Sa 112 febbraio

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digital magazine | febbraio 2014 | n. 112


sommario tune in – p. 4   Simon Raymonde   Il rap nel 2014  Memory9   Matt Elliott  Giuda  Sepiatone

drop out – p. 30   Back to Eskimo Jungle   Lou Reed

recensioni – p. 68 rubriche – p. 114


#112 febbraio

Direttore Edoardo Bridda Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Edoardo Bridda, Antonello Comunale, Andrea Napoli, Stefano Pifferi, Gianluca Carletti, Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi, Marco Braggion, Giulia Antelli, Diego Ballani, Daniele Rigoli, Andrea Forti, Enrica Selvini, Filippo Bordignon, Luca Falzetti, Riccardo Zagaglia, Marco Boscolo, Giulia Cavaliere, Alessia Zinnari, Alessandro Pogliani, Andrea Murgia, Ilario Galati, Tommaso Iannini, Nino Ciglio, Alessandro Liccardo Copertina eskimo jungle Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2014 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Quattro chiacchiere con l'affabile Simon Raymonde, figura cardine del suono inglese degli ultimi trent'anni, dai Cocteau Twins ai nuovi Snowbird, passando la label che cura, ovvero Bella Union. Testo di Antonello Comunale

Simon Raymonde Dai Cocteau al sogno lunare di Snowbird

Simon Raymonde, dei tre Cocteau Twins, era quello silenzioso che si teneva in disparte. Quello che nelle foto stava sempre dietro, più defilato. Robin era il chitarrista vulcanico, pieno di idee, la battuta pronta e lo sguardo torvo in macchina; Liz era Liz, la divinità eterea, l’ugola al di là delle nuvole. Eppure Simon era la solidità che dava sostanza alle idee oniriche del gruppo. Quando Will Eggie lasciò la band, Robin e Liz andarono alla ricerca di un bassista che avesse al tempo stesso un tocco leggero, ma profondo. Simon arrivò quando la formazione era in

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procinto di concepire Treasure. Il sound così liquido e gotico dei primi dischi subì istintivamente una sterzata verso un suono più rock e dreamy, e da qui la prima hit storica della band Pearly-Dewdrops’ Drops, che segna la fine del primo periodo e l’inizio del secondo, quello di dischi storici come Victorialand, Love’s Easy Tears e Blue Bell Knoll. Poi la fine della band e tutto quello che ne è conseguito. Con Elizabeth Frazer sempre più solitaria, fatta eccezione per alcune collaborazioni sparse – non ultima quella con i Massive Attack – e Robin Guthrie sempre


impegnatissimo con i suoi dischi solisti e il progetto Violet Indiana. Simon era quello discreto e tale è rimasto anche dopo. Pochissime le apparizioni e le notizie sul suo conto, fatta eccezione per Bella Union, la label che all’inizio doveva essere dedicata alla stampa del loro nuovo materiale solista e poi è pian piano diventata etichetta discografica a tutti gli effetti. Ora, l’inizio del 2014, segna il ritorno del Simon Raymonde musicista, con il progetto Snowbird e il disco di debutto, Moon, un episodio dalle solidissime venature Cocteau e con una vocalist d’eccezione come Stephanie Dosen cui tocca l’ingrato compito di non far rimpiangere l’ugola celestiale di Liz. Raggiunto per quattro chiacchere sul nuovo album e, ovviamente, sui Cocteau Twins, Simon si rivela la persona affabile e disponibile che lascia timidamente trapelare. Ultimamente hai detto che i Cocteau Twins non erano mai stati intesi come la tua ultima band. Come mai hai aspettato tutti questi anni per concentrarti su un progetto nuovo come questo? Non volevo fare qualcosa di cui non fossi contento al 100% e non mi è piaciuta l’esperienza di fare un album solista; aggiungi che non ho mai trovato musicisti che mi piacessero e che non fossero GIA’ in altre band! Va poi detto che sono stato molto impegnato nella conduzione della label! Credo di non essere molto bravo nel multitasking! Come hai incontrato Stephanie Dosen e come avete capito che potevate fare musica insieme? Avevo sentito il suo materiale solista, l’avevo scritturata per Bella Union e lei mi aveva poi chiesto di aiutarla a produrre l’album (A Lily For The Spectre). Durante la registrazione siamo poi diventati una coppia e lei si è trasferita dagli USA per vivere con me. Durante questi

anni, non avevamo mai parlato di fare musica insieme, fino a quando lei non è stata costretta a rientrare negli Stati Uniti perché il suo visto di soggiorno era scaduto. Dopo che è andata via, ho scritto alcuni sketches al piano e glieli ho spediti via e-mail, uno per notte, per una paio di settimane. Quando ha sentito i brani per la prima volta, è voluta ritornare a suonare con Garageband, registrare un disco e cantare la prima cosa che gli venisse in testa. Questo, più o meno, è stato il modo con cui abbiamo creato la base delle tracce. Tutte le sue melodie sono state poi totalmente spontanee. Snowbird è un progetto che inevitabilmente richiama i Cocteau Twins, ma cerca in qualche modo di trovare nuove strade per esprimersi, specialemente con il piano. Mi puoi dire qualcosa a proposito degli ospiti del disco, su come hanno lavorato e cosa hanno portato di personale nel sound? Posso suonare un po’ di tutto, ma niente in modo spettacolare, e ho pensato che sarebbe stato bello lavorare con alcuni amici che sono molto meglio di me. Il tipo di amici con cui ti ritrovi a dire: “Hey, se mai farai un disco, mi piacerebbe suonarci”. Fortunatamente hanno accettato. Mandavo loro una traccia che mi sembrava facesse al caso nostro e dopo pochi giorni la ricevevo indietro con un sacco di nuovo materiale incredibile sopra. Non ho chiesto niente in particolare perché SAPEVO che loro avrebbero aggiunto la cosa perfetta. Un bel po’ del materiale aggiunto è andato ad arricchire il tessuto del suono, come nel caso di Ed dei Radiohead e Paul dei Lanterns; Eric e Jonathan Wilson hanno portato complessità dove era necessario; Phil e Mckenzie sono due dei migliori batteristi al mondo; io suono la batteria in un modo terribile ma con loro mi sono sentito sicuro perché sono dei veri esperti. Will Vaughan degli Stairs To Korea ha aggiunto alcuni flauti, arpe ed altro materiale assortito. Da solo non avrei potuto ag-

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giungere tutti questi piccoli dettagli e dare così colore alle tracce. Parlami un po’ del titolo, così semplice e al tempo stesso così mitico, Luna. Hai detto che “ogni piccola traccia di musica è stata scritta di notte, in condizioni di semi-oscurità, così che lo spazio perdeva i suoi confini e non sembrava più di essere nella tua stanza”. Sembra il modo migliore di descrivere il dream pop come musica. Gli Snowbird sono una dream pop band? Ti piace questo termine? Non posso dire se mi piaccia o meno il termine “dream pop”. E lì, indipendentemente che ci piaccia o no. E’ di sicuro migliore di molte altre descrizioni a cui posso pensare. Durante il giorno lavoravo alla label, poi tornavo a casa, portavo il cane a passeggiare, mi cucinavo la cena, dopo di che si era ormai fatto buio e potevo sedermi tranquillamente nel mio salotto, con il mio piano, il mio laptop, il mio Garageband in registrazione (niente microfoni o altro fancy…); potevo suonare il piano per un paio di ore, fino a quando non avessi ottenuto qualcosa di relativa-

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mente decedente, per poi registrarlo e spedirlo a Stephanie. C’era una finestra aperta sul tetto nella mia stanza e la luce della luna era la mia “mood lighting”! Stephanie ha registrato tutte le parti vocali (quando è poi tornata qui in UK per fare le registrazioni del disco) nello studio che si trova di fronte a casa mia; lei poteva lavorare da mezzanotte fino alle 4 -5 del mattino. Fortunatamente, l’ingegnere del suono è stato anch’egli un gufo da notte e dopo che le registrazioni sono terminate, abbiamo in qualche modo sentito che la luna era stata un’influenza diretta sulla qualità del disco. I Cocteau Twins, nel corso della loro discografia, hanno stabilito nuovi standard di eccellenza nell’effettistica per chitarra e nel modo in cui hanno usato lo studio e le tecniche di registrazione. In questi termini, come è evoluto il tuo sound nel corso degli anni e qual è la differenza tra quello che fanno gli Snowbird ora e dischi come Heaven or Las Vefas e Milk and Kisses? Credo che le comparazioni siano un modo per


i giornalisti di cucire sulle persone alcune immagini di riferimento su come una nuova band o un nuovo disco possano suonare, ma mi pare che non sia un esercizio salutare. Non potrei mai paragonare questo LP a quelli che hai citato. Con i Cocteau Twins avevamo un grande studio di registrazione e centinaia di effetti, chitarre e strumenti, e abbiamo molti anni nel creare quei dischi, con budget adeguati. Per questo disco ho registrato le mie parti in 2-3 giorni e missato tutto in una piccola stanza in Hackney sotto a un pub! Comunque, mi piace pensare che da un punto di vista sonoro funzioni e che faccia emozionare le persone. Non penso che il luogo in cui registri un disco e la strumentazione che usi siano rilevanti, per il risultato finale. Paragonato al tuo partner nei Cocteau Twins, Robin Guthrie, sei sempre stato molto più defilato. Hai sentito i suoi dischi solisti e i suoi progetti musicali come Violet Indiana? Cosa ne pensi e che relazione hai con lui oggi? No, non ho sentito il suo materiale solista, da quando si è allontanato dalla label. Ovviamente ho sentito i Violet Indiana e i suoi lavori solisti precedenti, perché li abbiamo distribuiti. Robin è un musicista di grande talento, che ha dedicato gli ultimi quindici anni, da quando la band si è sciolta, a forgiare il suo percorso, la sua musica concepita nei suoi termini, attraverso la sua label. Questo è qualcosa per cui non possiamo non ammirarlo e rispettarlo. Stephanie Dosen è stata vocalist dei Massive Attack nel loro tour europeo nel 2008, prendendo un po’ il posto di Liz Frazer. La stessa cosa sembra accadere ora; infatti nella press release del disco dici: “Stephanie è stata la prima cantante con cui ho lavorato, da quando ho smesso con Elizabeth, con cui ho sentito di avere una reale empatia musicale”. Secondo la tua opinione, quali sono le differenze tra di loro, sia come persone, che come

cantanti? Non credo di aver mai incontrato due persone identiche, sia come esseri umani che come musicisti. Per questo la domanda è su un argomento su cui è impossibile rispondere, nel modo in cui probabilmente tu vuoi che io ti risponda. Quello che posso dirti è che sono stato in studio con centinaia di cantanti nel corso degli ultimi trenta anni e più di musica, e solo due persone mi hanno fatto piangere mentre le registravo. Ovviamente queste persone sono le due persone di cui stiamo discutendo qui. Le loro personalità per altro, mi colpiscono entrambe. Il loro non è un talento che è stato APPRESO, ma un dono che c’è DENTRO. Stephanie è nei suoi trenta anni ed Elizabeth ha passato la cinquantina, come me. Stephanie è la PRIMA a dire che Elizabeth è una delle sue cantanti preferite e che comprava i dischi dei Cocteau Twins quando era al college; bisognerebbe essere sciocchi per non vedere che ci sono similarità tra di loro. Gli Snowbird, tuttavia, non sono un modo per ricreare la band che non ho più, ma più semplicemente un lavorare con qualcuno di cui amo la voce e con cui è divertente interagire. Per me è impossibile non chiederti qualche dettaglio circa la cancellazione della reunion dei Cocteau Twins al Coachella 2005. Le notizie di quei giorni dicevano che era stato tutto a causa di Elizabeth Frazer e dei suoi rapporti ambivalenti con la band. Che rapporti hai con lei? Una reunion dei Cocteau Twins rimane ancora oggi fantascienza, science-fiction? Solo fiction e fantasy, potrei dire. Non sono sicuro che sia coinvolta molta scienza. Io amo Elizabeth. Lei è una persona straordinaria e una delle voci più originali che avremo mai la fortuna di ascoltare. Io sono stato ancora più fortunato perché ho avuto l’opportunità di lavorare con lei per quindici anni! Robin vive in Francia e non è coinvolto in Bella Union, così non abbiamo molti contatti. Ma ovviamente la musica dei Cocteau

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Twins è ancora li fuori, da qualche parte nel mondo, in ogni momento, e ogni tanto dobbiamo discutere a proposito di una canzone in un film o di una compilation; di solito risolviamo tutto rapidamente. Una reunion sarebbe qualcosa di diverso: tutti noi siamo andati avanti e non sentiamo il bisogno di ritornare a qualcosa che chiaramente non sarebbe senza-dolore. A volte è meglio lasciare le cose da sole. Cosa mi puoi dire di Bella Union? Credo che fosse stata originalmente creata come una label personale per pubblicare materiale d’archivio dei Cocteau Twins e i vostri progetti solisti. Poi il catalogo si è allargato ad includere Dirty Three, Midlake, Beach House, ecc.. Come mandi avanti la tua label? Quanto tempo le dedichi e come stanno andando le cose ora che il supporto fisico sembra svanire a vantaggio di soluzioni di streaming come Spotify e Soundcloud? Non è propriamente corretto. Non è nata per il materiale d’archivio; era una label pensata per pubblicare i nostri nuovi lavori e ogni pubblicazione solista volessimo includere. Ma non funzionò, perché la band si separò. Scritturammo i Dirty Three e partimmo così. Robin decise, una volta che la band non c’era più, che mandare avanti un’etichetta non era per lui, così si trasferì in Francia per continuare con la sua carriera solista separato da Bella Union. Io rimasi a mandare avanti tutto, cercando band che mi piacessero e vedendo dove la cosa mi avrebbe portato. Sedici anni dopo sono ancora qui. Abbiamo ancora i Dirty Three, ma ora anche Flaming Lips, Fleet Foxes, The Walkmen, Beach House, Ballet School, I Break Horses, Xiu Xiu, PINS, Lanterns on The Lake, Veronica Falls, ecc.. Il che mi tiene molto occupato e molto felice. Noi facciamo edizioni in vinile per tutte le nostre band e non trovo che le vendite siano calate. Vendiamo più vinili che mai! Non puoi combattere l’evoluzione e la diffusione di cose

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come Spotify, dal momento che è chiaramente un modello che il mercato nel suo insieme ha deciso di supportare. Non so dire se sia un bene o un male, staremo a vedere. Se un giorno smetteremo di fare vinili, smetterò anche di mandare avanti una label. La copertina di Moon è stata creata da Vaughan Oliver. Il riferimento a 4AD è intenzionale? E’ un modo per chiamare a raccolta i nostalgici (alzo la mano!) o è semplicemente una collaborazione tra artisti che si conoscono e si rispettano? Non c’è un riferimento diretto a 4AD. Quell’etichetta è grande, ma Vaughan ha fatto altre copertine per un bel po’ di altre label e recentemente ha lavorato con noi per una band svedere, I BREAK HORSES, e io amo il suo lavoro. Lui ha amato la musica di Snowbird fin dall’inizio e si è offerto di farci la copertina. Essendo entrambi, Stephanie ed io, suoi fan e sentendo che non ci sarebbe mai capitata un’occasione migliore, abbiamo accettato la sua offerta. E sono contentissimo di averlo fatto, il suo design per Moon è eccezionale. Andrete in tour con Snowbird? Come avete pianificato il live show? Verrete in ItaIia? Nessun tour. Non riesco a vedere cosa possa accadere, veramente. Noi due non stiamo più insieme, e anche se siamo rimasti grandi amici, viviamo in due paesi diversi e nessuno dei due sente che ci sia molta domanda in giro per un duo che suona musica calma e contemplativa nei bar e nei club in giro per il mondo. Mai dire mai, e se qualcuno ci offrisse un buon cachet per andare a suonare, potremmo considerare la cosa, ma non è mai stato nei piani! E’ già stato difficile trovare il tempo per finire l’album. L’Italia si dovrà consolare con i dischi.


Una lista delle uscite più importanti, più un breve sunto di tutte le altre: tutto quel che serve per non perdersi proprio nulla di questo nuovo anno all'insegna del rap. Testi di Gianluca Carletti

Il rap nel 2014 le uscite da tenere d’occhio K e ndrick Lamar – Titolo Da Defi n ire

Good Kid M.A.A.D city è riuscito nell’impresa titanica di far convergere il sempre più frammentato mondo dell’hip hop – ma non solo – verso un verdetto praticamente unanime di piccolo classico contemporaneo. Se poi a un wordplay di livello decisamente elevato aggiungiamo il rumoroso statement di Control, dove con una mossa genialmente provocatoria il Nostro si è proclamato attuale re del rap, è ovvio che tutti i riflettori sono puntati su di lui. Non ci sono ancora molte notizie ufficiali, non fosse che la label Top Dawg ha annunciato uscite da parte di tutto il roster dell’etichetta, in questo nuovo anno. Sicuro è che per rimanere al centro del dibattito, Lamar non potrà prendersi un altro anno di pausa. I fans e i detrattori attendono un nuovo album, i primi per una santificazione già annunciata, i secondi per declassarlo a meteora dal rap. S choolboy Q – Oxymoron

Attualmente T.D.E. è sicuramente l’etichetta hip hop più hot di tutte, non solo perché esprime il campionissimo in carica, ma anche perché propone lo sfidante più quotato. Con Habits and Contradictions (2012) il rapper losangelino aveva dimostrato di saper attualizzare bene la tradizione del rap West Coast, ma il suo rap stradaiolo, incentrato sulla cruda descrizione della vita di strada, ha dovuto cedere il passo al concept più articolato e riflessivo di Good Kid, M.A.A.D. City. Già dall’anno scorso il Nostro aveva dichiarato l’uscita di un nuovo lavoro, provocando grande interesse. Purtroppo i fans sono rimasti delusi da un’uscita costantemente rimandata, ma forse non tutto il male vien per nuocere: Schoolboy ha dichiarato di aver voluto lavorare a lungo al suo nuovo disco perché ossessionato dall’idea di superare l’amico Lamar. La data di uscita è il 25 febbraio e con queste premesse speriamo di vederne delle belle.

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P usha T – King P ush

Senza dubbio i Clipse sono stati tra i gruppi rap più apprezzati dei primi Duemila. Già solo l’annuncio del ritorno discografico di Pusha-T con My Name Is My Name è riuscito a farci sognare una fuga dalla mediocrità del gangsta rap di oggi, anche se purtroppo il risultato finale non è stato altrettanto emozionante. Per non parlare del disco di No Malice, caduto praticamente nel vuoto come i suoi sermoni post-conversione religiosa. Adesso pare che King Push sia in studio, al lavoro su un nuovo disco solista che prevede il ritorno alla produzione di The Neptunes, storico team di Pharrell che ci ha regalato le pagine più belle della breve storia dei Clipse. I presupposti ci sono tutti per un album decisamente migliore di MNIMN; peccato solo per quella news, da poco smentita, che voleva una vera e propria reunion dei due fratelli. M ac M iller and Pharrell – P i n k Slime

Il 2013, con l’uscita di Watching movies with the sounds off, ha visto crescere in maniera sorprendente, e in parte inaspettata, il giovane Miller, che ha compiuto alcuni passi importanti per lasciarsi alle spalle la maschera di eterno adolescente tutto fumo e playstation. Il disco navigava tra alti e bassi, lasciando non del tutto soddisfatti e con la speranza di un qualche passo in più, proprio quello che ci si aspetta dall’annunciato nuovo album in collaborazione con Pharrell. Speriamo che la mano santa di quello che forse è stato veramente l’MVP del 2013 riesca a incanalare Miller verso la sperimentazione di soluzioni più artistiche.

Pus ha T

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Mac Mi l l e r


K iller Mike and El -P – Run the Jewels 2

Vedendolo non si direbbe, ma per un lungo periodo Killer Mike è rimasto in secondo piano, non rientrando tra i personaggi di spicco del rap game. Solo con l’azzeccatissimo R.A.P. muzik è riuscito a mostrare il proprio talento, esaltato dall’ottima produzione del veterano El-P. Proprio questo duo si è dimostrato un accoppiata vincente, distinguendosi come uno dei pochi act hip hop “d’autore” in grado non solo di cementare il rispetto dei fans più hardcore e politicizzati con mosse geniali come il free download dell’intero disco, ma anche di interessare un pubblico meno di settore con produzioni sempre fresche e ad alto tasso adrenalinico. Joey Bada $ $ – B4 Da $$

Per tutti quelli che mal digeriscono il nuovo rap ad alto tasso anfetaminico e le sonorità da club, Joey Bada$$ è stata la più grande rivelazione del rap recente. Sin dal mixtape 1999 si è dimostrato un ragazzo in grado di riportare in auge la grande tradizione del rap più stoned della East Coast. Circondato dai ragazzi altrettanto capaci della Pro Era Crew - tra cui va menzionato almeno Lee Bannon, nome top delle nuove leve di producers – e da alcuni produttori storici, nel 2014 lo si attende con un album solista che speriamo pieno di rime argute e basi più stonate e funky che mai. Raekwo n – F.I .L.A .

Tra i vari membri del collettivo Wu, non tutti hanno avuto una carriera solista particolarmente brillante. Raekwon rimane uno dei pochi ad aver incassato due successi come Only built 4 cuban linx… I e II. Non sembra esserci all’orizzonte una vera e propria parte III, ma Rae pare voler azzardare qualcosa di più ambizioso per rinnovarsi “There are certain sounds I want to explore and not make it just a hardcore album from a hardcore emcee… This album may have more features than I’ve ever had in my life in a good way where it’s a different soup for y’all.”. Non possiamo che sederci e aspettare.

Killer Mi k e

Ra e k wo n

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C hance the rapper – Titolo da defi n ire

Nell’ultimo anno la scena rap è stata presa d’assalto da un’ondata di baby rapper più o meno interessanti. In particolare, la scena di Chicago si è nettamente spostata verso un prodotto adatto ai giovanissimi delle zone più drammatiche con un sound simile a quello di Atlanta, che però rilegge in maniera ancora più alienante. Fortunatamente Chance the rapper, altrettanto giovane e sconosciuto, è riuscito a catalizzare l’attenzione distinguendosi dai suoi concittadini con un tape estremamente maturo nei riferimenti musicali, samples che vanno da Mayfield a J Dilla, e per un approccio più soft e riflessivo. Acid Rap è stata una delle novità più significative dello scorso anno, capace di guardare avanti senza dimenticare il passato. Aspettiamo le nuove mosse di questa interessante promessa. Q - Tip – Last Zulu

Il 9 Novembre 2013 ha visto la celebrazione dei venti anni di Midnight Marauders, uno dei punti più alti dell’hip hop di sempre, ma nonostante il tempo passi inesorabilmente, il vecchio Q-Tip non sembra aver alcuna intenzione di godersi la pensione. Prima ha annunciato di essere, assieme a Rick Rubin, tra i produttori del nuovo album di Kanye West - il che fa sperare che il periodo coatto-industrial si stia chiudendo – e dopo ci ha deliziati con un tape in collaborazione con Busta Rhymes che ha commosso i fans di vecchia data, mostrando i Nostri in grandissima forma. Si sa ancora poco del disco solista che dovrebbe uscire quest’anno, giusto alcune dichiarazioni in cui Q-Tip afferma che sarà molto oscuro e che sarà incredibile. Gli crediamo.

C h a nce th e r apper

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Q- T i p


Sage the Gemi ni – R emember Me

In ambito “rap per muovere il sedere”, sicuramente il singolo Gas Pedal è stata la hit più dirompente dello scorso anno, capace di strappare persino un buon posizionamento nelle classifiche nazionali. Come una canzone di un rapper sconosciuto e non particolarmente dotato riesca a tramutarsi in un anthem da pista, rimane un processo largamente misterioso. Ancora di più se si conta che il risultato di Sage the Gemini è stato raggiunto senza contratti, senza aiuto da parte dell’industria discografica, ma con una diffusione dal basso attraverso i social network. Un processo che ha reso il brano quasi virale, permettendogli di sorpassare i confini di genere per attirare un pubblico, comunque giovanissimo, ma molto più variegato. L’altra faccia della medaglia, però, è che questa alchimia misteriosa delle hit, rimane indomabile e volubile: riuscirà il Nostro a ripetere la magia con il già annunciato nuovo disco o verrà presto scavalcato da un nuovo fortunato? A ltre uscite attese

Non finiscono qui, però, le uscite sul radar per questo nuovo anno. Tra i grossi nomi in ambito r’n’b si attende un nuovo disco di Frank Ocean - sperando che sia capace di battere anche il già maturo songwriting di Channel Orange - e di Kelis, mentre in ambito rap teniamo già pronte le matite blu e rosse per il già citato Kanye West - i suoi impegni di designer gli lasceranno tempo per sfornare ancora grandi classici – e il ritorno di Nas, che con Life is Good si è mostrato in buona forma. Grande curiosità anche per Mastermind, il nuovo di Rick Ross, nella speranza che il musicista riesca a consolidare un successo commerciale pluriennale con un disco artisticamente più ambizioso. Quando leggerete queste righe sarà probabilmente già uscito l’atteso Lord Steppington, disco in collaborazione tra due mostri sacri del rap underground come the Alchemist e Evidence. Un lavoro che ha stuzzicato la fantasia di tutti i patiti del bel boom bap vecchia scuola. Per quanto riguarda i nomi nuovi, sono in vista alcuni dischi interessanti. Oltre all’ennesimo debutto di un Asap qualcosa – ora è il turno di Asap Nast, che sembra ancora più caratterizzato in senso hardcore di Asap Ferg, e che molto probabilmente sarà altrettanto deludente – c’è grande attenzione per il giovane Vince Staples, giovane rapper legato alla scena Odd Future. Lo scorso anno il Nostro si è distinto con il buon Stolen Youth, interamente prodotto dal prezzemolino Mac Miller, e si affaccia al 2014 con un mixtape già annunciato che dovrebbe vantare produzioni di classe da parte di No I.D., Evidence e Earl Sweatshirt. Non ci sono dischi annunciati, ma probabilmente farà parlare di sé anche Vic Mensa, amico di Chance the Rapper, che col mixtape Innanetape ha mostrato di saper padroneggiare lo stesso stile morbido e jazzato. Ultimo nome da segnare è quello di Isaiah Rashad, neo acquisto dal Tennessee per la label Top Dawg, che con il suo primo demo (in uscita il 28 gennaio) cercherà di sfilare lo scettro del country rap dalle mani di Big K.R.I.T. e Currensy; non guasta l’aiuto di compagni importanti come Jay Rock e Schoolboy Q.

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Abbiamo parlato con uno dei produttori emergenti più interessanti in ambito breakbeat/ elettronico. Gadi Sassoon, in arte Memory9, ha trascorso un po' di anni a Boston, alla Berklee School of Music. Con il diploma è tornato a Milano, e a Londra e si è imposto come uno dei personaggi di punta del nuovo beatmaking. Testo di Marco Braggion

Memory9 Mnemonic Globetrotter

“Ho vissuto per mesi senza pagare l’affitto, ospite a casa del batterista di un gruppo in uno stabile dentro al quale abitava Adele, prima che diventasse qualcuno; il tipo era l’ex fidanzato della cantante dei Noisettes, che quindi era sempre lì anche lei. Sempre da quel giro, anche l’attuale batterista dei Savages. Tutte donne!” Abbiamo parlato via Skype con Gadi Sassoon, che da un po’ di anni, con il moniker di Memory9, sta sfornando EP di elettronica a cavallo fra techno, sound design e breakbeat. Dopo essersi laureato in Sound Synthesis a Berklee, Boston, i Nostro è tornato in Europa (a Londra e a Mila-

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no) e ha cercato un suo percorso di vita e professionale. Ha fatto la gavetta a Londra suonando in più feste e in più locali possibili, conoscendo i nomi giusti dell’ambiente. Oggi ha fondato una sua etichetta (la Mnemonic Dojo) sulla quale pubblica la sua musica e quella di nuove promesse dell’underground italiano e non. Abbiamo parlato del suo nuovo EP, Red Falcon, uscito qualche settimana fa, di quello che ha in mente per il futuro e di cosa significhi fare musica oggi, passando attraverso un cappello magico dei ricordi da cui spuntano pure i nomi di Adele e Flying Lotus…


Partiamo direttamente dall’ultimo EP, che mi sembra costruire un ponte tra melodia e ritmo, nel senso che richiama in parte sonorità Massive Attack e Flying Lotus, tagliate con melodie orientaleggianti. Ascoltando anche il lavoro dell’anno scorso (Black Dragon EP), mi sembra di poter dire che i due dischi sono due facce della stessa medaglia. Black Dragon era più spezzettato, mentre su Red Falcon c’è sempre il break, ma c’è anche la melodia… Prima di Red Falcon ci sono stati Black Dragon e The Abyss Within. Il primo era più incentrato sui beats, mentre il secondo è stato un esercizio di sound design, di lavoro sui suoni. In Red Falcon ho voluto riportare un pochino più centrali sia un discorso melodico e armonico, quindi di scrittura più tradizionale, sia un discorso strumentale. È una parte che ho sempre voluto integrare nella mia musica come Memory9, ma finora sono stato abbastanza timido da questo punto di vista, perché volevo raggiungere un certo livello dal punto di vista della produzione, prima di mettermi a inserire elementi che non sono tanto facili da integrare. Tutto il disco parte come produzione, a livello cronologico, da The Dodecahedron, che in realtà era un esperimento in 12/8 che ho fatto un pomeriggio pensando di mettere insieme un po’ di elementi jazz su una sonorità ancorata sia al beatmaking più tradizionale che al footwork e a queste sonorità che ci sono adesso, molto 808, molto nervose. Da lì è nato il concept di tutto. A differenza del passato, in cui partivo prevalentemente da un beat, qui sono partito dalle melodie, da serie di accordi o, come nel caso di Portals, da un campione melodico di uno strumento tradizionale cinese. Quella, effettivamente, è orientaleggiante, nelle intenzioni… C’è stata quindi un’evoluzione dal ritmo alla melodia. Questo approccio mi ha fatto venire in mente, in particolare, le cose che fa Gold

Panda… Conosco bene Derwin. Suonavamo insieme in un ristorante di sushi a Londra. Non sei il primo che me lo ha detto. Un socio dello studio trovava anche somiglianze con le cose della Ghostly International. Io non ascolto molto quel genere, quindi probabilmente è una questione di hivemind, si tende comunque a convergere un po’ tutti sulle stesse cose in un dato momento. Ti dirò che per fare questo disco mi sono alienato da quella che è la produzione elettronica contemporanea. Visto che esce un sacco di roba molto interessante continuamente, se devo produrre un disco che abbia un minimo di coerenza faccio molta fatica a non essere distratto. Ho ascoltato Miles Davis, e poi cose – anche se fa molto “cliché” dirlo – tipo Steve Reich, perché lui fa questi layer che si incastrano in cui hai una frase in tre, una in cinque, una in due… anche nell’ottica di riprodurre i brani dal vivo… In passato facevi uscire tracce e lavori più brevi nel minutaggio, invece ora la produzione è aumentata. Hai intenzione di pubblicare un album o di fare qualche data live? Il live è un eterno work in progress. Sto iniziando adesso a realizzare quello che ho voluto per molti anni: un intreccio tra cose strumentali ed elementi elettronici. Ho fatto un paio di date negli ultimi mesi, tra cui il Soundwave (il festival in Croazia), una data al Gretchen a Berlino e una in Italia in cui ho iniziato a sperimentare in questa direzione vedendo che funziona, dunque la risposta è sì ad entrambe le domande. La prossima uscita di Memory9 sarà un full length e poi ci sarà un live tutto di pezzi originali, più da ascolto probabilmente, con chitarra e con un po’ d’elementi live, tipo uno strumento che ho costruito lo scorso anno. Mi hanno ingaggiato dalla Istanbul Design Biennale per costruire un controller. Mi sono anche costruito un aggeggio con quattrocento bottoni retroilluminati, praticamente è un monome con due launchpad sui

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due lati e un po’ di pan-pot, robe così che faccio passare attraverso Ableton e Max. Ora ho un focus abbastanza preciso su quello che voglio fare, e su come voglio che evolva il sound. Quando sono arrivato alla fine degli ultimi tre dischi dicevo: “Ok, perfetto. Tutte queste cose adesso le posso re-incanalare in un’altra serie di produzioni che andranno così”. Si sente che ti sei isolato. Quello che mi sembra tu stia facendo, con il tuo percorso, è una cosa che non fanno in molti. Spesso si preferisce pubblicare il singolo e fare l’album con una raccolta di pezzi che vadano bene per pochi ascolti, quasi radiofonici. Il percorso che stai facendo tu, invece, assomiglia molto a quello che facevano gli artisti Ninja Tune negli anni ‘90, tipo Amon Tobin o DJ Food, che costruivano un sound personale. Pensi che sia un retaggio della tua esperienza americana? Sicuramente è un po’ un retaggio di tutta la mia esperienza musicale nel suo complesso. Da un lato sono legato a doppio filo alla scena musicale di Londra, ci ho vissuto per tanti anni… Dopo che sei uscito da Berklee, perché non sei rimasto in America? A Berklee avevo una borsa di studio. Quando ho finito mi sono guardato un po’ intorno. Stiamo parlando di quasi 10 anni fa. Fare musica elettronica negli Stati Uniti non era facile, non si poteva suonare la drum’n’bass nei locali il sabato per pagare l’affitto e le bollette. Avendo un background che sta comunque tra il jazz e l’elettronica, per me rimanere negli Stati Uniti sarebbe stato un po’ ostico, ed era un percorso che si era abbastanza esaurito a quel punto. Durante gli studi mi ero innamorato della scena britannica. In realtà, prima sono tornato in Italia e ho cominciato a suonare a Londra una volta ogni due settimane, per una serie di giri che oggi si sono trasformati in quello che è Soundcrash, che è un gigante delle produzioni live a Londra. E quindi sono diventato resident in queste sera-

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te. Con l’incoscienza di un ventitreenne ho detto: “Vado”. Lì è partita un’avventura assurda, nel senso che ho vissuto per mesi senza pagare l’affitto, ospite a casa del batterista di un gruppo in uno stabile dentro al quale abitava Adele, prima che diventasse qualcuno; il tipo era l’ex fidanzato della cantante dei Noisettes, che quindi era sempre lì anche lei. Sempre da quel giro, anche l’attuale batterista dei Savages. Tutte donne! Quindi sono tornato in Italia, non sapendo bene cosa fare; ho cominciato ogni tanto ad andare a suonare in giro, anche cose del tipo “meno-checentri-sociali”, quegli eventi un po’ strampalati di pseudo arte elettronica di metà anni 2000… molti cercavano di organizzare queste cose senza capo né coda. Mi son ritrovato a Londra, al posto giusto nel momento giusto. A un certo punto suonavo tutte le settimane al Cargo o al Koko, aprendo per tutti: da DJ Krush ai Plaid, a Guru Jazzmatazz, per dire. Ero il tappabuchi di questa production company che ha fatto piazza pulita a Londra negli ultimi anni… Ho letto che hai fatto date per la crew di Flying Lotus… Lì ero molto in vetrina, aprivo per tutti, e mi sono fatto molti contatti. Una volta mi è capitato di suonare alla Rhythm Factory, in East London, prima di Kode9. Quella sera Steve Goodman non si è presentato e, al suo posto, sono venuti i Glitch Mob. Avevano già iniziato a fare la boy band (ride, ndSA). Dopo di me suonava Gaslamp Killer: ai tempi (e stiamo parlando del 2008/09) l’hype Brainfeeder si stava gonfiando. Gli è piaciuto il mio set e mi ha detto: “Se vieni a Los Angeles ti faccio suonare al Low End Theory”, per cui mi sono organizzato per varie date, ho fatto un workshop al Berklee College of Music, poi mi sono spostato un po’ e così sono andato a suonare a L.A.. A quel discorso sul fatto che il mio sound venga da una consapevolezza, devo rispondere ‘ni’, nel senso che molti quando parlano di me scrivono “London-based produ-


cer” perché sono percepito come uno che vive a Londra, sicuramente non in Italia. Il mio punto di riferimento, più che una scena, sono certe etichette londinesi e/o germaniche. La label che mi interessano sono quelle che osano di più e sono meno strettamente legate al dancefloor. …ovviamente non ti stai riferendo a Warp o Ninja Tune Ninja Tune, a un certo punto, in catalogo aveva addirittura i Death Set. Una scelta incomprensibile. Poi bisogna dire che queste due label hanno differenziato l’offerta, ma hanno anche mantenuto un certo tipo d’approccio. A quali etichette ti riferivi? La !K7, la Monkeytown di Modeselektor, anche la BPitch Control. E poi tante altre cose più piccole, tipo quelli che pubblicano Valance Drakes, o la Cosmic Bridge di Om Unit per esempio. O Project: Mooncircle di Gordon, che è legato alla Red Bull Music Academy. Venendo da un passato musicale non da DJ, ma da uno che ha studiato musica e poi si è avvicinato all’elettronica per interesse, è più naturale continuare a ragionare per composizioni di album, filoni di lavoro un po’ più grossi. Quando ho cercato di fare il DJ, mi è sembrato abbastanza fasullo, me lo sono sentito addosso abbastanza male. Molti pensano che ci si possa inventare DJ in un pomeriggio, in realtà non è vero. OK, mixare dischi non sarà la skill più difficile del mondo, ma il DJ è una libreria ambulante nella testa. Ha un approccio alla musica che è completamente diverso da uno che scrive note su un pentagramma. Mi è piaciuto molto il remix che ti ha fatto Om Unit per la traccia The Abyss Within. Come hai fatto a conoscerlo? Gli hai proposto tu di fare il remix? Siamo in contatto stretto da un po’. Ci siamo conosciuti tramite amici comuni nel giro beatmaking “alternativo” di Londra e siamo diventati amici. Gli ho fatto sentire la release quando ancora era in uno stato di bozza, gli è piaciuta,

così gli ho chiesto se voleva remixarla e da lì è nato tutto. Queste sono cose che, quando i producer diventano amici, bene o male si fanno, non tanto in una logica di scambio, quanto di collaborazione. Ci parli un po’ della tua label Mnemonic Dojo? In catalogo hai molte produzioni tue, ma hai prodotto anche Redivider, un artista di San Francisco. È stata una necessità aprire un’etichetta per pubblicare le tue cose? Hai intenzione di pubblicare materiale di altri artisti? Aprire un’etichetta è un po’ un cammino in salita, perché vendere dischi oggi non è proprio la cosa più facile del mondo. Eppure volevo farlo da molto tempo. Ho lavorato con tante label indipendenti e ho sempre sofferto il fatto di non avere il controllo di cose come la promozione, la distribuzione, la presentazione e altro. A un certo punto, ho fatto lo stesso discorso che ha fatto Coldcut 25 anni fa, ovvero “fare qualcosa in cui decido io l’estetica e tutto”. Poi volevo dare spazio ad artisti che conosco da molto tempo e che non hanno nessun outlet. Redivider, ad esempio, è un ragazzo di San Francisco, produttore bravissimo che è anche programmatore per una grande azienda di software musicali. A breve ci saranno altre uscite, varie cose di altri artisti che sono in cantiere da molto tempo ma che continuano ad essere ritardate per vari motivi. Ci sarà un’uscita di DNN, che è un ragazzo di Milano. Porta avanti la scena milanese dal punto di vista delle “serate”. È uno dei soci fondatori di Well Founded e gestiva anche il Sabato Elettronico al Rocket nuovo. Lui è piuttosto giovane e molto in gamba. L’ho conosciuto perché insegnavo sound design allo IED e lui è un mio ex studente. Io poi sto collaborando con la tastierista degli Easy Star All-Stars, quelli di The Dub Side Of The Moon (uno dei gruppi più importanti, a livello internazionale, di cover e arrangiamenti di grandi classici in chiave dub, ndSA) per un pezzo in stile più reggae-elettronico.

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Una chiacchierata con una delle figure più atipiche e geniali dell'aristocrazia folk contemporanea, per conoscere meglio ombre e chiaroscuri dell'uomo e del musicista Testo di Giulia Antelli

© Ludmilla Cerveny

Matt Elliott The Pain That’s Yet To Come

“[The Right To Cry] parla di una donna che nonostante fosse molto presa da me, ha preferito non dare alcuna possibilità alla nostra relazione (e lo ha fatto per proteggersi). È per questo motivo che ha perso il diritto di piangere. Ma forse ha fatto bene a scappare, sono un uomo abbastanza incasinato…” Giusto un paio di mesi fa vi abbiamo parlato del

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magnifico ritorno di Matt Elliott, con un album – Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart, il sesto della sua carriera – che ce lo ha mostrato leggermente diverso dal passato. Un uomo, vi abbiamo detto, che, anche se non ancora del tutto riconciliato con se stesso, è presumibilmente venuto a patti con i propri tormenti. E dopo aver percorso i desolanti sentieri


dell’ubriachezza, del fallimento e degli ululati (con la trilogia delle Drinking, Failing e Howling Songs), lo vediamo adesso nel tentativo di ricostruire se stesso, dopo essersi fatto a pezzi da solo, come aveva testimoniato un paio di anni fa la scarna bellezza di The Broken Man. Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart, dunque, rappresenta un nuovo viaggio, attraverso brani che, seppur ancora profondamente legati alle sensazioni e ai motivi già esplorati, mettono in discussione prima di tutto l’uomo, oltre che la musica. Quella di trovarsi in una nuova dimensione umana ed artistica è un’impressione che Matt stesso ci ha confermato di avere, nel corso della nostra chiacchierata. Ci troviamo davanti a un personaggio difficilmente inquadrabile, scuro e introverso, ma a modo suo gentile, sensibile e romantico come non te l’aspetteresti. Oneste ed essenziali come le sue canzoni, le parole di Elliott rivelano e confermano le qualità di un musicista straordinario, un songwriter sincero ed atipico poco incline a mostrarsi al di fuori dal palco, ma allo stesso tempo curioso e attratto verso tutto ciò che riguarda i tortuosi meccanismi emotivi che generano la sua musica. Qual è stata l’evoluzione da The Broken Man a Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart? Nel comunicato stampa hai dichiarato che, rispetto al passato, nel nuovo album ci sono atmosfere più soft e meno cupe, come se avessi voluto mostrare una nuova dimensione d’artista, ma anche un lavoro di rinascita. In questo senso, mi ha colpito l’affermazione in cui dici:”Emotions are no longer opposed, they complement in the most beautiful way”. Come spieghi questo cambiamento? A dire la verità non mi occupo mai personalmente della press release, perché di solito si tratta di poche righe in cui gli uffici stampa scrivono le solite stronzate senza senso. La mia

musica cambia di volta in volta per le ragioni più diverse, sto invecchiando ma fortunatamente sto anche evolvendo verso qualcos’altro. Per Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart ho lavorato con un grande produttore e ingegnere del suono come David Chalmin che ha portato al disco una bella dose d’energia. Per rispondere alla tua domanda, direi che le emozioni, più che essere complementari, adesso sono più luminose, anche se credo che i testi siano tra i più amari che abbia mai scritto. Le canzoni del nuovo album mantengono la loro funzione di racconto ed espiazione del dolore, ma sembra che stavolta ci sia una sorta di luce assente dai dischi precedenti. Potremmo dire che ci siano due anime contrapposte ma, per molti versi, unite? Se sì, vorrei sapere da te se c’è una canzone in particolare che possa riassumere quest’impressione… Beh, The Broken Man era un disco davvero cupo, e credo che non avrebbe potuto esserlo più di così. Questa volta non ho deciso coscientemente di registrare un album meno scuro e tormentato, e lo dimostra bene The Right To Cry, che ne rappresenta il nucleo centrale: è la prima canzone che ho scritto, e probabilmente anche la più importante. Ecco, a questo proposito credo che proprio The Right To Cry sia davvero una delle canzoni più interessanti. Simboleggia tutti gli elementi del disco, sia a livello di tematiche che a livello di sonorità. Puoi dirci qualcosa in più a riguardo? The Right To Cry è come molte altre mie canzoni, parla dell’avere il cuore spezzato e quindi non si discosta molto da tutto quello che ho fatto finora (ride). Ma è colpa mia, spesso mi sembra che farmi spezzare il cuore sia qualcosa che io cerco deliberatamente: sono come un fottuto drogato, ho bisogno di essere distrutto. Questo brano, in particolare, parla di una donna che nonostante fosse molto presa da me, ha preferito

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non dare alcuna possibilità alla nostra relazione (e lo ha fatto per proteggersi). È per questo motivo che ha perso il diritto di piangere. Ma forse ha fatto bene a scappare, sono un uomo abbastanza incasinato (ride ancora). Un altro aspetto che colpisce nel tuo percorso, e che a mio avviso è riconfermato anche nel nuovo album, è la tua figura di cantautore all’interno della contemporanea scena folk. In tutti i tuoi dischi sembra esserci una volontà di ricerca che li rende lontani ed atipici, ma comunque legati e connessi alla tradizione cantautoriale inglese ed americana. La tua è una lezione rielaborata al massimo grado, tanto da far pensare a una sorta di post-cantautorato. Sei d’accordo con questo punto di vista? Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart è effettivamente l’unico album che potrei considerare “americano”, visto che i lavori

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passati sono stati decisamente più eurocentrici. Però non direi di essere stato influenzato in modo particolare dal british folk: piuttosto, le mie influenze derivano da musica appartenente ad ogni genere e luogo, tranne che all’America (ride). In generale, odio quando i brani prendono una piega troppo bluesy o quando assomigliano troppo a qualcos’altro: a quel punto cerco di cambiarli. Molti pensano erroneamente che a livello di suoni sia stato influenzato dalla musica balcanica o da quella spagnola, in particolar modo dal flamenco, ma non è così. È vero, apprezzo molto questo tipo di musica, come apprezzo tutta la tradizione folk europea e internazionale, ma il motivo per il quale mi ci sono avvicinato è perché volevo allontanarmi da certi standard del cantautorato. Ho rifiutato la tradizionale scala pentatonica in favore di scale ibride come quella est-europea, che alla fine è quella che uso di più. Quindi non penso che la mia musica appartenga ad un genere in parti-


colare, ma mi fa piacere che venga associata al folk, dato che è una grande ed onesta tradizione. Per me “folk” significa esprimere e condividere le emozioni, cioè l’opposto della musica commerciale, che serve solo per fare soldi e creare nuove mode. Cambiando argomento, quali sono state le influenze principali durante la registrazione del disco? Ci sono state altre suggestioni che hanno influito sull’album oltre a quelle strettamente musicali? Potrei farti moltissimi esempi, e molti non sono musicali, ma arrivano prevalentemente dalla letteratura e dal cinema. Mentre stavo registrando il disco ho preferito isolarmi dalla musica, soprattutto da quella che poteva essere vicina alla mia. Le influenze più importanti, infatti, vengono per lo più da situazioni in cui mi ritrovavo ad osservare le cose da lontano. Vorrei chiederti qualcosa anche riguardo al titolo e alla copertina del disco. Entrambi mi hanno fatto pensare a una sorta di rottura con il passato, in particolar modo la cover, ma allo stesso tempo mi è venuta in mente anche una continuità con esso, come se tu avessi voluto dire che non c’è stato un distacco definitivo. Il titolo, invece, mi sembra quasi ottimista, anche se in maniera singolare. Tutti i miei album vengono fuori dalla mia anima, quindi sono tutti legati tra loro, però hai ragione: volevo davvero che Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart venisse considerato in maniera diversa dalla trilogia e da The Broken Man. Per quanto riguarda il titolo, ci sono un sacco di espressioni che la gente usa per consolarsi da sola, proverbi come “il mare è pieno di pieno di pesci” oppure “è meglio aver amato e perso che non aver mai amato”: sono davvero frasi prive di significato, ed è da qui che mi è venuto in mente il titolo. Ho pensato che fosse un buon modo per dire che anche se i cuori vengono distrutti dall’amore, continuano

comunque a funzionare: il mio si è spezzato così tante volte da essere diventato insensibile, ma come ho detto prima è un meccanismo che vado a cercare io stesso. In fin dei conti, sono una persona abbastanza sensibile, ma anche io, probabilmente, ho ferito a mia volta delle persone. Rifiutare l’altro, è quello che facciamo costantemente noi umani: le persone sono creature dure e sgradevoli, soprattutto nei confronti dei propri simili. E riguardo ai due remix alla fine del disco firmati Third Eye Foundation cosa ci dici? Come devono essere considerati? Sono da ascoltare sotto l’effetto di una dose massiccia di droghe… (ride) Scherzi a parte, è stato molto divertente registrarli. Non avevo mai remixato “me stesso” prima d’ora, infatti Stephane di Ici d’Ailleurs [la label di Elliott, ndSA] all’inizio aveva un po’ di timore a chiedermelo, ma poi mi sono divertito, anche se ci è voluta tutta la mia vecchia energia da Third Eye Foundation. Ultima domanda: Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart è il tuo sesto album, come lo giudichi rispetto ai dischi precedenti? Potremmo dire che segna una nuova tappa nel tuo percorso? Beh, è un altro passo lungo il mio viaggio verso la morte (sorride). Vedremo, sto già pensando al prossimo disco, quindi dovrete aspettare e vedere cosa verrà fuori.


I Giuda sono il gruppo italiano del momento. La stampa li insegue, gli stranieri ce li invidiano. Dal canto loro, i Nostri continuano a far divertire a colpi di rock sguaiato e chiassoso. Meno banale è il fatto che la loro musica e la loro immagine siano il frutto di un'appassionata operazione filologica. Testo di Diego Ballani

Giuda Unholy glamorous rock'n'roll

E’ un fenomeno genuino, quello dei Giuda. Nati dalle ceneri dei Taxi, formazione di culto del punk nostrano, i romani hanno appena pubblicato l’atteso secondo album e valicato i confini dell’underground. I primi ad accorgersene sono stati gli inglesi, che dopo una serie di concerti sold out ed endorsement insospettabili (tipo quello di Joe Elliot, il cantante dei Def Leppard, che ha inserito la loro Number 10 nella lista delle migliori canzoni glam di sempre) li hanno consacrati come una delle realtà rock’n’roll più divertenti e scatenate del continente. Poi sono arrivati i riflettori della stampa “generalista” nazionale, attirati dal connubio fra rock e calcio

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di cui si nutre il loro immaginario. E’ su questo spunto che parte per la nostra chiacchierata con Lorenzo Moretti, chitarrista e autore dei brani, nonché musicista meticoloso e appassionato fan di rock dei 70s. Direi che le cose stanno procedendo in fretta. Ultimamente si è parlato molto di voi su quotidiani e telegiornali. Cosa pensate di questa attenzione che vi è stata riservata dalla stampa non di settore? Per noi è positivo. Il nostro pubblico si è allargato rispetto a qualche anno fa. Ce ne stiamo accorgendo anche all’estero, dove ci capita spesso di fare sold out. E’ bello vedere che c’è molta più


attenzione verso quello che stiamo facendo. Ho notato che nei servizi viene dedicata molta attenzione al legame con il calcio, una cosa che a noi italiani sembra molto strana… …già, ma in Inghilterra, sin dagli anni 70, è sempre stata una cosa normale dedicare una canzone alla propria squadra (e a tal proposito, mi vengono in mente gli Slade). In realtà, nei nostri testi non parliamo solo di quello. Parliamo un po’ di tutto quello che ci piace, per cui anche di calcio e, nel nostro caso, della Roma. Mi spieghi com’è successo che, dopo la fine dei Taxi, siate passati ad un genere (il glam) così poco popolare dalle nostre parti? Intendo soprattutto quello minore, a cui voi sembrate ispirarvi (il cosiddetto “bovver rock” di Jook, Hector ed altri nomi dimenticati del sottobosco inglese dei 70s, nSA.)… Diciamo che dentro il nostro sound non c’è soltanto il glam. Io credo che si senta ancora tutto il nostro background, gli ascolti di punk rock inglese e pub rock. Di gruppi come Eddie and The Hot Rods, Slaughter and The Dogs e Cock Sparrer (soprattutto quelli del primo periodo). Sono gruppi che a loro volta avevano ascoltato, ed erano stati influenzati, da gente come Slade, Sweet e Bowie. Credo che il nostro sia un percorso naturale. Abbiamo suonato per anni punk rock, poi abbiamo iniziato ad ampliare gli ascolti e siamo andati alla radice di quel suono. L’artefice a livello musicale sono stato io, perché sono stato il primo ad interessarmi ai gruppi minori del glam. All’inizio ci hanno fatto sorridere. E’ come quando scopri che oltre a Sex Pistols e a Ramones, ci sono stati molti gruppi punk sconosciuti. La stessa cosa ci è successa con il glam e il rock dei 70s. C’è qualche album che ti ha influenzato maggiormente? Non c’è un album in particolare. Ci sono talmente tante cose che ci hanno influenzato: dai gruppi inglesi dei primi anni ‘70 come Slade,

Faces o Status Quo, a quelli australiani postEasybeats e pre-AC/DC, che hanno influito molto sul nostro modo di suonare. Non dimentico neanche band degli anni ‘60 come i Troggs. Poi, naturalmente, per le melodie, i Beatles sono stati fondamentali. Mi ha colpito molto la meticolosità che mettete nel ricostruire un certo immaginario 70s (nei suoni, nell’outfit e nelle grafiche dei dischi). Mi sembra che questo abbia contribuito a fare la differenza… Non lasciamo nulla al caso, tantomeno le grafiche, che sono una parte fondamentale di un disco. Siamo tutti amanti dei vinili. Poi, per quanto mi riguarda, sono ancora fra quelli che quando mettono su un disco, studiano copertina, liner notes e tutte le finezze del packaging. Credo proprio che anche da questo dipenda una piccola parte del successo dei nostri album. Poi noi siamo i primi a giocare con questa cosa del glam rock e credo che, se si sta al gioco, ci si possa divertire. Visto che siete stati parecchie volte a suonare in Inghilterra, sono curioso di sapere qual è la reazione degli inglesi quando vedono un gruppo italiano che si confronta sul loro terreno. Le prime volte che siamo andati a suonare in Inghilterra non ci aspettavamo un grande accoglienza, e invece è andata bene e ogni volta che ci siamo tornati la situazione è stata migliore della volta prima. Ci siamo ritagliati un nostro pubblico e gli ultimi concerti che abbiamo fatto sono stati sold out. Si parla di locali da circa 200 persone. Anche la stampa locale ci ha trattato bene, da Mojo a NME… Proprio su NME ho letto una recensione che parlava di voi come della cosa più 70s capitata dopo i 70s. Alla fine avete preso un 8… E’ vero, per noi è stata una grande soddisfazione.

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Che tipo di pubblico vi viene a vedere all’estero? Abbiamo un pubblico molto eterogeneo. Dipende molto dal paese in cui suoniamo. In Germania, ad esempio, ci è capitato di suonare principalmente per punk e skins. In Spagna, invece, il nostro pubblico è più quello del rock’n’roll o dei festival 60s. Ovunque, soprattutto in Francia, abbiamo un pubblico composto sempre più da “regolari”. Questo perché, per fortuna, la nostra musica sta attirando sempre più persone. Quando abbiamo suonato in Inghilterra, in mezzo al pubblico c’erano anche personaggi come Phil King (ex Jesus and Mary Chain e Lush) e Robin Wills dei Barracudas. Anche Tony Silvester, il nuovo cantante dei Turbonegro, è venuto a vederci ed è rimasto entusiasta. Eppure anche di fronte a un successo come il vostro, c’è chi storce il naso dicendo che non siete rappresentativi del rock che si fa in Italia… Capisco cosa vuoi dire, ma va bene così. Per quanto mi riguarda, è il più bel complimento che ci possano fare. Ma c’è qualche gruppo dell’underground italiano a cui siete particolarmente legati? Ci sono diversi gruppi a cui siamo legati da una

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lunga amicizia e dalla frequentazione del giro punk (mi vengono in mente i Leeches). Un gruppo che mi piace molto e che seguo sono i Faz Waltz. Anche loro hanno le nostre stesse influenze, anche se forse si ispirano di più ai T. Rex e al primo Elton John. Credo che siano un gruppo molto interessante. C’è qualche disco del 2013 che hai apprezzato? Questa è dura…ho provato ad ascoltare l’ultimo di David Bowie sull’onda delle recensioni entusiastiche. Ho apprezzato qualche canzone, ma non mi pare si possa paragonare a dischi come Hunky Dory o Ziggy Stardust. Ho ascoltato anche l’ultimo di Paul McCartney. Che dire? E’ sempre un grande e ci sono alcuni pezzi veramente niente male. Per il resto non ci sono molte proposte attuali che mi abbiano colpito. Sicuramente è colpa mia, per certe cose sono un po’ intransigente… Mi parli un po’ di Let’s Do It Again? Ho letto che lo avete registrato quasi tutto in analogico… Come per il disco precedente, Let’s Do It Again è stato prodotto da me e da Danilo Silvestri. Ormai siamo inseparabili. La lavorazione è stata più semplice rispetto al disco precedente, per-


ché sapevamo che cosa volevamo ottenere. E’ vero, è stato registrato interamente in analogico su un nastro da 2 pollici, con un vecchio Studer a 24 tracce che abbiamo trovato in uno studio qui a Roma. Abbiamo fatto le riprese in diretta, dopodiché, per gli overdubs, (anch’essi in analogico) è stato usato un registratore più piccolo che ci ha permesso di continuare a lavorare nel nostro studio a costi contenuti. Credo che per arrivare ad un certo tipo di suono sia importante registrare su bobina. Altra cosa importante è l’utilizzo della strumentazione corretta. Se vuoi posso scendere nei dettagli più tecnici… …volentieri… Abbiamo amplificatori francesi, dei Bouyer, che abbiamo trovato dopo parecchie ricerche. Hanno solo la manopola del volume e dei toni. Li abbiamo modificati per ottenere quel crunch che senti, un po’ primi AC/DC, un effetto molto naturale che ci piace parecchio. Sulla batteria, poi, c’è un gran lavoro. Ha un’accordatura particolarissima… è scordata all’inverosimile, quasi insuonabile, ma serve per avere quel tipico sound “grosso”. Il rullante è ultra compresso, ci vengono applicati sopra dei clap, registrati in differenti tracce, sommati e alzati a volumi indicibili. E’ quello che ci porta ad aver quel suono alla Gary Glitter. Insomma, non avendo la fortuna di andare in studi più grandi, siamo riusciti a fare tutto nel nostro studio. Quanto è stato importante il cambio di etichetta e di promoter per il vostro salto di qualità? Il cambio di etichetta è stata una cosa naturale, dopo le buone vendite di Racey Roller. A quel punto si sono fatte avanti diverse etichette. Noi ci teniamo a stampare il disco in Italia per conto nostro, perché è fondamentale avere i nostri dischi da vendere ai concerti. Poi c’è stato questo incontro con la Damaged Goods. E’ una storica label britannica ed è stata importate nel

farci guadagnare le attenzioni del pubblico inglese. Per quanto riguarda il cambio di agenzia, inizialmente facevamo tutto da soli, poi siamo passati alla Otis, con cui ci siamo trovati molto bene. Da circa un anno siamo con Barley Arts. Certo, alcune cose sono cambiate. Si tratta di una delle agenzie più grandi e longeve, esiste dal ‘79. Diciamo che va molto bene. E crediamo che anche loro siano molto contenti. Dal vivo introdurrete qualche cambiamento, per rendere al meglio gli arrangiamenti più sofisticati dei nuovi pezzi? Per ora andiamo avanti così. Quella di introdurre qualche elemento in più, è una cosa a cui abbiamo già pensato. Non sarebbe male sentire dal vivo un piano honky tonk o un synth, visto che li abbiamo usati anche nelle registrazioni. Diciamo che non è ancora il momento, visto che come gruppo abbiamo trovato un’ottima amalgama e riusciamo a cavarcela anche con i pezzi più complessi. Dopotutto sono brani nati dal vivo, non in studio come quelli del disco precedente. Sono nati dall’esigenza di allungare la scaletta proprio perché, dopo il successo di Racey Roller, abbiamo iniziato a fare molti concerti. Pensi a Let’s Do It Again come all’album della maturità? Hai già iniziato a preparare nuovi pezzi? Non so, tutti ci dicono che Let’s Do It Again è un album maturo ma, secondo me, è ancora il fratellino di Racey Roller. Credo che in futuro ci possano essere ancora aggiustamenti. Per il momento ho scritto un solo pezzo nuovo. Ha un riff molto potente che ti si stampa in testa. Ascoltandolo, però, direi che non è molto diverso da quanto fatto finora. Da qui al prossimo disco, di strada da macinare c’è ne sarà parecchia. Magari, nel frattempo, scopriremo di essere bravi a scrivere ballate. Non credo davvero, ma non si può mai dire!

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Una sintesi musicale nata in uno spazio mentale, prima che fisico, idealmente posizionato tra Sicilia e Australia ma in realtà frutto di un'intesa (umana e artistica) spesa tra vinili di seconda mano, nostalgie d'infanzia, samples, psichedelia, exotica, pellicole cinematografiche ingiallite. La nostra intervista a Marta Collica dei Sepiatone Testo di Fabrizio Zampighi

Sepiatone La memoria sensoriale dei suoni

“L’idea del richiamo dei ricordi, di una memoria sensoriale dei suoni che raggiunge un momento presente e lo permea inevitabilmente”: tutto il senso del progetto Sepiatone è probabilmente in queste parole di Marta Collica – tratte dall’intervista che segue – e in un terzo disco, Echoes On, che dell’universo del gruppo rappresenta il sunto migliore di sempre. Una sintesi musicale nata in uno spazio mentale, prima che fisico, idealmente posizionato tra la Sicilia e l’Australia ma in realtà frutto di un’intesa (umana e artistica, tra la stessa Collica e Hugo Race) spesa tra vinili di seconda mano, nostalgie d’infanzia, samples, psichedelia, exotica, pellicole cinematografiche ingiallite. Opera di rivisitazione creativa di un immaginario fatto di immaginari, puzzle tempo-

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rale e geografico sviluppato tra il 2001 e il 2004 con In Sepiatone e Darksummer e da sempre capace di tracciare un confine stilistico peculiare e riconoscibile. Quello che in termini narrativi definiremmo “finzione letteraria”, per i Sepiatone diventa una raccolta di momenti intrisi di immaginifico che poco ha a che vedere con i linguaggi musicali troppo consolidati e molto con un gioco sottile di equilibri. Echoes On viene definito sulla vostra pagina facebook come “l’ultimo album della trilogia Sepiatone”, con i primi due passaggi rappresentati da In Sepiatone e Darksummer. In che termini si può parlare, in questo senso, di una trilogia? E’ una questione legata ai contenuti del disco o alla parabola del gruppo?


Già le canzoni di Darksummer, nel prendere forma, hanno mostrato a noi che le scrivevamo una continuità col lavoro precedente In Sepiatone, quasi fossero anelli di un’unica storia ambientata in un luogo fantastico ma altrettanto specifico, a metà strada tra la mia Sicilia e l’Australia di Hugo (per dirla semplicemente). Ogni volta, ad ogni disco, è presente questo tentativo congiunto di ritrarre momenti vissuti in un periodo definito, in una cornice estetica dalle caratteristiche costanti, anche se in evoluzione. Con Echoes On la nostra sensazione, rispecchiata sia dai contenuti che dalla forma, è quella di essere al termine del viaggio all’interno di questo spazio immaginario. Il momento in cui la scoperta si annuncia, si trasmette più esplicitamente all’ascoltatore, prima di essere pronti a ritirarci e a immaginare qualcosa di completamente diverso Cosa vorrebbero richiamare gli “echoes” del titolo? Che tipo di disco volevate fare con Echoes On? Il titolo è tratto da una strofa del brano Morning After: “Echoes on, through the dawn of the morning after”. Non so associare il disco ad una specifica tipologia, ma al suo interno è presente l’idea del richiamo dei ricordi, di una memoria sensoriale dei suoni che raggiunge un momento presente e lo permea inevitabilmente. Sepiatone è musica creata da due persone cresciute negli anni ‘60; i suoni nostalgici di Echoes On sono letteralmente echi di memorie d’infanzia di colonne sonore, tv show, musica d’orchestra e di musical, così come anche di pop music. Che contributo hanno dato all’ultimo album Giovanni Ferrario, Davide Mahony, Marco Franzoni e Giorgia Poli? Un grande contributo, diverso per ognuno di loro e con la naturalezza di chi conosce bene il nostro modo di fare musica. Giovanni, Giorgia e Davide hanno portato molte delle loro idee e del loro stile in studio. Ci hanno fatto sentire parti di basso, assoli di chitarra, pattern di program-

mazione elettronica, scaturiti dal loro gusto e dall’ascolto dei pezzi. Marco, che si è occupato prevalentemente delle registrazioni e dei missaggi, ha provveduto ad affinare ed esaltare certe frequenze e atmosfere caratteristiche del nostro suono. Voglio ricordare anche gli altri musicisti ospiti del disco: Julitha Ryan, violoncellista australiana; Tazio Iacobacci alla chitarra elettrica, Riccardo Gerbino alle percussioni e Giovanni Arena al contrabbasso, musicisti siciliani che, in varie formazioni, sono spesso presenti nei nostri progetti. Quanta parte biografica c’è nel progetto Sepiatone? Che influenza ha avuto, il gruppo, sulla tua dimensione personale? Sepiatone è nato e si è sviluppato intrecciando la mia relazione con Hugo al lavoro di musicista di entrambi. La nostra storia sentimentale si è trasformata in un’amicizia, il nostro lavoro ci ha visti per un lungo periodo insieme contemporaneamente in diversi progetti, sino a distanziarci geograficamente per via di impegni in band differenti. Un progetto artistico nato e mantenuto in questa situazione, risuona costantemente, nel bene e nel male, della sua prossimità con la vita reale. Non so quanta di quella contenuta nel disco possa essere considerata un’autobiografia obiettiva, perché c’è sempre la fantasia a trasfigurarla e a mistificarla. Stilisticamente parlando, tu e Hugo Race sembrate agli antipodi: lui affezionato a un blues terreno e carnale, tu eterea ed elegantissima. Come riuscite ad arrivare a una sintesi quando scrivete? L’approccio musicale è un riverbero dei rispettivi caratteri? Anche se alcuni lavori di Hugo affondano le radici nel blues, seguendo poi traiettorie a volte più eteree, a volte più sperimentali, per lui ogni disco diventa un produzione con un mood particolare e distinto. Scrivere con Hugo è un processo complementare e istintivo. La sua capacità espressiva terrena e carnale, come dici tu,

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con Sepiatone probabilmente si rimette alla mia capacità di distacco e astrazione. Ma entrambi abbiamo dentro un po’ dell’una e un po’ dell’altra, forse in dosi diverse. Per questo ci comprendiamo a livello stilistico. In recensione definisco la vostra formula come “una varietà di stimoli figlia anche del nomadismo biografico di entrambi i musicisti e piacevolmente indecisa, in quel latitare tra sogno e realtà che la caratterizza da sempre” E ancora: “questione di cauti equilibrismi, un puzzle paziente e volenteroso”. Lo scopo era sottolineare l’estrema libertà alla base di un suono peculiare e che scaturisce da dettagli sonori molto diversi tra loro. Ti ci ritrovi? Quali erano le idee musicali che vi hanno spinto a costituire la band, all’inizio? Mi ritrovo assolutamente nelle tue definizioni. Il progetto Sepiatone è partito, in un certo senso, con New World, un brano nato talmente tanto tempo fa che non ricordo esattamente chi di noi abbia scritto cosa. Sono sicura però che le condizioni in cui si è materializzato il brano sono state ciò che ha creato l’imprinting per la nostra musica. Hugo era in Sicilia, in una fine estate torrida; io lavoravo con musicisti siciliani che venivano da sperimentazioni sulla musica mediterranea – Riccardo Gerbino e Giovanni Arena (dei Dounia). I loro strumenti acustici percussivi e melodici così remoti, ricchi e lontani dal rock, ricordavano a Hugo l’exotica delle orchestre anni ‘50, le colonne sonore adottate più avanti da certi film psichedelici, un suono proveniente da vinili rovinati recuperabili in alcuni magazzini di dischi e oggetti di seconda mano a Melbourne. I primi passi del progetto sono stati questi. Appena arrivato a Melbourne, Hugo mi ha inviato una serie di cassette in cui aveva registrato, mixandole con due giradischi, ore di musica strumentale indefinibile, affascinante miscuglio di exotica, samples da film, frammenti di colonne sonore e altro. Con quelle

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cassette sono andata nello stesso studio vicino al mare dove avevamo lavorato insieme qualche mese prima e ho registrato la voce di quelle che sarebbero state le nostre prime canzoni. Guardando indietro, ai dischi e al percorso che avete fatto come gruppo, che cosa vedi? Vedo due giovani musicisti di diversa nazionalità e pieni di entusiasmo, alle prese con un’avventura senza aspettative di sorta, tranne quella di scoprirsi in un suono proprio e suggestivo. Li ho visti diventare adulti e continuare a sperimentare ricreando, attorno ad ogni nuova canzone, quel mondo immaginario sempre un po’ riconoscibile. Continuo a vedere una band o un duo che gioca ancora con queste cose, senza perdere di vista il piacere e l’immediatezza nel farlo. Vivi a Berlino da qualche tempo. Come giudichi il suo contesto musicale/culturale e quanto, del mood che caratterizza la città, finisce nella tua musica? Il contesto in cui mi sono ritrovata a Berlino è quello di musicisti e artisti continuamente in transito tra la città e altri luoghi d’Europa e del mondo, o magari all’interno della città stessa. Berlino è vasta, si trasforma in fretta, con la vita culturale che si sposta da un quartiere a un altro sospinta dalla nascita di complessi residenziali dove magari prima c’erano solo caffè e punti d’incontro. Vieni catapultato costantemente in uno spazio nuovo, in cui tutto prende forma velocemente. Anche in questa situazione, la città si difende dalle forze commerciali e continua a rimanere un grande laboratorio di ricerca, dove si può trovare tutto ma in cui molto potrebbe anche sfuggirti, tanto fluida e poco strutturata è la mappa culturale e musicale della città. Questa transitorietà e le strane casualità che ti mettono in contatto, di volta in volta, con realtà culturali diversificate, come anche l’eredità non convenzionale della storia artistica cittadina degli anni ‘80, sono entrate a far parte della mia vita e della mia musica.



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Da una parte cubetti di ghiaccio, onde quadre, caricatori e glaciali origami, dall'altra la prosopopea della cassa rullante, la nostalgia dei primi Rave e dei breakbeat. Lost Mission di Logos e Body Music di Special Request sono soltanto le punte di un iceberg più complesso, che ha visto coinvolti e coinvolgerà numerosi producer da tutto il mondo, dentro e fuori la rete. Testo di Edoardo Bridda

L'aspetto che tuttora ci affascina e cattura dei continuum elettronici britannici, oltre alla loro irresistibile coriacità e freschezza, è il continuo corso e ricorso dei generi e degli stili; giovani producer che a cadenza regolare ripescano, rimescolano e ricontestualizzano frammenti di passati prossimi e remoti, assorbendone DNA e urgenze ritmiche. Abbiamo più volte sottolineato in queste pagine quanto la spinta creativa della scena allaragata (leggi dopo dubstep, grime, Uk Funky e Purple Sound) abbia dato buoni spunti anche lungo il 2013, a dimostrazione del fatto che sul filo dell'hype si muovono, con intelligenza e gusto, molti giovani beatmaker (Guido, Walton, E.M.M.A, Kahn…). E' altrove, tuttavia, che i follower più progressisti della scena hanno prestato maggiore attenzione negli ultimi mesi. Tanta jungle ha contraddistinto mirate produzioni e/o dj set di una variegata percentuale di producer, tra cui molti volti noti come Four Tet, Machinedrum, fino a Demdike Stare e Raime (gli ultimi due solo in veste live) ma anche tantissime sonorità eski e/o sino hanno affollato un mercato grime mai così aperto alla contaminazione, perlomento nella sua frangia più Soundcloud based (simile, per dinamiche e strategie, a quella trap del 2012/2013 versante TNGHT). In pratica ritornano i primi Novanta e i primi Duemila, e a ritornare è una sana voglia di rimescolare le carte proprio nei punti temporali in cui le lancette del tempo correvano più veloci.

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Pinch

Momenti in cui le idee e le soluzioni tra ritmi e spazi fioccavano al doppio e al triplo della velocità con EP e nuove etichette ad affollare un mercato di nicchia affamatissimo e ricettivo, in grado di far parlare di sé ben oltre i confini nazionali e di creare quelle alchimie che, incidentalmente o meno, hanno prodotto le balistiche soniche che conosciamo e le relative esplosioni mediatiche su larga scala conseguenti, prontamente assorbite e sfruttate da impresari, etichette e via dicendo. E' una ruota che gira ma – e ne parlavamo qualche tempo fa con Rob Ellis / Pinch – crediamo che il vero cuore della faccenda non stia negli statement o nei momenti di gloria, ovvero nella piena maturazione di un genere, che sia drum'n'bass o dubstep, ma nelle fasi immediatamente precedenti, dove cioé le regole e soprattutto le definizioni sono estramamente labili. Un contesto in cui i producer più anonimi marciano a pieno regime, catturando spunti avanti e soprattutto indietro nella storia dei continuum elettronici UK, il perfetto humus per i futuri consolidamenti e le relative speculazioni di mercato e mediatiche, nonché il momento in cui ci si sbizzarisce nell'invenzione di nuove etichette. Wot

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Do You Call It canzonava Wiley, nel 2004, nel suo primo album, Treddin' On Thin Ice, basando il successo del brano proprio su un balletto di definizioni che, ironicamente e maldestramente, sono diventate statement in Grime, compilation omonima su Rephlex, pubblicata giusto un mese dopo e contenente, ironia della sorte ex post, …dubstep. Andatevi a leggere la difesa di uno degli A'n'R della label nei commenti di Discogs a quell'album: la difficoltà di definizione e le speculazioni sulla miglior definizione sono da sempre il barometro della vitalità della scena e si ripetono con la medesima criticità in ogni momento di forte transizione. Nei primi anni di questo nuovo decennio, quando allo sdoganamento/sputtanamento della dubstep su larga scala (vedi frangia nu e brostep americano), sono subentrate label del "dopo" quali post-dupstep o soulstep, soltanto la post-garage (poi veicolata nell'ombrello 130 black) ha fatto piena giustizia a un comparto di producer coerenti con il continuum ardkore e la sua oscurità, ma soprattutto pronti a ripartire e a reinventarsi da una serie di traiettorie dark garage d'inizio 2000 ancora inesplorate. Con Skream a giocarsi la carta house e poi disco – un po' come il Michael Jordan che si diede al baseball -, una presa di posizione forte per l'underground britannico ha riguardato dunque la regolamentazione dei battiti: calare la velocità ha rappresentato un passo deciso rispetto a un bistrattato dubstep che, almeno dal 2011, è ridotto a un corollario di drop e machismo a 140 bpm, come accusava James Blake qualche tempo fa. La definizione di "130 black" forgiata da Blackdown, boss assieme a Dusk della Keysound, incontra favori in casa Tectonic di Pinch, dove, oltre a un nuovo interesse techno (vedi Cold Recordings), si esplorano soluzioni sotto i 130 (e anche 120) nella compilation Tectonic Plates Vol. 3 (del 2012). Si inizia dunque a sperimentare da più parti (vedi anche Punch Drunk) su spazi più aperti e suoni anche esotici o esoterici tout court (il profeta di Kahn, il talismano di Kryptic Minds, l'ottima compilation di Fat kid on fire, Un_Known Vol 1). E parallelamente, non di meno significativo il fermento Grime, genere che ha avuto a sua volta problemi dovuti alla sovraesposizione mediatica dei suoi principali protagonisti (Wiley, Rascal, M.I.A), e che in questi 24 mesi dà segnali assolutamente entusiasmanti: Grime 2.0, e le Dub Wars (una giocosa battaglia a gironi, fatta a colpi di tracce e missive musicali svoltasi lo scorso autunno) sono due ottimi attestati di vivacità per una scena che non sta combattendo (solo) una trap war, come

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ribadisce Wiley (This Ain't A Trap War), ma che rapidamente si rinnova grazie a una fetta di giovani producer che non sono più solo londinesi. Non è quindi una sorpresa che negli ultimi mesi i suoni che più stanno stimolando l'interesse e la creatività di producer e ascoltatori non si coagulino nella poliritmica del giro Hessle Audio (non a caso Pearson Sound, con Starbust EP, sta guardando oltre) o all'inseguimento di 4/4 in ogni piega, che sia la techno di Pangaea o Untold o la successiva ondata house (Scuba, con il quale abbiamo parlato proprio di questo recentemente) o l'ancora più recente infornata garage/2 step sull'onda lunga della Future Garage di Falty Dl e compagnia. Ciò che ha infiammato le cuffie e gli ascolti progressisti tra la metà del 2012 e l'intero 2013, creando un montante sempre più consistente, riguarda da una parte la jungle (e indietro breakbeat), che ha avuto senz'altro una diffusione, anche mediatica, più trasverale e massiccia, e dall'altra l'eski beat (o eski sound) con un'appendice di Sinogrime. In sintesi, varianti strumentali di Grime, di cui Wiley è considerato il godfather, che hanno goduto di una breve ma fertilissima vita sul nascere del genere (fondamentale la raccolta Avalanche Music Vol.1). J u ngle fever

Nel 2011, all'epoca di Room(s) e di tutto quel fermento ritmico che le compilation Bang and Works Vol.1 e Vol.2 di Planet Mu avevano fomentato nel Regno Unito (e di rimbalzo anche in America, al di fuori di Chicago), Machinedrum, ovvero Travis Stewart, aveva menzionato in alcune interviste l'influenza portata dalla jungle di quel disco, ma è ben vero che l'innesto vero e proprio dei poliritmi e dei rullanti nelle sue sintesi soniche avverrà soltanto due anni più tardi con Vapor City. Nel frattempo però, proprio alla fine di quell'anno, a riflettori spenti, lui e Om Unit, ovvero il britannico Jim Coles, vecchia volpe "turntableista", finalista nel DMC World DJ Championship e noto precedentemente con l'alias hip hop 2Tall, iniziano una serie di edit spartendosi equamente il lavoro. Venendo dai breaks, Coles coglie al volo il trait d'union tra jungle e footwork (entrambi settati infatti su 160-170 bpm) mentre parallelamente, Machinedrum si dedica ad alcuni tagli a base juke (tenendosi sui 170). Il primo, sotto il moniker Philip D Kick, sforna una serie di remix di "footwork jungle" (raccolti in tre volumi omonimi) mettendo le mani su, tra gli altri, Droppin Science di Danny Breaks, The License di Krome and Time, The Burial di Le-

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Om u n i t

viticus, Champion Sound di Q Project, R.I.P di Remarc; il secondo, come Machinedrum, pastura invece brani come New Forms di Ron Size, N Joi This di Untouchables o Jungle Squirrel di Secret Squirrel (raccolti in Ecstasy Boom del 2011). Ci penserà poi Mike Paradinas, nel FACT Mix 274 (agosto 2011), ad accreditarli entrambi in una scaletta tutta Chicago accanto a paladini della scena quali Traxman, Diamond e Dj Rashad, con quest'ultimo a raccogliere a sua volta il testimone e, nel 2013, a proporre amen break, incastri di basso e certi campionamenti à la Coles in un missato di ottimi avvitamenti tra ghetti US e UK (Let It Go, I'm To Hi) e grande risposta di critica (Rollin EP, Double Cup, 2013). All'interno di questa forbice temporale, si scatena l'entusiasmo di un variegato giro di producer che sperimentano sia un percorso comunque coniugato altrimenti, sia ipotesi da non lasciar intentate e, in qualche caso isolato, in full immersion, come nel caso dei Special Request e Tessela che hanno fatto drizzare le orecchie dei media nella primavera 2013, facendo scattare il parapiglia. Nelle mani di Tessela, ovvero Ed Russell (fratello minore di Tom, ovvero Truss), che con il 12" Hackney Parrot inaugura la personale Poly Kicks, a farla da padrone è un approccio decostruzionista e trattenuto dell'amen break, come se dalla jungle si tentasse di tornare indietro, ai breakbeat, al frammento di base, piuttosto che il contrario. A Resident Advisor Russell confessa di

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non aver mai conosciuto ardkore decente fino a quando non l'ha riscoperta in tempi recenti, andando a recuperare dischi, ascolti e anche qualche DVD nostalgia. L'effetto remember, del resto, è parte consapevole di molte di queste operazioni e, senz'altro, il loro fascino si lega sia a un abbandono nella finestra temporale, sia alla voglia d'incidere sul presente tracciando nuove traiettorie e/o possibilità. Hackney Parrott fa il giro delle radio, Pearson Sound e Jackmaster la suonano. S'attiva dunque un link sonico che dall'Andy Stott di Up The Box contenuta in Luxury Problems (ottobre 2012) e dai campioni diva house dell'ultimo Scuba, porta alla più granitica risposta ritmica di Special Request, ovvero lo scafato Paul Woolford, attivo già da una decina d'anni sul fronte house e firmatario anche di un remix della citata Hackney Parrot, perfetto esempio, peraltro, del focus del producer su un oculato mix di dissotterramenti del continuum ardkore, filiazioni House, anthemica rave e rintocchi di bass e dub. Il successivo EP di Russell, Nancy's Pantry, che segnerà una convergenza più marcata con Woolford ma anche nuove e più industriali direzioni, e il doppio album di quest'ultimo, Soul Music, diviso tra produzioni originali e remix, oltre a Old School Methods EP (Keysound, settembre 2013) di Etch, ovvero il londinese Zak Brashill (altro ottimo esempio di lavoro sulle false memories) metteranno concreti paletti alla dilagante euforia jungle, tanto che, lungo tutta l'estate e l'autunno 2013, nelle press di molti EP e lavori, compresi quelli di Om Unit (Threads) e Akkord (Akkord), il riferimento al genere sarà puntuale e anche sovraesposto. E' il segno che il termine macina consensi e in epoca internet è già pronto per diventare tag obbligatoria, soprattuto da quando, a luglio, Four Tet pubblica Kool FM, un 12" contenente una traccia omonima che sarà poi compresa nell'album Beautiful Rewind. Kool FM, citazione dell'omonima pirate radio che passava jungle negli anni d'oro, è senz'altro una buona replica all'epica memorabilia di Wut It Do della coppia Logos e Mumdance (che ritroveremo parlando di Grime) contenuta sia nell'album Cold Mission sia nell'EP Genesis e disponibile come dubplate già in primavera. Wut It Do è finora la traccia più funzionale e di successo per il dancefloor UK. Nel giro Keysound, ma anche Hyperdub, il pezzo non è mai mancato. Tornando a selezioni più casalinghe, in tempi mediamente non sospetti Zomby - che con i continuum ardkore ha una storica

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fissazione – pubblicava, a giugno, nel doppio With Love, un paio d'episodi junglisti di buona fattura, mentre, all'opposto, un funambolico vecchio squalo come Mark Pritchard infilava i rullanti in una miscela altamente instabile (ma avvincente) comprendente ragga, footwork, rave, grime, ghetto sound, acid, idm e persino hover sound (Lock Off e Make a Livin'). Emblematico poi che un producer spugna come Ital Tek infili gli amen break in un missato altrettanto massimalista come Control (novembre 2013), fino ad arrivare a un Burial che sotto le feste natalizie pubblica Rival Dealer, ennesimo EP che nella traccia omonima sfodera un breakbeat molto '92, tipo i Soul 2 Soul al doppio della velocità, come dire jungle prequel. Sempre di dicembre, la bomba nascosta della fregola junglista che ha animato la scena elettronica internazionale la sgancia Indigo, metà degli Akkord. In Storm EP il producer convoglia la cifra stilistica del progetto più blasonato del 2013 in una tenebrosa bestia di rullanti e tenebre, un ponte ideale verso il jungle producer Digital citato/amato da Logos e un futuro ancora da scrivere. Di sicuro, dal 2014 i segnali portano a Lee Bannon, uno che dall'hip hop ha provato la carta del poliritmo complesso con il lungamente annunciato Alternate/Endings su Ninja Tune, un buon disco, piuttosto particolare nell'angolare le modalità fumate di Stones Throw e indietro della WordSound in una produzione anche molto adulta di jungle, leggi drum'n'bass. Difficile pensare a un ritorno di quest'ultima formula codificata quando il mainstream britannico, da Chase and Status ai Pendulum, lo mastica ininterrotamente da anni. Di converso, la jungle ha senz'altro rappresentato un'energia liberatoria lungo il 2013, rompendo gli steccati footwork come del 4/4. Staremo a vedere se la scena ne sentirà ancora il bisogno. 1 30 eski

Quando nel novembre del 2013 Logos pubblica Cold Mission, il suo nome, in Italia è noto soltanto agli aficionados della Keysound e questo ostico lavoro, benché ben recensito all'estero (da noi solo su BlowUp e SA), viene più rispettato che compreso e amato. La tracklist snocciola note sparute di synth, ritmiche sparse, field recording di bottiglie che s'infrangono, rintocchi di bassi a vuoto, in pratica più vuoti che pieni, monocromia, oscurità, freddo, salvo qualche occasionale momento zen e l'isolato (citato) episodio jungle con il feat. di Mumdance. Osservando dall'Italia, non è per nulla facile riconoscere nel lavoro la punta di un iceberg di un ben più folto gruppo di giovani grime producer, e

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Logos

neppure loro stessi, i protagonisti, giusto a marzo 2013, nel momento in cui inaugurano una serata format (il Boxed) a Londra per proporrre le loro ferventi tracce new eski, sanno bene come andrà a finire. In un'intervista concessa a Dummy, Slackk, autore di numerosi mix mensili della scena, e il citato Logos, organizzatore assieme a Mr. Mitch e Oil Gang (anche etichetta omonima), raccontano con entusiasmo di come, con gli hard disk pieni di questa musica, fossero stati anche preparati a perderci economicamente e di quanto commenti come "è la peggiore musica che abbia mai sentito" o "dovreste metter su una serata house e non questa roba" si sprecassero ad ogni break, tra sigarette e spliff fuori dal locale. Nonostante le perplessità di molti, nel giro di poco tempo, Boxed prende il via, i ragazzi ottengono residency al Fabric e al Plastic People e, nel contempo, le dub wars (una sfida a gironi a colpi di tracce su Soundcloud) siglano il loro ingresso in campo a colpi di missive accanto, tra gli altri, anche a Wiley, autore e padre delle tracce di inizio duemila dalle quali tutto è ripartito (Eskimo, Ice Ring, Igloo. Obbligatoria la compilation Avalanche Music Vol 1) e presente con This Ain't A Trap War, traccia monito che sta a indicare anche che, sopra o sotto la dialettica tra l'introduzione o meno dei preset della 808, c'è un piccolo universo di suoni sui quali sfidarsi.

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Verso l'autunno del 2013, parafrasando Slackk nell'intervista citata, l'eskibeat del suo Raw Missions (del 2012), non sembra più così fuori di testa. Una cerchia più allargata di persone inizia a gasarsi per questi beat e Kowloon, l'EP di Logos pubblicato nella primavera del 2012 (ma già circolante come dubplate alla fine del 2011), comincia ad essere considerato il vero starter di tutta la scena. Raw Missions e Cold Mission, poi, sono ovvie citazioni dal continuum ardkore che aprono una parentesi interessante sui recuperi. Da buon frequentatore del FWD>> e delle notti DMZ, Logos è uno che sulle fasi della scena elettronica britannica è decisamente preparato: cita apertamente le Special Mission o Mission Accomplished del jungle producer Digital, ovvero Steve Carr, e da buon pragmatico va anche oltre: la sua operazione consiste nel ritornare al periodo in cui Wiley aveva coniato l'eskibeat ("mi sentivo freddo con la mia famiglia, freddo con me stesso e con il mondo intero", ha affermato il godfather del Grime in alcune interviste riportate sulla sua wikipedia personale) circuitarlo sugli ambienti più cupi della jungle per poi ricontestualizzarlo a 130bpm, avvallando così funzionalità dancefloor e aderenza Keysound. Da quel che possiamo osservare dalla grande proliferazione di produzioni che tra la fine del 2013 e l'inizio del 2014 stanno popolando streaming e pubblicazioni e che si stanno allargando a macchia d'olio imbastardendosi con altre modalità elettroniche legate al ballo, nu rnb e hip hop, il parallelo con quella frangia di produzioni dell'area rave trap, ovvero partorite dalla comunità Soundcloud based di producer sulla scorta di TNGHT, viene spontaneo. L'entusiasmo e efficacia delle soluzioni, superata una iniziale barriera di perplessità, diventano da subito contagiose. Nel 2012 nascono le prime etichette dedicate: la londinese Lost Codes di Visionist, l'irlandese Glacial Sound di Paul Purcell, la neozelandese Egyptian Avenue di Epoch, alle quali s'aggiungono i tipi di Oil Gang, in parte la londinese Local Action e sicuramente la neonata Goon Club Allstars, con ricettive Diskotopia (etichetta giapponese per cui hanno pubblicato Rabit, Visionist e Slackk) e naturalmente Keysound (Vionist, Rabit, Epoch, Wen, Moleskin) a completare il cerchio. Poi c'è gente sulla rampa di lancio ancora senza produzioni canoniche (solo Soundcloud o dentro compilation) come Samename, underground heroes come Grobbie, Inkke, Breen, Sublo. Per non parlare dei sintetisti come MissingNo o di gente sopra le righe come Sd Laika, il cui Unknown Vectors (su Lost Codes) è considerato da alcuni come un antefatto im-

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V i s i o n i st

portante dell'esordio di Logos assieme a un altro lavoro, che ha avuto un'incidenza fortissima su tutto il comparto (oltre che per il corso della sua etichetta), ovvero Classical Curves di Jam City, pubblicato dalla britannica Night Slugs (di cui l'americana Fade To Mind, è la label sorella). E' pertinente con la nostra indagine anche un parallelo con una cellula adiacente (ma con diversi gradi di osmosi) ai ragazzi del freddo: c'è sicuramente un più allargato svuotamento dei suoni fatto di austere linee di synth, campioni pitchati di macchine fotografiche, bottiglie, serialità e minimalismo a ruotare attorno alle teste di questi ragazzi e se c'è una punta d'iceberg qui, oltre all'emblematico ghiacciaio di James Ferraro (Cold), quella è R Plus Seven di Oneohtrix Point Never, paradigmatico concept sulla smaterializzazione dell'uomo nella rete. Un album che ha catalizzato alcune traiettorie di sound artist che vanno dal citato Ferraro a Laurel Halo, fino a Fatima Al Qadiri, presente in quello che è il più autorevole lavoro pubblicato da Visionist, I'm Fine, ed assoluta fan della scena grime britannica. Precisiamolo bene: Visionist, nel giro dei nuovi grimer esquimesi, ha un'importanza pari a quella di Logos; comprensibile che i due si guardino a distanza di sicurezza. Mentre James Parker pubblicava il seminale Kowloon EP, nel 2012, contemporaneamente, Louis Carnell, spostandosi in area grime dopo alcune in-

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cursioni footwork (Rock The Flock, Diskotopia, 2011) e preparandosi a un missato sintetista, inaugurava Lost Codes pubblicando una personale mappa di produzioni nu eski/sino, tra installazioni sonore di matrice orientale/aliena e ritmi scanditi a codici morse, senza farsi mancare un inevitabile tocco post-garage di marca Keysound/Tectonic (Acre). In questo catalogo, mediamente buono, oltre ai 12" di Filter Dread (Hyper Lost) e il citato Sd Laika (Unknown Vector), l'irlandese Bloom è il nome chiave: Maze Temple EP, come sottolinea giustamente Dummy, porta le astrazioni di Logos e Visionist su un piano più ballabile e diretto, come per tornare ai vecchi connubi tra grime e videogame, in un'ottica di tracce che devono far muovere e contagiare altri producer. Seguendo questo approccio più frontale rispetto a una materia che comunque mantiene il suo corrollario di onde quadre e glacialità analogiche, non possiamo non menzionare la compilation Feathers EP (pubblicata a febbraio 2013 su Pelican Fly) dove Samename, con Mishima Curse, si diverte a costruire un brano prendendo ispirazione (e sample) da Tekken, famoso picchiaduro su Playstation, o in cui Moleskin, in Pulskimo, rivede la mitologica Eskimo di Wiley attraverso un panzer di corposi bassi e grumi di snare (entrambi pubblicano su Goon Club Allstar). Proprio queste tracce ci riportano dalle parti delle Dub Wars: le sfide ludiche tra i Grimer sono interessanti non solo per ricordare alcune spassose missive – tipo quella di Bloom per Samename intitolata Whosname? (send for Samename) o Logos e Slackk che si scambiano Shogun Duppy e Oy Logos – ma anche per osservare da vicino la dialettica tra fazioni. Emblematica la coppia Visionist e Saga, artisti che per primi provocano i Kahn e Neek e poco dopo ritirano il brano da Soundcloud (idem Wiley con la sua This Ain't a Trap War…). Non è noto il motivo ufficiale, ma ascoltando anche solo la risposta di petto dei due bristoliani, con una solidissima Man must be Dillusion-ist tra ragga, grime e dubstep, è chiaro quanto nelle orecchie di uno come Louis Carnell, in continuo flirt con il giro degli astrattisti americani di casa UNO NYC e Hippos In Tanks, le produzioni della coppia suonino come qualcosa di conservatore dal quale distinguersi. I'm Fine, pubblicato dalla footwork label newyorchese Lit City Trax, è sicuramente un mix di grande sintesi progressiste (c'è della footwork, come certi trattamenti vocali e cadenze da HH alternativo che ritroviamo anche nell'EP di MissingNO), una prosecuzione ideale, e in senso più autenticamente wileyano, del

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percorso di riletture grime di Fatima Al Qadiri in Desert Strike EP sulla citata Fade To Mind di Kingdom, realtà molto ricettiva riguardo alle sonorità qui esposte (vedi anche il trattamento di Nguzunguzu della Enemy di Kelela in Cut 4 Me tutto marzialità No in infusi nu soul o un Gremino che già nel 2012, con Let's Jack, tagliava techno e instrumental grime per il dancefloor), nonché etichetta gemellata con la britannica Night Slugs i cui citati Jam City hanno sfornato recentemente un nuovo brano, Bells, altro punto di riferimento per le traiettorie soniche a venire. Del resto, se la forza di Visionist sta nel sapersi muovere bene sia sugli statement keysoundiani assieme a Wen e Beneath (la loro new wave su This Is How We Roll), Logos è colui che ha maggiormente saputo ricontestualizzare classici come Eskimo o Ice Ring in uno spazio, se vogliamo anche lynchiano, fatto di assenze più che presenze. Possiamo andare oltre e ricondurre il fascino magnetico di Cold Mission non alla musica, ma ai silenzi tra le battute e i campioni, alle loro pause. Uno che lo ha compreso bene è Rabit, un ragazzo di Houston, balzato subito all'attenzione sia per la bizzarra (per la comunità grime) provenienza geografica, sia per il credit nel citato album con Swarming. I due EP finora pubblicati da questo curioso ragazzo, Sun Showers e Double Dragon, sono due perle di ritualità nipponica applicata a sintetiche, motivetti appena accennati e il solito corollario d'effettistica grime. Un purismo a cui si è interessato anche Murlo, producer delle Midlands attivo anche con Famous Eno (Ariel) e ottimo artigiano di giapponeserie IDM in Last Dance (2013), forse il lavoro più solare e innamorato in una scena che ha come colori dominanti il blu e il nero. E se parliamo del black più black, Wen è il producer per eccellenza della new wave, giusto per citare l'iconico brano inciso con Visionist e Beneath contenuto nella citata compilation This Is How We Roll. Il ragazzo di Margate è forse il miglior sincretista di aree stilistiche limitrofe (ma non necessariamente intersecate) tra 130 black e grime. A inizio anno, la sua Commotion (e relativo EP su Keysound), un misto di killer track e vocioni black ad uscire splendidi dall'oscurità, esaltatava non solo il giro di Blackdown, ma anche quello più allargato dei magazine, da Fact a Dummy. A settembre Owen Darby, questo il vero nome, partecipa alle dub war con la carichissima Bombarded e da lì a fine anno la sua agenda impazzisce d'impegni (tanto che la nostra intervista programmata con lui salta) proprio come quella di Mumdance,

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producer molto eclettico che, tra le altre cose (vedi l'iniziale incursione nel roster di Diplo), negli ultimi dodici mesi si è interessato parecchio a grime e ardkore, trovando le sue quadre prima nell'autoprodotto Twists and Turns e poi nei brani con Logos, Rabit e Pinch nel FactMix di dicembre. Il 2014 è già iniziato all'insegna di contaminazioni potabili al 4/4 e non solo: il finlandese Twwth infila eski beat su un tappeto ritmico di spartana techno e chopped r'n'b house vocals dai richiami juke / footwork sulla rotta indicata da Gremino (Thousand Million, gennaio, Signal Life), mentre Akito li triangola con uk funky, house e dancehall in Metamessage sulla neonata SubSkank, di cui è comproprietario. Nel programma di James Blake sbuca un inedito del wonky producer Airhead, Shirin, tutto sincopi e cubetti di ghiaccio, mentre Pearson Sound, che già in Starburst EP (novembre 2013) aveva dato segnali di avvicinamento, continua nella direzione del bozzetto nell'estetica del freddo con il recentissimo 7" Raindrops. Tutti segnali che ci fanno intravedere per i prossimi mesi una metabolizzazione delle instanze eski a più livelli produttivi: Kelela, MissingNo e Visionist ad aprire la pista a balistiche UK e US, Wen ad avvitarlo in soluzioni 130 black e Samemane e Moleskin a macinare beat per rinfocolare la scena grime dall'interno.

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Il rock ai tempi della metropoli (seconda parte) 44


Chiusa la fase dei capolavori scellerati e struggenti, i secondi trent'anni artistici di Lou Reed furono una parabola di cadute disarmanti e risalite formidabili. Verso lo zenit del cosiddetto rock d'autore. Testo di Stefano Solventi

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Vale la pena farli ogni tanto gli esercizietti mentali. Anche quelli più oziosi. Tipo immaginarsi cosa ne sarebbe stato del nostro orizzonte di ascoltatori se Lou Reed si fosse fermato a Berlin. A quel punto, considerati ovviamente anche i Velvet, la parte più incisiva – diciamo pure sconvolgente – della sua carriera poteva dirsi ormai alle spalle. Aggiungiamo che il suo bel capitolo nel librone se lo era già guadagnato alla grande: il rock non avrebbe potuto prescindere da quello che Lou aveva combinato dal ‘66 al ‘73. Semplicemente, erano stati definiti dei nuovi parametri di attinenza con la realtà. Non era più solo una festa, o meglio dietro ad ogni festa rock doveva/poteva nascondersi il ghigno crudele della vita. Comunque sia, a trentuno anni il buon Lewis Allan Reed si riteneva ben lontano dall’appendere la chitarra al chiodo. Col doppio colpo Transformer-Berlin si era spinto così in alto che non sarebbe stato possibile, neanche se avesse voluto, produrre materiale brutto o peggio insignificante. E statene certi che ci provò. Ma gli andò male. Il fallimento commerciale e persino di critica ottenu-

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to da Berlin fu una mazzata che lo mise con le spalle al muro. Si narra che la sua proverbiale avversione per la categoria dei critici musicali raggiunse proprio in questa circostanza un punto di non ritorno. In ogni caso, la RCA lo obbligò a sfornare due album dal piglio più immediato – sulla falsariga di Transformer – come da contratto. In pratica, lo affidò alle cure di Steve Katz (già fondatore dei Blood, Sweat and Tears e membro dei Blues Project). In circostanze normali Lou avrebbe rovesciato il tavolo, tuttavia – forse perché provato da divorzio, conseguenti difficoltà economiche e preda di una sempre più pesante tossicodipendenza – quella volta lasciò fare. Sally Can’t Dance (agosto 1974) uscì quindi all’insegna di un errebì sordido e malaticcio, con alcune soluzioni sonore che il Reed meticoloso di pochi mesi prima non avrebbe mai avallato (vedi su tutte lo starnazzante assolo di sax che infesta la pur toccante Billy). Ma Lou in quel periodo era appunto così aggrappato al nervo scoperto della realtà da non poter produrre qualcosa di totalmente trascurabile, non a caso infatti al cuore della scaletta troviamo due pezzi come N.Y. Stars e Kill Your Son: se quest’ultima è addirittura agghiacciante nel rievocare l’esperienza dell’elettroshock cui lo avevano sottoposto i genitori, la prima è una sorta di Gimme Shelter sotto formalina che mette nel mirino il vuoto angoscioso dietro il processo di edificazione del feticciorock star. Rispetto al predecessore, Sally fu sì una baracconata abbastanza sbrigativa, spesso interpretata da Reed come se non gliene importasse un cazzo, tuttavia anche in virtù di questo simboleggiava il pernicioso accartocciarsi di estetica e poetica glam con feroce puntualità. Pochi mesi prima, ad inizio 1974, il live Rock’n’Roll Animal – sempre prodotto da Katz – aveva peraltro messo a ferro e fuoco lo stesso concetto di artificiosità della rock star (e del rock-act), eruttando un verbo iper-glam tutto autoreferenzialità tronfia ed amplificazione esasperata (ai limiti del metal). Bissato l’anno successivo da Lou Reed Live (contenente registrazioni della stessa serata del 21 dicembre ‘73 a New York), consacrò l’ex-Velvet tra i grandi del rock nel momento stesso in cui la sua vicenda personale sembrava toccare il fondo. Mortificato dal flop di Berlin, l’aspetto stravolto – è il famoso periodo ossigenato – e debilitato, in rotta di collisione col music system che ha deciso di farne un burattino elettrificato, Lou finisce per concepire in qualche modo la mossa successiva come un reset. Sul famigerato Metal Machine Music, uscito nell’estate del ‘75,

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ancora oggi si discute. Che si tratti di un clamoroso “fuck you” allo shobiz (come sosteneva Lester Bangs) o un lavoro mosso da sincera vena sperimentale (una sorta di estremizzazione delle esplorazioni avanguardiste avviate nel primo periodo Velvet sulla falsariga dell’opera di La Monte Young), resta che le quattro facciate viniliche di droni e distorsioni rappresentano un monolite sonico pressoché inascoltabile. La stessa formattazione cronologica (16’ e 01’’ per lato, con la traccia finale del quarto incisa ad anello per provocare un loop) sembrano alludere alla mercificazione del prodotto-musica, ridotta a “pod” dal contenuto prescindibile rispetto alle caratteristiche d’impiego. Comunque la si pensi – ed è questo uno di quei casi in cui si è autorizzati a pensarla nei modi più diversi – è un’opera progettualmente controversa, variamente interpretabile come un prodromo del noise e del genere industrial, a detta di Reed stesso una estremizzazione dell’heavy metal fino al suo grado zero, salvo altrove rivelare (tra il serio ed il faceto) di aver inserito nella trama caotica persino

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riferimenti ad opere di Beethoven. Conta in ogni caso il gesto, e l’annientarsi in esso: in questo senso è uno dei dischi cardine della sua carriera, che difatti si riavvierà di lì a breve riprendendo il filo del discorso lasciato in sospreso da qualche parte tra Transformers e Berlin. Però con un’angolazione mutata, più morbida e in qualche strano modo conciliante. Dopo essersi ricostruito la propria autorevolezza artistica arrivando ad un centimetro da ucciderla, con una mossa altrettanto inconsueta, per molti versi scandalosa e tuttavia genuina, sembrò recuperare l’equilibrio emotivo grazie alla relazione con Rachel, un travestito (oppure un transessuale: un aspetto che non è mai stato del tutto chiarito) che rappresenterà per un certo periodo la sua musa ispiratrice nonché una grande compagna di esperienze tossiche. Il risultato è Coney Island Baby, un grande album che chiude il 1975 ed il contratto con la RCA nel migliore dei modi. La scaletta si dipana sorniona tra inflessioni errebì che dissimulano allusioni insidiose (Cherley’s Girl, She’s My Best Friend), infilzando una sequenza di situazioni urbane che stemperano abbandono dolciastro e supponenza beffarda. Tra i pezzi forti spicca Kicks, un lampo acido di adrenalina funky in cui prende letteralmente vita uno scorcio di efferata quotidianità: Lou simula un dialogo in un pub nel quale la crudeltà gratuita (“When you cut that dude with just a little mania/You did it so .. ah/When the blood comma’ down his neck/Don’t you know it was better than sex”) viene elogiata come uno stimolo vitale, tracciando uno strisciante parallelo con la “botta” dell’eroina. L’uso di effetti sonori concreti che letteralmente avvampano nei canali stereo procura un senso di realismo stordente, una vera e propria sequenza cinematografica con il canto impegnato a riprodurre la frenesia aspra e tagliente di certi dialoghi nei film di Scorsese. L’apice del disco coincide però con la title track, non a caso posta a chiusura di scaletta, come una languida dissolvenza sul filo della memoria. Pezzo che procede con sonnacchioso ma palpitante passo soul-errebì (stupendo l’assolo di chitarra che contrappunta la melodia) celebrando la “gloria dell’amore”, un po’ come scorgere una luce grigiastra in fondo al tunnel, giusto quel barlume di speranza che basta comunque a tenerti in piedi. L’esplicita dedica a se stesso e a Rachel negli ultimi versi aprono uno squarcio quasi imbarazzante tra arte e biografia, nel quale i fantasmi che popolano la cifra espressiva di Reed sembrano assorti in contemplazione. Un po’ come se avesse voluto scrivere la propria Strawberry Fields Forever sostituendo all’energia visionaria una bruma di

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rimpianto arrendevole. Col senno di poi, potremmo considerare questo disco – e questa canzone in particolare – una sorta d punto di non ritorno, l’ultimo atto di un periodo di crescita discontinua ma dagli esiti prodigiosi. Col passaggio alla Arista la sua cifra espressiva subirà una sensibile mutazione, come se alla smania di rappresentazione cruda e demistificante subentrasse una sempre maggiore attenzione all’aspetto formale, al proprio status di rock star conclamata e dagli “scomodi” punti di vista. Non mancheranno comunque momenti di straordinaria intensità, malgrado il passaggio a vuoto di Rock’n’Roll Heart (ottobre 1976), album che lo vede scarico di ispirazione al punto da tentare il recupero di un paio di pezzi inediti del periodo Velvet (Follow The Leader e A Sheltered Life) peraltro annacquandone il valore. Un passo falso che non smorzò gli entusiasmi attorno a Reed, rappresentando anzi un apprezzato pretesto per un nuovo trionfale tour. A questo punto bisogna considerare la situazione: nella grande mela esplodeva la new wave, seguita a breve dal punk UK. Tutto invecchiava di colpo. E Reed si trovava a dover gestire un passato già ingombrante, un presente abbastanza tranquillo (finanziaramente e sentimentalmente) dopo anni di tempesta, e un impegno appena sancito con l’etichetta di Clive Davis, il cui pur vario catalogo tradiva una costante attitudine per sonorità mainstream (è vero che nel roster Arista c’era un pezzo da novanta sulla cresta dell’onda come Patti Smith, tuttavia la punta di diamante era pur sempre Eric Carmen, mentre i Grateful Dead stavano licenziando i lavori più addomesticati del loro repertorio). Malgrado ciò, due anni più tardi Street Hassle riproporrà il cantore della (dis)umanità metropolitana in tutto il suo bieco splendore. E’ disco pervaso da una crudezza rinnovata, che come nei momenti migliori riesce a confinare col cinismo più laconico e con una sottaciuta compassione per la fauna tragica e disperata che descrive. Se escludiamo la mini suite in tre movimenti della title-track, in scaletta non ci sono momenti degni di figurare nel novero dei migliori parti reediani – forse solo la politically incorrect I Wanna Be Black, se non altro perché propone un livello di sarcasmo mai raggiunto prima, e la sbrigliata Real Good Time Toghter, sorta di sorellina garrula di Waiting For My Man recuperata appunto dal periodo Velvet – ma è chiaro che siamo in presenza d’uno di quei casi in cui il totale vale pù della somma delle parti.

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Anche perché nel computo va considerata, appunto, la title track, un affresco di tragica quotidianità metropolitana che procede per scene sospese (Waltzing Matilda, Street Hassle - quest’ultimo temine slang che significa incidente, pasticcio, ma simile alla pronuncia di “asshole” – e Slip Away), qualcosa di etereo e lancinante come il dibattersi della consapevolezza soffocata in un bozzolo di crudeltà e apatia, vero e proprio squarcio aperto sul corpo malato della Città. Il riff di archi (violoncello e violini) soave e risoluto ricama una specie di tango inamidato e psicotico su cui Lou arranca cantando come un jazzista querulo, incastonando la pietra nera della sua disperazione (era appena terminata la storia con Rachel) su una corona di abbordaggi derelitti e overdose letali. Come a voler dire che nel ventre freddo dell’inferno urbano sopravvive solo la parte più misera dell’esistenza, il perdersi profondo e reciproco, l’inarrestabile approssimarsi della fine di tutto. Oltretutto il cameo di Bruce Springsteen – che si trovava nello stesso studio (il Record Plant di New York) a registrare Darkness On The Edge Of Town – si rivela azzeccatissimo, un reading fosco che spande una misurata luce di gravità. Col punk all’apice della sua breve stagione, Reed riesce a suonare

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attuale (non suonava tanto brusco e letale da oltre una decade) senza però mollare il filo di un percorso espressivo sempre più in bilico tra raffinatezza e tracotanza. In quel finire dei Settanta scosso da una rivoluzione sonora nervosa, frenetica ed eccitante, riuscì a portare a compimento un discorso iniziato molti anni prima guardando negli occhi il presente senza cedimenti né compromessi. Negli anni della reinvenzione dei suoni (electro wave, etnica, hardcore punk…) dimostrò le possibilità ancora intatte delle forme espressive tradizionali (una specie di Kurt Weill sul punto di collassare) se interpretate con la giusta angolazione rispetto all’oggetto della rappresentazione. L’effetto collaterale però sarebbe stato un lento ma inevitabile scollamento dagli sviluppi del linguaggio rock, cui pure Lou tentò di rimanere aggrappato, non sempre con la necessaria lucidità. In ogni caso, dopo Street Hassle qualcosa sembrò smarrirsi. Gli album immediatamente successivi difatti non mancheranno di elementi d’interesse, soprattutto quel The Bells che chiude i Settanta (uscì nell’aprile del ‘79) prefigurando peculiari commistioni tra elettronica e jazz (ospite la tromba del grande Don Cherry),

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però è come se inciampassero in una sfocata autoreferenzialità, come se Lou iniziasse a trovare conforto nel puro fare musica, finendo per compiacersene. Anche soltanto a livello di scrittura le canzoni, pur buone, non riescono mai ad eguagliare l’intensità dei lavori migliori. In altre parole – e come diverrà evidente a partire dal successivo Growing Up In Public – l’ex-Velvet sembra diventato più forte dei propri demoni, e proprio questa padronanza (dovuta forse anche al tenore di vita in via di normalizzazione, tenuto conto soprattutto del matrimonio con la designer inglese Sylvia Morales) coincide con l’acquietarsi del quid espressivo. E’ come se tra lui e l’oggetto delle sue interpretazioni si frapponesse un sempre più consapevole diaframma intellettuale: fin dai primi formidabili lavori coi Velvet la fauna guitta e feroce che abitava le sue canzoni era quella in cui si muoveva egli stesso, tanto da far trasparire un senso di comunione anche rispetto alle peggiori meschinità. Ciò che innescava una viscerale pietas, la sensazione terribile e struggente di far parte di quel gioco efferato. Sul finire dei Settanta accadde un piccolo spostamento di prospettiva dovuto ad un nuovo corso esistenziale che di fatto Lou scelse di imboccare per salvarsi dalla deriva nel buco nero della tossicodipendenza (e dell’alcolismo). Determinando così e ovviamente un cambio di paradigma. In peggio, artisticamente parlando. Gli anni Ottanta vedranno quindi Lou Reed sopravvivere tutto sommato bene, e visto come si era ridotto pochi anni prima non era certo scontato che accadesse. Ma il prezzo da pagare fu l’appannarsi del talento di un artista capace come pochi di girare il coltello in una piaga che i più fingono di non vedere. Fortunatamente per lui e per noi non si è trattato di uno smarrimento definitivo. Con questo non intendo dire che si debbano cassare del tutto album come il già citato Growing Up In Public (benvenuti nel 1980) e – soprattutto – The Blue Mask. Il primo, scritto a quattro mani col pianista Michael Fonfara, è una raccolta di pezzi incentrati su riflessioni autobiografiche spesso ai limiti del lezioso e talora tendenti ad indulgere su uno spirito teatrale (a tratti e vagamente persino à la Randy Newman). Il Lou musicista e letterato (sì, i suoi testi autorizzano a considerarlo tale) sembra prevalere sul Lou Reed reporter gonzo, feroce e formidabilmente poetico. Canzoni-riflessioni argute, ironiche o gradevolmente profonde come How To Speek To An Angel, The Power Of Positive Drinking o la stessa Growing Up In Public suonano come se fossero state scritte da una persona brillante

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comodamente seduta sulla poltrona preferita (nel confortevole salotto della bella casa dove stava riuscendo a rimettere assieme i cocci di un’esistenza finalmente quieta). Forse per reazione a questo stato di cose, oppure semplicemente per il felice incontro con Robert Quine – aggiungiamo anche la fine del contratto con la Arista ed il ritorno alla RCA – fatto sta che due anni più tardi The Blue Mask recupera uno spiccato piglio chitarristico. L’entusiasmo e la grinta di Quine – già chitarra per i Voidoids di Richard Hell, nonché fan dei Velvet che aveva seguito nel lungo tour del ‘69 registrandone numerosi concerti (una selezione di queste incisioni furono pubblicate nel 2001 come The Quine Tapes) – ringalluzziscono a tal punto Lou da fargli riprendere pieno possesso della penna e quindi sfornare i pezzi più densi e intensi da qualche anno a quella parte. Tra gli elementi della congiunzione favorevole in cui prese vita questo album va messa anche la dedica a Delmore Schwarz, lo scrittore che ebbe Reed tra i suoi allievi alla Syracuse University già oggetto di espliciti tributi nei primi anni dei Velvet Underground. The Blue Mask è quindi un

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buon album, che tuttavia tradisce il desiderio di tornare ad un passato irrecuperabile, a partire dalla copertina (una rielaborazione virata blu del ritratto di Transformer). La livida e brutale The Gun e la psicodrammatica nevrosi della title track sono i momenti migliori in scaletta, gli unici titoli che potrebbero ambire ad entrare nel novero dei migliori pezzi del repertorio reediano. Quanto al resto, tra concessioni ad una sorta di “impegno” (The Day John Kennedy Die), resoconti familistico/esoterici (My House) e vampe psicotiche (Waves Of Fear), ad emergere come l’aspetto più interessante è la definizione di cifre espressive sempre più mature, che spostano il punto di osservazione su di uno scranno da “poeta urbano antropologico”. Il rock di Reed diventa una trama di elementi blues e jazz su cui imbastire acute disamine delle dinamiche sociali e dei tumulti interiori intesi come strettamente interconnessi, le une riflessi degli altri nello specchio scuro della irrequieta sensibilità di Lou. Che è comunque sempre più cronista di una realtà che accade fuori di lui: non ce lo vedi più ad attendere il suo uomo all’angolo della strada, a farsi scudisciare da un fiore o a condividere le struggenti atrocità del lato selvaggio ad altezza marciapiede. Volendo, potremmo considerare The Blue Mask ad un tempo l’ultimo sussulto dei Settanta di Lou Reed ed il prodromo dei suoi terribili anni Ottanta. La decade breve e malefica di Lou Reed ebbe inizio nel marzo ‘83 con la pubblicazione di Legendary Hearts. Gli Eighties stavano esplodendo in tutta la loro veemenza catodica, ma ancora Reed sembrava bearsi nella sua personalissima camera di decompressione sentimentale. Il matrimonio con Sylvia, un luogo ben più rilassante in cui mettere in pratica i modi morigerati e rispettabili che lo strapparono al tunnel tossico e alcolico di fine Settanta, gli consentirono di capitalizzare come mai prima il carico di meriti e leggenda guadagnati nei lustri precedenti. Se Growing Up In Public e The Blue Mask come abbiamo visto già pagavano parzialmente pegno alla nuova dimensione “borghese” che depotenziava la nota cifra espressiva, il businnes dei tour sviluppatosi in quegli anni – sulla scorta dei nuovi ritrovati tecnologici e dei modelli organizzativi/economici – fecero di Reed un personaggio molto più celebre e un individuo molto più ricco di quanto non fosse mai stato. Su questo retaggio mitologico giustificato più dal formidabile passato che non dal presente, Lou si accomodò senza troppi scrupoli. Legendary Hearts è in questo senso un lavoro quasi

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irritante. Al netto dello scherzetto in fase di post-produzione, del resto già compiuto ai tempi del terzo e omonimo album dei Velvet (la manipolazione del missaggio con lo scopo di enfatizzare le proprie parti di chitarra a scapito di Quine, che ne rimase giustamente scornatissimo), è un album che sembra inseguire una pacata eleganza, costruita su una quadratura essenziale (chitarrebatteria-basso-voce) ma stanca, senza slanci oltre un mestiere ai limiti dell’insulsaggine se paragonato agli standard del Nostro. Tolta qualche vampa rabbiosa (Betrayed) e una ballad dal buon pedigree (Turn Out The Light), non c’è molto che meriti di essere ricordato. In ogni caso, fu un buon pretesto per avviare un nuovo fortunatissimo tour mondiale da cui fu tratto l’apprezzabile Live In Italy, album che segna una sorta di consolidamento del sound “reediano” classico ma anche il suo definitivo accantonamento. Un po’ come fosse un messaggio dei Settanta agli Ottanta: la leggenda rock che state cercando è qui, pronta ad essere trasfigurata nella celebrazione sintetica e televisiva. Del resto, lo shobiz musicale rimesso a nuovo e corroborato dalle turbine dei videoclip aveva fame di popstar già pronte da dare massicciamente in pasto ad un pubblico affamato ed in espansione. Ragion per cui, accanto ai nuovi fenomeni (Madonna in primis, poi Cindy Lauper, Bon Jovi eccetera), il “sistema” pensò bene di rivolgersi agli eroi affermatisi nelle decadi precedenti. Come Lou, ovviamente, che si gettò nella mischia allo stesso modo di altre storiche icone del pop-rock rigenerate da Mtv quali Tina Turner, Rolling Stones, l’amico David Bowie, lo stesso Michael Jackson, in parte anche Springsteen e Dylan. Una scelta umanamente comprensibilissima, anche se artisticamente spesso imperdonabile. New Sensations del 1984 e Mistrial del 1986 sono due passi nella leggerezza ludica e ammiccante del sound Eighties, il rock stemperato di spasmi electro-funk a due dimensioni, la frenesia di agganciare l’airplay afferrando il boccone più grosso dei tanti – forse troppi – che passava il convento. Ascoltati oggi, sono dischi che non lasciano traccia, senz’altro per la proposta sonora ma anche (di conseguenza) per una scrittura che sembra accontentarsi di imbastire trame-pretesto per ricamarci arzigogoli sintetici, oltretutto senza compensare con la sordidezza beffarda e in qualche modo malata che non aveva mancato di sostenere i momenti volutamente più “leggeri” del passato. Per quanto riguarda New Sensations (che incredibilmente ha in

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comune con Berlin ospiti di vaglia quali Michael e Randy Brecker a sax e tromba), tolte forse la gravità sorniona di Doin’ the Things that We Want To, la tutto sommato accattivante I Love You, Suzanne (che ottenne discreto successo radiofonico) e la tensione radente della title track, non c’è molto da dire. Lou si siede sul proprio mito ed elargisce al pubblico plaudente briciole di repertorio in una brodaglia di espedienti all’ultimo grido. Un pubblico cui forse non sente di dovere più molto. Il successivo Mistrial riesce a fare anche peggio: affidata la produzione al bassista Fernando Saunders, spinge ancora di più il sound verso territori di assoluta insulsaggine (la scelta di ricorrere al drumming sintetico completa l’opera), corredandoli inoltre con testi che sembrano

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una sorta di redenzione (non richiesta) offerta al mondo per scontare le scelleratezze del passato (la title track, Don’t Hurt A Woman, Mama’s Got A Lover). Detto che No Money Down e Video Violence sono le due facce di plastilina del rapporto tra Lou ed il totem televisivo (la prima per il clip surreale cui fa da pretesto, la seconda per la retorica becera di cui è pervasa), occorre aggiungere che comunque qualcosa si salva, perché The Original Wrapper va ad incocciare le forme del rap con un estro funky sferzante di assoluto rilievo (cui renderà merito la versione elettrica ripresa nel live Perfect Night), mentre Tell It to Your Heart è una ballata sì sentimentale ma di buona fattura, col cuore che torna a pulsare vivo e vero come da qualche anno non capitava. Anche considerando questi piccoli segnali di vitalità creativa che continuava a covare sotto la cenere del pesante deterioramento espressivo, è difficile comprendere lo scarto qualitativo che separa Mistrial da New York. Nei tre anni che li separano accadono principalmente due cose: se l’evento sociale più importante è la diffusione del virus dell’AIDS (che fa calare sugli anni Ottanta una cappa mortifera presto interpretata da qualcuno – strumentalmente o meno – come una sorta di contrappasso all’edonismo pervadente), dal punto di vista personale Lou riceve una solenne mazzata dalla morte di Andy Warhol. Più che le circostanze del decesso dell’artista, a turbarlo è la lettura del diario pubblicato postumo, dove non mancano pesanti critiche all’ex-protetto. Per Lou è come se fosse crollata di schianto tutta la sovrastruttura che gli aveva permesso di sintonizzare su un registro più leggero e utilitaristico la propria cifra espressiva. La presenza della morte come falciatrice di illusioni e rivelatrice di verità nascoste sembra ricondurlo al grado zero, a quel livello di scontro col (e osservazione del) mondo che ne aveva caratterizzato l’opera almeno fino ai Settanta. In un certo senso, gli esecrabili Ottanta di Lou Reed finiscono sepolti nella tomba di Warhol, e fortunatamente con un paio d’anni di anticipo rispetto alla scadenza naturale della decade. Era tempo di tornare a prendere per le palle la realtà, di cantare la ferocia del mondo, di cui la città di New York diventa sineddoche potente e claustrofobica. Mai come questa volta il turning point coincide con un cambio di etichetta. Assolti gli obblighi contrattuali (remunerativi per entrambi) con la RCA, Reed scelse di firmare per la Sire Productions, storica etichetta fondata da Seymour Stein e Richard Gottehrer nei Sixties, protagonista della stagione wave punk (nel suo roster di fine Settanta figurava-

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no Talking Heads e Ramones), infine passata sotto l’ala Warner specializzandosi in una sorta di generico e piuttosto eterogeneo “pop di qualità” (da Madonna ai Depeche Mode passando dai Cure). Inciso da maggio a novembre 1988, prodotto da Reed stesso assieme al batterista Fred Maher, New York è un album crudo e raffinato, riconduce al cuore dell’asprezza e della tracotanza rock ma si lascia morbidamente contagiare da movenze blues e jazz (vedi la stupendamente allegorica Last Great American Whale o lo swing acidulo della sbrigliata Beginning Of The Great Adventure), sfoggiando una cura fragrante e puntuale dei suoni. La quadratura di chitarre (l’altro chitarrista è l’ottimo Mike Rathke), contrabbasso elettrico (Rob Wasserman) e batteria (Maher) è dinamica, versatile, frondosa e potente come mai prima: non è il “vecchio” Reed, ma una sua evoluzione matura sfuggita ai compromessi in cui sembrava essersi intrappolato. Se c’era bisogno di tornare a sentire vibrazioni rock in quel confuso crepuscolo di

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Eighties – almeno a livello mainstream, ché di rock sotterraneo non ne mancava – questo disco piombò sulla scena come un dono insperato. La grande mela è lo scenario dove Lou tratteggia atti dalla grande forza evocativa con liriche affilate sulla pietra della poesia più aspra e laconica. È il luogo in cui si consumano amori disgraziati (Romeo And Juliette) e sfilano parate su cui gli eventi (leggi: l’AIDS) hanno steso un velo di macabra tristezza (Halloween Parade), sfondo perfetto per invettive nevrotiche (There Is No Time) e ingrugnite di sacrosanto sdegno (la contundente Strawman), binario su cui sferragliano blues rock serrati da fratellastro sprezzante degli Stones (Busload Of Faith) e guizzi aspri da padrino cazzuto di John Mellencamp (Dirty Blvd.). Questa ritrovata genuinità conferisce a Lou un’autorevolezza finalmente degna del proprio passato, grazie alla quale riesce ad affrontare di petto angolazioni politicamente impegnate e perciò a stretto rischio di retorica come la guizzante Good Morning Mr. Waldheim, mentre un Xmas In February si riallaccia alle meste trepidazioni già Velvet con una meditazione folk blues lattiginosa che t’inchioda di asciutta commozione. Anche il fronte arty viene esplorato con esiti lusinghieri, in particolare con quella Dime Store Mistery che – come la succitata Last Great American Whale – vede Moe Tucker alle percussioni in mezzo ad una trama radente di chitarre e contrabbasso elettrico. In definitiva, a 47 anni di cui i cinque precedenti passati a sfornare dischi mediocri ed officiare il proficuo rituale della propria presenza live, Lou Reed riesce ad azzeccare la mano vincente sfornando uno dei dischi migliori della carriera. Soprattutto, dimostra come il rock possa ancora raccontare il presente, a condizione di respirare ciò che galleggia ad altezza marciapiede, di spingersi così dentro alle cose che si vogliono cantare da sviluppare con esse una scellerata empatia. Allargando la prospettiva, va detto che questo ritorno al centro della zona nevralgica del classico idioma rock – come reazione all’airplay perlopiù cotonato e sintetico – era nell’aria. Reed ebbe il merito di essere tra i primi, almeno nel novero dei pesi massimi, ad avvertirlo: nei mesi successivi del 1989 – New York vide la luce il 10 gennaio – uscirono infatti Oh Mercy di Dylan e Freedom di Neil Young, ma ancora più importante saranno lavori come Bleach dei Nirvana e Louder Than Love dei Soundgarden, tra i primi seminali titoli della cosiddetta scena grunge, che col suo recupero di stilemi hard segnerà pesantemente il gusto e la tendenza a cavallo

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tra le due decadi. Dopo anni insomma di ricorso quasi ludico e talora gratuito degli strumenti sintetici, si fece strada un bisogno profondo di rock suonato, il più possibile diretto, le deviazioni e le sofisticazioni ridotte al minimo. E Lou si fece trovare pronto all’appuntamento. Ancora più sorprendente è misurare questa svolta con gli esiti più teatrali del successivo (aprile 1990) Songs For Drella, album inciso assieme a John Cale con l’obiettivo di allestire uno show commemorativo per Andy Warhol. La trama evocativa e talora spettrale degli scarni arrangiamenti (piano, tastiera, viola e chitarra) conduce questa elegia su territori solenni e vibranti, anche se lo stile laconico e brusco di Reed – autore principale di quasi tutti i pezzi per ammissione dello stesso Cale – riesce ad affiorare (come ad esempio in Images, Work e Starlight) dissipando il rischio di scivolare nella blanda agiografia. È oggettivamente difficile realizzare che l’autore di acquarelli delicati e struggenti come Open House, Slip Away o Style It Takes (quest’ultima ballata degna dei migliori palpiti Velvet, cantata magnificamente da Cale) solo tre anni prima si accontentava di passare all’incasso con funky-rock algidi e sferzanti un tanto al chilo. Se Drella costituì una conferma di alto profilo della ritrovata vena artistica, indusse allo scoperto nella cifra di Reed quell’approccio intellettuale al rock che da sempre la caratterizzava, e che fino ad allora aveva conteso all’attitudine più brusca – talora persino brutale – la modalità dominante. Con l’approdo alla mezza etàe con la consueta tracotanza (un misto di fierezza, presunzione e smisurato talento), Lou opta quindi per un approccio eminentemente intellettuale alla prassi espressiva rock. In questo senso, nel 1992 Magic And Loss chiude il cerchio, presentandosi come uno dei lavori più strutturati e ambiziosi della carriera, vero e proprio concept sul tema della morte e della perdita provocato dai decessi nel volgere di pochi mesi di due amici importanti. Uno, Doc Pomus, era autore e musicista blues, l’altra – di più incerta attribuzione – era la fantomatica Rita, nome che potrebbe riferirsi tanto a Rachel (deceduta in circostanze poco chiare nei primi anni Novanta) quanto alla Rotten Rita già citata in Halloween Parade, come Pomus falciata dal cancro nel ‘91. Il risultato è un’opera in quattordici tracce che medita su temi scomodi come la consunzione, la sofferenza, l’impotenza della scienza medica, lo spegnersi e l’impasto inesplicabile di nostalgia

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e rimorso in chi resta ad esercitare l’amara disciplina del ricordo. C’erano tutte le condizioni perché ne uscisse un disco ostico e pedante, ma Reed non fa sconti, il piglio intellettuale non gli impedisce di guardare il tabù dritto negli occhi, riproduce con realismo quasi insostenibile la sofferenza, la frustrazione, il coraggio e la disperazione, utilizzando versi come sequenze asciutte, dalla crudezza quasi documentaristica che rilascia altresì vampe di lirismo struggente. Pur non raggiungendo l’equilibrio tra pulsione rock e intensità letteraria di New York (Magician, forse l’apice ed il centro poetico dell’album, potrebbe essere catalogata alla stregua di un recital), l’enfasi sui testi non impedisce a Reed – coadiuvato in fase di scrittura e produzione dal buon Rathke – di confezionare canzoni degne di figurare molto in alto nel suo ideale canzoniere. È il caso della rarefatta Dreamin’, dell’impeto drammatico e radioso di Sword Of Damocles, dell’intensa disinvoltura soulrock di Power And The Glory (con uno stupendo intervento del cantante jazz “Little” Jimmy Scott) e di quella What’s Good che si profila errebì accattivante portatore insano di oscuri germi filosofici fino alla cima delle classifiche d’ascolto. Magic And Loss fece più che ribadire quindi la recuperata integrità artistica di Reed, ne rappresentò un interessante passo in avanti. Purtroppo, va considerato il suo ultimo grande album, anche se i lavori successivi non delusero affatto. Non certo Set The Twilight Reeling, uscito tre anni più tardi. Un buon album di canzoni sbrigliate e toste, tornite da una nostalgia a tratti veemente, avvampate da slanci d’impegno aspro e lasciate rosolare al calore di una nuova, definitiva situazione sentimentale. Dopo Magic And Loss infatti ad un avvenimento pubblico clamoroso – la reunion dei Velvet Underground, all’insegna di una piuttosto spocchiosa auto indulgenza che frutterà un tour dall’inevitabile successo (anche come supporter dei celebratissimi U2, all’epoca forse la band più importante del pianeta), un immancabile/ovviabile album live e fortunatamente (causa incomprensioni reciproche) nulla più – seguirà la rottura del rapporto con Sylvia, provocata pare dalla contrarietà di Reed all’ipotesi di avere figli. L’incontro con Laurie Anderson rappresenterà perciò una sorta di illuminazione, la perfetta controparte femminile, talento astruso capace di muoversi con coraggio e brillantezza sulla linea di confine (ma spesso oltre) tra avanguardia e pop-rock. Trade In, una ballad folk rock che procede in punta di cuore fino ai ruggiti

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finali, è un gioiellino che senza colpi di genio ma con una franchezza struggente sancisce l’ingresso della nuova compagna nella vita e nei pensieri di Lou, determinandone una sorta di rinnovamento spirituale (“I’ve met a woman with a thousand faces/And I’m gonna make her my wife”). Pur nella varietà dei toni e delle situazioni – dal soul jazzy di NY City Man al funk ingrugnito di Sex With Your Parent (a muso duro contro la politica censoria della destra americana) passando per il boogie’n’roll della quasi sbarazzina Hookywooky – Set The Twilight Reeling è un album che si muove compatto a recuperare la saggia vitalità di un animale rock sopravvissuto a se stesso, agli anni Ottanta, ad una città cannibale, alla vita che vorrebbe farlo cadere in un baratro di nichilismo nero. Al buon livello medio dei pezzi non corrispondono però picchi di particolare rilievo, fatta eccezione per la splendida title-track, una ballata che caracolla acustica come un fiore carnoso che si schiude con garbo trepido fino alla tempesta emotiva elettrificata del finale, lasciandoti con un senso di liberazione e di approdo ad un livello nuovo e forse superiore di esistenza (“I accept the new found man/And set the twilight reeling”). Stavolta è uno di quei casi in cui il totale è inferiore alla somma delle singole parti, un album che non sa staccarsi dalla sua dimensione rock dignitosa, intrigante ma tutto sommato accessoria, ancorata ad una irriducibile autoreferenzialità (perdonabile solo perché a proporcela è un certo Lou Reed). Si avvertono insomma qui i prodromi del tenore intellettualistico che informerà l’ultima stagione creativa dell’ex-Velvet, e che da più parti sarà ricondotto all’influenza della Anderson in una sorta di riedizione della famigerata (si fa per dire) relazione tra Lennon e Yoko Ono. Detto che la tesi potrebbe contenere elementi di verità, di certo – proprio come nel caso del Beatle – era ciò che Lou voleva fortemente, con la consueta determinazione. L’allestimento di Time Rocker – rappresentazione teatrale a base di rock e reading sul tema dei viaggi nel tempo – sembra in questo senso uno sbocco naturale, la tappa di un percorso che vedeva Reed impegnato a definire un livello più alto del concetto di “rock d’autore”. Questa falsariga porta ad Ecstasy, uscito nel 2000, che rispetto a Set The Twilight Reeling utilizza il tema dell’amore – travolgente, derelitto, misero, illuminante, perverso – come una lanterna per addentrarsi nel terreno devastato delle nevrosi contemporanee, dello spaesamento esistenziale, dell’assenza di dimensione spirituale. Uno scarto poetico ed un balzo in alto

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dal punto di vista delle ambizioni che riesce a procedere di pari passo sul binario di testi (forse mai tanto complessi ed elaborati, come Reed teneva a sottolineare nelle interviste dell’epoca) e dei suoni, anche se al risultato finale manca inevitabilmente l’immediatezza brusca e lancinante che aveva segnato i lavori migliori di Lou (vedi il piglio arty di White Prism – col violino elettrico della Anderson – e la morbidezza infeltrita di Turning Time Around, mentre una Tatters è soltanto bolsa col suo sofisticato ciondolare folk). Se il predecessore convinceva per la sostanziale bontà media, senza cadute né vette, qui i passi falsi sono compensati da guizzi qualitativamente ragguardevoli, vedi la spirale di decadenti perversioni narrate in Rock Minuet, le palpitazioni meditabonde della title track (sorta di soul stemperato in una torbida caligine jazzy) ed i diciotto minuti di visioni fiere e deragliate di Like A Possum. Se aggiungiamo poi il buon “mestiere” sciorinato in pezzi dalla graffiante agilità come Paranoia Key Of E, nello sdegno iracondo di Future Farmers Of America e in una Big Star che pur nella sua prevedibilità strutturale e melodica insegna due o tre cosette sull’arte della rock ballad, possiamo considerare Ecstasy un buon album, senz’altro una delle cose migliori partorite da una rock star alle soglie dei sessanta. Un aspetto quest’ultimo tutt’altro che marginale, considerato che il rock è disciplina relativamente giovane, per la prima volta alle prese con l’età avanzata dei suoi interpreti storici. In questo senso, Reed indica una via tutt’altro che nostalgica o – peggio – supergiovanilistica al rock fatto da over-sessanta, suggerendo anzi di fare perno su esperienza e maturità per affilare il linguaggio e la mira. Senza rinunciare a se stessi ma solo se si è disposti a rimettersi in gioco e casomai oltrepassarsi. Tuttavia, questa tensione di ricerca fallì l’aggancio con la parte più giovane del pubblico rock, diversamente da come è invece accaduto più avanti allo Scott Walker di The Drift, a Bad As Me di Tom Waits o a The Next Day di David Bowie. Gli sforzi di Reed miravano ormai a soddisfare passioni e ossessioni del tutto proprie, dirottando l’ambizione su territori interessanti ma defilati dalle correnti evolutive del rock contemporaneo. The Raven, uscito nel 2003, è esattamente questo: un enorme impiego di energie intellettuali per soddisfare l’ossessione definitiva di Lou, quella cioè per il poeta e scrittore americano Edgar Allan Poe. Concepito in occasione di POEtry, uno spettacolo teatrale organizzato da Bob Wilson (lo stesso produttore di Time

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Rocker), The Raven è appunto una rivisitazione in formato rock album dell’idea alla base della rappresentazione: le opere di Poe interpretate e messe in musica, affidate alle voci recitanti di attori come Willem Dafoe, Steve Buscemi e Amanda Plummer, cantate da Bowie, dalla Anderson, da Antony Hegarty e ovviamente da Reed, in un tripudio di elettricità, atmosfere cinematico-cameristiche e spasmi jazz-funk (di rilievo il contributo di Ornette Coleman in Guilty). Trentasei tracce tra parti recitate e canzoni, tra queste ultime di rilievo anche se non imprescindibili Call In Me (in coppia con la Anderson), la trepida Who Am I? e le vampe funk spigolose della già citata Guilty, mentre francamente escono depotenziate dal processo di contestualizzazione le vecchie The Bed e Perfect Day (quest’ultima per la voce efebica dell’ineffabile Antony). Questo richiamo a Berlin non è casuale, trattandosi di una sorta di cerchio che si chiude da concept a concept, una parabola di tormentata ricerca del senso di sé nel mondo che in The Raven sembra soltanto individuare una più determinata e sensazionale mancanza di risposte (“The only thing constantly change is change/And it’s always for the worse”). Mi perdonerete se il viaggio termina qui. Lo scopo di questo precipitare in caduta libera lungo la carriera di Lou Reed era provare a focalizzare i motivi per cui sono convinto, fortemente convinto, che il suo passaggio non potrà essere ignorato da nessuno che ambisca farsi passare per rocker o semplice appassionato rock. Ho motivo di pensare che per Lou i suoi ultimi anni siano stati artisticamente soddisfacenti. Il tour in cui ripropose Berlin assieme ad un’orchestra di 30 elementi ed un coro gospel fu un’occasione per vederlo in gran forma e soprattutto sereno, evidentemente soddisfatto e compiaciuto per aver vinto la sfida: restituire il giusto plauso ad un tale capolavoro ignorato e sbeffeggiato all’uscita (ancora oggi mi chiedo: come è stato possibile?). Da allora non abbiamo più avuto nulla di musicalmente rilevante, se non la pessima trovata di unire forze, sensibilità e calligrafia con i Metallica per quella chimera dall’impietosa bruttezza che è Lulu. Spiace infierire, ma sembra proprio l’innestarsi bionico dello stereotipo di due modalità espressive agli antipodi (a meno che non mi sbagli e sia invece un altro caso-Berlin, di cui non mi capaciterò fra venti o trent’anni). Spiace ancor più che sia ad oggi l’ultima testimonianza discografica di Lou Reed, quella con cui ci ha definitivamente salutati, in attesa della pubblicazione di pezzi

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inediti e progetti abbozzati che rappresentano l’immancabile appendice postuma di ogni musicista da che sono state messe a punto le tecniche d’incisione. Ovvio che neanche se dovessero vedere la luce gli scarti più banali e scadenti cambieremmo idea sulla statura di questo piccolo grande newyorchese che è riuscito a diventare re di un’isola che non c’è ma che sappiamo reale, crudele come una cicatrice sopra un tatuaggio, bieca come la strada buia dove riposano cadaveri di ragazzine, fragile come chi ha paura di dormire, libera come un viale argentato, selvaggia come l’uomo che stai aspettando per comprare la tua dose di appartenenza ingannevole alla carneficina del mondo. Lou Reed ci ha regalato un rock senza paura di essere vero. Da allora, credo, abbiamo meno paura di considerare grande il rock.

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Genere: cantautori, indie Rileggere la produzione di Daniel Johnston è una sfida, come, probabilmente, anche un'esigenza fisiologica. Certo è che le canzoni del musicista di Sacramento non sono più sue canzoni, quando qualcun altro mette loro mano. Impossibile replicare il deragliare pop incontrollato e intimamente legato alla biografia del "crazy diamond" Johnston: in un modo o nell'altro si finisce per normalizzarlo, indirizzarlo verso un senso logico condiviso, istituzionalizzarlo (un po' come accade con i brani di Syd Barrett). Eppure l'esigenza di appropriarsi di quelle autobiografie messe in musica, di rendere omaggio a un essere umano tanto conflittuale e mentalmente problematico, quanto sensibile e semplice nei bisogni primari (in fondo, nelle sue canzoni, Daniel Johnston chiede soltanto di essere amato), pare essere un desiderio irresistibile. Quasi che condividerne il canzoniere, dare la propria versione dei fatti reinterpretando parentesi tanto toccanti, fosse un po' liberare l'autore dalle sue sfortune, condividerne i dolori, nobilitarlo, alleggerirgli il fardello. Chissà se Adrian Crowley e James Yorkston pensavano a questo quando nel 2008, tra un impegno e l'altro, hanno cominciato a lavorare a My Yoke Is Heavy: The Songs of Daniel Johnston. Un disco che sarebbe dovuto rimanere un esperimento in formato CD-R, non fosse che le 99 copie masterizzate messe in

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vendita nel 2009 durante il festival Homegame, si volatilizzano in un batter d'occhio. Da qui la decisione di fare uscire l'album in un'edizione con tutti i crismi (compreso un LP deluxe), operazione di cui si è occupata Chemikal Underground. Otto brani tra classici (Don't Let The Sun Go Down On Your Grievances, Like A Monkey In The Zoo, True Love Will Find You In The End, Walking The Cow, The Sun Shines Down On Me) e qualche canzone meno conosciuta, registrati nelle situazioni più strane e con le attrezzature più varie. Diversamente da quanto accaduto nel CD di cover contenuto in The Late Great Daniel Johnston, My Yoke Is Heavy: The Songs of Daniel Johnston sceglie una via fondamentalmente lo-fi, in cui mescolare microfoni improvvisati, vecchie consolle, mini sampler, strumenti giocattolo, strumentazione tradizionale e chissà cos'altro. A parte rari casi – il minimalismo intimista e toccante di una The Sun Shines Down On Me voce, arpeggi e poco altro – l'operazione non ci pare imprescindibile, anche se l'ascolto rimane assai piacevole. Colpisce l'estrema libertà alla base di un album comunque amorevole, affezionato, artigianale e infine coerente con la produzione e l'approccio di Daniel Johnston. Una bella parentesi che rende ulteriore merito alla produzione originale del musicista americano. 6.8/10 Fabrizio Zampighi

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James Yorkston - My Yoke Is Heavy: The Songs of Daniel Johnston (Chemikal Underground Records,2013)


Genere: afrobeat La passione di Damon Albarn per la musica etnica non è certo una novità: dagli innesti non troppo velati di Think Tank, a Mali Music con la collaborazione dei musicisti del Mali Afel Bocoum, passando per Kinshasa One Two e l'afrobeat di Rocket Juice and The Moon, l'eclettico artista di Colchester è sempre stato affascinato dagli orizzonti culturali africani. Ovviamente non fa eccezione Africa Express, progetto caritatevole nato nel 2012 e promosso con l'Africa Express Train Tour, una serie di concerti nelle varie fermate della tube londinese assieme a musicisti africani e con la presenza sporadica di qualche nome grosso, fra tutti Sir Paul McCartney. Un anno dopo viene partorito il primo album in studio del progetto, registrato in Mali, che vede nelle fila artisti del posto e volti noti del vecchio continente: oltre alla presenza del frontman dei Blur, troviamo Nick Zinner (Yeah Yeah Yeahs), Brian Eno, Ghostpoet, Holy Other, assieme a componenti di Metronomy e Django Django, Lil Silva e Two Inch Punch. Nel disco la presenza di Albarn è praticamente nulla, assieme alla produzione fantasma di Brian Eno, con i due che preferiscono lasciare spazio ai padroni di casa, dando più un contributo a livello di visibilità che tecnico. Nonostante il qui presente sia un disco che affonda le radici nella musica etnica, con evidenti riferimenti ai suoni africani come Fantainfalla Toyi Bolo – suonata da Adama Koita –, Bouramsy e la piacevolissima strumentale di Chanson Deko Tapestry della Yacuba Sissoko Band, tra i brani troviamo anche episodi più "occidentali", come le rime di Ghostpoet sul tappeto digitale di Season Change – l'unico pezzo dove è evidente la mano dello "stratega

obliquo" – e il riff di Soubour. C'è spazio anche per la toccante Farafina, dove Moussa Traore intona una rap-poesia alla sua "Afrique, Mon Afrique". Senza girarci troppo attorno, Africa Express Presents: Maison Des Jeunes ci pare tuttavia un titolo frivolo e minore nella oramai corposa discografia etnica di Albarn. Rimandiamo tutto alla prova solista, in arrivo tra qualche mese. 5.9/10 Daniele Rigoli

Alcest - Shelter (Prophecy,2014) Genere: shoegaze, dream, blackmetal Partiamo subito dalla conclusione: Shelter, quarto album in studio del progetto francese Alcest, stupirà molto di più lo zoccolo duro dei fans degli esordi, piuttosto che gli avventori dell'ultim'ora, per una serie di ragioni ben precise. Un primo aspetto da considerare verte sul percorso artistico che Neige (sotto il quale si nasconde Stéphane Paut, una prassi questa degli pseudonimi, derivante da certi ambienti blackster nordeuropei) ha storicamente compiuto: il suo era un suono tipicamente black metal fatto di cantato scream, blast beat e furiosi strumming di chitarra distorta a cui, pian piano, ha affiancato in modo sempre maggiore la voce pulita, seppur riverberata, e sovrapposto una seconda chitarra distorta arpeggiata atta a produrre quell'effetto un po' romantico tipico degli stilemi shoegaze. Un esempio sonoro, questo, che ha portato col tempo alla creazione della categoria denominata black-gaze, termine spesso usato impropriamente dalla critica che unisce in un unico calderone sia artisti dalle attitudini folk (ben più affini al black metal dello shoegaze, vedasi alla voce "viking") come gli Agalloch, sia altri come i Deafheven – il caso hipster dello scorso anno, finiti con Sunbather in molte delle playlist di chi col metal aveva poco a che fare – con

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Africa Express - Africa Express Presents: Maison Des Jeunes (Transgressive,2013)

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Genere: folk Almanacco del giorno dopo era una trasmissione televisiva andata in onda tra il 1976 e il 1994 su Rai Uno, dal lunedì al sabato, poco prima dell'edizione delle 20.00 del TG1. Utilizzando l'idea di base del vecchio almanacco medievale, il programma si proponeva di raccontare cosa sarebbe accaduto il giorno successivo. Si parlava di orari precisi di alba e tramonto, di fasi lunari, della storia del santo del giorno, si raccontava ciò che era avvenuto nella medesima data gli anni precedenti ed, edizione dopo edizione, venivano aggiunte alcune rubriche storiche e di consigli utili alla vita quotidiana, il tutto accompagnato da immagini e disegni, simboli chiave dei vari racconti in onda. Dente utilizza la prospettiva, oggi risibile perché evidentemente solo parzialmente veritiera, del racconto anticipato del futuro e la applica, magicamente, al passato. Almanacco del giorno prima è dunque una raccolta, idealmente illustrata con le immagini proprie di queste canzoni, di un passato che è finito o che non è esistito, una raccolta poetica di scelte e disegni non fatti, di vie non intraprese che, proprio per questo, hanno lasciato un'ombra sul presente. Arrivato al quinto album in studio – pubblicato per la prima volta con una major discografica – Dente propone un lavoro che sembra legarsi in modo netto a L'amore non è bello (2009), più che al penultimo Io tra di noi (2011). Di quel disco del 2009 Almanacco del giorno prima ha la forza drammatica che dai testi si spinge nelle musiche, e, in particolar modo, negli arrangiamenti e nella voce, drammaticità melò che, al tempo stesso, sa ben mischiarsi a quell'elemento strettamente pop e melodico che rese incisivo Io tra di noi. Il tema portante è, come nei quattro dischi precedenti, quello dell'amore: amore non vissuto, amore perduto, amore che sembra, soprattutto, perso quasi per errore, eternamente rimpianto e quindi eternamente sublimato in canzone. Ancora più evidente in questo lavoro, è la corrispondenza netta tra suono e parola: laddove pure, spesso, si rifugge la rima baciata e prevedibile, si riesce comunque a ottenere un perfetto incontro tra la potenza evocativa dei testi e quella, ugualmente disperata, dei suoni scelti. Non a caso, Almanacco del giorno prima è un trionfo di organo Farfisa e clavicembalo, di glockenspiel e vibrafono, strumenti DOC per quanto riguarda la costruzione della canzone d'autore struggente italiana; ecco che dunque ci troviamo di fronte a intere canzoni d'oggi che ricordano intere canzoni del passato (Fatti viva potrebbe essere, per esempio, una citazione senza fine de La notte di Adamo). Il clima che si respira in quest'album è quello che esce talentuoso dai vecchi video delle puntate di Senza rete, di Studio Uno, un mood, insomma, che è retrò senza essere posticcio, che è retrò con naturalezza. Insieme ai suoni da vecchio studio RCA – sembra di vederlo lì, Dente, seduto a terra dietro il vetro come Sergio Endrigo – in quest'album c'è tanto Sudamerica, ci sono suoni che è facile immaginare arrivati direttamente dal Messico o dal Brasile (dove Dente si è esibito in tournée ospite dei Selton). Non c'è la bossa nova, non c'è il samba, ma c'è un'idea italiana e melodica di Sudamerica filtrata senz'altro anche dagli ascolti dei dischi degli anni '60 di Vinicius De Moraes e, appunto, di Endrigo insieme a Luis Bacalov (evidente in Invece tu, Coniugati passeggiare, I miei pensieri e viceversa, Gita fuori luogo). Infiniti fino a farsi mix indecifrabile

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Dente - Almanacco del giorno prima (Sony BMG Music Entertainment,2014)


sono, ancora una volta, i riferimenti al cantautorato italiano classico, ai 70s, al consueto Lucio Battisti, ma pure a certe sonorità del migliore, primo, Franco Califano. Almanacco del giorno prima è un album più che mai intimo, quasi violentemente privato, che sa essere insieme caldo e raggelante, disperato. Se non vi piacciono i giochi di parole ("Amica mia, Ah.. mica mia!"), le storie classiche capovolte e attualizzate (come in Remedios Maria), i diminutivi usati a tradimento per spezzarvi il cuore (ascoltate Casa mia e vedrete), se non siete interessati all'amor cantato e se cercate i suoni del futuro, dopo cinque dischi è il caso di ammetterlo senza indugi: Dente, semplicemente, non farà mai per voi. Se invece siete incuriositi da questo minuscolo viaggio nel tempo dell'autore che è poi, allargando il campo visivo e andando a fondo, un viaggio universale nel tempo che ci è dato utilizzare, se siete irresistibilmente e naturalmente attratti dagli innumerevoli modi affilati e tagli netti che uno stesso cantautore può usare nella canzone che lo racconta, beh, ascoltate subito cosa si dice in queste puntate dell'almanacco che va all'indietro. Un almanacco che ci costringe a fare il conto degli sprechi, delle perdite, e che ci mette di fronte, ancora una volta, a una delle penne più interessanti, curate e precise che la canzone d'autore italiana abbia generato negli ultimi anni. 7.8/10

addirittura influenze post-hardcore, giusto per aggiungere ulteriore confusione al tutto. Seguire la scia dell'hype sarebbe stato sicuramente un buon metodo per ingraziarsi molti di questi ascoltatori. Finite le supposizioni arriva la sorpresa, comunque già intuibile leggendo i nomi di Birgir Jón Birgisson in produzione e di Neil Halstead con le Amiina tra i musicisti ospiti. I riferimenti cambiano radicalmente: la componente black è interamente sostituita da una vena dream-pop propria dei lavori personali e con gli Slowdive dell'artista inglese (anche se nella sua comparsa sul disco in Away troviamo il punto qualitativamente più scarno e meno efficace del disco), con l'aggiunta dei cori in falsetto in stile Mew e di quel tocco di maestosa epicità propria di band post-rock come i Mono (Délivrance, Voix Sereines). Solo nella title track si intravede uno spicchio di passato inteso come dicotomia distorto/arpeggio sopra

menzionata, ma con la novità del pianoforte a sostituire molte parti di chitarra. Shelter è il riparo dai viaggi dell'anima, dagli abissi più profondi dell'esistenza, è un disco di luce e serenità ma parziale e apparente; la deriva tradizionalista, necessaria a descrivere il personale cambiamento, è propria di questa urgenza comunicativa e non rappresenta una perdita di idee dell'autore. Al contrario, ne rafforza lo spirito personale, con buona pace dei conservatori. 7/10 Andrea Forti

Altro - Sparso (La Tempesta Dischi,2013) Genere: indie, wave, post-punk, lo-fi Essenziali, naif, con una poetica tanto forte da appiccicartisi addosso come una t-shirt bagnata in estate, tra l'assoluta piacevolezza e il quasi-fastidio. Tornano gli Altro con Sparso,

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Giulia Cavaliere


Enrica Selvini

Andrea Tich - Masturbati (Cramps,1978) Genere: pop, cantautori, folk Riascoltando l'apertura di Masturbati, esor-

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dio del siciliano Andrea Tich, il pensiero corre a quei pochi cantautori che, pur muovendosi all'interno di generi popolari quali il blues, il folk o il rock, suonano bizzarri dalla prima all'ultima nota. È certo una questione di autenticità. E Tich, prodotto dal compianto Claudio Rocchi per Cramps nel lontano 1978, tratteggia di sé un'immagine squisitamente contraddittoria e dunque inafferrabile, senza che traspaia il sospetto di un minimo artificio concettuale. Basterebbe analizzare il testo di Atmosferofobia, in cui si descrive minutamente l'arrivo di un invisibile cataclisma: il protagonista cerca rifugio in casa, vittima di una meteoropatia esistenziale in cui la vita è un nervo scoperto pungolato dal forcone del quotidiano. La realtà, nella sua estetica grottesca, risulta appunto il soggetto preferito dal Nostro, nonostante alcuni possano accusarlo di non-sense o surrealismi fuori tempo massimo. Come un Barrett o uno Skip Spence, egli cava fuori soluzioni di apparente semplicità imbevute, a un'analisi attenta, in un ingegno obliquo e disturbante (si ascoltino Lettera o Luce). Uno staff di musicisti maiuscoli contribuisce a cesellare un pop-rock tirato e trascinante, lambendo le rive di uno humour sessualmente attivo e ambiguo quel tanto da coniare una formula convincente di italian-glam pop (La primavera nel bosco, Il candidato e la titletrack). Riesumatosi trent'anni più tardi con il buon Siamo nati vegetali, Tich si conferma artista sprovvisto di quella testardaggine grazie alla quale altri suoi colleghi sono riusciti a smerciare un talento spesso trascurabile ma venduto egregiamente. 8/10 Filippo Bordignon

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quarto disco, accompagnati come di consueto dalla voce sgraziata e a tratti quasi fanciullesca di Alessandro Baronciani - autore/cantante/ chitarrista/illustratore della band di Pesaro – e completati da Gianni Pagnini al basso e Matteo Caldari alla batteria. Il trio, attivo dal '96, conferma una volta di più la propria cifra stilistica: pezzi tirati che raramente superano il minuto e mezzo, in un lavoro per sottrazione dove non trovano posto maniera o mestiere, ma solo un'ostinata e impulsiva ricerca dell'arte come sincero veicolo creativo e comunicativo. Uscito per La Tempesta, Sparso raccoglie gli ultimi quattro EP della band, dedicati alle stagioni, per sedici brani a cui vanno a sommarsi due inediti (Che non sembri reggae, Paolo); a farla da padrone è al solito uno spirito punk quasi hc, tra richiami new wave (Ottimismo, Gattini) e alt-rock (Classe, smaccatamente Clash), passando per il post punk della ottima Nome (con Erica Terenzi dei Be Forest e Bart dei Cosmetic), per arrivare ad aperture più vicine a certo pop indipendente (Chiaramente). Un album umorale, forse più vario e contaminato rispetto al passato, con testi che sono veri e propri haiku emotivi, talora ermetici, talora diretti e spogli nella loro semplicità. Un percorso, quello degli Altro, da sempre sincero e coerente, che gli consente oggi come ieri di proporre brani nudi e fragili, quasi fossero frammenti di vetro, schegge di vita senza tempo, capaci di suonare disarmanti e, proprio per questo, mai realmente facili e immediati, nonostante il minutaggio ridotto. 6.8/10


Genere: rap, hiphop Il 2013 doveva essere il suo anno. E invece Angel Haze è rimasta a lungo parcheggiata ai box, in attesa di pubblicazione. Tanto a lungo da infuriarsi e rilasciare il disco su Soundcloud lei stessa, per poi ottenere una misera digital release il 30 dicembre. Troppo tardi ormai – ma comunque prima di Azealia Banks - per costruire sull'hype dell'ottimo Reservation EP pubblicato sul finire del 2012. Troppo presto, d'altra parte, per un lancio discografico di successo. Un anno di incubazione che decisamente non ha giovato all'artista statunitense, e che riflette e forse spiega tutta l'insicurezza dell'etichetta su questo debut album. Quello che doveva essere l'avvento di una rapper capace di rompere le barriere maschiliste ancora vigenti nell'hip-hop odierno, finisce per diventare l'ennesimo ibrido pop-rap-r'n'b che difficilmente lascerà il segno. Le premesse erano altre. "I'm nasty nigga, like Nas, like Kim, like Cassie pictures/Like I'm fucking Chris Stokes or that Raz-B nigga", avvertiva Angel Haze in New York – contenuta nel Reservation EP e inserita qui come ultima traccia bonus – rappando con successo su uno strumentale di Gil Scott-Heron. C'era urgenza, tecnica, passione, accompagnate da una produzione asciutta ed essenziale. Insomma una proposta credibile. In Dirty Gold, dando un breve sguardo alla cover, si capisce subito che qualcosa è andato storto. Il talento di Angel Haze – che rimane immutato, seppur largamente inespresso – è seppellito sotto una pesante produzione gommosa ed insipida, costruita ad-hoc per arrivare (e morire) in radio. Per qualche motivo, il progetto ha subito un completo restyling mainstream e il nome di Markus Dravs (produttore già di Coldplay, Mumford and Sons, Arcade Fire) non sembrava il più adatto a prescindere. Ma

qui si è andati oltre, attingendo da fenomeni da classifica quali Rudimental e Jake Gosling (One Direction, Ed Sheeran), servendo sul piatto una produzione pomposa – a tratti dozzinale – che per nulla sposa lo stile furioso del rap di Angel Haze, più mirata ad un pubblico puramente radiofonico e possibilmente giovanissimo. Un miscuglio sonoro che ricorda, seppur da lontano, le minestre discografiche di Nicki Minaj ma che segretamente vorrebbe emulare Beyoncé. La cosa più frustrante è probabilmente il fatto che molti dei versi di Angel Haze si fanno effettivamente ascoltare con entusiasmo, ma il tutto viene rovinato da quello che succede intorno a lei. I testi d'altro canto, sono un hit-and-miss, una sorta di gospel/street-rap in cui traspare l'ambizione dell'artista, l'affermazione e accettazione del sé, ma anche soprattutto la devozione a Dio, che Angel Haze sente il bisogno di ribadire in maniera davvero frequente, quasi fosse un sermone. "The light can make everything beautiful", "money can't buy all the love that's here tonight" e altre banalità del genere affollano la tracklist di Dirty Gold. Chi cerca un prodotto sofisticato è quindi avvisato: non siamo di fronte ad un nuovo Good Kid, m.A.A.d. City. Il singolo azzeccato però c'è, Echelon (It's My Way), ma proprio non basta. 5.1/10 Luca Falzetti

Arti and Mestieri - Quinto Stato (Cramps,1979) Genere: prog, jazz I seventies italiani: un crogiolo di contraddizioni e tentativi di rivoluzionare una società su modello delle contestazioni ester(n)e, tutte poi comunque confluite in risultati ben al di sotto delle aspirazioni di chi, in un modo o l'altro, rischiò la propria pelle. La musica degli Arti e Mestieri potrebbe figurare nell'ipotetica

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Angel Haze - Dirty Gold (Island,2013)


Genere: pop, art, indie, ambient, electronica East India Youth ha preso un po' tutti in contropiede: difficile pensare che il primo botto dell'anno discografico sarebbe stato il suo. Certo, il videoclip di Looking For Someone pubblicato ad ottobre, aveva generato una cospicua dose di hype, ma probabilmente in pochi si sarebbero aspettati una tale acclamazione trasversale. Dietro al moniker East India Youth si nasconde William Doyle, già leader dei misconosciuti Doyle and the Fourfathers (autori di un discreto indie-pop/rock, recuperateli su Spotify). A salvarlo dall'anonimato sono state le lungimiranti menti del magazine The Quietus, che hanno inaugurato la propria esperienza discografica (la Quietus Phonographic Corporation) pubblicando il primo lavoro solista dell'inglese, Hostel EP, dopo esserne rimasti folgorati. William è dotato di un gusto artistico tutto suo che traspare anche solo guardando i live su Youtube, in cui il Nostro si presenta vestito in giacca e camicia come un impiegato di banca e si districa tra synth, laptop e basso con grande dimestichezza, spaziando tra paesaggi sonori lontani e senza seguire nessuno stereotipo o moda passeggera. Questo assoluto sprezzo delle "regole" di un mercato discografico spesso vittima di limitanti compartimenti stagni, è lampante anche lungo i solchi dell'ambizioso album di debutto Total Strife Forever (sì, pare che i Foals c'entrino…) nel quale William, correndo il rischio di mostrarsi al mondo con un disco superficialmente poco coerente, riesce a creare in realtà un ampio spettro di situazioni caratterizzate da un filo conduttore già identificabile. Un'impresa non da poco, che il Nostro sembra realizzare con estrema facilità. Pubblicato dalla Stolen Recordings, il poliedrico Total Strife Forever, nel suo continuo vortice synthcentrico, è banalmente suddivisibile tra le tracce completamente strumentali e quelle (quattro in tutto) in cui William Doyle si concede vocalmente un moderno cantautorato elettronico piuttosto contagioso: Looking For Someone (la positiva ripetitività melodica è intervallata da un'apoteosi prog-tronica), una Dripping Down che vince facile con melodia+cassa dritta, il glitch-pop classicheggiante di Song For a Granular Piano e la kraut-ballad Heaven, How Long. Nel loro piccolo, quattro gemme. Non da meno il corposo reparto voice-free, nel quale l'inglese si immerge nei freddi contesti digitali. Partendo dal pre-kraut di Stockhausen, William esplora i tracciati dell'elettronica dei tardi anni '70 – tra ambient (soprattutto l'Harold Budd prodotto da Eno), progressive electronic ed esplosioni cosmiche – spingendosi con grande libertà espressiva fino a teste di serie attuali come Tim Hecker, Oneohtrix Point Never e Fuck Buttons. Quest'ultimi non sono troppo distanti nella suite formata dagli interludi Total Strife Forever (I, II, III e IV), in cui primeggia quello che sembra un Oberheim OB-Xa "dronizzato". Completano l'opera l'arpeggio synth stratificato di Glitter Recession, la techno old-school di Hinterland e l'ambient dai risvolti epici di Midnight Koto, capace di evocare panorami sci-fi di pianeti abitati da altre forme di vita. Non siamo di fronte a una rivoluzione sonora (probabilmente non avrebbe sfigurato nel roster di Type Recordings a metà anni Zero) come quella che portò a James Blake - al quale viene spesso accostato senza che ve ne siano troppi motivi – ma East India Youth, grazie all'onestà artistica

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East India Youth - Total Strife Forever (Stolen Records,2014)


che lo contraddistingue, sembra aver trovato il modo per rendere grande un album in realtà "piccolo" come questo. Dopotutto, citando Chamfort, "nelle grandi cose gli uomini si mostrano come conviene loro di mostrarsi; nelle piccole, quali sono". 7.2/10

colonna sonora di un documentario sugli "Anni di piombo", accanto ovviamente a quella dei colleghi di etichetta Area, coi quali il gruppo torinese guidato da Beppe Crovella condivise ideologie e, parzialmente, ambizioni musicali. Quinto Stato è il frutto di quattro anni di pensamenti e live importanti (su tutti, la partecipazione al mega evento milanese a Parco Lambro, nel 1976), in un periodo in cui il progressive mostrava i primi segni di decadenza e in molti già speravano in un asciugamento della formula. Fermo restando che la perfezione formale (nella struttura, nell'arrangiamento e nell'esecuzione) di uno strumentale come Torino nella mente merita da sola l'acquisto dell'album, va evidenziato un neo di non poco conto: i testi, a opera della band in toto. L'esecrabile prurito di dire qualcosa a tutti i costi (e magari qualcosa d'importante) si conferma l'inciampo di buona parte dei cantautori di ogni dove. L'affare è più evidente in ambito prog, proprio perché il genere impose un'unitarietà tematica che si credeva dovesse passare anche attraverso i testi, legando questi ultimi a sdrucite storielle testardamente "concept" o, come in questo caso, facendone Manifesto di un'Italia "contro". Parlare oggi di un "(…)amico intellettuale politicizzato extrasensoriale che mi racconta una favola sociale" (la title track) farebbe di qualunque paroliere il modello di una retorica insostenibile, roba da "seguirà dibattito", per intenderci. Al tempo ciò era invece consentito se non, in ambienti culturali vicini alla sinistra

più mordace, incoraggiato. Si dica senza indugi: tallone d'Achille dei Nostri sul versante canzonettistico è appunto l'imbarazzante desiderio di dire la propria, anche quando questo suona risibile (riferendosi a una generica classe politica, in Arterio, se ne descrivono le "panze traboccanti e gli sguardi deficienti") o alla meglio, accessorio. Resta la musica. Un'evoluzione dall'ottimo esordio con Tilt e dal seguente Giro di valzer per domani, merce di cui la Cramps può essere ben orgogliosa. Doveroso sottolineare le scelte e le dinamiche di Furio Chirico alla batteria, il timbro color fuoco della chitarra elettrica di Gigi Venegoni, il sostegno jazzistico di Marco Gallesi al basso fretless. Si chiude in eleganza con Sui tetti, dimostrazione che Arti e Mestieri fu realtà da far competere coi master del jazz-rock d'oltreoceano. 7/10 Filippo Bordignon

Big Ups - Eighteen Hours Of Static (Tough Love Records,2014) Genere: hardcore, noise Brendan Finn, Joe Galarraga, Amar Lal e Carlos Salguero Jr. sono i Big Ups e vengono da New York, città dalla quale sembrano aver colto ogni goccia di rumore da almeno un buon ventennio a questa parte. Non tanto come nomi di riferimento, quanto come approccio ad una musica che sia iconoclasta, violenta, non accondiscendente, brutale per certi versi ma

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Riccardo Zagaglia


Stefano Pifferi

Breton - War Room Stories (Believe,2014) Genere: rock, wave I Breton avevano apparecchiato perfettamente la tavola per il grande debutto (hype prerelease, un paio di pezzi bomba e riferimenti culturali di un certo tipo) ma qualcosa è andato storto: il comunque valido – per quanto acerbo – Other People's Problems ha raccolto pochissimo fuori dalla ristretta cerchia di addetti ai lavori e i loro live hanno più volte – Pitchfork Festival 2012 compreso – lasciato l'amaro in bocca, per usare un eufemismo. A poco meno di due anni di distanza, gli ingle-

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si tornano su Cut Tooth/Believe Recordings (niente più Fat Cat) con un disco caratterizzato da un'urgenza comunicativa meno forte. Registrato lontano da casa, negli studi di un luogo di culto come il Funkhaus Nalepastraße di Berlino (un tempo sede della radio pubblica della DDR), War Room Stories è stato anticipato da due – azzeccati – singoli, Got Well Soon e Envy. Il primo porta la band in direzione club grazie ad uno dei groove più massicci ascoltati negli ultimi tempi, il secondo riprende invece le influenze Foals – già palpabili nel primo disco – buttandola sul celere ritmo scomposto, arricchito dalla Macedonian Radio Symphonic Orchestra presente in altri quattro brani. Meno centrati i restanti otto passaggi, nei quali troviamo diversi riferimenti a Berlino: dalle 302 Watchtowers (che fa un po' Alt-J in salsa sincopata), le vecchie torri di vedetta posizionate intorno al muro, a S4 (beat quasi UK garage sotto la strofa), una dismessa linea ferroviaria della città tedesca, Roman Rappak e compagni hanno chiaramente voluto sottolineare/tributare il contesto nel quale è stato concepito War Room Stories. Con meno pretese rispetto al passato, i Breton raccontano ancora una volta esperienze a loro vicine, come nel caso di una Closed Category contenente estratti di discorsi di John Bloss, ex-tossico e amico del gruppo. Il problema dei Breton è che a volte il ritmo da solo – senza il giusto apporto melodico – non basta, soprattutto considerata la direzione maggiormente pop intrapresa con questo secondo disco. I sentori di un'incapacità di scrivere brani che facciano realmente la differenza, li possiamo scorgere in episodi quali National Grid, Search Party – Foals sempre vicini, nonostante la presenza di Sam Lynham dei Gramme – e la conclusiva Fifteen Minutes, che incarna l'emblema dei limiti della band: suoni curati, produzione pulita ed effettistica varia che,

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sempre intelligibile e "popular", stretta in una forma canzone a volte schizoide ma prevalentemente normalizzata e fisica fino al midollo. Roba che sfocia tranquillamente in un perimetro sonoro in cui convivono – a cazzotti in faccia e calci in bocca – le chitarre albiniane, l'irriverenza dei Pissed Jeans, la teatralità sboccata e selvaggia dei Jesus Lizard, l'urgenza dell'hardcore fugaziano più elaborato e cerebrale o del noise suonato alla maniera dei Buildings. Spinge forte, Eighteen Hours Of Static, e brucia in fretta nella sua mezzora scarsa priva di fronzoli e orpelli: c'è il tiro giusto (Atheist Self-Help), una buona dose di aggressività generalizzata, scazzo post-hardcore (Grin), intrecci non banali su midtempo quasi groovey abbrutiti da violenza hc (Disposer), sventagliate della Louisville che fu, quando post-rock significava ancora qualcosa (Wool), e una richiesta totale e continua di headbanging da parte dell'ascoltatore. Eighteen Hours Of Static non sarà quel big up auspicato dalla scelta del nome, ma un pollice in su se lo merita tutto nonostante qualche sentore di dejà vu di troppo. 6.8/10


se non fosse per l'accelerazione speed-disco, sarebbero destinati al dimenticatoio. Un lavoro per certi versi frenato dal suo essere eccessivamente calibrato e studiato nei minimi dettagli. War Room Stories nel suo complesso è comunque un disco consigliato, come il nuovo dei Cymbals, specialmente a chi piace muovere le gambine senza staccare il cervello. Rimane però l'amaro in bocca per un grande potenziale forse non ancora espresso completamente. 6.8/10 Riccardo Zagaglia

Genere: rock Al netto di tutti i discorsi che sono già stati fatti su Springsteen, o meglio sulla sua persistenza da un tre lustri a questa parte (almeno), col qui presente High Hopes – diciottesimo album, due anni scarsi dopo Wrecking Ball – siamo purtroppo in presenza di un'altra badilata sulla scorza del mito. Che resiste, ci mancherebbe, tanto robusta è la stima maturata nel primo scorcio di carriera. Però, ragazzi, è una deriva veramente dura da digerire. Veniamo al sodo: traccia numero dieci, The Ghost Of Tom Joad. La versione originale era il cuore tumultuoso di un disco che, buttato in mezzo ai Novanta, sembrò una vera e propria impennata d'orgoglio del folk ad altezza mainstream, folk che col minimo di aggiornamento sindacale (un pizzico d'elettronica e di elettricità) ritrovava orgoglio e forza tali da spedire lettere lancinanti in faccia alla realtà. Quel disco e quel pezzo in particolare pullulavano di fotogrammi crudi che ti mettevano sull'attenti rispetto a ciò che il "new world order" si apprestava ad apparecchiarci, e che in effetti ancora non abbiamo finito di scontare. Ricordare quel lirismo asciutto e denso di testi e musica, e paragonarlo al baraccone celebrativo

Stefano Solventi

Childish Gambino - Because the Internet (Glassnote Records,2013) Genere: rap, hiphop Donald Glover non è certamente uno a cui

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Bruce Springsteen - High Hopes (Columbia Records,2014)

allestito oggi nella versione con Tom Morello, fa letteralmente male al cuore. È come se il Boss avesse cercato di rendere più appetibile (non è chiaro a chi: a un fantomatico pubblico ggiovane? A se stesso?) una sacrosanta zuppa di fagioli con generose spruzzate di ketchup: un autentico schifo. I virtuosismi circensi di Morello lasceranno a bocca aperta gli appassionati dei tecnicismi chitarristici. Certo, come no. Capita anche a me: per lo sgomento. Ok, non si può esaurire la recensione di un disco con la catastrofe di una canzone su dodici, ma di fronte a quella non viene neanche voglia di sottolineare le altre pochezze, come le passabili cover di Just Like Fire Would (dei Saints), Dream Baby Dream (dei Suicide) o della stessa title-track (degli Havalinas), tutti pezzi già ben noti agli aficionados. Anzi, due parole le spendiamo volentieri per l'amata American Skin (41 Shots) – che tra l'altro vede ai credits i poveri Clemons e Federici – gambizzata da un arrangiamento che sembra perseguire una vaga e persino supponente ostentazione di "modernità". Se poi dobbiamo proprio affondare la lama, prendiamo Hunter Of Invisible Game e The Wall, due ballate semplici e sentite (la seconda forse con qualche debito di troppo a Fields Of Gold di Sting) che ottengono solo di ribadire ciò che Springsteen potrebbe essere e ahilui – ahinoi – non è più. Se volete ammortizzare il colpo, prendete questo disco come un puro pretesto per imbastire l'ennesimo tour mondiale. Comincio però a chiedermi se è il caso di sentirne ancora il bisogno. (Perdonatemi). 5.2/10


Genere: rock, avant, elettronica Nulla meglio dell'ossimoro contenuto nel titolo poteva descrivere il disco di ritorno dei Junkfood. Seconda prova discografica dopo il buon Transience del 2011, The Cold Summer of The Dead amplifica ed esaspera il discorso iniziato nell'esordio, mostrando una band in stato di grazia e più conscia dei propri mezzi e limiti. Ispirato liberamente alla composizione poetica Novembre di Pascoli (il titolo è la traduzione dell'ultimo verso), la nuova fatica discografica del quartetto emiliano arriva a quasi un anno e mezzo di distanza dalla conclusione delle sessioni di registrazione: una gestazione lunga che ha dato modo ai musicisti di lavorare di fino in fase di missaggio e che ha permesso di ottenere un amalgama sonora durevole e brillante. Meno jazzy della loro prova da rookie ma più orientato verso sonorità post-hardcore di scuola newyorchese, The Cold Summer of The Dead, a differenza del suo predecessore che forse soffriva di troppa verbosità, non si perde in divagazioni ma mira dritto al dunque, risultando più scorrevole e immediato, anche per chi non è abituato a confrontarsi spesso con il genere. Le ottime Days Are Numbered, Below the Belt e On Canvas mostrano il netto cambio di rotta della band verso sonorità più di sostanza, e la scelta di catturare il tutto con una registrazione in presa diretta ha fatto il resto, donando al prodotto finale concretezza e un tiro micidiale. Un lavoro certosino, quello del produttore Tommaso Colliva (già al lavoro con Muse, Calibro 35 e Verdena), che ha dato al suono della band una profondità sonora definita, di sicuro respiro internazionale e che conferma l'assoluto valore di un produttore tra i più in palla del momento. The Cold Summer of The Dead è un ottimo disco: suonato con perizia tecnica e prodotto con gusto, rappresenta un bel passo in avanti nell'evoluzione di una band che ha lasciato intuire solo una piccola parte del potenziale di cui dispone. 7/10 Andrea Murgia

dispiacciono le luci delle ribalta. Star della sitcom statunitense Community - dove interpretava la parte del breaker Troy Barnes - e della serie 30rock, nel 2011 Glover decide di provare a intraprendere il percorso musicale firmando con la Glassnote – label che vede nel suo roster Mumford and Sons, Phoenix, Daughter e Two Door Cinema Club – e scegliendo il moniker Childish Gambino. L'album d'esordio Camp riceve giudizi altalenanti, da "album hip hop dell'anno" di NME al pesante 1.6 di

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Pitchfork. Due anni dopo, il Nostro ci riprova con Because The Internet, disco che, come suggerisce il titolo, cerca di navigare nella psiche sociale per determinare la funzione che Internet ha sulle nostre vite. Intendiamoci, non è proprio il massimo dell'originalità. Optando per una campagna di promozione asfissiante, seconda solo a quella degli Arcade Fire di Reflektor, Because The Internet viene anticipato dal mini film Clapping for the Wrong Reasons – che vede la partecipazione di Flying Lotus,

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Junkfood - The Cold Summer Of The Dead (Blinde Proteus,2014)


Daniele Rigoli

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Cumulus - I Never Meant It To Be Like This (Trans-,2013) Genere: pop, indie C'è stato un momento a fine anni Novanta in cui anche insospettabili cultori del grunge e del rock che avevano dominato Videomusic e MTV in quel decennio, oltre che le classifiche di vendita, si lasciarono tentare da alcune canzoni pop dolci come sogni proibiti. Erano due canzoni da heavy rotation che avevano fatto innamorare anche i cuori più crudi, con una miscela di sugar e dream praticamente perfetta: Kiss Me e There She Goes. Chi fossero questi Sixpence None The Richer non lo sapevamo e poco importava che i più informati sostenessero che si trattasse di una band christian rock. Sapevamo bene però che quando Leigh Nash ci chiedeva di baciarla, non avremmo potuto rifiutare. Avremmo poi scoperto che There She Goes era una cover dei La's, ma questa è un'altra storia. La stessa sensazione, oltre sedici anni dopo (il debutto dei Sixpence usciva nel 1997) e con una certa (?) maturità in più, ci arriva con le canzoni di questo esordio dei Cumulus, band dell'area di Seattle che si è fatta un nome nella scena locale come supporting band dai nomi più blasonati come Wild Flag e Gold Leaves. La voce sensualmente eterea di Alexandra Niedzialkowski è sostenuta egregiamente da Lance Umble alla chitarra e Leah Julius alla basso, per una miscela jangle/dream/sugar-pop che è perfetta come un fiocco di neve. Nessuna deroga ai must del genere, ma la grazia di dieci quadretti che si incollano all'orecchio e non vogliono più andar via. A qualcuno tutto questo darà la sensazione di sentirsi (o voler essere) più giovane di quanto non sia in realtà. 7/10

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Chance The Rapper, Abella Anderson e Trinidad James - e da 75 pagine di sceneggiatura, inserite sul sito becausetheinter.net, che raccontano la vita di The Boy, giovane benestante e figlio di Rick Ross che racconta la sua vita passata a twittare con le grandi star, esplorando le relazioni umane con la tecnologia. Purtroppo per Glover, l'estenuante pubblicità al lavoro tradisce drasticamente le attese. L'opera gira tutta attorno a una co-produzione con Ludwig Göransson (anch'egli nel cast di Community) che tenta, con un noioso e scontato trap, di nascondere le mancanze tecniche nel rappato di Gambino, ancora alla ricerca di uno stile incisivo e personale, creando un frullato di sonorità che non simboleggia trasversalità, bensì confusione: se No Exit riprende timidamente la lezione di Yeezus, Flight Of The Navigator è un tentativo di vestire gli eleganti panni R'n'B di Frank Ocean, mentre II.WORLDSTAR è un episodio elettro-jazz pretenzioso. La lista degli ospiti è invitante, ma non fa altro che nascondere ulteriormente quello che dovrebbe essere realmente il protagonista: Chance The Rapper in The Worst Guy oscura totalmente la presenza di Glover e il synth-pop di Earth:The Oldest Computer con Azealia Banks produce uno dei lavori più spompi del lotto. I pochi momenti buoni dell'album - Crawl su tutti, con l'orecchiabile ritornello di Kai - non riescono a salvare un disco poco ispirato e confusionario, che conferma la figura di Gambino come presenza poco incisiva nel panorama hip hop. Si rischia altresì di tirare avanti la baracca solo per l'immagine e la reputazione di attore dell'artista. Ennesimo passo falso. 5.4/10

Marco Boscolo

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Genere: indie Quando suonarono come spalla dei Violens in quel di Londra nell'agosto del 2012, i Cymbals avevano già pubblicato un album di debutto – Unlearn, passato, in realtà, piuttosto inosservato – impostato su coordinate di revivalismo funk-punk (in un paio di brani sembrava fosse ospite Andy Gill alla chitarra) e addizionato con un elevato contenuto ritmico che tributava la dinamicità dei primi Foals e la corrente indie-tropical d'oltreoceano. Anticipato lo scorso anno dall'EP Sideways, Sometimes, l'intero secondo capitolo The Age Of Fracture (artwork neo-astratto nuovamente in mano all'amico Robin Hulme) è stato ispirato – titolo compreso – dall'omonimo e recente libro dell'americano Daniel T. Rodgers, un testo che tratta aspetti economico-sociali dell'America post eighties. Dagli eighties sembrano provenire anche le coordinate musicali più evidenti della proposta dei Cymbals, focalizzate sull'operato dei Talking Heads ma anche su alcune idee brevettate dai New Order trent'anni fa. Cultura applicata al ballo (la disco-track Like an Animal è stata influenzata dal romanzo The Magic Mountain di Thomas Mann) che trova nelle tracce The Age Of Fracture un intelligente – anche se poi non così necessario – revivalismo. Il brano The 5% è 100% David Byrne, così come anche Empty Space (tra le più appiccicose del lotto, con un ottimo gioco di synth), mentre in un mare di groove angolari spiccano pop tunes quali The Natural World, You Are, con il suo chorus quasi Coldplayano, e la più melodica Erosion, dove i Nostri hanno la buona idea – visti i risultati – di fare propria la lezione dei Cure. A definire meglio il contesto di riferimento pensa il reparto francese (Jack Cleverly è cresciuto nei club di Parigi a cavallo del

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millennio) formato da Winter 98 – tastierone Portishead in apertura, ritmi dancey e synth '80s vicini all'italo-disco – e dai ritmi frenchhouse di The End. Come altri colleghi albionici degli anni Dieci, anche i Cymbals di The Age Of Fracture sottolineano un approccio alla scrittura decisamente intellettuale (in questo caso, analisi scaturite da letture socio-filosofiche), ma lo fanno con l'evidente intento di divertire, riuscendoci in più di un'occasione. 6.7/10 Riccardo Zagaglia

Death Vessel - Island Intervals (Sub Pop,2014) Genere: avant, folk Torna l'efebico mistero di Death Vessel, la band del Rhode Island capitanata da Joel Thibodeau, o per meglio dire il moniker con cui Thibodeau si esprime in musica. Questo terzo album, ad oltre cinque anni dal predecessore Nothing Is Precious Enough For Us, è frutto di un viaggio in terra d'Islanda dove Joel è andato a sciacquare i panni nella polla eterea Sigur Rós, ovvero facendosi produrre dal di loro sodale Alex Somers ed ospitandoJónsi – col quale ha condiviso un lungo tour americano nel 2010 – tra i credits (seconda voce nella palpitante Ilsa Drown). Ha fatto bene? Sì e no. Di sicuro sembra essersi trovato parecchio a suo agio. Fin dalla opening Ejecta difatti, il senso di processione a cuore madreperlaceo (organo traslucido, chincaglieria rurale e coretti angelici) ti trasporta in un luogo di fiaba cupa che non manca di ammaliare. Così come la delicatezza tenace dai retaggi Seventies di We Agree, la palpitazione androgina in salsa post-folktronica di Triangulated Heart (dove il canto fa pensare ad un Jon Anderson di marzapane), mentre la marcetta folk di Mercury Dime è una

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Cymbals - The Age of Fracture (Tough Love Records,2014)


Stefano Solventi

EUA - Tanto valeva viver come bruti (Autoprodotto,2014) Genere: cantautori Gli Eua nascono a Parma nel 2006 e hanno da subito le idee molto chiare: si autodefiniscono "alfieri del folk-punk-swing" e, qualsiasi cosa questo voglia dire, nel 2008 fanno uscire il loro primo disco, Eua Eua Et Voilà, un sorprendente miscuglio dei generi sopracitati, perfetto come sottofondo per le feste di qualsiasi collettivo di sinistra che si rispetti. Dopo quasi sei anni di cambi di formazione e di affinamento musicale, questo colorato gruppo di parmensi dal nome buffo quanto impronunciabile ci regala una nuova autoproduzione, Tanto valeva viver come bruti: ben quattordici tracce di materiale vecchio e nuovo di Attilio Poletti, fondatore e voce della band, cantante, poeta, giardiniere e chissà quante altre cose ancora. Il disco si presenta già da un primo ascolto come un considerevole salto di qualità rispetto al lavoro precedente. Il punk

e lo swing sono stati – per fortuna, ci viene da dire – soppiantati da ballate accuratamente costruite e da testi più studiati e a loro modo "impegnati". Niente più arrangiamenti trattenuti, niente più testi incerti: è il trionfo della canzone d'autore italiana accompagnata dalla sana attitudine alla festa che solo una formazione di sei elementi può trasmettere, il tutto sapientemente condito da una giusta dose di ironia, di quella gradevole e genuina. Quattordici brani divisi in due sezioni, Disomogeneizzati, più d'impatto e con atmosfere scanzonate da festa di paese, e Poemi euico-cavallereschi, dai testi più lunghi e concettuali, intarsiati di introspezione e malinconia. I riferimenti spaziano dai classici immancabili nella formazione di chiunque si accinga a fare cantautorato italiano, ovvero De Gregori e De Andrè (vedi le due ballate strappalacrime Nina e Stella d'inverno dell'ovest), a una versione frivola e immatura di Guccini, per poi rimandare a Daniele Silvestri (Extrasistole, Decalogo) e al timbro vocale di Stefano Rosso (Capolinea, Antimondo). Nonsense, acume dialettico, amore per l'autoironia e follia visionaria (che traspare già dall'artwork del disco, coloratissimo e in cui convivono, non si sa bene come, funghetti e seppie volanti): queste le chiavi di lettura delle musiche dei goliardici Eua, cantastorie di una corte immaginaria, un piacevole incontro tra i grandi della canzone italiana anni '70 e i contemporanei Elio e le storie tese, Perturbazione, Numero 6 e I Camillas, con qualche rimando, è il caso di dirlo, alle sigle dei migliori cartoni animati anni '90 (vedi l'attacco di Cooperativa Sociale). Cazzeggio e malinconia, stonatura e melodia, kazoo e tastiere: se siete stanchi del cantautorato indie-alternative trito e ritrito e se ai discorsi pomposi, carichi di paroloni, preferite brillanti giochi di parole e onomatopee in stile Humpty Dumpty, Tanto valeva viver come

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graziosa scheggia di traditional sprimacciato di modernità. Un po' spiace però che la cifra espressiva che potentemente ci ammaliò – così anomala e inafferrabile, pure selvatica in qualche modo – suoni oggi tanto ben incastonata in un progetto sonico fin troppo coerente e studiato (che non a caso poi, finisce per fruttare una tumultuosa ma piuttosto insulsa Island Vapors). Di fatto normalizzandosi, guadagnandoci in termini di definizione della proposta ma disperdendo parte del fascino destabilizzante che ne ha caratterizzato gli esordi. In altre parole, oggi intriga ciò che un tempo inquietava, una grazia ben architettata ha sostituito quei sinistri incantesimi. Il bilancio, mi pare, è sensibilmente in perdita. 6.5/10


Genere: indie, wave C'è una forma di eleganza che sfiora l'alterigia nel comeback dei Melampus. Ma non è distacco, né freddezza, tantomeno superiorità o boria, quella che si coglie nella mezzora che il duo Casarrubia-Pizzo mette in scena a distanza di nemmeno un anno dall'acclamato esordio lungo. C'è austerità ed eleganza nelle volute fumose delle atmosfere crepuscolari che ammantano ogni canzone; ci sono il gusto e l'equilibrio tra le parti in causa – lui a batteria e loop, lei a chitarra, voce e tastiere, molto più presenti rispetto a Ode Road – tipici di molta wave vaporosa e languida di casa 4AD; c'è il dono della sintesi che elimina i già minimi orpelli disseminati nell'esordio, asciugando all'osso le tracce e facendone intravedere l'essenza scheletrica, quasi evanescente e fantasmatica. C'è la voce di Francesca Pizzo, chanteuse in nero, severa e (quasi) algida nel suo ruolo di Nico del terzo millennio (più per immaginario altero, che per similitudini sonore, in realtà) o di eroina della wave più dark immortalata da un contrasto di luci e ombre alla Helmut Newton. C'è un b/n cinematografico in N° 7 che tratteggia immagini stilizzate e fortemente evocative; c'è la sfumatura del crepuscolo, quando le forme sonore sfumano e assumono tratti diversi, a volte minacciosi e spiazzanti, a volte familiari e cullanti. Il drumming di Gelo, in apparenza secondario, è il vero e proprio asse trainante che permette alla chitarra di Francesca Pizzo – ma anche ai tappeti elettronici, come detto molto più di una mera base atmosferica – di disegnare volute ora desertiche, ora dai contorni doomy, ora arzigogolate come arabesco onirico. E poi l'etereo trasporto delle "heavenly voices", la wave meno materica e più raffinata, le atmosfere sognanti di certo slow-core dei tempi andati così come un senso di decadente e retrò mai raffazzonato o forzato. Infine, ci sono almeno due piccole gemme che definiremmo quasi capolavori di wave oscura, romanticamente accesa, orchestrale, classicheggiante e da stretta al cuore, come While We Float e Waltz For Nina. N° 7 è l'ennesimo centro per una band che ha dalla sua una idea forte e chiara, incurante di trend e movimenti così come di riproposizioni pedisseque ma ben capace di tratteggiare a furia di chiaroscuri emozionali un immaginario a cui, volenti o nolenti, non possiamo resistere. 7.5/10 Stefano Pifferi

Fabrizio Testa - Morire (Tarzan Records,2014)

bruti è l'ascolto 2014 che fa per voi. 6.8/10 Alessia Zinnari

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Genere: pop, cantautori, avant Dal tessuto che conteneva Mastice alla pelle nera, è già evidente la ricerca concettuale che ammanta questo Morire, sorta di album a

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Melampus - N°7 (Riff Records,2014)


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percorso, se possiamo muovere una critica, ma è la densità degli spunti, dei significati e della ricercatezza a richiederlo. Una ricercatezza da intendersi come coraggio, proprio quello che manca spesso in un panorama musicale di già morti. Lunga vita a Morire. 7/10 Stefano Pifferi

Fanfarlo - Let's Go Extinct (New World Records,2014) Genere: indie C'è stato un periodo in cui i londinesi Fanfarlo venivano etichettati come la risposta inglese agli Arcade Fire. Un paragone che, a conti fatti, ha segnato in negativo l'evoluzione della carriera del gruppo capitanato dallo svedese Simon Balthazar, sia per l'evidente incapacità di giocare alla pari con i canadesi (con i quali hanno condiviso il palco a Bologna nel 2010), sia per una nomea difficile da scacciare. Se è vero che il precipitoso accostamento inizialmente contribuì a traghettare il loro nome fuori dai confini inglesi e a promuovere indirettamente il buon debutto Reservoir (pure David Bowie spese ottime parole al riguardo), successivamente finì per diventare un'arma a doppio taglio, quando ci si rese conto che in realtà gli inglesi puntavano a tutt'altro e che certe attenzioni erano forse eccessive. Ci pensò il secondo, ed interlocutorio, album Rooms Filled With Light (meno folkish rispetto all'esordio) a ridimensionare le quotazioni, nonostante l'immutata abilità nello scrivere quelle che comunemente vengono chiamate "belle canzoni" (Shiny Things o Replicate, in zona Patrick Wolf). Nella situazione – già al terzo album – di chi ormai non ha più nulla da perdere, i Fanfarlo pubblicano per la loro label New World Records quello che è in tutti i sensi un viaggio sull'origine dell'uomo e sulla sua evoluzione,

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concetto sulla morte che segue a poco tempo di distanza quel breve album che molti aveva impressionato un anno fa. La bustina cucita a mano che, come da tradizione, caratterizza le uscite di Fabrizio Testa, segna profondamente l'ascolto del disco, in virtù di quel suo rievocare in maniera forte e decisa il distacco materico, lo spellamento post-mortem effettuato sul corpo (morto?) della canzone in italiano, che il nostro rende sempre più viva. Come al solito accompagnato da una all-star backing band variabile numericamente, stilisticamente e "umoralmente" (Iriondo, Bertacchini, Amy Denio and so on), Testa inanella brevi composizioni a "tema" che sono piccole gioie per gli ascoltatori più avventurosi e curiosi di vedere alcune delle evoluzioni possibili del "pop" made in Italy. Il coro degli Alpini "Mario Bazzi" di Milano diretto dal maestro Marchesotti introduce, spiazzando, questo breve disco, ma non c'è da sorprendersi per una scelta così "forte": nel mondo di Testa tutto è collegato da una invisibile (ai più, ma il problema è loro) linea per cui l'asincronia vocale di Bertacchini e le manipolazioni sulla chitarra baritono di Iriondo, affidate a Africa Addio, sono fino in fondo senso di morte, tanto quanto l'ironica dicotomia tra un campionamento d'autore (l'Alberto Sordi de "Il Vedovo") e un testo di una caustica amarezza (opera di Fabrizio Testa e raddoppiato da Amy Denio) come in Uccidere. Non è casuale che l'intero lavoro sia dedicato a Simone Cattaneo, voce tra le più dissonanti in un panorama poetico ormai esangue come quello italiano e pertanto intriso di una inarrestabile e naturale tendenza alla morte, un po' "come la freccia al bersaglio" (vedi alla voce Albert Caraco). Un disco luttuoso e riflessivo, minimale e velenoso, "politicamente scorretto" e lateralmente sperimentale sul senso etimologicamente ultimo del vivere. Troppo breve questo

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Genere: folk Vedere in faccia la morte, ad una distanza di pochi millimetri, può cambiarti la vita. O almeno il modo di interpretare tutta la faccenda. A meno che il disastro tu non l'abbia già annidato nel DNA, come ad esempio autorizza a credere il repertorio di Micah P. Hinson. Certo, le canzoni di questo …And The Nothing sono state scritte prima dell'incidente d'auto in cui ha seriamente rischiato di ammazzarsi, tuttavia viene naturale avvertire nei momenti più densi la traccia di quel trauma spalmata come un unguento nero sulle cicatrici di tutti i travagli precedenti. Registrato al Moon River Studio di Santander con un manipolo di musicisti locali, il settimo album del cantautore di Abilene – a quattro anni dal buon Micah P. Hinson and the Pioneer Saboteurs – è una raccolta di pezzi aspri e solenni, la frequenza sintonizzata su pulsazioni Americana fragranti e malferme che d'improvviso implodono in una sorta di apnea emotiva da far tremare i polsi, salvo poi sbrigliare un estro ruspante che sembra volersi mettere tutto alle spalle maltrattando anima e corde vocali finché ce n'è. In linea, quindi, con la durezza fragile che ricordavamo, però ricorrendo a sequenze lancinanti e fotogrammi sfocati che trasmettono un senso di ancora più estrema, tenace e ponderata vulnerabilità. I dodici pezzi (più ghost track) in scaletta alternano tradizione indolente (il Will Oldham vitaminizzato di Love, Wait For Me), valzer indolenziti come polaroid sovraesposte sul caminetto dei ricordi complicati (Sons Of The USSR, una The One to Save You Now da nipotino crepuscolare di Tom Waits), country blues ruspanti con un piede nella depressione (There's Only One Name, la rauca The Same Old Shit non lontana da certo Langhorne Slim), acquarelli cinematici (una The Quill come potrebbe il Neil Young più intimista alla guida dei più eterei Mercury Rev) e impeto sguaiato quasi cow punk (l'iniziale How Are You, Just a Dream). Se non mancano preziosismi sintetici come contrappunto alieno al languore misurato degli archi, è però la capacità di andare per sottrazione, di mettere la voce – quella voce così disadorna e ferita – al centro del cono di luce, lasciando che il canto s'accartocci sul dolore con una sorta di irriducibile fierezza, a regalarci i momenti migliori (A Million Light Year, la commovente I Ain't Movin). Dopo anni e dischi che ti lasciavano con la sensazione che si stesse cercando senza mai riuscire a comporsi in una forma stabile, Micah P. Hinson sembra aver trovato se non altro il modo per sfruttare al meglio la perniciosa mancanza di equilibrio che lo caratterizzerà, presumo, sempre. 7.3/10 Stefano Solventi

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Micah P. Hinson - Micah P. Hinson And The Nothing (Talitres Records,2014)


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sarà "uh, bella questa… chi erano?". 6.6/10 Riccardo Zagaglia

Father Murphy - Pain Is On Our Side Now (Aagoo Records,2014) Genere: psych, avant Tipico dei Father Murphy: ti spiattellano un EP vinilico tra un disco e l'altro e scopri che, invece di rappresentare un lavoro di passaggio, il suddetto è una specie di rivoluzione. A cominciare da una formazione che, se è vero quello che leggiamo nei crediti del disco, non comprende più Vittorio De Marin: "Father Murphy (is) Rev. freddie Murphy and Chiara Lee. Vicar Vittorio De Marin, after recording the EP, decided it was time to let Rev. freddie and C. Lee proceed on this journey alone". Ne prendiamo atto non senza una punta di sgomento – gli equilibri del gruppo hanno sempre vissuto, in primis, su rapporti personali/musicali strettissimi – ma anche consapevoli che ormai la band è un circolo geograficamente e artisticamente allargato, come dimostrano i nomi di Ezra Buchla (voce), Gianni Giublena Rosacroce (clarinetto), Daniel Schleifer (tuba) e Michael Jeffries (sax) tra i collaboratori del disco. C'è poi lo stratagemma flaminglipsiano dell'ascolto simultaneo dei due 10" su due giradischi diversi (sommatoria dei brani: A1+B1 e A2+B2) ad arricchire il piatto, una scelta che conferma ancora una volta come il centro dell'universo Father Murphy non siano più i passaggi singoli, ma il suono complessivo, l'idea che se ne ha, la sua filosofia. Un suono che in Pain Is On Our Side Now si fa ancora più cavernoso e inquietante rispetto al passato, inchiodato com'è a un droning sulfureo (Let The Wrong Rise With You), a certe soggettive frantumate che creano spaesamento (They Will All Fail You), a claustofobie sotterranee e industriali (Despite All The Grief), ma anche ad elementi stilistici ormai

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intitolato con un po' di ironia Let's Go Extinct. Le volute – e probabilmente necessarie – sbandate verso la pomposità erano già rintracciabili all'interno dell'EP The Sea pubblicato l'anno scorso, ma qui si concretizzano andando a braccetto con il pretenzioso concept alla base. Alla fine ci si imbatte nella consueta, vastissima, gamma di accessori (trombe, violini, stumenti tradizionali), al servizio di canzoni registrate nei suggestivi Bryn Derwyn Studios e prodotte da un David Wrench piuttosto abituato a dirigere situazioni di eclettico pop. Una tracklist che vede in apertura i sei minuti briosi e scorrevoli di Life In The Sky, dalle melodie a due voci a cavallo tra Fleetwood Mac e Arcade Fire, e che prosegue accarezzando atmosfere sempre più dandy-crooning (Balthazar insegue certe cadenze di scuola Noah and The Whale) e proponendo alterazioni di sintesi targate Talking Heads, come nel caso di Cell Song e A Distance – già presente all'interno di The Sea EP – dai retrogusti ad altezza Bowie anni '80. In Myth of Myself, troviamo un Balthazar in ottima forma a livello consapevolezza vocale, tanto da avventurarsi in giochini alla Hayden Thorpe, mentre Landlocked sembra voler lanciare il più classico dei trenini. Ma è con il trio finale che il fascino aumenta: The Grey and Gold è una sofisticata timeless driving-track da tramonto, con tanto di cowbell, archi pizzicati, fiati e piano; The Beginning and The End è forse il brano dalla melodia – avvolta tra passaggi raffinati e soffusi – meglio concepita; la conclusiva title track è la perfetta lullaby di chiusura. Insomma, qualche bella rivincita con Let's Go Extinct i Fanfarlo se la sono presa; rimane però quella sensazione di trovarsi davanti a musicisti – alla batteria c'è la new entry Valentina Magaletti – decisamente capaci ma a cui manca un marcato tratto distintivo: se tra vent'anni sentiremo per caso un loro brano, molto probabilmente la reazione

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Genere: pop Era una prova importante, si diceva sottobanco, quella di questo quarto lavoro in studio dei Non voglio che Clara, una presa di posizione decisiva all'interno di una storia discografica connotatissima e avviata da circa un decennio (Hotel Tivoli, 2004). Tre dischi, i precedenti, che hanno scritto l'indice di una sorta di romanzo russo del nostro tempo, tre atti di un'opera sola, tre tomi. La trama, grossomodo, è questa: Io non voglio che Clara si sposi con un altro, ma Clara si sposa e a me non resta nulla; poi il tempo fa il suo dovere, prendo le distanze, anche se mai e poi mai così profondamente da dimenticare tutto e ricominciare davvero. L'amore fin che dura poteva dunque essere il quarto tomo, ma certo sarebbe stato complicato capire di cosa si sarebbe occupato. Non stupisce, dunque, che questa volta siano "solo" dieci belle canzoni a comporre l'album della band di Fabio De Min, quest'ultimo una delle più affilate, classicheggianti eppure corrosive e attente penne della musica d'autore italiana contemporanea. In L'amore fin che dura succede un piccolo inatteso miracolo, qualcosa di assolutamente fuori dagli schemi rispetto a quella che è oggi la discografia indipendente italiana: c'è un passo in avanti, uno stacco netto, un nuovo modo, rispetto ai dischi precedenti, di coniugare testo e musica. Non è poco, visto lo stallo permanente in cui sembrano trovarsi alcuni nuovi cantautori del nostro tempo. Partendo da una scrittura nettamente sopra la media – com'è da sempre quella di questa band – i brani si articolano su musiche tutte diversissime tra loro, legate solo da un certo gusto melodico: se in alcuni momenti sembra prevalere la cupezza, il buio, persino uno slancio elettronico (L'escamotage, Le anitre), è anche vero che questo è in qualche modo il disco più aperto, pop, che i Non voglio che Clara abbiano mai scritto. Un pop spesso retro', che in alcuni momenti sa di Celentano e Morricone (Gli Acrobati) e in altri è in aria di Rino Gaetano (La bonne heure), e che mentre resta costante una eco del Battisti 70s e pure di un certo De Gregori, sa muoversi tra arrangiamenti antichi costruendo melodie contemporanee. I brani sono tutti, comunque, più o meno legati al tema della fine – dalla fine dell'amore, alla fine della vita stessa – risultando curatissimi e ben prodotti (da Giulio Ragno Favero). Una menzione speciale va al brano che chiude l'album e che – come spesso accade per questo gruppo - sembra riassumere in sé molte delle forze musicali e di scrittura presenti nel disco: La caccia è un pezzo densissimo, un grido formidabile e delicato che guarda al futuro. 7.5/10 Giulia Cavaliere

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Non Voglio Che Clara - L'amore fin che dura (Picicca Dischi,2014)


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riuscita ad apparecchiare nel tempo. 7.2/10 Fabrizio Zampighi

FIS - Preparations (Tri Angle,2013) Genere: dark, witchhouse La più recente release della Tri Angle, l'etichetta newyorkese fondata nel 2010 dal giovane transfuga britannico Robin Carolan sotto l'ala protettiva della Kompakt, aggiunge una nuova ala al castello elettronico della label, finora costruito con materiali disparati (dalla witchpost-witch di oOoOO, Balam Acab o How To Dress Well agli esperimenti dubdrone di Vessel o Forest Swords, in attesa del primo album dell'era "dopo Yeezus" di Evian Christ, in uscita nel marzo 2014), ma dove la melodia, in un modo o nell'altro, ha fatto sempre capolino. In Preparations, EP che segna l'esordio con Tri Angle del neozelandese FIS, si trovano solo labili tracce di melodia, memorie spazzate via da un impianto sonoro potente e astratto. Negli ultimi mesi del 2013, FIS (vero nome Oliver Peryman) ha inanellato una serie di uscite con le quali ha abbandonato i primi sentieri battuti sul versante industrial della drum and bass e si è avventurato fuori pista. A settembre è uscito per Void Coms (label neozelandese con all'attivo una sola produzione, questa) l'EP Homologous, e il titolo non è un caso: compatto, coerente, permeato da una primordiale percussività noise. Per il podcast di novembre di Resident Advisor (RA.388), l'artista di Wellington fonde pezzi editi e inediti in un flusso di in-coscienza illuminante sulle potenzialità del musicista. E con la pubblicazione di Preparations per Tri Angle, FIS si dimostra pronto per il salto di qualità mediatica. Tra le proposte della label di Carolan, ciò che si avvicina maggiormente al mondo di FIS è l'altromondo torturato di The Haxan Cloak, ma nella produzione del neozelandese non si tro-

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consolidati (i passaggi percussivi di Bones Got Dry). Tutto pare quasi un'estremizzazione in chiave ambientale di brani come It Is Funny, It Is Restful, Both Came Quickly dall'Anyway Your Children Will Deny It del 2012. Quello che nelle tracce singole emerge come elemento caratteristico e disturbante – ascoltatevi, ad esempio, i suoni imponenti dal secondo minuto al quarto di Let The Wrong Rise With You -, nell'ascolto corale (ovvero nelle tracce "composte", comunque presenti nel nostro promo digitale) diventa una sceneggiatura orrorifica piena di layer, voci dall'aldilà e crateri senza fondo (Let Them All Fail With You), o magari tre minuti in saturazione tra vibrazioni telluriche da panico (Grieving For Our Bones). Con un Greg Saunier dei Deerhoof (sodale confermatissimo) che qui diventa ancor più influente in sede di missaggio e di volumi, considerata anche la struttura generale del progetto. Resta da capire in che direzione si stia muovendo la band trevigiana. Quel che è riuscita a fare negli ultimi anni – e ancora di più con questo EP – è stato concepire un suono estremo, dai confini labili ma riconoscibili, capace di competere con illustri produzioni estere (Swans e Liars, in primis) come di segnare uno scarto rispetto alla media dei prodotti musicali nostrani. Dove tutto questo possa portare, in termini di ulteriori aggiornamenti sonori e di evoluzione stilistica, non riusciamo davvero a immaginarlo: se a una reiterazione potenzialmente infinita e con minime variazioni sul tema di quanto si ascolta ora, o magari a una cesura netta forse inevitabile (e già avvenuta in passato, pensiamo ad esempio a quanto è lontano dal presente un disco come Six Musicians Getting Unknown). Ma forse è proprio questo, alla fine, l'elemento più affascinante della parabola dei Father Murphy: il fatto cioè di non sapere bene in che girone ti trovi di quella versione personalizzata di Inferno dantesco che la band è

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Saxophone Colossus di Sonny Rollins. Una storpiatura (rispettivamente in The Shape Of Doomjazz To Come e Saxophone Giganticus) che vorrebbe forse parafrasare le mire "abrasive" dei brani suonati dai Free Nelson Mandoom Jazz. In realtà, nei sette episodi in scaletta non si coglie una vera e propria sovversione dei canoni, e se si esclude un basso elettrico "fuzzato" (Colin Stewart) e un sax contralto femmineo ma tutt'altro che arrendevole (Rebecca Sneddon), il resto (compresa la batteria di Paul Archibald, che chiude il terzetto) ci pare materiale paradossalmente piuttosto lineare. Certo non si parla di jazz classico – lo dimostrano le dissonanze in odore di no wave dei fiati (No One Fucking Posts To The UAE) e le atmosfere oscure di stampo (appunto) doom che permeano il disco -, ma gli spazi entro cui interagiscono i musicisti sono ampi e in qualche maniera rassicuranti, le strutture armoniche spesso circolari, l'approccio razionale. Nel caso delle prime due produzioni brevi del trio di Edimburgo vale insomma più l'idea di fondo e la godibilità generale del progetto, che il carattere messo in mostra, nonostante un interplay pulito e ben cesellato. Posto comunque che la formula ha dalla sua il pregio della riconoscibilità e un paio di cover – la Black Sabbath di voi sapete chi e K54 del compositore Domenico Scarlatti – che gratificano ulteriormente l'ascolto. 6.7/10 Fabrizio Zampighi

Alessandro Pogliani

Free Nelson MandoomJazz - The Shape of DoomJazz To Come / Saxophone Giganticus (RareNoise,2014) Genere: avant, impro, jazz, doom I titoli dei due EP raccolti in questo CD sono un curioso gioco di parole che cita The Shape Of Jazz To Come di Ornette Coleman e

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Galapaghost - Dandelion (Lady Lovely,2013) Genere: cantautori, folk Dopo l'esordio di due anni fa Runnin' il singer/ songwriter texano Casey Chandler torna con Dandelion, un nuovo lavoro a firma Galapaghost in cui prosegue sui sentieri di quel folk/ pop/rock che aveva caratterizzato il debutto. A

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vano, se non solo superficialmente, le derive da soundtrack goth in cui rischia di scivolare l'autore del pur pregevole Excavation. Il lugubre suono che apre Magister Nunns (subito accerchiato da suoni industriali e percussioni svincolate da qualsiasi griglia di quantizzazione), non è preso da una library per epigoni di Roger Corman, ma è in realtà un omaggio dichiarato alle tradizioni aborigene e al lavoro di Richard Nunns, un'autorità nell'ambito degli strumenti musicali della cultura maori. In DMT Usher (un rimando a Poe?), che delle quattro tracce dell'EP è quella più vicina al mondo d'n'b di provenienza e che era già uscita nel 2012 per la label specializzata Samurai Horo, FIS scandaglia lo spettro sonoro con pad profondi, fruscii laterali e frequenze d'oltretomba. Nell'ipnotica e tribale Mildew Swoosh i BPM sembrano partire in doppia cifra, ma presto raddoppiano in una folle cavalcata industrial. I riverberi infiniti e le bordate ipersature di CE Visions mirano direttamente al corpo. Ma i 19 minuti a disposizione nell'EP finiscono in fretta. Preparations anche nel nome prospetta un progetto più completo: già si preannuncia per il 2014 un album, sempre per Tri Angle, nel quale potersi esprimere più compiutamente. Uno degli acronimi inversi che Oliver Peryman utilizza per descrivere il suo atteggiamento verso la musica è Forever In Search (si chiama così anche il suo account Twitter): la ricerca continua. Da FIS ci attendiamo grandi cose. 6.9/10


Genere: electro Strutture ripetitive dandy disco, ispirazioni da camere blindate berlinesi, qualche synth senza troppo pompaggio sui bassi. Schemi che riprendono una sorta di minimalismo americano, che ricorda molto le lezioni produttive di Arthur Russell e soci e che l'ha portata sui palchi del tour di Sound of Silver degli LCD Soundsystem di James Murphy, amico e mentore per l'uscita suo secondo disco, W. Questa fino ad oggi è stata la ricetta del suono Planningtorock. Una sorta di resa dei conti con la plastificazione dell'house, dell'IDM e della hipster-house su binari equamente distribuiti fra le due sponde dell'oceano (Berlino e New York). La proposta di Jam Rostron ha poi un'altra grande connotazione che non può essere taciuta. La sua musica esprime idee politiche, incentrate sulla ricerca e sulla critica di quello che è oggi la sessualità o lo strapotere del maschio. Ma non è una rivoluzione dall'interno come potrebbe essere la mistica di Antony, bensì una cosa più urlata, meno intima e più di pancia, anche se ciò non è sintomo di improvvisazioni sul messaggio o sulla presa di coscienza dello stesso. Problemi e ipotesi di analisi che condizionano la vita dell'artista: la genesi di questo terzo full length ha infatti comportato una crisi creativa; dopo il buon W., infatti, Janine non voleva più suonare. Tre cose le hanno dato una nuova spinta: un cambio di nome (da Janine a Jam) per mascherare o confondere il genere, l'uscita nel marzo 2013 del Mysoginy Drop Dead EP - che contiene una buona tripletta di singoli (qui sono incluse le due tracce più incisive: la titletrack e Public Love, sorta di controcanto a Blind degli Hercules And Love Affair) – e, precedentemente, la pubblicazione del singolo Patriarchy Over and Out. Le dodici tracce sono state guidate dalla liaison professionale in studio di registrazione con Olof Dreijer degli Knife, Hermione Frank (aka rRoxymore, già in split sull'etichetta Human Level della stessa Planningtorock) e Paula Temple (produttrice britannica di techno). Già dal primo singolo Welcome, pubblicato qualche mese fa con un video diretto dalla stessa Rostron, si era capito che l'aria sarebbe stata più fresca, più aperta (in particolare lì c'erano gli arrangiamenti d'archi ad impreziosire la proposta). A seguire, nel disco sono presenti suggestioni '80 (Human Drama, con quei synth vecchissimi, ma aggiustati da bassi now e da una voce femminile abbassata di qualche semitono, in modo da rendere ambiguo il genere, che nel ritornello viene definito "just a lie"), evocazioni di paesaggi blues à la David Lynch (Answer Land) e ricordi DFA (nella già citata Misogyny Drop Dead, ma come abbiamo già detto il singolo è un po' precedente e quindi già vecchio stile). Per chiudere il bouquet si aggiunge la malinconia sonica retrò della colonna sonora di Drive (Steps, per chi scrive il miglior pezzo). Planningtorock è l'incarnazione dell'androgino digitale, l'Antony 2.0 che esce allo scoperto, mascherato dalle macchine ma non per questo zitto dietro ad una pagina Facebook. La rivoluzione si può ancora fare? Sembra di sì, ovviamente partendo da quello che è uno dei soprusi più infamanti, e cioè il potere dei maschi sulle femmine, del patriarcato sul (mai sperimentato) matriarcato. È bello che un disco di synth pop faccia parlare di queste cose, un'era geologica dopo quelle battaglie

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Planningtorock - All Love's Legal (Human Level,2014)

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del femminismo che in molti campi hanno perso mordente. Anche se lo scorso anno la F maiuscola ha preso parte a molti dei dibattiti internazionali (vedi le dichiarazioni di Miley Cyrus, Grimes, Bianca Casady delle CocoRosie e gli stessi Knife, per non parlare della vicenda Pussy Riot). Qui si cerca di andare oltre, perché si annulla il genere e si lotta per una libertà universale. In un momento storico in cui la figura dell'uomo/padre viene messa sempre più in discussione, il disco di Planningtorock è un fulmine a ciel sereno, sia per la produzione che per il messaggio. Seguirà doverosamente dibattito. Un lavoro politico, ascoltabile da un pubblico eterogeneo, vario e ben costruito. Il primo grande classico del 2014. 8/10

dispetto della provenienza, però, Dandelion si rivela essere un disco (anche) italiano, grazie alla presenza dell'ex Africa Unite Ru Catania alla produzione e di Federico Puttilli dei Nadàr Solo alla scrittura di due brani. Il percorso portato avanti da Chandler, dunque, ha radici su quella forma-canzone a metà strada tra indie e folk già ampiamente rivisitata, con esiti che, come abbiamo spesso sottolineato anche su queste pagine, hanno spaziato da capolavori assoluti (Fleet Foxes, Bon Iver) a proposte di dubbia bontà ma innegabile successo (Mumford and Sons, Of Monsters And Men, The Head And The Heart). Quello che spesso non si vede, è l'immensa forbice che separa questi due estremi: in altre parole, un grande spettro di proposte molto simili tra loro, e, soprattutto, difficili da collocare, vista la prolificità di autori e dischi che in questi anni hanno abbracciato il folk. È la stessa categoria a cui appartiene anche Dandelion: un album ben confezionato, con idee discrete e un paio di spunti interessanti, concretizzati però in brani che, troppo spesso, rimandano a qualcos'altro. Così, se con la bella melodia di Vermin – intessuta peraltro sull'immancabile gioco di cori – viene alla mente l'arcana dolcezza di Robin Pecknold e compagni, nella title-track e in

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Trembling Happiness convivono richiami tanto al falsetto di Vernon quanto alle stesse atmosfere opache e rarefatte. Non basta alzare il volume – nella verve rock di Smile – o sporcarsi le mani con le polveri secolari di country e blues, ad esempio in Isabelle o nel tramonto western di Solemn, per cambiare il giudizio su un disco che non riesce a smarcarsi da influenze e modelli fin troppo riconoscibili: nonostante alcuni buoni episodi, il limite del songwriting di Galapaghost è infatti quello di riprodurre una formula già sentita, senza cercare di arricchirla con nuovi elementi e una propria sensibilitàà. Un folk cantautoriale gradevole e misurato, ma che probabilmente faticherà a emergere e a confrontarsi con le proposte di riferimento. 6.2/10 Giulia Antelli

Goat - Live Ballroom Ritual (Rocket Recordings,2013) Genere: rock, psych, funk, afrobeat Lo immaginiamo come un pegno dovuto ma non richiesto alla Rocket, label che li ha lanciati facendone da subito un nome imprescindibile per chi si occupa di contaminazioni underground. Di sicuro c'è che quella live è la dimensione ideale per inquadrare al meglio

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Marco Braggion


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Samuel Kerridge - Halha (20 Years Of Downwards) (Downwards Records,2013) Genere: techno Halha è il nome di un fiume della Mongolia, in uno sperduto territorio oggetto di contesa tra le truppe sovietiche e quelle giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Un nome azzecato per la compilation celebrativa per i 20 anni della Downwards Records, che da sempre dalla sua nascita ha battuto oscuri territori di confine tra techno, post-punk e industrial noise. Fondata a Birmingham nel 1993 da Karl O'Connor (aka Regis) e Peter Sutton (aka Female), con il coinvolgimento pressoché immediato del concittadino Anthony Child (aka Surgeon), la Downwards diventa subito uno dei punti di riferimento della scena techno mondiale, costituendo un vero e proprio hub sia spaziale (tra la Detroit di Jeff Mills e il Tresor di Berlino) che temporale (prendendo il testimone dal post-punk industrial anni '80 dei Throbbing Gristle, Test Dept., Coil, ecc. e portandolo negli anni novanta dei dance club più sotterranei). Anche se l'apice artistico e mediatico della label si è avuto nell'ambito della dura e pura industrial techno (due splendidi esempi su tutti: gli album Communications di Surgeon e Gymnastics di Regis, entrambi usciti nel 1996) Downwards Records non è solo sinonimo di "Birmingham sound": oltre alla triade Regis – Female – Surgeon e ai loro alias e collaborazioni varie, l'etichetta ha prodotto progetti elettronici ulteriori, seguendo piste più trasversali, ad esempio verso ambiti dark (Tropic of Cancer, DVA Damas) o di tribal più sperimentale (Cut Hands). Halha è sì una celebrazione dell'anniversario della Downwards (non a caso il codice di pubblicazione è DN 020020), ma non è la solita compilation autocompiacente, mera esposi-

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questa congrega di scandinavi abili a giocare con nascondismo – sono più di voci di corridoio quelle che vorrebbero una sorta di all-star band dietro le maschere multicolori dei Goat – ed esoterismo – i vari rimandi alle origini mitiche della band e del fantomatico luogo di origine – ma capaci di fare il botto con un disco d'esordio diretto e multiforme, così come di muovere intere platee al ritmo di un melting pot forsennato e invasato. Ecco spiegato quell'apparente paradosso che li vede pronti al live album nemmeno un anno dopo la pubblicazione dell'unico full length. Paradosso che svanisce appena partono le note di questo sabba in 12 tracce che replica la dimensione ideale del progetto ma che, senza il supporto anche scenico e coreografico – oltre che di mero "trasporto" del live (chiedete a chi li ha visti dal vivo se è riuscito a sottrarsi al groove) – perde molto del suo potenziale. La freakedelia afro-psych della formazione si regge tutta su un impianto materico, fisico, su un impatto ad alto voltaggio quasi erotico o comunque carnale; abbisogna degli umori per accendere il sabba; necessita dell'energia in circolo per potersi liberare dalla mera esecuzione. Fattori che, nonostante la trascinante bravura dei singoli e la riuscita amalgama della formazione – dopotutto, World Music era stato uno dei dischi dell'anno anche qui da noi –, non fanno mai scattare la scintilla in questo Live Ballroom Ritual. La scaletta incentrata sull'esordio – si contano giusto il singolo Stonegoat/ Dreambuilder e l'inedita The Sun The Moon - penalizza poi l'effetto sorpresa, riducendo l'album a un mero esercizio di stile. Sembra paradossale per una formazione del genere, ma purtroppo è così. 6/10


Genere: post-rock Lo dichiarano apertamente nel titolo e con la copertina: i Silver Mt. Zion sono tornati per portare la luce. Dopotutto, immaginario e parole hanno sempre giocato un ruolo di primaria importanza, forse anche più della musica stessa – medium adattabile alle circostanze, di volta in volta –, nella congrega dei "canadesi" di cui Efrim Menuck è parte integrante se non proprio pietra angolare. C'è sempre stata una forte carica ideologica in ogni nota, così come in ogni parola scelta o in ogni aspetto dell'artwork e dell'immaginario visivo/comunicativo: discorso che vale ovviamente anche per i GY!BE e filiazione tutta, ma che per Thee Silver Mt. Zion acquisisce un valore aggiunto, vista la maggiore intelligibilità del progetto. E Fuck Off… – titolo anarco-messianico e perfettamente in tono col contenuto del disco, sorta di disillusione meets speranza o rabbia vs romanticismo – non sfugge alla regola: è un concentrato di eccelsa classe sonora unita a rivendicazioni "sociali" e ideologiche mai banalmente retoriche, quanto poeticamente ispirate. Il disco è esposto in un percorso che si snoda lungo sei tracce d'ampio respiro e stilisticamente varie – come da tradizione – ma sempre legate al lirismo evocato dall'incrocio tra chitarre e corde: l'iniziale dedica alla propria città/roccaforte Fuck Off Get Free (For The Island Of Montreal) – deliquio di chitarre imbastardite in modalità stratificazione – e la romanticheria tutta archi e struggimento di What We Loved Was Not Enough rappresentano gli estremi di un disco che si muove con eleganza e fierezza all'interno dei recinti "indie", "post-rock" e "rock". Un album che si fa da subito classico tra i classici, che mostra il lato selvaggio e quello epico (la seconda parte dell'opener), che svaria tra folk, blues, pop cameristico d'autore (le dinamiche sottese a Rains Thru The Roof At Thee Grande Ball-Room (For Capital Stertz)) e stratificazioni chitarristiche, che riesce ad essere cullante e dolce (la nenia notturna di Little Ones Run) così come ruvido e aspro. Per pathos, coerenza, lirismo, integrità, potenza, libertà di spirito, ecc. con Fuck Off… i Thee Silver Mt. Zion raggiungono livelli altissimi, paragonabili ad esperienze di radicale integrità e sapienza sonora quali gli Ex, ponendosi come punto di riferimento ideologico, prima ancora che strettamente musicale. In poche parole, l'ennesima dimostrazione della grandezza di questo (ex) spin-off dei GY!BE in un disco che è il loro probabile capolavoro (per tensione e complessità) ed, infine, il primo grande album del 2014. 7.5/10 Stefano Pifferi

zione dei gioielli del catalogo (per una raccolta più standard si può fare riferimento ad Evidence – Downwards 1993-1997, sampler uscito nel 1999), così come non è una semplice no-

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stalgica retrospettiva (nel 2012 Regis aveva già fatto ordine nell'archivio privato, pubblicando tre CD enciclopedici sulla sua produzione dal 1994 al 2001). Le tracce selezionate coprono

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Thee Silver Mt. Zion - Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything (Constellation Records,2013)


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sviluppi futuri (e in almeno un caso le aspettative sono già state confermate). The Unabridge Truth (qui nella versione rivista e smussata da Sleeparchive), fa parte del 12’’ New Release (1), uscito anch'esso nel settembre 2013 per la berlinese PAN a nome Concrete Fence, la nuova collaborazione crossover di Regis con l'agitatore sonico Russell Haswell, uno degli attuali protagonisti dell'elettronica più sperimentale. Con Cut The Weight (Pts I e II) del finora sconosciuto Talker entriamo nei territori dell'ambient industriale: resa cinematica di lande desolate, in lontananza il fischio di un treno-fantasma. Con Tenoun Rah Zan del promettente duo berlinese OAKE la techno non ha nulla a che fare: con richiami a suoni etnici in stile primi Dead Can Dance e SPK, il riferimento più diretto è da ritrovarsi in quel mondo dark e post-punk anni '80 che i fondatori della Downwards hanno sempre tenuto in altissima considerazione. Ma è con A Shadow Cast, l'inedito di Samuel Kerridge, che la compilation raggiunge il suo zenith: nel tappeto di ipnotiche percussioni spazzato da sferzanti ventate di rumore c'è tutta la storia della Downwards, il suo passato (ancora attualissimo) e il suo futuro (la conferma delle aspettative: il bellissimo, denso primo album di Kerridge, A Fallen Empire, uscito lo scorso 30 ottobre). Pubblicato nel settembre 2013 esclusivamente in formato doppio vinile, segnandone subito il destino di "chicca" per completisti compulsivi e ultrafan della label, ormai già difficilmente reperibile sul mercato (ma youtubando si possono trovare facilmente almeno otto tracce su nove), Halha svolge perfettamente il suo ruolo dichiarato di pietra miliare. Lunga vita alla Downwards, lunga vita al Re(gis). 7.3/10

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tutta la storia dell'etichetta, anzi partono dalla "preistoria" Zeitgeist (la prima incarnazione della label) per arrivare al presente-futuro dei giovani purosangue della scuderia. Attraverso l'accostamento di pezzi rari, remix e contributi originali emerge l'uniformità dell'estetica Downwards: frontaliera, rigorosa, appassionatamente fuori dalle logiche di mercato. Si comincia con la vecchia guardia, in puro territorio post-punk rumorista alla Coil: Consumer Device di Antonym compariva come B side della prima release Downwards (Shattering Of An Illusion del 1993, in edizione superlimitata a 50 copie), ma era già uscita nel 1992 per la Zeitgeist. Anche None Of This è classe '92: sotto il raro moniker Mark Farmer, Regis e Female sperimentano pionieristicamente abrasivi loop di quelli che solo qualche tempo dopo sarebbero stati noti come glitch. Regis contribuisce in prima persona alla celebrazione della sua etichetta solo in modo indiretto, sciacquando i suoi panni più techno nel berlinese Spree: Cold Water (tratto da Gymnastics, uno degli inni del Birmingham Sound) è qui presentata in una inedita e irriconoscibile versione a cura di Substance (aka DJ Pete, al secolo Peter Kuschnereit). Anche Surgeon è presente in forma obliqua con Over Napoli, un pezzo pubblicato con il suo vero nome Anthony Child nel 1999 per Smut Small. Zero BPM, atmosfera rarefatta, l'audio disturbato di un cartomante napoletano da TV locale: per noi italiani l'effetto straniante è altissimo. Con la tesissima Untitled (del 1995, e finora inedita) si omaggia Mick Harris (qui con l'alias Fret), ex batterista dei Napalm Death (e poi in altri progetti importanti, tra cui Scorn e Painkiller), anch'egli di Birmingham e proprietario del piccolo studio che ha visto nascere le prime prove di Surgeon. Le ultime quattro tracce di Halha ci riportano nel presente, e fanno presagire interessanti

Alessandro Pogliani

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Il Genio - Una Voce Poco Fa (Ego Music,2013)

Genere: pop, rock, indie Dopo l'eponimo disco d'esordio, per cui la stampa internazionale ha scomodato tutta una serie di superlativi, Amber Papini e i suoi sodali Brian Betancourt e Nathan Michel tornano con il secondo full length. Sono passati nemmeno due anni, ma tutto, o quasi, sembra essere cambiato. La Papini, cui si deve la scrittura dei brani, oltre che il canto e la chitarra, ha abbandonato quelle lande scozzesi dove sono cresciuti i Belle And Sebastian mandati a memoria e replicati più che degnamente. In questo disco, che fin dalla copertina vira verso l'oscurità e certo immaginario eighties, c'è un suono minimale e graffiante, che lascia più spazio al basso di Betancourt e gioca con stili e generi diversi. Del folk rimane solo qualche scheletro nella dolente doppietta finale, con un ballo esile (Sunship) e un episodio solo voce e chitarra acustica (Call Me After). C'entrano poco i Breeders, con buona pace di chi li invocati come pietra di paragone, sebbene il suono dell'elettrica rimandi all'indie di marca Novanta. Nell'armadio della Papini versione 2014 ci sono scheletri di synthpop (Inauguration), post-punk come di una Gang of Four meno spigolosa (I Miss Your Bones) e vera e propria wave (Rockets and Jets). Il tutto condito con una Going Out che sarebbe una perfetta outtake da Let It Die di Feist, una It's Not Serious che guarda alle nenie Moldy Peaches e a quelle dei Velvet Underground (vedi alla voce I'm Sticking With You) e un generale devoto sguardo al mondo indie. Manca il guizzo, ma la scrittura è la solita e ci sorge la curiosità di sapere quale sarà il prossimo passo. 6.7/10

Genere: pop, cantautori, synthpop Torna, a tre anni dall'ultimo Vivere negli anni X e a cinque dal fortunato esordio omonimo, il duo formato da Gianluca De Rubertis e Alessandra Contini, al secolo Il Genio. Una voce poco fa si presenta da subito come naturale evoluzione dei lavori precedenti, su coordinate che si attestano su un format già rodato, semplice, vintage e naif nell'approccio eppure figlio di una riflessione ben più profonda sulle dinamiche sociali dei nostri tempi. Il tutto condito da citazioni "alte" e sapienti rimandi alla cultura classica, a cominciare da un titolo che pare un evidente omaggio al Rossini de Il Barbiere di Siviglia. Resta forte il debito verso la tradizione d'oltralpe, tra la delicatezza di Jane Birkin, l'ironia naif e a tratti geniale di Serge Gainsbourg ("ho deciso che la vita è nulla/mentre i fianchi sono tutto/tu sei a fianco a me") o dei più moderni Philippe Katerine e Die Moulinettes, muovendosi su binari musicali che vanno all'electropop di Stereo Total, Vive La Fete di Attaque Surprise (Motivi plausibili, Ho deciso) e divertissement sixties alla Brigitte Bardot (Bene mediamente tanto). Chiude i giochi Groenlandia, cover degli spagnoli Los Zombies, che insieme ad Amore di massa si avvicina per arrangiamenti al revival inglese anni '60. A partire dal nuovo singolo Bar cinesi, ancora una volta la voce di Alessandra Contini resta sussurrata ed eterea, plasmando una sorta di Lolita persa nel mondo, quasi un'eterna straniera a tratti vicina per impostazione alla nipponica Kahimi Karie (già riletta dai Nostri con la sua Una Giapponese a Roma). Arrivati al terzo album, il duo guidato da Gianluca De Rubertis mantiene una coerenza di fondo col percorso intrapreso nel 2008 con quella Pop Porno che, se da una parte li aveva

Marco Boscolo

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Hospitality - Trouble (Fire Records,2014)


lanciati su Radio e TV nazionali, dall'altra li ha forse rinchiusi in una dimensione che, ad oggi, sembra andargli decisamente stretta: perché se di Pop si tratta, questo è sicuramente Pop d'Autore, figlio di un'ironia e di un'acutezza rare, e, proprio per questo, non necessariamente alla portata di tutti. 6.9/10 Enrica Selvini

Genere: rock, folk Anche svestito da tutta la retorica che ne ha accompagnato l'uscita – il disco è stato definito in più frangenti come "la voce di un popolo" e ci pare, obiettivamente, un po' troppo – il secondo album dei romani Il muro del canto è comunque un'operazione intrigante. Ascoltando la produzione precedente della band (un Ammazzasette del 2012 e un EP omonimo del 2011) e in particolare questo Ancora Ridi, non possono non tornare in mente i primi Ardecore, calati in una musicalità che recupera la Roma migliore delle tematiche di stampo popolare cantate in romanesco (là erano brani tradizionali, nel caso de Il muro del canto sono episodi autografi). Dove la band di Geoff Farina, Giampaolo Felici e Co. lavorava in modo "intellettuale" arrangiando l'immaginario da rione con un folk-post-rock intensissimo e un approccio "internazionale", Il muro del canto opta per una musica basale e diretta: qualche chitarra da frontiera americana, certi overdrive corposi nei momenti clou, ma anche suoni acustici, fisarmoniche e una tradizione non troppo lontana da quell'aria di borgata che si respira in tutto il disco. In questo senso, Ancora Ridi è un album con meno sorprese rispetto al primo, omonimo, degli Ardecore, pur potendosi fregiare di un pugno di canzoni tese e coinvolgenti, almeno quanto i live della band titolare del

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Il Muro del Canto - Ancora Ridi (Goodfellas,2013)

progetto (a Roma e dintorni, i Nostri sembrano essere già un piccolo culto). Segno distintivo del combo, la voce baritonale di Daniele Coccia, fondamentale nel dare riconoscibilità alla formula e che a un'orecchio poco abituato potrebbe ricordare – perdonate l'accostamento azzardato – un Gigi Proietti stregato da Tom Waits. Musicalmente, nelle dodici tracce della tracklist si respira un mix di folk danzereccio da sud peninsulare – le cadenze in stile De Andrè trasformate in uno ska sui generis di Canzone allagata, il DNA quasi patchanka di Peste e corna – certi tremolo à la Ry Cooder (L'osteria dei frati), contaminazioni tra atmosfere morriconiane (Arrivederci Roma), glocalismi à la Sacri Cuori (Strade da dimenticà) e brani recitati (Er Funerale, Palazzinari). Elementi stilistici che descrivono un subbuglio epidermico capace di conquistare all'istante, un po' per certi suoni istituzionalizzati, un po' perché effettivamente il materiale ha un suo spessore (nelle musiche, ma anche nei testi), un po' perché la band è brava a sfruttare l'empatia veicolata da certi crescendo puntuali. Manca forse il gusto della scoperta, quella scintilla di personalità nei suoni che permetterebbe a un disco del genere di evitare di rientrare nei dischi "di genere". Posto che, comunque, i musicisti fanno egregiamente il loro dovere. 6.9/10 Fabrizio Zampighi

Illum Sphere - Ghosts Of Then and Now (Ninja Tune,2014) Genere: techno Attivo su diversi fronti già dal 2008, Ryan Hunn, oltre che come eclettico producer, si è imposto sia come dj, sia come animatore della scena di Manchester con la serata Hoya:Hoya fondata assieme all'amico Jonny Dub giusto un anno prima di fondare la personale Fat City.

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Genere: rock Della musica dei Tinariwen ci ha sempre colpito l'elemento mantrico. Quella capacità di ricreare lo stesso boogie che uno come John Lee Hooker (e non solo lui) ha sempre identificato nella ripetizione ad libitum di un groove – nel suo caso legato al blues rurale – che finisce per combaciare con il beat cardiaco/esistenziale di chi lo suona. I Tinariwen fanno blues, su questo non ci piove, riportando a casa – dal Delta del Mississippi al Nord del Mali – la musica afro-americana per eccellenza. Una discografia nutrita alle spalle (siamo al sesto episodio) a dimostrazione di come questi Tuareg ormai sdoganati ad ogni latitudine siano riusciti a dare la loro versione dei fatti, unendo poliritmie sincopate, strumentazione elettrica ed etnica e una biografia – loro malgrado – da avventurieri d'altri tempi. Nell'ottica della musica della band, il luogo in cui registrare il materiale ha sempre assunto un'importanza sostanziale: è spazio mentale prima che fisico, terreno fertile per una musicalità che proprio da quello spazio trae linfa. Era così ai tempi di dischi come Aman Iman, con il deserto del Sahara a battezzare i brani, è così ancora oggi, dopo il trasferimento del collettivo nella California polverosa e infinita di Joshua Tree per registrare Emmaar. Da un lato, una tradizione musicale che lì ha radici profonde, in bilico tra psichedelia e space rock (e che riverbera nella ripetitività rituale e quasi sciamanica del sound dei Tinariwen), dall'altro la geografia immensa di un area desertica che è transizione (esattamente come il Mali in Africa), nel nostro caso tra Stati Uniti e il vicino Messico. Un confine ambientale e mentale, di genti e di abitudini, ben interpretato dal video on the road del primo singolo Toumast Tincha, e che proprio a partire da quel brano omaggia il blues americano e la tradizione musicale tuareg allo stesso tempo. Le chitarre, da sempre centro nevralgico del sound della band, guadagnano riverberi imponenti a metà strada tra John Lee Hooker e il rock cosmico USA – e chissà che gli ospiti Josh Klinghoffer (Red Hot Chili Peppers), Matt Sweeney (Chavez), Fats Kaplin e Saul Williams non abbiano influito in questo senso -, si lanciano in isolati assoli "occidentali", ma senza chinare il capo davanti ai nuovi inpunt. Integrandoli invece, in un nomadismo stilistico consumato che tuttavia scava sempre a fondo nella cultura di appartenenza, come dimostrano le ottime Chaghaybou e Arhegh Danagh. Se si escludono Emajer e Aghregh Medin, Emmaar è in generale un disco più elettrico e monolitico rispetto al precedente Tassili (invece, sostanzialmente acustico) ed è anche, in assoluto, l'album più "americano" della band. Eppure le motivazioni alla base sono ancora vitali (politiche, esistenziali, sociali) e il melting pot del suono è di quelli funzionali e decisamente efficaci; niente a che vedere con un bieco opportunismo legato al mercato. 7.3/10 Fabrizio Zampighi

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Tinariwen - Emmaar (ANTI-,2014)


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da saturissimi synth analogici (Lights Out In Shinjuku) con tutto un gusto per Glockenspiel, xilofoni, chitarra, piano, tastiere (hammond e organi) costruiti ad arte per restituire una coerente idea di saudade e d'avventura sonica multisensoriale. Diversi i momenti degni di nota: It'll Be Over Soon, forse la migliore del lotto, con l'inquieto giro di note al piano contrappuntato da campioni da partita di ping pong e un coinvolgente crescendo di synth, moog e effetti; valido il retaggio sci fi virato caraibico del singolo Spleeprunner, la cassa dritta che punta decisa su una samba jazz rock molto canterburyana (Near The End), dell'r'n'b vicino alle produzioni di Kelela ma puntato "in retromarcia" (Embryonic con Shadowbox al canto), oppure del soul sulfureo su ottimi sincopati di HH strumentale (At Night con Mai Nestor). E' un peccato che il versante più frizzante di Illum Sphere – assolutamente di livello, vedi The Plan Is Dead – sia stato accantonato per un approccio dominato da modi e maniere, eppure Ghosts Of Then and Now, grazie a una buona tenuta d'insieme, trova comunque le sue vie all'incanto e a questo senso di caparbia nostalgia. 7.2/10

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Le prime tracce qui pubblicate, e il successivo output, proposto per uno sfaccettato set di canali (la 3024 di Martyn, la Tectonic di Pinch come la popolare Young Turks, base di XX e SBTRKT) hanno rappresentato sin qui un intricato dedalo di suoni, ritmi e suggestioni dentro e fuori i bpm dei club, un'elusione/dissimulazione continua ottenuta da un fumoso e dinoccolato misto di hip hop, club culture, vintage synthdelia e vari campioni, tra cui puntine di giradischi e field recording assortiti. Se dobbiamo trovare un bandolo della matassa, Low End Theroy è la chiave: la celebre serata di Los Angeles dove immancabilmente Hunn è finito a suonare è stata fonte di grande ispirazione sia per l'influenza di Flying Lotus, sia per i contatti con un Samiyam che in passato lo ha remissato nella traccia Pycho contenuta in Long Live The Plan (Fat City, 20110). La produzione, del resto, sporcata e in bassa fedeltà, spesso in richiamo 70s e farcita di 8bit, pesca a piene mani dai cataloghi Brainfeeder e Stones Throw, infondendo però declinazioni sci-fi e altri imprinting di stampo europeo (vedi il massimalismo su tagli techno/bass/acid/electro del 12" Birthday/h808er su Young Turks). Un setting fondante per le ambizioni sulla lunga distanza che andiamo qui ad analizzare. Accasatosi su Ninja Tune nel 2012, Hunn promette fin da subito un esordio che richiede più di un anno per venir realizzato. Ghosts Of Then And Now, infatti, s'inserisce di petto nel filone degli utlimi lavori di Flying Lotus raccogliendone la sfida più intima: accompagnare l'ascoltatore in un coerente ma variegato viaggio, tanto esotico quanto venato di malinconie e nostalgie, tra i colori seppiati di LA e un tocco particolarmente visivo e vivido nella scelta dei campioni. C'è un po' di tutto in tracklist: il taglio jazz cantato (Love Theme From Foreverness con il feat di Shadowbox) come "smaltato", gli arrangiamenti 70s sviati

Edoardo Bridda

James Vincent McMorrow - Post Tropical (Believe,2014) Genere: folk A vederlo così, con l'immancabile barba e il ricercato abbigliamento da cacciatore d'orsi, James Vincent McMorrow potrebbe sembrare un altro – l'ennesimo – singer/songwriter immerso nei gelidi inverni delle montagne appalachiane, un novello Bon Iver pronto ad inserirsi nella lunga tradizione del cantautorato folk degli ultimi anni. Un'impressione confermata anche dai suoi precedenti lavori

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I fan della prima ora gli rimprovereranno di essersi allontanato troppo dai canoni del folk tradizionale; gli ultimi arrivati, invece, apprezzeranno senz'altro il tentativo di James Vincent McMorrow di esplorare nuovi territori, così come la volontà di registrare un album che lui per primo avesse voglia di ascoltare. 6.8/10 Giulia Antelli

Kendra Morris - Banshee (Wax Poetics,2014) Genere: soul Il vuoto che la compianta Amy Winehouse ha lasciato dopo la sua morte ha purtroppo generato un esercito di cloni soul/r'n'b difficilmente paragonabili al suo talento, anche se non al suo successo: basti pensare all'esplosione commerciale di Adele, (forse) l'unica vera erede rimasta a raccogliere il testimone o ad una Joss Stone ormai lontana dalla classe dell'esordio, ma non dalle classifiche. Così, in quest'epoca in cui basta una spintarella da parte dei social per vedersi proiettati presto e bene nello spietato universo musicale, la newyorchese Kendra Morris si mette in fila per candidarsi come nuova singer/songwriter in materia soul, con l'aiuto di una produzione indie-furbetta pronta a mascherare eventuali velleità mainstream. L'album d'esordio Banshee – uscito in patria già nel 2011 e riproposto a quasi tre anni di distanza anche da noi – è dunque il biglietto da visita di un'aspirante pop-star travestita da autrice delle proprie canzoni. Un disco che prende come punto di partenza quelle sonorità black e seventies – le stesse che avevano fatto la fortuna della Winehouse – abbinandole ad una voce potente, discreta nell'interpretazione ma carente nella credibilità. Non mancano alcuni buoni episodi: ad esempio nei costrutti retro-soul di Pow e Right Now, in cui aleggia il fantasma di Amy, o nelle languide atmofere di-

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(il debut del 2010 Early This Morning e un EP omonimo del 2011), in cui il musicista irlandese si cimentava in canzoni intime e introspettive, accompagnate da una chitarra acustica e da un falsetto in stile Justin Vernon. Il tutto unito a quelle atmosfere trasognate e visionarie debitrici verso i verdi spazi della terra d'origine. Con una certa sorpresa, quindi, leggiamo che il sophomore Post Tropical è stato registrato nel tentativo di riprendere "i suoni e le movenze dei dischi hip-hop che amo di più". Un cambio di direzione importante e inaspettato, che rende l'album un incrocio tra la vena pop di James Blake e Jamie Lidell e sonorità soul e r'n'b, arricchite da una patina d'esotismo tropicale lontano anni luce dal folk degli esordi. Dunque, lasciati da parte l'acustica e il bucolico lirismo delle prove passate, McMorrow si muove adesso nei territori di un alt-pop ibrido e sofisticato, come dimostra l'opening Cavalier. Un brano che riassume i motivi ricorrenti del disco, ovvero il languido falsetto, gli inserti elettronici e certe rarefatte melodie black. Se con la successiva The Lakes potremmo pensare ad un ritorno di fiamma verso sonorità in aria folk/americana, l'intro in drum-machine di Red Dust mescola di nuovo le carte in tavola, con l'incedere ambient a far da contrappunto all'uso dell'autotune. Cambi di direzione che si concretizzano anche attraverso l'utilizzo del pianoforte, ad esempio nella scarna introspezione di una Looking Out tenuta insieme da un bel gioco di cori, o il ricorso alla chitarra, presente in Repeating, a introdurre un finale che culmina in orchestrazioni gospel. Sul finire, ritorna l'anima plastica e luccicante (ma non posticcia) della title-track o di Glacier, ulteriori esempi di un cantautorato elegante e centrifugato, in cui le stilizzazioni di genere vengono bellamente ignorate, in favore di un mix sonoro che mescola con disinvoltura forma pop e ricercatezza electro-soul.


Giulia Antelli

Marcos Cabral - L.I.E.S. Presents: Music for Shut-Ins (L.I.E.S. (Long Island Electrical Systems),2013) Genere: house In pochissimo tempo Ron Morelli e la sua creatura L.I.E.S. sono diventati un punto di riferimento della scena off house (o sarebbe meglio dire off elettronica e basta) mondiale, venendone a rappresentare uno dei versanti più sporchi e maledetti. Label of the year 2012

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per Resident Advisor, con un frenetico ruolino di marcia produttivo (solo nel 2013 si contano almeno trenta diverse uscite tra 12″ e album ufficiali, senza contare white e black labels e la sub Russian Torrent Versions), la posizione di rilievo dell'etichetta newyorkese è stata conquistata soprattutto per la coerenza qualitativa che ha finora contraddistinto le scelte del suo fondatore: equipaggiamenti analogici, distorsioni, nessuna facile concessione al mainstream. Il risultato è una techno house che fa dell'immediatezza fai-da-te il suo segno distintivo, che guarda a Detroit con deferenza e rimpianto per un mondo dove non c'erano laptop, tablet ed emulatori, ma solo qualche Roland a buon mercato, energia e passione. Le produzioni L.I.E.S. trasudano urgenza e autenticità: non è semplice retromania, ma espressione di un atteggiamento duro e puro, critico, ribelle verso lo status quo. Music For Shut-Ins, compilation che riprende la formula della precedente raccolta L.I.E.S. American Noise del 2012 (due CD, uno di pezzi già pubblicati e uno di brani inediti), fotografa perfettamente gli ultimi sviluppi della label ed in primis del suo capo, in evoluzione verso istanze meno dance e più industrial. Morelli ha definito il contenuto della compilation "club music per chi odia andare per club", ed effettivamente qui si balla sicuramente di meno rispetto ad American Noise (dove di noise alla fine non ce n'era poi così tanto, con proposte che spesso miravano al centro del dancefloor, sconfinando talvolta in una sterile ambient house). Musica per rinchiusi in casa, per disposofobici antisociali che si autoseppelliscono raccogliendo tutto e non buttando via niente: in questo affastellarsi c'è tutto Morelli, la cui peculiare estetica sovrasta le singole personalità degli artisti ospitati, quasi tutti con poche e recenti produzioni alle spalle (l'eccezione principale è Danny Wolfers, qui presente come

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sco di If You Didn't Go, perfette per una febbre da sabato sera in anni Zero che cita tanto i Bee Gees quanto le Supremes. La trappola arriva quando l'amabile Kendra si sposta nei paludosi meandri del pop da classifica, come dimostra il singolone Concrete Waves: date un'occhiata al video e troverete una simil Kesha in abbigliamenti woodstockiani, che cerca di convertire le influenze black all'oggi. Il risultato è un'orecchiabilità nineties non in grado di tenere il passo con i tempi, un pezzo che finisce per sembrare uno scarto perso per strada dalle Destiny's Child o – peggio – un malriuscito duetto tra Brandy and Monica. A concludere, una bonus track che è niente meno che la cover di Shine On You Crazy Diamond, in cui l'arrangiamento, praticamente uguale all'originale, è stato arricchito (!) da un'interpretazione gospel. A fine ascolto l'impressione inevitabile è quella di aver di fronte un'altra stelletta delle classifiche USA, una meteora bionda di cui è difficile stabilire il tempo di durata. Potremmo chiosare dicendo che, oltreoceano, c'è sempre bisogno di prodotti in cui l'appeal radiofonico funzioni meglio della dignità artistica. Il futuro è probabilmente roseo per Kendra Morris, quindi statene certi, sentiremo parlare ancora di lei. La domanda è: ce n'era davvero bisogno? 4.5/10

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pubblicato ancora per la Hospital di Dominic Fernow (Prurient, Vatican Shadow), Morelli torna dopo solo poche settimane sul luogo del delitto dell'album breve Spit, e aggiunge ulteriori pagine a quel bloc notes di idee incendiarie: tre interessanti nuove tracce (l'incedere nichilista di Public Consumption, e l'arpeggio techno-kraut su un persistente kick drum di Another Hit, i fill-in imbizzarriti di Rushing Again) e l'extended version di Crack Microbes, che con i minuti in più concessi si sviluppa meglio nell'eco distorta e allucinata degli esperimenti elettronici pinkfloydiani di On The Run. I riferimenti, sia iconografici (simboliche prostitute in piena trattativa) che sonori (la rabbiosa techno industriale à la Regis) rimangono gli stessi: il sentimento dominante è un connubio ambivalente di repulsione e attrazione verso il mondo esterno, un'autistica chiusura verso un'umanità mercificata che diventa necessità impellente di comunicare. (7.2) Con queste ultime uscite l'armata L.I.E.S. e il suo subcomandante confermano il loro ruolo di baluardo contro il logorio della standardizzata e inoffensiva dance moderna. Il recente annuncio dell'inserimento nella line up del Sonar 2014 di Ron Morelli e del suo pupillo Svengalisghost ne segnerà la definitiva incensazione o l'inizio della fine per un progetto che fa dell'essere underground, nascosto e terroristico la sua ragion d'essere? 0/10 Alessandro Pogliani

Lantern - Diavoleria (V4V Records,2014) Genere: punk, hardcore Urgenza comunicativa in modalità oppositiva "screamo vs declamato" e violenza strumentale (dopo)hc per l'esordio dei Lantern, quintetto riminese di belle speranze (tradite) e dalla disillusione bruciante, proprio come può succe-

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Legowelt, che gravita nel mondo della lo-fi dance dagli anni Novanta). La prima traccia alza subito l'asticella: l'arpeggio sporcato industrial in Basilisk di Vapauteen non fa prigionieri. Segue l'electrodark di Shadowlust, brumoso progetto frutto della collaborazione tra Lili Shulder e Marquis Cooper aka Svengalisghost, uno dei più tipici prodotti del sottobosco morelliano (che poco più avanti, con High Heel Sleaze, rilancia la compilation nei territori torridi della house più che satura e malata). I due pezzi qui proposti di Marcos Cabral, DJ emergente della leftfield dance newyorkese, spaziano dalla beguine distorta di Virginia, che ricorda gli esperimenti con le proto drum machine pre-Autobahn dei Kraftwerk, alla progressione house in direttissima degli oltre dodici minuti di Dancing on Manhattan. Con l'altra doppietta della compilation, firmata Florian Kupfer, il giovane agente segreto L.I.E.S. di stanza a Berlino, si passa dalla deep house disequalizzata di Feelin alla tesissima ambient techno di Unreal (incentrata su un sample vocale che ricorda tantissimo una litanìa di Lisa Gerrard). E tra la kosmische techno di Jahiliyya Fields, le ribalde rolanderie retrò dei TX Connect, i graffi delle ragazze terribili Lori Napoleon (aka Antenes), Sheela Rahman (Xosar) e Daryl Seaver (Samantha's Vacation), anche la house amichevole e superficialmente senza pretese di The Zoo dei Beautiful Swimmers assume connotati stranianti. L'etnoambient industriale di Gunnar Haslam chiude le oltre due ore di questa densa, sghemba, eccentrica compilation, affascinante summa del Morelli-pensiero nei confronti della club culture contemporanea. (7.1) Il discorso diventa ancora più estremo quando il producer di Brooklyn parla in prima persona, uscendo dai ranghi L.I.E.S. e concedendosi ancora più libertà di critica. Con l'EP Backpages,


Stefano Pifferi

Madaus - La macchina del tempo (Autoprodotto,2014) Genere: cantautori Partono dalla musica d'autore, ma vantano un solido background strumentale, i quattro componenti dei Madaus da Volterra. La città di provenienza del gruppo può vantare, tra le altre cose, la presenza di un manicomio, dettaglio di non poco conto nell'ottica di dieci brani legati dal medesimo fil rouge e sospesi tra umori cantautorali e raffinati arrangiamenti jazzistici. Inoltre, la ragione sociale che la band si

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è scelta, oltre a giocare con le iniziali dei componenti, è anche l'italianizzazione della parola inglese "madhouse", manicomio appunto. Ed è infatti parecchio suggestiva la storia dietro ai brani, dato che i testi traggono ispirazione, soprattutto nel caso della title-track, dai graffiti che tale Oreste Nannetti, degente del manicomio della città, incise sulle mura del padiglione Ferri dove alloggiò diversi anni. Dunque, La macchina del tempo è a tutti gli effetti un concept album che ruota attorno a riflessioni su quell'universo sui generis che è il manicomio. Il gruppo nasce dall'incontro di quattro musicisti dell'Accademia della Musica di Volterra, ovvero Aurora Pacchi, Marzio Del Testa, Antonella Gualandri, David Dainelli. Una formazione accademica che, del resto, traspare immediatamente da canzoni che vivono di intuizioni sonore non scontate, come ad esempio l'assenza di una vera e propria chitarra: al suo posto, la batarra, una sorta di surrogato di basso e chitarra, con due corde del primo e tre della seconda. Ma lo strumento d'elezione dei Madaus, più che il pianoforte suonato dalla brava Antonella Gualandri o le corde arpeggiate da David Dainelli, è rappresentato soprattutto dalla voce di Aurora Pacchi: dotata di un timbro e di una vocalità molto particolari, Aurora conferisce brio e personalità a composizioni che, altrimenti, rischierebbero di risultare, perlomeno in un paio di casi, piuttosto scialbe, attribuendo all'intero lavoro un mood ben preciso e riconoscibile. Molto riuscite sono Il profumo della notte (uno swing minimale che si regge, appunto, sull'interpretazione della Pacchi), la pianistica titletrack (che vanta un'apertura melodica molto interessante), la sbilenca Tempo (ibrido non scontato tra canzone d'autore, jazz e pop music) o ancora la solenne chiusura strumentale di Ombre cinesi.

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dere a chi non riesce ad adattarsi a crescere nel (ex?) "divertimentificio" più famoso d'Italia e si infila in garage per reprimere il proprio disagio ed esprimere la propria diversità. Ambivalenze e paradossi che si scontrano e si manifestano all'ascolto delle otto tracce, per i poco più di venti minuti dell'esordio: un lungo, ininterrotto scorrere di grani di un rosario di disagio con Massimo Volume (i primi, più noisy e sporchi) e Fine Before You Came a far da stelle del mattino, l'urgenza dell'hardcore fatto in cantina dei primi 90s italiani a fare da traino (non solo nelle sue forme storicizzate, ma anche nelle nuove leve alla Distanti o Marnero), le gocce di sangue cadute da un cuore infranto a segnare il percorso come un Pollicino disagiato. Prendete L'invincibile S50 e la sua tensione in crescendo, il suo elogio della differenza, quella tensione che brucia e sembra non sfogare mai, miglior pezzo del lotto, o una a caso delle restanti 7 tracce e vi ritroverete catapultati vent'anni indietro. Con la triste consapevolezza del fatto che nulla sia cambiato ma, insieme, con la gioia di sentire ancora ugole bruciate e passione a nastro. I Lantern sono l'ennesima fiaccola di speranza (perduta) in questi tempi bui. 7/10

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In altri casi, invece, le pur interessanti premesse progettuali e le capacità strumentali del quartetto non sortiscono il risultato sperato, finendo per ricalcare un innocuo modello di cantautorato raffinato ma decisamente già sentito. Questo non significa che La macchina del tempo sia un'opera prima da sottovalutare, tutt'altro. Così come i Madaus sono una interessante realtà da tenere d'occhio, in un panorama sempre più asfittico qual è quello della nostra musica d'autore. 6.3/10 Ilario Galati

Genere: rock, psych, country Registrato nello stesso periodo di Borders of My Mind, (1971-72), questo disco eponimo è il secondo regalo di Drag City ai fan di Michael Yonkers. Al tempo, l'autore di Microminiature Love guidava il carrello elevatore per sbarcare il lunario, in una Minneapolis dove i suoi colleghi ascoltavano esclusivamente country e folk. Decise così di mettere da parte fuzz e distorsioni e di abbracciare, con grande capacità mimetica, quella tradizione musicale. Ascoltate l'iniziale An Easy Going Country Guy e vi sembrerà assolutamente naturale. Accanto al country, ci sono le canzoni per i bambini, come l'ironica Mrs. Jennings Fruit Fly Farm registrata dal vivo tra i piccoli ascoltatori divertiti. Registrato in diverse occasioni, con la qualità del suono che varia di conseguenza, il disco è e rimane una collettanea eterogenea di canzoni, ma ha una qualità mediamente più alta di Borders of My Mind. Dà il senso di quanto Yonkers sappia essere a proprio agio anche tra Jonnhy Cash e Townes Van Zandt, sintomo di un talento davvero fuori misura. La ristampa è preziosa perché permette di (ri)scoprire (le quotazioni delle copie carbonare che circolava-

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Marco Boscolo

Mouse On Mars - Spezmodia (Monkeytown Records,2014) Genere: elettronica Verso la fine del 2012, con l'EP WOW, anche gli scettici riguardo alla nuova giovinezza – massimalista – dei Mouse On Mars (come il sottoscritto) si erano convinti che, a prescindere dall'attualità e dalle influenze trattate – anzi, triturate (bass romantica di marca Monkeytown, come wonky dalle parti della LuckyMe e LA) -, Andi Toma e Jan St. Werner avessero ritrovato il sano gusto per la musica che facevano, veicolandola naturalmente con la consueta dovizia tecnica. Spezmodia, pubblicato sempre sulla label dei Modeselektor ed ispirato, a detta loro, da happy hardcore e gabba (ma molto più dal fermento footwork e dal wonky della precedente prova), altro non è che l'ennesima ricognizione nei territori del contemporaneo, l'ennesimo lascito di una ritrovata freschezza. Spaziando dagli spiraliformi ricordi acid rave di tradizione britannica di Bakeman Is Breaking Bad (con cubetti di ghiaccio grime) alle lallazioni ghettoblaster di Migmy, passando per il wonky di Lone rivestito di beat making di marca Dj Rashad nella parte centrale di Cream Theme e Spezmodia, il duo consegna una missiva rotonda e colorata che cede, per la prima volta in modo così marcato, alla cifra stilistica che ha reso unico i Mouse On Mars, per magnificare un artigianato produttivo eccellente. Una tracklist spumeggiante, senza cedimenti o il bisogno di inseguire o provare qualcosa (come accadeva in Parastrophics). Sembra di ascoltare

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Michael Yonkers - Michael Lee Yonkers (Drag City,2014)

no in vinile sono da capogiro) l'ennesima fase della produzione di un musicista che ha lasciato – seppure fuori sincrono – un segno indelebile nel rock. 7/10


un giovane producing duo in bilico tra wonky e footwork e tra i più freschi e intelligenti. Eppure sono i Mouse On Mars targati 2014. Bravi. 7.2/10 Edoardo Bridda

Genere: pop, rap, hiphop, triphop Neneh Cherry è sempre riuscita a sintetizzare, nei suoi dischi solisti (e prima nei Rip Rig + Panic) la contemporaneità musicale che ha vissuto. Nel 1989 fondeva hip-hop, funk, lustrini pop in stile Madonna (tutti elementi che caratterizzavano "la musica che gira intorno" di quel periodo) in un disco stratificato e intrigante come Raw Like Sushi; nel 1992 Homebrew trovava il modo di far convivere r'n'b, ancora hip hop e funk, trip hop epidermico e addirittura qualche sporadica chitarra elettrica vagamente rap-rock (in brani come Money Love, in cui è palese il debito nei confronti di Prince); con Man del 1996 la Cherry si inseriva pienamente in quel soul/r'n'b/pop tipico del decennio – e diffuso anche a livello mainstream – tutto tastiere morbide e atmosfere suadenti (vi ricordate di Woman?), con una trasversalità stilistica che ammiccava ad Ani Di Franco (altro must dei '90) in brani come Bestiality, occhieggiava all'etnico in Golden Ring, citava l'indie nineties più chitarristico e sdrucito in Kootchi. L'altro elemento tipico dell'artista svedese è sempre stata la capacità, nel tempo, di dar vita a collaborazioni e featuring fondamentali non solo in termini di crescita artistica, ma anche di visibilità: Man conteneva l'hit 7 Seconds in duetto con Youssou N'Dour, oltre a una Together Now co-prodotta da Tricky; Homebrew poteva vantare una Trout in condivisione con Michael Stipe dei R.E.M. (arrivati al successo mondiale solo un anno prima, nel 1991, con Lo-

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Neneh Cherry - Blank Project (Smalltown Supersound,2014)

osing My Religion) e una Somedays co-prodotta da Geoff Barrow; Raw Like Sushi contava sull'apporto di Robert Del Naja dei Massive Attack in un brano come Manchild. Ecco, quindi, che il Four Tet chiamato a produrre il nuovo Blank Project non stupisce più di tanto. E' lui, in fondo, uno dei musicisti più quotati/ trasversali/creativi dell'ultimo decennio e la Cherry lo sa bene. In più, il senso d'attesa che tale partnership ha generato nella mente dell'ascoltatore (dove potrebbe portare una collisione di universi musicali tanto differenti?), è valsa almeno, in termini di hype, quanto tutta la campagna promozionale per Reflektor degli Arcade Fire. Registrato in cinque giorni e caratterizzato da una sorta di minimalismo applicato forzatamente alla musica, Blank Project non si cura dell'elemento pop presente nei dischi precedenti della Cherry (a parte forse la Out Of The Black col feat. di Robyn). E' forse questo il marchio indelebile di un Four Tet che sposta l'asse del disco soprattutto sul fattore ritmico. La voce è libera di spaziare – grazie a un approccio in ottica jazz, come ad esempio nel soul dell'iniziale, bellissima, Across the Water – in una struttura armonica quasi inesistente, di certo ruvida ed essenziale. Una scelta che genera talvolta dissonanze, talvolta elementi ritmici vocali aggiunti ai suoni (date un ascolto ai tribalismi di Cynical), talvolta piccole parentesi di minimal ambient-r'n'b (422), in qualche caso commistioni sorprendenti (il trip hop atipico di Spit Three Times). Eppure Blank Project non è "il disco di Four Tet" (il brano che si avvicina di più al suo immaginario è forse Dossier) e nemmeno un album di elettronica/dance pura; ha forse più un approccio à la M.I.A., pur distaccandosene decisamente nella scelta dei suoni. Oltre ad essere una sorta di punto di incontro, di patto di non belligeranza, con cui Neneh Cerry

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Fabrizio Zampighi

Niton - Niton (Pulver Und Asche,2013) Genere: avant, impro, elettroacustica, drone, jazz L'indicazione per orientarsi in questo lavoro a sei mani, ce la danno direttamente gli artisti coinvolti, ovvero Zeno Gabaglio, violoncellista avvistato da queste parti nel lavoro di Francesca Lago, El Toxyque, al secolo Enrico Mangione, a corde, fiati, oggetti, tutti rigorosamente trattati elettronicamente, e Xelius, a.k.a. Luca Martegani, sempre all'elettronica e sound director del tutto. Niton, esordio discografico speriamo non estemporaneo, è figlio delle sessioni di registrazione live di "musica intuitiva" chiamate Drone Night, una sorta di happening alla maniera dei '70 in cui El Toxyque e Xelius chiamano di volta in volta un ospite e un pubblico che, ognuno a proprio modo, deve permettere di instaurare una interazione sensitiva. Ciò che si può ascoltare nelle quattro tracce del disco è il risultato di questa fusione tra suono e spazio, musicisti e pubblico: commistioni tra classica e improvvisazione, elettronica e

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strumentazione digitale, astrazione elettroacustica e rumorismo soffuso, forme vaganti di avant-jazz, in un magma generato da un humus comune distribuito nelle due lunghe suite centrali e nelle più brevi tracce iniziali e finali che fanno un po' da intro e outro. Se la prima di queste ultime va di crescendo (Tai Q, tensione nervosa montante alla Colin Stetson) e la seconda di spegnimento (Asna è uno sfaldamento sonoro che fa riemergere l'ascoltatore dal flusso sonoro trainante), è giocoforza la mezzora centrale affidata a B'Done e K'lamp a dare il senso di un progetto che necessita di spazi ampi per mostrare le sue armi migliori. È ciò che avviene nella splendida B'Done, in cui si stratificano asperità industriali e stridori di corde per tratteggiare ambientazioni tetramente notturne come in alcuni passaggi più oscuri del Chicago Underground Duo (vedi alla voce Age Of Energy). Lavoro ostico ma estremamente soddisfacente questo Niton, nel suo creare atmosfere da altre dimensioni perfettamente all'incrocio tra calore (gli archi), freddezza (l'elettronica analogica) e novità (l'oggettistica sonora), tutto rigorosamente in modalità improvvisata. 7.2/10 Stefano Pifferi

Patterns - Waking Lines (Melodic UK,2014) Genere: pop, indie Nonosante l'effimero percorso, nel loro piccolo i WU LYF hanno lasciato una traccia non da poco, influenzando più o meno direttamente la nuova legione di eccentriche guitar-bands di Manchester (e non solo, si pensi ai francesi Apes and Horses) guidata dai MONEY dell'ottimo The Shadow Of Heaven. I mancuniani Patterns (da non confondere con gli omonimi disco/popdancers che hanno da poco pubblicato Dangerous Intentions) non

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decide coscientemente di rinunciare a buona parte del suo passato – approccio alla scrittura, eredità pop, un sistema musicale/promozionale/di registrazione major ormai fuori dal tempo e, probabilmente, anche al vecchio pubblico – e Kieran Hebden si prende l'impegno di immergerla nello Stige del ventunesimo secolo, tenendola però ben stretta dal tallone per preservarne personalità e motivazioni. E' un atto di coraggio non da poco, se ci pensate, per una musicista che ha conosciuto la gloria delle posizioni più alte delle classifiche di vendita. L'esperimento è intrigante e, a nostro modo di vedere, riuscito. Un lavoro che non lascia spazio all'immaginazione, per certi versi persino intransigente, certamente da decifrare senza filtri pregressi. 7.2/10


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alcune lacune compositive comunque giustificabili in un debutto lungo. Waking Lines è un discreto punto di partenza – il singolo Blood, risalente al 2012, lo testimonia – ma siamo sicuri che rifinendo l'impalcatura (magari con un'ispirazione meno discontinua), i Patterns saranno in grado di realizzare un disco degno di nota. 6.1/10 Riccardo Zagaglia

Pontiak - Innocence (Thrill Jockey,2014) Genere: rock C'è qualcosa, nel sound dei Pontiak, che marca le distanze dalle folate desertiche e della potenza liquida delle altre band con la testa rivolta alla psichedelia dei 70s. Il loro dispiegameno di fuzz ha un che di angolare e geometrico, una violenza chirurgica e quasi concettuale che ne fa una versione robotica degli Stooges di Fun House. Innocence, in questo senso, sembra voler ribadire la diversità della band, con un terzetto di brani iniziali che carica di aspettative. La scansione marziale della title track apre il disco con la ferocia del (post) hardcore; i riff ossessivi di Lack Lustre Rush fagocitano la melodia del cantato per dar vita ad una furente marcia hard punk, mentre negli sbuffi meccanici di Ghost c'è un modo di intendere lo stoner rock che supera a sinistra i (primi) Queens Of The Stone Age. Gli assoli sono ridotti al lumicino, il minutaggio è contenuto e i fratelli Carney si dimostrano maestri di concisione ed efficacia. Dev'essere a quel punto che, guardando fuori dalla finestra, vedono la Virginia rurale e Innocence si trasforma in un altro disco. L'organo di It's The Greatest introduce quella che sembra una versione pastorale dei Pink Floyd. Si tira il fiato con piacere, anche se una scaletta sbilanciata mette una dietro l'altra la bella e

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hanno il carisma poetico e fuori dalle righe di Jamie Lee e alle slow-ballads notturne preferiscono i ritmi uptempo (meglio se arricchiti da loop elettronici), ma hanno le caratteristiche giuste per trovare un proprio seguito, soprattutto tra i seguaci delle band sopracitate (alle quali aggiungiamo i Father Sculptor di Glasgow, pure loro passati a miglior vita), partendo da un comune denominatore chitarristico che forgia l'epicità del post-rock con imprevedibili arpeggi riverberati. Waking Lines, l'album di debutto della formazione composta da Ciaran McAuley (voce, chitarra, tastiere), Laurence Radford (chitarra e samples), Alex Hillhouse (basso, samples) e Jamie Lynch (batteria) ha il compito di mostrare tutte queste sfaccettature, figlie di un suono strutturato, cercato e voluto. Purtroppo, però, sono luci e ombre quelle che si scorgono attraverso le dieci tracce della release targata Melodic: nei momenti dreamy (Our Ego a tema lisergico), nella grandiosità emozionale della title track costruita su un sample di campane e in quei passaggi in cui i malinconici testi si amalgamano con la trama sonora (Climbing Out) si ha la sensazione di avere di fronte una band già rodata. Lo stesso avviene a corrente alternata quando i Nostri abbracciano il credo WU LYFfiano aumentandone il dosaggio melodico con armonie di scuola Animal Collective: This Haze, in questo senso, è forse la migliore del lotto, mentre meno convincenti appaiono Wrong To Words e Broken Trains. I veri guai arrivano però nei momenti in cui è completamente assente il collante in grado di unire le diverse sfumature (Face Marks, piattina e con un gioco di cori rivedibile) o la presa melodica necessaria per andare oltre l'esercizio stilistico (Induction, tra skygaze e gli U2 di New Year's Day e Street Fires, praticamente i Glasvegas meno lagnosi), quest'ultima cercata a più riprese attraverso insipidi uoh-uoh che certificano

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Diego Ballani

ra ad opera del gruppo di Gramentieri diventa un campionario di suoi acustici e minimali, estratti parlati dal film e contributi vocali dei Musicanti di San Crispino e del Gruppo Vocale Farra. Un quadretto fatto di lentezze ubriache da road movie, malinconie reali – che poi sono quelle con cui tutti, in modo o nell'altro, ci troviamo a fare i conti –, blues peninsulare (El Blue), solitudini felliniane da banda di paese (I colori sono finiti) e folk contadino, che riesce non solo a dare un suono alle vicende narrate, ma anche a veicolarne il mood più profondo. E' forse questo il pregio maggiore di un disco – a cui hanno partecipato anche Enrico Farnedi, Marco Sangiorgi, Franco Naddei (e nella Lido (alt. take) ripresa da Rosario, anche Marc Ribot, David Hidalgo e Christian Ravaglioli) – che pur non cambiando nulla nell'universo Sacri Cuori, non è da considerare meno prezioso. 7/10 Fabrizio Zampighi

Sacri Cuori - Zoran il mio nipote scemo (Brutture Moderne,2013) Genere: rock, colonnasonora, folk Chi poteva musicare una provincia surreale e di confine come quella del film Zoran, il mio nipote scemo, se non i Sacri Cuori? Loro che in musica, il confine geografico e mentale l'hanno agilmente posizionato tra l'America blues-folk e la bassa Romagna del liscio, si trovano a fare i conti con vicende al confine tra il Friuli e la Slovenia dirette da Matteo Oleotto. In breve: Zoran, ragazzo sloveno colto e riservato, viene affidato temporaneamente al parente friulano Paolo Bressan, invece rozzo, meschino e col vizio del bicchiere sempre pieno. Il secondo cercherà di sfruttare le inaspettate (e inconsuete) doti del primo. Storia un po' sbrindellata di contraddizioni, opposti, umanità diverse e accartocciate allo stesso modo su un una vita che è sopravvivenza e frustrazione: tutto questo nella colonna sono-

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Sarah Lee Guthrie - Wassaic Way (RTE 8 Recods,2013) Genere: pop, country, folk, roots Per il quarto album della premiata coppia (nella vita, sul palco e in sala di registrazione) Guthrie-Irion si è scomodato Jeff Tweedy (in compagnia di Patrick Sansone), colto a trafficare con i volumi, a produrre e, insomma, a dare un imprimatur. Peccato che del padre (Arlo) e del nonno (Woody), Sarah Lee abbia solo il cognome. Per il resto non c'è nulla dentro questo album che non sia roots/country pop/ rock assolutamente scontato. Dalla canzoncina snob dedicata al gatto (Chairman Meow) a una title track che onestamente non riempirebbe nemmeno un karaoke di quart'ordine, per continuare con le invocazioni da buoni sentimenti (Probably Gone). Tutto si gioca su canoni frusti, stereotipici. In più, oltre a una scrittura piatta, non c'è nemme-

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breve Noble Heads, ballata country trafitta da un assolo epico, e Wildfire, corale omaggio agli Stones di Wild Horses. Il nuovo album dei Carney si segnala così per l'esasperazione dei contrasti, compresa la stilizzazione sabbathiana di Sourrounded By Diamonds e le atmosfere lunari di Darkness Is Coming. E' indubbio che la ragione più intima della formazione stia in brani che riforgiano l'hard tellurico dei 70s con brandelli dell'alternative anni 90 (We've Got It Wrong emana l'odore acre dei Jane's Addiction) e del rock matematico degli anni Zero (soprattutto nelle squadrate reiterazioni di Shining). Nondimeno, il loro lato romantico offre momenti di intima suggestione, ampia con stile lo spettro sonoro e li rilancia come una delle entità heavy psych meno definibili in circolazione. 7.2/10


no l'interpretazione: compitini che, tra l'altro, quando canta lui viene voglia di spegnere. Bello il sogno di vivere di musica, di stare nello stesso mondo di papà e nonno, ma la realtà è che Sarah Lee Guthrie non vi appartiene. E non si capisce perché Tweedy ci debba perdere tempo (tra l'altro spingendo verso volumi e arrangiamenti che talvolta lasciano molto perplessi). 5/10 Marco Boscolo

Genere: soul, rnb, elettronica Dopo My Awesome Mixtape (ormai chiuso) e Quackers and Mormons (al momento in stand-by), ecco il nuovo progetto di Paolo "Maolo" Torreggiani: Sin/Cos. La carriera sonica del musicista bolognese parte da un pop catchy, taglia con l'hip-hop cerebrale intriso di estetica Anticon e arriva oggi a un electro soul più o meno meditativo/melò che sfrutta a pieno le potenzialità del vocoder, dell'harmonizer e dell'autotuning. Roba che si ascolta facilmente, che cavalca lo zeitgeist post-Blakeiano e che non ha bisogno di troppi filtri per essere capita. Grazie anche alle aggiunte elettroniche della seconda metà del duo (Vittorio Marchetti, già membro di Altre di B, Obagevi e osc2x), alle voci di Laura Loriga (Mimes of Wine, Giardini di Mirò), al violino di Federico Spadoni (unico ex My Awesome Mixtape) e alla produzione di Lorenzo Nada aka godblesscomputers, non si può dire che il prodotto non fili bene. Se fosse stato il Drake o il Lamar di turno, il ragazzo avrebbe sbancato in America, di certo. Invece qui sarà percepito come l'ennesimo poser un po' troppo malinconico che esagera con i tool che snaturano la voce e che non suonano abbastanza "underground" (sempre che questa definizione abbia ancora un significato). Dopo qualche ascolto si capisce, al contrario,

Marco Braggion

The Crystal Session - The Crystal Session (Seahorse Recordings,2013) Genere: synthpop, dream Un progetto stratificato ed affascinante, che punta su musica d'atmosfera giocata sui chiaroscuri e sulla dimensione onirica. The Crystal Session, nome altisonante dietro il quale si nascondono Marinella Dipalma alla voce e ai synth e Francesco De Palma alla chitarra e al basso, presenta modelli di riferimento ben precisi e guarda soprattutto alla musica proveniente dalla terra d'Albione. Nella proposta del duo, fatta di delicate canzoni dream-pop e di elettronica d'autore, non è difficile scovare i germi di band seminali quali My Bloody Valentine (depurati dal loro caratteristico rumorismo), Cranes e Cocteau Twins. Ma le fonti di ispirazione del duo provengono anche da gruppi contemporanei, e così alcuni passaggi non disdegnano incursioni nel pop sofisticato di gente come Beach House. I nove brani che compongono questo esordio non perdono quasi mai di vista la melodia, magari destrutturata e sommersa da effetti elettronici, ma sempre percepibile e a volte preponderante: è il caso dell'iniziale Hyperion, brano che vanta una bella linea melodica

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Sin/Cos - Parallelograms (Hmcf,2014)

che il progetto cerca di esplorare in modo personale il pop italiano, uno dei territori su cui è più facile impantanarsi. Seguendo alcune piste che erano state ben delineate dagli Amari e da qualche artista della scena italo-Wonky, rinfrescando il tutto con tocchi à la Tarwater (Armanian) ed estetiche 4AD (Colours) o Morr (Asteroid), Parallelograms ci sembra il risultato migliore della carriera del musicista, svincolato dalle spintarelle di nomi illustri e da premi più o meno blasonati. La prima vera risposta italiana al nu-soul d'oltreoceano. 7/10

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d'etichetta) e i Notwist, con in più una predilezione per certi synth minimali anni Ottanta e moderatamente dreamy/ambientali. Nel precedente Everybody Knows It's Gonna Happen Only Not Tonight il progetto musicale del belga Dieter Sermeus (più una serie di musicisti aggiunti) si dilettava con una pop-tronica giocattolo costruita sulla chitarra acustica e sui suoni caldi di sintetizzatore, qui declinata in una formula se possibile ancora più minimale e "synthcentrica". Brand New Love è un campionario di stratificazioni spacey domestiche e malinconie pop sospese (We Promised Together), sostenuto da un gusto negli arrangiamenti sempre equilibrato e puntuale. Nessun istrionismo di sorta, anche quando i toni si fanno vagamente dance (Jungle Heart, Japan); semmai una pacatezza che si trasforma in eleganza formale, ad esempio in una Your Heart sognante e risicatissima dal punto di vista strumentale (tutto ruota attorno a voce e synth). Qualche aggiornamento di forma, ma nella sostanza non cambia quasi nulla rispetto ai dischi precedenti, anche se probabilmente Brand New Love è uno degli episodi più riusciti della parabola artistica di The Go Find: stessa cura per il suono e per la melodia, stesso cantato impalpabile, stessa attitudine spiccatamente indie. Un disco piacevole, ma che non lascia un marchio indelebile. 6.7/10

Ilario Galati

Genere: rock, synthpop, elettronica, triphop Il progetto The Grooming nasce nel 2007 per volere di Paolo Girelli (ex bassista Zeropositivo) e di Giacomo Vanelli (programming e synth). Ispirato in prima battuta al Bristol sound di Massive Attack e Portishead, raccoglie molti spunti da quella scuola, mescolandoli

The Go Find - Brand New Love (Morr Music,2014) Genere: indie, synthpop In Brand New Love, The Go Find è una sorta di via di mezzo tra i Lali Puna (compagni

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Fabrizio Zampighi

The Grooming - Thisconnect (Autoprodotto,2013)

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circolare e che si regge sull'interpretazione di Marinella Dipalma, la cui voce si adatta benissimo alle atmosfere ricreate dalla band. In altri passaggi, il clima che si respira è decisamente più rarefatto ed etereo, fino a concedersi incursioni nella musica da camera: la spirituale Countin'Up to Love o la sognante e parzialmente acustica CurseDance ne sono due esempi, peraltro molto riusciti. Alcuni passaggi del disco, a dire il vero, non risultano centrati appieno, soprattutto quando le caratteristiche descritte lasciano spazio ad una musica ambient dai contorni davvero poco definiti, se non proprio ad una new age fuori tempo massimo. E all'ascolto di pezzi come Narcolepshymn affiora inevitabilmente un po' di sonnolenza. Va decisamente meglio invece, quando il duo cerca, pur nel contesto e nelle sonorità scelte, la forma canzone: è il caso della raffinata Tearbud, ad esempio, della ariosa elegia di Opalescent, o ancora dell'aggressiva La Belle Indiffèrence, forse il pezzo meglio assortito dell'intero disco. A conti fatti, l'esordio di The Crystal Session è un lavoro coraggioso, che non ammicca alle mode del momento, ma segue un percorso personale, soprattutto nell'ambito della nostra musica indipendente. La sostanza non manca, così come qualche incongruenza e qualche lungaggine di troppo sulla quale il duo è chiamato a lavorare per ricalibrare la sua offerta. Quello che più conta, però, è che il disco vanta un sound maturo che non lascerà indifferenti i tanti appassionati di dream-pop et similia. 6/10


Marco Braggion

Tom Brosseau - Grass Punks (Tin Angel Records,2014) Genere: folk Sono passati ben cinque anni da quel Posthumos Success del 2009 che non ci aveva convinti del tutto. Se lì si cercava di aggiornare il verbo folk minimale propagandato fin dagli esordi da Tom Brosseau – uno che alla filosofia del menestrello girovago con la chitarra a tracolla crede ancora, bontà sua – con arrangiamenti elaborati, in Grass Punks si fa esattamente il discorso inverso. Non fosse per la pulizia del suono, il disco potrebbe sembrare un lascito del post-war folk più ancestrale, piuttosto che un lavoro del 2014, tanto il materiale raccolto nelle dieci tracce è essenziale: un paio di chitarre

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acustiche e la voce, per giunta registrate in una casa vicino a Hollywood con tecniche di ripresa (si presume) essenziali pure quelle. E' in questa veste che Brosseau rende di più. Quando, cioè, tutta l'attenzione si concentra sulle cadenze suadenti del cantato e su quel fingerpicking che regge il discorso grazie a una struttura solida e articolata. Se dischi come Cavalier e soprattutto Empty Houses Are Lonely avevano già fatto intendere quale fosse la dimensione privilegiata del musicista del Nord Dakota, Grass Punks lo ribadisce: Brosseau è tipo da riverberi contenuti, timbri ben definiti, zero arzigogoli. Today Is A Bright New Day, in questo senso, è forse la cartina di tornasole perfetta per la parte più "folk-pop" del suono, con le sue armonie vagamente Simon and Garfunkel; Love High John The Conqueror, invece, è il corrispettivo bluesy, l'altro caposaldo dell'album, ma anche dello stile del musicista. Nonostante l'ormai lunga storia discografica, il Nostro riesce ancora a conquistarci senza usare trucchi maldestri ma solo affidandosi alla scrittura. Una scrittura raffinata, elegante, seppur con poche sorprese: è forse questo l'unico difetto di uno stile impeccabile ma che non può vantare, per ovvie ragioni, il background di vissuto – e indirettamente, quindi, il mood e la pregnanza emotiva del suono – di quel postwar folk che citavamo in apertura. 6.9/10

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nell'esordio del 2010, Digital Seeds, con suggestioni Depeche Mode. Il sophomore è invece concepito come un viaggio fra le molte facce della synth-tronica rock da palco. Il disco viene impreziosito da innumerevoli featuring, risultando piacevole all'ascolto, con una sequenza di potenziali singoli che spaziano fra ricordi '80 (ottima l'interpretazione in Man With 1000 Faces di Gianluca Plomitallo), suggestioni pop melodico dark (The Candle, con Chiara Canzian), synth-rock à la Subsonica (Wishy Washy, con Paolo Martella), qualche accenno nordico (i Röyksopp in Spring Snow) e ancora qualche richiamo ai Depeche Mode (Brain Machine, Grey Zone). Un lavoro che conferma l'eccellente capacità di arrangiamento dei ragazzi, ma che alla lunga risulta un po' inscatolato in griglie compositive costruite su binari pre-confezionati. Un'uscita dagli schemi potrebbe portare al botto, soprattutto in combo con il vocalist Plomitallo, che sembra adattarsi alla perfezione al sound della band. 6.5/10

Fabrizio Zampighi

Venegoni and Co. - Sarabanda (Cramps,2014) Genere: jamband, prog, funk, jazz, fusion Seconda fatica da studio del progetto imbastito da Luigi Venegoni, compositore e chitarrista degli Arti e Mestieri, Sarabanda offre già in apertura una precisa collocazione geografica nella quale consumare le musiche in questione; Mezzogiorno attacca infatti ritmata da un mar-

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Filippo Bordignon

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Vintage Violence - Senza paura delle rovine (Maninalto,2014) Genere: rock E' un graditissimo ritorno, quello dei lecchesi Vintage Violence, a circa tre anni di distanza dal bel Piccoli intrattenimenti musicali; Senza paura delle rovine è esattamente il disco che ti saresti aspettato da loro. Sì, perché la band guidata dal chitarrista e autore Rocco Arienti ha messo a segno il suo miglior lavoro: tredici tracce perfette ed abrasive solo apparentemente semplici, perché ritmi spezzati, refrain e arrangiamenti sono quanto di più complesso il gruppo abbia tirato fuori in più di un decennio di attività. Neanche trenta minuti di durata complessiva, eppure tantissima carne al fuoco, a cominciare dai testi cinici, incazzati, dissacranti, sboccati, ma anche ragionati come accade di rado. Per i Vintage Violence le canzoni sono un veicolo ideale per esprimere il proprio personale (e lucidissimo) punto di vista sul mondo. Si badi, non parliamo di impegno civile, ma di una visione globale dell'esistente che dovrebbe appartenere ad ogni artista. Una visione decadente, spietata, ma che non difetta quasi mai di ironia. Il che in soldoni si tramuta in un pregio assai raro: dire cose serie non prendendosi sul serio. Niente proclami, dunque, ma ficcanti analisi sullo stato dell'esistente, il tutto imbastito su trame sonore tirate che non conoscono momenti d'esitazione o tregue di sorta. Un breviario rock poco mediato, debitore tanto all'underground italiano anni '90 quanto al sound di molte band coeve. E' facile tirare in ballo Il teatro degli orrori o Zen Circus, ma a ben vedere i Vintage Violence si discostano da qualunque modello: molto meno verbosi e decisamente più immediati della band di Capovilla e senza quell'attitudine da "scazzo buskers" tipica della band di Appino. Peraltro, il legame con questi ultimi, e con l'ipotetica "scena" in generale, è

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ranzano (meglio conosciuto come "scacciapensieri"), evocando così un sound mediterraneo con gli occhi rivolti al jazz-rock d'oltreoceano di quegli anni. Come per l'esordio di due anni addietro Rumore Rosso, non è possibile parlare di una pietra miliare ma, semmai, di uno dei molti lodevoli tentativi di ricondurre la libertà improvvisativa post-progressive nei lidi del funk, del jazz cervellotico e delle derive folkoristiche. A brillare, questo sì, è la chitarra elettrica del buon 'Gigi', disponibile a una fusion sposata in pieno dai compagni del tempo, e dunque Marco Astarita (percussioni), Paolo Franchini (basso), Beppe Sciuto (batteria) e dell'allora sconosciuto Ludovico Einaudi (tastiere). Evidenziamo inoltre una felicità compositiva nell'elaborazione di temi piacevoli e sornioni (Opa), sui quali è riversato un abile gioco di abbellimenti e dinamismi. E se, come da consuetudine del tempo, Balon attacca con la registrazione dell'ennesimo vociare di un mercato rionale, meglio si fa nella conclusiva title track, diciotto minuti e oltre che sembrano partire dal semplice, per sviluppare un disegno orientaleggiante appoggiato sui dettagli al violoncello di Marco Cimino e alla voce calda di Ciro Buttari, due dei molti ospiti della raccolta. Ma la volontà di aggiungere spezza dopo breve la prospettiva di linearità: la trama iniziale viene dunque frullata, rivista, dopata da iniezioni di rock agghindato con quanti più gingilli percussivi possibile. Ci troviamo così, effettivamente, ad assistere a una sarabanda presto accelerata, ammiccante alle più note produzioni estere allora in auge (il recidivo Miles Davis e l'Herbie Hancock di Head Hunters). Un tentativo riuscito per metà. Un ascolto mezzo sepolto nella polvere dalla spietata clessidra del tempo. 6.9/10


Ilario Galati

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Vulkano - Live Wild Die Free (Autoprodotto,2014) Genere: pop, rock, indie, post-punk C'erano una volta le Those Dancing Days, quintetto svedese all-female un tempo frequentatore abituale delle setlist dei club indie e dei music blog di rilevanza. Era più o meno il 2008 e in molti guardavano con ammirazione – e sospetto – un progetto che sembrava quasi creato a tavolino, considerato l'alto tasso di stereotipi – anche visivi – pronti a catturare i facili apprezzamenti di un certo tipo di target. Delle ragazze di Stoccolma ricordiamo volentieri il videoclip del singolo Run, Run (contenuto nel buon debutto lungo In Our Space Heroes Suits) e poco altro, colpa anche di un secondo lavoro – Daydreams And Nightmares - decisamente meno fresco e dello hiatus a tempo indefinito annunciato nel 2011. A farci tornare in mente le gesta delle indie poppers svedesi hanno pensato Lisa Pyk Wirström e Cissi Efraimsson – rispettivamente ex-tastierista ed ex-batterista delle Those Dancing Days – le quali, da ormai un paio d'anni, hanno dato vita al progetto Vulkano, lasciandosi completamente alle spalle il dolce passato e abbracciando una nuova e più tagliente direzione sonora. Emblema del nuovo corso è Vision Tricks: pubblicata la scorsa estate, la traccia in questione è una mancata alt-hit modellata su un giro di basso circolare di scuola post-punk (uguale ad altri cento, ma perfettamente funzionale) e su una linea melodica con il giusto hook. Con un videoclip – quello di Vision Tricks – da appena 5.000 visualizzazioni e il sogno di una nuova fama ben lungi dall'essere concretizzato, le Vulkano pubblicano l'album d'esordio Live Wild Die Free alla stregua di un concetto che loro stesse definiscono con un termine, "spiritual punk'n'art", che in alcuni frangenti sembra realmente prendere forma e riassumere la lora

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anche confermato dall'ospitata di Karim Qqru in Neopaganesimo e di un Enrico Gabrielli che presta il suo prezioso sax baritono ne I Funerali. Accanto a ospiti per così dire usuali, però, il gruppo chiama a raccolta anche un personaggio decisamente avulso all'alternative italico: il regista e scrittore Silvano Agosti, infatti, recita una sua poesia ne Il mare. In Vivere in un bilocale troviamo invece alla voce Daniele Federici, fondatore dell'unica tribute band italiana dei Velvet Underground e grande esperto di Lou Reed. E veniamo alle canzoni: difficile davvero scegliere cosa citare, anche perché a conti fatti, se consideriamo Senza paura delle rovine un'opera che fotografa la condizione umana ed esistenziale di chi abita il nostro Paese, allora potremmo qualificarlo anche come una sorta di concept dove ogni brano si lega coerentemente all'altro. S.I.A.E., ad esempio, è una lucida disamina in musica sulla controversa Società Italiana degli Autori e Editori; Abbronzarsi il Culo riflette sullo stato di salute della nostra musica ("fare musica in Italia è come abbronzarsi il culo / se ne accorgono solo in pochi se non lo dai via"), mentre l'iniziale Primo ostacolo è l'ideale singolo per promuovere il disco ("Cercatela tu la verità / fra le rovine"). Belle anche Comunione e Liberazione e Neopaganesimo, e ci fermiamo qui perché sennò si rischia davvero di citarle tutte. Davvero un bel disco, questo Senza paura delle rovine: rabbioso, viscerale, ben suonato e, quel che più conta, autentico. Insomma, sarebbe proprio bello cominciare a vedere il nome dei Vintage Violence circolare tra quelli che contano nel Pantheon del nostro rock d'autore. 7/10

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Riccardo Zagaglia

Ø - Konstellaatio (Sähkö Recordings,2014) Genere: ambient, techno Salvo esordi piuttosto incentrati sui 4/4 techno come acid – e parliamo di Metri e degli EP Röntgen, Kvantti e Atomit EP -, a partire

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dall'album Olento (che iniziava con un carillon), passando per Oleva (con la copertina raffigurante un corso d'acqua tra le rocce), Ø ha progressivamente rappresentato per Mika Vainio il rifugio intimista, dove, oltre la coltre delle gelide elettroacustiche, texture e meccaniche autografe, il finnico si lascia sprofondare in un letto di pensieri e cartografie, magari contemplando astri e costellazioni. Non fa eccezione Konstellaatio, un album che, in linea con il precedente, seduce con una navigazione a vista sul lato più astratto della techno di marca Touch ma soprattutto si immerge in un viaggio che dalla Set The Controls For The Heart Of The Sun (cover dei Pink Floyd contenuta in Oleva) punta a un "dronico" (ma distante) incanto. Proprio come l'inedito Heijastuva (contenuto nell'omonima compilation del 2011) lasciava presagire, tutto l'intorno Raster Noton è ridotto praticamente a zero. L'opener Otava è un avvolgente manto di pensieri badalamentiani suonati su una organo-sintetica di marca Tangerine Dream. Colpisce la componente emotiva di Vainio, mai stata così esposta e subito dopo inghiottita in una cosmica dai tratti fanciulleschi (Syvyydessä Kimallus). Il disco entra poi nel vivo con Kesäyön Haltijat, Talvipäiva, Yanha Motelli e ancora Syvänteessä Pukinjalkaisen: è un gioco di specchi, una faccenda d'interrogativi, di stupore e timore tra il sé e la galassia, ottenuto con semplici ma misuratissime manipolazioni al vibrafono, con guardinghi passi di sintetiche da chiesa gotica (Metsän Sydän), oppure con richiami a soundtrack à la Solaris di Andrej Tarkovskij (le viste sul magma di Syvänteessä Pukinjalkaisen). In chiusura c'è Takaisin, l'uscita a testa china di chi non vuol troppo farsi notare ma che ha appena lasciato un più che generoso lavoro dietro di sé. Per dirla con le parole dello stesso Vainio, tratte da un'intervista a The Quietus dello

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proposta. È sia il caso dell'iniziale Trolls, dove – con un po' di quella ingenuità di chi fatica a scrollarsi di dosso i residui adolescenziali – personificano una natura pronta a riprendersi ciò che le è stato tolto (tema affrontato anche in Clap Your Bones), sia della successiva Choir of Wolves - il primo brano pubblicato come Vulkano -, nella quale le Nostre si trasformano in lupi delle montagne (contesto a loro caro, evidentemente), con tanto di – vagamente ridicoli – ululati (nell'interessante Psycho Girls abbiamo anche i miagolii, per non farci mancare nulla). In questa dicotomia tra velleità seriose e trovate da high-school band, Live Wild Die Free scorre veloce tra una marea di riempitivi che sembrano costruiti in dieci minuti di sala prove (il garage-punk stridulo di Too Young To Die ad esempio) e quel riottoso teen-spirit sempre pronto ad esplodere per rivendicare i propri diritti (Vulkano, brano scritto da Cissi prima della nascita del progetto). In alcune occasioni, fortunatamente, il songwriting acerbo viene messo in secondo piano dalle contagiose linee di basso di Rebecka Rolfart (Jungles, Spider Spider, vicine a certo art-punk made in NY fine anni '70), ma il progetto Vulkano è ancora privo di quello spessore necessario per potere diventare un punto di riferimento nel suo ambito. Per il momento, ha le sembianze di un semplice diversivo – tra il divertente e il divertito – dalle gambe corte. 6/10


scorso 23 gennaio, "Considera l'immagine della giovinezza e quella di una galassia, il prendere forma di questi suoni quando giusto stanno per emergere dal – o stanno per essere mangiati dal – rumoroso continuum della materia. Ogni suono di fronte al passato o di fronte all'infinito è arrangiato secondo vari gradienti di vaghezza – una costellazione di frammenti portati alla superficie da ogni giorno presente: più li senti vicini, più li senti nella loro alterità". 7.2/10

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Edoardo Bridda

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G imme

S o me

I nc h es

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Questo mese allughiamo il solito sguardo nel sottobosco tra nastri e vinili piccoli parlando di Kurt Vile e Sore Eros, dell'industrial di Le Cose Bianche e M.B., del rumore dal profondo nord dell'Europa, di Prurient e dell'ultimo gioiello made in Hundebiss, i nostri Primitive Art

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Cominciamo il nostro scandaglio nel sottobosco con l’insolito incontro tra Kurt Vile e Robert Robinson a.k.a. Sore Eros. Insolito perché nato da una conoscenza comune e da una fatto curioso (avere la stessa data di nascita, il 3 gennaio dell’80, per chi volesse saperlo) e non dalla pruderie di far incontrare mondi in apparenza distanti come quelli bazzicati con le rispettive sigle. Che poi a ben vedere tanto distanti non sono affatto dato che Robinson ha bazzicato i Violators di Vile ma che sembrano provenire da dimensioni diverse e avere prospettive diverse oltre che approcci quasi antitetici. Nel 10” Jamaica Plain (un invito alla fuga verso spiagge bianche e ganja ottima?) i due in realtà offrono una sola canzone, Serum, ballata sfatta e oppiacea impreziosita dalla voce di Sore Eros e trattata come un carillon sotto acido dal sodale. La title track e Calling Out Of Work non sono da meno coi loro rispettivi lunghi deliqui strumentali: più astratta e introspettiva la seconda, più meditativa e pastorale la prima, per un ep niente male. Afrofuturismo a go-go invece nel vinile che segna Problems, l’esordio per il duo Primitive Art. milanesi d’adozione, i due dietro la sigla mischiano influssi ed influenze per elaborare un 4 tracce (per 25 minuti) che spiazza e sorprende per quel suo essere un lavoro di cesello su concetto e idea piuttosto che sul mero suono; un suono che si stratifica e monta lieve e leggero tirando in ballo ambientazioni e suggestioni capaci di prendere il dub, trattarlo alla maniera di Bristol (c’è quella roba drogata e in bassa battuta che una volta chiamavamo trip-hop in Elevaciòn), corroborarlo di infiltrazioni industrial d’antan (a tratti pare di ascoltare robe strambe come i 23 Skidoo sintetici) o esoteriche – riecheggiano i Coil in certi momenti – e giocare con un immaginario di suoni sfasati, sfocati, scivolosi e ipnotici. A firmare il tutto è la benemerita Hundebiss, sempre più all’avanguardia per suoni da “bastard avant-pop” in grado di far collidere mondi distanti (vedi alla voce Stargate e Dracula Lewis). Long live Vernasca. Avviandosi verso lande decisamente più oscure, da segnalare alcune uscite a nome L.C.B., ovvero Le Cose Bianche, progetto industrial old school nelle modalità da “nascondismo” che nella incessante prolificità. Se avete pensato a M.B./Maurizio Bianchi avete fatto bene, perché i due dividono un doppio cd-r intitolato Zyklusters- Structural Sessions in cui si sfidano a colpi di mazzate: se per M.B. non c’è nulla da aggiungere se non che le 4 tracce di Zyklusters sono al solito una riedizione di uscite in numero risibile e si sviluppano su


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modalità dark-ambient belle grumose, L.C.B. in Structural Sessions va di analog synth e manipolazioni in 4 pezzi in cui si sgranano harsh-noise in bassa frequenza, borbottii e gorgoglii industrial horrorifici e inquietanti visioni vecchia scuola. Tra maestro e allievo, almeno cronologicamente, non si nota la differenza. Spostiamoci a nord, più precisamente nella periferia di Stoccolma, per accogliere un’ottima iniziativa a cura della Unik Eld, tape label gestita da Henrik Söderström, in arte Händer Som Vårdar. Assolutamente low-profile, l’etichetta del giovane noiser scandinavo ha di recente rilasciato Venice Of The North, compilation su nastro che raccoglie le giovani promesse del panorama industriale della capitale svedese. Operazione diffusa quella della compilazione nel sottobosco rumoroso (si vedano uscite analoghe per Release The Bats e Posh Isolation, per fare due esempi recenti), ma non sempre all’altezza del compito. Fortunatamente non è il caso di questa cassetta che aggrega nomi sconosciuti anche ai più incalliti consumatori di elettronica deviata. Concepita come un piccolo manifesto portatile del disagio che alberga nei quartieri popolari di Stoccolma, Venice Of The North porta alla luce tracce inedite di novelli rumoristi locali come Broken Lights (già una tape su Posh Isolation) e i loro droni ribollenti, Corrosion coi suoi feedback saturi, lo stesso Händer Som Vårdar e il suo concretismo organico. Ma la vera sorpresa è Vit Fana, ovvero il debutto del progetto solista di Ossian Ohlsson, e le due tracce anonime qui presenti. Un misto di amarezza sbiadita, marzialità elementare e ferocia abbozzata, a metà strada tra Ättestupa, Alfarmania e chi altro più vi intriga. Assolutamente da tenere d’occhio. Notevole anche l’artwork, freddo e minimale come – per l’appunto – i quartieri da cui questi ragazzi provengono. Sempre in ambiti di elettronica danneggiata, ma spostandoci oltre oceano, ritroviamo uno dei personaggi più emblematici e produttivi di sempre aka Mr. Dominick Fernow. Ormai insindacabilmente consacrato grazie al progetto tech-industrial Vatican Shadow, l’artista americano ha un passato (ben noto) da aggressore sonoro sotto l’egida Prurient ed proprio come questo moniker che torna con un 7” per Handmade Birds. Continuando sulla falsa riga dell’ultimo (ed eccellente) Through The Window, Washed Against The Rocks rilascia due nuove tracce di rumoracci sapientemente miscelati con un pizzico di cassa dritta e tutta la produzione di cui è capace il signore in questione. Difficile andare più in profondità in questa sede, non vi resta darci un ascolto e siamo sicuri che non rimarrete delusi. Restando nel Nuovo Continente ma cambiando completamente sonorità ci imbattiamo nuovamente nei prolifici (ma non per questo prolissi) Kinit Her. Il duo composto da Nathaniel Ritter e Troy Schafer ha salutato l’anno appena concluso con ben tre uscite (Storm Of Radiance, The Cavern Stanzas e l’ultimo album The Poet and The Blue Flower) e saluta il nuovo con 12” per la sodale Pesanta UrFolk. Tre tracce per circa 25 minuti su questo Hyperion a testimoniare ulteriormente un’incredibile capacità compositiva ed esecutiva. Timpani altisonanti, violini e chitarre cristalline, voci baritonali e melodie ascensionali, tra Current 93, Blood Axis, Changes e il freak-folk inglese dei 70s. Per certi versi è incredibile la tensione lirica che i due giovani del Mid-West riescono a creare nelle loro composizioni: come una tensostruttura in costante equilibrio tra una solenne drammaticità e la ricerca di un’elevazione dal mondo sensibile. Troppi paroloni? Ok, lasciate che sia Hyperion a parlare. Andrea Napoli, Stefano Pifferi

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Ivano Fossati

campi

magnetici

Lindbergh – Lettere da sopra la pioggia (Epic records,1992)

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Esaurita la fase prog coi Delirium, nell’Ivano Fossati solista presero a dipanarsi almeno due nature: quella pensosa del cantautore alle prese con enigmi e travagli interiori e quella a pronta presa pop ma dal buon peso specifico. Se la prima gli aveva fatto guadagnare un’autorevolezza sempre più robusta agli occhi di pubblico e addetti ai lavori (con album di spessore quali 700 giorni e La pianta del té), la seconda gli consentì di piazzare qualche propria composizione ben alta nelle classifiche di vendita e nell’immaginario musicale del Belpaese (sia a proprio nome – La mia banda suona il rock, La musica che gira intorno – che per interposta persona, vedi Pensiero stupendo via Patti Pravo e Non sono una signora via Loredana Bertè). Questo Ivano uno e bino aveva insomma attraversato i roventi Settanta e la giocoleria degli Ottanta uscendone più che vivo, anzi al massimo della forma e della maturità. Ce n’era bisogno, visto che i Novanta fecero capire subito che sarebbero stati tempi di nuove sfide per coloro che si ostinavano a impegnarsi come cantautori. Tempi che dovevi tornare a sporcarti le mani con la realtà. Discanto, uscito nel ‘90, in questo senso chiudeva la fase più “introversa” dei suoi Eighties, proprio mentre Le nuvole di De André – disco meraviglioso che non lasciava alibi alla coscienza sporca di un Paese voglioso di scuotersi e al quale Fossati contribuì nella stesura di un paio di testi – apriva di fatto il nuovo decennio del cantautorato italiano. Lindbergh nacque due anni più tardi sotto premesse già radicalmente mutate, ovvero sotto la cappa dei conflitti che deflagrarono nei primissimi anni del decennio: la “desert storm” sull’Iraq e le guerre civili che dissolsero la Jugoslavia a partire dal ‘91. In entrambi i casi, si poneva urgente la questione del coinvolgimento dello Stato e i suoi riflessi nella dimensione del cittadino/individuo, ovvero la crisi di tutta la lunga sedimentazione culturale edificata su un pacifismo formale che rivelava di schianto tutta la propria fragilità e ambiguità. Fossati affronta questo dilemma con un pacifismo senza cedimenti, cogliendo a piene mani dal proprio repertorio di depistaggi criptici e allusivi, eppure lasciando trapelare un coinvolgimento emotivo diretto, semplice, schietto. In questo senso vanno lette l’essenziale e sanguigna rilettura de Il disertore (di Boris Vian) nonché la franca Poca voglia di fare il soldato, anche se il pezzo forte arriva con Sigonella, dove la guerra è una presenza differita ma immanente, una lacerazione esistenziale tanto più profonda quanto più distante, invisibile. Si potrebbe azzardare una sorta di concept proprio nell’isolamento dell’io rispetto alla direzione del mondo, che la traccia di apertura La canzone popolare solo apparentemente smentisce e semmai enfatizza col suo marciare vivido in un trascinante impasto di ritmi e


timbri bandistici. Ma dopo questo episodio c’è come un’implosione, non resta margine che per trepidazioni languide (la splendida Mio fratello che guardi il mondo), guittezze spiegazzate più Paolo Conte che De André (Notturno delle tre) e rarefazioni meditabonde (la title track), come a marcare la traiettoria di un viaggio solitario per l’impossibilità di realizzare pienamente se stessi seguendo la traiettoria confusa, totalitaria e talvolta delittuosa della massa. Rispetto alla “direzione ostinata e contraria” di Faber, si tratta di un più dimesso andare controvento (come canta in Ci sarà), un atteggiamento emotivo (e al limite sentimentale) prima che politico, un mettere alla prova le corde della sensibilità tenendosi lontano dalle rotte troppo battute. Questa voglia di immergersi fin nel profondo del sentire popolare, posizionando il baricentro espressivo sotto la stratificazione delle culture e perciò disponendosi tanto al confronto con le radici, quanto alla contaminazione “etnica”, si riflette nelle tessiture d’arrangiamento, tendenti ad un esotismo composito e raffinato (vengono utilizzati arpa celtica, ocarina messicana, oboe, percussioni e tabla – a queste ultime troviamo addirittura Trilok Gurtu) che paga dazio ad un utilizzo fin troppo pervasivo delle tastiere, nelle quali all’epoca – sulla scorta della pseudo-world messa a punto da Peter Gabriel – si riponeva forse fin troppa fiducia. Al netto di tutto questo, la felicità delle intuizioni melodiche e l’intensità delle interpretazioni fanno di Lindbergh un’esperienza d’ascolto ancora considerevole, di sicuro uno dei picchi del repertorio di Fossati e tra i momenti più intensi del “pop di qualità” mai prodotto in territorio italiano. 7.5/10 Stefano Solventi

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The Cure

classic

alb u m

Pornography (Fiction,1982)

Parliamo di un disco da cui non si ritorna, della fine quasi necessaria di un ciclo, di una band “sopravvissuta” al proprio capolavoro ma soltanto a costo di cambiare rotta. Fino a Pornography Robert Smith e compagni hanno seguito un percorso abbastanza lineare verso una musicalità a tinte gotiche. La musica dei primi Cure, un guitar pop asciutto e spigoloso, aveva ceduto il passo al suono freddo e atmosferico di Seventeen Seconds – versione più spoglia e ugualmente ieratica del sound cupo e solenne di Closer dei Joy Division – e poi del funereo Faith, espressione di un misticismo nichilista con il suo respiro quasi liturgico, tra ritmi catatonici e melodie agonizzanti. Pornography dà una sensazione diversa: quella di guardare la stessa cattedrale gotica di suono in macro, ingigantendone i dettagli più angoscianti e amplificandoli in un wall of sound («Phil Spector all’inferno» scrissero sul NME) mai così marcato e dai toni persino epici. È un disco di un’intensità spaventosa che evoca gli spettri dei predecessori non più con la stessa avvolgente evanescenza, ma con una concretezza più trascinante e teatrale. One Hundred Years, scandita da una ritmica ripetitiva, metronomica con un accenno di rullante, e con un riff assillante – una sorta di bending ossessivo con un breve arpeggio nella coda – al posto del ritornello, suona come una sentenza implacabile. Era la risposta piccata di Smith a chi lo immaginava come il prossimo Ian Curtis, ma è un soprattutto un grido nichilista che si lascia alle spalle le macerie di un immaginario. Mentre, agli antipodi del disco, il brano eponimo sublima in un acido rumorismo le inclinazioni psichedeliche del leader – una psichedelia romantica pregna di visioni oscure, degne di un quadro di Füssli –, in generale il sound dark rarefatto dei dischi precedenti si irrobustisce di più plastiche venature rock. Il riverbero compatto degli arrangiamenti trasforma melodie depresse nei blocchi quasi sinfonici di Siamese Twins e The Figurehead; le chitarre più spesse e incisive, come la lead guitar di A Strange Day, e le scansioni in primo piano della batteria, che incrocia il tam tam e la marcia militare in The Hanging Garden e si produce in una sorta di minimalismo amplificato, scolpiscono in maniera prepotente le atmosfere drammatiche dei testi, che Smith ha scritto in uno stato di alienazione dal mondo e dalla sua stessa band, guardando alla psicosi come a un orizzonte non troppo lontano. Pornography doveva essere l’ultimo disco del gruppo inglese e per questo ha qualcosa dell’atto definitivo. Non per niente i Cure dei primi anni ’80 finiscono qui. Pornography è il disco che li ha “esauriti” in tutti i sensi. E se dal lato artistico il risultato è senza dubbio positivo, non si può dire altrettanto sul piano personale. Dopo essere venuti alle mani, Robert Smith e Simon Gallup non si parleranno per un anno e mezzo. Nei mesi successivi il gruppo non esiste più. Per sopravvivere alla sua creatura, Smith dovrà distruggerla, non ponendo fine al suo percorso, ma facendola rivivere sotto altre spoglie per scrollarsi di dosso l’immaginario a cui la band si era legata con la musica triste e angosciante. Un nuovo trittico, questa volta di 45 giri, Let’s Go to Bed, The Walk e The Lovecats, farà momentaneamente piazza pulita del lato oscuro dei Cure, per evitare alla band di diventare la parodia di se stessa o di rimanere soltanto un santino per i dark più depressi. Quello dell’oscurità è discorso che ritornerà ancora nella carriera della band inglese, come dimostra il fil rouge che lega Pornography con i ben più tardi Disintegration e Bloodflowers, testimoniato anche da un DVD. Ma da allora è stata, comunque, davvero, tutta un’altra storia. TOmmaso iannini

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digital magazine | febbraio 2014 | n. 112


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