferma in ogni dove, con arrangiamenti complessi che chiamano in causa il pop orchestrale dei Sixties altezza Scott Walker, ma tende di più ad assomigliare a certe prove non sempre a fuoco dell’ultimo Sufjan Stevens. Certo, il ragazzo ha solo 22 anni e le 17 canzoni sono state scritte nel lasso di sei settimane mentre era intento a coltivare lo spleen tra British Columbia e Alberta. Il coté da cui esce San Fermin è la stessa Brooklyn di Grizzly Bear, Dirty Projector (richiamati più volte nel disco) e dello stesso Stevens, un humus nel quale l’arditezza sempre più spinta, il tentativo di dare sempre un scarto

Genere: pop, indie, folk Il legame artistico tra Hugo Race e Marta Collica sotto il moniker Sepiatone, è sempre stato qualcosa di difficilmente etichettabile. Una sorta di convivenza tra opposti, con lui afflitto da quel blues sussurrato e oscuro che tutti conosciamo (deformato a dovere grazie alla militanza nei Bad Seeds di Nick Cave negli anni Ottanta e da una girandola di contatti in giro per il mondo, in primis con John Parish, The Wreckery, Micevice e Cesare Basile) e lei impalpabile (in senso positivo), compita ed eterea, almeno quanto la sua produzione solista. Binomio già particolare di suo, reso ancor più “confuso” da un immaginario sonoro legato al marchio che pesca a piene mani da universi agli antipodi, siano essi il trip hop, le colonne sonore d’antan, certe influenze esotiche, il suddetto blues, il folk o un songwriting minimale e in controluce. Una varietà di stimoli figlia anche del nomadismo

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2006. Dunque sono ragazzi arrivati leggermente in ritardo sul pezzo, il cui apporto alla rivitalizzazione del genere è pressoché nullo. Detto questo Memorial rimane un disco godibile per i fan e gli appassionati. Mescola con successo le melodie degli Explosions in the Sky con gli Isis, punta senza mezzi termini al cuore con il bilancino in equilibrio tra cupezza heavy e melodie trasognate, ed ha una durata ragionevole. E’ materiale di buon livello, materiale che ha fatto parlare molto di sé anche grazie all’intrusione di una Chelsea Wolfe (ormai primadonna in casa Sargent House) che ha prestato la voce per il featuring finale di Memorial, brano che non concede particolari scossoni e pare perfetto come operazione di marketing. In definitiva, e per l’ennesima volta, i Russian Circles timbrano il cartellino. 6/10


Fabrizio Zampighi

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Sky Ferreira - Night Time, My Time (Capitol,2013) Genere: pop, mainstream Modella, attrice, cantante, da tempo assidua frequentatrice delle colonne di gossip e portatrice (sana?) di provocante fascino, eppure non venderà quanto la meno chiacchierata Lorde: Sky Ferreira, dai primissimi singoli in zona teen-synthpop fino alla love story da drama americano/KurtandCourtney 2.0 con Zachary Cole Smith (DIIV), ha fatto di tutto per essere al centro dell’attenzione mediatica ma, come ha dimostrato Charli XCX, il tumblr-pop per il momento non è ancora pronto per i grandi numeri. Nata a Los Angeles e attualmente stanziata a Brooklyn, la precoce ventunenne ha dovuto faticare parecchio per dare alla luce un più volte rimandato album di debutto (intitolato Night Time, My Time) che sulla carta aveva un unico grande compito: quello di dimostrare che un brano per certi versi clamoroso come Everything Is Embarrassing (contenuto nell’EP Ghost e qui escluso dalla tracklist) non fosse il classico colpo di fortuna – peraltro attribuibile in buona parte a Dev Hynes/Blood Orange – all’interno di una discografia, fino a questo momento, piuttosto mediocre. Il più grande limite di Sky, che era da ricercarsi nella tendenza a nascondere il proprio talento dietro al timbro impostole dall’autore o dal produttore di turno (si prenda la 100% Garbage-style Red Lips, scritta non a caso da Shirley Manson), in Night Time, My Time sembra completamente superato: scritto praticamente a quattro mani con Justin Raisen, con l’aiuto di Ariel Rechtshaid, l’album dona finalmente all’operato di Sky Ferreira una luce tutta sua. E’ un gioco continuo tra synth-pop ed electropoprock anni ’90 (Boys), con chitarre elettriche filtrate quasi di stampo Sleigh Bells non di rado protagoniste di retromanie eighties

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biografico di entrambi i musicisti e piacevolmente indecisa, in quel latitare tra sogno e realtà che la caratterizza da sempre. Più che un semplice rovistare tra i vinili, comunque, il progetto Sepiatone ci è sempre sembrato una questione di cauti equilibrismi, un puzzle paziente e volenteroso, certificato da dischi come In Sepiatone (2001) e Darksummer (2004). Echoes On di quel puzzle è l’ultimo tassello, o per usare le parole dei diretti interessati, “is the last album of the Sepiatone trilogy, and the mark of a collaboration finally coming into its own”. E probabilmente è davvero così, nel senso che col terzo disco si fanno i conti con un percorso sospeso “tra sogno e disperazione”, grazie a undici tracce capaci di spaziare tra piani temporali e stili differenti senza minare l’organicità di fondo. Quella che permette al duo (che proprio duo non è, vista la partecipazione alle registrazioni di Giovanni Ferrario, Davide Mahony, Marco Franzoni e Giorgia Poli) di “sporcarsi” con certe architetture classiche à la Barry White per sfociare in una psichedelia morbida (Conflicted) come di giocare con ritmiche caraibiche cavandone fuori un blues (La Fuga), cedere a una concretezza basale in stile Velvet Underground (Never Been Away) o fluttuare su crescendo ambientali (Air Berlin). Anche se poi il brano più eloquente di tutto il pacchetto finisce per essere l’ipotesi di trip-hop rappresentata da Cold and Blue, col suo intimismo in spoken word mutevole, onirico, aritmico, ma al tempo stesso così aderente al mood del gruppo. Al di là del solito gioco delle somiglianze, comunque, i Sepiatone si confermano per quello che sono sempre stati: un’esperienza totalizzante, più che una semplice band. Una di quelle dal portato emotivo intenso, atipico e lontano dalle mode stagionali. 7.1/10

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Riccardo Zagaglia

Soviet Soviet - Fate (Felte,2013) Genere: indie, wave, post-punk I Soviet Soviet sono un gruppo che ha fatto tanta gavetta, ma soprattutto l’ha fatta di lusso. Innanzitutto perché i Nostri fanno parte di quella schiera di artisti che i circuiti mainstream (o pseudo-alternativi) fanno fatica a riconoscere, generando come ideale conseguenza una migrazione che li ha portati in giro per l’Europa. E, guarda caso, soprattutto nell’Est, dove il loro nome (e che nome evocativo per quegli Stati!) ha cominciato a girare parecchio. L’ha

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fatto grazie ai tantissimi concerti con gli A Place To Bury Strangers, ad esempio, con i quali il trio pesarese condivide una certa attitudine disordinata, post-punk. Prima di Fate (ufficialmente, l’album d’esordio), dunque, i Soviet Soviet avevano creato un terreno fertile con tanti show, rimarcando l’importanza effettiva del live nel loro sound. D’altronde ci eravamo accorti già ai tempi di Summer, Jesus che le loro caratteristiche revivalistiche e nostalgiche (di quel sound infinito che può generare l’ascolto ossessivo di Joy Division e successivi) vibravano di interferenze positive, con le quali i “sovietici” non si ponevano problemi di sorta a sacrificare i loro idoli e a contaminarli, digerirli e rielaborarli nella maniera che gli era più congeniale. Se ne era accorta la stampa internazionale, con uscite su giornali di primo piano come The Fader e Stereogum e, soprattutto, qualcosa aveva fatto scattare la scintilla con l’apertura delle due date italiane dei P.i.L., evento che li ha, definitivamente e per quanto possibile, consacrati. Fate, d’altra parte, si presenta come un album omogeneo, che non tradisce le aspettative che il trio ha seminato in questi anni. Profondamente rosso ed esistenziale, giocato su riff di basso spiccatamente new wave (alla Peter Hook, se dobbiamo fare un nome), sui quattro quarti in sedicesimi suonati da una batteria impazzita, su riverberi intimi di chitarra distorta diventati ormai cifra stilistica nella scena pesarese (pensate a Be Forest o Brothers In Law). Nebuloso ed oscuro, Fate è anche un disco a cui piace giocare con le melodie. Il rischio – e l’avevamo notato già in sede di live – è quello di sprigionare la catena di referenze in stile Placebo e tutte quelle più post-post che post (punk), anche se brani come la melodicissima Gone Fast calibrano bene dream e post-rock, quasi a volersi proclamare più debitori di Jesus and Mary Chain e Cure, che altro.

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(You’re Not The One) figlie, da un lato, di un ipotetico abbraccio newyorkese tra Madonna e Debbie Harry e dall’altro di una folata tra le permanenti di Pat Benatar, Belinda Carlisle e Kim Wilde. Le metriche rock-wave (I Will) fungono anche da collante tra inaspettati sprazzi di illuminata creatività: l’accoppiata ossessiva e per certi versi acida composta da Omanko (nata per gioco al motto “facciamo un pezzo alla Suicide“) e dalla bass-driven Kristine e soprattutto la conclusiva, oscura, parentesi haunting-pop della title-track. Quest’ultima intensa, melodicamente evocativa e aperta da un passaggio ad’effetto (“I’m useless and I know it“). Nonostante alcune evitabili concessioni al dollaro facile – una Heavy Metal Heart in zona Katy Perry, il pop-rock innocuo di 24 Hours e il chorus di Nobody Asked Me (If I Was Ok) – e un paio di tracce più anonime (Love In Stereo, I Blame Myself ), Night Time, My Time rende credibile il contrasto tra l’immagine da dannata e l’attitude smaccatamente pop della proposta musicale. Se non si perderà per strada troppo presto, la Ferreira potrebbe avere davanti a sé una carriera dai risvolti imprevedibili e proprio per questo interessanti. 6.5/10


Nino Ciglio

Steve Hauschildt - S/H (Editions Mego,2013) Genere: kraut Plausibile che, dopo l’implosione degli Emeralds, gli ex componenti del gruppo intraprendessero vie soliste. Dopotutto, le avventure in solo dei tre erano state interessanti valvole di sfogo anche prima del dissolvimento di una delle più

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significative esperienze del panorama postnoise/avant-kosmische/ecc.ecc. Nello specifico, questo S/H segna una specie di punto e a capo per Hauschildt, visto che dopo un paio di rilevanti uscite in full-length per Kranky (ottimo l’Tragedy and Geometry del 2011), il Nostro colleziona una serie di tracce sparse tra varie pubblicazioni carbonare susseguitesi nel corso degli anni e un bel po’ di materiale inedito lasciato riposare negli archivi personali, alla maniera del simile A Young Person’s Guide To dell’ex collega McGuire. È proprio la chiave cronologica, fornita dallo stesso autore con la compilazione di due CD suddivisi temporalmente, a regolare il tutto: il periodo più recente nel primo disco (20102012) con tracce completamente unreleased; il materiale più datato nel secondo (2005-2009) suddiviso equamente tra inediti, riesumazioni e ri-registrazioni da CD-R e cassette ovviamente irreperibili. Non che cambi molto a livello di materia trattata: lunghe e ondivaghe composizioni sul crinale di una nuova new age dai risvolti cosmici, lande da ambient sulfurea, droning fluttuante al limite dell’etereo e krautismi spacey vari e assortiti. Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, se non che Hauschildt dimostra buona consapevolezza e notevole classe nel creare tessiture sonore affascinanti e coinvolgenti, da ascolto ripetuto in cuffia e – perché no? – ottime come soundtrack anche per ambientazioni post-urbane. In definitiva, un buon viatico per i neofiti e un altrettanto valido compendio per gli appassionati, vista la difficoltà nel reperire i (pochi a dir la verità) materiali già editi. 6.8/10 Stefano Pifferi

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Il resto, come detto, lo fa un’ottima produzione, una vena ispirata, immediata, urgente, come solo il punk sa essere. La voce di Andrea, prepotentemente nasale, è lo squillo che richiama Bowie, imitato a dovere da Peter Murphy dei Bauhaus. Ed è in quella zona gelida, claustrofobica, dark, che si vanno a sistemare i brani più interessanti: a partire dal singolo 1990, con la chitarra tirata, gli ottavi raddoppiati, il basso prorompente; passando per Introspective Trip, evidentemente fulminato a dovere dalla lezione dei Crocodiles (come Together, d’altronde) e, soprattutto, dalla messa a lucido di Further, summa stilistica del percorso intrapreso dai tre, con il muro ritmico che quasi sfocia nel noise e la chitarra che si mimetizza nell’impasto del brano. Grande responsabilità, infine, per No Lesson, che – se è vero che ricorda il lato buono della band di Brian Molko – contiene al suo interno un’ampia fase riflessiva, uno di quei silenzi che non capitano spesso nel disco e che, in crescendo, riporta tutto al fade out sognante. Avranno perso forse un po’ della crudezza, della rozzezza tipica di tre ragazzacci con pochi mezzi, che vogliono fare un po’ di casino, ma Fate parla chiaro: si può essere maturi, senza perdere la voglia di infiammarsi. Per il resto, si consiglia di dare uno sguardo alle date dell’imminente tour; i live a Brooklyn e Los Angeles non mentono: l’Italia è ben rappresentata. 7.2/10


Genere: cantautori Dieci anni trascorsi in Italia, dieci anni dal disco d’esordio. Terje Nordgarden festeggia la ricorrenza omaggiando il paese che l’ha adottato (prima a Bologna, poi a Firenze, poi ad Aci Trezza) con un disco di cover cantate in italiano. Brani che arrivano direttamente dal canzoniere (più o meno) indipendente del nostro Paese, riletti dall’artista norvegese grazie al folk-blues che da sempre lo contraddistingue. L’operazione è rischiosa, per le difficoltà nell’adattare un cantato tagliato sull’inglese a una lingua dalla struttura completamente diversa, ma anche perché parliamo di episodi fortemente legati allo stile di chi li ha scritti, oltre che parte integrante di un immaginario collettivo consolidato. In questo senso, Nordgarden compie un atto sovversivo: spesso sveste i brani di tutti gli orpelli, raschia le sovrastrutture, affidandosi a un minimalismo chitarra/pianoforte/batteria (talvolta non all’unisono) che mette in primo piano proprio la voce e le sue cadenze anomale. Non solo: in qualche frangente il musicista arriva addirittura a stravolgere i canoni delle versioni originali, aiutato in sede di produzione artistica dalla firma preziosa di Cesare Basile. Il risultato è un bel salto nel vuoto, con l’adrenalina della “scoperta” a suggellare un disco comunque riuscito. Se alcune versioni non girano a dovere, come ad esempio una La mia rivoluzione più dispersiva e convenzionale rispetto all’originale (ma Marco Parente era forse il cliente più difficile tra tutti, considerate anche le differenze stilistiche tra la sua poetica e quella di Nordgarden), altre valorizzano in pieno le scelte fatte: è il caso di una Non è la California di Iacampo rallentata e decisamente blues, di una Invisibile di Cristina Donà pianoforte-voce, intima, e quasi meglio dell’o-

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riginale, o magari di una Cerchi nell’acqua di Paolo Benvegnù più sul versante folk/elettrico. Per un Cesare Basile de La canzone dei cani assorbito da certe mezze luci da frontiera peninsulare e una Miele di Paolo Mei che si accuccia su cadenze King Of Convenience, c’e poi una L’abbandono di Marta sui tubi abbastanza vicina all’originale, la Grazia Di Michele di Dove mi perdo che diventa un rock acido e una L’invasore di Andrea Franchi ruvida e scostante. Ci pare tuttavia che lo zenit del disco, in termini di intensità ma anche di coraggio espressivo, sia La realtà non esiste di Claudio Rocchi. Nella rilettura che ne fa Nordgarden il brano rinuncia al pianoforte, lasciando a un tappeto di psichedelia disturbata il compito di esaltare l’impeto del cantato. Il risultato è una parentesi di pura poesia capace di valorizzare il disco anche oltre i suoi meriti effettivi, ricordo splendido di un artista mai troppo celebrato. 7.1/10 Fabrizio Zampighi

The Blow - The Blow (Kanine,2013) Genere: art, synthpop Khaela e Melissa sono innamorate. Il progetto Blow, che dal 2007 le vede coinvolte insieme, è una sorta di patto d’amore, di generatore automatico di ironia appassionata in salsa electropop e lo-fi. Khaela, da Portland, Oregon, ex Microphones, portava le sue idee laterali in giro con l’amica Jona Bechtolt, aka Yacht, dal 2004, fino a quando l’artista di Shangri-La, per ragioni legate al sovraffollamento di progetti, ha ceduto lo scettro a Melissa Dyne. L’album omonimo, dunque, è una sorta di cambiamento di rotta, non solo perché è il primo senza la collaborazione preziosa di Yacht, ma, soprattutto, perché vede le due musiciste coinvolte su più fronti. E, certamente, la sfida vale la posta in palio, quella cioè di superare la popolarità

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Nordgarden - Dieci (GD Nord Records,2013)


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è venuto fuori che non avevo mai visto questa roba /…/ Cercavamo l’amore ma avremmo dovuto solo farlo accadere” recita Make It Up. E continua in questo stile l’ottovolante emozionale di Blow, concepito povero di musica, ma terribilmente olografico. E la timidezza di Khaela – che è difficile da non notare sotto i beat epatici di qualche brano veramente ben riuscito – diventa, per l’occasione, una qualità imprescindibile del disco: l’afro-jazz di I Tell Myself Everything, Hey (la cui interiezione del titolo sottolinea di nuovo la bipolarità rabbia/ impassibilità) quasi ricorda qualche pattern di Joni Mitchell, la pessimista Not Dead Yet sembra citare i Depeche Mode di Home. Fosse stato un esordio, il voto sarebbe stato diverso. Ma, se da più di dieci anni manca un disco (questo è il sesto fra eppì ed elleppì) completo e commestibile anche per i palati più sofisticati, un problema ci sarà. E il cambio di formazione – sebbene diverta leggerlo in chiave romantica – non aiuta di certo. Per una volta, potremmo fingere di trovarci davanti a una band vergine, che deve solo inquadrarsi meglio per poter entrare nei giradischi di tutti. 6.5/10

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guadagnata dal duo ai tempi del bel Paper Television (2007). Il cambio di line up e la svolta esistenziale, più che estetica, dei Blow, dunque, producono una serie di controindicazioni (chiamiamoli pure cambiamenti) inevitabili. Non ultima, il sacrificio di una certa profondità negli arrangiamenti, con susseguente perdita di beat e profondità, elementi che rendono solitamente l’electro-pop un genere dignitosissimo. Intendiamoci, l’indole scherzosa (e spesso molto sentimentale) era ben presente anche nei lavori in collaborazione con Yacht, ma qui pare prendere decisamente il sopravvento, lasciando da parte quella vena un po’ graffiata, meno melodica e Metric oriented, che aveva caratterizzato, ad esempio, Paper Television. L’amore rende ciechi, ma non sordi. Già perché, nonostante le inevitabili virate e l’assenza di qualche sofisticheria in più, The Blow è un disco fortunato. Lo è perché – e magari non ne sono consapevoli neanche le titolari del progetto – il minimalismo della forma, i silenzi, l’enorme spazio lasciato ai testi (e alle voci) diventano un’arma vincente, collocando il disco nei pressi di qualche recente (e fortunata) uscita 4AD (se non Grimes, sicuramente tUnEyArDs). Khaesla Maricich concepisce, dunque, dieci episodi d’aforismi e ironia, dove le stesse basi musicali (e Like Girls ne è un esempio lampante) fungono da deterrente kitsch (che poi non l’abbiamo mai capito qual è veramente il confine col trash…) e malizioso. Tema dominante, manco a dirlo, è il gender study, molto meno serioso di quello da biblioteca, ma comunque interessante. “Vuole parlarti perché sei una ragazza / e a lui piacciono le ragazze / a noi tutti piacciono le ragazze” si canta in Like Girls, ma anche le derivazioni più introspettive che aprono il disco e sanciscono il tema erotico (in senso etimologico) non sono da meno: “Pensavo a cosa fosse l’amore/ ma

Nino Ciglio

Flaming Lips - Peace Sword EP (Self Released,2013) Genere: rock, psych, noise La relativa compostezza di The Terror indicava forse un cambio di rotta più profondo di quanto potessimo immaginare. Certo, occorre considerare la natura di questo Peace Sword EP, sei tracce di cui una confezionata appositamente per la OST del film sci-fi Ender’s Game e le altre cinque ad esso ispirate. Ma è abbastanza chiaro che la proverbiale calligrafia di eccessi immaginifici sembra aver ceduto il passo ad un tenore più morigerato, quasi un voler raccogliere i frutti di quell’esperienza

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The Provincials - Provolone Records (Disco Futurissimo,2013) Genere: hardcore, lo-fi, noise, garagerock Lui si chiama Rosario Memoli, loro sono i The Wild Week-End. Il primo è batterista dei secondi, gloriosa band punk rock salernitana. Ma c’è una storia che precede questa storia, una vicenda che vide Rosario protagonista nei primi anni del nuovo millennio. Spinto dalla vena garage-psych-surf-hardcore, il Nostro imbracciò chitarre e vari ammennicoli più o meno improvvisati, scese a patti con una bassa fedeltà ai limiti della scelleratezza e sfornò pezzi su pezzi, che – dato l’estro furibondo ed entusiasta – portò in giro sui palcoscenici disponibili dello stivale. Mise su un gruppo che chiamò Provolone Records, un nome che non sembrava propriamente destinato a fare la storia del rock. Ma le canzoni, quelle, funzionavano. Funzionavano così bene che oggi, una decade dopo, la benemerita Disco Futurissimo decide di immortalarne undici su supporto fonografico, intitolato appunto Provolone Records, mentre il combo nel frattempo ha saggiamente deciso di cambiare ragione sociale in The Provincials. Si faccia attenzione: pare non trattarsi di nuove incisioni ma proprio dei pezzi originali, ed il motivo è semplice: quel senso di scollamento lo-fi, come un bad trip alcolico e una visione 3d senza occhialini, sono forma e sostanza di una proposta che getta il piglio oltre l’ostacolo della tecnica. E va a bersaglio senza pavoneggiarsi, col ghigno delle occasioni irripetibili, sgranando un rosario incandescente e stralunato, citazionista sì ma per elezione e predisposizione genetica. Tra il riff kinksiano con slabbrature surf rancide di I’d Go Through Fire And Water e gli accordi in minore di Iced Instinct (la ballad che avrebbe potuto scaturire dallo scontro degli universi Hüsker Dü e La’s) c’è tutto un catalogo di efferatezze radianti e oppiacee, dal Marc

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ipertrofica in funzione del progetto narrativo/ espressivo di turno. Certo, i Lips non potranno mai suonare come una band normale, però qui gli effetti speciali sono meno espedienti sonici e più modulazioni timbriche e armoniche, un riequilibrio formale che valorizza e non poco la consueta sensibilità (e obliquità) melodica. Si senta la delicata trepidazione barrettiana di Think Like A Machine, Not A Boy, che si fa largo da un sipario di synth escatologici, o l’innocenza radiante della title track, sogno technicolor tra The Soft Bulletin e Yoshimi Battles The Pink Robot che non rinuncia a inventarsi un riffettino ipnotico, simile per approccio alla più amniotica e languida Is The Black At The End Good, dove si piluccano visioni Sixties come da un sushi transgenico affettato dai Mercury Rev. Notevoli, poi, le particelle floydiane e la cupezza krauta a velocità di crociera di If They Move, Shoot Em, mentre Wolf Children svaria in chiave errebì slacker, come un Beck in orbita attorno ad una luna a caso di Giove. Chiude la cavalcata, tra frattaglie cosmico/sintetiche, Assassin Beetle – The Dream Is Ending, dieci minuti di temi riecheggiati nello scafandro dell’inquietudine, come un gioco a cuore nero che significa rapimento e abbandono, tra parentesi di talkin’ dimesso e strali art wave striminziti. In filigrana potremmo scorgere il tentativo di realizzare una antica ossessione dei Flaming Lips, ovvero il pop come esalazione magica dalle strutture canoniche, una ripetizione meccanicamente determinata che tuttavia sa produrre energia e incanto sempre diversi. A patto di cercarla davvero questa diversità, questa alterità. 7.1/10


Bolan intossicato Iggy Pop di You Penetrate Me alle sordidezze psychobilly di The Devil, passando per una sferragliante Homesick (con una tastierina che sembra piovere da saturno) e dal beat svalvolato di The Story, nelle quali non sai bene dove finiscano gli Electric Prunes e inizino i NoMeansNo. Per non dire di quella The Day che sembra un mash up balzano tra due canzoni come ti aspetteresti dal Daniel Johnston più turbolento. Uno di quei dischi che ti fa sembrare il rock un affare semplicissimo e allo stesso tempo misterioso, come un vecchio scherzo del diavolo che non ha ancora smesso di ridere. 7.4/10

The Wave Pictures - City Forgiveness (Moshi Moshi,2013) Genere: pop, folk L’arte del depistaggio. Potremmo anche pensare in questi termini al trio di Leicester (pienissimo UK), che dal 1998 ci ha inondato di musica filologicamente newyorkese (ma spesso “barando”). E’ stato un gioco di slackness, mimetizzazione indie, postulati anti-folk, tutti confermati (e smentiti allo stesso tempo) da questo quinto disco per Moshi Moshi. City Forgiveness è un doppio, 20 brani per una novantina di minuti di musica, che David Tattersall dichiara di aver praticamente composto per intero mentre la band era in tour negli States con gli Allo Darlin’ (con cui qui sembrano condividere più di una semplice amicizia musicale). Se pensate ai tre anni intercorsi tra Neon Bible e The Suburbs degli Arcade Fire, non si può non pensare all’ennesima, sottile, ironia graffiante. Aneddottica a parte, come suonano questi venti brani Wave Pictures? Come sempre, ci si trova dentro di tutto. La chitarra di Neil Young altezza American Stars ‘n Bars nell’opener

Marco Boscolo

This Co. - More (Clinical Archives,2013) Genere: wave, post-punk, rave I This Co. provengono dal Cile ma hanno ben chiaro cosa si è mosso nel Regno Unito nei ’00s, soprattutto ad altezza post-punk e nu rave. Dopo un debutto americano degno di nota con un omonimo album pubblicato nel lontano 2008, la band torna solamente ora con un secondo disco che, a fronte della lunga attesa, regala un allargamento dei confini stilistici pur senza sostanziali scossoni. Degli esordi rimane la sezione ritmica di chiara fattura post-punk, le atmosfere dark e un timbro vocale non troppo lontano da quello di Robert Smith dei Cure; tra gli elementi inediti troviamo atmosfere oscure e dilatazioni vocali (Tranzz), un bilanciarsi su distorsioni elettroniche tendendo la mano verso saliscendi melodici alla Late Of The Pier (This Co. Floor) ed esperienze indietroniche in stile Hadouken! (Solid Gold).

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Stefano Solventi

All My Friends, momenti assurdamente Dire Straits (The Ropes), outtake da Graceland di Paul Simon (Before This Day), spore Talking Heads in trip africano (The Inattentive Reader), rock sudato tex mex (Lisbon), calypso solari (Whisky Bay), ballad sornione (Like Smoke). Senza dimenticare i Modern Lovers, il Lou Reed meno oltranzista e ovviamente Hefner. Da un gruppo come i Wave Pictures non ci si deve aspettare un colpo d’ala improvviso che lo spinga fuori dall’indie-mondo. Tra altri quindici anni, probabilmente, continueranno a sfornare dischi a spron battuto. E nessuno meno che paradigmatico di cosa voglia dire fare un disco indie. Oramai giocano nello stesso campo di icone del genere come Yo La Tengo e Low. Mica poco. 7.2/10

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Sul finale c’è pure qualche climax azzeccato (le tastiere alla Jean Michel Jarre di fine anni ’70), a impreziosire un lavoro che, tuttavia, fatica a decollare. 6.4/10 Alessandro Rabitti

Genere: pop, cantautori, psych, prog Si avvicina la soglia fatidica dei quaranta per il buon Tim Kasher. Tenuto conto dei quasi venti anni di carriera e della dozzina di album sul groppone – tra Cursive, The Good Life e l’esordio solista The Game Of Monogamy – è comprensibile che voglia tentare la zampata importante. Più sorprendente è il modo, la freschezza, l’impudenza con cui stravolge le aspettative, quella capacità di rilanciare la palla in un territorio effervescente riuscendo a raccapezzare comunque una coerenza di fondo anche piuttosto solida. Il polistrumentista, autore e cantante del Nebraska realizza col sophomore Adult Film una misticanza nevrastenica e intensa, lucida e scapestrata, malinconica e stramba. Dieci tracce che zompano tra lo-fi arrembante e saltimbanco psych-pop, concedendosi pause riflessive che suggeriscono ferite profonde. Immaginatevi il primo Badly Drawn Boy colto da vampe Xtc (The Willing Cuckold), preso a sganassoni dai Pavement (Truly Fraking Out, American Lit) o infervorato di ruggini Eels e agra follia Robyn Hitchcock (Life And Limbo). Oppure un Elliott Smith narcotizzato dal Billy Corgan più soffice (You Scare Me to Death, Where’s Your Heart Lie, Lay Down Your Weapon). A tratti quello di Tim sembra un cabaret eccessivo – certe digressioni bandistiche, quelle visioni sonnacchiose quasi canterburiane, persino certi quadretti sintetici dal retrogusto spacey – come se la voglia di svariare e spari-

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Tony Joe White - Hoodoo (Yep Roc,2013) Genere: blues, country, folk Le vie dell’hype sono infinite, ma di certo non passano sotto casa di Tony Joe White, settantenne da Oak Grove, Louisiana, leggenda vivente del cosiddetto swamp rock. Uno che ascolti il suo ultimo disco – il quindicesimo di inediti se non ho contato male, a nove anni dal precedente The Heroines nel quale ospitava Lucinda Williams ed Emmylou Harris – e non puoi fare a meno di pensare ad un impasto di luoghi comuni southern, Americana terrigna bluesy, storie di fiumi misteriosi e cerchi magici nei campi di cotone. Fuzz e wah-wah, profondità baritonale e assolo intagliati nel legno ancora caldo di accetta, un’armonica che sfarfalla tra le brume dell’anima. Roba che un JJ Cale ci si è scolpito l’effige tra i capisaldi, mentre Mark Knopfler – tra l’altro grande amico di Tony – ci si è fatto soldi e fama. La fama invece il buon White la vive da una posizione più defilata, malgrado le sue canzoni siano state interpretate da gente come Elvis, Cash e Tina Turner. E’ forse grazie a questo che continua a scrivere pezzi interessanti come un paio di jeans da falegname, incisi senza troppi take proprio come se suonare fosse una questione di abilità artigianale, di attitudine smerigliata dall’esperienza. E naturalmente sta proprio qui la sua forza: la sensazione che non ci siano alternative possibili, che la sostanziale monotonia di soluzioni armoniche

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Tim Kasher - Adult Film (Saddle Creek,2013)

gliare le coordinate gli avesse preso un po’ la mano. Ma per uno strano e prodigioso gioco di contrasti ne esce fuori un ritratto attendibile, persino coeso, frutto di una sensibilità in bilico tra intimismo e scelleratezza, tra sfrontato languore e impeto malfermo. Tra artificio e vita. 7.3/10


e timbriche e quel blando ondeggiare tra sincopi narcotiche e boogie resinosi siano la forma perfetta per queste vampe espressive. Un po’ nipote atmosferico di John Lee Hooker (9 Foot Sack, Holed Up) e un po’ cugino flemmatico degli ZZ Top (The Gift, Storm Comin’ ), capace di cavarsi dallo stomaco un’amarezza cruda (The Flood) e struggimento evocativo (una Gypsy Epilogue che sembra la versione desertica di Nights In White Satin), con questo disco Tony Joe White ci fa provare brividi di schiettezza un bel po’ prima di sembrare banale. 6.8/10 Stefano Solventi

Genere: rock, psych Dare seguito ad un acclamato debutto non è mai semplice e lo è ancora meno farlo ad appena un anno di distanza da una stagione caratterizzata da una grande esposizione mediatica, come quella che ha coinvolto gli inglesi TOY nei mesi successivi alla pubblicazione dell’omonimo esordio. Per quanto limitato a territori extra-mainstream – anche se ora la band apre per i Placebo in mezza Europa – e ingigantito da un supporto degli addetti ai lavori italiani più forte che altrove, il fenomeno TOY non è passato inosservato, grazie ad un mix personale – e decisamente funzionale, in ottica trip – di psych-rock seventies, geometrie kraut, momenti di sintesi post-punk e di estasi fornita da tappeti synh-string ad ampio respiro. Il più grande difetto del disco precedente era un apporto vocale qualitativamente non eccelso, un anello debole che si ripresenta inesorabile anche nel secondo capitolo Join The Dots. Non sorprende che ad aprire il disco siano i sette minuti strumentali di Conductor: è in questi frangenti che Tom Dougall e compagni sembrano avere una marcia in più. Le lunghe

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TOY - Join The Dots (Heavenly,2013)

jam in feedback, i flussi spacey e l’ossessività kosmische muzik dettata da un preciso drumming sono materiali che i londinesi manipolano con incredibile facilità e risultati spesso sorprendenti. Se è vero che quello che di primo acchito potrebbe sembrare un disco che non aggiunge molto a quanto già ascoltato, regala comunque situazioni più vicine che in passato alla floreale psichedelia anni Sessanta (As We Turn, You Won’t Be The Same), è anche vero che rimane l’amarognolo di un potenziale evolutivo tenuto un po’ troppo a freno: la pur buona title-track riassume questa immobilità, partendo da una bassline non distante da una Kopter in slowmotion, mentre Left To Wonder e To a Death Unknown hanno le sembianze di inconcludenti scarti del primo disco. Stringi stringi, allora, non rimane troppo da lasciare ai posteri: forse le distorsioni gaze e la – quasi giocosa – melodia di Endlessly, forse i quasi dieci minuti della conclusiva Fall Out Of Love (priva però della stessa forza trascinante di Kopter) e sicuramente Frozen Atmosphere, il brano meglio scritto dal punto di vista armonico, dotato di un floating-chorus di facile assimilazione. Benché il batterista del gruppo Charlie Salvidge, durante l’intervista dello scorso dicembre, ci avesse già messo in guardia, ci aspettavamo comunque di più: chiedere una svolta radicale come fu quella dei loro cuginetti Horrors sarebbe stato forse troppo, ma il secondo viaggio astrale dei TOY oltre le porte della percezione ha comunque seguito coordinate non troppo distanti da quelle del primo lancio. Ed è un peccato, considerata la vastità dell’universo. 6.5/10 Riccardo Zagaglia

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Genere: psych, post-punk, ambient, folk Progetto ambizioso e non privo di una certa dose di coraggio, quello dei bresciani Two Monkeys, sigla dietro la quale si celano i fratelli Simone e Michele Bornati. Accanto ai due, sulla poltrona di produttore oltre che alle chitarre e alle tastiere, Alessandro “Asso” Stefana, chiamato a dirigere quel caos ragionato che è Psychobabe. Claustrofobico, pieno zeppo di suoni sulfurei ed effetti elettronici, il primo lavoro del duo si presenta come un calderone emozionante di musiche suonate con un piglio analogico che non può non ricordare certa musica tedesca anni ’70. Cosmici senza essere passatisti, i pezzi che compongono Psychobabe necessitavano evidentemente di una regia d’esperienza, e Asso Stefana, chitarrista da anni accanto a Vinicio Capossela (e impegnato in moltissimi altri progetti), sembra assecondare al meglio l’istinto e l’irruenza del duo. Vario, per certi versi ostico, ma mai impenetrabile, il disco è pieno di suggestioni, in un corredo sonoro talmente ricco che ci si chiede da quale cellula compositiva, da quale embrione i due fratelli siano partiti per concepire il tutto. E la sovrabbondanza sonora sfila via senza intoppi, lasciando qua e là affiorare la melodia ideale per la colonna sonora di un film immaginario o addirittura il germe di una perfetta pop-song. Soprattutto, Psychobabe ha il grande pregio di non rassicurare nessuno, laddove ci si senta a proprio agio con certi suoni, perché, di punto in bianco, ci si ritroverà catapultati altrove. E dunque, se l’iniziale Moon inocula dosi massicce di inquietudine attraverso tastiere ripetitive che sanno tanto di Residents, la successiva Marsh-Mallows (di cui peraltro è stato pubblicato in vinile colorato 12 pollici un remix a cura di Boxeur the Coeur) è una cantilena cupa e martellante che

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verso la fine apre al folk bucolico. E si prosegue con il post-punk di FuckFolk, l’aritmia di CrazyDrive, il folk spaziale guidato dal banjo di More-Space, la melodia infantile di Psycho, l’hip-hop trasfigurato di MeloDrama, l’house non ballabile di SheKnows Naturalmente, non sarà difficile cogliere rimandi e richiami: citiamo i Residents e la musica tedesca, ma alla stessa maniera potremmo tirare in ballo Brian Eno, Jon Hassel, King Crimson e compagnia cantante. Ma i paragoni, mai come in questo caso, risulterebbero fuorvianti. Perché i Two Monkeys riescono a mantenersi in perfetto equilibrio tra i due estremi della loro musica, che per semplificare individueremo nell’elettronica e nel folk, attingendo e manipolando in maniera assolutamente creativa la materia di cui dispongono. Ritmi spezzati, chitarre liquide, voci filtrate sono al servizio di una idea unitaria di base. E dunque, il tutto, pur risultando ricco, variegato e sovrabbondante, non perde di coerenza ideologica. Una ideologia che, probabilmente, si esaurisce in un unico dogma: fare musica in liberta assecondando totalmente le proprie suggestioni. 7/10 Ilario Galati

Until The Ribbon Breaks - A Taste Of Silver EP (Universal Republic,2013) Genere: pop, rnb, elettronica Until The Ribbon Breaks ovvero “fino alla rottura del nastro”. Pete Lawrie Winfield tributa così una forte passione per il cinema (in curriculum lavori come visual artist e filmmaker) che, tra le altre cose, riversa anche nei movie-collage che fungono da videoclip per le canzoni. Come Woodkid, anche Pete Lawrie si è avvicinato al mondo discografico solamente in un secondo momento, nonostante sia cresciuto circondato da strumenti in una famiglia di musicisti amanti di Marvin Gaye e Stevie

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Two Monkeys - Psychobabe (Kandinsky,2013)


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sodio finale (Back To The Stars), quanto per l’evitabile passaggio in compagnia del rapper Homeboy Sandman (Perspective): non esattamente il suo genere, nonostante un passato da skater appassionato di hip hop e la preziosa collaborazione nel progetto Run The Jewels (Job Well Done). Il 2014 attende il debutto lungo di Until The Ribbon Breaks con le più rosee aspettative, benché non manchino alcuni sentori di un ipotetico buco nell’acqua. 6.4/10 Riccardo Zagaglia

White Denim - Corsicana Lemonade (Downtown,2013) Genere: rock Pare che il genere più adeguato per definire questo nuovo full length, che esce a distanza di due anni dall’apprezzato D, sia “barbecue record”. Parola di James Petralli, mente e leader della band, che lo ha voluto mettere nero su bianco anche nella press release. Il significato di questa peculiare definizione va forse cercato nell’avvicinamento ancora più manifesto a un territorio più accessibile, in buona sostanza pop, che non cancella gli interessi per suoni prog-math-tropical-southern che ne caratterizzano da sempre la proposta, ma li fa propri, così da poter vestire le melodie. Adatte a un party tra amici, appunto. Si prenda uno dei numeri miglior del lotto, New Blue Feeling, che al netto del virtuosismo chitarristico e dei cambi di ritmo, sarebbe potuta tranquillamente stare nell’ultimo disco di Iron and Wine: atmosfera agrodolce, chitarra acustica a menar la danza, stessa passione per una melodia cristallina che sa di Seventies anche se è stata scritta solo ieri. Altrove le cose tradiscono più apertamente le radici, come nell’opener At Night in Dreams, con angoli acuminati che ricordano le chitarre arrembanti

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Wonder: lo ha fatto inizialmente come DJ e remix-maker e successivamente nel ruolo di vero e proprio songwriter dell’era digitale. I suoi brani ruotano infatti attorno a claustrofobici paesaggi distopici che narrano di problematiche sociali quali l’isolamento provocato dai meccanismi sempre più Internet-centrici; una sorta di Black Mirror musicato. La prima uscita a nome Until The Ribbon Breaks si intitola A Taste Of Silver ed è un EP composto da cinque brani – 2025, Perspective, Romeo, Pressure e Back To The Stars – che il Nostro ha scritto in un periodo non facile. La prima cosa che salta all’orecchio, non solo all’interno dell’EP ma anche nei remix (da lui definiti “reimagination”) confezionati per altri artisti sotto Universal Republic (da Lorde, per la quale ha aperto alcune date, a The Weeknd, passando per gli Of Monsters and Men), è uno stile già facilmente identificabile, caratterizzato da tonalità oscure e notturne, slow-beat, bassi corposi e aperture melodiche evocative. Il brano cardine dell’EP è senza dubbio Pressure (accompagnato da un videoclip che omaggia il Lynch di Lost Highway): strofa altezza Imagine Dragons, intagli elettronici e un ritornello che sembra sublimare tutta la pressione accumulata in una melodia efficace (Sting o Gotye, tra le righe), addolcita ulteriormente da un accogliente piano in zona Moby e da alcune trovate al limite del sophisti-pop. Chiaramente Pete Lawrie Winfield dà il meglio di sé in un incrocio tra post-r'n'b e (sci-fi)pop apocalittico che trova conferme – seppur con meno impatto – sia in 2025 (clip con footage da Koyaanisqatsi), che nella black-ballad Romeo (il video è, neanche a dirlo, composto da spezzoni del Romeo + Juliet di Luhrmann). Non solo clamori, però: l’impressione è che ancora non tutto giri come potrebbe, non tanto per il fluttuante e comunque perfettibile epi-

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dei Meat Puppets, il blues che piace a Tweedy di Cheer Up/Blues Ending, il southern di Limited By Stature. Come per i fratelli Kirkwood, sembra che l’aria degli stati del Sud porti a sintesi di generi codificati usando il rock come base chimica perfetta. In entrambi i casi sono servite una grande dose di talento melodico e una preparazione tecnica superiore alla media. Che il paragone sia di buon aspicio per Petralli e soci. 7/10 Marco Boscolo

Genere: rock, avant Che cosa ce ne facciamo oggi, nel 2013, del quindicesimo album solista di Yoko Ono? Ben poco, se ci limitiamo a valutare l’operazione come semplice uscita di un disco pop. La Ono, però, ben prima di essere la compagna simbiotica di uno dei Beatles, la moglie di John Lennon, la musicista, è stata un membro importante di Fluxus, un’ esploratrice d’avanguardia del regno dell’arte concettuale e performativa. E’ studiando dunque il lavoro dell’artista in tutta la sua complessità, eterogeneità ed evoluzione, scindendo quindi l’ultima sua creazione dalla mera prospettiva discografica, che possiamo comprendere il senso di dare alle stampe un nuovo album all’età esatta di 80 anni. Nel 2009 Between My Head and the Sky aveva preso tutti alla sprovvista, dimostrandosi al di sopra di qualsiasi aspettativa si potesse avere rispetto al disco di un’ultrasettantenne che già aveva detto e dato moltissimo. Siamo ora di fronte a un disco denso di collaborazioni (Ad-Rock e Mike D dei Beastie Boys, tUnE-yArDs, Lenny Kravitz, Nels Cline…), messo a fuoco insieme all’odierna Plastic Ono Band composta dall’ormai trio fisso che vede il figlio Sean Lennon affiancato da Yuka Honda

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Giulia Cavaliere

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Yoko Ono Plastic Ono Band - Take Me to the Land of Hell (Chimera Music,2013)

e Cornelius. La sensazione immediata è quella di trovarsi davanti a un gioco, quello che si può permettere di fare solo un vero artista, uno che non ha più bisogno, per esperienza ed età, di qualsiasi forma di seriosità grondante, di autocompiacimento, di eccesso di attenzione e può dunque concedersi il puro divertimento che la musica regala. Si passa in tutta tranquillità dal parlato su tappeti sonori, all’elettronica, al pop, tra una NY Noodle Town con intenti di lennoniana ballabilità, l’electropop tirato di Shine Shine, fino alla cabarettistica Leaving Tim. Un pastiche sonoro interessante, sempre un po’ “stonato”, ma dotato di quella leggera e disinvolta eccentricità che, a un ascolto profondo, non può che convincere ancora una volta. I detrattori, davvero coraggiosi nel protrarre ancora l’odio immotivato per uno solo dei tanti volti della Ono – e cioè quello della “signora Lennon”- dovrebbero mettersi l’anima in pace. In fondo lo stesso John ne aveva intravisto le doti artistiche e le aveva fatto incidere una canzone ancora prima di innamorarsene. 6.8/10


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Quando senti quelle chitarrine lì, tutto passa in secondo piano, perché al centro ci sono quelle chitarrine lì e il resto svanisce, si comprime, sfuma. Sfuma come i contorni delle melodie degli Ecole Du Ciel, pugliesi in fuga – pubblicano per Already Dead Tapes alla faccia dell’essere provinciali e chiusi in se stessi, come pontifica qualcuno di troppo – che intrecciano vortici di chitarre e psichedelia docile (From My Farthest Shores), istantanee sognanti e san francisco garage/psych sound, asprezza post-punk, vocalità emo e tribalismi atipici in un lavoro che mantiene fede al proprio titolo. Heartbeat War Drum è infatti (http:// ecoleduciel.bandcamp.com/) una tensione cardiaca sempre ai massimi, come nella title track: perfetto esempio di post-punk.... Ah, tanto per dire, il lavoro esce in formato cassetta che qui a Gimmes significa almeno un paio di punti di gradimento in più. A sette pollici girano invece i nuovi lavori di Be Forest e Hookworms. Questi ultimi sono forse la cosa più eccitante proveniente dal calderone hard-psych inglese, tanto che sulla scia dell’ottimo Pearl Mystic mr. Loop Robert Hampson li ha chiamati onstage per l’ultimo ATP e la Too Pure ha commissionato loro questo singolo per il proprio Singles Club. Radio Tokyo sul lato A e On Returning sul B sono il solito assalto psych forsennato e deviante, energico e ossessivo sul canovaccio dell’album e sono il giusto contraltare per le investiture di cui sopra. I nostri invece preparano il terreno per il nuovo Earthbeat sotto forma di nebulose shoegazing sognanti e riverberate (Hanged Man) e prestiti resi pulviscolari residui di suoni evanescenti (I Quit Girls dei Japandroids). Shoegaze addicted, siete avvisati. Proseguiamo verso il buio con il debutto su vinile dei teutonici Mars. Nato dalle ceneri del famoso (almeno negli ambiti di competenza) trio folk-noir :Golgatha:, il duo composto da Marcus S. e Oliver F. aveva già rilasciato un primo CD dal titolo Sons Of Cain l’anno scorso. Nelle tredici tracce, palesi erano i riferimenti ai mostri sacri del (sotto)genere: Current 93, Sol Invictus, Strength Through Joy e compagnia marziale. Oggi esce Sacrifice, EP su 12” one-sided che ci consegna cinque nuovi pezzi messi ben a fuoco: essenziali, scarni, solenni e spartani come da tradizione post-industriale. Cinque inni di battaglia per sola chitarra acustica, voce e timpani di guerra, come ben testimonia il – per così dire - singolo estratto Icarus Falling. Nulla di nuovo, sia ben chiaro, se non per la freschezza e la spontaneità che marchia questo debutto, ma chi ama queste sonorità difficilmente ne farà un problema.


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Rimanendo in territori post-industriali, ma muovendo verso sonorità elettroniche, segnaliamo la stampa su 7 pollici di Mercure dei Croatian Amor. Moniker appartenente all’oscuro giro Posh Isolation, ben poco è dato sapere sull’identità del progetto, se non che quest’ultimo è stato in grado di crearsi una piccola culla di interesse nei meandri del sottobosco rumoroso nonostante il breve periodo di attività. Come detto poc’anzi, le due tracce che compongono Mercure erano già uscite un annetto fa, ovviamente su cassetta, ovviamente per Posh Isolation, ovviamente il 19 risibili copie. Ben venga dunque questa ristampa per la lituana Terror, che stampa 250 esemplari nei cui solchi troverete disturbanti melodie di synth affogate in muzak di sala d’attesa d’aeroporto, inquietanti voci di sottofondo, fischi, rumoracci e tutto quello che avete sempre desiderato (quanto meno se il vostro concetto di bellezza è sufficientemente versatile). Sempre in ambito elettronico, ecco nuovamente una delle label più attive ed importanti del filone minimal-synth/wave come Dark Entries. La label di Josh Cheon la conoscete (ci auguriamo) e sapete che è sempre in prima fila nel riportare alla luce il meglio delle produzioni underground, americane ed europee, degli anni d’oro, gli anni in cui questa musica nasceva e centinaia di band armeggiavano negli scantinati con sintetizzatori analogici e macchinari retrofuturisti. Questa volta però l’etichetta californiana ci stupisce con ben tre uscite per gruppi odierni. In primis ritroviamo Inhalt, trio di stanza a San Francisco per metà statunitense per metà europeo già debuttato da Dark Entries lo scorso anno con l’EP Vehicle. Quattro nuovi pezzi su questo Occupations per sonorità ben note ai fan della label: italo-disco caciarona, synth-pop catchy e beat dance dal retrogusto space-funk. Se il cantato in tedesco non vi spaventa, ma anzi vi galvanizza, date un ascolto alla title-track (http:// www.youtube.com/watch?v=1tGu3sc44zY) e unitevi alla danze. Sempre da Frisco debutta anche Robert Yang col suo progetto solista a nome Bézier. Un sound più kosmische il suo, da soundtrack d’annata, strumentale ed analogico, vellutato ma non privo di spunti ballabili e groovettoni. Sei brani circolari, modulari, che fluiscono come un liquido chimico giù per un canale di scolo: sinuosi come la Silhouette che qui potete apprezzare (http://www.youtube.com/watch?v=WycJmNk5J84). Chiudiamo spostandoci sulla costa Est, ovviamente a New York City, con l’ultimo debutto di questa triade di novelli synth-addicted. Parliamo dei Figure Study, duo composto da Nathan Antolik e April Chalpara, già noto agli adepti del culto Wierd Records. E proprio al sound della label di Pieter Schoolwerth si rifanno i due algidi newyorkesi: beat ultra scarni, melodie sbilenche, quasi stonate, voce afona e vagamente recitativa. Per loro, a ridosso di questo primo 7 pollici, è da poco uscito anche l’eponimo full-length, sempre per l’etichetta di Cheon. C’è chi dice che il revival minimalwave è ormai spremuto ma a giudicare dall’operato di label come Dark Entries, Domestica e tante altre non sembra che i fan di queste sonorità meccaniche abbiano intenzione di abbandonare la nave. Non ancora, per lo meno. stefano pifferi

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Marlene Kuntz

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Catartica (Consorzio Produttori Indipendenti,1994)

Il 13 maggio 1994, mentre in America il fenomeno grunge implode con il suicidio di Cobain e in Inghilterra – con Blur e Oasis in rampa di lancio – il britpop sta per raggiungere il suo apice, in Italia i Marlene Kuntz danno alle stampe il loro debut album: prodotto da Marco Lega per il Consorzio Produttori Indipendenti, Catartica diventa in breve tempo punto di non ritorno e imprescindibile riferimento per il rock italiano (o sarebbe meglio dire IN italiano, tanto labile è il legame tra il suono della band cuneese e la tradizione musicale tricolore in quest’ambito). Nato sotto la benedizione di Giovanni Maroccolo (che aveva scovato la band in quello che ai tempi era uno dei contest musicali più ambiti, Rock Targato Italia), il primogenito di casa Marlene deve i suoi natali alle cavalcate elettriche e alle deflagrazioni noise dei Sonic Youth (omaggiati, nel titolo e nelle sonorità, da Sonica, vero e proprio brano-manifesto della band), unite ad una capacità espressiva vicina al primo Nick Cave, con un cantato che a più riprese richiama invece il salmodiare del compagno (e fondatore) di etichetta Giovanni Lindo Ferretti, ai tempi frontman dei neonati CSI. Quattordici brani figli di una poetica antisociale, antisanremese, dotati di una violenza espressiva a volte tanto estrema da sfiorare le sponde del rock più scuro; episodi esistenzialisti e nichilisti quanto basta per imprimere una traccia indelebile nel panorama musicale italiano. Ritornelli killer – un esempio su tutti Festa mesta, instant classic del canzoniere marleniano – a impreziosire testi in cui il cinismo non lascia spazio alla rassegnazione, e dove Godano riesce nel compito fino ad allora impensabile (in Italia) di associare a certo tipo di rock una capacità di raccontare storie con un linguaggio ora “alto”, ora crudo e diretto, in un immaginario potentissimo ed estremamente personale: una riflessione costante, catartica, sul vivere moderno o, più probabilmente, sull’intramontabile spleen baudleriano applicato alle categorie moderne. Tra le sferzate elettriche del duo Tesio-Godano e l’incedere nervoso dietro alle pelli di Luca Bergia, trovano spazio anche momenti di apparente quiete – su tutti Lieve e Nuotando nell’aria - come parentesi riflessive e malinconiche, anche se mai abbandonate dal mare magnum di chitarre ed esplosioni sonore in cui il disco è annegato, quasi a voler mantenere una tensione costante, quale che sia il climax di fondo. E ancora echi industriali, post punk, post-grunge (Giù Giù Giù è la più nirvaniana del lotto), con la voce di Godano a scuotere e cullare, abbracciare e respingere, come un Rozz Williams all’apice della sua rabbia, o un Nick Cave al culmine della sua introspezione – da ascoltare in tal senso Gioia (che mi do). Pietra miliare del rock italiano assieme al quasi coscritto Hai Paura Del Buio? dei cuginetti meneghini Afterhours, Catartica è esordio e probabilmente zenith creativo dei Marlene Kuntz, da qui in poi assurti a band di culto dal popolo alternative, in una devozione che perdura ancora oggi, nonostante una decisa, discussa e non del tutto riuscita virata cantautorale. Enrica Selvini

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Jesus and Mary Chain

classic

alb u m

Psychocandy (Blanco Y Negro, 1985)

A volte le rivoluzioni nascono da idee molto semplici. Perché la melodia e il rumore non possono andare a braccetto? Jim e William Reid, fratelli scozzesi cresciuti nella cittadina di East Kilbride, sono due dei tanti ragazzini che il punk ha spinto a prendere in mano gli strumenti e formare un gruppo. In loro però non c’è traccia dell’urgenza che divorava molti coetanei, e infatti i giovani se la prendono comoda. Il basso che William ha comprato nel 1977 rimane per cinque anni a prendere polvere in un angolo della casa. Nel frattempo lui e Jim parlano per ore, giorni, anni, di come dovrebbe essere la band perfetta. Si domandano come mai nessuno riesca a fidanzare le Shangri-Las con gli Einstürzende Neubauten, il rumore industriale con le melodie dei gruppi vocali degli anni ’60 – per poi scoprire che era esistita già una band capace di ricomporre la dualità di quei punti di riferimento e di precorrerli in un progetto ad ampio respiro. Erano i Velvet Underground. Dopo la rivelazione, il percorso dei fratelli Reid parte a spron battuto. Il 45 giri di debutto crea la formula chimica del pop rumoroso e – in parte – anche del lo-fi: si scrive una canzone pop da tre accordi e la si mixa con strati e strati di feedback, larsen e tutte le cacofonie accidentali e immaginabili, a formare una cortina fumogena intorno alla melodia. Facile come bere un bicchier d’acqua, ma un bicchier d’acqua rivoluzionario. Il titolo Upside Down (sottosopra) rende bene il ribaltone che i J&MC attuano all’interno del pop, iniettando un elemento disturbante ed estremo non in una musica d’avanguardia, bensì nel formato della classica song da tre minuti. I singoli successivi continuano gli atti vandalici nei confronti del concetto di armonia e di arrangiamento di una canzone melodica, e la parallela costruzione dell’archetipo di un genere. Never Understand è un frizzante bubblepunk in stile Ramones sfregiato da un bombardamento di dissonanze. You Trip Me Up è addirittura più estrema nel contrasto tra la struttura melodica della ballata e la chitarra di William, un martello pneumatico che sembra procedere per conto suo in stridori assordanti. In confronto, Just Like Honey risulta paradossalmente ammorbidita rispetto a tanto teppismo sonoro, che trasforma in un perverso wall of sound di marca spectoriana a base di effetti e distorsioni. A differenza di Upside Down (ripubblicata solo in ristampe e antologie) i lati A degli altri 45 giri sono l’architrave dell’album di debutto più importante dei mid-eighties britannici, al pari di quello degli Smiths. Ispirato dal pop anni ‘60, dal garage rock, dal punk e dai Joy Divison, propone episodi intossicati dal feedback (In A Hole, Inside Me), l’industrialsurf di The Living End e My Little Underground, Cut Dead, acustica e malinconica alla Lou Reed, ma soprattutto The Hardest Walk, Taste of Cindy, Sowing Seeds, Something’s

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Wrong, arrangiate dosando tutti gli ingredienti dei Jesus & Mary Chain con il bilancino di precisione, per chiudere con l’unico episodio di noise rock fine a se stesso, It’s So Hard, la loro European Son in formato mignon. Le tracce degli shogazers riportano fino a qui, ma saranno altri a sviluppare le intuizioni di Psychocandy, a partire dai Loop per arrivare alle architetture trascendentali di Kevin Shields. I fratelli Reid faranno un passo indietro già nel secondo album Darklands. Nella discografia del gruppo scozzese, oggi disponibile in un lussoso box con tutti i 33 giri, non si trova più un’opera così dirompente. Tuttavia, senza il loro debutto la storia di una fetta di rock, indipendente e non, sarebbe molto diversa. tommaso iannini

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