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digital magazine | giugno 2013 | n. 104

tea    r         do b    a    r       geld Unive       rsi  in

collisione


sommario turn on – p. 4   Wampire   Ghostpoet

tune in – p. 8   Tricky

drop out – p. 12

Neutral Milk Hotel A Hawk and a Hacksaw Alison Moyet Bargeld + Teardo

rearview mirror – p. 142   David Bowie

recensioni – p. 66 rubriche – p. 162   live report   gimme some inches   campi magnetici   classic album


#104 giugno Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Massimo Rancati Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Sebastian Procaccini Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco Staff Alessandro Liccardo, Alessia Zinnari, Andrea Napoli, Andrea Forti, Antonio Pancamo Puglia, Antonio Laudazi, Davide Nespoli, Federico Pevere, Filippo Papetti, Filippo Bordignon, Giulia Antelli, Giulia Cavaliere, Giulio Pasquali. Luca Falzetti, Luca Barachetti, Marco Braggion, Marco Masoli, Marco Boscolo, Mirko Carera, Nino Ciglio, Sarah Venturini, Stefano Galliazzo, Stefano Gaz, Enrica Selvini Copertina Blixa Bargeld & Teho Teardo Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004) SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2013 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Dagli house party al pastiche pop di Curiosity. La scena di Portland si arricchisce del suo gruppo più misterioso

Wampire Vampiri a Portland

A Portland non son mai stato, ma dovendo immaginarmela sulla base di una ricostruzione pop mutuata da una ferrea dieta di serial televisivi, la penso come il punto di incontro fra la coolness metropolitana di Portlandia e la periferia magica di Grimm. Un mix di mistero e arruffamento indie, che oggi è perfettamente incarnato dal duo con il moniker più curioso in circolazione. Pare che Urban Dictionary definisca la voce “wampire”, come “un aspirante vampiro”. Più banalmente, il nome del progetto nasce da una storpiatura, un souvenir dei soggiorni tedeschi di Rocky Tinder, la metà del gruppo più compromessa con l’immaginario dark.

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Se la cosa può sembrarvi senza senso, aspettate di ascoltare il loro singolo The Hearse, macabro sinth pop in salsa lo-fi, con vezzi da soundtrack retrofuturista e svolazzi garage. Una cosetta camp che si è subito guadagnata paragoni con l’electropop espressionista e teatrale di John Maus. E’ bastato questo a catapultare il duo americano fra le “band to watch” di questo primo scorcio di 2013. “Alla buon ora!”, verrebbe da dire, visto che il progetto non è certo alle prime mosse. “Abbiamo iniziato a provare nel 2001”, ricordano Tinder (il tipo con l’aria da goth andato a male) e Eric Phipps (quello che sembra uscito dalla puntata più grottesca di That 70s Show). Di fatto però, all’inizio


del millennio i due erano solo dei diciottenni con le idee confuse e una strumentazione vintage raccattata chissà dove. Le cose iniziano a farsi serie (per così dire) nel 2007, quando i Wampire si affermano fra i protagonisti della “party scene” di Portland. La loro gavetta inizia così: “All’inizio eravamo solo noi due che cazzeggiavamo e scrivevamo canzoni solo per eseguirle in situazioni divertenti, come quelle degli house show. Suonavamo in un angolo all’interno di appartamenti stipati fino all’inverosimile”. La vicenda degli house show gode di un picco di popolarità proprio fra il 2007 e il 2009. In pratica funziona così: arrivi con la tua strumentazione di fortuna, ti scoli qualche birra e inizi a suonare nel modo più rumoroso e istantaneamente appetibile che puoi, perché c’è da far (s)ballare un mucchio di teenager su di giri, possibilmente stando attento che non ti vomitino addosso. Soundcheck e qualità del suono, ovviamente, sono concetti estranei. E’ così, tuttavia, che il nome del gruppo inizia a circolare con insistenza. “Per noi, portare un impianto, le chitarre e vedere tutti che ballavano come pazzi, era l’ideale. E’ durato circa un paio di anni, dopodiché sentivamo il bisogno di fare qualcosa di diverso e di più personale”. Eccoli allora ricalibrare il loro sound in una peculiare mistura di rock, elettronica lo-fi ed estetica DIY. Una formula che stanno perfezionando ancora adesso e nella quale convergono elementi da ogni angolo dell’immaginario pop: “L’organo horrorifico di The Harse? E’ qualcosa che è arrivato negli ultimi giorni di registrazione. Di solito pensiamo alla polpa dei brani, dopodiché aggiungiamo elementi e lasciamo che i pezzi si sviluppino di fronte a noi”. In questo caso l’intuizione è stata vincente. Dopo averlo ascoltato, quelli della Polyvinyl si sono decisi a pubblicare il primo album della band, mettendo fine ad una serie sfortunata di tentativi che, ad un certo punto, sembravano dover minare il contagioso ottimismo di cui i due dispongono. Per la verità, parte del merito è da attribuirsi a Jacob

Portrait degli Unknown Mortal Orchestra. L’illustre concittadino li ha presi sotto la sua ala, ha sfrondato gli elementi più pittoreschi e li ha benedetti con alcuni dei suoi consigli più preziosi (“il migliore”, dicono, “è stato quello di non metterci la faccia se non stai dietro a una cosa con tutto te stesso”). Alla fine si è seduto dietro il bancone di regia e ha prodotto il loro Curiosity. In effetti, paternalismo a parte, c’è qualcosa che accomuna i due vampiri al soul, funk, pop degli UMA. Innanzitutto un’idea di musica totale, in cui Kraftwerk, psichedelia e surf music vanno allegramente a braccetto. Poi c’è l’approccio laterale alla materia pop e un utilizzo strumentale della bassa fedeltà che ricopre pezzi come Can’t See Why e Outta Money di una stilosissima patina ingiallita. Se al tutto aggiungiamo il feeling retrofuturista che caratterizza la band e che la avvicina ai concittadini STRFKR, risulta evidente come la scena di Portland stia ridefinendo sempre più nitidamente i propri confini estetici. “Penso che quello che succede attorno a noi ci abbia in qualche misura ispirato”, confermano i due, “dopo un pò però abbiamo iniziato a guardare altrove, a gente come Ariel Pink, ad esempio, oppure a Mac Demarco”. In attesa che Curiosity dispieghi tutto il proprio potenziale commerciale, la band ha cominciato un fortunato tour insieme a Unknown Mortal Orchestra e Foxygen (altro act che ha fatto dello sguardo retrospettivo una ragion d’essere). Nel frattempo i due ragionano già sul proprio futuro. Possibilmente con quell’istinto e quell’urgenza che in passato ne ha fatto degli animali da party. “Se c’è qualcosa che abbiamo imparato dai quegli show, è il fatto che ci piace scrivere canzoni veloci e divertenti. Per il prossimo lavoro sarebbe bello fare un disco composto interamente da pezzi esplosivi. Penso sia una cosa che viene proprio dal background degli house party e dal desiderio di suonare in maniera sempre più cruda e punk”. Diego Ballani

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Due chiacchiere con Obaro Ejimiwe, in arte Ghostpoet, giunto al terzo lavoro con Some Say I So I Say Light, in uscita il 6 maggio

Ghostpoet Faccia a faccia con un fantasma

Vero e proprio fenomeno dell’anno scorso, celebrato nel Regno Unito e accolto con entusiasmo altalenante qui in Italia, Obaro Ejimiwe, noto come Ghostpoet, ha il pregio di aver saputo coniugare suggestioni provenienti da variegati ambienti musicali declinandole in una chiave tipicamente british. Una chiacchierata interessante sotto diversi punti di vista, quella che abbiamo avuto con lui; di fronte c’è una persona piuttosto concreta, con un’idea molto chiara della sua musica, restia a riconoscere collegamenti diretti con altri filoni o artisti e, soprattutto, molto ponderata nel rispondere. Obaro non è esattamente un individuo rapito dal trasporto nel parlare del proprio lavoro: è misurato e professionale nelle risposte, nella stessa misura in cui lo può essere la sua musica. Non è nemmeno un interlocutore ostile però, tutt’altro. Si dimostra anzi disponibile e cortese, malgrado i numerosi problemi incontrati prima della chiacchierata tra voli aerei e mezzi di trasporto vari. Professionalità

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e distacco a parte, la chiacchierata dà uno sguardo alla nuova formula live e si attarda sulle impressioni suscitate in lui dall’Italia e dai festival nostrani a cui ha partecipato. La prima domanda può apparire scontata. Non sei più un ragazzino e il tuo esordio musicale è parecchio recente, per cui viene spontaneo chiedersi cosa ci sia stato prima dell’esordio. Come inizia la storia di Ghostpoet? Inizialmente ho vissuto tutto come un hobby, seppure molto importante, prima che divenisse una carriera vera e propria. Mi ci dedicavo ogni sera, una volta finito il lavoro. Ai tempi lavoravo per una compagnia di assicurazioni. Poi mi sono trasferito a Coventry, ho messo la mia musica su Myspace e ho aspettato che la cosa diventasse più seria e di raggiungere il livello che volevo. Attraverso il web, poi, Brownswood ha notato la mia musica e il seguito è che ora siamo qui a Milano a parlarne (ride).


Una cosa che colpisce del tuo modo di interpretare i brani è questo tuo essere solo parzialmente inseribile nella definizione di MC, soprattutto se si prende il termine nella sua accezione più classica. Questo, poi, è un elemento ancora più chiaro nell’ultimo disco, distante dall’hip hop anche dal punto di vista strettamente musicale. Il tuo modo di cantare ricorda gli esperimenti precedenti al rap vero e proprio, penso a figure come l’Isaac Hayes di Hot Buttered Soul o a Gil-Scott Heron. Ti ritrovi in queste osservazioni? Non più di tanto a dire il vero (ride). In realtà mi limito ad ascoltare la musica, non è che sia legato a un genere specifico in particolare o a un solo tipo di musica. Di solito è un discorso che fanno gli ascoltatori, quello di mettere la musica in scatole. Io mi limito ad ascoltare la musica e mi piace darle qualsiasi direzione, a seconda di come mi sento. Il tuo nuovo lavoro è molto più eterogeneo e, in diversi episodi, sia la matrice black che quella elettronica si riducono drasticamente. Come mai questo cambiamento? Era più una necessità o un desiderio? No, guarda, non è che sentissi di aver perso l’ispirazione. Alla fine quello che scrivo non deriva da storie di fantasia ma da esperienze che vivo, gente con cui parlo, cose che vedo ogni giorno. In questo disco ho voluto convogliare tutto il mio fare arte, provare a combinare elementi di elettronica e di acustica. Sicuramente ho già ascoltato musica del genere, non sono stato certo io ad inventarla, ma sentivo il bisogno di farla nella maniera in cui l’avrei fatta io. Ti ho già visto due volte dal vivo in Italia, al Locomotiv a Bologna e al Meet In Town festival, a Roma. In relazione a quest’ultima esperienza, come ti sei trovato al festival? Come ti è sembrato il pubblico? I festival in generale sono cose complicate da organizzare, tra soundcheck e tutto il resto, ed è naturale che possano esserci inconvenienti. Mi è

sembrato tuttavia che quello di Roma fosse ben organizzato. E poi era la prima volta che suonavo là e la città è stupenda, è stato molto emozionante. In più il cibo era buonissimo! Ho notato che l’organizzazione era comunque molto professionale e purtroppo non sono riuscito a vedere alcuni live che mi dicono essere stati molto interessanti, come quello di Squarepusher. Sul pubblico posso dire che è stato educatissimo: eravamo in una stanza priva di un palco e non c’era una vera barriera tra noi e chi ascoltava. In queste situazioni può capitare spesso che la gente ti venga addosso, invece qui tutti si sono sempre tenuti alla giusta distanza e, pur non dimostrandosi un pubblico fuori di testa, mi è sembrato che abbiano gradito lo show. Che tipo di live set dobbiamo aspettarci per questo nuovo disco? Per questo live siamo passati da due a tre musicisti sul palco ad accompagnarmi. In più ci sarà un batterista, che è la vera novità del live set. Oltre a questo, ci sarò ovviamente io a cantare e a suonare tastiere e macchine. Questo consente di dare un’anima più musicale al concerto. Inoltre ci sarà la possibilità di eseguire materiale di due dischi, e questa è una cosa che trovo particolarmente stimolante perchè potremo cambiare la scaletta, studiare un repertorio diverso a seconda del live o magari allungare la durata dei concerti. Una domanda finale sugli ascolti. C’è qualcosa che ha influenzato la lavorazione di questo album? Non in maniera diretta. Voglio dire, ascolto ovviamente molta musica, ma tendo a chiudermi nel momento in cui inizio a registrare, perché alla fine c’è sempre il rischio di rimanere influenzati da quello che ascolti. Così non posso parlare di ispirazioni vere e proprie, magari qualcosa c’è, ma si tratta di un’influenza che avviene più a livello di subconscio che altro. Sebastian Procaccini

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Tricky Il trip-hop è un falso idolo A colloquio con Tricky per parlare del suo nuovo album. Il suo slogan: contro i falsi idoli della vita moderna

testo: Tommaso Iannini

È un Tricky in grande spolvero a livello dialettico, quello che incontriamo in un albergo di Milano durante un soleggiato pomeriggio di fine aprile. Vivo, pimpante, il musicista di Bristol è reduce da un intenso tour de force promozionale, ma la sua parlantina sciolta, la loquacità quasi incontenibile e la grande determinazione che mostra nel presentare il suo ultimo lavoro sono il tonico che ci voleva per un’intervista a viso aperto, in cui non si avvertono proprio i segni della stanchezza accumulata durante l’intera giornata. Come suo solito, il tricky kid va all’attacco, senza peli sulla lingua né paura di esporsi, e sferra un contropiede inaspettato e micidiale prima alla Domino, con cui ha avuto recenti trascorsi che non lo hanno proprio soddisfatto, e poi nientemeno che al suo album d’esordio Maxinquaye, considerato all’unanimità come una pietra miliare degli anni ‘90 e onorato da una ristampa celebrativa non più quattro anni or sono. Ha voglia di parlare Adrian

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Thaws, il ragazzo prodigio di Bristol che prima nel Wild Bunch, poi da solo e insieme ai Massive Attack, ha dato un contributo decisivo nel gettare le fondamenta del trip-hop; lo stesso genere musicale che oggi demolisce come un “falso idolo” insieme ai politici e alle star, troppo prese dalla fama, dai soldi facili e dal proprio ego per avere un minimo di significato. Un disco nuovo e una nuova casa discografica “di proprietà” sono la linfa vitale per la sua rinnovata voglia di fare musica, una vera e propria rinascita che lo spinge a tessere le lodi del suo nuovo materiale. E pazienza se alcune sue posizioni sono comprensibili dal suo punto di vista ma altrettanto difficili da sostenere, prima tra tutte quella “artistica” secondo cui False Idols sarebbe migliore di Maxinquaye.. In altri casi, non si può che dargli ragione. Annunciando il nuovo album sul tuo sito internet hai detto chiaramente che non sei più sod-


disfatto dei due dischi che lo hanno preceduto. Sì, ed è naturale perché non mi trovavo bene alla Domino. Pensavo fosse un’etichetta indipendente e invece il successo che ha avuto l’ha fatta diventare come una major. Io per lavorare ho bisogno di persone come Chris Blackwell [lo storico patron della Island, ndr], che mi lascino piena libertà creativa. Quando ero con lui alla Island non sapevo nemmeno quanti dischi vendessi, non ne abbiamo mai parlato. Mi è successo per la prima volta alla Domino. Gli album erano diventati solo una questione di business. Per il clima che si era creato, dovevo sentirmi fortunato perché mi pubblicavano un disco. Questa situazione ha influenzato in maniera negativa la mia musica e il mio atteggiamento. Si sentiva già dai demo che questo mio nuovo album avrebbe avuto molto più feeling degli ultimi due. Sono comunque in grado di scrivere buona musica, ma mi viene meglio e più naturale quando mi sento libero di fare ciò che voglio; più passava il tempo alla Domino e più i miei rapporti con loro peggioravano, e non parlo delle persone che ci lavoravano, ma del proprietario. Ho cominciato a disprezzarlo e a tenere le cose migliori per me. We Don’t Die [il brano numero 10 di False Idols, ndr] sarebbe potuto uscire su uno degli ultimi due album, ma era un pezzo a cui tenevo troppo per darlo alla Domino. Non pensavo che i due dischi fossero brutti quando li ho pubblicati, ma riflettendo e riascoltandoli ora è chiaro che manca quella vibrazione che trovo invece in False Idols. Il problema con la Domino è uno dei motivi per cui ora incidi con la tua nuova etichetta. Certo, anche se ci ho messo tanto a imparare la lezione. Sono stato ingenuo, mi sono illuso per anni di poter trovare un altro Chris Blackwell; del resto, se ci fosse stato ancora lui non avrei mai lasciato la Island. Ho creduto ai PR della Domino pensando che fosse un’etichetta indipendente cool, ma quando ho cominciato a lavorarci mi sono reso conto che erano l’esatto opposto di Chris. Mi ci è

voluto un po’ troppo per capire che l’unico modo per ritrovare la libertà era quello di creare una mia etichetta. Credi veramente che False Idols sia migliore di Maxinquaye? Sì, ne sono convinto, Maxinquaye per me suona come un disco vecchio, datato. Quando è uscito tutti pensavano che fosse una novità, ma poi in tanti hanno seguito la stessa falsariga e quella musica ha smesso di essere nuova. False Idols è un disco nuovo, fresco, in cui mi riconosco. Maxinquaye non lo è più. Questo album è migliore del mio debutto perché nessuno lo ha ancora copiato ed è molto più difficile da imitare. Penso ai Morcheeba, che considero una versione più commerciale della mia musica. Gruppi come loro hanno copiato il suono di Maxinquaye ma non credo che i Morcheeba saprebbero fare la stessa cosa con False Idols. Anche il tuo modo di scrivere e di lavorare è cambiato in tutti questi anni? No, è sempre lo stesso, è molto, molto semplice. Non seguo le nuove tecnologie, non ho nemmeno cambiato attrezzature in questi anni, se posso creare musica con gli stessi strumenti di quindici anni fa non vedo perché non dovrei farlo. Lavoro in modo semplice e molto tranquillo. Oggi mi rendo conto di quanto sia fortunato a poter vivere di musica e per questo mi diverto ancora di più. Amo scrivere testi e comporre musica, più che mai. Prima, il successo e l’ego mi avevano fatto dimenticare la fortuna che ho avuto. Quando provo con una cantante e con il mio ingegnere del suono li invito a casa e cucino per loro. Mi rendo conto di quanto sia fortunato a fare il musicista a casa mia piuttosto che l’impiegato o l’operaio in una fabbrica. Ora ho imparato a godermi di più il mio lavoro. Come lavori quando scrivi un pezzo? A volte parto dal testo, oppure dò a una cantante un testo e un pezzo di musica da cui partire, senza che ci sia niente di troppo rigido o definitivo. La musica è soprattutto suono. Ho diversi suoni su una tastiera, schiaccio un tasto per trovare quello

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giusto e poi ne schiaccio un altro... Come i disegni di un bambino. Non c’è niente di geniale, niente di intelligente [sic] nel mio modo di lavorare, penso che chiunque potrebbe fare la stessa cosa. Se vedessi Prince in studio suonare la batteria, il basso, la chitarra e tutti gli strumenti, penseresti: «No, io non sarei mai capace». Ma se una persona qualsiasi mi vedesse lavorare in studio, direbbe subito: «Questo lo so fare anch’io». False Idols è il titolo dell’album e False Idol è anche il nome della tua casa discografica, con cui produrrai altri artisti. Dell’industria musicale pensi ancora le stesse cose che hai scritto in Six Minutes quindici anni fa? Nei falsi idoli di cui parli c’è anche il trip-hop? Il trip-hop è un falso idolo e, per quanto riguarda l’industria discografica, mi fa schifo come allora, soltanto che prima ce l’avevo con i discografici, ora ad avermi stancato sono gli artisti. Non ne

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posso più di queste celebrità egomaniache; ora, essere famosi è parte del problema e l’ego dipende anche dal territorio in cui ti muovi, ma se con la tua fama non fai niente per aiutare le persone e pensi solo a gonfiare il tuo ego...; ecco, questa è una cosa che non capisco. È tutto così assurdo. Ti faccio un esempio: io non sono un fan di John Lennon né di Bob Marley, non ascolto così tanto la loro musica, ma so che erano brave persone e si interessavano agli altri. So che hanno sofferto sulla loro pelle per le cose che hanno detto alla stampa, quando parlavano di libertà o si schieravano contro la guerra in Vietnam. Pensiamo invece a tutte le star di oggi, non c’è nessuno che si sia schierato contro la guerra o l’invasione di altri Paesi, dicendo che era una cosa sbagliata, perché sono così sazi della loro fama, dei loro soldi e del loro successo che non hanno nient’altro da dire. Se domani scoppiasse un nuovo Vietnam quan-


ti musicisti si schiererebbero contro la guerra? Abbiamo avuto l’Afghanistan e l’Iraq ma i pochi contrari avevano paura di parlare, perché l’ultimo che lo aveva fatto era stato Tupac, ed è morto. Chi dice che sia stato quello e chi un altro ad ucciderlo, ma lui era uno che parlava chiaro, lo avevano inserito nel registro dall’FBI, lo consideravano un “messia nero” come Martin Luther King o Malcolm X: messia neri, cioè persone che avevano un seguito in grado di disturbare lo status quo. Anche John Lennon era sul libro nero dell’FBI. Gli artisti di oggi si accontentano di essere ricchi e famosi. Nessuno critica il sistema e lo schifo che c’è nel mondo: Obama è un demonio, ha incentrato tutta la sua campagna elettorale sul cambiamento, ha illuso le speranze della gente che vive uno dei momenti peggiori di sempre, ha mentito a una generazione che ha creduto in lui, e nessuno ne parla, tutti vogliono andare alla Casa Bianca a cantare una canzone, tutti quanti vogliono tenere i loro sponsor come la Coca-Cola, fare pubblicità.. Io ho sempre pensato che la musica dovesse parlare d’altro, di attualità, di vita, di lotta, delle cose che non vanno nel mondo, ma ora non sembra più essere così. Se prima odiavo l’industria, adesso non sopporto più gli artisti. Ci parli degli artisti della False Idols che intendi produrre? Fifi Rong si produce da sola. Se un artista è bravo come lei, lo ingaggio perché amo la sua musica. Mi piacerebbe fare qualcosa ma non posso fare di meglio, vorrei contribuire di più ma lei è talmente brava che non ce n’e bisogno. Con Francesca [Belmonte] lavorerò forse su quattro brani, non sul resto perché va già bene così. Lei ha voluto che partecipassi ad alcune canzoni, quindi lo farò perché me l’ha chiesto. Ho aiutato mio fratello Marlon dandogli una mano a produrre e partecipando qua e là. Se incontro una cantante bravissima che non scrive musica, la scrivo io per lei, ma se penso che ci sia qualcuno più adatto, come un produttore di Milano che nessuno conosce, la

affiderò a lui o a lei. Farò anche il produttore, ma in modo diverso rispetto ai miei dischi. Come hai conosciuto Francesca Belmonte? Canterà dal vivo con te? Sì, farà tutto il tour con me. Lei lavorava in un negozio, sua madre ha letto l’annuncio che avevo pubblicato in cui cercavo una cantante e le ha consigliato di provare. Appena l’ho sentita, l’ho subito ingaggiata, ha una voce così organica, naturale, lei dà l’anima alla musica senza pensare al successo, lo fa per passione. Se non fosse in tournée con me, sarebbe qui a cantare al piano. Non le importa niente, perché la musica è la sua vita ed è quello che ama di più. Sei molto attivo sui social network come Instagram e Facebook. Pensi che siano utili per avere un contatto diretto con il tuo pubblico? Non lo pensavo prima di conoscere il mio web engineer, un vero amante della musica. Non ho tempo di curare la mia pagina Facebook, ma lui si è offerto di farlo. È davvero insopportabile quando ci s’iscrive alla pagina facebook di un musicista, passa un anno e non si hanno notizie, finché non arriva l’annuncio del nuovo album. Ma lui sapeva che tipo di artista sono e apprezzava il modo in cui interagisco con chi mi ascolta - odio la parola fan -, così mi ha detto che dovevo approfondire l’uso di questi mezzi. Adesso sono riuscito anche a fare un video con le immagini che mi hanno mandato via Instagram. È splendido poter condividere queste cose e coinvolgere i miei ascoltatori. Tommaso Iannini

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Come un aeroplano sul mare

Neutral Mil

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lk Hotel

Testo: Nino Ciglio

In occasione dell’annunciata reunion, ripercorriamo le gesta della band che con il suo fuzz-folk ha forgiato un’intera generazione di artisti: quella del Duemila. Prologo Il quattro ottobre 2011 una figura smilza, col cappellino a visiera calato sugli occhi, il classico maglione di lana caprina ad avvolgerla come un batuffolo e l’immancabile chitarra in miniatura tenuta a spalla tramite un filo impercettibile, compare nei pressi di Zuccotti Park, New York City. Nessun palco, nessun microfono, nessun annuncio ad aspettarla. Nessun fan scatenato a saltare addosso a questa misteriosa creatura dai capelli lunghi, chiari. Eppure si tratta di Jeff Mangum, leader e motore perpetuo dei Neutral Milk Hotel. Uno che, di soppiatto, senza scosse o clamori, ha dato vita al sound più innovativo ed

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influente di tutti gli anni Novanta. Mangum, alla faccia dell’hype, si presenta in sordina, come gli piace fare di tanto in tanto da quel giorno del ‘98 a Londra quando tenne l’ultimo show con la band che aveva suonato quel rivoluzionario In The Aeroplane Over The Sea. L’occasione è Occupy Wall Street, il movimento di protesta iniziato qualche settimana prima nel cuore dell’economia americana e mondiale. Mangum, che è uno che nel potere della musica ha sempre creduto, non si è tirato indietro: si è assiepato su una scalinata, con il suo pubblico a un centimetro di distanza e la sua voce roca e tagliente che raggiungeva la cima dei grattacieli, dove i capi dell’economia globale decidevano le sorti dell’umanità; poi ha suonato, riso, scherzato e parlato con tutti per quaranta minuti. Quaranta minuti in cui tutti hanno tirato fuori la voce, hanno fatto il verso delle cornamuse, hanno dimenticato le sofferenze, mistificato le lotte e iniziato a sognare. Qualche anno più tardi, il 30 aprile 2013 - dopo uno hiatus (il periodo di inattività per gli inglesi) durato quasi quattordici anni - giunge la conferma ufficiale: i Neutral Milk Hotel hanno annunciato una manciata di live a partire dall’autunno 2013 in molte città america-

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ne (Atlanta, Athens, Mamphis, Columbia), ma anche Tokyo, Sidney, Brisbane, Taipei. La notizia, diffusa nel pomeriggio, rimbalza da sito in sito, da fanzine in fanzine, da tweet a tweet, come se un branco di leoni rimasto a digiuno per molto tempo, ricevesse qualcosa da mangiare su un piatto d’argento. Per di più, nella serata del sabato al Primavera Sound 2013, l’organizzazione, poco prima di mezzanotte, annuncia il primo headliner dell’edizione 2014: guarda caso, proprio i Neutral Milk Hotel, che aggiungono così il loro (per ora) unico tassello europeo. La loro reunion ha risvegliato gli animi già caldi di una generazione forgiata sul loro sound, viziata da moltissime band che si sono ispirate a Mangum e soci. Tuttavia c’è più di un mistero dietro la figura di Jeff Mangum. C’è l’ombra asfissiante di un passato difficile e i dubbi sulle ragioni di una scomparsa artistica troppo accelerata. I suoi Neutral Milk Hotel, con all’attivo solo due dischi e una manciata di cassette, si sono rivelati la cartina al tornasole di un’intera generazione di artisti, da inizio millennio ad oggi. Non ne hanno fatto mistero i Franz Ferdinand, quando li hanno pubblicamente elogiati o gli Arcade Fire - anche loro della scuderia Merge. Li hanno omaggiati in cover di lusso, come quella di Two-Headed Boy degli Swell Season o di In The Aeroplane Over The Sea dei Dresden Dolls. Persino in Italia c’è chi ha preso in prestito un verso di una canzone dei NMH per il nome della propria band (Goldaline, My Dear), chi si è ispirato al loro sound (Girless & The Orphan), chi, con un po’ di nostalgia, dopo la scomparsa di Mangum ha aperto una fan page italiana per recuperare quante più notizie possibili sul proprio idolo. Le cose non tornano. Come può una band così non-convenzionale, così un-cool, così bizzarra e limitata temporalmente, aver creato tutto questo scompiglio? Come può una rivista come Magnet inserire Aeroplane come miglior disco dei 90s, al di sopra di Nevermind, al di sopra di Ok Computer?

U na m acch i n a s i n tetica vo l a nt e Scavalchiamo e andiamo, il peso schiaccia giù, e non so, urlerò finché capiranno cosa intendo: intendo il matrimonio tra un cane morto che cantae una macchina sintetica volante Occorre andare con ordine. Jefferson Nigh Mangum è uno che viene dalla terra di nessuno: è nato nel 1972 a Ruston in Louisiana, una zona agricola, che compare giusto in qualche racconto di Kerouac o al telegiornale per localizzare un episodio di cronaca nera. Ruston ha una forte aura religiosa, è uno degli epicentri della Chie-

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sa Battista del Sud, la vera erede del puritanesimo inglese del XVII secolo. Mangum stesso avrà con la propria fede un rapporto intimo, personale, contraddittorio: è probabilmente grazie ad essa che la sua storia, nel momento più buio, non è finita come quella di molti suoi conterranei e contemporanei (Cobain su tutti). Ma non si tratta naturalmente di Battismo o proselitismi vari (“Non sono stato cresciuto come un Battista del Sud spaventato dall’Inferno, ma piuttosto in una sorta di Cristianità psichedelica”): si tratta di filosofie orientali, di “immaginazione attiva”, di sogni, visioni, di pace interiore, di stati che ascendono alla gioia attraverso il dolore. E di dolore, Mangum ne potrebbe parlare tantissimo. A chi, come Kevin Griffis (Creative Loafing Atlanta), prova ad intervistarlo oggi, risponde così: “Non sono un’idea. Sono una persona che ovviamente vuole essere lasciata sola. Se la mia musica ha significato qualcosa per te, allora rispetterai la mia decisione. Poiché sono la mia vita e la mia storia, penso di aver qualcosa da dire quando viene narrata. E non mi è stato dato questo diritto”; a chi prova ad indagare sul periodo di hiatus dei NMH, magari contattando qualche familiare, scrive: “per favore non contattare la mia famiglia. Penso che mio padre avesse interesse in te, che fosse intrigato all’inizio, ma ora si sta domandando come potesse un perfetto sconosciuto sapere del suo passato doloroso. Nemmeno io desidero rivisitare il passato”. Eppure, almeno apparentemente, si tratta di un passato ordinario, certo con tutte le stravaganze tipiche di una testa calda del Sud. La sua storia artistica inizia come quella di tanti altri: a scuola, esattamente alla Ruston High School, dove lui, Will Hart, Bill Doss e Robert Schneider vengono allontanati dalla squadra di calcio e in tutta risposta, prendono in mano le chitarre e la batteria. Il clima di Ruston è quello tipico della provincia: quando arriva la musica che ti colpisce, è già passata a miglia e miglia da dove ti trovi. L’unico canale di sfogo è la stazione radio Louisiana Tech, dove Hart e Mangum trovano lavoro come Dj già dalla metà degli anni Ottanta: Zombies, Small Faces, Syd Barrett, Scratch Acid, Tall Dwarfs fanno irruzione nelle loro vite, seminando il gusto per la canzone psicotica, per il folk malato, per la psichedelica d’avanguardia. Le rare volte in cui un artista di fama passa da lì, i quattro sono sempre disponibili a fare la spalla, senza compensi, senza speranze, solo per il gusto di suonare e confrontarsi con il pubblico. A dir la verità, Jeff e Will sono quelli che si sono fatti prendere più di tutti dall’ondata punk e riottosa oltreoceano: le loro cassette contano decine di parolacce e sono dei veri e propri gesti autolesionistici. Con Jeff alla batteria e Will alle chitarre, danno vita al loro primo progetto dal nome Mag-

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got, qualcosa che ancora oggi fa rabbrividire il proprio autore: al limite dalla decenza. Ma Ruston non sarà la dimora definitiva di questi quattro personaggi. Per loro, il destino ha in serbo una vita da girovaghi, con un punto fisso nella ruota americana: Athens, Georgia. È lì che quattro amici qualunque alle prese con musicasette, piccoli live e la voglia di emulare i grandi, si trasformano nel collettivo Elephant 6, destinato a ridefinire le regole del folk in America, a essere la punta massima dello sperimentalismo degli anni Novanta. Ed è lì che Hart

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e Mangum - che già avevano provveduto a ridimensionare gli animi dei Maggot in quelli più pacati e pop dei Cranberry Lifecycle danno vita al progetto più programmatico, forse anche più “serio” di tutta la scuderia Elephant 6 fino a quel momento: The Synthetic Flying Machine. Anche in questo caso (ed è forse ora di farcene una ragione) stiamo parlando di un mondo popolato da nastri su nastri di musica registrata, da esperimenti sonori di tutti i tipi e forse, se lo si cerca in profondità, qualche accenno di melodia. E’ così che funziona ad Athens, è così che si mostra la ribellione, la voglia di cambiamento: “Quando cominciammo l’Elephant 6, - rivela Mangum a Pitchfork - avevamo visioni molto utopistiche secondo le quali avremmo potuto superare qualsiasi ostacolo grazie alla musica. La musica non era solo intrattenimento: stavamo cercando di creare una sorta di cambiamento. Avevamo il desiderio di trasformare le nostre vite e quelle dei nostri ascoltatori.” Nel frattempo, le vicende di questo collettivo artistico cominciano a dipanare la loro ragnatela in tutto il nuovo mondo, dal Colorado al New Jersey: Schneider, quello più competente musicalmente parlando, vive a Detroit, dove ha fondato gli Apples in The Stereo e distribuisce singoli sotto il marchio dell’elefante fin dal 1993; Hart e Doss, ad Athens trasformano i Synthetic Flying Machine negli Olivia Tremor Control, l’unico collettivo della Elephant capace di coniugare l’abilità di Hart come artista visivo e la psichedelia pop più sintetica. Si stila persino un manifesto, prendendo spunto dalle avanguardie storiche a cui Mangum e soci sono fedelmente devoti (Dadaisti e Surrealisti su tutti): “Noi crediamo nell’uso di macchinari casalinghi, - dice Sch-

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neider - in modi ingegnosi di ideare le cose e nello scrivere canzoni che comunichino con la gente. Vogliamo realizzare dischi classici che riescano a sopravvivere al proprio tempo e che possano essere accessibili a persone di tutte le età”, salvo poi correggerlo (ma il sospetto di un rimaneggiamento postumo è tutt’altro che infondato) in “noi crediamo nel ‘quattro piste’, nelle belle sonorità e idee, ma più di ogni altra cosa noi crediamo nelle CANZONI”. L’estetica del lo-fi tocca qui le punte massime: la storia dell’Elephant 6 e quindi dei NMH coincide con la ricerca, con le stranezze, le stravaganze di esseri sovrannaturali e di strumenti bizzarri applicati ad un abbecedario poprock: sarangi, zanzithophone, sega a mano, sitar, filicorno, eufonio e tantissimi altri espedienti che saranno l’habitat ideale per la musica del Duemila. Non solo: Elephant 6 ha le caratteristiche intrinseche di un progetto di cooperazione: molti componenti si danno alla vita in comune, alla deriva più hippie che ci si possa immaginare. Condividere scelte musicali ed estetiche coincide quasi sempre con il condividere la propria vita con le persone che abitano quel luogo. È da cose così che nascono, in quegli anni, le grandi ondate di innovazione culturale: come a Seattle o come in Minnesota. Diviso fra Athens, Denver e fra numerosi progetti, si dice che Mangum viva nei servizi igienici della casa che condivide con la sua ragazza Laura Carter e un’altra manciata di persone in Grady Street, Athens. In preda alle fobie, alla paura del buio, Mangum riceve nel gabinetto le visite dei suoi fantasmi, che gli consigliano gli accordi migliori per le partiture della sua chitarra acustica. Ha deciso di farsi strada da solo. Ha deciso di ripescare dall’album dei ricordi del liceo un suo progetto dal nome Milk Studios: l’embrione più significativo della sua carriera.

Il re d ei f i o r i di ca r ota L’unica ragazza che abbia mai amato è nata con rose negli occhi ma poi la seppellirono viva una sera del 1945. Al suo fianco solo la sorella, e solo qualche settimana prima che le armiarrivassero e piovessero su tutti Quello che preme a Mangum e compagni in questa fase di ricerca è di non cadere facili prede dello spirito del tempo. Sebbene largamente affascinati dal noise creativo di Sonic Youth e Minuteman, ad esempio, essi hanno come imperativo categorico quello di stare lontani dai riflettori, di non utilizzare ciò che altri hanno o potreb-

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bero utilizzare: lo scopo è di creare collage sonori, paesaggi frammentari straziati da un’indole cinica, che guardi alla sofferenza del mondo col maturo distacco. E nella solitudine Mangum continua a incidere cassette, a registrare suoni della natura o della città: se ne conosce una, ad esempio, sotto il moniker Milk: Pygmie Barn in E Minor, stampata in una dozzina di copie per gli amici e resa pubblica recentemente dal catalogo della Elephant 6. Evidentemente, la dimensione intima dell’ascolto fra amici, dei consigli che si possono ricavare dalle lunghe session di incisioni solitarie è quella più congeniale al Mangum dei primissimi 90s: ben tre musicassette vengono registrate fra il ‘91 e il ‘93: Invent Yourself a Shortcake, Beauty e Hype City Soundtrack. Nulla di più che semplici esperimenti, le cassette in questione sembrano essere dei recording casuali di eventi che accadono nel periodo di vita comune ad Athens: in una di queste c’è addirittura un brano che consiste in sei minuti di con-

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versazione fra lo stesso Mangum e Will Hart. Nel 1994 Mangum è allo sbando: non ha un lavoro, i suoi progetti tardano a divenire concreti e comunque non fa nulla per renderli in qualche misura “fruibili”, vaga per l’America in cerca di ispirazione. A Seattle, la Cher Doll Records gli dà la possibilità di pubblicare il primo vero sette pollici della carriera, sotto il nome di Neutral Milk Hotel: Everything Is. Si tratta di un lavoro ibrido, assolutamente embrionale, che presenta larghe tracce di sperimentalismo (interviste, colpi di tosse, dialoghi, monologhi, estratti sonori, strani o stranissimi strumenti, sovraincisioni), ma che lascia intravvedere all’orizzonte i nuclei formali del progetto NMH. Non fa eccezione, in questo senso, l’apertura affidata ad Everything Is, un brano fuzz tiratissimo, che a quell’altezza cronologica fa pensare ai Pavement, ad esempio; o Snow Song Pt. 1 (“one, two, three, fuck!”) che con la sua cadenza lenta e dolcissima fa venire in mente certi giochi psichedelici dei Velvet Undrground. Sulla stessa linea si pone Tuesday Moon, fin troppo debitrice nei confronti di Syd Barret e delle sue manie psichedeliche chiuse in qualche armadietto oltreoceano. Rimanendo a nord, Mangum ha la possibilità di spostarsi a Denver, dall’amico e produttore Robert Schneider, che gli fornisce finalmente musicisti completi e competenti per la registrazione del primo full length dei Neutral Milk Hotel: On Avery Island. È il 1996 e il manifesto della Elephant 6 recita che bisogna usare il “quattro tracce” di rito, ma questa volta Mangum non sarà solo: con lui e Schneider (che suonerà organo, basso e xilofono nel disco) ci sono Lisa Jansen dei Secret Square e Rick Banjamin dei Perry Weissman 3. On Avery Island è il salto definitivo per i Neutral Milk Hotel: Magnum interviene laddove gli spigoli sono troppo appuntiti, smussa le idiosincrasie da avanguardia artistica e concepisce un disco fuzz folk, che, se non fosse per le acustiche, archivieremmo sotto l’etichetta “punk”. In un certo senso manca l’atmosfera che renderà leggendari i NMH, quella - per intenderci - delle fanfare, del clima circense e festoso di Aeroplane, ma qui c’è, per certi versi, di più. Ci sono le fondamenta indissolubili dell’etica visionaria del nostro cantastorie, ci sono le derive kraut (Marching Theme, You’ve Passed, Pree Sisters), le pillole di romanticismo (Naomi), le marce funebri (Three Peaches), le pugnalate di malinconia dritte alla pancia (gli organi e i fiati di Avery Island) e una manciata di canzoni piccanti che hanno il sapore amaro di un bicchiere di caffè col sale. In Song Against Sex, il Nostro si chiede: “Perché dovrei stare qui steso, nudo / quando è semplicemente troppo lontano / da qualsiasi cosa chiameremmo amore?”, per poi offrire all’amata di “dormire fuori nella grondaia”,

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poiché “con un fiammifero che è malvagio e un po’ di benzina / non mi vedrai più”. Eros e Thanatos: c’è tutto quello che nel ‘96 i R.E.M. non ci avrebbero detto. L’anno successivo, il 1997, fra un tour e il continuo girovagare, Jeff Mangum capita in un negozio di libri usati. Compra per caso un libro comune, un best seller di tutti i tempi, che qualsiasi ragazzino americano che abbia frequentato le scuole ha letto: il diario di Anne Frank. Ne rimane folgorato, emotivamente devastato, tanto da desiderare una macchina del tempo per poter salvare la giovane olandese, vittima dello sterminio nazista. Non senza un pizzico d’imbarazzo, sull’onda di questa devastazione, Mangum si mette a scrivere i testi di In The Aeroplane Over The Sea. Le sessioni sono durissime, si estendono fino a quattordici ore al giorno. Con l’aggiunta di Jeremy Barnes alla batteria, il team di Denver, lavora per migliorare gli effetti di On Avery Island vivendo sotto lo stesso tetto, dormendo sui pavimenti, strimpellando strumenti presi in prestito. Tutti possono suonare tutti gli strumenti, tutti però devono seguire le direttive di Mangum: non si può suonare qualcosa che ricordi un brano inciso da altri, non si possono usare troppi suoni (un obiettivo era l’essenzialità) e una serie infinita di altre necessità o bizzarrie. Racconta Schneider: “una notte sognò dei monaci Tibetani che cantavano. Il giorno dopo disse:’Voglio qualcosa che suoni come quello’”. Nessuna delle dodici persone (!) che lavorano al disco

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- tranne Barnes - è un musicista professionista: l’armonia viene creata tagliando e componendo le melodie e le liriche che Magnum di volta in volta propone. Per dirla con Will Robinson Sheff (Okkervil River), grazie a Aeroplane “Jeff Mangum ha generato un livello di devozione simile a quello ispirato da figure letterarie come William Blake e Walt Whitman”. Blake per la mitologia personale e surreale, basata su tematiche mistiche come la reincarnazione o su esseri di altri pianeti, mostri o emarginati; Whitman perché le liriche del disco sono un flusso ininterrotto di compassione per l’umanità e odio per la violenza. Alla fine, il disco vede la luce nel febbraio del 1998. Per la copertina, Jeff porta al designer Chris Bilheimer una vecchia cartolina europea con dei bagnanti, che viene alterata e sovrapposta creando la famosa immagine dal gusto magico, circense che consegna il disco alla storia. “Da giovane eri il Re dei Fiori di Carota / e come costruivi una torre facendo acrobazie tra gli alberi / in sacri serpenti a sonagli che cadevano tutt’intorno ai tuoi piedi” (The King Of Carrot Flowes pt. 1). Da questo momento in poi, Aeroplane segue il suo lento corso degli eventi, ricreando un mondo bizzarro, cauterizzando cicatrici della storia personale di Mangum e della storia collettiva dell’uomo. Ricerca in realtà alternative le vie di fuga dalla propria sofferente vita, plasma la materia sottostante al fine di equilibrare i due piatti della bilancia del reale. E tutto parte - manco a dirlo - dal corpo: “Ora mi ricordo di te/come spingevo le mie dita/nella tua bocca per far muovere i tuoi muscoli/che rendevano la tua voce così fluida e dolce” (In The Aeroplane Over The Sea). Ecce homo: l’ostentazione dissacrante del sé come corpo, messo in scena dall’artista saltimbanco, irriverente ed eversivo; ecco l’immagine che ha bisogno di essere scuoiata per disvelare in modo cinico l’io. Non a caso ripresa sia in Oh Comely che in Two-Headed Boy pt. 2. Per certi versi Aeroplane è un miracolo. È un disco suonato con chitarra acustica, percussioni, un basso distorto, un banjo accarezzato da un arco, un theremin, zampogne, trombe e tromboni, persino una sega da falegname ed è l’attestato di nascita del concept album “indie”. Fra folk e punk, fra psichedelia e cantautorato; fra riferimenti a Bob Dylan ed ai Pavement. Chi insegna ai critici del tempo a destreggiarsi in una simile esplosione? Come riesce un disco che parla di “cani morti che si dissolvono e scompaiono, di sperma che macchia la cima delle montagne, di ponti che esplodono e si contorcono, di fantasmi nascosti con occhi di rosa che osservano la terra orbitando su una cometa, di feti in bottiglia che picchiettano le dita su dei barattoli, con i cuori pieni di aghi che cantano, di coppie sole in stanze pomeri-

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diane con le dite uno nella bocca dell’altra, attraverso gli incavi della spina dorsale” a tracciare un solco inesorabile nella linea musicale del tempo? Sembra quasi che Mangum ci stia prendendo in giro o stia semplicemente spingendo l’ascoltatore a trascendere l’orrore (Anna Frank si reincarna attraverso l’arte del suo Diario e causa nell’ascoltatore la fantasia in cui egli stesso proteggerà Anna dopo essere rinato come suo gemello siamese) per arrivare, attraverso la bellezza (Beauty era persino il titolo di una prima musicassetta di Mangum), alla purificazione totale. Rimane da interrogarsi sul perché del successo immediato (quello postumo è materia portante di questo articolo). Dopo Aeroplane, i NMH e la Elephant 6 sono sulla bocca di tutti. I concerti, dacché si svolgevano nei piccoli club, cominciano a raccogliere folle sempre più ingenti. La formazione è estremamente allargata; in Norvegia arrivano a calcare il palco più di quindici persone. Riviste specializzate come Pitchfork definiscono Aeroplane come la fusione perfetta del lo-fi con Sgt. Pepper; Rolling Stone ci va più cauto dicendo che Aeroplane è “materiale di distrazione”, poco attento alla forma, al limite del passabile la voce di Mangum. In ogni caso, a stretto giro, come spesso accade, la notorietà improvvisa scuote l’equilibrio precario di Jeff Mangum: qualcosa cambia nel suo modo di vedere il mondo. E alla fine cede.

O ne day w e wi l l di e a n d o u r as h es will fly E quando ci incontrerermo su una nuvola riderò fortissimo riderò con tutti quelli che vedo:non posso credere a quanto sia strano non essere proprio niente Parte integrante del successo dei NMH è la mitologia creata all’altezza del breakdown di Mangum. Dopo il concerto di Londra nel ‘98, ognuno prende la sua strada: Jeff - come dice l’ex moglie - “controllava ossessivamente la posta elettronica e seguiva ogni chat room, e quando la gente diceva qualcosa di lui, si arrabbiava veramente. Era una cosa personale,’Dicono questo di me, e non è vero!’”. E’ il tracollo, il cui segno palpabile viene percepito quando nel 1999 i concittadini R.E.M. offrono ai Neutral Milk Hotel di aprire l’intera tournée, ma ricevono il cortese rifiuto di Mangum. Cominciano a circolare strane voci sul conto di Jeff Nigh Mangum: pare che inizi a credere alle strampalate teorie di Art Bell su un probabile cataclisma a inizio millennio, tiene da parte sacchi e sacchi di riso come provviste, fa lo

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stesso percorso tutti i giorni in pantofole: da casa sua al negozio di ciambelle Dunkin’. And back. “Ho passato un periodo, dopo Aeroplane, - rivela Mangum nella famosa intervista a Pitchfork - in cui tutti i presupposti che davo per scontati sulla realtà iniziarono a sgretolarsi. Prima di tutto questo: penso di aver avuto un’innocenza intuitiva che mi guidava e che è stata una cosa molto positiva per un certo tempo. Ma poi ho capito di aver lasciato fino ad allora il mio lato razionale da parte per la maggior parte della mia vita. Ad un certo punto, la mia mente razionale ha iniziato ad infiltrarsi, e non riuscivo più a farla tacere”. Nel 2000 si separa dalla moglie e vola in Bulgaria a un festival di suoni etnici che si tiene una volta ogni dieci anni. Porta con sé un registratore e, anche se non capisce una parola di bulgaro, trova interessanti connessioni con la musica tradizionale di quel popolo. Tornato ad Athens, è difficile per lui trovare una sistemazione. E le sue tracce si fanno sempre meno fitte. C’è chi dice di averlo avvistato a New York, chi in Arizona, chi in New Scotland. Di sicuro pensa di fare lo scultore, forse del bronzo, stando a quanto dice la sua ex moglie. Dopodiché nel 2001 fa il turno dalle tre alle sei del mattino in uno spettacolo trasmesso dalla radio WFMU a Jersey, con lo pseudonimo di Jefferson. La domanda che ossessionava i fan, i critici, gli appassionati è sempre la stessa: che fine ha fatto Jeff Mangum?

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Tutti aspettano un seguito di Aeroplane che non arriva mai. Malgrado questo, il disco continua a vendere (rimane fra i cinquanta dischi più venduti della Touch & Go) e Magnum, col tempo, esce pian piano allo scoperto: qualche performance occasionale a partire dal 2008, fra cui la già citata apparizione a New York nel 2011, una bella sorpresa al Primavera Sound 2012 e un’altra al Coachella dello stesso anno; una ricomparsa nella line up degli Olivia Tremor Control e un conseguente tour; infine una miriade di rumors, a partire dal 2012 su una probabile reunion della formazione dei NMH dei tempi di Aeroplane. Poi, il 30 Aprile 2013 - come detto - giunge la conferma ufficiale della reunion. Tutto lascia presagire un ritorno coi fiocchi, magari sublimato da qualche assaggio dell’enorme quantità di materiale che Mangum ha tenuto nascosto negli anni di hiatus. I proventi saranno parzialmente devoluti all’associazione Children Of The Blue Sky, giusto per ricordarci che Mangum è uno che non ha mai smesso di credere nel potere della musica. Nel 2012 per cause ancora da chiarire muore Bill Doss, che, pur non avendo partecipato alle registrazioni di Aeroplane, è sempre stato un punto di riferimento fondamentale per Mangum. Ha anche fondato, in parallelo agli Olivia Tremor Control, i Sunshine Fix, un rock sperimentale in linea con gli anni Zero. Una storia simile a quella di Will Hart, che dal 2000 porta in giro il collettivo Circulatory System (formazione che ha fatto la sua comparsa anche in Europa, al Primavera Sound del 2010). La Carter, che di certo non è stata con le mani in mano dopo la separazione con Mangum, ha incrementato l’attività dei suoi Elf Power, che - tra le altre cose suoneranno con i Neutral in alcune date della reunion annunciata: che si tratti di un ritorno di fiamma? Schneider, l’unica figura che ha musicalmente ispirato Mangum (oltre ad aver curato parte degli arrangiamenti dei fiati di Aeroplane), tiene vivacemente in vita gli Apples In Stereo e ha recentemente dato vita agli Ulysses, una band con strane influenze shoegaze. Barnes, infine, è il leader indiscusso del progetto più interessante del post-NMH: A Hawk And A Hacksaw.

Legacy E coricati fra lenzuola pulite e sicure: ma non odiarla quando si alza per andarsene Una riflessione finale, alla quale avevamo accennato anche all’inizio di questo articolo. I Neutral Milk Hotel hanno generato una

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schiera di imitatori, consapevole o meno dell’apporto innovativo di un sound che ha sconvolto gli ascolti abituali di chi aveva a che fare con la musica nei 90s. Lo stupore si genera nel momento in cui ci si rende conto che il collettivo di Athens non ha effettivamente inventato nulla da zero; ha solo coagulato una serie di rapporti di forza che evidentemente aspettavano di esplodere da un momento all’altro: da lì in poi le regole del gioco sono cambiate, Aeroplane ha avuto un impatto paragonabile a pochi altri nella storia. Per dirla con Tom Williams di Radio Exile, “i Neutral Milk Hotel sono per i 2000 quello che i Pixies sono stati per i ‘90”. Perché? Seguendo Williams, perché essi hanno inventato il “concept album indie”, poi ripreso da gruppi come Acorn, Decemberists, Okkervil River e Sleep Station. Probabilmente un’altra causa sta nell’enorme personalità mostrata nei live: sempre al limite della catarsi, sempre in mezzo al pubblico ad odorare e respirare gli stessi sapori dell’uditorio. Così faranno artisti del calibro di Arcade Fire, Beirut, Bon Iver, Ra Ra Riot, Animal Collective. Un terzo aspetto è l’utilizzo dei fiati: non che il rock ne avesse mai deficitato, ma i NMH collocano questa particolarità nel periodo in cui le chitarre distorte regnano sovrane (Nirvana, Pavement, tutto il brit) e sono puntualmente imitati da Antlers, National, Sufjan Stevens. Infine, il gusto folk punk, che Magnum ha forse preso da qualche disco dei Violent Femmes, è qui definitivamente esaltato e codificato, per poi essere riproposto da gruppi come Frightened Rabbit, Microphones o Phosphorescent. Con una sfilza di nomi così (e ne stiamo tralasciando un bel po’), il capogiro è assicurato. Non male per uno che viveva nel bagno di casa aspettando le visite dei fantasmi dei Natali passati. Intanto a noi rimane (per ora) solo quel suono di Two-Headed Boy pt. 2 con cui si conclude In The Aeroplane Over The Sea, come un viaggio bellissimo. Si sente Jeff poggiare la chitarra, spostare la sedia e trascinarsi fuori dal palcoscenico, in silenzio, come ha sempre amato fare.

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Smoke The Waterpipe

A Hawk And A Hacksaw


Giunti al settimo album dopo oltre dieci anni di attività, per gli A Hawk And A Hacksaw di Jeremy Barnes e Heather Trost è tempo di fare bilanci Testo: Giulia Antelli

“Sai, la musica balcanica per noi non è mai stata qualcosa da cui prendere spunto solo perché negli ultimi anni è tornata molto di moda. È qualcosa che amiamo profondamente, perciò cerchiamo di fare del nostro meglio per renderla nostra nel modo giusto. Crediamo che non ci si debba limitare all’imitazione di determinate band o generi, noi vogliamo provare a fare qualcosa di diverso. Siamo degli outsider, abbiamo una visione differente della questione, e quello che ci muove non è la nostalgia per il passato, ma la voglia di scoprire e sperimentare”. Giunti al settimo album dopo oltre dieci anni di attività - quel You Have Already Gone To The Other World ispirato alla pellicolaculto Shadows Of Forgotten Ancestors del regista sovietico Sergej Paradzanov - per gli A Hawk And A Hacksaw di Jeremy Barnes e Heather Trost è tempo di fare bilanci. Li abbiamo incontrati qualche settimana fa all’Hana-bi di Marina di Ravenna (una della tappe di una serie di show in giro per l’Italia - cinque date in tutto, tra cui una anche in Sicilia) e ci siamo fatti raccontare direttamente da loro la storia di un viaggio in continua evoluzione, immersi tra secoli di ricercata tradizione old-est folk e appassionata etnomusicologia. Una chiacchierata fondamentale per capire le dinamiche, o meglio, l’etica che muove questo piccolo gruppo innamorato della

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folk-music balcanica, con le radici piantate nel sud degli Stati Uniti (Albuquerque, la città più grande dello stato del Nuovo Messico) e il cuore rivolto all’Est Europa, anche se, come ci diranno loro stessi nel corso dell’intervista, “è difficile stabilire dove sia l’est e dove sia l’ovest”. Qui sta racchiuso il pensiero di una band che ha fatto della scoperta - sempre unita a una passione vera e profonda per la musica tutta -, il personale punto di partenza. E anche se è forte la tentazione di apporre etichette, lo è altrettanto la voglia di credere che, potenzialmente, per Barnes e Trost non esistano confini, partendo dall’assunto che “la cosa più importante è avere una costante curiosità, qualcosa che ti permetta di andare avanti, di guardare sempre oltre”. Guardare oltre, cercare di non cadere nella trappola del sospetto, è forse la scommessa maggiore non solo per i due musicisti, ma anche per l’ascoltatore che abbia voglia di tuffarsi nella generosa discografia del duo senza storcere il naso di fronte alla dicitura “balkan-folk”. Il problema principale del cercare di analizzare in maniera più obbiettiva possibile l’amore sconfinato degli A Hawk And A Hacksaw per la tradizione est-europea, è infatti quello di riuscire a scindere le immagini da cartolina dalla voglia di appropriarsi di un genere che, per definizione, appartiene ad una cultura lontana e radicata nel tempo quanto la musica stessa, talmente riconoscibile che il rischio caricatura è sempre dietro l’angolo. Se ci concedete di generalizzare, si potrebbe azzardare che, a causa di certa miopia critica, in questi anni la musica balcanica è stata spesso relegata a prodotto tipico delle zone di provenienza, un bene da esportazione commerciabile solo da chi può vantare natali est-europei. Ridotta a stereotipo dello stereotipo, l’estetica gipsy si è trasformata in un marchio di origine strettamente controllata, con la tracotanza del punk zigano à la Gogol Bordello da una parte (e non è un caso che Eugene Hutz sia un maestro nell’arte della vendibilità etnomainstream) e le suggestioni da Belgrado in bianco e nero del buon Goran Bregovich dall’altra. Solo un paio di esempi per dire che, nel bene o nel male, il folclore e la fascinazione per quel mondo sono troppe volte serviti a placare soprattutto le nostalgie di chi ha sempre voluto vedere nell’Est niente più che l’opposizione all’Ovest, o, nel migliore dei casi, a soddisfare la morbosa curiosità per un terzomondismo forzatamente lontano e, dunque, incomprensibile. Insomma, appare chiaro che, con le dovute eccezioni, la musica balcanica ci è stata spesso presentata totalmente svuotata, se non di significato, perlomeno di tutta la sua portata culturale, utile soltanto per riempire gli spazi vuoti di un diffuso trend votato all’esotismo. In questo contesto, è difficile non considerare gli AHAAH soltanto

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come l’ennesimo capriccio di un musicista folgorato lungo i binari dell’Orient Express; anche perché, spesso le migliori intenzioni sembrano avere un generale vizio di forma, e cioè la convinzione che cercare l’ispirazione in un altrove non meglio specificato e misterioso possa essere la miglior medicina per supplire alla mancanza di idee. Un rischio che i due hanno cercato di evitare attraverso una personale rivisitazione e riformulazione dei canoni strettamente musicali, grazie a una volontà ferrea - e qui sta la differenza - di cercare di vivere, e non solo conoscere, ogni aspetto dei paesi in questione - ovvero Ungheria, Serbia, Romania e Bulgaria, eccetera.. - sforzandosi ogni volta di trovare differenze e similarità non solo a livello musicale, ma anche culturale e storico. Viene da chiedersi, allora, quale sia il ponte che collega idealmente i due mondi, come se esistesse un filo rosso tra la sabbia riarsa del New Mexico e la polvere millenaria dei Carpazi. Barnes riflette prima di parlare, quasi come se dovesse rispondere prima a se stesso: “ad essere sincero non ho mai pensato ad un ponte geografico che unisca questi luoghi. Casomai, credo che il ponte esista tra certa musica

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messicana e certa musica dei Balcani. Ad esempio, ci sono molti legami tra melodie e strumenti, soprattutto con la musica romena, che è stata influenzata principalmente dalla presenza dell’impero austro-ungarico. Allo stesso modo, in New Mexico c’è una lunga storia di colonizzazione spagnola, francese e anche tedesca. Certo, è chiaro che ci sono delle differenze, anche se quando ho sentito la musica romena per la prima volta ci sono stati degli elementi che mi hanno immediatamente ricordato alcune tradizioni del New Mexico, ad esempio nell’uso degli ottoni”. Non stupisce, allora, come la componente di ricerca sia perfettamente amalgamata a quell’attitudine über-folk che da sempre ne caratterizza il lavoro: la musica degli AHAAH, infatti, non ha mai rinnegato l’Occidente, perché è pur sempre con la preparazione e la tecnica di quest’ultimo che i due si sono appropriati dell’Est, e sono loro stessi a confermarlo, quando, prima di tutto, si definiscono musicisti Americani. “Credo che ci siano due modi di considerare la musica folk”, prosegue Barnes: “il primo guarda al modo di suonare di cento o duecento anni fa, in cui si tende a conservare la tipicità del genere come se fosse un pezzo da museo. Anche questo è un aspetto molto importante, perché comunque si devono conoscere e mantenere le origini di questa cultura, ma allo stesso tempo, per me, significa fossilizzarsi su determinate caratteristiche che non ti permettono di costruire nulla di nuovo. Dall’altro lato, il folk è una musica estremamente viva, che cambia e si evolve continuamente. Non è qualcosa che, semplicemente, può trasmettermi mio nonno e che io a mia volta posso insegnare a mio figlio. Penso che sia fondamentale sottolineare che la sopravvivenza di questo tipo di musica non dipende dai trend e dalle mode: le mode vanno e vengono, per un po’ alla gente piace la musica balcanica e poi l’anno successivo passa a quella africana, quindi credo che la cosa migliore sia semplicemente ignorare questi meccanismi e continuare a fare ciò che amiamo”. Ma prima di esplorare il cammino musicale degli AHAAH, c’è un’altra storia da raccontare. Tutto ha inizio nell’ormai lontano 1998, anno dello scioglimento di una delle band più influenti del pianeta, di cui il giovane Jeremy, allora 23enne, era stato il batterista. Stiamo parlando dei Neutral Milk Hotel e di quel capolavoro uscito appena pochi mesi prima, In The Aeroplane Over The Sea, che li aveva innalzati - a ragione - a nuovi sacerdoti dell’indie americano. Ripercorrere la storia, passata e presente, dei NMH non è compito di questo articolo, anche se è interessante notare come il percussionista di Albuquerque si sia ritrovato, in pochissimo tempo, ad essere un outsider tra gli outsider. Infatti, dopo lo split della band madre, Barnes, unico musicista di professione della compagnia, si trova davan-

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ti a un bivio. Se a poco più di vent’anni hai già militato nel gruppo di riferimento di un’intera generazione, le scelte che hai sono due: fossilizzarti nel circuito del rock underground nel (vano) tentativo di ripetere da solo i fasti passati, oppure - ed è questo il caso - fare tesoro dell’esperienza e aspettare che le cose vadano avanti, maturino e magari portino ad una svolta inaspettata. Così, in attesa di un avvenimento che indichi la strada da seguire, ecco che riemergono dalle nebbie del pre-NMH i Bablicon, trio avant-jazz formato nel 1996 assieme a David McDonnell e Griffin Rodriguez degli Icy Demons (quest’ultimo, qualche anno più tardi, sarà una presenza fondamentale nel neonato progetto A Hawk And A Hacksaw), con all’attivo tre album e un EP basati quasi interamente sull’improvvisazione. L’ensemble si scioglierà nel 2001, con

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Rodriguez ormai concentrato sugli Icy Demons e McDonnell sull’experimental rock dei Michael Columbia. Barnes, invece, ha alle spalle varie tournee, tra cui quella con i Gerbils, altra band di stanza ad Athens, Georgia, e legata al collettivo degli Elephant 6 fondato, tra gli altri, da Jeff Mangum e Robert Shneider. Dopo i Gerbils, l’esperienza di live-drummer continua. Siamo ancora agli sgoccioli del 1999 e i side-projects provati da Barnes sono stati numerosi e diversi fra loro. Tuttavia, il musicista non ha ancora ben chiaro in mente quale sarà il suo futuro professionale. “I was kind of at a dead end in what I was listening to, and it just opened up a whole new world for me”, si legge sul web, e il riferimento è chiaro: nel corso dello stesso anno, durante uno dei tanti viaggi che fin dagli esordi influenzeranno l’estetica degli AHAAH, arriva la scoperta banale, se vogliamo, ma letteralmente rivoluzionaria per lui - della musica balcanica. Qualcosa che, come racconta lui stesso, “mi aveva davvero colpito, facendomi ripensare anche alla mia intera esperienza di musicista. Ma ero ancora un batterista, e non pensavo che avrei potuto suonarla io stesso: di solito, quando scopri un determinato genere, è probabile che si tratti solo di una moda, una fissa che dura un mese e poi passa. Ma ormai ci sono dentro da dodici anni, perciò credo che sia diventata qualcosa che fa davvero parte di me”. Da qui a decidere di perdersi completamente nei sentieri della vecchia Europa, passano altri tre anni. Continuano i tour - tra le fila

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di Broadcast, Bright Eyes e Of Montreal - e, soprattutto, i viaggi. Uno in particolare, nell’ovest della campagna francese, convince definitivamente Barnes a mettere su un progetto nominalmente solista, ma che di fatto riunisce sotto di sé un collettivo di musicisti/amici reclutati nei luoghi più disparati. Con il moniker di A Hawk And A Hacksaw - preso, non a caso, da uno dei baluardi della letteratura europea, il Don Chisciotte di Cervantes, e unito all’aksak, termine della musicologia turca che indica il ritmo della canzone tradizionale - nel 2002 l’ex batterista dà alle stampe l’esordio eponimo tramite Cloud Recordings, la stessa etichetta di amici come Icy Demons e Olivia Tremor Control. Siamo ancora lontani dalla compiuta attitudine stra-folk che caratterizzerà i lavori successivi: infatti, l’album appare più come il tentativo di dare voce alle mille impressioni scaturite dalle prime peregrinazioni lungo la penisola balcanica piuttosto che un’idea coesa e coerente di ricerca sonora, un collage di impianto lo-fi che cerca di fondere folclore mediterraneo e esperimenti avant. Il disco, comunque, diventa la colonna sonora del docu-film diretto da Astra Taylor (moglie di Mangum) Zizek!, incentrato sulla carismatica figura del filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Zizek, giusto per sottolineare ancora una volta che la prospettiva musicale di Barnes, anche se non ancora completamente a fuoco, è già rivolta ad un ideale punto d’incontro tra est e ovest. Il successivo Darkness At Noon, registrato nel 2005, segna la nascita definitiva degli A Hawk And A Hacksaw: compare per la prima volta anche Heather Trost, musicista klezmer che diventerà ben presto l’altra metà del duo, nonché compagna di Barnes. Il disco, concepito tra Praga, New Mexico e Regno Unito, riprende le fila del seminale old-est folk precedente, anche se sporcato da un’attitudine maggiormente live che ne documenta la girandola di influenze: non più solo i tentativi avanguardistici dell’esordio, ma anche echi morriconiani (l’album si apre addirittura con degli spari western) e folk anti-militarista à la Woody Guthrie, oltre a campionamenti di field recordings e citazioni letterarie (Nabokov nell’opening Laughter In The Dark, Arthur Koestler nel titolo dell’album). Un pastiche preparato per accumulo di suggestioni, in cui l’est si fonde alla musica mariachi e l’ortodossia klezmer alla tradizione acustica appalachiana, costruito sulla combinazione di violino e fisarmonica, tromba e tuba. Si comincia così a intravedere la base fondante del Barnes-pensiero, e cioè una sapiente ricerca del nuovo attraverso la scoperta sul campo della musica popolare. La stessa di The Way The Wind Blows, terza proposta che conferma e consolida quanto elencato finora. Grazie

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anche all’ausilio della Fanfare Ciocarlia, brass-band di dodici musicisti di etnia romena e rom, Barnes e Trost continuano il loro nomadismo musicale ed esistenziale, attraverso un percorso che cerca nelle strade del mondo la sua ragion d’essere. È per questo motivo che, meno di un anno dopo, il duo decide di raccontare il proprio percorso attraverso la release di A Hawk And A Hacksaw And The Hun Hangar Ensemble. EP registrato assieme al suddetto quartetto ungherese e pubblicato in un doppio formato cd più dvd, il disco documenta l’interazione dei due all’interno del contesto in cui hanno deciso di immergersi. Il video, intitolato programmaticamente An Introduction to A Hawk And A Hacksaw, mette insieme le immagini di due anni di tour in giro per l’Europa ed è utile soprattutto per capire definitivamente che la vicenda musicale di Barnes e Trost non è affatto il mero divertissement di una coppia ubriacata d’oriente. Qui ci sono determinazione, spontaneità e umiltà, il terreno ideale per Délivrance, quinto album che segna il punto di svolta nella discografia degli AHAAH. Stabilitisi definitivamente a Budapest, i musicisti allargano il loro itinerario comprendendovi non più soltanto i Balcani, ma anche Grecia e Turchia, Nord e Sud, in un immaginifico

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percorso che riunisce sotto di sé Asia e Mediterraneo. Dieci brani tra riadattamenti di pezzi traditional e composizioni ex novo, che sintetizzano al meglio la disarmante volontà di voler comprendere attivamente il folk est-europeo, come di inserirsi coscienziosamente in una cultura evitandone la sacralizzazione o l’esaltazione. Dunque, non un atto d’amore, ma il disco più maturo e consapevole, il luogo dove ispirazione e mestiere si incontrano per dare vita a una musica scoperta, sentita e assimilata al cento per cento. È su questi presupposti di improvvisazione, ricomposizione e ricerca, che per Cervantine gli AHAAH decidono di tornare a casa, a quella Albuquerque fino a quel momento lontana, ma solo sulla carta geografica: una nuova tessera di quel mosaico transcontinentale composto con pazienza e tenacia album dopo album, che li ricongiunge, dopo aver seguito mille itinerari, alle radici e le origini del proprio suono. Un punto di arrivo che diventa anche punto di partenza, e la miglior chiosa all’ultimo capitolo della storia, You Have Already Gone To The Other World. “Quello che ci ha spinto a fare un disco come You Have Already Gone To The Other World è stata l’ispirazione. La trama del film è essenzialmente una favola antica, e l’abbiamo usata per inventare e raccontare una nuova storia. Anche se l’immaginario da cui siamo partiti è quello del film, abbiamo cercato di creare qualcosa di completamente nuovo”. Per l’ultimo album, la coppia decide di attingere ad un altro pilastro della cultura balcanica, stavolta cinematografica, che è il film di Paradzanov Shadows Of Forgotten Ancestors. Riprendendo già dal titolo le immagini visionarie e spettrali del lungometraggio (You Have Already Gone To The Other World è infatti una delle frasi chiave della pellicola), i due musicisti costruiscono il loro personale tributo al regista ucraino, anche se la celebrazione è soprattutto lo spunto per comporre una nuova gamma di suoni in cui la tradizione, come al solito, viene assorbita attraverso la rivisitazione e riformulazione delle musiche del film. Come ci raccontano loro stessi, “inizialmente il progetto era di portare in tour la colonna sonora, e lo abbiamo fatto per circa un anno. Durante quel periodo, suonando ogni sera, abbiamo iniziato a pensare di fare un disco in cui la dimensione cinematografica fosse un punto di partenza, invece che di arrivo. Non abbiamo riprodotto esattamente le musiche originali di Shadows Of Forgotten Ancestors, piuttosto direi che l’album è stato il risultato della nostra ispirazione”. I due hanno lavorato soprattutto sui suoni e sui dialoghi, suonando sia sopra le canzoni originali che componendone di nuove: un’assimilazione avvenuta progressivamente, guardando il film ogni giorno. “Siamo entrati completamente dentro la pellicola,

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non solo dal punto di vista musicale, ma anche puramente cinematografico: il soggetto, la sceneggiatura, la fotografia, e ogni altra cosa al suo interno, sono tutti elementi che hanno influito sulla realizzazione dell’album”. Un ulteriore passo in avanti in questa continua ricerca storica e musicologica, anche rispetto a Cervantine e Délivrance: “direi che una delle differenze maggiori tra You Have Already Gone To The Other World e gli ultimi due album è che in questi abbiamo suonato con una band. Abbiamo viaggiato ininterrottamente per due anni e questo ci ha portato a comporre come duo, e penso che sia stato il cambiamento più evidente. Si è trattato di un processo naturale, che ha influito molto sul nostro modo di lavorare alle canzoni e anche sul nostro approccio agli strumenti: se si escludono un paio di episodi con John Dieterich alla chitarra, abbiamo suonato personalmente ogni singola parte del disco. Credo che a volte sia giusto anche restringere gli orizzonti, e non solo allargarli, e questo è anche il motivo per cui abbiamo registrato ad Albuquerque invece che a Budapest”. Che si trovino in New Mexico o in Ungheria, quello che importa è cercare di creare una materia sonora in continuo movimento nello spazio e nel tempo. È lo stesso intento che anima il live, di cui

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abbiamo potuto avere un assaggio già nel pomeriggio durante il soundcheck, pochi minuti prima di cominciare l’intervista. Dopo anni, la formazione è di nuovo al nucleo originario, a quell’accordo quasi simbiotico tra fisarmonica e violino che costituisce il cuore pulsante della strumentazione del gruppo. L’atmosfera è allegra e rilassata, come lo sarà due ore dopo sul piccolo palco dell’Hana-bi, cornice perfetta di un concerto intimo e coinvolgente non solo per il pubblico, ma anche per i musicisti. Gli stessi che, tra sguardi e occhiate di reciproca complicità e ammirazione - Barnes elargisce inchini alla moglie canzone dopo canzone -, riescono a portare nel cuore e nelle orecchie dei presenti l’atmosfera, i suoni e i colori delle mille strade percorse finora. Tra i pezzi dell’ultimo album e i brani più significativi e belli di sempre (basti pensare, sul finale, a Raggle Taggle, solo violino e fisarmonica con marito e moglie avvolti dalla folla), il risultato è una splendida sensazione di indimenticabile viaggio che ribadisce, casomai ce ne fosse ancora bisogno, come i due abbiano saputo creare una musica vibrante e tangibile, estremamente vera e romantica ma lontana da qualsiasi velleità di riproposizione nostalgica. Vengono alla mente le parole di qualche ora prima, quando, tra e una chiacchiera e un’altra, avevamo chiesto come fosse suonare una musica così irrimediabilmente senza tempo in un’epoca come la nostra: “siamo troppo abituati a sezionare e tagliare, e mi chiedo quanto questo possa servire per concentrarsi davvero sulla musica. Trovo che sia abbastanza triste che con il tempo si siano un po’ persi questi presupposti, ma credo che la cosa davvero importante sia continuare a fare ciò che amiamo di più, e cioè preservare un certo tipo di musica attraverso il nostro modo di suonare, o meglio, attraverso il nostro modo di vivere la musica”. Ecco il miglior sigillo ad una parabola che, ci auguriamo, possa ancora riservare delle bellissime sorprese. Nel frattempo, il concerto è finito, e quello che rimane è la sensazione di aver assistito ad una splendida magia, dove l’unico trucco è, semplicemente, riportare la musica a quello che dovrebbe sempre essere, e cioè qualcosa di assolutamente vivo, reale ed emozionante. Qui si suona con la S maiuscola, dicevamo, e così è. Vi basta? (Special thanks: Giuseppe Antelli )

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Loving Every Minute

Alison Moyet

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L’ottavo album solista di Alison Moyet è una collaborazione con Guy Sigsworth (Frou Frou), già all’opera con Madonna, Bjork, Seal, David Sylvian e Alanis Morissette. Testo: Alessandro Liccardo Una carriera intensa, quella di Alison Moyet. Una tra le voci più riconoscibili del pop inglese ritorna oggi con the minutes, un lavoro eccentrico ma coerente, che rispecchia appieno l’artista nel 2013 - mai così in forma come oggi. Niente reality show, niente tour confezionati per le “vecchie glorie” oltre il quindicesimo minuto di celebrità: ancora una volta, l’artista è andata dritta per la propria strada e stavolta l’ha fatto con la complicità di Guy Sigsworth, che conoscemmo con Imogen Heap nei Frou Frou e che abbiamo rintracciato nei credits di dischi come il primo omonimo di Seal, Psyence Fiction degli UNKLE, Homogenic e Vespertine di Bjork, Music di Madonna, What Sound dei Lamb e le ultime due prove di Alanis Morissette (Flavors of Entanglement e il più incerto Havoc And Bright Lights). Genevieve Alison Moyet, “Alf” per gli amici più stretti, nasce il 18 giugno 1961 a Billericay, nell’Essex, da padre francese e madre inglese. È Basildon la città che segnerà la sua infanzia e adolescenza, che le permetterà di muovere i primi passi nelle band (post-)punk e soprattutto di conoscere colui che sarà il suo primo collaboratore importante, quel Vince Clarke che dopo aver formato i Depeche Mode e aver composto tutti i brani del primo album della band (eccetto Tora! Tora! Tora! e Big Muff), decide di mettere un annuncio e cercare una voce per il suo nuovo progetto. A rispondere è proprio lei, Alison Moyet, che oggi però dà una versione diversa dei fatti - i

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due già si erano già presentati quando lei aveva undici anni, semplicemente si ritrovarono e diedero vita, in fretta, a uno dei synth-pop act di maggior successo e più influenti dei primi anni Ottanta, con un’eredità raccolta negli ultimi quindici anni da Jyoti Mishra (White Town), La Roux ed Hercules and Love Affair (e non solo). La ricetta è tanto originale quanto semplice: una voce blues, “nera”, appassionata e potente che si fonde con la fredda precisione dei sintetizzatori e delle drum machine. La prima hit, Only You, è inizialmente donata ai Depeche Mode (che, ridotti a trio prima dell’arrivo di Alan Wilder in pianta stabile, nel 1982 danno alle stampe A Broken Frame) che la rifiutano; i riscontri che la canzone riceve sono lusinghieri tanto in Europa quanto oltreoceano (negli States il nome del duo cambiò in Yaz), e ben si comporta nell’airplay e nei club anche il lato B del singolo, Situation, specialmente dopo il remix curato da François Kevorkian. Seguono l’Lp Upstairs At Eric’s (1982, Mute Records in Europa, Sire negli Stati Uniti), i singoli Don’t Go/Winter Kills eThe Other Side Of Love, il sophomore You And Me Both (1983, il primo album della Mute Records a raggiungere la vetta delle classifiche inglesi) e un altro singolo fortunato, Nobody’s Diary, composto interamente dalla Moyet. Ma Vince e Alison hanno due caratteri troppo diversi (“eravamo nella stessa band ma non siamo mai usciti insieme neanche per una birra”, ammette con rammarico lei), e tutto inizia a scricchiolare già al momento dell’uscita del secondo e ultimo full length del duo. Ciò che segue è ben noto: Clarke forma prima gli Assembly con Eric Radcliffe e incide il singolo Never Never con l’ex leader degli Undertones Feargal Sharkey per poi dar vita agli Erasure insieme ad Andy Bell, mentre la Moyet inaugura una proficua carriera solista con un contratto con la Columbia (“la casa discografica di Janis Joplin”, ricorda ancora orgogliosa) e un album, Alf (1984), che conquista senza fatica la vetta delle Charts grazie a un soul-pop “dagli occhi azzurri” in linea con quanto già piaceva al pubblico in quegli anni - si pensi al successo che ottennero No Parlez di Paul Young e Colour By Numbers dei Culture Club nel 1983. I singoli Love Resurrection, All Cried Out e Invisible (canzone firmata da Lamont Dozier), prodotti dall’allora premiata ditta Jolley & Swain (Imagination, Spandau Ballet) funzionano, ma ancora meglio andrà la cover di Billie Holiday That Ole Devil Called Love. Il successivo Raindancing (1987), anticipato dal singolo Is This Love? co-firmato da Dave Stewart degli Eurythmics celatosi dietro lo pseudonimo Jean Guiot, arriva dopo la partecipazione di Alison al Live Aid e le garantisce un buon airplay grazie a Weak In The Presence Of Beauty (cover dei Floy Joy) e Ordinary Girl.

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L’album contiene anche una collaborazione con i Lover Speaks, dei quali diversi anni dopo Annie Lennox riprenderà il brano No More I Love You’s per il suo album Medusa, ma non la fortunata cover di Love Letters - corredata da un video con French & Saunders - che comparirà su una release di Alison non prima del 1995, anno in cui uscì la raccolta Singles. Gli anni Novanta vedono la Moyet alla ricerca di una nuova identità artistica. It Won’t Be Long, 45 giri che lancia il suo terzo disco solista Hoodoo (1991, Columbia), ottiene una nomination ai Grammy Awards, ma il nuovo materiale si dimostrerà meno radio-friendly rispetto a quello del passato. La Sony interviene a gamba tesa durante le registrazioni del successivo Essex (1994), spingendo Alison e i produttori Pete Glenister e Ian Broudie (The Lightning Seeds) a modificare la tracklist e remixare anche drasticamente alcune canzoni del lotto per renderle più appetibili. Se non altro, la “single version” di Whispering Your Name - scritta da Jules Shear, lo stesso autore di All Through The Night di Cyndi Lauper - ha il pregio di vedere di nuovo Vince Clarke al mix dopo tanti anni, e ci sarà una rivisitazione di Ode To Boy (in origine su You And Me Both degli Ya-

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zoo) più in linea con il brit-pop che negli anni conquistava le prime pagine dei principali magazine britannici. Nel 1995 Alison torna al primo posto della UK Album Chart con Singles, antologia ripubblicata un anno dopo con un live (dal sottotitolo No Overdubs), ma i rapporti con la casa discografica si fanno sempre più tesi. Il tempo di collaborare con Tricky per l’album Nearly God e la Moyet si mette all’opera con gli Insects, il fido Pete Glenister e nuove firme che arricchiranno il suo nuovo disco, come quella di Eg White (già Brother Beyond ed Eg & Alice, poi autore di hit per Adele, Joss Stone, Natalie Imbruglia, James Morrison e Will Young) che scrive Say It. Hometime, il quinto album della cantante, esce nel 2002 per la Sanctuary (l’ultima uscita per la Sony sarà invece The Essential Alison Moyet). Il lavoro piace al pubblico, che lo fa arrivare in Top 20 nonostante la scarsa promozione, e alla critica; il rapporto con la Sanctuary va avanti e produce anche un disco di sole cover, Voice, con arrangiamenti orchestrali del premio Oscar Anne Dudley (ex Art Of Noise). Da Almost Blue e God Give Me Strength di Elvis Costello a The Windmills Of Your Mind di Michel Legrand fino a La Chanson des Vieux Amants di Jacques Brel, l’album è una carrellata di inter-

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pretazioni intense, che risaltano ancora di più nel DVD live One True Voice. Nel 2007 Alison cambia nuovamente casa e si trasferisce alla W14, etichetta del gruppo Universal Music che dà alle stampe The Turn. Si punta prevalentemente su ballate malinconiche (come il singolo di lancio One More Time) ma si inciampa anche in goffi tentativi di emulazione degli Scissor Sisters (A Guy Like You); in scaletta ci sono anche tre brani scritti per un musical, Smaller. Seguirà un silenzio discografico interrotto dalla reunion degli Yazoo (per l’occasione escono il box set In Your Room e, in seguito, il doppio live Reconnected) e una terza compilation, 25 Years Revisited, che comprende anche nuove versioni dei classici storici. Oggi, dopo che le label inglesi si sono sfregate le mani immaginando la Moyet in un reality show a promuovere cover jazz che potessero servire - chissà - anche come sottofondo di qualche spot pubblicitario, la signora del pop inglese sorprende il pubblico ancora una volta: undici canzoni con una chiara matrice elettronica che però hanno ben pochi punti di contatto con il repertorio degli Yazoo. Si guarda persino al dancefloor in Right As Rain e al dubstep nell’opener Horizon Flame. Lei stessa scopre le carte in tavola già dalle prime battute: “suddenly the landscape’s changed”.. la Cooking Vinyl (casa discografica che negli ultimi anni ha accolto i Cranberries, i Cult di Ian Astbury e Billy Duffy ma anche gli Echo and the Bunnymen e, più recentemente, Billy Bragg) ha creduto nel progetto e, grazie alla scelta di un singolo forte come When I Was Your Girl, Mrs. Moyet è tornata nella Top 5 in Gran Bretagna. Com’è nata l’idea di intitolare l’album the minutes? Tutto è partito da una canzone, Filigree, che descrive la sensazione che ho provato quando mi sono trovata in un cinema a vedere The Tree Of Life di Terrence Malick. La trama procedeva lentamente, in mezzo a persone che uscivano sfiduciate dalla sala prima degli ultimi minuti, che poi sono quelli più intensi e che meglio aiutano a comprendere l’intero film. Capita che ci sentiamo truffati quando la nostra vita non è un flusso di sola gioia, di sola felicità - ma siamo in grado di capire solo maturando che la felicità è godersi quei singoli, brevi minuti che rimangono sospesi negli anni, nelle ore. Il disco è un deciso ritorno a sonorità elettroniche, ed è frutto dell’incontro con Guy Sigsworth. Come l’hai conosciuto? Da tempo volevo realizzare un album elettronico, ma avevo bisogno di lavorare con la persona giusta. Qualcuno che fosse avventuroso, amasse sperimentare con i suoni con una buona padronanza della tecnologia di cui oggi disponiamo, ma che allo stesso tempo

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desse importanza alla voce (troppo spesso sacrificata, nei dischi electro degli anni Novanta) e alle melodie, come accadeva ai tempi degli Yazoo. E Guy ha le caratteristiche che andavo cercando: ha studiato clavicembalo a Cambridge, è attento tanto ai soundscape quanto alla musicalità. Siamo due persone socially awkward, con cui non è sempre facile approcciare, ma ci siamo trovati benissimo insieme. Entrambi avevamo in mente di creare un disco solido con una personalità forte e distintiva, e non una collezione di brani scritti e prodotti da una miriade di collaboratori per andare incontro a questa o a quella particolare fetta di pubblico. Non ci siamo curati granché dell’appeal commerciale del progetto e delle esigenze delle etichette, e sono andata ai colloqui con i discografici con le idee chiare e un prodotto già bello e finito; purtroppo mi sono scontrata con la mancanza di fiducia che molti hanno manifestato. Preferivano qualcosa di più, come dire, “sicuro”. Rispetto agli altri co-autori e produttori con cui hai lavorato in passato (da Vince Clarke a Pete Glenister) qual è stata, a tuo

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avviso, la differenza più marcata nell’approccio di Guy verso il songwriting? Quanto tempo c’è voluto per sviluppare le idee e trasformarle in vere e proprie canzoni? Dipende da canzone a canzone. Alcune sono nate da una melodia accennata alla chitarra, altre come Changeling si reggono su un loop e in altri casi ancora si è partiti dalla backing track e solo in un secondo momento sono venute fuori la melodia e le parole. In generale potrei dirti che abbiamo lavorato molto individualmente: a volte arrivavo da lui con un testo, e poi in base alle emozioni che gli suscitava si lavorava insieme sulla palette. Nonostante il disco entri spesso in territori finora poco esplorati nella tua produzione solista, in the minutes ci sono anche diversi elementi che riportano al tuo passato. Una fusione riuscita di fasi diverse del tuo percorso artistico, visto che troviamo il soul, il guitar pop dei tempi di Essex, tracce di Hometime e gli archi che abbiamo ascoltato in Voice e The Turn... È solo una mia impressione oppure oggi sei un’artista più sicura delle tue capacità e una donna più a proprio agio con se stessa? Assolutamente sì. Volevo creare un album che fosse un insieme di istantanee, di esperienze di vita viste con gli occhi di oggi, ma ho evitato accuratamente di riascoltare gli altri miei dischi e non mi sono fatta condizionare da ciò che passa oggi per radio. Siamo spesso influenzati da ciò che ci piace, ma anche da ciò che non ci piace - e stavolta volevo che emergessero i testi, le storie. Non sono interessata alle “acrobazie” vocali che troppo spesso viziano i brani delle artiste emergenti. La presenza degli archi ha più a che fare con il gusto personale di Guy che con quanto ho già registrato anni fa. Mi ha colpito il fatto che il disco non sia affatto un mero nostalgia trip. Più che dagli Yazoo possiamo pensare che la rinnovata voglia di elettronica sia stata suscitata dalle recenti collaborazioni con Moby e My Robot Friend? Non direi. Stavolta è stato un processo molto diverso: la musica che ascolti in the minutes è qualcosa di profondamente “mio”, mi rispecchia in toto; nelle collaborazioni sono stata coinvolta come vocalist, ma io mi vedo prima di tutto come un’artista. Dopo essere stata in un duo di grande successo hai poi avuto riscontri commerciali importanti anche da solista. Esiste una ricetta segreta per restare rilevanti e influenti dopo una lunga carriera? Non saprei, davvero. Ti confesso che da giovane non avevo un bel carattere, per esempio, e non sono sempre stata in grado di cogliere le occasioni che mi sono state offerte... Mi piace pensare che i fan

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abbiano visto in me non solo un’interprete, come ti dicevo prima, ma un’artista a tutto tondo con una propria visione riconoscibile, un proprio mondo da condividere, e in più credo di essere stata sempre onesta con il pubblico. Il gossip non mi è mai interessato, non rincorro affannosamente i trend e oggi se incido canzoni è perché sento di avere qualcosa da dire, curandomi poco di come si posizioneranno in classifica e di quanto venderanno. Ti senti più libera, oggi, con Cooking Vinyl? Quando sei sotto contratto con una major come la Sony, indubbiamente senti maggiori pressioni perché si spendono considerevoli somme di denaro per promuovere il tuo lavoro. Firmai un contratto con loro, al tempo, forte di un album degli Yazoo già arrivato al primo posto in classifica e lavoravano per avere gli stessi risultati, se non superiori. Nessuno oggi era preparato ad ascoltare un album come the minutes; andai all’incontro con la Cooking Vinyl con il lavoro già pronto. Niente cover, come volevano altre etichette. “Questo è ciò che desidero pubblicare. Prendere o lasciare”, dissi. Penso sia una tra le poche label che ancora investono sull’artist development, ed è davvero triste che troppo spesso oggi dai giovani si cerchino risultati immediati, spremendoli, magari usando la TV come trampolino. I tuoi testi sono da sempre incentrati sulle emozioni, sui sentimenti, sulla vita di tutti i giorni. Hai mai avuto la tentazione di sconfinare nel commento politico? È da poco venuta a mancare Margaret Thatcher, tu come hai vissuto quell’era? In quegli anni, al contrario di mio marito che era un giovane disoccupato con grosse difficoltà nel trovare lavoro, non ho mai dato molta importanza alla politica. Sebbene il mio background sia quello della working class, mi sono ritrovata all’improvviso su Top Of The Pops e con i dischi in cima alle classifiche: ero famosa, ho guadagnato parecchio agli esordi, e quindi non mi accorgevo di ciò che stava accadendo. Hai accennato prima alle cover. Oltre a That Ole Devil Called Love, Ne Me Quitte Pas and Love Letters, hai registrato un intero disco di riletture, Voice. Come scegli i brani da reinterpretare? E quali sono i tuoi artisti preferiti? Canzoni come Love Letters e Weak In The Presence Of Beauty sono state reinterpretate perché il mio management sapeva che sarebbero diventate delle hit. Col senno di poi mi sono persino stancata di quei brani, non li apprezzo più come un tempo. Voice non è semplicemente “un album di cover” per me, non è stato fatto con intenti commerciali ma è un vero e proprio labour of love, un disco

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di classic songs scelte per la loro qualità. Mi sono confrontata con altri repertori per esplorare le potenzialità della mia voce: mi piace molto la chanson francese, Brel, Michel Legrand, cose che non riuscirei mai a scrivere. Di Legrand hai interpretato The Windmills Of Your Mind, portata al successo anche da Dusty Springfield. Quest’anno il Dusty Day (domenica 26 maggio) ha celebrato il cinquantesimo anniversario del suo primo disco solista.. tu e Sinéad O’Connor eravate ai cori di una delle sue più recenti canzoni. È un’artista

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che ti ha influenzata? L’hai conosciuta personalmente? Mi sono ispirata più alla versione di Petula Clark che non alla sua. Petula è una cantante strepitosa, ha una voce incredibile. A casa mio padre ascoltava musica francese, e quindi conoscevo il pezzo in lingua originale... poi vidi lei cantare il brano in uno show televisivo.. Dusty ha senza dubbio influenzato molti, ma l’artista che ho sempre ammirato di più è Janis Joplin. È vero che volevano che partecipassi a un reality show? Qual è il tuo rapporto con i talent e la reality TV? Qualche talento genuino, a tuo avviso, c’è? Sì, ma non ero interessata. Avrei dovuto promuovere altre cover, ma io volevo andare avanti, non tornare indietro. Non mi capita mai di andare a riascoltare brani di artisti dei talent: trovo deprimente questo tipo di show, il più delle volte va bene semplicemente per chi ricerca la celebrità fine a se stessa. Il 20 aprile è stato celebrato il Record Store Day. iTunes e Spotify hanno cambiato le modalità della tua fruizione della musica? Uso Spotify e credo sia uno strumento utilissimo per scoprire nuova musica. Può essere utile anche scaricare singole canzoni, creare playlist, ma vorrei che chi si approccia al mio nuovo lavoro vedesse non undici singoli pezzi, ognuno a sé stante, ma undici parti di un racconto, di un discorso unitario che meriti di essere ascoltato per intero. Hai sperimentato con il teatro e con i musical. Scriveresti un libro? C’ho pensato più di una volta, ma alla fine ho sempre accantonato l’idea. Ho scelto comunque un mestiere che, attraverso i testi che compongo, mi ha reso possibile “toccare” le vite delle altre persone ed esporre me stessa. Ci si apre agli altri raccontando storie, ma non per forza bisogna farlo per mezzo di un romanzo. Com’è il tuo rapporto con i fan? Hai qualche esperienza particolarmente positiva (o negativa) che ricordi, in trent’anni di attività? Il rapporto con la mia fanbase è splendido. I fan sono spesso cresciuti con me e hanno abbracciato i miei cambiamenti.. non solo perché la voce che hai a cinquant’anni non è la stessa di quando ne hai venti, ma anche i contenuti, i linguaggi, necessariamente cambiano ed evolvono insieme a noi. Tra chi mi segue c’è certamente chi ama una fase della mia carriera più delle altre.. Ho avuto la fortuna di iniziare alla fine degli anni Settanta, in un momento di grande fermento musicale, artistico e intellettuale: c’era chi ascoltava il prog, chi abbracciava il punk, ma non era raro ascoltare David

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Bowie e subito dopo i Pink Floyd. Oggi si bada troppo ai demographics, si osa poco e si spazia poco. Me ne rendo conto quando sento ciò che i miei figli ascoltano alla radio. Eri a scuola con Martin Gore, Andy Fletcher dei Depeche Mode e con Perry Bamonte, che è stato un membro dei Cure. Qualche ricordo o aneddoto particolare su di loro? Ero molto amica di Perry, un personaggio inusuale, imprevedibile. Mentre Andy e Martin erano i classici bravi ragazzi, gli alunni diligenti che arrivavano a scuola sempre con i compiti fatti a casa, Perry era un ribelle, un irregolare. Un maverick. Molto bello il video di When I Was Your Girl, in cui ti vediamo con tua figlia. I tuoi figli sono coinvolti nella tua carriera? Ascoltano i tuoi dischi? Suonano qualche strumento? Mia figlia è un’artista a tutto tondo, suona la chitarra, il banjo, il pianoforte e canta da soprano. È stato interessante girare il video con lei: era una giornata terribile, pioveva e faceva freddo, ma è stato emozionantissimo. La canzone stessa è una riflessione sul passare del tempo, sulla condizione umana e su come cambiano negli anni le nostre percezioni. Quale consiglio daresti a un giovani talento? Collaboreresti, inoltre, con colleghe che sono emerse negli ultimi anni come Adele ed Emeli Sandé? Tendo a separare sempre di più me stessa dal resto del music business, sceglierei quindi artisti con cui sento davvero di avere qualcosa da spartire indipendentemente dalla loro popolarità. Non ho mai avuto l’ambizione di duettare con qualcuno, se non con Elvis Costello, ma tra i talenti emersi negli ultimi anni apprezzo moltissimo Guy Garvey degli Elbow. Un consiglio ai giovani? Lasciate perdere i reality. Mettete su una band.

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Blixa Bargeld Teho Teardo Universi in collisione 52


L’intervista a Teho Teardo e Blixa Bargeld è una buona scusa per ricostruire vicissitudini e ascesa della coppia più insolita dell’anno

Testo: F abrizio Zampighi Stefano Pifferi On c e upon a ti me “Ci siamo incontrati per un progetto teatrale che si chiamava Ingiuria e nel quale Blixa era coinvolto assieme ad Alexandre Balanescu e alla Societas Raffaello Sanzio, la compagnia teatrale romagnola”. Questo, nelle parole di Teardo che leggerete oltre, il fattore scatenante di una unione in apparenza - ma soltanto in apparenza - strana e inusuale. Da un lato lo ieratico, mitizzato, folle, iconoclasta cantante (ehm) tedesco con alle spalle eccessi di ogni sorta e un pedigree da vero cavallo di razza del rumore (ehm) rock; dall’altro un professionista della soundtrack, partito dalla periferia dell’impero - Pordenone, fine anni ‘80 - e da suoni di tutt’altra natura e giunto, passo dopo passo, a scivolare sul red carpet di Cannes o a vincere premi prestigiosi per pellicole altrettanto prestigiose.

W e ’ r e i nto t he grey area , aren’ t we ? A scavare nei percorsi di questa deutsch-italienische freundschaft sì, stiamo parafrasando proprio gli industrial heroes D.A.F. e non a caso - c’è una partenza comune, perché se vuoi che i frutti arrivino copiosi, devi avere seminato per bene. E i due hanno seminato eccome a partire dagli epici e mitizzati - ma soltanto da chi non li ha mai veramente vissuti - anni Ottanta, da cui, citazione per citazione, non si uscirebbe vivi se non fosse che Teardo e Bargeld sono qui a dimostrare l’esatto contrario. Dicevamo di un humus comune. È

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quello in cui muovono i primi passi i due, distanti millenni per provenienza geografica e background, ma in realtà molto affini come animi e interessi squisitamente musicali: l’industrial culture degli anni ‘80. Il giovane Teardo si muove in solitaria, pronto all’epoca della “cassette culture” ad anticipare le collaborazioni a distanza con la pubblicazione di album di matrice industrial anche con calibri grossi come Ramleh, Skullflower o Nurse With Wound. Travisato sotto la sigla M.T.T. con la quale pubblica nastri, 7” e 12” split e full-length, comincia a farsi notare in un ambiente di nicchia e dimostra di trovarsi a proprio agio nel tessere reti di contatti in tempi non sospetti. Blixa Bargeld - nome d’arte del cantante, chitarrista, performer, attore berlinese Christian Emmerich - si forma tutto sommato sulle stesse coordinate. Mischiando l’irruenza punk e d.i.y. dei primordi alle influenze arty made in Die Geniale Dilettanten (movimento dai contorni non ben delineati e di chiara matrice dadaista - altra grossa influenza per il Nostro, che vi si ispirerà anche per la scelta di un nome d’arte preso dal poeta e pittore Johannes Theodor Baargeld), il berlinese è tra i membri fondatori degli Einstürzende Neubauten. La band non ha certo bisogno di presentazioni; con lei Bargeld mette a soqquadro non solo l’ambiente cultural-musicale berlinese prima ed europeo poi, ma anche l’idea stessa di arte, a suon di iconoclaste visioni e devasto industial-rumoroso: si veda lo smacco all’ICA di Londra il cui palco, devastato dal martello pneumatico, è entrato nella mitologia del rock senza passare dal via (facendo bannare il gruppo per un ventennio abbondante dai suddetti locali), oppure la ironica presa in giro del retrocopertina di Kollaps (1981) in cui si fa il verso ai Pink Floyd di Ummagumma sfoggiando l’armamentario dei materiali di risulta (lastre di metallo, tondini di ferro, martello pneumatico, chiavi inglesi and so on...) usato per “suonare” un album storico.

That ’s ( i n d u st r ia l ) r oc k , b a by Die Zeichnungen Des Patienten O.T. (1983), Halber Mensch (1985), Fünf Auf Der Nach Oben Offenen Richterskala (1987) e Haus Der Lüge (1989) - solo per rimanere agli album ufficiali - si susseguono lungo gli Ottanta in un crescendo che diremmo wagneriano, tanta e tale è l’epica forza che fuoriesce da lavori ormai classici e storicizzati ma che non stentiamo a credere piuttosto disturbanti all’epoca della loro uscita, tra clangori industriali di risulta e visionarietà arty esposta con la lucida idiosincrasia del punk. Neanche il tempo di ingranare la marcia del rumore con gli EN,

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però, che Blixa allarga il suo personale range musicale entrando a far parte dei Bad Seeds di sua maestà Nick Cave, proprio nel momento in cui i Birthday Party implodevano sotto il peso della sregolatezza. Complice Berlino, ovviamente, il legame tra i due durerà per un ventennio abbondante, per affinità musicali ma non solo: sono ormai parte della storia della musica le scorribande della coppia di intellettuali prestati al rumore. Non pago di essere il frontman della formazione tedesca e il chitarrista di quella capitanata dal collega, dagli albori degli anni ‘90 Bargeld comincia ad aprirsi a progetti particolari: da una parte i dischi fuori contesto con gli EN come Die Hamletmaschine di Heinder Muller con Blixa ad interpretare Amleto e nei panni di Ofelia Gudrun Gut - sì, la stessa della Monika Enterprise e già membro storico ma fuoriuscito degli EN -, o Faustmusik (qui Blixa Bargeld recita il ruolo di Mefistofele) che hanno molti legami con la performance teatrale; dall’altra le prove in solo, spesso e volentieri per sola voce e aggeggi elettronici - si pensi alle Rede/Speech Performances imbastite col supporto del tecnico del suono degli EN Boris Wilsdorf e

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debitrici nei confronti di una specie di tendenza dada-cabarettistica in cui Blixa esplora i “confini di linguaggio e musica” -, dicono di una personalità a tutto tondo, onnivora e troppo curiosa per limitarsi ad agire in un contesto squisitamente “rock”. Commissioned Music, edito nel 1995, è esemplare in questo senso: prendendo spunto dalle musiche appositamente commissionate a Bargeld per pièce teatrali e film (Jahre Der Kalte di Uli M. Schueppel), l’opera mostra come l’artista tedesco sia a suo agio anche con trame minimali e ambient-rumoriste, destinate a supportare rappresentazioni o immagini. Considerato che già dagli anni ‘80 Bargeld aveva cominciato a trafficare con cinema e teatro anche in qualità di attore, va da sé che l’esondazione verso lidi extra-rock è, di fatto, completa. Per conto suo, Teardo non è da meno. Seppur a distanza di chilometri, l’italiano percorre una strada molto simile, per certi versi, a quella del collega. Prima il rock, esagitato e newyorchese fino al midollo come nell’esperienza Meathead, band sopra le righe con cui Teardo fa sue le sonorità noise-rock a stelle e strisce che agli inizi degli anni ‘90 erano pronte a uscire dal ghetto del Lower east Side per conquistare il mondo a suon di distorsioni e marciume, crossover stilistico e aggressività repressa. Street Knowledge (1992) e Bored Stiff (1994) sono due belle botte in faccia di ritmi midtempo, storti e dalle marcate ascendenze hip-hop (è l’epoca delle insane unioni made in Judgement Night, per intenderci), chitarre in acido overdrive, ammennicoli elettronici degli albori (atari e nastri a go-go), voce compassata e nauseata, che si fanno apprezzare a distanza di anni sia per la pletora di ospiti e collaboratori (spesso in modalità “postale” degli albori) che per il coraggio avanguardista nel “crossoverizzare” elementi in apparenza lontani. Per non farsi mancare nulla della mitologia rock, c’è purtroppo anche un decesso a corredare l’epopea Meathead: il bassista Tim Pintado muore di AIDS all’epoca dell’uscita dell’esordio, un po’ come, in circostanze diverse, fece Roland Wolf poco dopo aver sostituito il basso di Mark Chung negli EN. È però con Meathead Against The World (1996) che l’attività collaborativa di Teardo arriva al suo culmine: l’album colleziona infatti una serie di 7” o mini-cd che la band ha condiviso con formazioni del calibro di Cop Shoot Cop, Pain Teens, Zeni Geva e Babyland, così come un remix opera di Mick Scorn Harris, mentre dello stesso periodo sono le collaborazioni con Paolo Favati dei Pankow o quella con gli svizzeri industrial rockers Swamp Terrorists che darà il via alla sigla Circus Of Pain e al disco The Swamp Meat Intoxication. Il rock estremo ma sempre più orecchiabile e accomodante dei Meathead

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seguirà poi una parabola discendente simile a quella degli inglesi Therapy?, perdendo la carica iniziale e arrivando al capolinea con l’album Protect Me From What I Want del 1998. Un lavoro di ordinario electro-rock velocizzato, con qualche freccia accattivante ma, complici le nostre orecchie ormai assuefatte a certe sonorità, anche stanco, pacificato e che ha il merito di arrivare mentre Teho ha già aperto nuove vie di fuga alla sua instancabile creatività. Quel ponte invisibile tra Italia e mondo anglosassone si rafforza sempre di più, anche a fase Meathead calante. Anzi, proprio da quelle prime tessiture emergono legami che a fine millennio mostrano un Teardo sempre più aperto alle contaminazioni. A

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breve giro di posta, il Nostro se ne esce infatti con alcuni progetti condivisi in cui raffina la propria arte musicale e mostra una notevole maturità “altra” rispetto alle solite lande “rock” indagate con i Meathead. Si riprende, anzi, quella atmosfera originaria che come un liquido amniotico aveva cullato la formazione e i primi passi del musicista italiano e la si trasforma in una sorta di onnipresente tavolozza su cui disporre via via nuove sfumature. A collaborare, mostri sacri dell’underground inglese e americano. Mick Harris aka Scorn, ad esempio, abbassa volumi e riveste di grigi paesaggi postindustriali l’esperienza Matera, materica e sassosa come il rimando contenuto nel nome. Il cui unico album Same Here (1996) è un ottimo esempio di quell’età di mezzo tra bassa battuta, dancefloor ibridi su modalità jungle, asperità (post)industriali e dimensione pre-apocalisse. Non è da meno Here, sempre un duo ma con Jim “Phylr” Coleman dei Cop Shoot Cop, stavolta. Le atmosfere si fanno più urbane e dirette, in virtù di una predilezione per la forma canzone - abrasiva e minacciosa quanto si vuole, ma pur sempre canzone - e della ricerca di atmosfere cittadine alla stregua del citato gruppo di Coleman. Contaminazione è la parola d’ordine e non è un caso che ciò avvenga con Coleman - la cui attrazione per sonorità visive, prima ancora che visionarie, è nota - e con la notevole mole di ospiti - da Lydia Lunch al giro Motherhead Bug tutto -, ennesima dimostrazione della statura internazionale del nostro. Operator, è il terzo indizio che costituisce la prova. La sigla condivisa con Scott McCloud dei Girls Against Boys produrrà un album (Welcome To The Wonderful World) ottimamente accolto, al punto da supportare i Placebo lungo l’intero tour francese e un 12” per la collana Domestic Landscapes della friulana Nail recs. Con McCloud alla voce, Teardo si occupa in toto dei suoni elettronici, sposta l’asse verso dimensioni ibride alla GvsB, fornendo quasi una versione poppy dei primi passi targati Meathead. Siamo nella metà dei fatidici anni Zero e prima di intraprendere l’ennesimo progetto a due - i Modern Institute, in coppia col violoncello di Martina Bertoni (da lì in poi vera spalla onnipresente per le sonorità del Teardo maturo) e sotto la cui sigla i Nostri pubblicheranno un full length e un volume della citata serie Domestic Landscapes - Teardo ha già iniziato la sue terza fase. Quella cinematografica.

Nuovo ci n e m a Pa r a dis o ? Quella che, forzando un po’ la mano, porterà al “ricongiungimento” con Blixa, indicando una via - esplicitata nell’ottimo Still Smiling e nel tour di maggio 2013 - come camera di condensazione e com-

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pensazione tra mondi non proprio lontani come potrebbe apparire e come abbiamo cercato di mostrare. Da Denti a Diaz, da Salvatores a Vicari, passando per Chiesa, Molaioli e Louis Nero; dal legame con Sorrentino al David di Donatello per Il Divo, da La ragazza del lago a Gorbaciof, Rasputin, Una vita tranquilla, la nuova fase di Teardo è un susseguirsi di mondi immaginati e ricreati sull’onda di una musica che si fa supporto senza essere tappezzeria sonora. Che vive di molte di quelle traiettorie che, da un quarto di secolo abbondante, Teardo usa e metabolizza, ingloba e riproduce. E che trovano una loro dimensione “pacificata” nell’ultimo lavoro con Bargeld. In cui, cioè, si fondono in maniera naturale i percorsi dei due, giungendo all’elaborazione di un disco che è insieme ricerca e immediatezza, visionarietà arty e classicità contemporanea, sognanti atmosfere da cellulosa e sorta di via personale al cantautorato sub specie mitteleuropea. Ci sarebbe ancora da scrivere molto, per entrambi. Potremmo parlare di Specula Records e Jim Thirlwell, dei progetti di ricerca vocale di Blixa, dei lavori sul suono di Teardo (notevole il progetto site-specific Tower/Microphone del 2005) o di quelli sulla e con la memoria del tedesco (The execution of precious memories, sorta di performance nomade da esercitarsi in luoghi diversi e di volta in volta dai connotati differenti), di Erik Friedlander, Balanescu Quartet, Wilder Mann, audio play (Elementarteilchen tratto da “Le particelle elementari” di Houellebecq) e chissà quant’altro per rendere giustizia a due menti coraggiose ed erranti come quelle dei qui presenti. Ma l’oggi ha un nome e una determinata finalità, Still Smiling, e di quella è giusto parlare.[S.P.]

Com u nica z i o n i t r asv e r sa l i Quando li abbiamo visti dal vivo in maggio al Senza Filtro di Bologna, in un capannone industriale imponente pieno per metà di persone che avevano pagato venti euro a testa per assistere al concerto, abbiamo avuto la conferma di quanto il progetto di Teho Teardo e Blixa Bargeld fosse stato ben accolto dal pubblico. Un’ulteriore dimostrazione unita alle sensazioni positive già trasparite dai numerosissimi click macinati - ancor prima che uscisse il disco dalle news riguardanti i due e dalla recensione di Still Smiling. Quali i motivi alla base di un tale interesse nei confronti di questo atipico duo? Proviamo a sintetizzarli, abbozzando un’analisi parziale e per forza di cose soggettiva che tuttavia potrebbe isolare qualche input interessante. Partendo magari dalla qualità intrinseca di uno Still Smiling che sintetizza songwriting, elementi di musica contem-

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poranea, l’universalità degli archi conciliati alla sperimentazione in termini di strutture compositive e testi multi-lingua. Da una parte l’eleganza teatrale di un Blixa Bargeld che porta in dote l’inquietudine del personaggio e certe aspirazioni semantiche alte (quasi filosofiche, se ci passate il termine); dall’altra un Teardo che è bravissimo a lasciargli il giusto spazio, pur non mortificando la propria personalità musicale. Quel che ne esce è qualcosa a metà strada tra l’opera di ricerca e la melodia, una via di mezzo che mette d’accordo tutti senza rinunciare alla qualità. Basterebbe questo spiegare l’appeal del disco, ma forse c’è anche di più. Per esempio l’idea che un’opera del genere non incontri nessun hype passeggero o moda che dir si voglia. E’ materiale, cioè, che al contrario di quel che accade con certe produzioni perfettamente calate nell’attualità, farà le veci di un Dorian Gray con nemmeno una ruga da mostrare tra qualche anno, tanto è radicato in un limbo formale blindato e adulto. Questione di qualità, di progettualità alla base del disco, ma forse anche di storia personale degli artisti coinvolti e di anagrafica dei potenziali destinatari: a farla, un’indagine demografica in quel Senza Filtro che citavamo in apertura, magari si sarebbe pure scoperto che di under 23, l’11 maggio 2013, ce ne erano davvero pochi. C’è poi da considerare il percorso dei protagonisti di questa storia: Bargeld è uno che tra Bad Seeds, Einstürzende Neubauten ed esperimenti solisti vanta da sempre un seguito consistente e fedele nel Bel Paese. Uno zoccolo duro che lo segue ovunque, ammaliato dal suo passato “estremo”, dalla produzione musicale senza compromessi e da un presente che lo innalza a simbolo di una sperimentazione alta (Rede Speech, esperienze teatrali e via dicendo). Coraggio espressivo ed eleganza, insomma, in un completo nero con tanto di gilet. Teardo è invece un professionista della musica cresciuto fuori dal “quartierino” indipendente a suon di gavetta all’estero; personaggio trasversale agli ambiti ma anche simbolo di rispettabilità, il Nostro è finito al cinema a far la punta di diamante con le colonne sonore aprendosi, dunque, a bacini di utenza non convenzionali per la musica indipendente. Unite i puntini e verrà fuori un meraviglioso paradosso; lo yin e lo yang, a guardarli da fuori, l’uno simbolo di un decadentismo rock di cui s’è persa ormai traccia ma anche musicista con i crismi dell’intellettuale e dell’artista contemporaneo; l’altro compositore raffinato e di carattere, capace anche di mediare attriti e potenziali corto circuiti. Un matrimonio che mescola i due universi con un primo singolo (Mi Scusi) cantato da un Bargeld compito, rispettoso e in qualche maniera fuori posto rispetto all’idea che ci si fa di

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lui guardando la sua storia passata. Proprio per questo, splendido esempio di involontario viral marketing che a suon di “Il mio italiano non ha fatto molta strada / me la cavo un po’ così” guadagna ascolti e visualizzazioni, nascondendo con un’ironia solo apparente - come scopriremo nel corso dell’intervista, sono ben altre le tematiche legate a quel brano - i toni serissimi di un disco che invece viaggia in tutt’altra direzione. Sia come sia, abbiamo voluto incontrare Teho Teardo e Blixa Bargeld per scoprire se l’empatia si guadagna sul campo e se Still Smiling davvero possegga quel peso semantico che abbiamo voluto vederci dentro. Quanto segue è quel che è venuto fuori da una ventina di minuti di videochiamata a tre via Skype intensi ma certamente costruttivi. Come vi siete incontrati?

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Teho Teardo: ci siamo incontrati per il progetto teatrale Ingiuria, in cui era coinvolto anche Blixa assieme ad Alexander Balanescu e alla Socìetas Raffaello Sanzio, compagnia teatrale romagnola. Quello è stato l’inizio, poi abbiamo lavorato assieme a una canzone che si chiama A Quiet Life per il film Una vita Tranquilla di Claudio Cupellini. Questo circa tre anni fa. Da lì abbiamo cominciato a ragionare sul fare un album assieme. Ci siamo scambiati un po’ di idee e file ed eccoci qua. Still Smiling non è certo un disco facile o commerciale, ma in Italia ha ricevuto buone recensioni e molte persone vi seguono in concerto. Cosa ne pensate? Blixa Bargeld: Non credo che sarei capace di fare un disco commerciale. Comunque sono contento di come il disco è stato accolto. Teho Teardo: Siamo molto contenti della positivissima ricezione del disco in Italia. Ve lo aspettavate? BB: In realtà non sapevo bene cosa aspettarmi, perché non conosco il mondo della critica musicale italiana. Ho ricevuto buone recensioni in passato con altri progetti, ma il tipo di reazione legata a questo disco è più massiva e sorprendente.

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TT: Sono sorpreso anch’io, anche perché in genere non mi chiedo mai come potrebbe essere recepito dal pubblico un mio progetto musicale, aspetto sempre di vedere le reazioni. Still Smiling, come hai detto tu, non è un disco facile ma credo che abbia una sua specifica forza comunicativa. Credo tuttavia che ci sia stato un gran trasporto, sia nel pubblico che viene ai concerti che nelle recensioni della stampa. Che tipo di disco volevate fare con Still Smiling? Un disco di songwriting, di musica contemporanea, di musica sperimentale... BB: Volevo fare un disco di canzoni. TT: Di solito non scrivo canzoni, ma mi sembrava un’esperienza interessante riuscire a farlo con Blixa e trovare un equilibrio in questo senso. E’ stata una cosa inaspettata. Di solito quando scrivo musica, scrivo tracce musicali più che canzoni. Blixa ha avuto l’abilità di trasformare queste tracce in canzoni. Alcune volte nel materiale c’era già questo tipo di attitudine, ma il ruolo di Blixa è stato anche quello di camminare all’interno del mio materiale per creare cambiamenti nella struttura dei brani. BB: Le canzoni seguono essenzialmente le leggi della logica aristotelica. Una canzone classica segue in maniera molto stretta tali leggi, mentre quelle più insolite rompono qualcuna di queste regole. Di solito però hanno una struttura che considera una A, una B e una sintesi posta da qualche parte. Un meccanismo che si può replicare in vari modi e cambiando i fattori in gioco (chorus, strofe, ecc..). Ad alcuni brani ho applicato una struttura che giustificasse il poterli cantare come canzoni, con altri non l’ho fatto. Ad esempio, con Buntmetalldiebe ho cercato atmosfere più cinematografiche, una narrazione che diventasse sempre più veloce. Con Negroni ho provato a inseguire un idea di sviluppo molto lento. TT: Anche Axolotl inizia in un modo, in qualche maniera, più sperimentale... BB: Personalmente non uso mai la parola “sperimentale”, perché quando hai fatto qualcosa, quel qualcosa non può essere più definito sperimentale. L’unica cosa inusuale di Axolotl è un’introduzione molto lunga, probabilmente più lunga del resto della canzone. E questa è una aberrazione della forma-canzone classica. Still Smiling possiede una dimensione o un’ispirazione teatrale? TT: In questo senso, mi ha ispirato il fatto che Blixa abbia un modo molto teatrale di cantare, non necessariamente in tutto quello che fa però. E’ tuttavia un elemento interessante e, considerato anche che ci siamo conosciuti collaborando a una pièce teatrale, mi ha probabilmente influenzato in fase di scrittura.

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Mi parlate delle scelte strumentali e musicali alla base del disco? TT: Ho pensato di lavorare in un modo molto semplice e usando pochissimi strumenti musicali, inizialmente per creare qualche idea di base, qualche abbozzo. Ho usato chitarra baritona, violoncello, violino, viola e un po’ di piano elettrico Rhodes. Poi ho sviluppato il materiale, aggiungendo livelli con un quartetto d’archi. Ho fatto tutto tenendo bene a mente che su quei brani avrebbe dovuto cantare Blixa e quindi lasciandogli più spazio possibile. BB: L’utilizzo che faccio della voce non ha che fare con il “trasportare” le parole, quanto con il creare vocalizzi, come se fossero overdub. Credo che la voce sia stata il mio principale strumento su questo disco. Mi sembra che il concetto di “linguaggio” sia uno dei temi ricorrenti del disco. Sto pensando al testo di Mi scusi, al “mistake in the translation” di What If... o al fatto che il disco sia cantato in varie lingue (tedesco, inglese, italiano...) BB: Non ho inteso il linguaggio come “tema”. Volevo fare un disco multilingua. Se guardo ai temi su cui ho scritto, sia in ambito musicale che in ambito extra-musicale, mi accorgo che l’idea del linguaggio, comunque, c’è sempre. Gli argomenti che tratto di solito hanno a che fare con la sfera della biologia, dell’astronomia, del corpo o del linguaggio. Di solito torno sempre su questi argomenti e lo faccio anche in questo disco. Gioco col linguaggio, con le differenti lingue. In Mi scusi rifletto su quanto il linguaggio sia radicato nel corpo e su come il corpo influenzi quello che dico in un linguaggio che non è il mio. Tutto questo rientra nei miei usuali “campi metaforici”, comunque. In questo senso, Mi scusi non è solo una canzone ironica, quindi, ma ha un significato più profondo... BB: Non interpreto le parole delle canzoni e di solito non spiego i testi che scrivo. E’ un meccanismo che toglie alla canzone tutto il fascino. La canzone è un entità a sé stante. Dev’essere l’ascoltatore a interpretare quello che scrivo, non devo essere io a spiegarlo. L’ascoltatore può interpretare il testo nella maniera che preferisce. Questo dovrebbe valere per ogni tipo di testo scritto, anche in ambito narrativo. In Italia abbiamo una tradizione molto forte di cantautori che usano la parola in forma poetica o con una particolare attenzione sul contenuto del messaggio... BB: Credo che sia sbagliato farlo. Io non uso le parole in questo modo. E’ ok se le parole creano delle conseguenze, raggiungono un

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obiettivo, ti convincono a fare qualcosa. Ma non sarà stato quello che ho scritto a dirti di farlo. Non c’è nessun messaggio nascosto tra i solchi del disco, nemmeno se li riproduci al contrario. Teho, che differenze ci sono tra scrivere una colonna sonora e un disco come Still Smiling? TT: E’ un mondo completamente diverso. Questo è un lavoro in collaborazione con Blixa e quindi è un po’ un convergere tra universi differenti. La colonna sonora ha delle dinamiche diverse, dal momento che la musica in quel caso nasce leggendo la sceneggiatura, un testo scritto in un contesto circoscritto alla storia del film. In Still Smiling invece non c’è un progetto chiuso che genera la musica, e questo ovviamente influenza anche l’ispirazione, che arriva da più parti.[F.Z.]

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Recensioni Genere: wave-songwriting Appunti e idee intriganti, nel disco d’esordio degli A Violet Pine (Beppe Procida, Paolo Ormas e Pasquale Ragnatela), ma forse sviluppati non al cento per cento. Fondamentalmente si parla di songwriting, seppur mascherato da una wave oscura e sussurrata che tende a creare scenari piuttosto onirici. L’equalizzazione e le scelte strumentali prendono in prestito elementi dal dub e dal trip-hop (i bassi morbidi e persistenti e gli arpeggi post-rock narcotici di Pathetic), finendo poi per citare di rimbalzo Depeche Mode (25 Mg of Happiness) ma anche certe atmosfere claustrofobiche à la For Carnation (senza, tuttavia, replicarne l’immaginario estetico). Parte musicale solida, quasi blindata nel suo incedere omogeneo e razionale; quel che non convince è una voce eccessivamente monocorde, che non riesce ad essere evocativa come vorrebbe, talvolta quasi fuori contesto su un groove che vive di vita propria (Sleep). Non è tanto per il sussurrato che la contraddistingue - i Santo Barbaro ci hanno insegnato che se c’è della sostanza, il minimalismo in questo senso funziona eccome -, quanto per uno scollamento presente in alcuni passaggi che ne vanifica le potenzialità immaginifiche. C’è margine comunque e i Violet Pine rimangono una materia di studio interessante. (6.3/10) Fabrizio Zampighi

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AA. VV. - Deutsche Elektronische Musik. Experimental German Rock and Electronic Music 1972-83 - 2 (Soul Jazz Records, Febbraio 2013) Genere: krautrock Deutsche Elektronische Musik. Experimental German Rock and Electronic Music 1972-83 - 2 segue l’omonima parte 1 uscita sempre per Souljazz. Entrambe sono compilation pubblicate con l’intento di fornire una panoramica su quel krautrock tedesco (o kosmische musik che dir si voglia) sviluppatosi in Germania nei Settanta e capace di influenzare, col suo portato innovativo, tutta la musica occidentale venuta successivamente (elettronica, industrial e post punk, in primis). C’era davvero bisogno di un’operazione del genere? Probabilmente no, e per vari motivi: da un lato perché gli artisti in scaletta sarebbe stato meglio scoprirli da un disco ufficiale, piuttosto che da un’antologia (per forza di cose) entomologica come questa; poi perché nelle due pubblicazioni mancano nomi eccellenti (ci vengono in mente, ad esempio, Kraftwerk, Guru Guru o Klaus Schulze, immaginiamo non presenti per questioni di diritti d’autore); infine perché sintetizzare in cinquantuno brani un movimento musicale/culturale così differenziato, stratificato e evolutivamente instabile come il krautrock, ci pare un’operazione quantomeno velleitaria. Si pensi, ad esempio, solo alla discografia di un gruppo come i Can, esemplificazione di un percorso artistico da seguire in ogni svolta e impossibile da ridurre a un brano o due. Detto questo, le due raccolte hanno comunque il

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A Violet Pine - Girl (Seahorse Recordings, Aprile 2013)


Fabrizio Zampighi

Airhead/Cloud Boat - For Years / Book Of Hours (R & S Records, Giugno 2013) Genere: Blake soul Se James Blake è (stato) il capitano della cosiddetta post-dubstep, è indubbio che la R&S stia facendo man bassa di tutti gli amici del circondario del producer londinese. Ad aprile abbiamo recensito il debutto lungo del trio r’n’b/soul Vondelpark tra tastiere dreamy, chitarre pastello di marca glo-fi e vocalizzi Sade, tutto basato sulle rotondità e la coerenza d’insieme; a maggio la label belga sforna l’intingolo folk elettronico

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del duo Cloud Boat, tutto graffi wave e carezze dream; a giugno arrivano gli wonky beat di Rob McAndrews in arte Airhead, debutto sulla lunga distanza (assieme a quello di Cloud Boat) legato all’amicizia con il lonley boy degli anni dieci per eccellenza. Il lavoro più interessante è quello della coppia formata da Sam Ricketts (chitarra) e Tom Clarke (voce). Book Of Hours, uscito per la sister label della R&S Apollo, fonda la sua forza su un set acustico per chitarra e voce e sample/ritmi facilmente riproducibile dal vivo e pertanto pensato dal principio in questo modo. Gli elementi suonati e la voce sono predominanti, l’elettronica strategicamente si posiziona a contorno o si rende protagonista di alcune parti (a comparsa o in coda) che possono assumere i contorni noir degli XX o i beat sincopati dei Mount Kimbie, fino a toccare le librerie tipiche della folktronica. Così configurato lo scacchiere presenta pedine interessanti: in Youthern fanno capolino l’intimità di un The Weeknd ma anche i cori estatici delle ballad country del mainstream di questo biennio (che ritroviamo un po’ bolse in Kowloon Bridge), Lions On The Beach (debutto assoluto del duo originariamente pubblicato nel 2011 su una compila R&S, IOTDXI) mescola chitarre dream-wave a un tappeto 2 step dalle parti di Burial, un paio di lentoni come Bastion e Dream si calano con dignità nei blakeismi tanto in scrittura quanto negli spazi sonici, con tanto di strofe tra solitudine e risciacqui bass (e ancora Jamie XX o Mount Kimbie come riferimenti). L’episodio più toccante rimane la wave soul per beat spezzati Wonderlust (il singolo che ha anticipato l’album), il difetto più evidente risiede nel calore un po’ scontato di alcune soluzioni canore. Differente ma non distinto - e sempre in zona Blake, quest’ultimo presente in una traccia (Knives) ma anche scomposto e filtrato in numerose altre - è l’esordio dell’amico, oltre che chitarrista live del musicista, McAndrews, dove a farla da

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pregio di rappresentare per il neofita una buona introduzione, quantomeno capace di dare una vaga idea sulla differenziazione stilistica ma anche sulle costanti formali alla base del krautrock tedesco. Con in più il valore aggiunto di ripescare, nel caso specifico di questa seconda puntata, piccole perle come la Emphasis di Harald Grosskopf, gli Amon Düül II della blues-beatlesiana A Morning Excuse, la bella escursione folk-etnica dei Bröselmaschine in Nossa Bova, la psichedelia dei Gila di In A Sacred Manner o il motorik morbido fatto di synth del Wolfgang Riechmann di Himmelblau. Forse ancora più interessante, in termini di riscoperta, un secondo CD in cui si distinguono il programming serrato e i toni spacey degli You di Electric Day, il beat selvaggio e desertico dei Niagara di Gibli, i toni marziali, ipnotici e moroderiani della Der Prophet di Rolf Trostel, il rock quasi hendrixiano della China degli Electric Sandwich e la techno in naftalina di Asmus Tietchens di Zeebrugge. Dimostrazione di come il coraggio espressivo e l’originalità della Germania musicale del dopoguerra non fossero prerogativa solo dei grossi nomi, ma anche delle seconde file e di figliocci che ne raccolsero pazientemente eredità e meravigliosa follia. (6.8/10)


Genere: Acid, house Seguito della seminale raccolta Acid: Can You Jack? recentemente ristampata e contenente alcuni classiconi house come Baby Wants To Ride (Frankie Knuckles featuring Jamie Principle), I’ve Lost Control (Sleezy D) e il primo pezzo acid in assoluto ovvero Acid Tracks di Phuture, Acid: Mysterons Invade The Jackin’ Zone intende ritornare sui luoghi del delitto, a Chicago, per riscoprire ulteriori angolazioni e innesti del mefitico suono spremuto dalla Roland 303 nei modi e nelle modalità del fermento house tra il 1984 e il 1995. Se la prima puntata si era spinta fino alla metà dei Novanta, qui il cerchio si restringe da una parte al 1986, ovvero qualche mese prima che Ron Hardy, dj del mitico Music Box, sganciasse la bomba targata Phuture, e dall’altro capo al 1993, anno anch’esso cruciale per via della conclamata frantumazione in nicchie e sottonicchie del mercato elettronico innescato dalle rivoluzioni di Chicago, Detroit e New York. Meno seminale del primo volume, corredato da un bel libretto per mano di Tim Lawrence (quello di Love Saves The Day, A History of American Dance Music Culture 1970 1979 e della biografia di Arthur Russell) e dalla prototipica presenza di iconici trip quali Acid Tracks, Phuture Jacks e This Is Acid, Mysterons Invade The Jackin’ Zone è corredato da un fumetto fantascentifico per mano di Paolo Parisi che metaforicamente racconta l’invasione aliena del lisergico sound a Chi-town (ovvero la Windy City) per mano di fantomatici Mysteron alien sound lords, e racconta una storia fatta di alcuni classici - che più classici non si può - della house di Chicago con e senza acid (Can You Feel It, Washing Machine, No Way Back) con alcune proverbiali rare track. Più che lo stereotipico sound che dà il nome alla compila (il bordone Slam di Phuture, le The Juice e Ecstacy di Mr Fingers, senza dimenticarci di una chicca come World Turns Around di Kool Ma Kool), a colpire sono take bislacche come Strenght Of Bass di Devotion, dove l’acid è ficcata nel HH ghetto e imbottita di squadre tech, gli hi hat sporchissimi, grezzissimi ma efficaci di Love Track infilati nel gorgo intestinale di 303 da parte di Acid Wash, ovvero Juan Lopez, resident nella città allo Smart Bar con Mark Farina a fine ‘80, dj firmatario anche della stereotipica (e angolare) colata lavica a freddo sulla classica, scoppiettante, marcetta alla 909 dell’opener Hallucinate. E continuando di dettagli di culto è senz’altro nel giro experimental house, sviluppatosi in convergenze e autonomia rispetto al segmento acid, a cui bisogna prestare l’orecchio. Prendi il tocco di K-Alexi, ovvero Keith Alexi Shelby, nel trio Risque Rythum Team, con The Jackin’ Zone, la traccia da cui la compila prende ispirazione e (non a caso) dove radici funk via Prince - gli originali dei campanacci traghettati nei Duemila dalla DFA e un loop vocale filtrato - sono condotti per mano da uno spettrale fantasma sintetico (il presagio acid). Oppure il sermone I Believe di Black Man, A Black Man and Another Black Man, crescendo di leggera suspance e sexyblackness di quel DJ Farley Jackmaster Funk che è anche il The Housemaster Boyz della più nota - e qui presente - sci-fictioniana House Nation (che fa il paio con l’altra proto-idm take di Ricky Jones,The Choice Of A New Generation del 1987). Da notare anche gli aspetti più artigianali - dell’uomo sulla macchina viva - delle produzioni della

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AA. VV. - Acid: Mysterons Invade The Jackin’ Zone (Soul Jazz Records, Maggio 2013)


compila, in negativo, ad esempio, il volume e l’esecuzione sommaria della linea synth della I Can’t Understand di Pleasure Zone (tuttavia goveranta da un solidissimo funk groove), oppure, in totale positività, la 303 torturata da Mr Fingers nell’emblematica (fin dal titolo) Juice. Due facce di una medaglia del fabbricare musica da ballo in economia che, nei minimi termini, era in grado di ottenere i massimi risultati. Dove cioè i limiti tecnici diventano strumenti per raggiungere il fine più ambito, far ballare per un minutaggio infinito con una nota e mezzo (151 di Armando docet). Come dar torto alla metafora Soul Jazz? L’acid, lungo quasi trent’anni di permanenza sul pianeta terra, è stato un vero e proprio virus alieno. Ha corrotto irrimedibilmente generazioni di producer in tutto il mondo. Senza di lui nessuna Summer Of Love, Madchester o idm music (da Warp a Planet Mu) sarebbe stata come la conosciamo. Senza contare che non avremmo avuto la serie Analord di AFX o tante produzioni firmate Luke Vibert, Last Step, Squarepusher ecc. ecc. (7.3/10)

padrone sono cut up di voci, fluttuanti wonky beat (anche qui in abbondante debito verso la folktronica) e un filo di post-rock, tag omnia che, dall’Islanda (il singolo Autumn che ricorda tanto Mùm quanto Mice Parade) al Canada (la R&S parla di Stars Of The Lid e Godspeed You! Black Emperor ma difficilmente ne troverete traccia) possiamo spenderci anche per i Cloud Boat. Per farla breve - e con un pizzico d’ironia - Airhead, chitarrista/producer ammanicatissimo che ha collaborato con Brian Eno e si è fatto conoscere già nel 2010 con alcune produzioni per la Brainmath, porta Blake a Los Angeles a farsi una fumata d’oppio (Milkola Bottle, Pyramid Lake), cerca di fidanzarlo con l’incantevole fatina di Reykjavík di turno (vedi gli espisodi con i feat. femminili come Milkola Bottle), per spingerlo, alla bisogna, in pista (la spugnosa techno sul filo di Caribou e Four Tet di Fault Line). Il risultato è volutamente laboratoriale con svariati spunti interessanti e momenti d’incanto. Il clou, guarda caso, è il pezzo con il solito James, la conclusiva Knifes, molto 60s lounge angolata jazz. (6.8/10) Edoardo Bridda

Alessio Lega - Mala Testa (Obst und Gemuse, Marzo 2013) Genere: canzone d’autore Alessio Lega torna con un album di inediti a distanza di nove anni da quel Resistenza e amore che vinse la Targa Tenco nel 2004 come miglior album d’esordio. Nel frattempo, il più classicamente impegnato tra i cantautori italiani degli anni Zero non è stato con le mani in mano: ha tradotto in italiano i testi dei grandi della canzone francese, ha scritto un libro a quattro mani con Ascanio Celestini e ha lavorato anche per il teatro. Lega è bravo, e in questo MalaTesta raccoglie ancora una volta, mettendole a punto, tutte le migliori capacità del cantautore folk - pop - rock tradizionale, unendo le spinte più intime a quelle più strettamente connesse al racconto storico e sociopolitico e rimanendo in qualche modo legato alla formula “resistenza e amore” che, oltre ad essere il titolo dell’album del 2004, si fa facilmente manifesto dei suoi intenti autoriali. Il disco si struttura in tre parti distinte: “Tornare a bomba”, “Romanzo di formazione” e “Le storie cantate”, in tutto diciotto brani. La sensazione è che Lega abbia voluto rischiare e condensare

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Giulia Cavaliere

Austra - Olympia (Domino, Maggio 2013) Genere: art pop/club “This is the album where we discovered rhythm”. Katie Stelmanis sembra avere le idee chiare sul secondo capitolo dei suoi Austra, disco intitolato Olympia in onore della figlia dei due proprietari dello studio Keyclub (Michigan) nata durante le sessioni di registrazione dell’album. Chi ha apprezzato l’esordio Feel It Break - per chi scrive, uno dei debutti più compatti e con-

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tagiosi del 2011 - avrà sicuramente intuito che il “rhythm” dell’affermazione precedente non fa riferimento alla definizione più ampia di ritmo, ma a concetti più specifici: brani come Beat and The Pulse (l’incredibile biglietto da visita del 2010) o The Villain erano, difatti, già la quintessenza delle beat-driven tracks dall’alto contenuto ritmico. Ad essere cambiato è invece l’approccio al ritmo: l’ossessività dark e synthetica di chiara matrice Eighties - presente peraltro nei Trust, side-project della batterista Maya Postepski - ha lasciato posto ad una visione più aperta alle contaminazioni dancey (leggasi principalmente house music), conseguenza di un processo realizzativo maggiormente distribuito tra le sei menti del gruppo di Toronto. Il risultato di questo cambiamento di rotta è, a conti fatti, meno evocativo e meno adatto alle inflessioni operistiche del timbro di Katie (vagamente Giuni Russo). Annie (Oh muse, you) ne è l’emblema: le club-vibes sono decisamente azzeccate, ma la linea melodica non riesce a chiudere completamente il cerchio. Troviamo divagazioni da dance-floor più ricercato anche in Forgive Me groove di basso tutt’altro che gelido - o in Painful Like (presentata già lo scorso anno), ma in generale si nota una maggiore attenzione dedicata al comparto strumentale rispetto a Feel It Break, ai tempi caratterizzato da electrobeats assolutamente funzionali, ma abbastanza didattici. Con il rinnovato aiuto, in fase di produzione, di Mike Haliechuk (chitarrista dei Fucked Up), Olympia fatica a trovare i giri giusti: Sleep (piuttosto fiacca, ritornello a parte) abusa di soluzioni vocali già sentite, Fire e We Become si disperdono senza incidere come dovrebbero e neanche Home, pur essendo un buon singolo, riesce ad avere l’impatto suggestivo dei suoi predecessori. Le introspettive tematiche Katie-centriche escono meglio nei passaggi piu atmosferici - la breve I Don’t Care (I’m a Man) o l’intro piano+voce di You Changed My Life - e non sorprende che, in

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tutte le diverse anime che hanno accompagnato la sua scrittura negli ultimi nove anni: si va da una collaborazione con Paolo Pietrangeli in Canzoni da amare, passando per la memoria di Giovanna Daffini e le sue mondine in Risaie e le canzoni d’amore, intime, (i baci, la romanesca Dormi dormi, Insulina) fino al racconto di storie di personaggi storici (Matteotti, Spartaco e Frizullo). Se musicalmente abbiamo di fronte un maestro del nuovo cantautorato italiano capace di unire l’eredità di Ivano Fossati, quella di Fabrizio De André, ma pure la contemporaneità di un Vinicio Capossela, i testi - che pure risultano ricchissimi, stratificati, complessi, soprattutto perchè legati a vicende e personaggi della Storia più o meno famosi (La strage di Piazza della Loggia, la storia di Dino Frisullo) e cantati in una classicheggiante forma-racconto (che nella canzone italiana “indie” ha ceduto invece facilmente il passo alla formula strofa brevissima - ritornello, nanananà) - non sono sempre al massimo. In particolare va notato come Lega risulti ben più capace, ispirato e dotato a livello di scrittura, misurandosi con la Storia che non, invece, con la canzone d’amore e del privato. Verrebbe da dirgli di insistere a battere il terreno a lui evidentemente più congeniale, nel quale oggi è difficile trovare altri grandi talenti. (7/10)


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Riccardo Zagaglia

Bass Drum Of Death - Bass Drum Of Death (Fat Possum, Giugno 2013) Genere: Garage psichedelico Aver anticipato l’album con un brano come Shattered Me, con il suo sozzume ramonesiano e la qualità audio inesistente, è stata una scelta

controversa. Non che i Bass Drum Of Death puntino a sovvertire i paradigmi del rock, ma qui dentro c’è di più e c’è di meglio. Non a livello di produzione, s’intende. Immaginare che John Barrett impari a mettere le proprie canzoni in bella calligrafia, è come pretendere che una scimmia si faccia il bidet. Qualche differenza rispetto al precedente GB City, però, la si percepisce subito. Tanto per cominciare, pare che l’ex impiegato della Fat Possum, abbia deciso di prendersi carico del progetto in prima persona. Così nella copertina si fa ritrarre sa solo, con i capelli lavati di fresco e un’espressione un pò meno stonata di quella che campeggiava sulla precedente cover. Poi certo, fai partire I Wanna Be Forgotten e ci ritrovi il solito ignorantissimo assalto garage pop, con un occhio alla tradizione americana più negletta e uno a quella del ‘77 britannico. Quando vuole, Barrett sa sciorinare anthem appiccicosissimi su velocità da brivido e i BDOD

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fin dei conti, gli Austra convincano maggiormente quando tornano a sfoggiare il mix di memorie anni ‘80 e melodie catchy degli esordi (Reconcile). Quello di Olympia è un coraggioso step evolutivo (e siamo sicuri che in sede live le teatrali movenze di Katie e delle coriste Sari e Romy Lightman ne trarranno beneficio) per il quale, purtroppo, si è scelto di sacrificare alcuni aspetti che erano tra i punti di forza di una proposta musicale che comunque si conferma essere degna di nota. (6.6/10)


Genere: electro-pop Non sempre l’industria discografica è in grado di indovinare le ricette giuste per il (ri)lancio degli artisti o di interpretare le loro intenzioni: un esempio clamoroso fu quello di una debuttante Kate Bush che, nel 1978, puntò con lungimiranza su Wuthering Heights mentre la EMI si era fissata su James And The Cold Gun. Ad Alison Moyet è accaduto più volte, in oltre trent’anni nel music business, di essere in disaccordo con gli A&R manager e di fare poi di testa propria, con risultati lusinghieri: il suo Hometime, nel 2002, entrò nella Top 20 inglese nonostante una scarsa promozione, e si trattava di un disco rimasto per anni nel freezer di una riluttante Sony che non ne scorgeva un potenziale commerciale soddisfacente. Ed è successo ancora, quando lo scorso anno i colloqui con le case discografiche chiedevano rassicuranti album di cover (l’artista di Basildon ne ha già pubblicato uno, Voice) da promuovere grazie alla partecipazione a un reality show. Sicura della qualità del nuovo materiale, Alison disse un secco “no” e si mise al lavoro con Guy Sigsworth, già nei Frou Frou con Imogen Heap e in seguito in cabina di regia per illustri colleghi come Seal, Bjork, David Sylvian, Madonna e Alanis Morissette. Se non fosse per la felice unione di strizzate d’occhio al trip hop (merito, al tempo, degli Insects), guitar-pop e inserti orchestrali di Hometime, potremmo affermare che the minutes sia il disco più elettronico della Moyet dai tempi di You And Me Both, l’ultimo capitolo della breve ma intensa parentesi con Vince Clarke negli Yazoo (eseguito dal vivo solo venticinque anni dopo durante il tour Reconnected). C’è molto di più, in queste nuove undici canzoni che mettono in luce un approccio maturo al songwriting: una fusione perfetta di tutti gli elementi che hanno reso Alison una delle vocalist inglesi più riconoscibili insieme ad Annie Lennox e che dimostrano, ancora una volta, che si può seguire un percorso artistico coerente, pur con la consapevolezza che le mode cambiano e che si può abbracciare il nuovo senza forzature. L’artista è perfettamente a suo agio con le contaminazioni dubstep di Horizon Flame, nell’ammiccante electro di Right As Rain dal retrogusto Basement Jaxx, nell’ariosa melodia a vele spiegate (ma con una voce mai così ben dosata) di When I Was Your Girl e nel fascino tetro e cinematico di Remind Yourself, immaginario incontro tra Dusty Springfield e i Massive Attack di Mezzanine. C’è spazio anche per rivisitare il passato, con una Filigree che è quanto di più vicino al repertorio degli Yazoo, mentre A Place To Stay è una nuova This House pronta per il terzo millennio. Fatta eccezione per due episodi in scaletta che convincono poco - Love Reign Supreme è un synthpop sotto steroidi sulla falsariga del più recente full-length dei Goldfrapp, Rung By The Tide indulge in certe atmosfere gotiche vicine alla Siouxsie più annoiata -, il disco è il risultato di una partnership artistica particolarmente felice. Non era per nulla scontato, considerando gli importanti co-autori del passato (da Clarke a Dave Stewart, da Pete Glenister a Eg White), ma l’estrema versatilità di Sigsworth - che, pur giocando con synth, loop ed effetti sonori da parecchio tempo, ha una solida preparazione classica - si è rivelata l’ingrediente che mancava, per esempio, all’incerto The Turn del 2007. the minutes è un album che vive nel presente di un’artista che, nei testi, si guarda indietro con coraggio e senza rimorsi, magari tornando alla ragazza esuberante che era ieri, che ambiva a esibirsi col suo

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Alison Moyet - the minutes (Cooking Vinyl UK, Maggio 2013)


gruppo punk e invece si ritrovò in hit parade e sul palco di Top Of The Pops. Alison ha fatto pace con se stessa e non ha perso la voglia di mettersi in gioco: tutto questo rende the minutes uno dei suoi migliori lavori, tutt’altro che passatista, in grado di spiazzare i fan della prima ora - che probabilmente si aspettavano un ritorno al pop facile di Raindancing - e i loro figli adolescenti. Not just ‘another’ page in her history. (7.3/10)

assumono le sembianze dei Black Lips col turbo inserito. Più interessante è vedere cosa succede quando i ritmi si placano e viene fuori la lezione dei 60s più speziati. E’ qui che emergono le stramberie freakbeat di Fines Lines, con i sui break in puro 60s vaudeville. Quando sul pigro riff di Such a Bore, Barrett gioca con la pedaliera, la sensazione è quella di stare sulla spiaggia strafatti in attesa della grande onda. Certo, l’assalto alla Damned di Bad Reputation ha un certo fascino, ma la lezione psichedelica impartita con Faces of the Wind, quando il nostro opera per sottrazione e si abbandona alla suggestione di effetti e riverberi, mostra come anche negli angusti confini creativi dei Bass Drums Of Death ci sia spazio per la maturazione. (6.8/10) Diego Ballani

Beaches - She Beats (, Maggio 2013) Genere: psy Sempre più palpabile la forte presenza di allfemale band in un 2013 che, dopo una partenza incerta, sta iniziando a regalare parecchie soddisfazioni. A testimoniare la vasta copertura geografica - oltre che stilistica - l’Inghilterra propone le lanciatissime (quanto valide) Savages, gli USA rispondono con le Haim e il duo Deap Vally, mentre Italia e Australia si fanno largo rispettivamente con - escludendo l’attesissimo ritorno

delle Lollipop - le Blackie Drago e Beaches. Formatesi a Melbourne nel 2007, le cinque Beaches (Ali, Al, Antonia, Karla e Gill) hanno pubblicato l’omonimo debutto nel 2008 e il quattro tracce Eternal Spheres nel 2010, ma solo ora sembrano poter uscire dai confini locali, grazie anche alle recenti attenzioni di webzine internazionali riservate all’ultima fatica She Beats. Ulteriore conferma dell’ottimo stato di salute della scena psy australiana (Tame Impala su tutti), She Beats parte subito in quinta con una Out Of Mind che veleggia a metà tra l’acidume psichedelico di stampo californiano e alcune sfuriate shoegaze di fine anni Ottanta: voci trascinanti e perennemente effettate, pulsante sezione ritmica e stratificazioni chitarristiche in grado di riempire il suono. La strumentale Keep On Breaking Through materializza le allucinazioni desertiche dei primi ‘70, periodo storico che devono aver studiato con attenzione dato che, come i non troppo distanti TOY, le cinque ragazze dimostrano in più di una occasione di essere preparate alchimiste psykraute nelle dilatazioni cosmiche che sono in grado di ricreare (Distance). Lo zampino, in due tracce, di mister Michael Rother (NEU!) ovviamente aiuta. Analizzando il tutto con la lente di ingrandimento si scoprono poi dettagli per certi versi inediti: la bassline post-punk di Dune, il tiro rock - assolo compreso - dell’orecchiabile Send Them Away, il lento mantra velvetiano di Veda e

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Alessandro Liccardo


Genere: nu folktronica Fin dalla sua prima traccia nel 2009, quella Quitters Raga che Pitchfork apprezzò e innalzò a Best New Track quell’anno, Gold Panda ha dimostrato, in egual misura, passione per la musica e per il viaggio. Il brano, cortissimo, univa ritmi continuum post-Dilla a un tipico trattamento chopped-up delle voci (diffuso a tappeto in quei mesi, peraltro), e la traccia originale - un gioioso raga indiano - veniva così triturata, anche brutalmente, senza che colori e freschezza venissero meno. Il carattere agreste e nomade a tutto tondo della produzione del producer dell’Essex si è poi osservato in Before (2009) e in un esordio tutt’altro che trascurabile, Lucky Shiner, contenente, oltre alle lallazioni del frammento sonoro, sia ampi legami con la folktronica “idmmata” lato Four Tet (intimismo, sample caserecci, ecc.) sia un portato di HH beat che dagli allora esordienti Mount Kimbie (in comune anche certi trattamenti della seicorde) portava ai 4/4 del dancefloor. In tutta la costellazione di gusto e influenze, una matrice di forte continuità è sicuramente stata l’impronta di Kieran Habden ma l’intingolo, generalmente ovattato, lussuoso nel sampling (vedi alla voce Luke Vibert) ma dai looping e skipping a contrasto rapidi e trance induttivi, ci porta anche dalle parti dei The Field, altra modalità bazzicata ed evidente in Companion (Ghostly International), una compila dei primi tre eppì dell’uomo, ovvero la citata Before, Miyamae e, appunto, quella Quitter’s Raga contenente la famosa traccia omonima. Per Edwin finora la strada è stata tutta in crescendo - live la gente lo adora e anche in Italia ha già un piccolo seguito - ed è un piacere sentirne un’ulteriore conferma in questo secondo album che, aggiungendo maggior dettaglio e circostanziando l’elemento etnico (angolati pertanto già a partire da un ottimo singolo come Mountain/Financial District del 2012), regala una solidissima tracklist ben anticipata dal singolo Brazil (ideato a Sao Paolo), ideale apertura a un album caratterizzato anche da certa pulizia deutch nei beat e da un’inedita consapevolezza “in divenire” del sound (peraltro da Edwin stesso ammessa). Pur prendendo casa a Berlino, le nuove tracce sono state assemblate durante numerosi viaggi e, sempre a detta di Panda, sono caratterizzate da un mood urbano che, in alcuni episodi, ha assorbito le preoccupazioni riguardo allo stato di salute psicologica ed economica degli abitanti di alcune città visitate. Niente vocine nel tritacarne per lui in questo episodio, dunque, ma nulla che non possa sposarsi con certa balearica house (o percussivismo brasilero) già trattato nel recente, e anch’esso più che valido, Trust EP. Half Of Where You Live è una stanza di specchi che luccicano in un prisma di quartomondismi di husselliana memoria: i vibrafoni e la gestione delicata delle viste à la Four Tet di An English House, i calibrati ambienti noisey tech alla Deepchord e il refrain in ricordo rave di Junk City II (dedicato alla filmografia del regista Takashi Miike), il gamelan e la minimalismo à la Caribou (ma indietro anche Tortoise) di My Father In Hong Kong 1961, i trapani ritmici soft tardo Nineties alla Aphex Twin (The Most Livable City) formano un ammaliante diario di viaggio dal linguaggio sonico riconoscibile nelle fonti ma pienamente autosufficiente nel piegare forme e lemmi verso una personale poetica, che,

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Gold Panda - Half Of Where You Live (Ghostly International, Giugno 2013)


come si diceva, è gentile nei modi ma pungente nei loop e nei contrappunti ritmici (un esempio chiave: Community, ispirata dalle differenze culturali nella popolazione londinese). L’atmosfera di viaggio estiva e colorata, per molti versi, ci riporta alla folktronica di inizio duemila, agli amati campanellini dei noughties, alle sue modalità casalinghe, fragilità e squarci vivi sulla materia emozionale. Ma c’è anche una consapevolezza elettronica odierna fatta di minimalismi di rimbalzo da techno, drone music e compagine hauntologica (We Work Nights), tutto giostrato con mano ferma e senso del groove. Per dirla con Edwin “you just you find your groove and settle into a sound and realize you only really need to please yourself”. (7.3/10)

gli intrecci vocali sbilenchi di Distance (le Shaggs sarebbero orgogliose di loro) e Weather, quest’ultima veramente multiforme e avvolgente. L’album, prodotto da Jack Farley (già dietro ai conterranei Twerps), sembra essere un gustoso antipasto nell’attesa del piatto forte: portavoci di un credo definito ma comunque lasciato libero di evolvere, le Beaches hanno i mezzi e le qualità per poter puntare ancora più in alto. In She Beats, infatti, la resa è già di prim’ordine, manca giusto il colpo di genio a livello di profondità compositiva e una produzione capace di guardare oltre alla trip music. Magari il nome giusto potrebbe essere quel Kevin Parker (Tame Impala) che ha già cromato l’esordio lungo della sua musa Melody’s Echo Chamber. (6.8/10) Riccardo Zagaglia

Beady Eye - BE (Columbia Records, Giugno 2013) Genere: brit-retro La prima sfida post-Oasis tra i due fratelli Gallagher l’ha vinta sicuramente Noel, sia sul lato quantitativo - in Inghilterra circa 750.000 le copie vendute da Noel Gallagher’s High Flying Birds contro le poco meno di 200.000 di Different Gear, Still Speeding - che sul lato qualitativo: Noel era

la mente dietro a buona parte dei successi targati Oasis e, non a caso, il debutto dei Beady Eye era un lavoro in cui un paio di brani azzeccati non riuscivano a controbilanciare carenze a livello di songwriting, autocitazionismo esasperato e idee musicali decisamente obsolete. Dalla prima release a nome Beady Eye ad oggi, Liam Gallagher è ovviamente rimasto sulla cresta dell’onda grazie alle solite e frivole notizie sul rapporto con il fratello (compreso un ipotetico comeback della band di Wonderwall), provocazioni fini a se stesse di dubbio interesse e al consueto tran-tran promozionale, spesso di cattivo auspicio. Il sophomore album intitolato BE porta invece qualche interessante novità, non tanto nell’inesistente apporto di un Jay Mehler (Kasabian) subentrato a Jeff Wootton in fase post-realizzazione, quanto nel cambio in cabina di regia tra Steve Lillywhite e il più eclettico Dave Sitek (TV On The Radio), fresco del poco riuscito Mosquito dei Yeah Yeah Yeahs. Se infatti l’album d’esordio era settato più sullo “Still” che sul “Different”, BE sotto alcuni punti di vista può essere visto come un tentativo - riuscito - di distaccarsi in parte dall’universo Oasis. Scritta a due mani da Gallagher e Archer, Flick of the Finger è trama 100% british, ma - oltre agli

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Riccardo Zagaglia

Bibio - Silver Wilkinson (Warp Records, Maggio 2013) Genere: folktronica Per Bibio / Stephen James Wilkinson conta più il contesto che il testo, verrebbe da pensare ascoltando Silver Wilkinson, settima prova sulla lunga distanza. E il titolo - una personale silver age? - non fa che rendere naturale uno sguardo in prospettiva sull’attività finora svolta. All’inizio, sulla coda della folktronica di inizio ‘00s, Bibio era l’astratto vignettista folktronico (Fi, Mush, 2005) tutto echo chamber e registrazioni in cassetta stop & play, perfetto per il posiziona-

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mento sulle nascenti hauntologiche tendenze britanniche della Ghost Box. Da li si è sviluppato un artigianato che ha fatto della stratificazione la propria cifra stilistica: da una chitarra, spesso in primo piano, registrata, “layerata” nel multitraccia, arricchita di loop, field recording ed effetti, hanno preso vita paesaggi o brevi storie riconducibili a qualche stereotipica landa britannica, tra pioggerelline e foschie all’alba (Hand Cranked, 2006, Vignetting The compost, 2009). Il segreto della svolta del 2009 e del passaggio dalla Mush alla Warp dell’amico Clark e dei venerati Boards Of Canada, è consistito nell’aggiungere i beat e i colori del mondo J Dilla a quelle campagne e farci sembrare Ambivalence Avenue come la cosa più naturale al mondo. Nell’anno del fermento wonky, al di qua come al di là dell’Atlantico (da FlyLo a Harmonic 313), l’album rappresenta un perfetto esempio di freschezza e timing e sono tutti d’accordo nel ritrovarci ottimi incastri di funk e HH, idm aggiornata al looping chitarristico di The Campfire Headphase (uscito lo stesso anno in cui Bibio pubblicava l’esordio Fi) e un’agreste - appena abbozzata - scrittura brit folk di lungo corso che rappresenta, anche a questo punto, la partenza e l’arrivo del Nostro. Il sequel sempre su Warp, Mind Bokeh, spinge sull’acceleratore massimalista: Bibio attacca sapori ‘80s, sostituisce il prefisso ghost con glo e affolla di lustrini la già colorata tavolozza con discreti risultati ed implicazioni importanti: il bilanciamento tra contesto e testo si traduce in uno spostamento di fuoco del secondo, ovvero da una modalità folk a un’appetiblità pop, rimandando così a un momento successivo un dilemma mai completamente risolto tra una scrittura non pienamente autosufficiente e una produzione di beat non ragionata in termini prospettici. Con Silver Wilkinson la questione si pone proprio in questi termini: senza novità nella formula e, anzi, riavvolgendo il nastro al calore folky di Am-

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ottoni - si scorgono tessiture psichedeliche che prendono vita ancora meglio nella tensione malinconica della successiva e oscura Soul Love o nell’uptempo di una Shine A Light tenuta in piedi principalmente da ritmo e scelte sonore azzeccate. Una maggiore acidità made in UK (Primal Scream, direbbe qualcuno) e una maggiore attenzione a livello strumentale (varietà tra fiati e inserti di synth) compensano la rivedibile performance vocale di Liam e, se perfino l’inutilità degli abusati riffacci - che ormai non impressionano più nessuno - di Face The Crowd o gli standard delle ballad semiacustiche (Soon Come Tomorrow e la “dedica” a Noel ironicamente intitolata Don’t Brother Me) riescono a superare la barriera della mediocrità, lo si deve anche e soprattutto all’ottimo lavoro di Sitek. Tra i fan degli Oasis - perché questo rimane a grandi linee il target, nonostante tutto - c’è chi ne tesserà lodi incredbili e chi lo denigrerà in quanto “strano”. Tipico tifo gallagheriano a parte, anche i passaggi meno convincenti - la banale Iz Rite e l’ordinario rock di I’m Just Saying - non minano un lavoro che, pur non destinato a lasciare traccia in un 2013 musicale che guarda altrove, riesce comunque a dare un senso al progetto Beady Eye. (6.4/10)


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Edoardo Bridda

Bicep - Stash (Aus Music, Aprile 2013) Genere: House “Pompati” ovunque nella blogosfera e dai siti dance specializzati grazie (soprattutto?) alla popolarità che il loro blog retromaniaco Feel My Bicep ha raggiunto negli ultimi anni, i Bicep, ovvero Andrew Ferguson e Matthew McBriar - duo di producer e dj originario di Belfast ora di stanza a Londra - non hanno mai nascosto l’enorme devozione per l’house di New York, la garage del New Jersey e, naturalmente, la Trax Records di Chicago. Ogni uscita dell’indaffaratissima coppia si è quindi settata nel continuum del genere di riferimento, magari con qualche flavour techno à la Derrick May, sempre con gusto analogico e dispiego di Roland, tagli ambient, umbratilità, deepness da classiche nottate early 90s e così via. Il tutto con rispetto e senza esagerare, cercando di coltivare il bliss in tracce lunghe (313 pubblica-

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DOMENICA 7 LUGLIO

DOMENICA 16 GIUGNO

VENERDÌ 19 LUGLIO

MARTEDÌ 18 GIUGNO

LUNEDÌ 22 LUGLIO

NEFFA

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bivalence sedato dalle precedente produzioni su Mush, magari influenzato dall’Iradephic di Clark (che lui stesso - a ben vedere - ha influenzato sul lato chitarristico), troviamo un Stephen James Wilkinson arroccato su una formula stanca ma non stancante, che ha la forza della coerenza ma senz’altro mostra i segni del tempo. Le voci “instagrammate” di Dye The Water Green, i riscacqui di Mirroring All, il concentrato r’n’b a base di Jackson 5 di You, gli interessanti passagi goth (Wulf ) che meriterebbero una separata sede (e trattazione), formano un mosaico mai così bisognoso di una solida base in scrittura (À Tout à L’heure). Dopo un bagno nelle mode, Bibio cerca la complicità della nicchia per ritrovare se stesso o prendere fiato, ma quello che ottiene è un soltanto un ripiego. (6.5/10)

CAT POWER

ASCANIO CELESTINI MAX GAZZÈ ROY PACI CORLEONE JONATHAN WILSON VENERDÌ 28 GIUGNO

NADA

PATTI SMITH

GIOVEDÌ 4 LUGLIO

SABATO 27 LUGLIO

SABATO 6 LUGLIO

SABATO 3 AGOSTO

PERTURBAZIONE Via Granelli 1 Sesto San Giovanni www.carroponte.org

GIOVEDÌ 25 LUGLIO

GLEN HANSARD

DEVENDRA BANHART

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TONINO CAROTONE


Genere: psych-garage-dance Il debutto vero di Holden dopo The Idiots Are Winning doveva apparire già nel 2006, all’indomani di quella compila stupefacente. È arrivato sei anni e mezzo dopo, come se fosse sempre andato in secondo piano rispetto ad altri interessi. È arrivato con il rischio che si fosse persa la freschezza possibile, oltre il tempo massimo degli statement già affermati a metà ‘00. Niente di tutto questo. “The cosmic couriers are winning”, da almeno quarant’anni. Mossa semplice e sensazionale, quella di salire in cielo con una cadenza robotica, e grande l’efficacia sia per chi la vive da dentro, sia per chi è fuori. Come la cassa dritta e prima di essa, non a caso. Dunque sentire - in Rannoch Dawn, prima traccia - un filtro-firma alla Lumpette essere subito sovrastato da un motore tedesco produce un détournement che lascia interdetti. Così Sky Burial, davvero una traccia imprendibile: organo, campioni concreti per lo scheletro ritmico, straniamento. Così lasciarsi andare a The Illuminations, volo cosmico su un tappeto di synth, e meditare poi sulla rarefazione di Inter-City 125. Altrettanto vale per la motorizzazione spaziale di Delabole, che va dietro a quella corsa celeste che i tedeschi hanno sempre cercato. Eccetera eccetera. “The psychedelia is winning”, da quando è iniziato il rock, anzi da quando si è data importanza all’amplificazione di uno strumento, alla sua capacità trasformativa oltre che degenerativa. Lì dietro l’angolo stavano costruendo la città elettronica. Ma il centro storico è la psichedelia. Asserto falsificabile ma pure dimostrabile dentro la parabola di The Inheritors. Anche a parole: James Holden, poco più di un mese prima dell’uscita del disco, diciamo qualche giorno prima della distribuzione promozionale agli addetti ai lavori, si domandava (retoricamente): “esiste già un genere chiamato ‘psychedelic-synthgarage’?” e si rispondeva: “ora sì” Ci sono modi migliori per dirlo, forse, ma le tre parole chiave dell’espressione di James hanno un peso narrativo enorme nel racconto della storia di The Inheritors. Sporcizia, trip, tastiere. Non per strizzare occhi a chi sta seduto sul divano (vedi Random Access Memories), non per fare il memoriale in Piazza Venezia, pure se a volte anche Holden sembra guardare alla adult oriented dance music, pur mantenendo grandi distanze dall’easy listening dove i Daft amano sguazzare. Seven Stars fa fare un bagno nel Gange più lurido (garage) a un Klaus Shulze (synth) che sta eseguendo un carillon. Il misticismo psichedelico di Gone Feral evita la naivite piccolo borghese per concederci un trip con tutti i crismi e una cadenza fuori dalle battute tradizionali. Eccetera eccetera. Non ci sono sofismi, perché, con leggerezza calviniana, quando Holden fa ricerca, toglie peso alla sperimentazione. Solo una persona che la sa mantenere - la leggerezza - può gestire un locale dove la gente si diverte, e non ascolta “ciò che la gente vuole sentire”, come direbbe Costanzo, il più grande bluff della comunicazione di massa italiana. Solo una persona che si diverte cercando non si appiattisce su calcoli strategici circa il gusto del suo pubblico. Holden riprende suoni da The Idiots Are Winning, ma chi vince qui non è l’idiota che si ritrova di nuovo accessibile l’intelligent dance music, ma il robotico che gode dei motorik e dell’alternanza tra quattro

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James Holden - The Inheritors (Border Community, Giugno 2013)


quarti e l’incedere da Klaus Dinger, tra i trucchi per far salire la scimmia house e l’ipnosi controllata della psichedelia. “The Border Community is winning” prima - tramite il suo capo, James - ci ha dato coordinate (a volte mal volute, mal apprese come a loro volta intellettualoidi) per andare oltre l’IDM, dicendoci dopo la supposta intelligenza non c’è solo idiozia, ma intanto il corpo; ora ripesca il capo - James, al primo disco reale - per dimostrare come approcciare un dopo Four Tet, Caribou, (The Caterpillar’s Intervention), e rilanciare la loro opera di traghettamento dal post- all’oggi con ipotesi per domani. Poteva essere più asciutto, più statuario, The Inheritors. Non c’è compattezza nelle quindici tracce. Non va certo per sottrazione ma fila via. Lecito aspettarselo, da un’infiorescenza garage, sintetica, psichedelica. (7.4/10)

ta sulla finnica Traveller Records), affondando il colpo con il cantato anthemico (il Darwin EP per la lanciatissima house label newyorchese Throne Of Blood) o piazzando una traccia, $tripper, che si conquista in scioltezza il trentacinquesimo posto del poll di RA tra le migliori del 2012, mentre la coppia è strattonata ovunque e Andrew, nel pieno delle energie, si fa il giro della Cina come dj, si traveste da giornalista per la Redbull Academy e, come consulente, appronta APP Iphone e suggerisce jingle pubblicitari per colossi come Tuborg, Burn, Bench e Sony. Firmando per Aus Music, i Bicep saltano con decisione sulla label dai tagli mai banali ma anche sull’etichetta che ha rilanciato la garage lo scorso anno con una serie di fortunatissimi eppì (a cui sta cercando di bissare quest’anno). E più che buttarsi a capofitto nel giro dei riscacqui hi hat di Disclosure e co., i ragazzi vanno d’astuzia, masticano basamenti ambient e IDM prima con You / Don’t EP - un versus eppì con Ejeca e Omar Odyssey (e remix di Steffi) - e ora con Stash, che è di gran lunga la prova più “tastierata” e matura. Un quattro tracce, a detta loro, immerso non solo nelle sonorità di King Street e Aphex Twin, ma anche in serie TV come The Wire della sodale HBO. Quattro tasselli che cercano il culto, immergendo la garage (o la

tech-house) in ritratti pensosi o in inquiete attese all’aeroporto, fino a un finale che, da solo, alza di un paio di punti la scaletta, un soffio di magia 80s via Richard D. (The Game). (7/10) Edoardo Bridda

Billy Bragg - Tooth and Nail (Cooking Vinyl UK, Aprile 2013) Genere: folk blues “I’m so tightly wound in tension / Feel just like a guitar string / Wait until you feel emotion / Touch me and you’ll hear me sing”. Comincia così la January Song che introduce il tredicesimo album in studio di Billy Bragg: urgenza di dire, di cantare, di suonare. Parole e note che si devono essere accumulate in questi cinque anni di silenzio, durante i quali la politica barricadera che ha segnato la vita e l’arte del folksinger britannico ha fatto sentire profondamente la sua voce con i movimenti di piazza (Occupy, 15-M, ma anche la Primavera Araba). Una lunga attesa che si è concentrata in una rapida di registrazione inattesa: appena cinque giorni durante un blitz californiano con il produttore Joe Henry. Non c’è più l’energia punk degli 80s, quando Bragg si divideva tra la piazza e il palco per denunciare le storture del thatche-

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Gaspare Caliri


Genere: Techno House Dopo numerosi passaggi incrociati per collaborazioni che, dietro le quinte, si sono dilazionate per circa vent’anni, due dei più grandi maestri techno di sempre si trovano ora per la prima volta ad affrontare l’uscita di un disco a nome di entrambi e gestito a quattro mani. Di Detroit Atkins e di Berlino von Oswald, l’uno e l’altro mentori della prima ora dei rispettivi sound cittadini e ognuno rigorosamente determinante nei processi di fondazione ed evoluzione della techno primigenia tutta, si muovono stavolta verso una conciliazione tra elementi pur non evidentemente antitetici, ma comunque mai così specchiati da vicino (Craig e von Oswald, a loro tempo, fecero un’operazione un po’ diversa). In questo senso l’album stesso diventa un interessante banco di prova per riflettere su un genere che, pur iniziando ad annoverare militanze pluriennali e ad essere pertanto non più l’ultima delle novità in ordine di tempo, potrebbe tuttavia avere ancora molto da dire anche ai pubblici più trasversali. Rispettando le similitudini e le differenze tra i due ecosistemi con un lavoro votato alla causa comune, Atkins e von Oswald sviluppano in Borderland un linguaggio terzo che pare essere concrezione ulteriore della dialettica in atto, più che giustapposizione dei due punti di partenza. Non è cosa difficile ricondurre i passaggi più jazzy al primo e le scure rotondità dub al secondo, tuttavia è evidente la prospettiva comune della costruzione di un lavoro che sia puntuale nell’intercettare l’attimo in cui sperimentazione e club music si incontrano. Otto sequenze o movimenti (un brano, Electric Garden suona in più versioni alternative, secondo mixaggi differenti) registrate a Berlino, a coronare una collaborazione pluridecennale che si risolve per la sintesi. Ne emerge uno specifico programma sonoro crocevia tra dancefloor elevato e cultura conservatoriale, determinato da precise scelte foniche e produttive che spingano al meglio le possibilità del progetto, senza violarne né trascurarne alcun aspetto. Footprints è un brano dagli accenti irresistibili e direzionato da un hi-hat ritmicamente inarrestabile (e poi riproposto similmente verso la fine del disco in Digital Forest), senza per questo perdere niente in termini di cura maniacale per il suono, dove profondità e spessore sono perfettamente calibrati per il rispetto dei canoni dell’ascolto alto. Ne risulta così, contemporaneamente, musica ballabile e di ricerca. Monolitico, anche se con leggiadria, il disco (le otto sequenze hanno in pratica gli stessi suoni, cosa anomala in contesti elettronici) non manca, anche nei momenti di escursione, (come potrebbe essere il lounge di Mars Garden) di porsi all’inseguimento preciso degli stessi identici assiomi di produzione e ascolto. Borderland è un raro esempio di pulizia ed eleganza su tutta la linea: alla produzione impeccabile da un punto di vista tecnico, si aggiunge una chiarezza sofisticata a livello stilistico che determina la molteplicità dei livelli di lettura. Il disco esce per Tresor, label del notissimo locale berlinese riaperto in tempi recenti (2007) e, almeno apparentemente, destinato ad una nuova giovinezza. (7.8/10) Michele Ferretti

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Juan Atkins/Moritz Von Oswald - Borderland (Tresor, Aprile 2013)


Marco Boscolo

Buke And Gase - General Dome (Brassland, Febbraio 2013) Genere: weird pop Il lavoro del duo newyorkese consta di un ottimo weird pop al femminile dalle forme cangianti e imprevedibili, dalle melodie articolate e dalle ritmiche sghembe. Impossibile non pensare a una versione ridotta dei Dirty Projectors, ma spingendosi un po’ oltre con la fantasia potremmo anche immaginare un’improbabile jam tra Merril

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“Tune-Yards” Garbus e i Paramore. Perché alla fine l’elemento teenage rock, volenti o nolenti, c’è, sotteso quanto vi pare ma presente (specialmente nell’incipit di Houdini Crush) e implicito probabilmente nella vocalità adolescenziale e precisa della giovane Arone Dyer; e non dà affatto fastidio mescolato com’è a impasti noise, storture e armonie tese (General Dome) o nobilitato da un’impronta cantautorale che trasmette un senso di grande libertà formale, con soluzioni tutt’altro che scontate e geometrie complesse (Hard Times). Merito anche della buona estensione (persino katebushiana in più di un’occasione, come in Twisting The Lasso of Truth) e di un modo di pensare la ritmica che non disdegna di sconfinare nel math (l’alternarsi di 6/4 e 7/8 in My Best Andre Shot). Detto così tutto d’un fiato pare poco, ma arrivare in fondo a General Dome è navigare su acque scure, dove le promesse di un’anima sostanzialmente pop sono in realtà un canto di sirena pronto a intrappolare l’ascoltatore tra flutti sonori piacevolmente vorticosi. (6.9/10) Antonio Laudazi

Chance the Rapper - Acid Rap (Self Released, Maggio 2013) Genere: rap on acid È passato circa un anno da quella sospensione per droga. E dieci giorni lontano dalle aule sono bastati a Chancelor Bennett per raccogliere le idee ed ispirare il primo mixtape 10 Days, diventando Chance, “il rapper” - “Call me Chancellor the Rapper, please say the Rapper”. Il secondo mixtape rilasciato da indipendente - ma destinato ad avere un riscontro mediatico ben più rilevante e non solo per le svariate comparse (dall’amico Childish Gambino ad Action Bronson) - è un Acid Rap che, nonostante il nome, ha poco da condividere con l’horrorcore “rockettaro” di Esham. “Acid” infatti, secondo le recenti dichiarazioni di-

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rismo, e la musica arrabbiata della gioventù ha lasciato spazio a un disincantato e malinconico sguardo sul mondo di oggi fatto di ballad e Americana. Il viaggio dall’altra parte dell’oceano può anche essere letto come un avvicinamento a Woody Guthrie (qui riletto in I Ain’t Got No Home), simbolo archetipico delle lotte a tutte le storture dei fascismi che attraversano ciclicamente il mondo. Se lo sguardo è più disincantato e la musica meno aggressiva, non significa che la politica sia scomparsa dall’orizzonte di Billy Bragg, tutt’altro. In No One Knows Anything Anymore canta “what happens when the markets drop / If the numbers really don’t add up?”, toccando il nervo scoperto di questi anni di crisi economica senza fine e, ai suoi occhi, senza motivazioni fuori dall’avidità di alcuni. La fiamma, però, brucia ancora e Bragg profetizza che ci sarà una resa dei conti (There Will Be A Reckoning) e “tomorrow’s gonna be a better day”, detto da uno che sa che “the glass is half full” (Tomorrow’s Going To Be A Better Day). Con un accento ammorbidito dentro l’americano, Billy Bragg continua il suo percorso musicale fatto di passioni e integrità da vero attivista. Forse è un po’ disincantato, ma a 56 anni sa di appartenere a una generazione che - la Storia sembra averlo già stabilito - non può vincere per troppa purezza ed è destinata a cercare la sconfitta con onore. (7.1/10)


Genere: folk Per il precedente A Creature I Don’t Know si diceva da queste colonne che spesso siamo fin troppo esigenti con gli artisti giovani: difficile confrontarli con passati ingombranti e con le migliaia di ascolti che abbiamo fatto. A volte, però, bisogna semplicemente applicare un principio di realtà, lo stesso che oggi ci impone di dire che questo quarto album spinge prepotentemente Laura Marling verso i piani alti del cantautorato folk-rock. Di sicuro è in prima classe tra i musicisti della sua generazione. Oggi, a soli 23 anni, Laura Marling domina il folk in tutte le sue accezioni come nessuno ha saputo fare negli ultimi anni: c’è una naturalezza genuina nella sua scrittura, una forza fragile nei testi e nel canto che l’hanno fatta giustamente definire il perfetto incrocio tra Joni Mitchell e Sandy Denny. Ma in Once I Was A Eagle c’è molto altro. Basterebbe la prima metà del disco, quella che precede l’interludio per violoncello che separa nettamente le due parti, per parlare di un miracolo. Le prime sette tracce sono un continuum praticamente indistinguibile giocato a trio con il violoncello di Ruth De Turbeville e le percussioni di Ethan John (a entrambi pienissimi voti), che sottolinea la tensione quasi filosofica del fingerpicking di Laura e del suo flusso di coscienza che - giustamente - scomoda il Bob Dylan degli anni Sessanta. Questa trama essenziale si arricchisce nell’ordito, si impreziosisce per tutti i rimandi alla lunga storia del folk inglese e scozzese: Pentangle, ma anche Comus e Incredible String Band. La seconda parte, pur non allontanandosi né per qualità né per intenti, è invece più canonica e le otto canzoni che la compongono vedono la partecipazione di una band più allargata. Where Can I Go? è semplicemente perfetta, all’incrocio tra rutilanti Sixties e Julie Holland, mentre Once mette in evidenza le tinte più blues dello spettro espressivo della Marling. In questa seconda parte emerge anche l’amore per il country più colto (già si citava Johnny Cash in altre occasioni), ma qui si può vedere in filigrana anche Emmylou Harris (soprattutto quella a cavallo tra Settanta e Ottanta), ma anche una gemma oscura come Carol Kleyn o la Cat Power più bucolica di qualche annetto fa. Once I Was A Eagle è un album stratificato, denso di parole e di suoni, di atmosfere e di significati cangianti. Colpisce al primo ascolto, ma ogni ritorno nel lettore è l’occasione per la scoperta di una sfumatura diversa, per un profumo e un’emozione che non ci ricordavamo di aver già incontrato. La stella che già avevamo imparato a conoscere è più luminosa che mai. (7.8/10) Marco Boscolo

Chance, trova riferimento nell’uso di LSD durante le registrazioni, una pratica che ha influenzato il risultato per un trenta/quaranta per cento (parole sue) senza intaccarne il metodo. Il ragazzo, appena ventenne, dimostra persona-

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lità nonché un’innata sensibilità romantica e un flow di livello dalle molte sfaccettature black - dal gospel di Good Ass Intro e Interlude al reggae di Favourite Song, dal pop al r’n’b fino al blues -, tratti che lo ricollegano al piglio di un Kanye West,

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Laura Marling - Once I Was An Eagle (Virgin, Maggio 2013)


(7.2/10) Davide Nespoli

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Chapel Club - Good Together (Ignition Records, Giugno 2013) Genere: synth-pop Ricordate Palace? Quel romanticissimo monumento al wave-pop, con dentro canzoni incredibili come The Shore e Surfacing? Roba che faceva rivivere per miracolo nello stesso disco Smiths, Ride, Echo & The Bunnymen senza riciclare nessuno di essi, con songwriting e arrangiamenti personali, tosti ed eccellentemente architettati? Uno di quegli esordi per cui, una volta tanto, valeva davvero la pena di gridare al capolavoro? Bene, potete scordarvelo. I loro autori, i londinesi Chapel Club, lo hanno fatto senza alcun rimpianto, sostenendo che “non era abbastanza fantasioso e inventivo” e che fosse “privo di sorprese”, proponendosi di “purificare la fanbase dai nostalgici post-punk pieni di dopamina fino ai capelli”. Quindi beccatevi Good Together, la loro sconcertante metamorfosi sunshine (synth) pop: via le chitarre, via i cuori infranti, via il crooning di Lewis Bowman; dentro i sintetizzatori (l’iniziale Sleep Alone, il pastiche bowiano Fruit Machine), i coretti, le melodie ariose alla Beach Boys / Animal Collective (Sequins, Jenny Baby), i ritmi house (la coda ipnotica della title track), pure il falsetto (Shy). Il suicidio è servito, dite? Sì e no. Ora, viene persino naturale lasciarsi andare a una lettura “ideologica” di questo disco. La suggerisce e in un certo senso ce la impone la stessa band, nel momento in cui rivendica fieramente presunta indipendenza e libertà e, soprattutto, afferma che quella di Palace non fosse la sua “vera” musica. Inevitabile, quindi, riflettere sugli spietati meccanismi dello showbiz in UK, tritacarne implacabile al punto che se il tuo album, per quanto ottimo, si ferma al trentunesimo posto in classifica, viene stroncato da NME (che pure aveva osannato i primi singoli!) e totalmente ignorato da Pitchfork, bisogna fermarsi e rifare tutto da capo (!), anche perché la Polydor ti ha già scaricato. O, se accreditiamo la versione dei

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in particolare quello di The College Dropout. Il paragone con good kid, m.A.A.d city, tanto banale quanto scontato, viene però oltremodo naturale per i contenuti e per via della cadenza “nasale” del rapper. Senza tirare in ballo un post-Lamar, parliamo semplicemente di un altro tributo ai tecnicismi di Andre 3000. Più stimolante, del resto, un’analisi sulla genesi del disco: un’adolescenza spesa in una grande città americana. Lontana dall’iper-realismo di Compton, Chicago lascia addosso rabbia e voglia di rivincita (“I am a new man, I am sanctified / Oh I am holy, I have been baptized / I have been born again, I am the white light”) ma, in qualche modo, permette a un rapper adolescente di autoprodursi. Acid Rap è ambientato in un mondo più astratto e borghese, con i trip mentali e le meditazioni di Chance in primo piano, non lontano comunque da un Lamar più “fighetto” e sotto additivo. Merito dell’acido o meno, Bennett ne esce credibile, sincero e arrogante, malinconico e introspettivo, infestato dalla presenza di Rodney Kyles Jr., amico del rapper morto prematuramente (“My big homie died young, just turned older than him / I seen it happen, I seen it happen, I see it always / he still be screaming, I seen his demon in empty hallways”). Il pathos di beat e significati, infine, è raggiunto nella viva confessione di Acid Rain dove, proprio come accadeva in alcuni pezzi dello stesso Lamar o nella notevole seconda parte di Pusha Man, riappare il fantasma del primissimo Eminem. Buon esordio per un altro rappresentante della nuova generazione di rapper che in un modo o nell’altro è cresciuta - e sta crescendo - con il mito o la presenza ingombrante della Odd Future “brain broken/Frank Ocean listening/.../motha, shut your mouth”.


Antonio PancamoPuglia

CLOSE - Getting Closer (!K7, Giugno 2013) Genere: House Presentato Close in qualità di progetto inizialmente anonimo - e solo in tempi recentissimi rivelata la propria identità -, William Saul, boss di Simple Records e Aus Music, aveva già anticipato qualcosa su !K7. Già resident dj per tre anni al The End di Londra (prima che il noto locale chiudesse nel 2009), a fine aprile aveva infatti dato alle stampe il singolo Beam Me Up, poi qui, nel full lenght, comunque ripreso nella sua versione originale, ossia con featuring di Scuba e Charlene

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Soraia alla voce (e che nel singolo uscito un mese fa era stato pure remixato da Hercules And Love Affair e George FitzGerald). Il biglietto da visita del disco, dalla confenzione alla superficie di un suono pulito e levigato, è un leggero piglio glamour, da house trasversale che si sta allontanando dalle frequentazioni club più dure per diventare easy listening di situazioni giustissime. Più profondamente - ed è una cosa che si fa chiara con ascolti attenti e, magari, anche ripetuti - vuole essere il passaggio da un retaggio house assai più classico e club culture oriented ad un determinato approccio sì pop (in riferimento alla accessibilità), ma anche crepuscolare, se non proprio oscuro. Una sorta di l’evoluzione dell’antico piano ubiquo dei Recoil di Alan Wilder e tutto un altro pianeta rispetto a Midland o Bicep che Saul, appunto, segue da vicino come editore. Dall’ascolto raffinato e accessibile - e sul finale effettivamente cupo - di OSCAR ai glitter di My Way, la produzione rimane in perfetto equilibrio e calibrata tra le prerogative già accennate sopra. Che sia la dance astratta di Cubizm o il dub roots di Born In A Rolling Barrel o del Wallflower che ospita l’amico carissimo Fink, sempre si tratta di materiale concepito dichiaratamente per funzionare nel dancefloor ma, contemporaneamente, caratterizzato da una godibilità che ne trascende i limiti. Così si spiegano le melodie ricercate, gli strumenti perlopiù suonati e, a tratti, pure la visionarietà (più da ascolto che da ballo) di alcune incursioni spaziali che paiono quasi citazioni di Vangelis. Il quadro complessivo dà l’idea di un disco in diretta discendenza con i lavori di fine anni Novanta di alcuni storici produttori mitteleuropei (Kruder & Dorfmeister in particolare, incarnati come coppia, come Peace Orchestra o come Tosca), tra downtempo, atmosfere languide e strumenti registrati invece che simulati digitalmente. Ma anche Terranova (ancora Europa centrale e !K7) o

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protagonisti, dobbiamo ritenere che ci siano dj, giornalisti, produttori e major in grado di plasmare a loro piacimento l’identità artistica di una band appena formata, forzandola a comporre musica non nelle sue corde. Riascoltando Palace, però, non ci sembra che qualcuno abbia puntato una pistola contro questi ragazzi. E d’altronde, se prendiamo un esempio che potrebbe fare al caso nostro come gli Horrors, le loro continue metamorfosi di disco in disco hanno un denominatore comune: l’identità artistica di Faris Badwan e sodali, che trapela a prescindere dallo stile preso in esame (Bowie docet). Qui, quest’identità fatica ad emergere, anzi: a questo punto non capiamo proprio quale sia. La buona fattura di Good Together (che tuttavia rimane dispersivo e non ha la coesione che avrebbe reso il cambiamento quantomeno accettabile) e l’indubbia validità di alcune canzoni (Scared, oltre le citate), nonché certe soluzioni effettivamente sperimentali e inventive ci porterebbe a valutarlo a prescindere, per quel che è: un discreto e interessante disco di pop contemporaneo, opera di una band parecchio intelligente, curiosa e dotata di un certo talento. Ma anche un po’ confusa. (6.5/10)


Experimental Pop Band. ll dj e produttore William Saul si spinge in territori pop-downtempo con eleganza e una sorprendente sensibilità, accordando un funky introspettivo che parte da Detroit e arriva fino a Berlino con una forte ispirazione melodica che rimanda agli antichi maestri della sintesi. (7.1/10) Michele Ferretti

Genere: Pop Nove anni orsono ci sembrarono una azzeccatissima via di mezzo tra la persistenza effimera del prewar e l’avanguardia frugale della folktronica, con abbondante corredo di capricci lo -fi, orpelli operistici, estro hip-hop e tutto un immaginario di grazia stropicciata e apolide, sofisticata e stracciona, fragile e struggente. Seminare sperimentazione e raccogliere mainstream è in ambito pop una prassi tanto consueta quanto difficile da gestire bene. Così, un po’ banalmente se volete, le sorelle Bianca e Sierra si adeguano a questa blanda parabola, traslocano l’hype alternativo residuo negli attigui salotti radical chic, con licenza casomai di fare una puntatina al ristorantino col buffet cinquestelle. No, non hanno smarrito il talento, solo che oggi, album numero cinque, lo domano, lo piegano, lo impiegano con evidente acume ed obiettivi precisi. Ovvero, in questo Tales Of A Grass Widow tra una tirata ideologica e l’altra (neo-femminismo ed ecologia) costruiscono almeno quattro potenziali ordigni da spot o sigletta televisiva (Tears For Animals, Villain, After The Afterlife e Gravediggers su tutti). Un bel passo in avanti rispetto a quando proprio dal talento si fecero soverchiare (vedi le abbastanza inconcludenti deviazioni di The Adventures Of Ghosthorse And Stillborn). A ben vedere, già il precedente Grey Oceans lasciava intravedere quanto le Nostre bramassero normalizzarsi, or-

Stefano Solventi

Corleone - Blaccahénze (Etnagigante, Febbraio 2013) Genere: fusion Roy Paci è un ottimo musicista e anche un abile comunicatore. I Corleone (band nata discograficamente nel 2005 con il disco d’esordio Wei-WuWei) rappresentano, nella costellazione di progetti che lo vedono coinvolto - Roy Paci & Aretuska in primis, poi Banda Ionica e una marea di

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Cocorosie - Tales of a Grass Widow (City Slang, Maggio 2013)

mai divenute più affini all’universo etico ed estetico di un Kenzo o di una Miuccia Prada che non alle peripezie senza rete d’un Devendra Banhart o di una Joanna Newsom. In questo senso, la presenza del sodale Antony Hegarty - sempre più un lirismo Ikea il suo quando si presta a queste comparsate - sembra il bollo di ceralacca sul tenore bohémienne di lusso. Che inevitabilmente va a nutrirsi del materiale di scarto delle avanguardie passate, vedi in genere tutto il riciclaggio di elementi glitch, trip-hop e folktronica, così come la Björk-wannabe di Far Away e Child Bride (non a caso il disco è co-prodotto dal navigato Valgeir Sigurðsson ). Il problema non sta nell’eccessiva leggerezza, nella cifra orecchiabile, ma nel fatto che per ottenerla si scelga la strada della facilità o peggio della faciloneria, come nel caso dell’operetta reggae End Of Time o delle giapponeserie giocattolo in Roots Of My Hair. Peggio ancora: quello che un tempo era incantesimo fragile, oggi è ingegneria. E quella fragilità, quel fuoco fatuo di memorie e sensibilità sparigliate, era ahiloro un ingrediente fondamentale della proposta. In altre parole, forse le Cocorosie non sono mai apparse tanto sicure di sé, consapevoli d’essere in possesso di una calligrafia inconfondibile, soprattutto in virtù di quello straniante gioco a due voci. Ma tanto più si sforzano d’essere intriganti, riuscendoci, tanto meno risultano interessanti. (5.7/10)


Genere: Techno Secondo album sulla lunga distanza e primo LP su Crosstown Rebels per Mathew Jonson, producer/pianista/musicista che abbiamo apprezzato nei Cobblestone Jazz e meno nel pur pregevole esordio Agents Of Time sulla personale (e ora in standy by) Wagon Repair, che comunque - con il senno di poi - possedeva le sue ragioni di culto a partire da una zampata “classical” minimal techno come Marionette. La nuova pubblicazione, insolita all’interno del catalogo prettamente house di Damian Lazarus - che segue due singoli come Dayz del 2011 e Automaton di quest’anno (entrambi non contenuti in scaletta) - è stata ideata per la gran parte in un complesso industriale devoluto all’attività artistica, a Berlino, tra la fine del 2011 e il 2012, un ambiente completamente differente dalla casa sul mar Pacifico dov’è nata la tracklist precedente. Jonson, che ora possiede un nuovo studio in un aeroporto dismesso sempre nella capitale tedesca ed ha recentemente acquistato i diritti per la pubblicazione della label canadese Itiswhatitis, ha ammesso al blog dell’Independent di avere le vertigini nel pensare alla fitta agenda di impegni che lo occuperà almeno fino alle ferie già programmate in India del prossimo marzo 2014. E il nuovo lavoro, descritto come urbano e cittadino, composto di musica pensata per il presente, “lontana da voglie d’escapismo”, ne è il più logico degli output. Her Blurry Pictures è decisamente un album di calvinistica berlinesità. Una tracklist molto a fuoco, compatta a livello formale ma (novità!) dotata di un’inedita forza visionaria che scaturisce con compostezza tra looping liquido e mentalità techno di lungo corso che dall’intellighenzia UK può tranquillamente riavvolgere il nastro fino al famoso capolavoro cinematografico di Friz Lang, Metropolis. Una metafora, quest’ultima, che torna sempre utile, specie se aggiornata alla laptop-tronica a cui il canadese, ricordiamolo, oppone sempre un bel gusto per l’analogico e tocchi di suonato. Tra le tracce, il tiro jazzy dei Cobblestone Jazz (il cui ritorno, come di tanti altri progetti, è già programmato) emerge in Touch The Sky anche grazie a sapori house in aderenza Crosstown Rebels (e snare/percussioni suonate dal vivo stile Vladislav Delay) oppure in astrazioni e beat concettuali alla Raster Noton in Illusions Of Control, tracce fatte di quadrature acquatiche e raffinatezze in progressione minimale piuttosto lontane dai più potabili tagli marittimi di un brano come - appunto - Metropolis recentemente apparso sulla elegante compilation minMAX della Minus. Inoltre, Level 7 ricorda la pongo-elettronica colorata di certo Gold Panda, la finale e omonima title track per (quasi) soli synth fa il paio con la Spetchka dei Black Dog (Tranklements altro gran bel disco techno), come Kissing Your Eyes è un altro bel esempio per sottolineare come la palpabile tensione psych di Illusions Of Control può farsi, alla bisogna invisibile. Infine una Body In Motion è utile per descrivere come certa tentazione acid possa poi, in una traccia come Sahara, riportare a Vangelis via tunnel analogue. Album decisamente da premiare e questa volta non solo per meriti tecnici. (7.2/10) Edoardo Bridda

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Mathew Jonson - Her Blurry Pictures (Crosstown Rebels, Giugno 2013)


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senza essere banali: in due parole, missione compiuta. (7.1/10) Fabrizio Zampighi

Crystal Fighters - Cave Rave (Zirkulo, Giugno 2013) Genere: summer vibes “The holy roller bloomingblighters are singing the freedom of utopic space”. “The nature of utopic space is the fractal interdimension between the fourth and fifth dimensional realms”. Queste sono solo due delle frasi esoterico-filosofiche presenti nell’assurdo artwork di Cave Rave ideato e realizzato dal visionario Paul Laffoley in omaggio ad alcuni nomi - Rudolf Steiner e la sua antroposofia, ad esempio - che hanno fatto la storia dell’immaginario punto d’incontro tra psicologia, spiritualità, scienza e religione. Che questi Crystal Fighters fossero personaggi fuori dagli schemi lo si era già capito ai tempi dell’interessante debutto Star of Love, ma la presentazione extra-musicale del secondo lavoro (pubblicato via Zirkulo/PIAS) spiana la strada ad un nuovo livello di follia nella corsa verso l’oltre. Prodotto da Justin Meldal-Johnsen a Los Angeles, Cave Rave è stato scritto dai Crystal Fighters in territorio Euskadi ed eredita dal predecessore tutto quello spirito tradizionalista che da sempre è parte fondante del codice genetico dei cinque basco-londinesi.Se non vengono tradite le influenze trad, è facile invece notare una minore propensione verso le tentazioni elektro-oriented che avevano reso brani come I Love London e il pezzo da novanta Xtatic Truth veri e propri indie club anthems. Poco male: l’energico folk danzante di You & I ha tutte le potenzialità per finire in high rotation persino nelle radio più generaliste (se ci son riusciti Of Monsters And Men e Lumineers...). Quantità industriali di energia radiofriendly anche nei saliscendi pop di Wave e in quel mix trascinante di suggestioni che spaziano

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collaborazioni con nomi come Manu Chao e Mike Patton - la parentesi forse più borderline, o, come scrive il diretto interessato nelle note di Blaccahènze, “la passione incandescente nei confronti del jazz più sperimentale e meno etichettabile”. Tutto vero, non fosse che la sperimentazione di cui si parla (che innegabilmente c’è, in questo disco) è un’ottima sintesi di elementi che chi traffica in certe nicchie conosce bene: innanzitutto la no wave (Contortions su tutti), poi certe cadenze Zu, l’immaginario di John Zorn, il Mike Patton senza briglie e, ovviamente, il jazz. Quest’ultimo imbastardito a suon di assoli di chitarra elettrica (Alberto Capelli), sintetizzatori e basso (Marco Pettinato), batteria possente (Andrea Valdrucci) e una sezione fiati al cardiopalma (il sax baritono di Marco Motta, il sax alto di Guglielmo Pagnozzi e la tromba dello stesso Paci). Nella pratica, il secondo disco a marca Corleone si trasforma dunque in un prodotto consapevolmente trasversale, materiale bello solido per palati già abituati a certi suoni, esempio di grande sperimentazione agli occhi di chi di solito macina solo mainstream, piatto abbastanza gustoso da solleticare anche i palati più jazz-oriented (testimone ne è la copertina che il magazine Musica Jazz ha dedicato a Paci). Dal canto suo, il trombettista siculo fa le cose per bene, imprimendo un marchio riconoscibile alla consueta irruenza dei fraseggi (il Sudamerica scapicollante di Umuntu ngumuntu ngabantu) e ai toni bandistici di certi passaggi, ma cercando anche di aprire porte su universi altri: il drone nelle fondamenta di Tromba l’oeil (Reloaded), le andature dubstep di Budstep Infected, la no wave cinematografica (e in qualche modo non troppo distante dall’universo Calibro 35) di Cinematic Conventions Of Murder, il jazzcore melodico di Moshpit Comedy, parentesi classiche come Lookin’ For Work. La band non si risparmia e tira fuori un sound tesissimo, c’è una sostanziale godibilità di fondo che mette un po’ tutti d’accordo e ci si diverte


Genere: afrocentric jazz Avete presente un’orgia libera di suoni multicolori scevra da ogni recondita influenza psych ma ben radicata in atmosfere da jazz afro-beat? Bene, siete molto vicini alle sonorità che riempiono l’esordio di questo supergruppo inglese che vede in ballo gente da Acoustic Ladyland (il sassofonista Pete Wareham, vero aggregatore del tutto, e Ruth Goller al basso), Heliocentrics (il sax di Shabaka Hutchings), Zun Zun Egui (la voce di Kushal Gaya), strumentisti del giro di Mulatu Astatke (la batteria di Tom Skinner) e Fela (Satin Singh alle percussioni) e un produttore d’eccezione come Leafcutter John che mischia le sue electronics al flusso sonoro dei compari. Un vero e proprio tornado di suoni in libera uscita, sfuggenti e coinvolgenti, etimologicamente eccentrici nel loro fuoriuscire dalla grande madre Africa ed espandersi e contaminarsi, che rinverdiscono, se ce ne fosse ancora bisogno, la linea dell’afro-jazz più ispirato e acceso apprezzato negli ultimi anni e meritandosi la definizione di “Afrocentric jazz-tinged tribal pop” appioppata loro sul web. Mulatu Astatke e l’appena riscoperto ethio-jazz, l’approccio materico e punkish degli ultimi The Ex specie se in combutta con Getatchew Mekurya nella formazione allargata che ci ha regalato capolavori come Moa Anbessa e Y’Anbessaw Tezeta o nel progetto Brass Unbound, formazioni orchestrali come la Hypnotic Brass Ensemble messa su dall’ottantenne Kelan Philip Cohran, per non parlare dei pezzi storici dell’afro-beat, sono alcuni dei punti di riferimento di una band che non lesina in energia e ricercatezza, pur vivendo sulla pelle l’attrazione per il groove, la malia del ritmo tribale, l’eccitazione stessa di una musica spirituale e mai doma. Non è un caso che affiori qua e là l’attitudine più bianca e “rock”, per non dire punk, ma è solo questione di approccio a una materia che resta irrimediabilmente nera, groovey, (poli)ritmicamente accesa e terribilmente sensuale. Della serie provate a rimanere fermi quando partono pezzi come Release!, We Are Enough o Kingdom Of Kush. Se ce la fate, iniziate a preoccuparvi: non siete umani. (7.4/10) Stefano Pifferi

tra il bucolico (strumenti acustici, good vibes e psichedelie annesse) e il dancefloor (cassa dritta, micropassaggi droppati) che caratterizzano le dieci tracce che compongono l’album. Sicuramente attaccabile sotto più punti di vista (Star of Love era più genuino), Cave Rave è comunque un disco che, nella sua continua imprevedibilità, funziona in tutte - o quasi - le proprie sfaccettature. Lo fa nei pezzi più furbi da scampagnate happy-folk (No Man), nella VampireWeekendiana L.A. Calling (cori da stadio a parte), nei contagiosi break afro di Separator e ad-

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dirittura nelle improbabili ballads Bridge Of Bones e Everywhere. La prima ha un arrangiamento e un tocco corale talmente pacchiano - quasi clericale - che deve essere per forza voluto, mentre la seconda vanta un ritornello tranquillamente “coverizzabile” da Justin Timberlake. Quello che colpisce è l’incredibile concetrazione - sicuramente maggiore rispetto a quella dell’ultima fatica degli amici Is Tropical o del debutto lungo degli smile-poppers Youngblood Hawke - di wannabe hit che volenti o nolenti riescono ad insinuarsi nelle sinapsi con grande facilità. In-

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Melt Yourself Down - Melt Yourself Down (Leaf, Maggio 2013)


somma, il disco centra l’obiettivo nel suo essere inammissibilmente paraculo. L’estate è alle porte e tutto è concesso, compreso il lasciarsi andare ai ritmi disimpegnati e youthful dei Crystal Fighters. Divertimento assicurato. (6.3/10)

Daft Punk - Random Access Memories (Columbia Records, Maggio 2013) Genere: pop Che dire? Anche noi ci siamo felicemente piegati a questo rito dell’ascolto unico e blindato tra le mura della casa discografica davanti al macguffin daftpunkiano - la valigetta-scrigno color arancio con tanto di lucchetto e codice segreto - in un’atmosfera che sulle prime sarà stata anche un po’ da spionaggio (e un po’ da cartoon) ma che quando siamo arrivati noi era già ampiamente

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Riccardo Zagaglia

prosaicamente - divertitamente - profanata: abbiamo ascoltato la musica, il giorno della morte di Andreotti, in una piovosissima Milano, con un vicino di scrivania che batteva il piede a tempo davanti al suo pranzo a base di bresaola, sgombro e cracker integrali. Che dire che non sia stato detto di questo disco subito mitologicizzato e subito issato a totem polemico? Facciamo il punto. I teaser saccheggiati e rimontati dai fan per creare credibilissimi fake leak (su tutti, quello di Fabio Nirta). Il singolo tormentone istantaneo sbancatutto. Le interviste ai collab che parlano dell’incontro coi due robot con toni messianici (giustamente presi per il culo da qualcuno). Ma sopra e prima di tutto, il ritorno del più importante act dance & pop degli ultimi anni dopo anni di assenza: i Daft Punk, gli sdoganatori, i moltiplicatori di pani e di pesci, i condensatori di immaginario. Tutti ingredienti, questi, che annunciavano un disco schiaccia-

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Genere: electronica Qualcuno dirà che i Mount Kimbie “si sono finalmente decisi a fare musica seria” e, al di là della scialba provocazione, un fondo di verità è rilevabile: Cold Spring Fault Less Youth si presenta, in effetti, come prova istantanea di maturità e salto (da Hotflush a Warp ma anche) di qualità. Il tutto passa - oltre che per la prevedibile migrazione dalla “cameretta” allo studio professionale - da un aggiornamento stilistico tanto necessario quanto riuscito, che si lascia alle spalle un po’ tutti i ponti col mondo del (post-) dubstep, va ad abbracciare soluzioni prettamente downtempo (Home Recording, Blood And Form), si fa trovare pronto al ritorno della house (quindi dei 4/4) in terra inglese e - soprattutto - indugia sull’elettronica come Dominic Maker e Kai Campos l’hanno sempre voluta: suonata. Piuttosto che i field recordings, a far da padroni sono questa volta sintetizzatori saturi e live drums; i pezzi mostrano tutti - novità! - una struttura propriamente detta, praticamente ordinata, perlopiù progressiva, occasionalmente addirittura club-ready. Va da sé, dunque, che della firma off-kilter (e in un certo senso intimista) che fece la fortuna di Crooks & Lovers (2010) restino soltanto vaghe tracce tra i livelli. Eppure risulta difficilissimo rimpiangere il passato e avanzare lamentele verso l’assunta posatezza: la versatilità del duo londinese, quella sì, è immutata e il disco - con la complicità di una palette strumentale espansa - trova tutto il dinamismo che gli serve variegando ulteriormente la proposta rispetto al predecessore. Ci sono le (già viste) inflessioni ambient ed abstract, ma istituite anch’esse di spina dorsale percussiva (Fall Out) o lanciate in ascesa da tastierismi nordici (Break Well); c’è un amalgama di ritmica industrial con materia post-glo (Slow) e c’è un saluto a casa Actress (Sullen Ground); ci sono, di fatto, aperture hip-hop ma senza passare per featuring hip-hop (You Took Your Time e Meter, Pale, Tone, con King Krule) e quindi incasellate nelle fascinazioni per il macchinismo applicato al rock già rilevate sul debutto, le stesse che trovano il proprio apice organico nel paio di jam (So Many Times, So Many Ways e Lie Near) probabilmente composte in tour, probabilmente pensando ad un settaggio live allargato; c’è infine Made To Stray, la traccia killer che Dominic e Kai non hanno mai davvero avuto, concreta minaccia atomica al monopolio sui dancefloor perpetrato dai Disclosure. A separare Cold Spring Fault Less Youth dal poter essere definito come punto d’arrivo restano qualche passaggio un pelo forzato e il tradito sviluppo orizzontale di alcuni episodi. In fondo non può che farci piacere: ci auguriamo di ascoltare, in futuro, altri cento di questi Mount Kimbie. (7.5/10) Massimo Rancati

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Mount Kimbie - Cold Spring Fault Less Youth (Warp Records, Maggio 2013)


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memoria operativa, con quello di cui mito e trasfito dalle attese (che fanno rima con delusione), dall’hype, dall’entusiasmo o dal rigetto a prescin- gurazione si nutrono da sempre: l’immaginario. Sono i Daft che conosciamo, non c’è un’evoluziodere. Dal contesto, insomma. E invece diciamo ne, un cambiamento profondo, solo una declinasubito: dei tanti miracoli possibili - ma improbabili, tipo una palingenesi dei nostri - questo disco zione nuova di quello che sono e fanno. compie almeno quello di non restare schiacciato Il disco allora è esattamente come ce lo immadalla sua storia esterna ed essere degno oggetto ginavamo incrociando gli indizi a nostra dispodi discorso di per sé. Diciamo subito: non è il disco sizione, e cioè Get Lucky e tutta la mitogenesi di contorno di cui sopra (che va presa per quel che della vita, non è la cartina al tornasole dell’oggi è: marketing fatto bene), retorica anti-laptop (se non nella misura in cui è uno dei manifesti compresa (la già-vivisezione di Wiki ce la siamo possibili del vintagismo e della retromania, noinvece risparmiata). RAM è un caleidoscopio di stra seconda pelle ormai) o del domani (se non riferimenti, citazioni e calchi, un sottofondo di nella misura in cui l’elettronica cercherà - forse lusso nell’epoca dell’ascolto intelligente della - di essere sempre più suonata e live, anche se Muzak, una dance analogica e orchestrale. È non nel senso modernista che abbiamo sondato suonato, caldo, corposo, i Daft avevano voglia di altrove), ma è un buon disco, un disco colorato, che funziona e diverte, che spesso è avvincente e suonare, di jammare (e di spendere soldoni nel farlo), e si sente. Ha i piedi nella disco, nel funky, altre volte - come dire - è sicuramente un po’ retorico e ostentativo, fin troppo ricco. Ovviamente nel West Coast sound tutto miele e vento tra i suonato da dio. Ma soprattutto, è un disco inzup- capelli di Fleetwood Mac e Eagles (con tanto di pedal steel). È lineare, ma stratificato, progressivo pato di un amore per i propri amori che è tanto e audiofilo, come un Dark Side of the Moon (è il furbo quanto sincero, tanto coerente concept loro Dark Side of the Moon, Alan Parsons incluso). studiato a tavolino - per andare oltre il presente È architettonico e certosino, come il fusion pop bisogna ciclicamente ritornare alle radici - quandegli Steely Dan. Ha gli occhi puntati a un’idea to genuina ossessione adolescenziale. Certo, di di spazio e di futuro che fu, dove avanguardia fa due adolescenti non più adolescenti ma sempre rima con artigianato (synth, Moroder, colonne adolescenti che possono permettersi come giocattoli lo studio di Jimi Hendrix, l’expertise di Nile sonore Sci-Fi). Per il track by track, ormai di rito, rimandiamo ad Rodgers e l’appeal di Pharrell. Thomas e Guy-Manuel tributano ancora una vol- altra sede. Qui ci tenevamo a dire la nostra: non è il disco dell’anno, non è una furbata da capricciota i propri miti, fanno ancora una volta i compiti si ricconi. Ma in medio stat divertimento. a casa, studiano i grandi per scoprire cos’è che (Lo streaming dell’album è disponibile via Itunes fa ancora battere il cuore e girare il mondo, si a questo indirizzo). mettono davanti alle loro Gioconde e copiano (7.1/10) come sanno (qualcuno ha portato agli estremi questa idea, parlando di praticamente-cover), solo Gabriele Marino che stavolta invece di mimare ed evocare (campionare e stilizzare), i miti li convocano proprio Dargen D’Amico - Vivere aiuta a fisicamente (la confessione di Moroder, l’elegan- non morire (Giada Mesi, Aprile te cameo di Paul Williams). È un ritorno al corpo 2013) umano, il loro sogno di sempre, di Daft come Genere: dargen poetamarro moderni pinocchi. Che giocano, con questa loro D l’avevamo lasciato con un pizzico di Nostal-


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di alti e bassi (soprattutto tra incisi e feat) ma si ingolfa davvero solo nel quartetto centrale Il cubo (gag con Danti dei Two Fingerz), A meno di te (con il soul uptempo da corista di Michelle Lily), Sincero/sincera (un po’ contro-qualunquismo che diventa qualunquismo-contro), Il corriere contromano (con Andrea Volontè, tutto tranne che irresistibile, già nel singolo Siamo tutti uguali). Bellissimo invece il pezzo coi Perturbazione, Con te, una vera sorpresa, un po’ Gazzè un po’ Neffa pop; bellissimo il remix del singolo Continua a correre, feat. il pupillo Nardinocchi, firmato Zen Marque; sorprendentemente drammatico, tipo Guccini meets il pezzo di Fibra sul piccolo Tommy (Potevi essere tu), E’ già, con Enrico Ruggeri. D è troppo bravo per nascondere di esserlo e riesce a essere grande anche quando, sopra le righe, si abbassa. Alchimista, trasforma il piombo in oro, anche se va notato che lui viene dall’oro e al piombo c’è arrivato. Copertina cristologica da applausi firmata Corrado Grilli cioè Mecna, il più conscious dei rapper della nuova generazione. (6.7/10) Gabriele Marino

Dirty Beaches - Drifters/Love is The Devil (Zoo Music, Maggio 2013) Genere: r ’n’r/sperimentale Attraverso Badlands (2011), il qui presente Alex Zhang Hungtai seppe mettere in campo (anche in senso filmico) l’immagine di un sentimento notturno e allucinato, della ricerca e dello smarrimento attraverso lo spazio e il tempo, usando il rock’n’roll come icona dissacrata, memoria da deformare. Condizione di esule la sua, taiwanese di nascita, trapiantato in Canada e ancora nomade tra America e Europa, fino a toccare Berlino e gli studi di Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, dove è stata registrata una parte del disco (l’altra, a Montreal). Niente di particolarmente

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gia Istantanea. Aveva alzato l’asta del limbo e ci eravamo chiesti quale il prossimo passo ora che poteva parlare a tutti, bimbiminkia, pentiti del rap, rappofili e indie. Qui D dice chiaro e forte che ha scelto: le peggio coatte, tamarre mai viste / commesse, estetiste, shampiste / coi jeans attillati, incollati di tutti i colori / e scritte appariscenti come gli evidenziatori (Lorenzo De’ Medici). D le punta, ma per ora lo zoccolo duro sono i ragazzini, tipo quelli che affollavano tutti uguali - vestiti e capelli tipo Fedez, cofanetto coi bodyglasses nuova serie in mano - la saletta della Feltrinelli di Porta Nuova a Torino il 30 aprile, per una presentazione del disco risolta ad autografi e foto. Ma questo ci interessa fino a un certo punto. Vivere aiuta a non morire è il disco easy di D, estivo, di bocca buona e sboccato, ma anche impegnato, se la triade chiave dei temi del nostro (amore dio morte) diventa un pentacolo aggiungendo i tag italia e politica (vedere particolarmente Il presidente). D ci si siede in mezzo, autorevole e carismatico anche nei tanti troppi pezzi-gag, ambigui tra adesione e strizzata d’occhio, un po’ automatici, un po’ slogan, tra culo, para-culo e presa-per-il-culo (il culto istantaneo Bocciofili, feat di Fedez e Mistico; il singolo L’amore a modo mio con il principe dei tamarri J-Ax), frulla assieme cantautori, spirito neomelodico, Daft Punk, italo disco, Crookers, dance 90, 883 e rap (le produzioni sono quasi tutte di Zangirolami), e regala comunque le sue perle e i suoi gimmick metrici e linguistici. Il citazionismo dargeniano (L’Italia è una ha sotto una tastiera alla Amarsi un po’ e accumula luoghi comuni alla Rino Gaetano) è ormai anche autocitazionismo, come il mare d’inverno: Due come noi, con un Pezzali pezzalissimo, è un po’ Bere una cosa un po’ Odio volare; Un fan in Basilicata è un po’ Prendi per mano D’Amico; Il ginocchio, sempre con J-Ax, un po’ In loop. Il disco parte a bomba con l’arrancante incalzare di VV, roba quasi da Musica senza musicisti, va


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senso dell’operazione. Troppo discontinuo e denso Drifters, troppo umorale e parziale Love.., incapaci entrambi di acquisire una forma propria e compiuta. Insieme, invece, il sentimento e l’esperienza del vagare, unitamente alla presenza dell’amore come forma-pensiero struggente e distorta, creano una sorta di racconto (tra Bukowsky e Lynch), dove i titoli dei brani hanno un peso inaspettato, e che si sviluppa anche in virtù delle contraddizioni che mostra, dei pieni e dei vuoti che scandiscono il ritmo della narrazione. Dopo le canzoni - si fa per dire - della prima parte, è dunque opportuno abbandonarsi al b-side che ne diluisce le nevrosi e le angosce in un moto andante e malinconico. Come se il viaggiatore si fosse fermato a contemplare la veduta di una città sterminata fatta di luci sfocate, provando a entrare nelle finestre intermittenti dei palazzi, provando ad abitare le vite che trascorrono negli appartamenti, nelle automobili che percorrono le strade, in un passante lontanissimo. A partire dalle atmosfere noir e meditabonde di Greyhound At Night tutto è lasciato a metà, proviene da un altrove e in un altrove sfuma; tutto si abbandona su caldi tappeti di organi, rintocchi di vecchi pianoforti, interferenze analogiche (Woman), archi malinconici (Love Is The Devil) e chitarre evanescenti. Dall’immancabile ballata romantica tra sogno, incubo e realtà (ancora Lynch) di Like The Ocean We Part, si arriva alla chiusa di Berlin, ultima tappa di questo viaggio imperfetto e forse sovrabbondante, ma pregno di sensazioni e scorci di un realismo lisergico, inquietante, eppure fotografico. (7.6/10) Antonio Laudazi

Dirty Beaches - Water Park OST (A., Maggio 2013) Genere: soundtrack Lo aveva anticipato, o meglio, suggerito nell’intervista di qualche tempo fa, ma non era un se-

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scioccante sulla carta, un percorso da apolide comune a molti in un mondo ormai globalizzato, ma che sembra aver un peso importante nella psicologia, nell’arte e nella sostanza del Nostro. Quanto alla forma, il doppio album in questione, diciamolo subito, non ha la stessa immediata e ipnotica presa del precedente, ma si presenta come un’opera certamente più vasta e multiforme, con nuove carte espressive nel mazzo, prime fra tutte l’elettronica. Prosegue comunque il discorso sullo sguardo perturbante lungo spazi metropolitani, in un’estetica del viaggio (nello spazio e nel tempo) dove il revival si traduce in sentimento di morte: il fantasma di Elvis che abitava Badlands, metonimia a raffigurare un’epoca e il suo ineluttabile “transitare”, è più trasparente, ma ancora permane. Un lavoro diviso in due capitoli separati e consequenziali: il primo, Drifters, più strutturato e arrangiato; il secondo, Love Is The Devil, frutto di manipolazioni ambientali, clangori post-jazz e liquidi drone. La cifra alienata e beffarda la ritroviamo già dall’incipit di Night Walk, mix scarnificato di Suicide, groove circolare di basso, rumorismi spettrali e voce corrosa dal riverbero: un cadavere anni ‘50 con brillantina e ciuffo ancora intatti. I Dream In Neon ricorda i nostri cari Bachi da pietra, Belgrade è una corsa lungo synth da colonna sonora sci-fi fine anni ‘80, Casino Lisboa è colorata con le tinte fosche e circensi del post-punk più deviato, fino a ELLI, batteria a 8 bit e un’interpretazione straordinaria dove la metrica pop incontra un minimalismo depresso, quasi da carillon. Sorprende poi l’uso di ritmiche spinte e ossessive a sostenere la colonna sonora di un movimento allucinatorio che raggiunge l’apice nella doppietta Aurevoir Mon Visage e Mirage Hall, nelle quali l’uso del francese e dello spagnolo acquistano una forza espressiva determinante per l’ingresso in un mondo che inizia ad apparire sempre meno impenetrabile. Ed è nella percezione del tutto che risiede il


Genere: IDM, electro Era da un po’ che il guru dell’elettronica d’Albione Mike Paradinas non sfornava un album in solitaria. Il boss della Planet Mu si era avventurato da poco nel progetto Heterotic con la moglie Lara Rix-Martin e con Gravenhurst, ma una sua prova in solitaria mancava dagli scaffali dal lontano 2007, un’era geologica parlando in termini musical-produttivi contemporanei. La lenta gestazione di Chewed Corners ci fa pensare ad un processo compositivo senza pressioni, alieno dalle logiche di mercato attuali. In questo mood calmo e conscio delle proprie possibilità, si situa una proposta che nell’ambient melodica fa il suo cavallo di battaglia. Se vogliamo proprio trovare un filo logico con il passato, è proprio dall’IDM ibrida di Aphex Twin che il discorso prende spunto. Paradinas è uno dei pochi musicisti ad aver collaborato fattivamente con Richard D. James in un album, Expert Knob Twiddlers (a nome Mike and Rich, pubblicato su Rephlex nel lontano 1996), dove regnava il divertimento quasi lounge fabbricato a puntino con loop giocattolosi. Oggi che è passato molto tempo, l’IDM di “tanto tempo fa” viene inevitabilmente filtrata dagli accadimenti che sono intercorsi fra quel punto zero e l’oggi. Già in Duntisbourne Abbots Soulmate Devastation Technique avevamo capito che l’uomo filava dritto per il suo percorso monolitico, discostandosi di poco da quello che gli è sempre piaciuto fare: elettronica squadrata con piena consapevolezza retrò, sorta di contraltare alla moda reynoldsiana del ripescaggio. Qui per fortuna si va leggermente avanti. L’immobilismo e l’ortodossia di quei bei tempi andati sono il magma su cui costruire un suono in apparenza datato ma prolifico, pieno di citazioni a classici del genere. Non è un caso poi che Mike abbia esportato il verbo footwork di Chicago in Inghilterra, con la compilation seminale Bangs & Works sulla sua Planet Mu e abbia aperto così un nuovo corso per i nuovi adepti della blacktronica UK. Dietro le sonorità di Paradinas stanno però nascosti i Boards of Canada (Hug), la new age della Windam Hill (Mountain Island Boner) e di Kitaro (Melting), un po’ di melanconia dark e, perché no, anche certi tappetini Animal Collective (il finale di Christ Dust). L’unico appunto hic et nunc è il basso footwork di Tickly Flanks: un accenno, che ammicca alle astrazioni di Kuedo e che potrebbe far leggere parte del disco come ponte tra vecchio e nuovo, non totalmente impermeabile al presente. In questo senso sono coerenti pure le sensazioni now à la Toro Y Moi di Smooch, ferme restando le didascalie stagionate del primo Selected Ambient Works di Aphex in tracce come Gunnar, o le infatuazioni per gli anni 90 disco-pop in Weakling Paradinas. Il ricordo dell’epoca IDM (cioè l’hi-fi sul lato produttivo) si palesa come costante elitaria per i padrini dell’elettronica d’oggi: questi ultimi propongono infatti una teoria sonica sempre più permeata da una dimensione di sogno e di utopia che non ha nulla a che vedere con l’afrofuturismo o con la blackness, ma che si basa su una “whiteness” disimpegnata che coglie l’attimo purtroppo già passato, sentimento che esalta le coorti hipster della musica da ballo. Paradinas è l’esatto opposto di Ford & Lopatin, duo che usa i suoni old restando, per partito preso, su posizioni da arcadia pre-00. L’evoluzione, Mike la promuove su due fronti: il primo sono i dischi sulla sua label (vedi i blasonati protagonisti della Planet Mu come FaltyDL, Boxcutter, Machinedrum o

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Mu-Ziq - Chewed Corners (Planet Mu Records, Giugno 2013)


Benga); il secondo sono le produzioni a suo nome: un diario intimista che coglie pochi ma significativi attimi dal passato e li cura con amore e devozione, trasformandoli in succosi appunti per un eventuale futuro. A noi piace crogiolarci nel ricordo di quel tempo andato, ma pur sempre attualissimo. Back to the cameretta is the new loud. (7.1/10)

greto. L’immaginario su cui si è costruito il senso ultimo del progetto Dirty Beaches si basa indubbiamente su quello filmico, specie se di serie B o indipendente. Non è così casuale o sorprendente che l’attrazione per le ambientazioni cinematografiche di Alex Zhang Hungtai lo abbia portato ad approdare alla soundtrack, come avviene in questo Water Park e come era già avvenuto per Practical ESP, un mediometraggio documentaristico del 2010 opera di Zoe Kirk-Gushowaty. Qui come allora, però, il trademark di Dirty Beaches va dimenticato. Il 50s rock’n’roll disumanizzato alla maniera dei Suicide o da crooner retro-futurista lascia spazio a dilatazioni atmosferiche, contrappunti immaginifici che si svolgono in forme liquide e visionarie pronte al supporto visivo. Non è altrettanto casuale che un paio di anni fa, nelle liner notes di una delle millemila tape sparse dal nostro in giro per il mondo - nello specifico Solid State Gold per la cinese (!) Rose Mansion Analog - il nostro auto-descrivesse il proprio suono come “the sound of waves against a picturesque and putrid shore”: in Water Park, anch’esso documentario di Evan Prosofsky ma stavolta su un parco acquatico dimenticato, l’acqua gioca un ruolo centrale e altrettanto liquide e cullanti sono le note che Alex distribuisce lungo le sette tracce del 10” armato di strumentazione all’uopo (oscillatori, loop station, software, chitarra trattata, ecc.). Tra scandagli dalle profondità che si irradiano nemmeno troppo pacifici (Floating Underwater

Watching Waves), flutti montanti (Water Park Theme), sospensioni oniriche (Phases) e malinconici accordi di chitarra in modalità post-hypna - c’è ovunque un non so che di colloso e zuccheroso che rimanda a sfocate immagini di telefilm e pomeriggi afosi - scorre una mezzora di musica che ci mostra un Dirty Beaches lontano dal rock ma sempre più a suo agio. (7/10) Stefano Pifferi

Divanofobia - I fantasmi baciali (A Buzz Supreme, Maggio 2013) Genere: rock cantautorale Bologna 2012: i Divanofobia incontrano Lucio Dalla, poco prima della sua scomparsa. Nello stesso anno si rifugiano presso il Soporoco Studio sui colli a registrare questo I fantasmi baciali con la collaborazione di Michele Postpischi degli Ofeliadorme. Sempre nel 2012, infine, esce la raccolta di poesie Parlo dentro (Edizioni Prufrock) di Andrea Lorenzoni, che si farà poi carico di tutti i testi del suo nuovo collettivo musicale. Il background è dunque chiaro: la Bologna cantautorale, con le sfumature rock di base, fortemente suggestionate dalle visioni idiosincratiche dei testi dell’autore in questione. Nulla di nuovo, però: alle spalle di questi fantasmi da baciare ci sono i gorgheggi vocali di Umberto Maria Giardini, quando ancora si faceva chiamare Moltheni, gli ululati di Manuel Agnelli a loro volta sorretti da una versione soporifera

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Marco Braggion


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Echopark - Trees (We Were Never Being Boring Collective, Maggio 2013) Genere: dream, electro Fa sorridere leggere nelle note biografiche di Echopark che il nome del progetto trae origine dal quartiere verde di Los Angeles, perché la Puglia, terra d’origine dell’artista in questione, è un po’ “la California italiana, con gli skater, i surfisti, la scena delle band e il sole”. Fa sorridere pensare che Antonio Elia Forte (il nome che si cela dietro il moniker Echopark) sia un cervello in fuga dal Sud Italia per svolgere il nobilissimo lavoro di missionario presso la capitale europea della

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musica: Londra. E fa altrettanto sorridere pensarlo chiuso nella sua cameretta in affitto presso Whitechapel, alle prese con sample, sintetizzatori, software, laptop e drum machine, tutto teso alla ricerca spasmodica di un’imperfezione elettronica, dettata dalle melodie nebbiose delle sue canzoni. Senza un punto riferimento particolare, ma con la voglia di sporcarsi le mani con un’attrezzatura casuale, raccattata qua e là, chiesta in prestito a un amico o a un conoscente. Fa sorridere, certo, se non pensiamo ai frequenti dibattiti sul brain drain. Quelli che dicono che in un’Italia troppo miope alle proposte di valore spesso ci dimentichiamo dell’originalità, forzando in qualche modo la migrazione. Successe a suo tempo con quel che restava dei Disco Drive - Banjo or Freakout -, succede ora a Indian Wells (anche lui un missionario del sud) e Lilies on Mars (Sardegna). Quel che conta è che la storia di Echopark, partita da Londra - dove il nome comincia già a circolare - è arrivata anche da noi grazie agli scout attentissimi della We Were Never Being Boring. Trees, dunque. Un album in undici tracce che racchiude l’essenza già nella copertina: un acquarello caleidoscopico (degli alberi, forse?), appannato dalla sovraesposizione dei pixel. Quasi come se Forte ci volesse dire che la sua è sì una musica fatta di luce rifratta dalla cassa dritta e da synth che parlano il linguaggio dei vegetali, ma anche una vibrazione distorta e inafferrabile, nuvolosa come il cielo di Londra, “pixelata” come la scarsa definizione di una fotografia scattata male. Di nuovo, l’imperfezione. Non ci stupirebbe vedere nella cameretta dove Echopark è intento a suonare i suoi giocattoli, qualche disco di quegli Animal Collective (l’esempio massimo dell’imperfezione) presenti nella follia psichedelica di Cranes, Youth And Fury e No Time To Riot; non ci stupirebbe vederlo salire sul palco di spalla ai Tame Impala o sentire Mountain, Gary Clouds o Waves nei migliori indie disco club d’Europa (un po’ come è successo - per

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e strumentale degli Afterhours, le fantasie di un Dimartino, qualche sporadico ruggito in stile Marlene Kuntz, la giusta dose di schizofrenia Marta Sui Tubi e, soprattutto, molta (troppa) melodia da canzone italiana post-cantautorale: Negramaro, Modà, Le Vibrazioni. Per vedere i lati migliori dobbiamo fare lo sforzo non indifferente di astrarre i testi dal contesto (splendide le parole di Ci-viltà, Forza e sigarette, L’eremo, ecc) o, viceversa, di immergerci negli equilibri sonori abbandonando pretese di stabilità. Basta guardare agli arpeggi ossessivo-compulsivi di chitarra in Sorprendente, agli stop & go di Campo di nervi, alla roboante e inquieta atmosfera di una Non farti corrompere che vorrebbe strizzare l’occhio ai certi suoni di Slint, Grizzly Bear o Radiohead. I fantasmi baciali è nel complesso un’operazione non del tutto riuscita, perché insiste su un genere sterilizzato da troppi concorrenti, che, a lungo andare, l’hanno corroso. La lingua dei testi, vera forza propulsore di questo lavoro, non collide con l’orchestrazione tutta, risultando spesso asfissiata e logorata nella ripetitività delle forme. Un vero peccato. (5.7/10)


Genere: soundtrack Da sempre i Sursumcorda fanno musica per immagini, ovvero producono soundtrack di ogni ordine e grado (per film, documentari, teatro...). Anche quando hanno tentato la strada della canzone canonicamente intesa sembrava comunque di sentire lo sfarfallìo del proiettore, ambienti sonori che si arricchivano di tensione e lirismo secondo un lessico di inquadrature, montaggio, luce. Un “galleggiare” cinematografico che trovava appigli e spinta nell’impasto di movenze orchestrali, calligrafia autorale e digressioni etno-folk con licenza di esulare jazz. In questo senso, con Musica d’acqua realizzano l’album che si avvicina più di ogni altro al cuore della loro proposta. È una raccolta di undici brani strumentali concepiti per diversi progetti cinematografici e televisivi - tra cui il corto Francesco e Bjorn di Fausto Caviglia e Amir di Jerry D’Avino, lavoro quest’ultimo che li ha visti premiati al Gold Elephant World International Film & Musical Festival di Catania -, diversi quindi per impostazione ma unificati da una stessa visione “liquida”, ovvero mutevole e disposta a diluire suggestioni, radici, coordinate e scenari in misture fluide e suggestive. Un plotoncino di strumenti diversamente esotici (kalimba, berimbao, kora, cavigliere, dayan, guzheng, sansula, udu drum...) si accompagna ad archi, chitarre, pianoforte e synth discreti per dare vita a situazioni ibride però mai improbabili, luoghi “altri” che ti invitano a sospendere l’incredulità per l’intensa determinazione e l’equilibrio visionario. Chimere stilistiche come Entropia (folk radente da steppa, brezza d’archi letteraria e strane bordature sintetiche) si alternano a ineffabili intrecci geografici come Miraggi (echi d’Asia, mediterraneo, sudamerica e balcani). Per una Amir che procede tra apprensione sospesa quasi Sigur Ros ed epica melò morriconiana c’è il placido intrigo di banjo, hammond e tromba di Red Floyd (come un lirismo blasé pre-sintetico Air). All’eleganza onirica della title-track (pensosità latine e fatamorgane orientali) risponde il valzer asprigno di Behind A Dripping Window e quello sinuoso (splendido il violino) di The Promise Of The Merrow. Disco notevole che consacra il sestetto lombardo tra le migliori realtà italiane. (7.3/10) Stefano Solventi

certi versi inspiegabilmente - ai Postal Service). A quanto pare, la filosofia dell’imperfezione funziona magnificamente nel catturare gli scatti metamorfici delle emozioni, sia quando l’happening sonoro vede trionfare il riverbero pericoloso (ma sapientemente gestito) della voce e dei tamburi, sia quando l’aria rarefatta della sera concede ai fumi anglosassoni un attimo di pausa. Ed è lì che si collocano brani come Franky, Raindrops o

Brother, dettati in silenzio alla mano destra che, con la giusta malizia, pizzica le corde di un’acustica. Poi c’è unaTeleportation nella quale, noi che siamo rimasti al di qua della Manica, ci permettiamo di leggere un desiderio latente, da parte di Echopark, di essere teletrasportato nella sua terra d’origine. Magari, un giorno. (7.4/10) Nino Ciglio

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Sursumcorda - Musica d’acqua (A Cup In The Garden, Giugno 2013)


Genere: rock autorale Dopo l’esperimento post-rock/slow core de La stasi , Giorgio Scorza, Daniele Mantegazza e Lorenzo Borroni approdano assieme a Pasquale Delfina all’esordio Il topo che stava nel mio muro, pubblicato sotto il moniker di El Santo. Undici tracce di alternative rock marcatamente italiano, orientato sia verso accenti maggiormente psych/blues, sia verso soluzioni più cantautorali. L’album si apre con Garage #5, uno slogan apocalittico-rumorista che introduce a Marabù, dove alla cinica incombenza delle liriche (“Ti hanno convinto che sei il prodotto di 50 anni di Andreotti, sacerdoti e Marabù”) si accompagna una ruvida energia rock, che richiama ai maggiori nomi del generi, soprattutto Afterhours e Marlene Kuntz. Con questi ultimi, gli El Santo condividono soprattutto una certa propensione per l’armonia distorta - come mostrano, ad esempio, le chitarre stirate di Sugar Ray -, nonché la capacità di costruire testi in cui convivono, in buon equilibrio, sentenze e letterarietà, ermetismo e ironia: brani in cui la spinta propulsiva del genere di riferimento resta sempre in primo piano, ma capaci, anche, di intrecciare soffusioni da (quasi) ballad e ricercatezza cantautorale, come mostrano rispettivamente Il salario delle formiche e Dean. L’incombente tensione di Motown (quello che ti uccide), uno dei pezzi più riusciti del disco, riunisce invece languori bluesy e altalene psych, mentre l’intro allucinato di Ossessiva, che chiude l’album, sintetizza quanto elencato finora: ruvidezza elettrica da un parte e visionarietà lirica dall’altra, unite ad una buona abilità di costruire pezzi dove alla ricercatezza e cura dei testi si accompagnano buone melodie, per un esordio che, pur senza fare dell’originalità il suo maggior pregio, riesce a inserirsi in un panorama - quello dell’alt. rock

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nostrano - a volte fin troppo affollato. (6.8/10) Giulia Antelli

Elio e le Storie Tese - L’album biango (Sony, Maggio 2013) Genere: demenziale avant Ho da sempre un problema con le canzoni degli Elii. La definirei “sindrome delle risate a denti stretti” provocate dalle loro gag argute, talora sottili e ingegnose ai limiti del genio, casomai subito dopo smentite da svaccate demenziali un tanto al chilo. Mi diverte il loro citazionismo compulsivo dissacrante, funzionale e parallelo al cabaret dadaista/satirico dei testi (proprio questa vaghezza tra satira e nonsense, con esiti spesso inoffensivi, finisce per sembrarmi il loro difetto peggiore), però una volta consumato non lascia traccia, è un siparietto che svapora appena cambi canale. Ecco, il punto credo sia proprio questo: con gli anni sono diventati una spassosa band da chiosa televisiva e radiofonica (spot compresi), prodighi di trovate ed espedienti in Parla con me e su Radio Deejay, ruolo per il quale l’aspetto musicale e canzonettistico è funzionale o persino collaterale alla performance. Il guaio è che non lo tieni in piedi un disco a forza di gag. Consumate le risatine (a denti stretti) del primo ascolto, ne resta ben poco, soprattutto se l’ispirazione non è più - come è naturale - quella dei tempi migliori. Pochi momenti memorabili insomma in questo Album biango, nono lavoro lungo per la band meneghina: di certo i virtuosismi patafisici de La canzone mononota e Come gli Area, quest’ultima preceduta da un breve pezzo di fusion strumentale - il cui titolo è un calembour da apoteosi nerd: Reggio (base per altezza) - suonato dai veri Area (residui). Ostentazioni di abilità e padronanza della materia, persino di devozione, che altrove - nel Modugno infebbrato dance di Amore amorissimo, nell’ironia facilona del Complesso del primo maggio - diventa parodia

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El Santo - Il topo che stava nel mio muro (A Buzz Supreme, Maggio 2013)


tificazioni chamber, piano classico, smalti electro usati con dovizia ecc.), e non ultima un’immagine coordinata fatta di videoclip, pose studiate e collaborazioni altrettanto mirate (la Brandt Brauer Frick e il successo di Tonight su tutte). Sementi di un successo scritto sulla carta, diventato realtà e, non dimentichiamoci, costruito interamente con le proprie mani tra un lavoretto diurno e l’altro. Inevitabile, viste le premesse, la grossa pressione a cui la producer è stata sottoposta nella realizzazione di un sophomore che, per dirla subito e al netto dei guizzi produttivi del deubtto, deluderà i fan glamour della producer. “Ho deciso di sfidarmi” ha dichiarato Emika “volevo realizzare l’album che avevo immaginato tutto Stefano Solventi da sola, senza inegneri del suono, senza studio professionale, solo la mia creatività”. All’isolmento è corrisposto un output spesso essenziale, Emika - Dva (Ninja Tune, Giugno con brani dai ritornelli non memorabili e strofe 2013) che vanno metabolizzate con ascolti ripetuti, Genere: Noir soul del resto queste sono tracce che hanno richiesto Le parole chiave nel successo dell’esordio di un fatiscoso anno di lavoro nell’appartamento Emika nel 2011 possono riassumersi in sound della producer - coadiuvata a metà del percordesign e nella definizione di noir lady. Con la prima ci riferiamo a una solida architettura sonica so, da Hank Shocklee nelle vesti di produttore esecutivo - ballad strette attorno a (parole sue) in grado di spalmare le atmosfere trip hop di Bristol sulle superfici di bassi tanto debitori della differenti dimensioni d’oppressione. dubstep briannica quanto della techno berlinese; Nel cupo ed essenziale suono di Dva il grosso con la seconda parliamo d’efficaci giochi sponda lo fanno dei synth riconducibili all’electro dei club dell’Est e corposi bassi che assorbono l’urcon tale architettura, sia per mezzo di una voce genza dubstep del debutto (Centuries), d’altro nuda che sussurra, s’angoscia, si erge e palpita, canto trovano spazio anche pianismi, archi e, sia grazie al suo utilizzo filtrato da trick da studio in generale, un’eleganza algida in stile Appadi registrazione. rat Band (Mouth To Mouth) che, in apertura, ci Su queste basi, utilizzando strumentazione sia porta diritti all’opera con tanto d’accompagnasintetica che acustica e, non ultimo, il field remento della The City Of Prague Philharmonic cording (ricordiamoci che è stata Emika a fornire Orchestra e al feat della soprano Michaela i field recording per la compilation Funf della Šrůmová (Hush). Premesse deciOstgut Ton) la Nostra ha costruito non solo le hit se, anche ideali per una reinvenzione, eppure (Tonight, 3 Hours) ma anche un disco coerente il risultato che la bristoliana cerca è un lavoro nelle dominanti cromatiche (nero brillante, nero opaco, nero lucido ecc.), variegato nelle soluzioni sottopelle (Sing To Me non è proprio Tonight) che non sempre riesce a catalizzare le urgenze canore (si va dall’omonimo dei Portishead, ai Massive Attack di Mezzanine) e arrangiative (stra- necessarie in scrittura (Mouth To Mouth, tan-

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piuttosto gratuita, un pò come quando la Gialappa’s percula il Grande Fratello: finisce, ahimé, che la grana trash di oggetto e soggetto si mischia nello stesso calderone. Il resto sono storielline più (Il ritmo della sala prove, Il tutor di Nerone) o meno (Una sera con gli amici, quella Luigi il pugilista che sembra un Walter Chiari di serie b) azzeccate, con momenti - Dannati forever, Lampo, una Enlarge (Your Penis) che scozza Police e ELO - in cui la satira sociale cazzona sembra denunciare una certa senilità, su cui la parata di cameo (Eugenio Finardi, Fiorello, Nek, Fabio Treves, Marco Mengoni...) spennella una patina di goliardo avanspettacolo. (5.6/10)


Genere: Folk rap Prima Aesop Rock ha collaborato con la Dawson per l’ultimo album da solista dato alle stampe, quel Thunder Thighs arrivato dal nulla nel 2011 e impostosi come uno dei momenti di maggior profondità creativa della titolare. Un anno dopo l’ex Moldy Peaches ha restituito il favore nel disco di Aesop Rock Skelethon del 2012. Ora i due hanno deciso di presentarsi sotto una sigla comune per sedici tracce al confine tra due culture musicali così diverse come il rap e il folk, ma coerenti per ambientazione urbana. In realtà l’(anti)folk della Dawson, come abbiamo scritto analizzando i suoi testi, ha predisposizione spiccata per la valanga di parole, quasi di un Bob Dylan circa Blonde On Blonde in versione intima e autobiografica. Per questo e per l’originalità all’interno dei rispettivi mondi, il matrimonio musicale tra i due non appare forzato, ma anzi la logica conseguenza di un rapporto che ha già dato buoni frutti negli episodi precedenti. Aesop Rock che canta (nel senso proprio della parola, cercando quindi una vera e propria melodia) in Organs non è proprio un bel sentire, soprattutto se le lines si posano su una nenia infantile. Quando avviene un spostamento contrario, invece, con la Dawson che si avvicina al mondo di Aesop, le cose funzionano meglio, tanto che nei 38 secondi di Superheroes, in cui si intona “sandwiches!”, sembra di essere tornati ai tempi migliori dei Moldy Peaches, più vicini alla cultura urban di quanto ci verrebbe in mente di primo acchito. Certo Aesop ha poco della leggerezza da elfa freakettona della Dawson, ma Kryptonite e Jambi Cafe sono equilibri quasi perfetti (nel secondo caso anche per la lunghezza da open-mike-night che la caratterizza). Ci sono brani più infantili (Scissorhands, The Aquarium), come se i due avessero continuato l’album per bambini della Dawson, ma anche un suono che, come avveniva già in Thunder Thighs, è più da band che da solisti al lavoro (vedi Delicate Cycle o Eyeball Soup). Un album che seppure non rappresenta una svolta per la Dawson dal punto di vista delle possibilità musicali (in fondo sembra più un disco suo che di Aesop Rock), mette comunque insieme un pugno di brani di buon livello che sembrano più della somma delle singole parti che i due hanno portato in dote alla nuova creatura. (7.2/10) Marco Boscolo

to per chiarire il concetto). Se Emika punta ad essere una Beth Gibbons in versione Berghain con nel taschino le lezioni di tragedia in musica di Mahler e Rachmaninov (Dem Worlds), obbiettivi e realtà devono ancora trovare allineamenti consistenti ma, d’altro canto, non è una novità che un seguito discografico si presenti come un’opera di transizione.

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Rimane una certa nostalagia per i vecchi modi della diva (riproposti in Searching) e non taciamo alcune perplessità nell’interpretazione (Criminal Gift o la scialba cover di Wicked Game di Chris Issak) assodato comunque il fascino di un set di canzoni dalla presa sulla lunga distanza dove l’infanzia a Praga, l’adolescenza a Bristol e una Berlino a far da ponte tra passati e presenti cre-

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The Uncluded - Hokey Fright (Rhymesayers Records, Maggio 2013)


ano un’atmosfera ammaliante e non priva delle giuste gradazioni di grigio. (7/10) Edoardo Bridda

Genere: folk soul Ernesto De Pascale aveva tra le altre cose il dono di restarti impresso nella memoria, anche per le cose più banali. In questi due anni trascorsi dalla morte ho letto su di lui molte testimonianze aneddoti o semplici frammenti di vissuto - da parte di conoscenti più o meno intimi, più o meno occasionali. Faccio parte senza dubbio di quest’ultima categoria, ciononostante mi tengo cari diversi episodi che me lo fanno ricordare come un appassionato totale, uno capace di far convivere il disincanto disinvolto di chi ne ha viste (e toccate con mano) parecchie e l’entusiasmo incontenibile del ragazzino. La mezza età significò per lui l’inizio di un percorso musicale da solista in bilico tra dilettantismo e devozione, che ne rivelò il talento magari non cristallino però sincero e ben sintonizzato. A Morning Manic Music del 2007 seguì l’anno successivo My Land Is Your Land, quest’ultimo realizzato a quattro mani con una specie di leggenda come Ashley Hutchings. Entrambi lavori più che apprezzabili, destinati ad avere un seguito che Ernesto ebbe solo il tempo di progettare, lasciando un’eredità di due pezzi finiti e altri solo abbozzati, perlopiù tracce vocali con accompagnamento di piano, hammond e fender rhodes. Si deve quindi alla “famiglia” de Il Popolo del Blues, in particolare a Guido Melis e Giulia Nuti (tra l’altro basso e viola degli Underfloor), il completamento di questo Seven Songs While The City Is Sleeping, raccolta meritevole oltre il doveroso rituale della memoria. Seguendo gli appunti originali ed allestendo

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Ernesto De Pascale - Seven Songs While the City is Sleeping (Il Popolo del Blues, Aprile 2013)

orchestrazioni curate però mai sopra le righe, hanno ricavato sette ballate tra il romantico ed il laconico, nelle quali avverti il retrogusto spiegazzato e fascinoso del songwriting che sa mischiarsi alla vita, come a volte capita al miglior cantautorato folk pasturato soul. Saranno i milioni di canzoni ascoltate, le infinite discussioni e riflessioni, fatto sta che De Pascale aveva capito quando affondare il colpo e quando alzare il piede dal pedale, riuscendo spesso ad azzeccare un prezioso equilibrio tra languido ed essenziale. Ti ritrovi quindi con una Sixty Second Kiss velluatata gospel che sembra un Randy Newman immalinconito Leonard Cohen, con una Subway To The West Country che immerge Alex Chilton tra tremori agrodolci Bill Fay, oppure coi tepori agresti e allusivi - vagamente Lambchop - di My Way Or The Highway. In tutte avverti un senso di gioco al limite, di artigianato che azzarda sottigliezze artistiche, ed è un valore aggiunto perché produce tensione commovente e quasi mai compiaciuta, pure quando non azzecca la quadratura come nella piuttosto sfocata We Were One (parzialmente riscattata dalla tromba di Fabio Morgera). Giusto quindi l’epilogo di Wish You Well, un sogno ad occhi aperti che a metà diventa una marcetta impettita di ance e ottoni, come dire che la musica in fondo è un prodigio sempre meritevole di celebrazione, anche quando l’accordo dominante è il rimpianto. (7.1/10) Stefano Solventi

Faz Waltz - Back On Mondo (Piovra, Maggio 2013) Genere: rock Una delle prospettive più allettanti, quando si mette su una band, è quella di ridefinire un genere creandosi un’estetica a partire dalla combinazione dei propri background di influenze. Il più delle volte questo genere di partenza è il

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Fleetwood Mac - Extended Play (, Maggio 2013) Genere: Pop L’ultimo vagito discografico degno di nota era Say You Will, anno di grazia 2003, e a dirla tutta non è che già allora avessimo proprio questa urgenza di ascoltare “questi” Fleetwood Mac. Che per la cronaca, proprio come dieci anni fa, non contano nell’organico Christine McVie. Il dubbio che si tratti di un operazione di monetizzazione per la recente visibilità avuta dalla ristampa (monumentale) di Rumors è legittimo. Siamo quindi di fronte a quattro brani affidati velocemente ad iTunes per variare un po’ la scaletta dei live e pagare il mutuo della casa al mare? Sì e no. Sì, perché licenziare un EP di fatto scritto completamente da Lindsey Buckingham sotto la gloriosa sigla non è operazione pulitissima. E anche musicalmente, infatti, siamo più vicini a un disco del Buckingham solista, che a canzoni dei Fleetwood Mac. No, perché almeno per l’intarsio di voci Lindsey/Nicks di Without You il disco conserva parte dell’antico fascino (anche se non è come se ci fosse la McVie, sia chiaro). No, perché l’hook pop dell’opening Sad Angel e di Miss Fantasy sono lezioni di classe. Certo, come sarebbe la ballatona It Takes Time senza i prodigi degli studi di registrazione moderni? Riuscirebbe il 64enne Buckingham a reggere con quel filino di voce? D’altra parte la produzione in altre occasioni, come le tastiere di Sad Angel, è in realtà un peso per un brano basato sulla chitarra acustica che avrebbe vissuto tranquillamente di vita propria anche se accorciato di una ventina di secondi. Sicuramente prescindibile per chi non ha seguito la vicenda Fleetwood Mac, Extended Play farà comunque felici i fan che da (forse) troppo tempo non ascoltavano qualche brano nuovo. (6.3/10) Marco Boscolo

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“rock”, termine che, specialmente in ambito di critica musicale, che si parli di White Stripes o di Little Tony, si è tramutato in un noioso e abusato emblema di banalità. I comaschi Faz Waltz, al loro terzo album in sei anni di attività, centrano in pieno l’obiettivo, partendo appunto dal rock per poi contaminarlo attingendo dai suoi derivati più stimolanti. Immaginate un Marc Bolan incazzato che canta gli Stooges accompagnato dai New York Dolls e otterrete gli ingredienti che rendono i Faz Waltz un gruppo da tenere d’occhio. Una miscela di garage e glam che, fatta eccezione per pochi nomi (vedi i Barbacans), ben poco ha a che vedere con ciò che propongono altre band connazionali contemporanee. Dopo i feedback positivi di Life On The Moon (Rocketmann Records, 2011) e una rinnovata formazione che li ha portati da quartetto a power-trio (oltre che ad un cambio di batterista), con Back On Mondo questi electric warriors italiani ritornano a pestare coi piedi per terra. L’impatto deciso e graffiante delle prime due tracce cattura subito l’attenzione degli appassionati di quel Raw Power proto-punk degli Stooges dei primi anni ‘70, carico di un garage mai abbastanza sporco che ritroviamo più o meno in ogni traccia e che ci fa venire in mente certi Hives o ancor meglio i Kinks (Baby Left Me). Altrettanto percettibile il desiderio di revival del primo glamrock anni ‘70 in una chiave moderna che rievoca i JET in una versione meno mtviana/patinata e più street (Get The Poison). Tredici tracce ben strutturate con un tiro che cattura ma che non sorprende, un’interessante registrazione in presa diretta perfettamente in linea con le pretese vintage di cui sopra: il tutto abilmente confezionato ma con un margine di crescita, in termini di originalità, ancora da sfruttare appieno. (6/10)


Genere: Indie La difficoltà di rimanere fedeli a se stessi. A sentire le prime dichiarazioni del quintetto di Sunderland (Gran Bretagna), è stato questo il punto più difficile da tenere in cosiderazione in questo anno in cui la band ha rimuginato sulle qui presenti undici tracce: “abbiamo riso, pianto, ci siamo sciolti e riuniti, abbiamo letto libri, ascoltato musica, scritto canzoni, cestinato canzoni, siamo andati al pub, a Wembley, siamo diventati un po’ matti, quindi ci siamo dati uno schiaffo, soppesato ogni singola decisione, lavorato duro e alla fine abbiamo fatto un disco di cui siamo molto orgogliosi”. Che sia retorica da orgoglio della provincia UK o la realtà, probabilmente non lo sapremo mai fino in fondo. Quello che resta è un disco che ritorna sul luogo del delitto di due anni fa, spostando di poco o niente la barra. Non che si tratti di un lato B di Hunger o, comunque, di una fotocopia di quel disco. In questo anno vissuto intensamente, i cinque membri del gruppo sono diventati una band più coesa e musicisti più sciolti. Merito forse di Bernard Butler (“talvolta il sesto membro della band”) e della voglia di crescere. Comunque ora Frankie Francis canta con più sicurezza e in alcuni momenti ricorda il compagno di merende di Butler, ovvero Brett Anderson. Una sicurezza in più si può ravvisare anche nella chitarra di Michael McKnight, quest’ultimo, assieme a Frankie Francis, spina dorsale del sound, un po’ come lo sono stati i loro miti Morissey e Johnny Marr negli Smiths o gli stessi Anderson e Butler negli Suede. Il risultato, però, è ancora una volta un disco che promette, ma chissà se in futuro manterrà. Nessuna della canzoni è brutta e tutta l’operazione è messa a fuoco con maestria nel filone del suono scozzese e del successivo britpop. Manca però il guizzo, quell’elemento che faccia andare

oltre l’agrodolce nostalgia post adolescenziale e ci inviti a riascoltare di nuovo. Tutto bellino, ma temiamo non reggerà nemmeno a qualche mese di ascolti. (7/10) Marco Boscolo

Giacomo Toni - Musica per autoambulanze (Martelabel, Giugno 2013) Genere: cantautorato jazz Dopo tre album autoprodotti e pubblicati assieme alla 900 Band, Giacomo Toni, pianista romagnolo classe 1983, arriva con Musica per autoambulanze al primo album nominalmente solista. Un disco che racchiude dodici brani collocabili tra la canzone d’autore più tradizionale e un riuscito gioco pop-jazz. A dispetto dell’opening track Se ti vedo, dalle atmosfere soffuse e immalinconite (che potrebbero far presagire l’ennesimo emulo di un certo romanticismo nostalgico di cui sono piene le discografie italiane), il cantautorato di Toni, come dimostra la successiva L’autoambulanza, si muove disinvolto tra le pieghe di un’irriverente cinismo, sempre in bilico tra frenesia swing ed eleganza jazz. E sarà forse anche perché lo scorso anno il musicista di Forlì ha deciso di intraprendere una serie di concerti in cui lo omaggiava assieme a Lorenzo Kruger dei Nobraino, ma certo è che la presenza di Paolo Conte - e del suo ghigno baffuto - riecheggia spesso in tutto l’album: un’influenza che ricorre, appunto, soprattutto nella stessa sorniona ironia, come accade nel piano-voce teatrale di Come una specie di mezzo matto o nello sghembo blues/declamazione di Un bevitore longevo. Una giornata difficile, invece, costruita sul morbido contrappunto tra voce e trombone, riporta dentro i binari di una scrittura più tradizionale, anche se è sempre costante la voglia di cercare soluzioni, se non del tutto originali, quantomeno

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Frankie & The Heartstrings - The Days Run Away (Wichita, Giugno 2013)

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personali e inconsuete: Maledizione riformula il paradigma della canzone d’amore attraverso un languido jazz che esplode in un finale rumorista fatto di piano, sax e trombone, mettendo in mostra un Toni capace di giocare coi rimandi, come conferma anche la verve caposselliana di Le macchine vedovi. Un ultimo esempio, quest’ultimo, che ribadisce la classe con cui Musica per autoambulanze da un lato riprende e reinterpreta le immancabili influenze cantautorali - in cui, oltre a Conte, figurano anche Jannacci e Buscaglione - e dall’altro è capace di costruire testi mai banali in cui acume e sberleffo, poeticità e disillusione, si mischiano abilmente. (7/10) Giulia Antelli

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Genere: dream, elettronica Sulla falsariga dei Solar Bears dell’esordio e del recentissimo Supermigration, quindi su un orizzonte più da band che non dimentica la tradizione elettronica e, anzi, ne approfondisce il versante analogico tastieristico, troviamo, sempre sulla fida Planet Mu, il progetto Heterotic dei cogniugi Paradinas, ovvero il boss della label Mike e la compagna Lara già avvistati nei remix della No Names di NastyNasty e della Shutter Light Girl di Kuedo, entrambi del 2011. Love & Devotion ne è il vero debutto, un’inebriante e impalpabile immersione in una forma canzone ai sintetizzatori, femminea e studiata ai limiti del manierismo. Il focus della coppia, del resto, mira a un’autodichiarata urgenza 80s vista nella sua più intima e nostalgica malinconia. A tal proposito, Nick Talbot / Gravenhurst, chiamato a scrivere e interpretare ben quattro delle otto canzoni in tracklist, si è concentrato proprio sui temi della fragilità della memoria e dell’ineluttabilità del presente, per dare al canzoniere un preciso pallore tra calor bianco e avvolgenti puntelli dan-

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Edoardo Bridda

Hookworms - Pearl Mystic (Gringo, Aprile 2013) Genere: hard psych Sono in cinque e vengono dal profondo Nord dell’Inghilterra, questi psych-addicted che si nascondono dietro un anonimato mai come oggi demodé e rubano il nome a un parassita intestinale. E come il parassita intestinale prendono da dentro, facendoci soccombere nella loro psichedelia ora docile e soffusa, ora corposa e stordente, senza che si possa opporre nessun tipo di resistenza. L’asse è quello della cara e vecchia psichedelia inglese rinvigorita sul finire degli ‘80 e l’inizio dei ‘90 da band come Loop o Spacemen 3. Dense manovre di chitarre lattiginose, reiterazioni Sixties a creare vortici di suono (il massacro di Brian

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Heterotic - Love & Devotion (Planet Mu Records, Maggio 2013)

cey, proprio come se il disco dovesse lentamente accompagnare l’ascoltatore dal rave alla spiaggia, dall’estasi (Bliss) all’anomia (Fanfare). Non mancano i richiami ai New Order del caso, agli albori del synth pop e al pop più umorale e vacanziero della decade edonista, eppure l’album, che finisce per mostrarsi funereo in un interessante finale, non è in grado di mostrarsi addictive come i suoi protagonisti spererebbero. L’anomico epilogo joydivisioniano fa da frettoloso contraltare a un percorso iniziato con i tepori chill della buona opener Bliss e cavalcato nella Blue Lines cantata da Talbot, entrambe con richiami house tastieristici e avvolte nello stato di grazia di un’epoca sospesa nel mito del clubbing ibizenco. Impeccabile Paradinas nel gioco delle coreografie, nei chiaroscuri (Wartime, Robo Corp), oppure nelle pieghe dreamy (Devotion) come anche nei puri acquerelli (la splendida Knell in odor di Vangelis), non sullo stesso piano, le liriche e la forza dell’insieme. Un lavoro che aveva le carte in regola per incantare e invece non lascia il segno. (6.8/10)


Genere: songwriting pop Un nuovo album con inediti dopo ventiquattro anni (l’ultimo era stato Tokyo Rose nel 1989) proprio quando compie settant’anni: un bel traguardo per il genio pop Van Dyke Parks, che non ha di certo bisogno di molte presentazioni. Dalla collaborazione con i Beach Boys e con Brian Wilson (le liriche per il tormentato Smile), nonché con numerosi altri artisti come The Byrds, Phil Ochs, Harry Nilsson, Randy Newman, Frank Zappa, fino a quella più recente (2006) con Joanna Newsom per il secondo album YS, il compositore, arrangiatore, liricista ed autore americano è ormai ampiamente entrato di diritto nell’Olimpo dei Grandi. La ristampa del debutto, targato 1968, Song Cycle, risale al 2012 ad opera della Bella Union di Simon Raymonde e proprio sull’etichetta dell’ex-Cocteau Twins esce ora Songs Cycled, che già dal titolo richiama il famoso quasi omonimo. Song Cycle era un ambizioso caleidoscopio di generi e impressioni ad opera dell’allora giovanissimo autore; mescolava una struttura di base orchestrale con almeno un secolo di musica popolare americana: bluegrass, gospel, ragtime, jazz, cantautorato pop e folk, Americana tradizionale, musical, psichedelia e molto altro ancora, in una struttura “concept” sequenziale. Un’opera tutta americana che assecondava il bisogno di “classicità” del Nostro, mentre esprimeva istanze di rinnovamento e di protesta. Songs Cycled ne riprende la concezione musicale poliedrica, ma non la struttura tematica; consta di un insieme disparato di pezzi uniti tematicamente dal punto di vista concettuale, più che musicale. Vi si trovano orchestrazioni, musica latina e tropical, pop raffinato e d’ambiente, gospel e musica corale, canzone teatrale brechtiana e quant’altro. Sono presenti inediti (Dreaming of Paris, Wall Street e Missin’ Missippi), nuove collaborazioni (Money Is King con Neville Marcano), cover inedite (Wedding In Madagascar, una folk song tradizionale, The Parting Hand, inno corale che risale al 1835) e registrazioni di vecchi pezzi (come Hold Back Time, targata 1995 dall’album Orange Crate Art allora realizzato con Brian Wilson). Così come il debut album, Songs Cycled riflette totalmente il suo essere “un cane sciolto a piede libero”, come Van Dyke Parks si autodefinisce, che rivede con amarezza ma non con rassegnazione il vecchio “sogno americano” come la guerra e il bombardamento statunitense in Iraq (Dreaming of Paris), l’11 settembre e la crisi finanziaria (Wall Street), l’uragano Katrina (Missin’ Missippi) e numerosi altri racconti grandi e piccoli dell’America di provincia. Un’attitudine critica investe tutto il disco, mentre l’autore rivendica il vecchio ma non superato ruolo da attribuire ancora oggi alla forma-canzone come musica di protesta: “il più potente strumento politico a disposizione, ho imparato tanto da Woody Guthrie, Phil Ochs, e sì, Bob Dylan”. Nell’insieme, allora, Songs Cycled tiene bene, confermando, se mai ce ne fosse stato il bisogno, la statura siderale del Nostro. Certo, un’opera monumentale, fresca e innovativa come Song Cycle è molto difficile da ripetere in quella forma e a distanza di ben quarantacinque anni. Ci si avvicina da par suo il Parks odierno della maturità, mantenendone la forza espressiva e il vigore. Non è poco. (7.4/10)

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Van Dyke Parks - Songs Cycled (Bella Union, Maggio 2013)

Teresa Greco

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Jonestown non è così lontano), melodie più o meno evidenti seppellite da feedback chitarristico come redivivi J&MC assurti a padrini spirituali, dilatazioni cosmiche sotto lo sguardo compiaciuto di Sonic Boom e una latente freakeria che farebbe la gioia di padre Julian Cope segnano un album che, impreziosito da tre strumentali a far da raccordo con lande ambient-rumorose, si mostra diretto, senza fronzoli e in grado di dire la sua senza perdersi in intellettualismi di sorta o spocchiose rivendicazioni di originalità. Musica “stupefacente”, si sarà capito, per generazioni di psych-addicted stanche degli ultimi, sgonfi, Black Angels e pronti a farsi trascinare da un suono corposo e trascendente. (7/10)

Houndmouth - From The Hills Below The City (Rough Trade, Giugno 2013) Genere: Americana L’unica sorpresa che ci riserva l’esordio di questo quartetto dell’Indiana è il fatto che siano targati Rough Trade. Non ci saremmo aspettati certo di vedere il marchio della storica label londinese su un disco del genere, country rock irrorato soul, afrore southern e un pizzico appena di piglio alternative, chitarra-basso-batteria e hammond a tessere trame calde per le voci (tutti e quattro si alternano al microfono). Il risultato è un’Americana che non lascia margini all’inaudito, ovviamente tenuta in piedi solo dalla notevole convinzione, dall’entusiasmo tipico di chi ci sta immerso fino ai capelli. Vale a dire: gli Houndmouth sono tutt’altro che indispensabili però sono credibili, a tratti persino freschi. Sia quando caracollano tra vampe e chiaroscuro nel solco profondo che collega Wilco e The Band (Penitentiary, Long As You’re At Home) che quando si concedono ricreazione agrodolce (il singolo On The Road) o mestizie lunari quasi

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Stefano Solventi

I gatti mézzi - Vestiti Leggeri (Picicca Dischi, Aprile 2013) Genere: cantautorale, jazz Secchiate di provincialismo e sorrisi mal fidi, facce d’altri tempi, musica d’altri tempi: per I gatti mézzi è giunto il momento di un quinto disco che già nel titolo è tutto un programma: Vestiti Leggeri. Ma occorre fare attenzione: i vestiti leggeri sono solo ciò che copre il cuore caldo del disco, quello romantico, viveur, bohemien, appeso da un lato alla musica dei bar affollati e fumosi della ville lumiere, dall’altro alla tradizione che ha reso celebre la nostra nazione: Gaber, Conte, Buscaglione e non solo. Stiamo parlando di una felice operazione vintage, fatta di swing, jazz, qualche accenno blues, molti archi, fiati e tratti di rimembranze cinematografiche, dei tempi in cui Nino Rota dirigeva orchestre meravigliose, di lustrini e Dolce Vita. I gatti mézzi si esercitano su queste partiture, si muovono con sicurezza come dei veterani: affidano all’autoironia la maggior parte del disco; conce-

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Stefano Pifferi

Big Star (Halfway To Hardinsburg). Sono bravi a stuzzicarti un attimo prima di sembrarti noiosi, tipo quando bazzicano solennità sciroppose Grant Lee Phillips e verve dolciastra New Pornographers (Come On Illinois), concedendosi persino di spacciare disincanto loser ai limiti del didascalico (Comin’ Round Again) e rinverdire i canovacci più risaputi (in Casino c’è la Janis Joplin invaghita di Kris Kristofferson, in Hey Rose qualcosa dei Grateful Dead altezza American Beauty). Infine, con Palmyra si congedano rallentando il battito fin quasi alla letargia spersa di Jason Molina, in una caligine di crepuscolo e vaga jazzitudine, lasciandoti col retrogusto amarognolo delle cose venute dal cuore. Così è, o così non è. Come vi pare. (6.4/10)


Nino Ciglio

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Il magnetofono - Il magnetofono (Il Magnetofono Records, Maggio 2013) Genere: cantautorato-teatro Atmosfere fumose da film noir, sfumature jazzy, digressioni ludico-oniriche: stanno grosso modo in questo triangolo ideale, tra il Waits della prima ora, quello post-Swordfishtrombones e il Nino Rota di 8½, le coordinate musicali entro cui si muove questo omonimo debut album dei vicentini Il Magnetofono. Evidente il debito col cantautore di Pomona nelle pieghe brechtiane di La merenda del mago, mentre più goliardica e vicina al Capossela di Canzoni a manovella è Il the nel Caspio; non mancano momenti puramente felliniani (La dichiarazione del Mago, con la voce di Freak Antoni a declamare beffarda) e altri invece più vicini a un Paolo Conte d’annata (Cinque minuti). Nessuna traccia, però, della leggerezza canticchiabile da “gelato al limon”: si resta saldamente ancorati a una realtà decadente, dal sociale alla stanza da letto, con parole dure che sfiorano un fatalismo romantico prossimo, almeno per atmosfere, a Luigi Tenco. Discorso a parte merita la notevole ed evocativa Finezze, dove Bedin dimostra una volta di più di avere una voce tanto versatile quanto emozionale - per quanto volutamente teatrale - capace di muoversi con disinvoltura tra registri e paesaggi sonori molto diversi tra loro. Tra spoken word carmelobeniani (Non ho finito, con Pier Paolo Capovilla alla voce) e una produzione che si destreggia tra fiati, archi, Theremin e inserti a mò di Teatro Canzone (il tutto registrato in presa diretta, con uno splendido effetto retrò e la complicità di Vincenzo Vasi), il disco trova la sua conclusione ideale nella cover di Mondo di uomini (indimenticabile rifacimento tenchiano di It’s A Man’s, Man’s, Man’s World di James Brown). Siamo alle ultime note di un album formalmente impeccabile, tra arrangiamenti di livello e testi debitori verso un cantautorato d’altri tempi. Re-

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piscono piccoli ritratti eterogenei, storie di amori, di donne, di successi e fallimenti. Vestiti Leggeri è una piccola enciclopedia decadente, quasi dandy, fatta da un duo che non ci stupiremmo di trovare in qualche angolo di città nei giorni di isola pedonale, ad intrattenere piccole folle di turisti. E lo farebbero con grande facilità. Parlando di ciò che conoscono meglio, nella lingua che conoscono meglio: il pisano. Un’azione che, messa in bocca a qualsiasi altro gruppo della contea, sarebbe risultata spiacevole ed inopportuna. E invece qui regge. Regge nell’opening track sognante e orchestrale Piscio ar muro (“meno aiuole più figliole”), si equilibra in una Marina (musica da ultimo metrò) che gioca con il nome di una lei che è poi il nome di una località balneare; funziona magistralmente in Soltanto i tuoi baffi (“mamma è rimasta con un tù calzino [..] potevi lasciarle chamicia e cravatta”) che rimbalza su leggere partiture d’archi a cui rispondono, quasi timide, le note di contrabasso. E ancora: una Ti c’ho beccato che è un tripudio di blues e sorrisi a metà, una Delirio (tittitti) che quasi ricorda Vinicio Capossela senza fare l’errore di prendersi troppo sul serio, una Lacrima meccanica che è la storia di una lacrima spezzata raccontata in pieno stile Lucio Dalla, con contorno di urlate opportune. Le stesse che hanno reso famoso Dario Brunori qui presente in Fame nel ruolo di controcanto di questo blues steppato e ipnotico. Diciamolo pure: I gatti mézzi hanno saputo giocarsi tutte le carte, azzeccando il genere (trasversale sia nella sua anima revivalista, sia in quella originale), i collaboratori, l’immaginario e la label (una rivoluzionata Picicca). Non è comunque cosa da poco. (6.8/10)

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Genere: queer rap Nata apparentemente come deriva maschile nella tumblr-wave delle “bitches” post-Kreayshwan o come svolta intellettuale dell’homo hop, la comunità gay rap di Brooklyn sembra ogni giorno di più incanalarsi verso una “scena” vera e propria. Qui una serie di rappers/producers con una vistosa predisposizione per il beatmaking (e il vestiario) fantasioso - spesso delegato a terzi -, sta iniziando a sfornare un buona dose di mixtape catchy, contemporanei e di livello, con tratti distintivi molto peculiari. Al di là di una riconoscibilità pressoché immediata, le personalità che si stanno andando a definire in questa micro scena locale di rapper riescono ad essere assai variegate. Dalla ruvida sensualità primordiale di Mykki Blanco (vagamente in territorio The Bug) ai risvolti trap/cloud libidinosi di Le1f, la linea è quella di un “queer rap” messo in piedi da ragazzi tutti di colore, omo, from New York City e, come A$AP Rocky insegna, con le giuste conoscenze nel mondo dei producer. Dulcis in fundo, l’ultimo ritrovato in questo campo è il nuovo mixtape di Zebra Katz: DRKNLG. Il sound e l’immagine di Ojay Morgan (classe ‘87) è la quintessenza del minimalismo “ebony”, indissolubilmente legato al mondo della moda, elegante e statuario come una posa di Grace Jones (“Grace Jones... Josephine Effect... I’m out of control”). Non a caso il giovane rapper è salito alle luci della ribalta ad inizio 2012 con Ima Read, tema selezionato per rappresentare Rick Owens alla fashion week parigina. La scelta da parte di un brand tanto avanguardista risulta ancora più eclatante se si pensa che la canzone è stata prodotta intorno al 2005/2006 - in seguito completata con Njena Reddd Foxxx, dopo il solidificarsi dell’amicizia tra i due - con Garage Band, quando il ragazzo era ancora teenager. Fino ad allora Ojay componeva liberamente nella sua stanza, a detta sua senza troppe mire verso una carriera da musicista, ma con un ruolo da manager nel campo della ristorazione. Sta di fatto che ora è finito sotto Mad Decent. Fratello maggiore di Champagne - prima raccolta rilasciata indipendentemente nel 2011 -, DRKNLG è un mixtape suadente e vellutato, metropolitano e raffinatamente volgare, qualcosa di vicino allo “slime urbano” del Dark York di Le1f, che riesce ad andare oltre per consapevolezza e risultato. Influenzato da artisti ballroom e ghetto house, il lavoro è carico di classe e non perde charme, nonostante skit assurdi, linguaggio explicit da censura (“I want to disgust you”), riflessioni sulle “zebra vaginas” e una buona dose di autoironia, dove persino una cassa dritta risulta sensuale e delicata. Nel mixtape, concepito come traccia unica suddivisa in più producer, non manca una rivisitazione di Ima Read, ribattezzata Ima Lead: unica base prodotta da Ojay dove - forse per mantenere il dualismo tra beatmaking e performance - il flow viene affidato ad un Busta Rhymes in ottima forma. Senza entrare nel merito di pesi e misure, a conti fatti questa nuova corrente di Brooklyn si candidata a pieno titolo per rappresentare l’avanguardia hip hop dell’anno in corso, tanto quanto furono El-P e Killer Mike per il 2012. (7.5/10) Davide Nespoli

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Zebra Katz - DRKLNG (Mad Decent, Aprile 2013)


sta da chiedersi, però, se l’anima di questo lavoro non rischi di perdersi proprio tra le sue mille muse, indistinguibile dai fantasmi che, una volta evocati, reclamano a gran voce un ruolo di primo piano. (6.8/10) Enrica Selvini

Genere: Prog, impro Da anni caso anomalo del panorama musicale europeo, i Jaga Jazzist - collettivo norvegese di jazz “aperto” e sperimentale capeggiato dai fratelli Lars e Martin Horntveth, via via coadiuvati da musicisti differenti - tornano dopo un breve periodo di silenzio (l’ultimo album in studio, One-Armed Bandit, risale al 2010) con un prezioso live in compagnia dell’ensemble anglosassone di musica classica contemporanea Britten Sinfonia. I live in questione sono di fatto due, uno in UK e l’altro - l’ultimo, quello da cui sono tratte le registrazioni dell’album, pubblicato da Ninja Tune - in Norvegia, più precisamente Oslo. Il repertorio, tendenzialmente recente e già edito, si arricchisce del lavoro dei suddetti musicisti britannici, un contributo che pur non stravolgendo l’idea di base del progetto, ne implementa le potenzialità portando sul palco ben trentacinque elementi. Dediti come al solito a un’interpretazione del jazz assai ampia e che al suo interno include il tribalismo di Fela Kuti come il progressive primigenio e trasversale di Fripp e dei King Crimson e le sonorità avant dei Tortoise di TNT, i Jaga Jazzist orchestrano grandi e magniloquenti affreschi acustici. Gli assoli di tromba in Kitty Wu sono particolarmente avvolgenti e le svariate cavalcate elettriche a cui spesso si concedono i norvegesi, acquisiscono un sapore tra l’epico e il psichedelico. Il prog distorto di One-Armed Bandit, Prungen e Bananfluer Overalt come la caoticità psicotropa

Michele Ferretti

Jello Biafra & The Guantanamo School Of Medicine - White People And The Damage Done (Alternative Tentacles, Aprile 2013)

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Jaga Jazzist - Live With Britten Sinfonia (Ninja Tune, Maggio 2013)

e ironica di Music! Dance! Drama! vantano uno spessore di difficile riproduzione in studio e con una formazione più ristretta. Seguono momenti di maggiore riflessione, drammatici e intensi in For All You Happy People - unico vero abbassamento dinamico dell’intera release - procedendo quasi sistematicamente fino alla magnifica chiusura, con una versione di Oslo Skyline capolavoro da What We Must (loro esordio su Ninja Tune) che tocca le corde dell’immaginazione più libera e gratificante. Live With Britten Sinfonia è un disco da realtà musicale ormai del tutto consacrata, che, pur non saziando del tutto chi avrebbe desiderato un nuovo episodio in studio, consolida la band come una delle realtà più brave nel trattare un certo sincretismo avanguardistico che voglia parlare laicamente al proprio, ampio, pubblico. (7.4/10)

Genere: punk Cominciamo a diventare banali parlando di seconda (o terza) giovinezza in merito alla (ennesima) nuova fase di mr. Biafra. Il signore in questione è quello che è sempre stato: un instancabile, riottoso, ipercritico, cinico, ecc. ecc. ecc. agitatore punk! E in quanto tale fa il suo “lavoro” come lo fa da quando capitanava una band dal nome decisamente politically uncorrect, una label che a furia di sfidare il perbenismo ipocrita e combattere la legge dimostrò che l’assioma clashiano era verissimo rimettendoci pure le mutande sporche, e un intero sistema di riferimento che lo portava a diventare quasi sindaco di San Francisco o a fare controinformazione sullo strapotere militareconomico degli States con un anticipo di qual-

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Stefano Pifferi

John Parish - Screenplay (Thrill Jockey, Aprile 2013) Genere: folk Screenplay non è il nuovo disco di John Parish e nemmeno il frutto di una delle tante collaborazioni che l’uomo di Bristol ha messo in piedi, come la oramai solida partnership con PJ Harvey. Dato però che il Nostro è un lavoratore instancabile, mentre continua a produrre dischi di altri (Arno e M Ward, nel 2012) e comporre per il teatro e la danza, nelle giornate passate nello studio casalingo trova anche il tempo di selezionare

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gli estratti migliori da una carriera di compositore per il cinema cominciata nel 1998. Tra i film su cui ha lavorato, da ricordare almeno Sister di Ursula Meier (Orso d’Argento a Berlino lo scorso anno e selezionato come miglior film straniero agli Oscar americani) e quelli di Patrice Toye (Little Black Spider, il debutto Rosie). Come ci si sarebbe potuti aspettare da una raccolta di questo genere, la varietà la fa da padrona, passando dall’ambient astratto di River allo youngster rock di The Minotaur pt. 2, senza dimenticare brani con estratti di recitato che si posano su poche note e leggere suggestioni atmosferiche. La bravura dell’artigianato di Parish, in questo caso, non sta nella composizione, ma nell’aver selezionato e organizzato la scaletta in modo impeccabile, al punto che senza il supporto visivo, all’ascolto sembra comunque di essere di fronte alle immagini di un film (immaginato, probabilmente). Il tocco in più è dunque la coesione, nonostante la disomogeneità delle composizioni. Non è da tutti. (7/10) Marco Boscolo

Jon Hopkins - Immunity (Domino, Giugno 2013) Genere: ambient techno Nel 2009, all’altezza del terzo album Insides, avevamo puntato il dito sulla fredda perfezione formale di un producer cresciuto a pane e Brian Eno e, grazie a lui, giunto a una rapida fama sia tra gli addetti ai lavori (innumerevoli remix per gente come David Lynch, Four Tet, Wild Beasts, Nosaj Thing e Purity Ring), sia nel giro dei bookmaker dei festival (citiamo doversamente il supergruppo live Pure Scenius attivato sempre da Eno con Karl Hyde, Leo Abrahams e The Necks esibitosi al Luminous Festival e al Brighton Festival tra il 2009 e il 2010). Seguiva una soundtrack, Monsters del 2010, nominata per un Ivor Novello Award come miglio-

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che anno sull’opinione pubblica (il Chomsky del punk?). White People And The Damage Done non fa eccezione, a partire dal collage che fa da artwork o a quello che fa da booklet-poster interno e che è un vero e proprio saggio sulle analisi di Biafra su una contemporaneità trattata con la arguzia e la caustica vena che gli si riconosce ormai da decenni. E che ne fa uno dei più lucidi, o forse “il” più lucido esponente della vecchia guardia. Uno per cui il tempo non passa affatto, a furia di acidissima sintesi e sarcastica vena “anthemica”. Si fosse poi circondato da quattro scacciacani, probabilmente lo avremmo apprezzato lo stesso, ma la School Of Medicine è un concentrato di apparenti reduci dalla stagione d’oro del punk in ogni sua forma. Musicisti in là con l’età, ma in realtà ancora accesi da un sacro fuoco che li fa invidiare per perizia, spericolatezza e furia esecutiva. Ipercitazionisti e veloci, gretti e grezzi come una macchina da guerra perfettamente oliata e in grado di spaziare tra tempi e generi con clamorosa naturalezza; pacchiani a volte, sopra le righe spesso se non sempre, ma lo show necessita del clima adatto affinché la pantomimica presenza scenica del leader possa dare il meglio di sé. Jello Biafra ha finalmente i suoi Kennedy risorti. (7/10)


Genere: Elettronica Tesi antitesi sintesi. With Love completa la trilogia del producer nel migliore dei modi e con una dedica particolare che non può che tradursi in un necessario distacco tra sé e le proprie ossessioni elettroniche ovvero l’ardkore che dai breaks di inizio 90s porta alla d’n’b da una parte, e tutto quel sincopato grime che scivola nei suonini 8 bit del Wonky, dall’altra. In mezzo, e tutta attorno, la visione: un dancefloor di rimbalzo, della mente, un habitat siderale abitato da fantasmi rave che si mescolano a malinconie personali, la maschera che, come quella di Aphex, è bucata e ti fa vedere la carne che c’è sotto. Trentatre tracce che sublimano i due statement precedenti in un doppio che alterna ritmi e atmosfere, riprendendo, domandola, la mossa situazionista che fu Where Were You In ‘92 che lo proiettò come il lost raver della sua generazione e ricalibrando l’incursione nelle sue sinapsi post mortem che fu Dedication, dedica al defunto padre e assieme al lato dark della dance culture dei 90s. Come ogni sintesi che si rispetti non sono le novità l’aspetto predominante di un album che porta a compimento una cifra stilistica già consolidata nel precedente episodio. Eppure l’aggiunta del lato più astratto della trap si rivela da subito la più strategica e funzionale delle scelte. Delle tracce di HPNTK o Massapeals caratterizzate non dall’ansia antemica ma da pulizia del suono, atmosfere gotiche, ultra bassi e sketch cartoon non lontani da Terror Danjah, Zomby riprende la vena haunted o dungeon sganciando un tris d’assi come Vast Emptiness, White Smoke e Sphinx, pezzi che a livello di hi hat rullanti e lugubri linee di synth risultano tra le più fascinose mai sentite in quest’ambito. Un altro di punto di permeabilità con la contemporaneità che non va taciuto sono senz’altro i pitch sugli snare che vengono fatti brillare oppure tenuti a contrasto di una produzione meticolosamente impolverata, curata e rifinita fino nella calibrazione dei bassi del sub oltre che sepolta da synth che farebbero contento persino il Martin Hannett altezza Closer (Horrid). E’ un lavoro sospeso tra ritmi da continuum raynoldsiano e atmosfere, dicevamo, ma l’insieme cerca, trovandola, la propria antemica, l’hook melodico in negativo (If I Will) o il piacere di una traccia jungle. A interludi come Isis scendono in campo gli UK breaks di It’s Time che paiono rispondere all’Andy Stott in fregola ritmica. In pratica, volano sorrisi e venerazione: Zomby sa esattamente come piazzare il rave momentum senza che i suoi caratteristici episodi interlocutori passino sotto skip e nell’intera tracklist, del resto, c’è poco o nulla da buttare, anche la vena minore prende il peso di un pensiero debole con tutte le giustificazioni artistico filosofiche del caso (Memories). Uno dei migliori lavori elettronici dell’anno. (7.5/10)

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Zomby - With Love (Domino, Giugno 2013)

Edoardo Bridda

re colonna sonora originale e una stravagante quanto riuscita collaborazione folktronica con King Creosote, Diamond Mine del 2011, poi una

pausa per dar spazio e corpo a una nuova prova in solo che, fin dalle note stampa, si presenta oggi come una bestia se non rivoluzionata nei

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Edoardo Bridda

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Lilacs & Champagne - Danish & Blue (Mexican Summer, Aprile 2013) Genere: Plunderphonics Lasciate da parte le plumbee progressioni strumentali e la tribù dei Neurot, i Grails Emil Amos ed Alex Hall continuano a giocare ai beatmakers nel side project Lilacs & Champagne, sorta di valvola di sfogo dove convogliare le svariate passioni musicali inespresse. Il secondo lavoro - il cui titolo è in onore alla prima legalizzazione del porno in Danimarca nel 1969 e tributo agli outsiders del passato - è Danish & Blue, full-lenght che prende le mosse da influenze dichiarate quali Entroducing di DJ Shadow e i Beat Konducta di Madlib. I due Grails vanno sostanzialmente a cimentarsi anche qui nel citazionismo eclettico da library music pescando sample dalle produzioni di serie B - persino dalle sopracitate porno commedie danesi -, sommando tutte le suggestioni e cavandone fuori un’abstract dalla forte fascinazione psichedelica, più hip hop e meno cinematografico del precendente. Vittime della retromania e del male d’archivio ma senza dimenticare di mettere in bella mostra le loro doti chitarristiche in pezzi come Le Grand ed Hamburgers & Tangerines, Amos e Hall confezionano beat lo-fi dal richiamo hauntologico, nella ricerca di un filo conduttore tra quei noughties fantasma che vanno da J Dilla all’elettronica Ghost Box. Ad essere saccheggiati sono, ancora una volta, gli anni 80, con i polizieschi di Police Story - theme alla Jan Hammer rivisitata a ritmo hip hop - e gli assoli aperti o arpeggioni da soundtrack alla Brian May in A Kind of Magic, conservando comunque un buona dose di ironia. Con tali presupposti è però facile perdersi per strada, soprattutto se si cede alle più recenti tentazioni metafisiche raccolte dagli ultimi esperimenti Matmos e dalla chitarra di Mark McGuire. Danish & Blue è sicuramente un LP dalle forti

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fini, senz’altro rinvigorita nelle fondamenta. Hopkins rimane sempre quel serio architetto d’ambienti figlio tanto di Sir Brian Peter George che del Trent Reznor in licenza cinematografica (l’influenza di The Social Network è palpabile), ma riproporre da una parte l’idm minimal di James Holden e dall’altra certe progressioni del Caribou altezza Swim rispolverando, nel contempo, certi trick glitchy di stampo berlinese, giova a una formula che regala inedite soddisfazioni sin dall’iniziale uno-due di We Disappear e Open Eyed Signal (un singolo e anche videoclip che pare uscito da The Idiots Are Winning). L’obiettivo di Immunity è il ritratto di una gioventù post-rave raccontata attraverso un’epica night out, un obiettivo abbordabile ascoltando l’ipnotica potenza dei migliori episodi della tracklist (molto valida una Breathe This Air tra hi hat garage, progressività analog-tech, filtri e tagli sul mix ben fatti e lead theme classico al piano, come anche una Collider che rimanda alla migliore Bpitch Control), una meta ancora lontana per chi, come Hopkins, calibra eccessivamente i tempi tecnici dell’emozione non accompagnando l’osservazione alla partecipazione. Nella seconda (più pacata) parte del lavoro e, in particolare, nel finalone omonimo con King Creosote in versione islandese al canto, il concorso di struggimenti per piano, field recording e synth “dronati” in zona The Album Leaf è il solito, abile, esercizio di stile, questa volta più accorato e generoso che mai fin dagli eccellenti ceselli drone alle analogiche. Un contraltare appropriato anche se meno appagante degli episodi più corposi, la vera polpa di un album che non può considerarsi necessario ma, di fatto, riuscito, ovvero un successo annunciato di un bravo compositore che può ancora giocarsi molto in senso autoriale (anche se il riserbo, in questi casi, è d’obbligo). Full streaming via NPR. (7/10)


ambizioni, considerato che non è parte di un progetto principale, ma dove la ricerca non manca gli intenti compositivi sono ancora ben lontani dal esser chiari ed omogenei. Nonostante un’attitudine un po’ trita e un’amalgama tutto sommato complicata da gestire, la coppia di chitarristi è comunque in grado di trovare buoni equilibri, seppur precari e forzati in molti punti, nonché di sfornare un interessante groove “nero” intriso di soul “bianco” come Better Beware. (6.5/10) Davide Nespoli

Genere: dream pop Abbandonati i vessilli neo grunge, le batterie e le chitarre suonate a “plettrata” aperta, abbandonate le influenze del songrwriting maschile e newyorkese di Matthew Parker, in Dot To Dot le Lilies On Mars rivendicano il girl power tutto elettronico, sognato, spesso sussurrato, fra l’alt techno e lo shoegaze. Pescate nell’underground sardo/ londinese da chi ha fatto della ricerca il proprio marchio di fabbrica (il maestro Franco Battiato), alle Lilies è sempre piaciuto giocare con i suoni. Troppo spesso, però, l’hanno fatto con un piglio scherzoso, poco convinto e soprattutto poco in linea con i tempi. Non a caso, ora, quei suoni sono diventati giocattoli, sampler, drum machines, tastiere e loop station, rendendo il tessuto musicale il luogo perfetto della liquidità, della sensazione scivolosa, di un viaggio interstellare. Non a caso il duo, che nel nome porta il pianeta rosso, assume le sembianze stranianti di eccentrici alieni che si esercitano in complicate operazioni di funambolismo fra il minimale indie-tronico di alcune derive Morr (Lali Puna, Notwist), il clima sofisticato e super sexy di certi Slowdive e tanta fascinazione retromaniaca 80s (Cocteau Twins, Dead Can Dance su tutti).

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Lilies On Mars - Dot To Dot (Long Song Records, Maggio 2013)

Dot To Dot, terzo episodio della saga delle Lilies, è un disco potenzialmente da hype, fatto di piccoli rituali leggeri, immersioni ipnotiche in un ambient creativo e svincolato dalle fasi lunari (SIDE ADCE, Sugar Is Gone) che quasi riecheggiano la storia di Grimes. Ma è soprattutto un disco di pregiatissima marcatura pop: See You Sun, Dream Of Bees, Entre-Temps sono brani nordici, freddissimi, che viaggiano in direzione scandinava passando prima dal pianeta Beach House, quasi a creare un ponte che congiunga anche la Sardegna e la sua steppa ardente. Prima delle sperimentali e quasi bjorkiane Martians e For The First 3 Years (l’unica, quest’ultima, cantata in italiano, anche se è difficile accorgersene!), Dot To Dot rende giustamente omaggio a un maestro Battiato che, sempre con l’incredibile disponibilità e curiosità di un bambino e con il suo anglo-catanese da occhi lucidi, fa la sua comparsa nel singolo Oceanic Landscape. Non il brano più bello del disco, ma sicuramente quello che nel titolo racchiude la sensazione visiva che dà questo magnifico disco: un paesaggio oceanico, di un oceano extra-terrestre. (7/10) Nino Ciglio

Lovespoon - Carious Soul (Hey Man Records, Maggio 2013) Genere: pop-rock Dopo un EP (Naked For You) e un debut eponimo, i Lovespoon, da Ravenna, arrivano con Carious Soul, album che conferma e prosegue le fila di un pop-rock sporcato da accenti quasi punk/garage. I dodici brani del disco, infatti, seguono la rotta di un percorso che attinge tanto al rock britannico degli ultimi vent’anni - con il binomio Blur/Oasis in testa -, quanto alle suggestioni del Dylan più elettrico. Per intenderci: non mancano né l’orecchiabilità (brit) pop delle melodie, né il furore delle chitarre, ma declinate in una formula semplice e immediata, che suggerisce come i quattro,

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Giulia Antelli

Lucrecia Dalt - Commotus (Human Ear Music, Luglio 2012) Genere: contemporanea In chiusura di intervista, nel 2011, Lucrecia Dalt rivelò di essere un’estimatrice del lavoro di Julia Holter e Luke Sutherland. Li ritroviamo ora in Commotus, i due (lei presta l’Harmonium in Silencio, lui suona il basso in Batholith), a chiudere un ideale cerchio che non solo riconferma tutte le buone cose che dicemmo allora sulla musicista colombiana, ma parla anche di crescita qualitativa costante. Se l’EP in condivisione con F.S. Blumm Cuatro Covers che diede il La al nostro approfondimento

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parlava già di minimalismo destrutturato, il qui presente LP va oltre, facendo convergere immagini e musica in una strettoia fatta di indeterminatezza voluta. Le immagini sono quelle che ha in testa la Dalt, a sentir lei stati mentali che in qualche maniera la bloccano e che possono essere superati solo attraverso lo sviluppo dei brani. Questi ultimi, spaccati in bilico tra intimismo e inquietudine ombrosa, perfettamente calati nel “commotus” (agitato, disturbato) del titolo. Il risultato è forse il disco più suonato e meno “elettronico” di Lucrecia Dalt - e probabilmente, anche quello più sfuggente -, la cui base di partenza è costituita dalla consueta ragnatela di bassi minimali, chitarre spettrali, percussioni anoressiche e voci sospirate non lontane da un twinpeaksiano Badalamenti. Il tutto nell’ottica di un suono che arriva ad accarezzare certi Joy Division slabbrati (Conversa), quando non appare come un vaporoso e metallico schioccare di dita (Esplendor), trip hop mascherato da frontiera desolata (Turmoil), affastellarsi di liquide presenze e voci registrate al contrario (Saltación). Si sfiora il John Carpenter delle colonne sonore in Escopolamina, nebbie cosmiche da incubo in Multitud, un inconsapevole Conrad Schnitzler in Jet, certa psichedelia di raccatto in Waste Of Shame e persino un barlume di Sudamerica nella parte ritmica di Batholith. La Dalt lavora sul looping in maniera meno meccanica rispetto al passato, mascherandolo con eloquenti silenzi e cambi di atmosfera e giocando con uno stile conciso, sempre più riconoscibile e foriero di un’immediatezza solo apparente. Un bel disco, comunque, valorizzato da un artwork evocativo e perfettamente rappresentativo del contenuto. (7.2/10) Fabrizio Zampighi

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prima di aver alzato il volume degli amplificatori, siano stati influenzati da coloro che la formacanzone l’hanno praticamente inventata, e cioè i Beatles. È così che i trenta secondi dell’iniziale Pale Moon aprono la strada ad un album ultra diretto nei riferimenti e nelle influenze, suonato con perizia e senz’altro piacevole all’ascolto: Mary Comes, un probabile singolo di lancio, è un solido pezzo in cui si uniscono la ruvidità dei riff e la ruffianeria della melodia, e che, in sostanza, esemplifica l’andatura della maggior parte dei brani. Infatti, se si escludono la fisarmonica in afflato post-country di Like An Eleanor e la marcetta di Anyway, come, del resto, l’intro acustico di Bianca, Carious Soul si muove senza intoppi dentro i meandri di un rock sì energico ma declinato in tutto e per tutto all’ascoltabilità pop (a volte fin troppo). Un disco che, seppur piacevole, scorre tranquillo senza lasciare una traccia davvero significativa del suo passaggio. E nonostante il gruppo non manchi di abilità e di qualche buona intuizione, per il momento manca ancora quel pizzico di personalità in più che serve a distinguersi nel mare immenso delle nuove proposte. (6.2/10)


Genere: art-pop Su Majical Cloudz siamo arrivati - con colpevole ritardo - soltanto lo scorso anno e soltanto grazie a Nightmusic, traccia #11 del Visions di Grimes per la quale il nostro ha scritto la linea di synth. Abbiamo poi scoperto, vagliando tutta la serie di interviste rilasciate da Claire Boucher in corso di 2012, che Devon Welsh - titolare del progetto e figlio del Kenneth Welsh di Twin Peaks - è in realtà proprio chi l’ha introdotta al far musica con GarageBand. Eppure, nonostante il ruolo propulsivo appena delineato, la proposta di Majical Cloudz è non solo ben lungi dall’essere analoga a quella di Grimes, ma persino anomala all’interno della nuova scena a base Montréal. O meglio: Welsh è rimasto legato al situazionismo cittadino fino al precedente LP del 2011, II, che lo vedeva mugugnare sotto svariati livelli di droni sintetici (un po’ come il Born Gold di Little Sleepwalker, ma anche come un Doldrums mid-tempo). Viceversa, nell’incarnazione inaugurata dal Turns Turns Turns EP (2012) e proseguita in questo Impersonator, non vi è più alcun interesse nel buttare il layer aggiunto - leggi: di tutto - nel mix e tantomeno nel far magari un mischione di generi (pratica comune tra gli act del sopracitato centro canadese). L’obbiettivo è, anzi, quello opposto: focalizzarsi totalmente sulla singola idea, comunicare il più possibile utilizzando il meno possibile. Ecco quindi che le componenti soniche dei brani si riducono a pozze ambientali praticamente immobili, fatte di quattro-note-quattro di piano, synth od organo, lievissimi arpeggi di corde, vocal samples sparsi e percussioni come eccezione. Le controlla il programmatore di sintetizzatori e compagno d’avventura Matthew Otto, in una ricerca (riuscita) volta alla valorizzazione delle ripetizioni e dello spazio come veicoli per l’inglobamento dell’ascoltatore.

Contrapposto a tutto questo amorfo, glaciale minimalismo sullo sfondo, dunque, il fulcro caldo del disco non può che diventare la voce baritonale di Welsh, qui a situarsi tra quelle di Tom Smith degli Editors e Chris Martin dei Coldplay, là dalle parti di un Dave Gahan striato Autre Ne Veut o ancora di un Nick Cave improvvisamente vulnerabile, comunque sempre splendida. Tanto basta, anche perché i testi - personalissimi, confessionali, tra amore, morte e fragilità d’artista - sono costruiti attorno a frasi ad effetto (“The cheesiest songs all end with a smile / This won’t end with a smile, my love”, da Bugs Don’t Buzz; “Hey man, sooner or later you’ll be dead”, da Notebook) che non fanno altro che amplificare - per razionalizzazione - la potenza della delivery. Tanto basta a candidare Impersonator a disco più emozionale ed emozionante dell’anno, controparte di ciò che è stato il Put Your Back N2 It di Perfume Genius per il 2012. E se lanciarsi in un track-by-track per un lavoro dallo scorrere tanto omogeneo non avrebbe alcun senso, possiamo comunque indicare un paio di apici per intensità: Childhood’s End e la già citata Bugs Don’t Buzz. (7.3/10)

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Majical Cloudz - Impersonator (Matador, Maggio 2013)

Massimo Rancati

Mauro Ermanno Giovanardi/ Sinfonico Honolulu - Maledetto colui che è solo (SAM, Maggio 2013) Genere: canzone d’autore La crisi discografica impone ristrettezze, ma può precludere il consueto iter disco-tour-disco. Così per Mauro Ermanno Giovanardi, che all’ultima uscita in solitario con passaggio sanremese (Ho sognato troppo l’altra notte?, 2011) fa seguire non un nuovo disco di inediti e nemmeno un’antologia, ma un lavoro ibrido e di deviazione. L’incontro con le sonorità sognanti della Sinfonico Honolulu, unica orchestra di ukulele del nostro Paese, è stato infatti il pretesto per Maledetto

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(6.7/10) Luca Barachetti

Metzengerstein - Albero Specchio (Sonic Meditations, Maggio 2013) Genere: ritualismo psych Con un nome che richiama Edgar Allan Poe e un sound così scuro ed ermetico, i Metzengerstein saranno inseriti giocoforza nel trend italo-occultista. Poco male, dal momento che beneficeranno del battage pubblicitario della scena. Eppure i Metzengerstein non sono direttamente assimilabili a nessuno e sono, da un punto di vista comunicativo, quanto di più scontroso e impenetrabile ci possa essere. Le coordinate di riferimento sono

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in linea con l’estetica della Sonic Meditations, label di Justin Wright / Expo ‘70, quindi alimentate alla linfa inesauribile del kraut-rock tedesco e della psichedelia sciamanica. Formazione di origine toscana, con membri del collettivo artistico Ambient-Noise Session, i Metzengerstein fanno pensare a formazioni aperte e dall’impianto psichedelico come la No Neck Blues Band, i Sunburnd Hand Of the Man, gli australiani Brothers Of The Occult Sisterhood e, andando più indietro, all’indimenticata compagine degli Iceburn Collective di Salt Lake City. Tutto questo si traduce in una musica dalla fortissima vena rituale e con una fascinazione per una sorta di magnetismo ancestrale che attinge da un alfabeto mitologico, più antico della civiltà umana. La strumentazione va di conseguenza alla ricerca di chiavi di registro classico/arcaiche ma con esiti inaspettati: l’organo allucinogeno della seconda e della quarta traccia che apre all’onirismo nero di Ummagumma; il sitar della terza che inventa ex-novo una impossibile nuova danza mediorientale; il flauto arcano dell’ultima, ad opera di un Donato Epiro che come suo solito contribuisce all’evocazione di un bestiario esotico e millenario. La musica dei Metzengerstein è allucinata, nella misura in cui prende in prestito gli strumenti della psichedelia classica, rivoltandone le premesse. L’altro-mondo, potrebbe essere ben più strano di quanto il più acido dei trip possa mai immaginare. Albero Specchio ne è l’implacabile soundtrack. (7.3/10) Antonello Comunale

Mikal Cronin - MCII (Merge, Maggio 2013) Genere: indie rock E dopo Ty Segall ecco arrivare il compagno di sempre, Mikal Cronin, autore un paio di anni fa di un buon debutto tra garage e brit-pop uscito

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colui che solo, lavoro dalla scaletta mescolata, che raccoglie inediti (due e mezzo: Solo e col sole in faccia è la versione con testo riscritto insieme a Marco Lodoli di Testamento d’amore), cover e ripescaggi nel repertorio solista e in quello dei La Crus. Da un lato le corde esotiche dell’incantevole ensemble; dall’altro la voce sempre più in seppia del nostro; in mezzo Io confesso, Come ogni volta, l’immancabile Ciampi (Livorno in duetto con Nada), Celentano (Storia d’amore con l’organetto di Riccardo Tesi), De André (Ho visto Nina volare), Capossela (Non è l’amore che va via con Vincenzo Vasi al theremin) e un sapido Radius d’annata (Nel ghetto). Il risultato è un Morricone in gita alle Hawai (Io confesso), un mood di spessore popolare ma preso in obliquo, in transito Selvaggio West-Parigi passando per l’Appennino. Giovanardi canta benissimo, figlio di Tenco e Scott Walker; pesa le parole e le ripulisce da ogni insabbiatura retorica come solo i migliori sanno fare. Giusto una scaletta un po’ più coraggiosa avrebbe reso l’operazione qualcosa di più di quello che è. Ovvero un disco molto gradevole ma che saprà dire la sua soprattutto live.


Stefano Gaz

Millelemmi - Spazionauta EP (Fresh Yo!, Marzo 2013) Genere: Hip Hop Frutto di tre giorni di jam session tra Biga e Millelemmi, Spazionauta EP è la più recente fatica del rapper fiorentino e l’ultima uscita della neonata Fresh Yo! Label, etichetta particolarmente feconda. Nonostante le precedenti uscite di questa label possano far pensare a qualcosa di semplicemente limitrofo all’hip hop, la presenza

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di Millelemmi è sufficiente a fugare ogni dubbio: questo lavoro è un EP assolutamente hip hop, intendendo quest’ultimo come un genere ormai contaminante e contaminato, sottoposto a mille ibridazioni e tuttavia ancora in grado di influenzare qualsiasi cosa. Il motivo per cui possiamo dire in maniera così netta che si tratta di un disco hip hop a tutti gli effetti risiede nel rhyming solidissimo, tecnico e spontaneo in tutta la sua ricercatezza, del rapper fiorentino, che verosimilmente alterna a qualche lettura dei sempreverdi poeti toscani, qualche gustoso cypha di freestyle corroborato da della sana cannabis. L’uso (a tratti eccessivo) dell’allitterazione e la ricerca quasi ossessiva del gioco fonetico vanno sicuramente nella direzione di chi vuole coniugare letterarietà del testo e l’arte del parlare a tempo (aka il rap). In questo senso si può parlare di rap poetico, facendo appunto riferimento più al labor limae evidente che alla ricerca di metafore e immagini suggestive. Basterebbe già questo a rendere la proposta di Millelemmi interessante e unica, ma va preso in considerazione anche il suo ottimo rapporto con il ritmo. Che l’ideale punto di partenza (da cui prendere poi altre direzioni altrettanto personali, va detto) sia il Neffa di Chicopisco e più precisamente di Stare Al Mondo (splendida nenia a 53 bpm che ancora oggi rimane forse il punto più alto raggiunto dal rap in Italia), emerge chiaramente nell’ottima opener Per fare, brano (in)conscious che, su un tappeto morbidissimo e soffuso, lascia cadere mantra ritmici a proposito del pensare prima di agire. Questo è forse l’apice del disco dal punto di vista strettamente testuale, nonostante i fuochi di artificio tecnici siano riservati alla terza traccia, su cui ci soffermeremo a brevissimo. Il secondo brano dà il titolo all’EP e vanta un grandissimo lavoro sul beat, soprattutto nell’utilizzo di un campione vocale splendido e gestito con grande sapienza. In questo caso il rap, sempre

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per la giovane label Trouble in mind. Ed è forse proprio grazie all’exploit della stellina Segall che le quotazioni del nostro hanno preso il volo, permettendogli di entrare in casa Merge records per questo secondo lavoro solista che prende definitivamente il commiato dalla scena garage della Bay area e, a dispetto dell’hype che gli gira intorno, fa della semplicità la sua arma migliore. MCII ha essenzialmente il pregio della scrittura: Cronin è abilissimo con riffoni pop, spolverate ‘90s, malinconie on the road con tanto teste fuori dal finestrino, vento tra i capelli e via dicendo. Roba indie, roba che in casa Merge è stata pane e fortuna discografica e dunque è naturale trovare una produzione pressoché perfetta, capace di suggerire arrangiamenti deliziosi (Am i Wrong) e di ripescare vecchi preset appartenuti ai Superchunk o, se si parla di acustica, ai Neutral Milk Hotel (Don’t let me go). Tutto qui e null’altro. Rimane impercettibile il passato garagista e qualsiasi tentativo di leggere questo disco con spirito avventuriero fallisce. C’è solo il qui e ora di una manciata di canzoni pop dagli standard elevati (non a caso i primi due singolo sono anche le prime due canzoni in tracklist, dunque hit a vagonate) e il viaggio alla ricerca di una personale Peace of mind, con il sentore di una gioventù inizia a sfuggire tra le mani. Non esattamente una fesseria raccontarlo in musica. (7.1/10)

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Sebastian Procaccini

ture The Dawn Is Me, riportano con disinvoltura agli Stones più Sixties, senza dimenticare il sound spinto dei ‘70 a cavallo tra i Jam e gli Undertones di Teenage Kicks. E per quanto qua e là spuntino echi Strokes (Don’t Look Back, Little Boy) e reminescenze kinksiane vicine ai primi Coral (Let Us Shine), non viene mai meno quell’ispirazione country-rock di matrice americana fatta di ballate sotto anfetamina alla Johnny Cash (Calcutta, Quack), che costituisce di fatto il leitmotiv di tutto il disco. In definitiva, The Dawn sancisce un importante passo avanti per una band che, fin dall’esordio, è riuscita a catturare l’attenzione di pubblico e critica anche oltre i nostri confini (sono attesi in tour tra Europa, Stati Uniti, Canada e Giappone). La voce di Astrid Dante è oggi più profonda, matura, quasi sfrontata nella sua sicurezza, vicina a tratti alla Debbie Harry di Parallel Lines. Notevole anche una produzione di Pierluigi Ballarin (The R’s) che riesce nel difficile intento di trasportare su supporto fisico tutta l’energia, la polvere e il sudore di una musica che merita di essere assaporata soprattutto dal vivo e che regge sulla distanza in un disco maiuscolo. Un lavoro, quest’ultimo, che non sfigura di fronte ai suoi - evidenti - numi tutelari e che ci consegna una band con una personalità e un carisma rari in questi anni di revival anemico e da aperitivo. (7.1/10) Enrica Selvini

Miss Chain & The Broken Heels The Dawn (Tre accordi Records, Maggio 2013)

MS MR - Secondhand Rapture (Columbia Records, Maggio 2013)

Genere: rock Selvatici, diretti, catchy ed essenziali, i Miss Chain & The Broken Heels tornano con The Dawn, a quasi tre anni di distanza dal debut album On a Bittersweet Ride e dopo il 7” del 2012 Rainbow. Undici tracce garage rock di ispirazione country e rhythm’n’blues che, fin dalle prime note dell’over-

Genere: (ch)art-pop L’impatto visivo del duo newyorkese MS MR non deve ingannare: nonostante il look hip-trash, se i MS MR sono tra i nomi maggiormente hypeizzati degli ultimi mesi lo devono principalmente alla musica contenuta nell’ottimo EP Candy Bar Creep Show dello scorso anno e in particolare al brano Hurricane, ovviamente inserito all’interno

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e comunque di altissimo livello, risulta leggermente meno incisivo rispetto agli altri episodi. La terza canzone, Capita, è decisamente, in senso buono, la traccia più sbruffona dal punto di vista strettamente testuale. Qui i giochi fonetici e i numeri di funambolismo toccano vette esplorate da pochissimi in Italia, su un beat che parte da un classicissimo accenno di jazz per poi concludersi in un tappeto ritmico che farà felici tutti i fan dell’hip hop strumentale di derivazione jaylibiana. Complessivamente, il confronto tra i due artisti si risolve con un risultato più o meno di parità, con l’ago della bilancia tendente leggermente verso le strumentali di Biga. Si tratta comunque di una vittoria al fotofinish, dovuta al fatto che mentre tutti i tappeti ritmici potrebbero tranquillamente vivere di vita propria senza rap, i testi sono ancora troppo dipendenti dalla ritmica per risultare opere poetiche funzionanti da sole sulla carta. É tuttavia giusto ricordare che Millelemmi è uno dei talenti più meritevoli di uscire allo scoperto, magari con un progetto che lo veda alla prese con canzoni più complesse come struttura. Direzione che consentirebbe una valutazione più generosa delle sue già enormi capacità anche da parte di ascoltatori esigenti ma non iniziati alla doppia acca. (7/10)


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Think Of You potrebbe addirittura appartenere a Lady Gaga, mentre la strofa di Salty Sweet ha già le sembianze di un odioso motivetto da spot televisivo. Il Ghost EP di Sky Ferreira rimane l’esempio più lampante, ma gli alti e bassi dei debutti lunghi di Charli XCX e MS MR lo confermano: il tumblrpop sembra ancora trovare la sua dimensione ideale nelle singole tracce, più che nel contesto album. (6.2/10) Riccardo Zagaglia

Noise Trade Company Reformation (EK Product, Febbraio 2013) Genere: electro-wave Cambia decisamente pelle, il progetto Noise Trade Company. Fortemente voluto da Gianluca Becuzzi, vero e proprio deus ex machina della formazione post-Limbo e rifugio ove sfogare le pulsioni più latamente rock, Noise Trade Company si è sviluppato lungo tre album (Crash Test One, Just Consumers e Post Post Post) in cui sviscerava le coordinate di un “electro harsh-pop per la civiltà dei consumi terminali”. Col passar del tempo NTC si è man mano mosso verso lande meno ruvide e synth-wave oriented, per approdare ora, con questo quarto passo, a rivoluzionarle dal di dentro. Due cover poste programmaticamente al centro delle dieci tracce del disco sono più di un indizio, tanta e tale è la forza con cui vengono ripensate dal duo Gianluca Becuzzi/Elena De Angeli (in questa uscita ormai trio, con supporto di Fabrizio Biscontri a chitarra e basso): la prima è Ice, monolite Scorniano tratto dal capolavoro della prima incarnazione del duo Bullen/Harris (Vae Solis, anno di grazia 1992) e reso liquido e haunted alla maniera del dub più oscuro e sensuale, con un Becuzzi luciferino alla voce. L’altra è Evening, trasposizione della omonima traccia con cui Christa

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della compilation Female-Pop 2012. Per Lizzy Plapinger (voce e anche fondatrice della label Neon Gold) e Max Hershenow il periodo di avvicinamento all’album di debutto Secondhand Rapture non ha fatto altro che confermare lo status di progetto pronto ad esplodere: live sold out anche in Europa, release del videoclip da 500.000 views di Hurricane con tanto di recente remix ad opera dei CHVRCHES e Bones a far da colonna sonora per il trailer della terza stagione di Game Of Thrones. Pubblicato da Creep City via Columbia, Secondhand Rapture è chiaramente più dispersivo rispetto all’EP - dal quale eredita anche Dark Doo Wop e Ash Tree Lane - e in più di una occasione viene da pensare che l’urgenza maggiore, durante le session, non fosse tanto quella comunicativa quanto di dare alle stampe l’album di debutto per tempo. Hurricane rimane infatti la standout track capace di smarcarsi, anche a livello stilistico, da una buona parte di tracklist composta da (ch)art-pop in perenne rotta di collisione con certo generico piattume mainstream. Ciò nonostante, Secondhand Rapture può essere visto come l’album che avrebbero potuto realizzare Ellie Goulding e soprattutto Marina & The Diamonds se avessero continuato per la propria strada senza grosse pressioni discografiche. La voce di Lizzy, in un panorama affollato da timbri spesso privi di tratti distintivi, ne esce sicuramente vincitrice, mentre Max Hershenow si dimostra abile nel plasmare e nel far convivere i passaggi più riflessivi e tenebrosi con le colorate esplosioni in zona Florence & The Machine (Fantasy, dall’energio chorus sorretto da incalzanti drums o il riuscito riassunto del MS MR-sound che è No Trace). Una Florence Welch che torna a più riprese tra le dodici tracce del disco (Head is Not My Home), così come certi vividi richiami anni ‘90 (sulla scia dei Poliça) e alcune modulazioni alla Jessie Ware. Il ritornello iper-catchy di

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Stefano Pifferi

Nordvargr - Murkhr (Old Europa Cafe, Dicembre 2012) Genere: Dark, metal Il prolifico compositore e musicista svedese Henrik Nordvargr Björkk, trascorsi gli ultimi tempi a ridosso del più estremo rumorismo harsh, torna dopo anni all’originaria attenzione per la dark ambient da lui stesso, in senso molto aperto, già codificata con piglio poliedrico. Murkhr è fuori da

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qualche tempo per l’italiana Old Europa Cafe in edizione limitata a 300 copie in LP e CD, con i due supporti a mostrare materiale leggermente differente al loro interno. Ritorno alla dark ambient, dicevamo, ma in una accezione che, nel frattempo, è forse irreversibilmente uscita dal discorso musicale contemporaneo. Diventata canone, la stessa rischia ora di suonare velleitaria nelle intenzioni e schiacciata da una visione del mondo poco propensa al dinamismo interpretativo e trans-generico suggerito dai tempi attuali. Il 12” consta di due pezzi lunghi, uno per lato, per una durata totale di circa quaranta minuti. I due brani, che scorrono senza attrarre particolarmente l’attenzione dell’ascoltatore, sono di fatto due suite di ambient oscuro, monocorde e del tutto trascurabile sia nelle velleità che negli impliciti presupposti. Più articolato è invece il discorso che riguarda il CD, vario e capace di una trasversalità di soluzioni che ne rende più piacevole l’ascolto. Il punto di partenza è sempre il drone più malevolo e, ormai, prevedibile, anche in funzione dell’immaginario di riferimento di Nordvargr. Il quale, schierato talvolta in prima persona tra le fila dei musicisti black metal piuttosto che industrial (si ricordi il significativo passato nei seminali Maschinenzimmer 412), sta dichiaratamente da quella parte della barricata. Maggiore ricchezza di soluzioni, insomma, ma evocazioni riuscite a metà. Siano gli ambienti ospedalizzati della title track o i climax dinamici da film horror di Interdimensional Drift, il lavoro tende comunque a scadere nel cliché, fino ad arrivare a episodi davvero sfortunati, come i fraseggi dal pathos epico ma infelice di Larvae Rex Caelestis o il movimento massimalista completamente scontato e retorico del finale in stile marziale. Episodio più curioso dell’intero album è The Alchemical Vessel, in bilico tra tromboni, bassi rotolanti/glitch e stravagante dissolvenza ritmica in chiusura. Ultimamente il genere musicale in questione

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Paffgen aka Nico concludeva, nel 1968, l’album The Marble Index e che da nenia folk ancestrale e pagana si trasforma in algida resa, se possibile ancor più opprimente dell’originale. Due prove magistrali che indirizzano il lavoro verso nuove, e per certi versi inedite, vie di fuga per il progetto NTC; vie di fuga avvalorate dalla conformazione speculare dell’album, con due lunghe suite gemelle che aprono (Fate) e chiudono (Truth) il lavoro in nome di una sorta di ritorno ad atmosfere ossianiche e criptiche (quasi) alla Limbo, o dai vari rimandi/trasfigurazioni di sonorità primigenie dell’epopea wave - l’introspettivo travisamento à la Joy Division di Orchid - sempre trattate sotto la lente di un’elettronica insieme robotica e umana, a battuta lenta, dubbosa ma anche dubbiosa e scivolosa, sensuale come l’oscurità e sempre pervasa da una latente sensazione di paganesimo (ir)rituale (si veda Fall, sorta di chiesastico trip-hop o l’assenza esoterico-rumorista di Endless e Seven, altra coppia di questo album dicotomico). Reformation mantiene dunque fede al proprio titolo: minutaggio lungo, coesione di fondo invidiabile, atmosfere dilatate, meno immediate ma non per questo meno grigie ed evocative con cui ammantare il sostrato wavey cui il progetto fa riferimento. E ci dice inoltre di uno spirito mai domo e sempre pronto a ripensarsi e rimettersi in gioco. Chapeau. (7.2/10)


Bloodroot è equilibrio, misura, in un certo senso stasi, dove rimanere fermi e rallentare il polso significa distorcere il tempo nell’esplorazione di ogni singolo, lunghissimo, attimo (il passo lento e ammaliante di Brussels). La personalità e l’eleganza vocale di Francesca Bono emergono con forza, acquisendo l’autorevolezza e la centralità di una cantautrice (cosa ben diversa dalla “semplice” performer); il peso Michele Ferretti di ogni parola, il controllo eccellente dell’espressione, le pause, le curvature leggere e non ultima una pronuncia inglese davvero ottima, caratterizOfeliadorme - Bloodroot (The zano l’impronta lineare ma mai banale di questi Prisoner Records, Marzo 2013) nove pezzi. Genere: art-pop Il secondo full-length dei bolognesi è un passo di A mancare, in questo disco di una primavera lato, né propriamente avanti né tantomeno indie- astratta dove alla calma ancora invernale si tro; mossa di una band vitale, costantemente alla sovrappongono guizzi solari, è forse l’affondo viscerale, il pezzo che ti segue la notte mentre ricerca di qualcosa. La band costruisce trame raffinate, culla per testi ti addormenti, il colpo basso (come per il sottoaccesi e “crudeli”, giocando molto bene con inne- scritto fu Ian, ad esempio). Tutto scorre in luce sti e dinamiche (gli ingressi taglienti di chitarra in di grazia e ombre intriganti, senza sbavature né Bloodroot), punteggiando un sostrato sostanzial- scosse. (6.9/10) mente pop-folk (Cat Power fa capolino in Magic Ring) che nell’esprimere la sua vena più malincoAntonio Laudazi nica e arrendevole guarda all’art-rock di fine millennio, dai Blonde Redhead ai Radiohead, tra Perturbazione - Musica X ballate dilatate ma spesso pronte ad accendersi e (Mescal, Giugno 2013) mid-tempo contaminati dalla musica americana Genere: pop (il banjo dell’ospite Marcello Petruzzi in Stuttering Tre anni dopo Del nostro tempo rubato, sorta di Morning). Blonde On Blonde - con rispetto parlando - che Rispetto al precedente All Harm Ends Here, Bloscozzava l’estro ipotizzando tutti gli sbocchi posodroot perde in parte l’ipnotica introspezione, il sibili della cifra stilistica, i Perturbazione tornano contrarsi su se stesso, poetico e claustrofobico, col sesto album nel segno della concisione (dieci l’intensità dell’imperfezione e una certa vena pezzi per poco più di mezz’ora complessiva) e noir. Guadagna invece una produzione calda e di un piglio pop marcatamente elettronico. Una raffinata, arrangiamenti maturi, una maggiore ar- svolta strettamente correlata alla scelta di un ticolazione della scrittura e dei testi - evidente già produttore come il corregionale Max Casacci, nel ricamo vocale dell’iniziale Last Day First Day fatto di per sé sorprendente ma che non sembra - e quell’attenzione ai dettagli che ne conferma distoglierli dal canovaccio di sempre. Ovvero, Ceil respiro internazionale (gli inserti di mellotron e rasuolo e compagni continuano a muoversi nel wurlitzer nel brano appena citato, a cura di Bruno solco mediano tra cantautorato sensibile, indie Germano, primo di una serie di ospiti). asprigno ed intrigante radiofonico, uno stile e un

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sembra essere illuminato da una forma di sdoganamento che sta portando alcune delle sue più evolute manifestazioni in contesti meno criptici (Samuel Kerridge tra i nuovi, Lustmord tra i veterani). Per quanto qui si parli di un maestro, oggi gli alfieri più attendibili sono altrove. Lo dimostrano i vari Maurice de Jong, Rainforest Spiritual Enslavement, Sutekh Hexen. (5.2/10)

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artificiosità che basta a renderle empatiche come soprammobili sofisticati. È il disco insomma di una band matura che tiene in caldo un’adorabile sindrome di Peter Pan, sprimaccia dilemmi esistenziali ed epocali con leggerezza struggente e guardandosi bene dal risolverli, crocifigge con garbo la svalutazione di certi valori (la sindrome del “fattore X”) ma solo per cavalcarli con un canzonettismo che tocca pochi tasti ma quelli giusti tra cuore e cervello, tra io e media, tra stereotipo e ricercato. Sono una delle migliori realtà pop-rock italiane degli ultimi quindici anni e si fanno distribuire in allegato da un mensile con più sponsor che anima: la morale, se c’è, la lascio a voi. (6.5/10) Stefano Solventi

Poppy Ackroyd - Escapement (Denovali, Dicembre 2012) Genere: Avant, contemporanea Della musica di qualità val sempre la pena parlare: meglio colmare un ritardo che non parlarne affatto. E’ il caso di questo esordio solista per Poppy Ackroyd, di norma membro della Hidden Orchestra di cui abbiamo apprezzato sia le passeggiate notturne che le esplorazioni di arcipelago. Nonostante la violinista qui si muova in solitaria e con un impianto strumentale assai diverso, il mood e le atmosfere rimandano alla band madre, seppur indagati con un cipiglio più tenue, verrebbe da dire più femmineo. Il violino è sempre presente, ma al centro di questi sette brani strumentali c’è il pianoforte suonato in tutte le sue parti, oltre alla tastiera: sia percuotendo direttamente le corde con vari artifici tecnici, sia sfruttando le parti lignee. I suoni così ottenuti vengono poi stratificati per comporre le frasi musicali e, quindi, i brani. L’interesse per suoni cinematografici, tanto per la Ackroyd quanto per la Hidden Orchestra, sono in bella evidenza anche in questa fuga, ma qui

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mood consolidati negli anni e perciò riconoscibilissimi. Siamo in presenza quindi di una variazione sul tema che appare tanto più riuscita quanto più rispettosa del verbo della band piemontese, che da questa ebbrezza synth-wave pare lasciarsi investire senza perdere quel particolare equilibrio così fragile eppure così tenace (un po’ come è accaduto all’ultima Cat Power, se mi consentite l’ardire). Al solito, e malgrado i proclami (il comunicato stampa arriva a citare Bjork, Phoenix e persino David Bowie...) non c’è vera sperimentazione, nessuno spiraglio d’inaudito. È semmai un gioco che guarda allo ieri e all’altro ieri evoluti, contando sulla capacità di definire un popolare raffinato e appassionato, piacione ma non banale, una terza via insomma che funzionava e ancora funziona. Vedi l’ordito nervoso e asciutto di Monogamia con le sue arguzie battistiane reloaded, il boogie robotico di Questa è Sparta (dove si sprimacciano gli anni Zero assieme a I Cani), la stolida pulsazione funky dance della title-track (la più Subsonica del lotto). Il punto di forza alla fine resta la scrittura, in grado di stemperare con disinvoltura apprensione e morbidezza, come nella wave caramellata di Diversi dal resto, nella marcetta quasi Xtc di Chiticapisce o nel dub tra lo stranito e l’abboccato di Ossexione (ospite l’emergente - ennesima cavallina della scuderia Sugar - Erica Mou). Ma è anche un punto di debolezza, perché di fronte ad una pur gradevole La vita davanti o alla poco più che sanremese I baci vietati (dove riportano a galla uno dei loro potenziali padrini, il quasi desaparecido Luca Carboni) il senso di automatismo è pressoché inevitabile. Ci provano, certo, ad alzare l’asticella e sparigliare le coordinate, però quando lo fanno pagano pegno: tanto Mia figlia infinita (valzer folk dolciastro tra smarrimenti sintetici e orchestrali) che Legàmi (sincopi e trepidazioni androidi come dei Depeche Mode impressionisti e un po’ squinternati) scontano quel pizzico di


Marco Boscolo

Primal Scream - More Light (1st International, Maggio 2013) Genere: rock Capita ancora, fortunatamente, che dischi nuovi ti sorprendano al punto di scatenare un genuino entusiasmo. Più che mai quando non te li aspetti. I Primal Scream sono una band imprevedibile. Nel bene e nel male. Possono fare un album rivoluzionario e un altro di retroguardia, un’opera capitale e un disco irritante. Questa volta, però, colpiscono nel segno, come non facevano non dico dai tempi di Screamadelica, ma perlomeno da quelli di XTRMNTR, di cui More Light condivide la tensione politica e la propensione all’invettiva. Oltre a ribadire in maniera persino imprevista la centralità di Bobby Gillespie, Andrew Innes e compagni nel panorama musicale britannico, il nuovo album rende bruciante e attuale una parola quasi dimenticata: crossover. Uno dei dischi dell’anno - da queste parti - comincia con quello che si candida, dalle prime note di quel riff di sax, a essere uno dei pezzi dell’anno (non solo per il titolo): 2013. Sembra quasi di sentire i Roxy

Music con una carica di rabbia spropositata in aggiunta ai lustrini glam e all’intelligenza sonora, incontrare gli Stooges di Funhouse e il suono baggy; si balla sulle barricate tra la chitarra di Kevin Shields e un arpeggio liquido di tastiera, un groove di quelli che andrebbero avanti all’infinito come nel migliore krautrock e strofa-ritornelloponte-coda orecchiabili e perfetti. Un brano allo stesso tempo camaleontico e catchy come i Primal Scream ne sanno davvero scrivere quando si mettono di buzzo buono, e che i Nostri riescono a tessere e tenere vivo come da manuale per tutti i suoi otto e passa minuti. Il testo è durissimo: si parla di schiavi del XXI secolo, di un punk rock che non ha cambiato niente, della controcultura corrotta dal denaro, di soluzione finale per la rivoluzione giovanile. Difficilmente poteva esserci un inizio migliore e più convinto. Poi si prosegue e le gradite sorprese non mancano. Il trip-hop di River of Pain che si spacca in due per dare spazio a un intermezzo dell’Arkestra di Sun Ra calata da chissà quale galassia; Culturecide, dub-funk aggressivo come un pugno in faccia e destabilizzante come la morsa allo stomaco che ti prende nel leggere le liriche: siamo in pieno retaggio post-punk tra il Pop Group e i PIL (e perché no, un po’ di Tricky) con fiati e un flauto (!) al limite del free jazz e la voce di Mark Stewart a rendere il tutto ancora più disperato e apocalittico; Hit Void, cioè quello che sarebbe un brano punk di oggi: i My Bloody Valentine o gli Spacemen 3 su Nuggets insieme ai Ramones e ai Contortions. Si può obiettare che si tratta di citazioni, di un passato rimescolato e riverniciato di moderno, di un gruppo che è uno nessuno centomila per come ha cambiato pelle in questi anni. D’accordo. Questo non nega, però, che i Primal Scream siano al top della forma per scrittura e arrangiamenti. La produzione di David Holmes contribuisce a dare ulteriore smalto ad altri pezzi di tutto rispetto: il brio soul di Invisible City, gli accenti

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spicca di più il retroterra colto, quasi snob della musicista inglese. In controluce c’è tutto il minimalismo di Steve Reich, ma anche una certa modularità che sembra presa dallo strutturalismo: linee melodiche che si costruiscono nota su nota - quasi mai facendo ricorso agli accordi - e linee strumentali che possono essere ripetute in diverse combinazioni, dando origine a momenti musicali diversificati. Soprattutto nei passaggi con il piano preparato, impossibile non pensare a John Cage, ma è più un atto dovuto che un vero e proprio riferimento esplicito. In perfetto equilibrio tra atmosfera, ambient, classica e avanguardia chic, Escapement non prenderà mai davvero polvere sullo scaffale perché ogni ascolto aggiunge una dimensione nuova alla profondità sonora. (7.3/10)

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Tommaso Iannini

Public Service Broadcasting - Public Service Broadcasting (Test Card Recordings, Maggio 2013) Genere: Art rock L’idea, quella di realizzare musica strumentale con samples tratti da video d’archivio, non è delle più fresche. A quelli della mia generazione, ad esempio, fa venire subito in mente 19 (Ninteen), l’hit del 1985 con cui Paul Hardcastle portava sul dancefloor le intuizioni della new wave più oltranzista. Più recentemente, la musica hauntologica ha fatto un largo uso di materiale d’archivio delle tv britanniche, per recuperare suggestioni di un passato idealizzato. Analogamente i Public Service Broadcasting utilizzano samples tratti da film di propaganda della Seconda Guerra Mondiale, con l’intento (dichiarato da un titolo per nulla ironico) di informare, educare ed intrattenere le nuove generazioni. Onestamente, il loro lavoro di ricerca presso il

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BBC Sound Archive andrebbe premiato, perché il materiale recuperato è estremamente interessante ed evocativo. Peccato non si possa dire altrettanto delle basi, che spesso assecondano un recitato perentorio e concitato, con progressioni ritmiche che affastellano ritmi electro, arpeggi di banjo, strati di synth e riff muscolari. Il duo londinese composto dal polistrumentista J. Wllgoose, Esq. e dal fido compare, nonché batterista, Wrigglesworth, finisce per non sposare la denuncia e l’ardore polemico di Hardcastle (che faceva ballare snocciolando dati sulle vittime del Vietnam), né il fascino criptico delle produzioni GhostBox. Cosa rimane dunque? Non molto. Giusto il feeling anni 80 e retrofurista di brani come The Now Generation (una versione meno ispirata dei Daft Punk di Derezzed) o l’assalto chitarristico di Signal 30 (indie wave apocalittica, ma un pò troppo educata). Un po’ poco per poter immaginare un futuro che vada al di là del curioso divertissement. (5.7/10) Diego Ballani

Sam Amidon - Bright Sunny South (Nonesuch, Maggio 2013) Genere: avant folk Quarto album nel segno della continuità per Sam Amidon, non perché riproponga papale papale la formula dei predecessori ma per come semmai la spinge di una tacca in avanti, verso una sintesi trepida, fragile, quasi disturbante tra suggestioni traditional e contagi contemporanei. Ad aiutarlo troviamo ancora il producer e vecchio amico Thomas Bartlett, altrimenti detto Doveman, ma a comandare i microfoni stavolta c’è il tecnico Jerry Boys, uno col bagaglio di esperienze che vanno dai R.E.M. a Vashti Bunyan passando per gli Steeleye Span. Sembra insomma che in occasione dell’esordio su Nonesuch il folk singer del Vermont - nonché marito della cara Beth Orton abbia voluto prestare particolare cura all’aspetto

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quasi alla Bad Seeds di Sideman, Elimination Blues con il cameo di Robert Plant, il raga-rock di Relativity che con un guizzo diventa una ballata acustica, di quelle che non sarebbero dispiaciute ai Radiohead di tanti anni fa. Suonano tutt’altro che stucchevoli persino le vecchie ossessioni byrdsiane e rollingstoniane di Walking With The Beast e It’s Alright, It’s OK, sorta di Movin’ On Up parte seconda, con lo stesso groove e le stesse qualità innodiche della traccia d’apertura di Screamadelica. Con una bassista nuova di zecca, i Primal Scream presenteranno ora il nuovo materiale dal vivo e vedremo se andrà tutto per il verso giusto. Non capita così spesso di trovare in questo stato di grazia un gruppo con venticinque anni di carriera alle spalle. Ti fa quasi avere fiducia nel rock and roll nel 2013... (7.8/10)


Stefano Solventi

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Savages - Silence Yourself (Matador, Maggio 2013) Genere: post-punk Talvolta un prodotto musicale somiglia a una formula alchemica; combinazione più o meno casuale, nella quale, a un certo punto, alcuni elementi instabili si miscelano dando luogo all’ultimo fragoroso hype del momento. Parliamo di quattro ragazze inglesi dall’anima inquieta e lo sguardo accigliato, novelle post-punker balzate all’orecchio della stampa dopo un paio di singoli e qualche concerto. Le loro performance live sono state particolarmente apprezzate per l’impeto graffiante e il carisma oscuro e iancurtisiano della vocalist Jehnny Beth, nonché, si suppone, per un certo muoversi perfettamente al confine tra musica d’arte e fenomeno di costume, tendenza, moda. Un occhio ai produttori di questa attesissima opera prima e quanto detto apparirà più chiaro: Johnny Hostile e Rodaidh McDonald, già dietro le quinte di Adele, The xx, e How To Dress Well. Ecco spiegata la produzione pressoché perfetta, unitamente a un esistere nel proprio tempo e sul proprio tempo al punto da sfiorare una magistrale furberia: antenne dritte per capire - anzi di più, dettare - il sound giusto per la gente giusta. La partenza affidata a Shut Up è coinvolgente ma leggermente sottotono rispetto alla percezione complessiva dell’album, e vengono in mente le Organ, quando, era il 2004, il revivalismo newwave delle cinque ragazze - anch’esse made in UK, anch’esse al primo full-length - fu molto apprezzato, salvo poi esaurirsi in uno scioglimento prematuro. Qui però c’è molta più tensione, nervosismo, pathos. La Beth è una cantante con i controcazzi, diciamolo pure senza mezzi termini. Un approccio e un timbro che sembrerebbero (e in un certo senso sono) fortemente derivativi: incontro tra gli arabeschi dark di Siouxsie Sioux e l’intensa mascolina autorialità di Pj Harvey. Fino a quando non arrivi a sentirci pure il romantici-

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sonoro, inseguendo una fragranza brusca, intima e terrigna. Finisce che ritornano in ballo i soliti riferimenti, la trepidazione spersa d’un Nick Drake (nell’incedere jazzy di I Wish I Wish, ospite la tromba del grande Kenny Wheeler), la disillusione carnosa d’un Jason Molina (nella cupa Short Life), la letargia estatica di Mark Kozelek (vedi l’apprensiva rilettura del traditional Streets of Derry), addirittura il John Martin più placido come nella soffice e resinosa title track. Poi, al solito, ci imbattiamo in cover scelte da repertori imprevedibili, come la Shake It Off targata Mariah Carey (!), qui ridotta a meditabonda pensosità piano-voce, o quella My Old Friend firmata dalla stella del country Tim McGraw, col suo incalzare agrodolce probabilmente il pezzo più accattivante mai licenziato da Amidon. Il quale, a forza di ricorrere a questa strategia di smarcamento sistematico, gioca una partita affascinante ma rischiosa: dove lo metti uno così, né nostalgico né post-moderno, coi suoi intrecci caldi ma striminziti di particelle elementari folk, country, blues e jazz? La risposta sta forse nella misteriosa energia che unifica due situazioni agli antipodi come Pharoah e As I Roved Out, indolenza edenica la prima, espettorazione country blues sanguigna la seconda: così lontane per approccio, tenore ed esito, eppure evidentemente parte di uno stesso discorso narrativo, di una stessa sfera emotiva. Probabilmente il merito maggiore di Sam Amidon sta nel tenere al centro con determinazione la figura - stavo per scrivere l’idea - del musicista/interprete. Disarmato, quasi nudo, persino vulnerabile, ma un libro aperto di passione e inquietudine. (7.1/10)

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Antonio Laudazi

Seaven Teares - Power Ballads (Northern Spy Records, Aprile 2013) Genere: Avant folk Sono una sorta di supergruppo i Seaven Teares,

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combo nelle cui fila militano Charlie Hooker, musicista di casa alla Northern Spy visti i precedenti con Extra Life e Zs, Robbie Lee degli Howling Hex, Russel Greenberg degli Yarn/Wire e infine la cantante Amirtha Kidanbi già alla prese con il collettivo Skeletons. Campi e interessi variegati rispecchiati perfettamente da questo disco d’esordio, Power Ballads, il cui linguaggio è quello del folk ma un folk onnivoro e disparato, capace ad esempio di abbinare atmosfere cinquecentesche ai gusti della wave. La riprova sta nelle due cover dell’album: la liturgica Flow My tears per gentile concessione del compositore rinascimentale Jhon Downland, e Them Bones degli Alice in Chains, qui riadattata in una versione stile incubo surrealista. Tanta carne al fuoco che però non deve far perdere di vista il senso dell’operazione: il lavoro dei Seven teares poggia sulla tradizione folk pre ‘900 sia per quanto riguarda la strumentazione, tra organi dal sapore medievale, campane, vibrafoni, e flauti, sia nel lirismo delle parti vocali ad opera di Hooker e della Kidanbi. Questo è il punto di partenza, poi c’è la trasfigurazione nel qui e ora. Forme che coniugano i Death in June con i synth della wave (Our lady of sound), il folk più classico con il nero espressionista dei Current 93 (Grown woman), o ancora forme che si sciolgono e dissolvono come nella conclusiva Thin Veil, dove sono le voci e i vocalizzi a guidare il senso. Non era impresa facile costruire un mosaico con oltre quattrocento anni di storia folk, ma la missione è compiuta. L’impostazione è avant, il suono organico, e il chiaroscuro emoziona. Se siete in cerca di avventura troverete pane per i vostri denti. (7.3/10) Stefano Gaz

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smo sermonico di un Nick Cave, e allora ti accorgi che la ragazza ha imparato bene le lezioni che le interessavano, ma ci mette anche del suo, tale è la varietà di umori che riesce a interpretare. E arriviamo così al secondo punto della questione (il primo era la voce, se non si fosse capito): le sfumature che il quartetto riesce a esprimere all’interno del proprio contenitore. Il che è una delle cifre dei grandi: sfuggire all’eclettismo fine a se stesso, collocarsi in un ambito codificato ed esprimerne le varianti, le possibilità, quasi fino a contraddirsi, per poi rientrare sapientemente sul proprio binario. Dal fluire sensuale e notturno di Strife alla ruvidezza rock’n’roll di I Am Here, dalla sporcizia garage di No Face alle progressioni dark di She Will, dalla murder ballad Waiting For A Sign, rumorista e struggente, fino alla circolarità punk di Husbands, per concludere con la sofisticata Marshall Dear, dal gusto art-noir molto Anna Calvi. Eppure, nonostante l’indiscutibile qualità della proposta, è come se da tanta e tale esattezza di mezzi e grammatica trasparisse il brivido freddo del calcolo, prima ancora di un’idea ben precisa di suono, un’urgenza comunicativa, un’anima. Stile, stile e ancora stile; una maschera perfetta che sembra vera anche a chi la indossa. Non proprio esangui come i fenomeni The xx (il che non vuole essere un giudizio di valore, tanto che, per chi scrive, Coexist è stata una delle uscite più apprezzabili della passata stagione), ma un po’ sofferenti di quello scollamento tra forma e sostanza che non permette a un buon disco di diventare ottimo. (7.2/10)


Genere: ‘60 retrò Terzo disco per gli Shannon & the Clams, Dreams in the Rat House è l’ennesimo lavoro con fascinazioni fifties e oltre, diciamo dai fasti doo wop alle Shangri-las. Un disco che per la verità non lascia molti spunti di riflessione: qualche buon pezzo, specie quando la Shannon attacca con voce rancida (Rip Van Winkle, Bed Rock, Heads or tail), ma la strada per arrivare a fine scaletta è lunga, tanto più che nella maggior parte dei casi si tenta la via dell’arrangiamento arzigogolato per uscire dalle secche del copia e incolla, senza che il risultato ne benefici in alcun modo. Se siete in fissa con questo tipo di retrò meglio ripassarsi le Detroit Cobras o i Mr Heavenly, lì almeno ci si diverte di più. (5/10) Stefano Gaz

Sightings - Terribly Well (Dais, Aprile 2013) Genere: noise Ce lo assicurano loro stessi: suona “terribly well” il ritorno dei tre Sightings. Dopotutto, da qualsiasi prospettiva lo si guardi, un album dei newyorchesi lascia sempre una sensazione di avvincente spossatezza, di devasto liberatorio e insieme costruttivo, nonostante una formula sempre incompromissoria e tendente più allo sfacelo che al propositivo. Che siano le melmose lande rumoriste limitrofe a certo post-industrial di Yellow (sei minuti di cappottamenti e rigurgiti di rumori in implosione), il funkettone inacidito da bassifondi cittadini di Better Fastened, i deragliamenti free-noise di Rivers Of Blood che vagano senza un apparente senso su una terra di nessuno o il clangore al calor bianco di Mute’s Retreat, la sensazione è che dietro la sigla ci sia un arco concettuale più ampio del mero rumore fine a se stesso

che ha caratterizzato troppe band cresciute nel decennio scorso. L’aver abbassato la cresta del rumore duro e puro, l’essersi concentrati su una forma sonora che è più cerebrale che muscolare - ma questo è da sempre nell’esperienza Sightings, tanto da farne mosca bianca rispetto a illustri colleghi -, l’aver unito le forze col synth “smostrato” di Pat Murano (No-Neck Blues band), a dimostrazione di uno spessore ormai conclamato, pare che ne abbia risollevato le sorti, facendo dei Sightings uno dei progetti noise più apprezzabili di sempre. In grado, cioè, di mostrarsi per ciò che è - un’indubbia accozzaglia di riferimenti al culto del rumore in ogni sua forma - ma anche per qualcosa di altro, di mutante e mutato sempre su quel corpo morto e sfatto che è oggi il “noise”. E dimostrandoci come anche dai sottoscala zozzi e puzzolenti degli anni zero possano emergere progetti capaci di segnare le epoche a venire. (7.2/10) Stefano Pifferi

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Shannon & The Clams - Dreams in the rat house (Hardly Art, Maggio 2013)

Small Giant - Now We’re Gone (Autoprodotto, Gennaio 2013) Genere: synth-pop Il maggior pregio di questo esordio a firma Small Giant, progetto solista di Simone Stefanini dei Verily So, è di vivere nel rapporto tra sentimento e memoria, andando a scovare, talvolta in maniera esatta e commovente (We Were Fuckers), lo scarto che determina il passaggio dalla reminiscenza alla malinconia. Una variabile del tutto personale, fatta di oggetti fluttuanti e improvvisi: un film dai colori sbiaditi come è solo la fanciullezza, la foto di un passato recente ma comunque non replicabile, un suono e melodie alle quali siamo soliti associare pezzi di vissuto. Ecco, il “piccolo gigante” riesce più di una volta a rendere universale questa variabile, usando come mezzo un synth-pop che è da cameretta, sì, ma solo perché i mezzi adibiti alla produzione

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te (oppure - più opportunamente - a riempire generosi boccali di buona Tennent’s), perché se Mason era l’inconfondibile semi-falsetto dei Beta e uno dei principali compositori, non ne era certo il deus ex machina, come del resto ci dimostrò a suo tempo la buona popadelia vintage di John Maclean, Robin Jones e Gordon Anderson radunati nel combo The Aliens. Tuttavia il caro Steve sembra volerci provare il contrario: non si risparmia, sforna venti tracce ispezionando tutto il ventaglio attitudinale, dall’hip-hop (sbilanciato funky soul come nella brusca Fight Them Back o sciroppato d’acido come in Fire!) al downtempo spacey (la melassa pensosa e oppiacea di Lie Awake) passando per ibridazioni psichedeliche più o meno amniotiche (la tensione fiabesca di A Lot Of Love), dub ibridi (la celebrazione di Ayrton Senna - con tanto di sample di una telecronaca brasileira - in The Last Of Heroes) e gospel strapazzati electro (quella Lonely che scomoda certi Antonio Laudazi tremori acidi Spiritualized). Lo sforzo è di quelli notevoli già sulla carta, alla prova dei fatti inoltre benedetto da un’ispirazione Steve Mason - Monkey Minds In più che buona che ne enfatizza l’aspetto autoraThe Devil’s Time (Domino, Marzo le. Tuttavia Mason non era (non è) la Beta Band, 2013) e questo disco rischia spesso di suonare come Genere: psych-pop-hop Lontani i tempi della Beta Band (sono passati già un tentativo d’ufficio di mettere il cappello su nove anni dall’epitaffio Heroes to Zeros), scarsi i tutta l’eredità senza averne il diritto. Nel carosello segnali dell’attività solista (e para-solista) di Steve stilistico infatti c’è troppo ordine, troppa ingeMason, dal momento che almeno a queste latitu- gneria, troppa fiducia nel farsi canzone di intuizioni sì intriganti però attente a non scomodare dini né come King Biscuit Time né come Black le consuetudini auditive. Se assieme a Maclean Affair ha smosso più di tanto le acque. Non è andata meglio con l’esordio a proprio nome Boys e Jones (ed inizialmente anche Anderson) l’imOutside, roba di tre anni esatti orsono, col quale pasto sonoro mirava proprio a destabilizzare il volle presentarci il suo lato più intimista, malinco- canonico - spacciandoti l’insidia nel carezzevole, il robotico nel visionario, l’inquieto urbano nel nico e a tratti melodrammatico. Col qui presente velluto cosmico - oggi Mason sa essere al più Monkey Minds In The Devil’s Time il registro bizzarro (vedi i siparietti allucinati tipo Behind The cambia drasticamente, a partire dal concept segnatamente politico, ma anche per la cifra sonora Curtain) e spesso accomodante forse persino a dispetto delle intenzioni (come nei detriti frenchche riallaccia numerosi link con la calligrafia del touch di Never Be Alone - l’incubo Elbow degli rimpianto gruppo scozzese. Air? - o nel dancefloor nevrastenico di Towers of Meglio aspettare però a stappare lo spumanstanno tutti in un armadio. Così proteso, invece, verso spazi espressivi potenzialmente molto più ampi. Da qui la sostanza ariosa, assai ricca di timbri e umori differenti che vanno dalle atmosfere conturbanti e lynchane di The Other Me (con la voce di Maria Laura Specchia e la partecipazione straordinaria di John Neff ) al french touch di Divisi, dall’epica in miniatura di Murakami agli arpeggiatori anni ‘80 + assolo di chitarra di The Night Apollo Died. Fino alla cover un po’ furbetta - ma d’altro canto perfettamente in linea con quanto detto - di Never Ending Story, manifesto generazionale di un’adolescenza dorata, come forse vuole esserlo il continuo sguardo rivolto all’indietro, a partire dal titolo. Now We’re Gone inizialmente paga forse un’eccessiva eterogeneità, ma è un disco al quale, con il trascorrere degli ascolti, non si può fare a meno di voler bene. (6.6/10)


Power). A dirla tutta, sembra essere molto più in parte quando sforna pezzi sfacciatamente radiofonici come lo stomp tra il solare e l’agrodolce di Oh My Lord o quella Come To Me che dipana solennità pop tra i Wire più languidi e gli Alan Parson meno sdolcinati. In conclusione, questo è solo un buon disco di indie pop contemporaneo, solo un po’ più versatile e sfaccettato del solito. La Beta Band è morta, viva la Beta Band. (6.6/10) Stefano Solventi

Genere: alt-pop “È tempo che ci facciamo una chiacchierata / non è mai ciò che vuoi sentire / È così divertente come le parole possano ferirti / anche dopo tutti questi anni”. Inizia così il nuovo album dei Texas, che esce a otto lunghi anni di distanza dal precedente Redbook. La band di Sharleen Spiteri è abituata a passare dal centro della scena al dimenticatoio per poi rialzare la testa - dopo la prima hit I Don’t Want A Lover, infatti, ci volle un po’ di tempo per rivederla in cima alle classifiche; alla fine degli anni Novanta brani come Say What You Want e Black-Eyed Boy spopolavano nelle radio di tutta Europa, per merito della fusione di melodie sfiziose ed echi di girl group, ABBA e Fleetwood Mac uniti al fascino discreto di una Sharleen cresciuta a pane e classici Motown, sensuale persino in versione drag king nel video di Inner Smile. L’incantesimo, però, non si è ripetuto negli anni Duemila e, durante la lunga pausa, la front-woman ha sfornato un disco furbo come Melody (se Amy Winehouse e Duffy vendevano guardando al rhythm ‘n’ blues e al pop malinconico di matrice Sixties, fece bene a provarci visto che quei territori li esplorava già) seguito da una collezione di cover (The Movie Songbook) non esattamente imprescindibile.

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Texas - The Conversation (Pias, Maggio 2013)

Ora è la volta di The Conversation, che nelle intenzioni degli autori dovrebbe celebrare venticinque anni nel music business con un campionario di ciò che la band scozzese ha dimostrato di saper fare piuttosto bene; più che ai grandi successi di White On Blonde e The Hush, tuttavia, qui ci si accosta agli esordi (da un lato) e alla prima prova solista della Spiteri (dall’altro), tra caramelle pop/ rock con la dose giusta di zucchero (la title track, Talk About Love, Hid From The Light), gradite incursioni nei Sixties di Ike & Tina Turner (Big World) e delle Supremes di Diana Ross (Dry Your Eyes) e lenti perfetti per far tornare adolescente il pubblico adulto nostalgico dei balli da mattonella nel segno di Elvis Presley e di Roy Orbison (I Will Always, Maybe I). A dare man forte ai Texas arrivano il gentiluomo senza tempo Richard Hawley, che lavora volentieri con profitto al servizio di altri artisti (sua la recente After The Rain di Shirley Bassey), e Bernard Butler - prima chitarrista dei Suede, poi in duo con David McAlmont e, ultimamente, autore e produttore per la già citata Duffy. Il dispendio di energie non dà sempre i risultati sperati, ma le vere note dolenti sono altre: fuori tempo massimo il rock da FM di Detroit City (indecisa se rievocare Pat Benatar, Deborah Harry o Kim Wilde, Sharleen cerca nel dubbio di emularle tutte e tre in un brano che gli ultimi Killers relegherebbero allo status di b-side senza pensarci due volte), senza infamia né lode Hearts Are Made To Stray (vicina, stavolta, agli ultimi Pretenders). C’è parecchia confusione, in casa Texas, e un’attenzione alle melodie (a volte fiacche, altre volte che sanno di già sentito) incostante rispetto ai loro standard; si sospetta che neppure la loro nuova etichetta (la Pias, dopo anni alla corte della Universal) creda molto al materiale inedito, tant’è che la prima tiratura arriva anche in edizione limitata con nove grandi successi dal vivo allegati. Poteva essere l’album della rinascita, magari correndo qualche rischio, e invece The

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Conversation alla fine si rivela per ciò che è: uno dei tanti dischi “carini” in circolazione, all’insegna di un adult contemporary tanto piacevole quanto inoffensivo. Un album cui avvicinarsi con cautela e che nulla toglie - ma ben poco aggiunge - alla carriera del gruppo. (6/10) Alessandro Liccardo

Genere: post-rock/indiemo Sono passati ormai quindici anni dagli esordi per la Deep Elm Records. Un periodo storico che continua, nonostante la chiara evoluzione stilistica, ad essere il punto di partenza dei lavori targati The Appleseed Cast: la scena midwest emo si stava diramando - accentuando i toni punkpop - verso sud con i Jimmy Eat World e verso nordovest, plasmando parte del collage indie/lo-fi dei Modest Mouse. Dal maestoso doppio volume Low Level Owl ad oggi, il gruppo di Christopher Crisci ha sempre più abbandonato le sonorità indie-emo alla Sunny Day Real Estate, dilatando le soluzioni chitarristiche di stampo twinkle fino ad addentrarsi nei landscape di matrice prettamente post-rock. Li avevamo lasciati così lo scorso decennio con l’ultima realease via Militia Group (il precedente Sagarmatha) e li ritroviamo quattro anni dopo tra le fila Graveface alle prese con Illumination Ritual, l’ottavo disco anticipato - se così si può dire - nel 2011 dall’EP Middle States. Nel 2013 la proposta degli The Appleseed Cast suona vagamente fredda e un po’ troppo calcolata, limitando così il fondamentale interessamento della sfera emozionale. L’esperienza è tanta, così come il mestiere messo in campo da Crisci e compagni. Mancano però elementi in grado di catturare le attenzioni di chi si avvicina al gruppo per la prima volta. Tra lunghi fraseggi strumentali, arpeggi di

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Riccardo Zagaglia

The Cave Singers - Naomi (Jagjaguwar, Maggio 2013) Genere: folk errebi Perseverare, nel caso dei Cave Singers, ha qualcosa di angelico. Non fosse per come la loro calligrafia riesca a sembrare fresca e sanguigna malgrado non sia altro che folk errebì vecchio stampo, sia pure asperso di acidità erratica. Anche a questo giro insomma - probabilmente anche per merito del producer Phil Ek, già al lavoro per Built To Spill, The Shins, Fleet Foxes e The Walkman tra gli altri - il trio di Seattle riesce a sintonizzare la frequenza giusta e, a due anni dal buon No Witch, ribadisce le coordinate del proprio universo, affacciato su un mondo di euforia terrena, morbida inquietudine e tenerezze southern. Ti capita di sentirli ululare alla luna storta come un Mike Scott ringalluzzito I Am Kloot (nella rumba rugginosa di Have To Pretend), incalzare

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The Appleseed Cast - Illumination Ritual (Graveface, Maggio 2013)

chitarra in loop ed effettistiche annesse, l’impressione è che il gruppo del Kansas abbia una marcia in più quando va ad aggiungere ad un tappeto post-rock piuttosto ordinario e privo di grossi sussulti (nonostante l’estroso drumming) situazioni e stratificazioni melodiche in grado di evocare sentimenti nostalgici (l’ottima Clearing Life o Cathedral Rings). Spiccano in positivo anche l’intro dispari di Adriatic To Black Sea (non solo uno sfoggio di tecnica) e quello che forse è il passaggio maggiormente pop (nonostante la coda math-post) del disco: 30 Degrees 3AM. Le tonalità crepuscolari dipinte ad acquerello tramite un tocco volutamente leggero non ingannino, Illumination Ritual è un lavoro in realtà coeso e raramente pedante. Gli appassionati apprezzeranno, chi è invece alla ricerca di qualcosa di più stimolante e contemporaneo può anche soprassedere. (6.6/10)


la malinconia con piglio bayou Creedence (Easy Way), caracollare fra delta e front porch (Evergreens), tenere la fregola al guinzaglio come dei Them sul punto di esplodere Black Keys (It’s a Crime). Lubrificando il tutto con una vaga tendenza alle digressioni amniotiche che ricordano un po’ i Dave Matthews (l’agrodolce Canopy, la jazzata Shine) quando non certi disimpegni evocativi Phish (la felpata No tomorrows, la meditabonda Northern Lights). Tra il frugale e l’aspro, tra l’indolenzito e l’entusiatico, tra lo speranzoso ed il viscerale, i Cave Singers suonano come i compagni perfetti per un viaggio che vorresti fare tenendo il crepuscolo negli occhi senza farlo mai diventare buio. (7.1/10)

The Fall - Re-Mit (Cherry Red Records, Maggio 2013) Genere: Punk Ci sono icone irrinunciabili che vengno in mente ascoltando il nuovo - vecchio, eppur fresco - album dei The Fall. Il trentesimo, per essere precisi, e il quarto (un record) con la stessa formazione: Elena Poulou (tastiere), Dave Spurr (basso), Pete Greenway (chitarra) Keiron Melling (batteria). Attacca Sir William Wray e pensi a come John Lydon il teatrante strattonò glam e r’n’r in quella botta che fu Never Mind The Bollocks; senti Noise e quel testo che parla di pizza (oh, ma che diavolo dice?) e ti viene spontaneo il rimando a quel Thomas which I still love e al dada punk di Cleveland che tirò giù nello scantinato Beefheart; ti cali nello sporco di Hittite Man e pensi al Charles Bukowski di Tutti gli stronzi del mondo e me e al fatto che Lydon e Thomas erano i due pagliacci, le due maschere beffarde e crudeli mentre lui, Mark E. il poeta di strada, il “crudaiolo” stronzo, il petulante “comiziaro”, l’omaccio che senza le sue otto pinte non se ne torna a casa. Trentesimo album, si diceva, e proprio come

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Stefano Solventi

l’ennesimo disco di quei fenicotteri dei Melvins, sentirli biascicare, sibilare le S e implodere le P, insomma sentire i Fall in autogol permanente, è la solita becera goduria, specie se Mr. Smith è più a suo agio del solito, menefregista al punto che lo senti provare qualcosa di isterico, qualcosa di più stronzo della media antipatia suscitata nel prossimo. Del resto, rispetto all’iniziò di quella dispotica avventura che è stata la sua alias band, libertà vorrà ben dire che tu giochi e gli altri assecondano le tue regressive invettive, no? Per esempio, intuiscono un regredito punk da un testo, massaggiano del rockabilly sotto una manciata di sputi (No Respects Rev.), mettono un giro di moog (Vicotrola Time) o del caffé tostato postpunkista (Jetplane) a scaldar la fiammella dell’ennesimo “bla bla declama” contro questo o quello. Sempre differenti, sempre the same, qualcuno dice la caricatura di se stessi in questo episodio, io aggiungo in surf su quella (ed ecco perché lo considero superiore a Ersatz GB). The Fall tornano e danno l’assuefazione che richiedono i grandi. Loadstones chiude il disco col dito medio agli Art Brut e alla loro compila antologica Art Brut Top of the Pops uscita quest’anno. E già, si fotta pure l’ultimo album dei PIL. (7.1/10) Edoardo Bridda

The Handsome Family Wilderness (Loose Music, Maggio 2013) Genere: alt-country Una coppia, Brett e Rennie Sparks - il primo autore delle musiche, la seconda responsabile dei testi - forma gli Handsome Family, band ventennale che arriva con Wilderness al traguardo del decimo album, dopo aver pubblicato l’ultimo, Honey Moon, nel 2009. Americana, alt-country, murder e southern gotic gli ingredienti principali, corredati da una forte passione per lo storytelling, di varia provenienza:

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Teresa Greco

The Orb/Lee “Scratch” Perry - More Tales From The Orbservatory (Cooking Vinyl UK, Maggio 2013) Genere: House, dub Dopo l’ottima accoglienza ricevuta dall’esordio collaborativo The Orbserver in the Star House, jamaica e inghilterra incrociano nuovamente le proprie strade in una sorta di appendice di quel lavoro. More Tales From The Orbservatory, lo dice già il titolo, oltre a festeggiare i venticinque anni di attività della sigla, è un ulteriore rimodellamento del materiale inciso originariamente in quelle fortunate session berlinesi di una settimana soltanto. Il menù non può essere che quel misto di house rilassata e dub che i due Orb, Alex Paterson e Thomas Fehlmann, hanno apparecchiato per noi grazie al feat. della leggenda classe ‘36. Riferimento obbligato anche questa volta, il

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primo doppio album della coppia britannica Adventures Beyond The Ultraworld (che assieme a UFOrb sarà probabilmente suonato live alla O2 Academy il prossimo 8 giugno all’interno del Playground Festival), anche se queste nuove cinque tracce (+ interludio) e realtivi strumentali pasturano diverse angolazioni house sotto il toasting di Perry con modalità forse più concise e coerenti con il nuovo corso orbiano. A partire dal singolo Fussball, i due, sotto il rauco, magnetico, narrato del mito vivente, macinano dub e house: Fehlmann va giù coi bassi grassi, i beat e i loop, Paterson coadiuva con il manuale della buona ‘90s house sotto sedativo, i riverberi e gli echi a prezzemolo. Perry, chiaramente, fa Perry e Dio lo faccia continuare così ancora molto a lungo. La traccia più evocativa del lotto? E’ la più german lato Thomas, Making Love In Dub, che con i suoi hi hat house e gli innesti techno dub a ricordarci del buon Moritz Von Oswald è pura lievitazione. Pubblicato contestualmente a un eppì e un album di remix del precedente episodio, Ball Of Fire e Orbserving The Star House In Dub, The Observer... non è proprio un album lungo, vista la presenza di soli sei originali; profittevole, comunque, e qualitativamente soddisfacente per i due, visti i risultati, aver rimanipolato ed espanso lungo questi ultimi mesi il ricco materiale delle brevi session orignali non ancora pubblicato. In autunno uscirà un album celebrativo per i venticinque anni degli Orb a cui seguirà un tour intensivo. Il prossimo anno, invece, arriverà una nuova collaborazione illustre. Paterson dice che proviene dal Nord America ma di più ancora non è dato sapere, se non che sarà un nome grosso. (7/10) Edoardo Bridda

The Pastels - Slow Summits (Domino, Maggio 2013) Genere: indie pop Difficile, se non impossibile, avvicinarsi a questo

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che sia la tradizione gotica americana, la folk music, la cronaca, la storia o l’immaginazione fervida, questa componente li caratterizza fortemente. Nello specifico, Wilderness è centrato sul mondo animale e le sue meraviglie, anche strane, il tutto mescolato a miti, leggende e inserti storici (dal Generale Custer allo storico songwriter americano Stephen Foster, per citarne alcuni). Musicalmente si va dalle murder ballads (Eels, Caterpillars) al gothic - spesso in salsa country morriconiana -, al rock blues stoniano (Frogs), a un alt-country (Owls, Spider) abbastanza prevalente. In sostanza, una riconferma del potere immaginifico e delle atmosfere di questo gruppo molto stimato nell’ambiente (non si contano le cover dei tanti, Jeff Tweedy, Andrew Bird, Christy Moore). Niente di nuovo sostanzialmente, se non il piacere di ritrovare ancora una volta dei vecchi amici. (7/10)


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inconfondibili, che quando occorre (l’adorabile singolo Check My Heart, The Wrong Light, Summer Rain, Night Time Made Us) rispolverano l’innocenza twee di un tempo, con la consapevolezza che comunque di tempo ne è passato, eccome. Ed è bello che ogni tanto qualcuno ce lo ricordi in maniera tanto dolce, profonda e ottimista. (7.2/10) Antonio PancamoPuglia

The Veils - Time Stays, We Go (Pitch Beast Records, Aprile 2013) Genere: indie, alt-rock Sono trascorsi quasi dieci anni da quando ci imbattemmo per la prima volta in Finn Andrews, voce e mente (nonché l’unico membro che rintracciamo in tutti gli album) dei Veils. Un giovane irrequieto, un diavolo dalla faccia d’angelo, dagli occhi blu e un appena celato sorriso sardonico, un istrione che però dopo l’exploit del debutto The Runaway Found ha faticato non poco a trovare un “centro di gravità permanente”: alla sfavillante malinconia dei primi successi seguì il sottovalutato Nux Vomica e, quando arrivò il cinematico (ma altalenante) Sun Gangs lo aspettarono in pochi, complice anche la lunga pausa dal suo predecessore. Dopo tanta attesa (interrotta solo da un EP del 2011, Troubles Of The Brain) ecco la quarta fatica discografica del gruppo anglo-neozelandese: alla soglia dei trent’anni, il carismatico figlio di Barry Andrews degli XTC sembra davvero intenzionato a lasciare il segno e a crescere, lavorando sui suoi punti di forza - una vocalità subito riconoscibile, oggi più armoniosa ed educata che in passato ma pur sempre graffiante, che amalgama la fierezza di Nick Cave e il romanticismo dolceamaro di Rufus Wainwright - e smussando gli angoli laddove necessario, con l’aiuto di Nick Launay (che ha prodotto dischi dei Bad Seeds e degli Yeah Yeah Yeahs) alla produzione e di Bill Price (The Clash) al missaggio.

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album senza avvertire a pelle la stessa autorevolezza, familiarità, spessore e maturità che hanno reso grande Fade, l’ultimo Yo La Tengo. Sarà per il tocco di John McEntire, che ha prodotto entrambi i dischi; o sarà perché le affinità elettive tra Stephen McRobbie e Katrina Mitchell (unici superstiti della formazione originale) e Ira & Georgia sono innegabili, tanto per le infatuazioni velvettiane, per le voci soffuse, per le dinamiche in costante evoluzione quanto per il significato cruciale per le scene che hanno rispettivamente fondato (Glasgow e Hoboken, negli ‘80 come oggi, non devono essere poi così distanti). Slow Summits non è soltanto il graditissimo ritorno dei Pastels su lunga distanza da sedici anni a questa parte (escluse collaborazioni e soundtrack, Illumination reca la data 1997), è la pietra miliare che ha il dovere di ricordarci, nel 2013, la statura di un’entità che dell’indie-pop scozzese è di fatto sinonimo. Dici Pastels e dici Creation, C86, Rough Trade, Baby Honey e tutto quello che, dai Vaselines fino ai Belle And Sebastian passando per Teenage Fanclub (e citiamo solo i più noti) ha reso la Scozia la capitale morale dell’indie-pop europeo e non solo. Come Fade, questo disco è dunque sì una meritatissima celebrazione, ma soprattutto la testimonianza di un’eleganza compositiva che è sinonimo di maturità espressiva, una cosa che acquisisci col tempo e, perché no?, con il piccolo aiuto da parte di amici più che speciali (To Rococo Rot, Norman Blake, la fondatrice Annabel “Aggi” Wright, i Tenniscoats con cui nel 2009 avevano diviso l’LP Two Sunsets). “Sai cantare una canzone in silenzio?”, invita Katrina nell’iniziale Secret Music, programmatica e paradigmatica insieme; l’arte dei Pastels oggi è questa, forma soffusa e fibre vagamente post-, arricchite da ritmiche, organi, flauti, fiati, leggere intromissioni elettroniche (riassumono tutto i sei minuti abbondanti dello strumentale Slow Taking Place, a dire il vero molto YLT); e naturalmente quelle voci

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ma ricche di immagini (“I cani stanno ululando alla luna / ma sono troppo perdutamente innamorato per curarmene”), Turn From The Rain cattura l’attenzione con un pianoforte saltellante, fiati sullo sfondo e un’armonica a bocca e Birds è immersa in atmosfere più care ai Calexico che a ciò cui ci avevano abituati i Veils fino ad ora. La dolce maestosità della ballad Out From The Valleys & Into The Stars sigilla quello che, alla fine, si rivela il disco di un Finn Andrews che forse ha finalmente trovato una sua dimensione - quella di un maudit impenitente che, parafrasando Oscar Wilde, vive sì nei bassifondi ma ha finalmente trovato la serenità e il coraggio di guardare anche le stelle. Il tempo resta fermo, lui - con i suoi Veils - va avanti. Se i risultati sono questi, perché mai dovremmo fermarlo? (7.1/10) Alessandro Liccardo

These New Puritans - Field Of Reeds (Infectious, Giugno 2013) Genere: orchestral-avant-pop “Hello, I thought I’d write an email about the new album. it is called Field of Reeds.The music speaks for itself more than any other we’ve done before”. Ecco, non è vero. È un falso mito quello messo in campo da Jack Barnett. Non il primo inventato dai These New Puritans. Ma il mito più grosso non è esterno, ma interno, è il mito di sé che i TNPS continuano a volersi cucire addosso. Di nuovo, c’è continuo bisogno di spiegazioni, di argomentare perché l’ambizione è compiuta e ci regala quel presunto capolavoro di cui facciamo fatica ad accorgerci. Secondo la teoria dei mondi possibili, una storia, un testo, fornisce solo alcuni dettagli di un mondo immaginario, mentre tutto il resto ce lo mettiamo noi, riempiendolo della nostra quotidianità di lettori. Detto più semplice, ci facciamo assorbire da un racconto e lo aiutiamo a funzionare, ma senza che si senta il meccanismo in

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Le dieci nuove canzoni sono state scelte tra un centinaio di provini registrati negli ultimi anni, eppure un fil rouge che le lega c’è - lo ha spiegato lo stesso Finn durante una recente intervista: “Penso che il concetto che viviamo in un universo ostile, in cui l’unica certezza è la morte, possa o farci saltare giù dal letto al mattino oppure desiderare di non svegliarci più; ora come ora, mi fa venir voglia di alzarmi molto presto”. Nonostante questa premessa, Time Stays, We Go è il lavoro meno cupo della band, il più denso, con episodi maturi e riflessivi alternati ad altri dal fascino spericolato, come l’incendiario Through The Deep, Dark Wood, con l’organo della new entry Uberto Rapisardi in bella evidenza (qualcosa che vorremmo tanto sentire in un disco degli ultimi U2), e lo sbilenco Dancing With The Tornado che guarda a Jack White e a Black Francis. Ottimo il lavoro di Daniel Rainshbrook alla chitarra e di Sophia Burn al basso, in un disco che vive stavolta più di nuances - che necessitano di più ascolti per essere colte - che di sprazzi di bellezza sfacciata: lo si può notare in Train With No Name (si immagini se Quentin Tarantino ingaggiasse gli Arcade Fire per il “main theme” del suo nuovo film), nella melodia spartana di Candy Apple Bed e nella dondolante The Pearl, alla fine della quale Andrews gioca a fare il David Byrne della situazione ripetendo “I’m trying to keep real calm, try not to shake my drinkin’ arm” come un mantra. Non è una novità che i contrasti siano l’asso nella manica di Finn e dei suoi compagni, ma stavolta gli accostamenti arditi (“mi piace l’idea di un Roy Orbison che trascorre una giornata strampalata con gli Stooges”), anziché stordire, collaborano fianco a fianco disegnando sfondi fluidi dai quali pur emerge, al momento opportuno, l’elemento che sa cogliere di sorpresa. Le cose vanno ancora meglio nella seconda metà dell’album: Sign Of Your Love è un brano d’impatto che risalterà ancora di più dal vivo, tra stopand-go di chitarra, tambourines e liriche semplici


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un capolavoro, o quantomeno un gran disco. Eppure non possiamo, perché - come dice qualcuno - aldilà della messa in scena delle stranezze del proprio carattere - è dentro il testo che cerchiamo salvezza. (6.9/10) Gaspare Caliri

Tricky - False Idols (!K7, Maggio 2013) Genere: Trip Hop Se il trip-hop ha avuto un profeta, è stato Tricky. Un merito che non gli verrà mai disconosciuto, ma anche una bella zavorra da cui pure ha tentato a disimpegnarsi negli anni Zero del suo scontento, con album che ce lo hanno mostrato ringalluzzito (l’afflato bluesy di Knowle West Boy) oppure velleitario (le espansioni stilistiche grandi firme di Vulnerable), in ogni caso inevitabilmente sbiadito rispetto ai fasti dei primi lavori in solitario e in combutta coi Massive Attack. Del resto il trip-hop è (stato) uno stile fortemente caratterizzato, sia da un punto di vista geografico che sonoro, perciò facilmente soggetto a storicizzarsi e complicato da rinnovare senza che inizi a sembrare qualcos’altro. Ok, però andatelo a dire all’ormai quarantacinquenne Adrian Thaws, il quale, in occasione del titolo numero dieci in carriera, si produce in dichiarazioni mirabolanti ma abbastanza tipiche: “sono tornato a fare ciò che mi detta l’istinto”, “molti non saranno d’accordo, ma è un album migliore di Maxinquaye”, “questo disco parla di me che ritrovo me stesso”, eccetera. Sicumera a palla che lo ha spinto, tra l’altro, a muoversi per conto proprio fondando un’etichetta, la False Idols, esattamente come il titolo di questo disco che vede il bristoliano dare vita a una parabola di rinascita e opposizione in quindici tracce. Non a caso il programma si apre costruendo Somebody’s Sins - sorta di dub inceppato con riffettino ipnotico di tastiera e il canto affidato a una Francesca Belmonte in

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azione. In Field Of Reeds spesso non ci si sente trasportati, si percepiscono anzi tutti i dispositivi che ci dovrebbero trasportare, gli ingranaggi in movimento. Quando questa cosa non è tenuta in considerazione, o c’è ingenuità, o tracotanza. La pesantezza del disco, del far sentire la concettualità del trasporto, può dipendere da indifferenza verso l’allineamento con il pubblico: un palcoscenico dove i TNPS stanno di spalle; di fatto, che ci sia o meno qualcuno a sentirli, l’importante è che ci sia il palcoscenico. Il mondo possibile è raccontato con tutti i particolari. André De Ridder, a Berlino, ha seguito e diretto l’orchestra. Barnett ha co-prodotto con Graham Sutton, come Hidden. Si fa il pieno di musicisti di tutto rispetto, orchestrati con piglio classico, più che contemporaneo. C’è persino la falchetta Shiloh - una vera predatrice, ci dice Barnett - e le sue ali registrate. Fragment Two è tanto efficace nel condurre su una strada difficile l’accessibilità pop quanto The Light In Your Name auto-indulge nel voler sottolineare un talento nel comporre, distribuire differenziali di pathos, accasciare in maniera eclatante temi su innovazioni. Poi, arriva una Spiral semplicemente noiosa, e i limiti di chi non sempre trova capacità di sintesi, e finisce per indulgere come David Sylvian, e non di fare il proprio mestiere con naturalezza come Robert Wyatt (Field of Reeds). In definitiva, Jack Barnett ci sembra solo, nonostante un network di persone costruito a pennello, e raccontato altrettanto bene. Il finale di V (Island Song), dopo l’insistenza del tema centrale nel brano, è prova tangibile di quel talento nel plasmare uno stato d’animo interno alla musica, e non al discorso su di essa. Una prova della capacità di toccare: messi in mano a qualcun altro, questi strumenti (in senso lato) avrebbero prodotto un rischio pacchianata difficilmente arginabile. Fosse meno tronfio, James Barnett, ci lasceremmo più andare e chissà forse ci sarebbe sembrato

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UnePassante - No Drama (Anna The Granny, Aprile 2013) Genere: electro-pop Ai tempi del primo disco More Than One In Number definimmo la scrittura di Giulia Sarno/UnePassante “totalizzante”, simile a “una St. Vincent in chiave chamber ma senza le torsioni metropolitane tipiche della musicista americana”. La Sarno dev’essersi risentita, visto che in No Drama non solo abbraccia in toto quelle torsioni melodiche cui si faceva riferimento, ma le plastifica pure grazie a un’elettronica alle volte vicina alla dance (Extinction, Xman), più spesso parente dell’ultima Beatrice Antolini (Seesaw). Fondamentalmente si tratta di pop, ma ad ampio spettro ed evoluto rispetto a un già pregevole esordio in cui si viaggiava su piccole perle acustiche/da camera perfettamente arrangiate. Di quel disco, in No Drama rimangono spiccioli - le atmosfere raccolte di Lullaby (The Air We Breathe) e War & Peace, seppur arricchite da un sentore dreamy-psichedelico perfettamente in linea con la modernità linguistica affrontata nel disco - e un Gianmaria Ciabattari, al solito, ottimo in fase di co-produzione. Non è finita, perché in Woodworms arrivano gli archi e in Wonderful Robots si sfiora il noise su certi controtempi trascinanti, confermando che si tratta non tanto di svolta di comodo quanto di una curiosità musicale evidentemente da appagare. Per ora tutto fila liscio e, finché la musica si manterrà su queste coordinate senza lasciar trasparire dispersioni di sorta, ascoltarla sarà un piacere. Al disco partecipano, oltre a Michele Staino e a Emanuele Fiordellisi, parte integrante del progetto UnePassante, Wassilij Kropotkin al violino, Renato Cantini alla tromba, Tommy Bianchi al sax, ennesima conferma di un suono che si fa sempre più ricco e rotondo. (7/10) Fabrizio Zampighi

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trance oppiacea - sul celebre incipit pattismithiano “Jesus Died For Somebody’s Sins But Not Mine” e si chiude con una Passion Of The Christ dove il Nostro biascica hip hop torvo e madreperlaceo. La londinese Belmonte è alter-ego vocale nella maggior parte dei pezzi, forse in quelli più riusciti, come Bonnie & Clide (cassa in quattro sotto ai retaggi errebì e gli espedienti cinematici), la radioheadianamente apprensiva Nothing’s Changed e la carezzevole Is That Your Life. Come sua abitudine, Tricky ama nascondersi dietro interpretazioni altrui, come quella di Fifi Rong (nel soul jazz sospeso di If Only I Knew), della nigeriana Nneka (nell’ammiccante Nothing Matters, avvampata di fiati e archi, screziata da una chitarra à la Manzanera) e del soprano androgino di Peter Silberman (nel soul minaccioso e straniante - la scansione ritmica ricorda quella di Mama dei Genesis - di Parenthesis), tutti nomi nel roster della neonata label. Quindi niente guest star, spremitura trickiana in purezza nei modi noti, Bristolsound recuperato nei suoi elementi base. Con però una voglia di pulizia, di progettualità quasi ingegneristica, che obbedisca in qualche modo all’idea sedimentata di trip-hop, alla sua sagoma mnemonica più che al teso groviglio di astrazioni electro-cinematiche-black dell’epoca. Pochi azzardi (la cineseria folk letargica di Chinese Interlude, il Chet Baker ridotto a blanda icona di cera in Valentine) e tanta voglia di mostrarsi in possesso di un codice essenziale ma inimitabile (vedi il rapimento brumoso di We Don’t Die), saggia inquietudine da sussurrare nei timpani di una generazione oramai salottiera. Tricky lucida e affila la lama ma evita di affondare troppo il colpo, come se avesse paura di spezzarla. Si riduce così ad olografia di se stesso. Piacevole. Accessorio. Dimenticabile. (5/10)


Genere: soul, songwriting Dopo tre album autoprodotti e una discreta gavetta, l’incontro con Dan Auerbach dei The Black Keys è stato molto propizio per la trentenne musicista americana Valerie June. Originaria di Memphis, Tennessee, una cascata di dreadlock su un viso irresistibile, la nera Valerie mescola blues, soul, gospel e folk. Pushin’ Against A Stone era stato co-scritto e co-prodotto da Auerbach, insieme a Kevin Augunas (Edward Sharpe & The Magnetic Zeros, Florence & The Machine) nel luglio 2011, ed esce solo ora in UK e Europa su Sunday Best. C’è freschezza e impeto melodico, espressività e soul a volontà, folk e rock rivisitato e tanta tanta anima, in questo ben coadiuvata dal producer. Va da sé che il disco sappia tanto di Black Keys in salsa femminile, con il valore aggiunto del raccontarsi in prima persona da parte di Valerie, soprattutto riguardo agli esordi difficili. Il singolo You Can’t Be Told è puro sound vintage 60’s e 70’s, Somebody To Love vede la presenza e la co-­scrittura della leggenda Booker T. Jones, la title track odora ancora di vintage e di Phil Spector, il banjo, uno degli strumenti che la Nostra suona, fa la sua comparsa in più di un’occasione. Per il resto tanto Van Morrison e Billie Holliday, il blues delle radici, i Rolling Stones, e in generale un recupero post come già tanti prima di lei, i White Stripes per citarne alcuni. Con un fiero proclama di old school music da parte di Valerie che sa però di modernismo. Non un esordio vero e proprio allora, ma una conferma e la scoperta di un bel talento. (7.2/10) Teresa Greco

Wild Nothing - Empty Estate EP (Captured Tracks, Maggio 2013) Genere: synth-pop Punte di diamante di casa Captured Tracks e con

l’ultima recente pubblicazione, Nocturne, che ne ha definitivamente consacrato le eccelse doti di scrittura, Jack Tatum e i suoi - ormai al plurale Wild Nothing sfruttano il momento di grazia per mandare in stampa nuovo materiale. Così come ad inizio carriera, anche questa volta la scelta ricade sul formato dell’EP e a far da contraltare all’esordio Golden Haze c’è ora questo Empty Estate, risultato di quell’urgenza espressiva che è spesso chiaro sintomo di cambiamento. Ci sono novità in casa Wild Nothing e lo si percepisce sin dalla copertina, un caleidoscopio policromo che poco si adatta alle scelte (quasi) monocromatiche delle precedenti uscite. La svolta, seppur ancora in nuce, si riflette anche nei suoni: il pop abbandona il bianco e nero per abbracciare i colori e quasi ovunque c’è almeno una sfumatura psichedelica. Se ne ha subito evidenza con un’iniziale The Body In Rainfall sbarazzina e caratterizzata da un incedere psych-pop che, pur riportando talvolta alla mente addirittura i MGMT, riesce ad amalgamarsi adeguatamente con i marchi di fabbrica tipici di casa Tatum. Allo stesso tempo è interessante notare il quasi totale abbandono delle sonorità jangle degli esordi, a favore della scelta di puntare forte su quelle atmosfere più sintetiche che già facevano capolino su Nocturne. Un pezzo come Paradise sembra infatti aver posto le basi per la costruzione dei tre episodi centrali dell’EP: si ritrovano di nuovo quei synt scintillanti e patinati che avvolgono prima le chitarre di Ride e sublimano poi il tiro à la DIIV di Data World e gli ammiccamenti catchy di Ocean Repeating (Bigeyed Girl), abbracciando un alone che da dreamy si fa quasi electro-pop. Gli spaccati più dilatati ed eterei del predecessore vengono invece spinti al limite e contaminati dalla “deriva” psych, con l’interlocutoria Hachiko, strumentale pseudoambient poco ispirato che, insieme allo sparringpartner sotto acido - ma forse ancor più insipido - On Guyot, fa il verso agli Animal Collective più

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Valerie June - Pushin’ Against A Stone (Sunday Best, Maggio 2013)

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fumosi senza però trovare una via d’uscita degna. Il tocco finale di nuovo rivitalizzante è dato però dalla rocambolesca progressione funky di A Dancing Shell, salmodiante nella strofa e con uno special di fiati che ci accompagna per direttissima alla sezione David Byrne della collezione di dischi di Tatum, con la certezza che la strada verso il prossimo LP - al di là dei mezzi passaggi a vuoto delle divagazioni ambient - sia già ben spianata e con la consapevolezza che a lasciare la strada certa per l’incerta, se si hanno talento e idee, spesso ci si possa guadagnare. (6.5/10) Marco Masoli

Genere: industrial Tre indizi fanno una prova: il noise targato 2013 pare essersi stancato di massacrare i distorsori e allarga gli orizzonti. Tutta gente di primo piano: c’è Prurient che dopo anni passati a fracassarci i timpani se ne esce con un disco techno e gotico, c’è Brian Chippendale, che lascia le tempeste ormonali dei Lighting Bolt e ritorna con forme quasi coerenti nei Black Pus. E poi ci sono Wolf Eyes, che avevamo lasciato a quell’Always Wrong di ispirazione TG - The Second Annual Report e che ora, tanto per continuare il parallelo, ritroviamo alle prese con il personale 20 Jazz Funk Greats. Non è un assalto sonoro, dunque. Si lavora sull’atmosfera, su un paesaggio claustrofobico, sinistro, desolato. Tutto è ridotto all’osso, i beat sono scheletrici, il rumore equilibrato nel gioco pieno/ vuoto, con ampio spazio per il silenzio. E in fin dei conti è proprio il vuoto a marcare il carattere di No Answer: Lower Floor, un vuoto tanto musicale quanto spirituale perché tutto suona per essere austero, rarefatto, indifferente. No Answer appunto, e di nessun genere. Comunque è il finale del disco a regalare i mo-

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Stefano Gaz

Wolther Goes Stranger - Love Can’t Talk (La Barberia Records, Maggio 2013) Genere: electro, shoegaze Love Can’t Talk. Per farlo parlare, stando ai Wolther Goes Stranger, ci vogliono tre teste, tre battiti in sincrono, tre passioni pulsanti di musica fatta col sudore, santificata, metamorfizzata sulla linea d’ombra dell’indie-tronica. A questo punto, dopo tre stuzzicanti aperitivi sulla media distanza, il progetto solista di Luca Mazzieri, chitarra e tatuaggi degli A Classic Education, sente il bisogno di cambiare pelle, di confrontarsi con gli spiriti creativi di nuovi colleghi: Massimo “Colla” Colucci e Linda “Bru” Brusiani. Love Can’t Talk è il raggio della circonferenza A Classic Education, è lo spasimo elettronico del vessillo di His Clancyness. È un’opera bizzarra, originale, in cui la maestria chitarristica di Mazzieri, la sua impagabile fede nello shoegaze e nelle chitarre ruggenti, si fonde da un lato con i propulsori elettronici di gusto pienamente Eighties (anche di quello più “commerciale”), dall’altro con la forza viva della latta, del marciare secco, spontaneo, inerte e post-industriale di Silence Is Sexy degli Einstürzende Neubauten. Ma è un silenzio sexy solo apparente. La malinconia di fondo dettata dai quattro quarti di batteria che quasi scandiscono le morti dei disco dancer ai

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Wolf Eyes - No Answer: Lower Floor (De Stjil, Aprile 2013)

menti migliori, con la lunga agonia di Warning Sign, ripetizione infinita di quello che potrebbe essere un perfetto segnale industrial, e i dodici minuti di Confession of the Informer, il pezzo più ragionato, una suite composta da pochissimi elementi (tamburo, voci interrotte, qualche rasoiata e poco più) in cui viene fuori con grande forza l’abilità compositiva dei tre. Va tutto bene allora: la missione è compiuta, lo straniamento è totale. Lunga vita ai Wolf Eyes. (7.2/10)


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quello che abbiamo fra le mani è un lavoro duttile e componibile, dai confini allargati alle maglie attillate dei sentimenti. Un progetto che equilibra l’esperienza decennale di chi mastica musica da sempre, pur rimanendo eccitato e impaziente come un bambino alle prese col suo primo giocattolo. (7.4/10) Nino Ciglio

Won - Isolution (Ample Play, Maggio 2013) Genere: techno, dark Marco Ricci è il leader della Casa Del Mirto, uno dei gruppi italiani che negli ultimi anni ha fatto più parlare di sé a livello internazionale grazie a una buona proposta glo-fi retrofila che piace sia all’indie rocker che al synth-popper. L’esordio in solitaria del frontman si stacca completamente dall’elettronica shoegaze del gruppo madre e si situa invece nel tunnel oscuro della techno. Won è un viaggio a base di ritmiche darkissime, roba ipnotica ereditata da Detroit, rivista seguendo la lezione della Berlino di Maurizio & Co. In questo senso il disco ricorda alla larga la storica serie dei singoli della Basic Channel, ripensati con bassi più caldi e con una battuta leggermente più lenta, in fregola Pan Sonic, gruppo di cui Ricci ha dichiarato di essere fan. Il quadro dipinto dall’uomo è cupo, strafatto di alienazioni clubbiste (la title track), senza concessioni alla luce. Il discorso indaga la dimensione macchina-trance e la ripetizione ossessiva con spezie industrial, ma non sfocia in banali prosopopee nordiche, ripensando invece la matrice primigenia del genere con la mitteleuropa in testa, costruendo una delimitazione puntuale del trip (le camere onirico-progressive di Idyll I e II), tagliando il tempo con inserti post-goa che richiamano i 90 (Face Symmetry) e chiudendo con cupe svisate acide (Kiln). Non sorprende che la matrice di questo progetto

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conseguenti rintocchi della mezzanotte di Cenerentola, le battute di piano messe lentamente ad asciugare in riverberi profondissimi, sono solo una faccia di questa medaglia silenziosa. È l’amore che la guida, è l’amore che la rende malinconica. Così è nell’uso della lingua: l’italiano diventa inglese e viceversa, più veloce di quanto non ci si metta a dire “Indiana Jones”; così è tanto nelle corde vocali da brivido di Linda Brusiani, quanto in quelle sprezzanti e velvetiane di Mazzieri. Non importa che tipo di lingua si usi per parlare d’amore, non importa se ruggiscano di più le chitarre o i sintetizzatori: basta un lungo assolo di sax (quello di Stefano Cristi in Darling) per ritrovare il contatto con la terra; basta l’autorevole firma di Alessandro Raina degli Amor Fou nel testo di I’m Sorry per far sorridere la voce luminosa di Linda in un perdono; bastano le metamorfosi liriche di una Your Name che percorre Italia-Inghilterra in soli tre accordi e tre minuti e quarantacinque; basta il levare apocrifo di Jesus, fatto di suoni liquidi e un testo fra i più belli (“Nel peccato non c’è oscenità se fatto con amore”; “a tavola con me voglio solo i Farisei”). No, non bastano ai Wolther Goes Stranger queste caratteristiche che già renderebbero Love Can’t Talk uno dei dischi italiani più interessanti del 2013. Questo perché fin troppo si è parlato d’amore e se n’è parlato male. Per far nascere un disco che parla d’amore, bisogna vivere le storie d’amore: come quella di Mazzieri per Fiumani dei Diaframma, inseguito e intrappolato per sempre in Sometimes con la sua voce fiammeggiante a incendiare il passato; come quella che lega indissolubilmente questo progetto al più importante progetto indie italiano (esportato e riesportato negli States e non solo), gli A Classic Education, il cui leader e partner musicale di Mazzieri da sempre fa la sua comparsa in Sixteen regalando quello che è forse il brano più intenso del disco. Cerchio chiuso, come in un film di Lynch o di Von Trier? Forse sì, ma non sigillato del tutto, perché

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venga da Trento, sorta di ponte fra nord e sud, confine di idee fra Germania e Italia. Won parte bene, il suono è piantato sulla tradizione e verrà sicuramente apprezzato dai cultori della materia. Sette singoli che possono trovare casa sia nella prossima estate ibizenca che in terra d’Albione: non per niente il disco viene prodotto da Ample Play Records, etichetta dei Cornershop con base a Londra. Un side project da tener d’occhio. (7/10) Marco Braggion

Genere: happy pop Lo scorso autunno vi abbiamo presentato i californiani Youngblood Hawke parlando di “ingredienti giusti per finire in high rotation” (riferendoci al singolo We Come Running) in grado se non altro di “strappare qualche sorriso”, terminando poi l’excursus con un “aspettiamo l’album - se e quando arriverà - ma l’impressione di essere di fronte ad un gruppo meteora è tanta”. Da allora non si è mosso molto all’interno dell’universo discografico di Simon Katz e soci: We Come Running ha ingranato abbastanza bene - è arrivata in airplay anche in Italia con il consueto ritardo - senza però sfondare come avrebbe potuto e soprattutto fallendo nel tentativo di creare qualsivoglia hype nei confronti dell’album di debutto intitolato Wake Up (tornano i già espressi riferimenti agli Arcade Fire), uscito piuttosto in sordina. All’interno di Wake Up troviamo, oltre alla già citata We Come Running, anche le altre tre tracce presenti nell’EP - Rootles, Stars (Hold On) e Forever -, ovvero quel concentrato di happy-pop corale che gli Youngblood Hawke hanno dimostrato di saper maneggiare con abilità e astuzia. L’obiettivo è chiaramente quello di ripetere quanto fatto dagli Of Monsters And Men nel 2012, cioè

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Riccardo Zagaglia

ZoCaffe - Noi non siamo figli (Phonarchia, Marzo 2013) Genere: rock d’autore Gli Zocaffe tornano a distanza di un anno dal precedente Il piglio giusto, con un concept dedicato a una fauna composta dai più disparati personaggi. Noi non siamo figli racconta storie diverse, di persone a noi più o meno note, nascoste dietro un nome di battesimo, magari reso diminutivo, dall’identità rintracciabile solo dopo

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Youngblood Hawke - Wake Up (Universal Republic, Giugno 2013)

mettere in sequenza un’implacabile set di killer tracks che sia in grado di ricreare questo effetto. Quale periodo migliore per uscire allo scoperto con un prodotto smile-inducing se non quello pre-estivo? Sono gli Abba che danzano a braccetto tra i fiori con gli Scissor Sisters o una Régine Chassagne che tradisce Win Butler con Ben Gibbard durante un picnic bucolico. Tra freschezza, gioia e spensieratezza, chi nella pop music cerca soprattutto l’esaltazione della positività troverà senza dubbio nei giochi a due voci della band un perfetto alleato. Un dinamismo solare che fa ovviamente perno su ritmiche uptempo, ma che riesce a sprigionare le melodie contagiose anche nei passaggi più “riflessivi” (Dreams). A minare l’operato, oltre a un eccesso di saccarosio, pensano brani che non riescono a superare la barriera della mediocrità, rimanendo ancorati negli abissi della futilità (Dannyboy, scritta per un amico entrato in coma, o la vana Sleepless Streets con tanto di tromba) o arrancando nel tentativo spesso con esito negativo - di confezionare brani orecchiabili quanto We Come Running (Glacier, Last Time o i synth-bass drops di Blackbeak) e avvicinandosi solamente in occasione della MGMTiana Say Say. L’estate fa tanto presto ad arrivare quanto ad andarsene, e con essa gli Youngblood Hawke. (5/10)


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Per il seguito, The Bridge Between Life & Death, in lavorazione sin dal 2009, sono stati usati field recording catturati in Islanda, e l’intero lavoro è ispirato all’isola. Il titolo si riferisce a un ponte a Kópavogur, che viene chiamato così localmente, perché ha una casa di riposo da un lato e un cimitero dall’altro, e nascita e morte sono leitmotiv. Il sophomore riflette la fascinazione del Nostro per l’Islanda, con la possibilità di aver potuto collaborare con musicisti che ama, come i guest Amiina in The Potter’s Garden, Sin Fang (Seabear) in The Gaits e Benni Hemm Hemm in Thufur Thoroughfare (che ha contribuito con un proprio file recording). Musica atmosferica che ben riflette gli ambienti da cui ha tratto ispirazione, suoni e particolari curatissimi, la melodia sempre in primo piano, un lato chamber che non può che richiamare l’Islanda di Sigur Ros e Múm, composizioni nate dai field e poi sviluppate al piano e con strumenti acustici, tanti arrangiamenti orchestrali. C’è una grazia, una malinconia e un’atmosfera che prendono da subito. (7.1/10)

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attento ascolto. I personaggi di cui racconta la band toscana sono quelli della quotidianità mediatica, televisiva, quella in cui chiamiamo per nome chi popola i piccoli schermi pur non conoscendo nessuno di persona. Introdotti da una title track in cui si inserisce la prima delle tante citazioni di quest’album (i bambini di Another Brick in the Wall e il loro coro sovversivo dal piglio anarchico), si susseguono le vicende di Antonello, Donatella, Paoletta fino a Gianni, che è Gianni Morandi, su cui la band ironizza senza dolcezza servendosi della musica di Se perdo anche te, brano del cantante bolognese datato 1967. Mescolando pop rock a influenze punk, psych, ska, con numerosi inserti di funky e blues grazie alle parti di fiati, gli Zocaffe si allontanano parzialmente dallo scenario tutto a-laBuscaglione de Il piglio giusto senza però lasciare da parte le spinte 60s sottolineate da chitarre che richiamano Celentano e strutture armoniche italianissime dell’epoca. Nonostante arrangiamenti e architetture dei brani siano a tratti appassionanti e puramente retrò (coretti, arpeggi, armonizzazioni vocali), al disco manca un po’ di sostanza e, una certa bravura con gli strumenti, non riesce a colmare del tutto un senso di vuoto lasciato da testi spesso avvolti da ironia gratuita e un pizzico di superficialità. (6.4/10)

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Zoon Van Snook - The Bridge Between Life & Death (Lo Recordings, Maggio 2013) Genere: indietronica, IDM Mescolare folktronica e IDM, usare field recording catturati dall’ambiente e da oggetti di uso comune, voci dialogate alla Books, avere un taglio narrativo ambient: stiamo parlando di Alec Snook alias Zoon Van Snook, musicista, produttore e dj bristoliano, con all’attivo un album nel 2010, (Falling From) The Nutty Tree.

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bowie Le dinamiche del cambiamento Ultima parte del monografico dedicato al Duca Bianco Testo: G iulio Pasquali Giulia Cavaliere

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Il vi d eo s o n o io In un’intervista dei primi anni 2000, alla domanda se, viste le sue originali iniziative (tipo quotarsi in borsa o essere il primo a distribuire un nuovo singolo via web) si sentisse più artista o più manager, Bowie rispondeva “100% artista e 100% manager”. Eppure, se si analizza la sua storia, si vede come non sempre questi due aspetti siano andati d’accordo: al netto delle liti con De Fries, l’aspetto commerciale e quello artistico del Duca hanno talvolta litigato anche clamorosamente, e non sempre il Nostro è riuscito a svolgere appieno quel ruolo di mediatore tra l’avanguardia e le masse che ha costituito, insieme al talento di songwriter, il tratto distintivo e più forte della sua carriera. Ne sono testimoni gli stenti iniziali, dagli esordi 60s più interessanti di quanto dicessero le vendite a dischi come The Man.. o Hunky Dory (trainati verso il successo solo dall’esplosione-Ziggy), o un Low andato sì in classifica, ma di cui anni dopo si sottolineeranno le vendite non eccelse. Il conflitto tra i due aspetti si fa però eclatante con il nuovo decennio, nel modo in cui Bowie decide di rapportarsi agli sconvolgimenti che attraversano il business del rock tra ‘70s e ‘80s. Negli anni in cui la discografia comincia a fronteggiare la sua prima crisi di vendite dovuta in parte alla diffusione delle cassette domestiche (ma chissà che, data la natura ribelle endemica al rock, non c’entri pure il riflusso), si colloca la nascita di una MTV che a quella crisi darà risposta in termini di divismo pop esteso anche alle ex-rockstar, con una ridefinizione della figura del cantante in direzione di una superficialità estetica e un primato dell’immagine che estende il presenzialismo multimediale inventato da(l manager di) Elvis a forme e canali nuovi. Inizia l’era del videoclip come luogo centrale della costruzione della fama, e per vari motivi gli artisti UK arrivano all’appuntamento ben più pronti dei colleghi USA, anche per una provenienza diffusa dalle scuole d’arte che li rende per forza di cose

maggiormente propensi ad allargare le forme espressive, investendo anche il visuale (al riguardo, la differenza qualitativa tra i film di Elvis e quelli dei Beatles già diceva parecchio). Ma gioca un ruolo anche una TV americana conformista, che al rock lascia spazi limitati e controllati mentre in UK Top of The Pops esisteva da anni e da anni aveva indotto gli artisti a ricorrere al video anche come sostituto della performance live. Così, quando la storica emittente di video musicali inizia la sua attività grazie all’opera di qualche visionario illuminato, tra cui anche un ex-Monkees (band in cui militava il David Jones che indirettamente suggerì al futuro Duca il suo nome d’arte: evidentemente certi cerchi si chiudono sempre), sono il new romantic e certa new wave inglese a raccoglierne i frutti commerciali. I gruppi USA infatti si dividono tra costosi live e radio passatiste-classic che non li trasmettono, mentre gli artisti black vengono esclusi da MTV per motivi non (ahem) chiari (ufficialmente perché era un’emittente rock, ma è un’argomentazione che alla luce degli A Flock of Seagulls fa ridere), con Bowie tra quelli che ne chiedono ragione. Sul ritardo degli artisti americani, pesa anche l’incapacità, perfino tra chi aveva intuito l’importanza del video come promozione, di cogliere certi segnali, vedi un Michael Jackson che passa sull’emittente solo dopo le minacce della dirigenza CBS di non dare più video (con MTV che capirà l’errore e produrrà lei, di fatto, lo storico clip di Thriller). C’entra anche, però, la piega sintetica presa dal pop inglese, dove la performance live e quella strumentale contano ormai molto meno, l’autenticità non è più un valore primario (semmai viene cercata per vie più oblique) e la messa in scena funziona meglio su video che non trasportata in giro sui palchi. Bowie è arrivato a tutto questo da un po’: Scary Monsters ha rispiegato (in forma più accessibile, ma sempre art) le implicazioni della rivoluzione di Low e la videografia del Duca già annovera risultati significativi, vedi la ribadita celebrazione

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della maschera e dell’ambiguità nel clip di Boys Keep Swinging, quella dell’artista-robot nel video di “Heroes” e soprattutto il capolavoro Ashes To Ashes, un video che, contemporaneamente ai riformati Roxy Music, nutre e ispira la pur degenere cucciolata new-romantic (e anche Marc Almond e Boy George mostravano già di aver studiato la lezione). Ma sono anni di cambiamento anche per Bowie stesso, che oltre alla vecchia casa discografica sta mollando il vecchio management: approdato alla EMI nel 1983 con contratto miliardario, decide che il prossimo disco dovrà essere un blockbuster (ci torniamo tra poco), e i lusinghieri risultati di cassa detteranno la linea praticamente a tutto il suo decennio. Il quale era già iniziato in modo significativo: eliminato il tour per Scary... a causa del terrore conseguente all’omicidio dell’amico John Lennon, l’unica produzione discografica del 1981 consiste nella celebre collaborazione con i Queen per Under Pressure, ovvero un duetto col gruppo che la vox populi vuole autore del “primo videoclip della storia” (ovviamente Bohemian Rhapsody, che in realtà è solo il primo ad esser stato concepito proprio come promozione diretta di un singolo - ma forse neanche quello). Una collaborazione emblematica del suo approccio al decennio della videotv che lo vedrà trasformarsi in una star multimediale che fa sì dischi, ma soprattutto diventa personaggio: tra film, colonne sonore, guests e duetti, l’ex-artista di gusto e avanguardia si trasforma nella suddetta estensione del tipo di rockstar alla Elvis, dove “star” prevale nettamente su “rock” e dove appunto, il manager prevale nettamente sull’artista.

Fu c k a rt. . . Il pezzo con Mercury e co., baciato da una fama notevole dovuta a un giro di basso contagioso e al calibro dei nomi in ballo, è in realtà più importante per queste implicazioni che non per la musica, che è un collage di melodie improvvisate su una

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bozza del gruppo, con risultati artisticamente poco interessanti. Non è il momento peggiore del suo tourbillon di singoli ‘80, ma annuncia un trend che può ben essere sintetizzato da una spilletta creata dal poeta ed editore della beat generation Lawrence Ferlinghetti che recita “Fuck art, let’s dance!”. E infatti l’artista se ne starà per lo più in disparte fino all’89, a parte alcune notevoli interpretazioni da attore al cinema (Merry Christmas Mr. Lawrence ovvero Furyo su tutte, anche se nulla batterà mai il ruolo cucitogli addosso da Roeg nel 1976 ne L’uomo che cadde sulla terra) e a teatro, la comparsata in TV con Klaus Nomi, una penna occasionalmente ispirata, l’EP brechtiano Baal (RCA, 7.2) del 1982 (cinque belle canzoni provenienti da una messa in scena dell’opera cui aveva partecipato come attore). Proprio Let’s Dance (EMI, 1983, 6.8) è il titolo del disco con cui il nostro tenta il botto commerciale, mettendosi nelle mani di Nile Rodgers degli Chic. Il quale fa quello che gli viene chiesto - “credevo facesse arte, invece mi ha chiesto un blockbuster” - e realizza “l’album di un cantante”, nel quale per la prima volta il Duca non suona nessuno strumento. Allo scopo Nile Rodgers mette insieme un misto di collaboratori già noti e di suoi uomini, più uno Steve Ray Vaughan che scalpita per emergere (e infatti la buona performance offerta darà una spinta fondamentale alla sua carriera) confezionando in tre settimane un prodotto ultra-patinato allo stato dell’arte: il ritratto sonoro perfetto del nuovo Bowie per il nuovo decennio, ossia un’affascinante star senza troppe ambiguità o inquietudini, dal suono pulito, che qui però mostra ancora spunti interessanti. Rodgers, infatti, conosce il suo mestiere e il disco suona potente, nitido, capace di non distorcere neanche ad alti volumi e di incarnare nel suo funky da classifica qualche spunto new wave, nascondendo sotto una professionalità altissima l’inizio della crisi compositiva di Bowie. Il quale, oltre a non suonare, compone anche


poco: otto canzoni totali di cui una è la versione normalizzata della Cat People (Puttin’ Out Fire) scritta con Giorgio Moroder e incisa l’anno prima per l’omonimo film (Il bacio della pantera), la cui versione originale (migliore, ma il cui merito principale è inaugurare un certo tipo di canzone del suo decennio insieme suadente e rabbiosa) non può essere utilizzata per questioni di diritti; un’altra è la Criminal World degli allievi Metro (il titolo sembra una citazione da Fantastic Voyage), anche questa vibrante di eleganti ma svenevoli falsetti (e delle uniche tracce di ambiguità sessuale riscontrabili nella nuova identità etero del Duca); un’altra ancora è China Girl, il vecchio pezzo scritto e inciso per The Idiot dell’amico Iggy (che, come è noto, userà gli incassi dei diritti d’autore per far ripartire vita e carriera) e che diventa una delle hit storiche del nostro nella versione soleggiata e sottilmente inquieta che Rodgers appronta secondo i dettami massimalisti e facili del pop, stavolta con la minuscola: “se si chiama China Girl, deve avere una frase musicale orientale”. Le manca la decadenza e lo sporco disperato dell’originale, ma risulta un gran pezzo anche così tirato a lucido, nel sotterraneo tormento che ne increspa l’eleganza e nel leggendario, torrido video che lascia trapelare il discorso sull’imperialismo culturale che sarà uno dei temi bowiani di tutto il decennio. Non è infatti tutto lustrini ciò che luccica nel Bowie dell’era-MTV: i testi andranno avanti per tutto il periodo (anche prima dell’impegno un po’ sguaiato dei Tin Machine) a denunciare una decadenza intesa non come quell’atteggiamento di critica e distanza dal presente con cui Bowie metteva uno specchio davanti al mondo, ma come decadenza vera, fatta di rischi di imbarbarimento (anche il titolo di Criminal World evoca, al di là del testo, un certo tipo di visione) quando non già compiuto, ad esempio nella povertà delle città e nella mentalità chiusa con cui si disprezza lo straniero, l’altro, il diverso (su Tonight sarà “l’alieno”). Ma intanto è un grande singolo pop che trascina

l’album insieme alla title track Let’s Dance, elegante esempio di fusione tra la firma-Chic del produttore, i sabotaggi rock che ci ricama su Vaughan e l’eleganza baritona e suadente della nuova maschera bowiana. Un personaggio, quest’ultimo, che rende credibile anche un apparente invito al disimpegno come questo, che oltre ad essere un singolo killer è anche una delle sole cinque canzoni nuove scritte per l’album. Il massimo dell’inedito che esce sui singoli, infatti, sarà una versione live di Modern Love, il cui originale è l’incontenibile, esplosivo r’n’r che apre il disco alla grande, col Duca che filosofeggia sulla contemporaneità a ritmo di rock e dove la pulizia di suono rodgersiana diventa pura potenza. Il resto degli inediti si divide tra Ricochet, che recupera qualche spunto sperimentale nelle irregolarità ritmiche e nelle occasionali virate beffarde alla Lodger del cantato, l’insulsa Without You che spreca tra falsetti smielati la guest di Bernard Edwars e la conclusiva Shake It, variazione innocua ma anche simpatica sul funky della title track. Il tutto alla fine tiene, e se la variazione pop è questa, ha ancora spessore e credibilità ed è un riscuotere con classe quanto seminato nel favoloso decennio precedente. Eloquente, in questo senso, un Serious Moonlight Tour che consacra sui palchi il momento: la sorridente rockstar snocciola i nuovi successi ma anche una buona selezione del passato - tirata a lucido ma non troppo e che non disdegna escursioni in Low o la riproposizione di Station To Station - tra attori, momenti teatrali, coreografie, costumi e l’esecuzione in sequenza dell’inizio e della fine della saga del Maggiore Tom, ovvero Space Oddity e Ashes To Ashes messe in prospettiva storica. E a proposito di live, la RCA cerca di capitalizzare il successo del disco pubblicando finalmente film e disco dell’ultimo concerto di Ziggy Stardust, Ziggy Stardust: The Motion Picture (RCA, 1983, 7,5), cosa che aumenta hype ed esposizione: il suono grezzo di Ronson e co. di dieci anni prima c’entra poco

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con la star ripulita che è diventato Bowie, ma tutto non fa che aumentare la risonanza legata all’artista, dando nel contempo la possibilità di visionare un documento storico (benché per una versione degna del disco ci sia bisogno ancora di un paio di edizioni). Faaame.. In tutta l’operazione Let’s Dance, l’artista e il manager hanno raggiunto un onorevole compromesso, sia pur leggermente sbilanciato verso il secondo. Immediatamente dopo quest’ultimo fa lo sgambetto al primo: per contratto, infatti, Bowie deve fare un nuovo disco nel 1984, appena finito il Serious, ma è a corto di brani anche perché, per sua stessa ammissione, non riesce a scrivere in tour (“parla l’autore di Aladdin Sane e Young Americans”, chiosa ironico l’enciclopedista duchesco Pegg). Così, mollato Rodgers per dimostrare che può farcela da solo e arruolati alla consolle Derek Bramble (che a detta di molti mostrerà parecchi limiti in fatto di esperienza) e Hugh Padgham (come fonico, ma finirà per fare anche altro), Bowie mette insieme per Tonight (EMI, 1984, 4,5) una scaletta raffazzonata che prevede due soli brani scritti da lui, un paio buttati giù insieme a Iggy, qualche ripresa dai dischi solisti di quest’ultimo e un altro paio di cover. Davanti alla risposta del pubblico durante il tour Bowie si è convinto di dover venire incontro ai suoi gusti, dargli ciò che si aspetta, e così l’uomo che in studio litigava col batterista Dennis Davis per fargli suonare Ashes in controtempo come la voleva lui - usando mani e uno sgabello per spiegare il ritmo -, stavolta invece sta lì ad assistere al lavoro altrui senza suonare, tutt’al più suggerendo. L’album si gioca col successivo il posto di peggior disco di Bowie di sempre: lontana l’esuberanza colta di Pinups, quello che esce è un LP pop anni ‘80 di classe, che sul lato A cerca di sedurre con i suoi reggae lenti come la title track, presa da Lust For Life cancellandone il torbido in un duetto da copertina con Tina Turner (appena tornata al

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successo col peggior suono FM-rock possibile) o la God Only Knows dei Beach Boys, piaciona dove l’originale era innocenza; e che sul lato B prova ad agitare le acque con un paio di giochi con il solito Iggy (i cui altri brani in scaletta subiscono lo stesso imborghesimento di Tonight). Non che manchi il bello: Loving The Alien è maestosa e raffinata, Blue Jean smuove come da intenzioni, e qualcosa si muove anche in Tumble And Twirl o nella cover di I Keep Forgettin’. Ma è un disco macchiato dal peggior peccato possibile per un album di Bowie: non solo è in ritardo sui tempi, ma li segue pedissequamente e per le vie più scontate, finendo per fare una bella figura accanto ai compagni di classifica (benché venda meno del precedente) ma una pessima rispetto al resto della discografia. “Forse avrebbe dovuto sempre essere suonata così”, dirà Bowie introducendo una versione acustica di Loving The Alien arrangiata da Gerry Leonard durante il Reality Tour del 2003-04 ed emettendo così il verdetto definitivo sulla produzione e sul suono del disco. Forse la cosa migliore rimane il video di Blue Jean, che l’amico Julien Temple estende fino a un corto di venti minuti, Jazzin’ For Blue Jean, in cui Bowie si sdoppia nelle parti sia del fan imbranato che della star ossessionata e inarrivabile, sorta di Ziggy insieme moderno ed eterno, nonché ironica auto-consapevolezza della parte che l’artista sta giocando in quegli anni.

I’ ve not hing mu c h to offer ... Per i due anni successivi Bowie non fa uscire album, ma non sta certo fermo: partecipa a film come attore, si impegna in duetti, lavora a colonne sonore, vedi la sognante ancorché enfatica This Is Not America con Pat Metheny, nuovo frammento del discorso critica-amore sull’America iniziato nel ‘75 e che proseguirà I’m Afraid Of Americans del ‘97 - ma anche la bouns track del 2013 riprende il tema. Partecipa anche al grande evento del Live Aid per il quale, oltre a esibirsi a Wembley coinvolgendo


Thomas Dolby (il quale movimenta una versione di “Heroes” come al solito inferiore all’originale), realizza anche un singolo con l’amico Jagger, una versione del classico R’n’B Dancing In The Street. Musicalmente la carica dell’originale rimane, peccato che il sottotesto di rivolta che Jagger conosceva bene, avendolo riscritto in Street Fighting Man (mentre Springsteen lo fa, in senso più desolato, in Racing In The Street), venga completamente tradito dall’interpretazione e da un video con i due “famosi” amiconi che saltellano allegri (con Jagger in versione più galletto che mai) compiaciuti della gran bella idea di cantare insieme. Altro duetto da copertina, e poco conta che qui Bowie si tenga un po’ di più dell’altro (o che Macca, negli anni precedenti, avesse fatto ben di peggio): siamo in pieno trip da star, che per chi l’aveva raccontato già nel ‘73 significa davvero aver perso la bussola, soprattutto del buon gusto. Non partecipa, invece, a un altro evento, dolorosissimo: la morte, avvenuta in quell’anno, del fratellastro Terry, figura di riferimento per passioni musicali condivise e di contrasto per la propria crescita, presenza continua nella vita e nella carriera. Per evitare l’assalto dei media sceglie un profilo bassissimo, e solo nel ‘93, in Jump They Say, riuscirà a dire qualcosa. L’anno dopo è ancora e soprattutto anno di colonne sonore. Quella di Absolute Beginners - film in cui il sunnominato Julien Temple prova ad attualizzare le proteste degli anni ‘50 all’era-Tatcher e nel quale Bowie interpreta uno spietato manager - vede tre pezzi del Duca in scaletta: That’s Motivation è esuberanza da titoli di testa che limita al minimo gli effetti da Fifties visti dagli Eighties che caratterizzavano Tonight; la nostra Volare, realizzata in stile d’epoca e che gli anni in cui si svolge la vicenda rendono non così strana come scelta. Il contributo principale, però, è la canzone omonima, dove l’artista torna a battere un colpo tirando fuori uno dei pezzi migliori dei suoi anni ‘80: coronata da un suggestivo video in b/n, in cui

un Bowie pre-Nathan Adler insegue una donnafelino nella notte urbana, Absolute Beginners è appassionata e imponente, corale e insieme leggera, e musicalmente una “love song” che può “fly over mountains” con un ritornello che si apre a pieni polmoni. Senza essere “Heroes”, nemmeno per un giorno, è semplicemente un grande pezzo pop come Bowie ne ha scritti pochi in questi anni poco ispirati. E tutto sommato non va male neanche per la successiva colonna sonora, quella del bel fantasy di formazione Labyrinth: metà del disco è composta e cantata da lui (il resto è del veterano di soundtrack Trevor Jones, allora in ascesa) e il risultato è consono al contesto di un film destinato a un pubblico adolescente e pre-. Nonostante il solito suono terribile, Magic Dance e Chilly Down risultano graziose nel loro saltellare, As The World Falls Down è una morbida e suggestiva ballata d’amore e Within You ritrova una profondità di toni drammatici che, pur venati di Hollywood, funzionano. Il baldanzoso funk gospel radiofriendly di Underground completa il quadro di un disco che, senza grandi miracoli, rispetta le sue premesse. L’anno si chiude col Nostro che offre al malinconico cartoon sull’incubo nucleare When The Wind Blows l’omonima canzone, un brano che stilisticamente sintetizza gli elementi tipici del suo decennio, tra synth e batterie fragorose, tra falsetti, dramma, enfasi e aperture, con una scrittura articolata che supplisce all’assenza del ritornello cantabile e che risulta in parte suggestiva, in parte di maniera. Alla fine bilancio più o meno positivo, visto che nel corso dell’anno Bowie ha scritto più di quanto non abbia fatto per Let’s Dance e ha messo insieme un album migliore di Tonight. L’anno dopo andrà diversamente.

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gine da risultare perfino divertente; meno lo è Shining Star (Makin’ My Love), dove una melodia La capacità di scrivere sembra tornata, è dunque che poteva andare bene forse per gli Wham! più ora di un nuovo album. Il Nostro, accortosi che leggeri viene cantata con la stessa fastidiosa imqualcosa non sta andando, lo annuncia come il postazione vocale della title track e interrotta da suo “ritorno al rock”: come se bastasse il genere musicale a nobilitare un disco, come se negli anni un intervento rap di Mickey Rourke; i “rock” delle ultime quattro provano ad alzare volume e tiro migliori non avesse travalicato con disinvoltura i senza grosse infamie ma nemmeno troppe lodi. confini tra generi e non avesse contribuito ad alDi queste, l’ultima è una cover di Bang Bang: non largare il concetto stesso di rock, ibridandolo con quella di Lee & Nancy bensì l’omonima - toh.. - di contenuti originali. Se al letale errore concettuale sul rock aggiungiamo una penna non al massimo Iggy Pop. e la solita delega quasi totale a musicisti e produt- Non è un bel sentire, soprattutto a causa di una produzione che invece di salvare abbatte, mescotori (qui David Richards, spesso coi Queen e l’anno prima con lui a fare le prove sul leggerino Blah lando come peggio non potrebbe il sound più Blah Blah che Iggy mette in piedi coi soldi di China mainstream coi tentativi rock. Glass Spider, che riprende l’idea della fantafavola con intro parlata di Girl), i risultati non potranno che essere scadenti. Future Legend, mostra un po’ di tensione vera e di Probabilmente saremo i milionesimi a dire che ispirazione, mentre a proposito di pezzi divertenti Never Let Me Down (EMI 1987, 4,5) non tiene fede cantati in maniera sciocca (nonostante la voce su al suo titolo, deludendo invece parecchio; ma le questo disco sia di rara potenza), va annoverata aspettative a questo punto non sono neanche Zeroes, autoritratto personale rock con un inspieal massimo e le fosche previsioni dei pessimisti gabile sitar e un titolo il cui gioco di parole col trovano conferma. Il risultato della lunga pausa ha prodotto dieci canzoni nuove (più due B-sides, celebre inno con le virgolette spiega bene, a dieci anni di distanza, dove siamo arrivati: a un disco Julie e Girls, che tra l’altro sull’album avrebbero fatto una figura migliore di tante altre), ma l’ispira- dalla direzione confusa, dalla penna stremata e con Peter Frampton alla chitarra. Per capire il zione è veramente carente e la domanda è se sia peggio un Tonight tirato via di corsa con le cover o livello di attenzione che Bowie ha messo nel disco, basti ricordare che si accorge di non volere Too questo, scritto da lui e preparato per tempo. Day-In Day-Out è un funk la cui spigliatezza fresca Dizzy in scaletta solo con l’album già in stampa: il brano verrà escluso da ogni edizione successiva, e il cui testo e video sulla povertà urbana non ne benché non sia particolarmente peggio di altri. riscattano i limiti e che fa rivalutare Young Americans ai rockettari; Time Will Crawl è la preferita dai E il Glass Spider Tour che segue non è meglio: non basta qualche bella coreografia, la potenza visifan ma sconta una certa ripetitività melodica (la rielaborazione contenuta in iSelect migliorerà però va, la grandiosità della concezione o gli accenni proto-jungle di alcuni passaggi della citata Glass la situazione, se non altro a livello sonoro); la title Spider per riscattare le “alucce” ai piedi della tuta track, omaggio all’amica e segretaria personale Coco Schwab, è una ballata lennoniana con un bel rossa, l’intro da metal coatto (affidata ad Alomar, nemmeno a Frampton), altre prove di cattivo solo di armonica che però sarebbe stata meglio gusto ed eccesso o la brutta fine che fanno vecin bocca a Lennon, invece che a un Duca sdolcinato come neanche il Ferry peggiore; Beat Of Your chie, nobili, pagine come All The Madmen o Sons Of The Silent Age (Frampton che canta il ritornello Drum parte enfatica prima di mollare tra capo e con la mano sul petto, mentre Bowie gioca con un collo un ritornello salterino di una tale scempiag-

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all’indie e al grunge cui guardava. Tin Machine (EMI, 1989, 6,8), comunque, nella sua grezza violenza, risulta un disco esuberante e divertente che spazza via il precedente senza tanti complimenti: se di ritorno al rock si deve trattare, allora è necessario togliere tutto e suonare diretti, live, pochi overdub, occasionali contributi del solo Take m e a n y w h e r e . . . In un 1989 che vede grandi nomi risollevarsi da un Kevin Armstrong e amplificatori sparati. Soprattutto con un sound coerente con se stesso e con decennio diverso da quello di Bowie, ma spesso altrettanto incerto (Lou Reed torna con New York, le intenzioni, insieme nitido e violento, spazioso e aggressivo, messo insieme con la produzione di Neil Young con Freedom, Dylan con Oh Mercy), il un Tim Palmer in ascesa. Duca tira fuori un’altra mossa di quelle a sorpreDalla semi-jam boogie dell’iniziale Heaven’s In sa: conosciuto il chitarrista Reeves Gabrels l’anno Here, dove Gabrels ci mette poco prima di iniziare prima e iniziata la collaborazione (che durerà a scatenare i suoi assalti sonori, al punk antinazidieci anni) approntando una versione di Look sta di Under The God, dall’umbratilità suggestiva Back In Anger per uno spettacolo di beneficenza, di Prisoner Of Love fino alle spensierate Amazing decide di coinvolgerlo nel suo nuovo progetto, i e Baby Can Dance c’è parecchio che funziona; ed Tin Machine. Ovvero, un gruppo rock nel quale esce fuori anche un po’ di classe nell’eleganza Bowie sarà semplicemente il cantante e il chitarriflessiva di I Can’t Read, suggestiva nel sottrarre rista ritmico. Gabrels è invece solista rumoroso e dove il resto del disco trova la sua forza, diciamoaudace, e la scelta del rock fragoroso, nell’anno lo, in un salutare “casino”. Poco importa se qua e là in cui esordiscono i Nirvana e con l’indie-rock si esagera, col senso della misura che viene diUSA che mostra buona vitalità già da un po’, ha menticato nelle tasche interne delle giacche nere il significato di un cambiamento di rotta, di uno stacco violento con l’era del pop laccato. L’idea del che costituiscono la divisa della band (soprattutto gruppo e la nuova maschera da semplice cantante per opera dei texani della sezione ritmica), vedi Sacrifice Yourself; se Pretty Thing non è all’altezza nascondono l’esigenza di ricominciare ad occudel modello Pixies; se il ritornello di Run sabota parsi direttamente della propria musica, senza un po’ una bella strofa o se la cover di Lennon deleghe, in sala prove con gli altri. Working Class Hero non è evocativa come quella Tutto sensato: come detto Bowie ha bisogno di della Faithfull, insomma se non è un capolavoro: una mossa radicale per uscire dall’impasse creativa e dalla dittatura con cui il manager ha inaridito il compito della necessaria scrollata è svolto con successo, il suono incendiario brucia via il pop l’artista. Peccato che questa venga minata dall’erleccato, e anche se Bowie quando si diverte non rore fondamentale di chiamare come sezione viene preso sul serio (vedi Lodger o, in futuro, ritmica i fratelli Hunt e Tony Sales (già in Lust For Earthling), l’album viene guardato con simpatia Life). I due si riveleranno potenti, precisi e capaci di improvvisare, ma anche legati a un’idea vecchia (probabilmente dovuta anche a un certo sollievo di critici e fan). e semplicistica di rock, che rende di fatto la democrazia nella band auspicata dal leader (pardon, Intanto però, scaduti anche i diritti sul vecchio catalogo in possesso della RCA, è tempo di ristampe: dal cantante) un ostacolo allo sviluppo del prol’allora ancora indipendente Rykodisc, specializzagetto secondo le sue piene potenzialità di vera ta nell’ambito, si assicura l’operazione, celebrando avanguardia, rimanendo indietro anche rispetto attore e il trucco che lo fa rimanere in piedi anche se si inclina). Il Bowie-manager sorride contando le montagne di biglietti venduti, l’artista è messo peggio dell’alieno di Roeg alla fine del film del ‘76. Urgono provvedimenti drastici.

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il tutto con preziose bonus tracks - sia nei dischi, sia nel lussuoso cofanetto Sound + Vision - e con un greatest hits, Changesbowie (col solo inedito Fame ‘90, remix - datato davvero - della vecchia hit). Per promuovere l’operazione parte anche il tour, annunciato con una delle sue classiche dichiarazioni-bomba che poi smentirà anni dopo, ovvero che quelle canzoni non le avrebbe suonate più; e lancia un’altra delle sue trovate-dimostrazione di approccio avanguardista ai media, ovvero la possibilità per i fan di telefonare per votare la canzone che vorrebbero sentire. La formazione con solo quattro musicisti ad accompagnarlo è un altro significativo cambiamento rispetto al passato, anche se forse non la più adatta a riproporre un repertorio così vasto e variegato; ma tra i quattro c’è Adrian Belew, col quale Bowie ha collaborato per due pezzi del suo Young Lions, ossia il rock semplice ma efficace di Pretty Pink Rose e la più belewiana e riuscita Gunman, duetti di altro calibro rispetto a quelli mediatici degli anni ‘80. Il tour, anche grazie alla minaccia che forse si tratterà dell’ultima occasione per riascoltare i classici, è un successo. Finito il tour si torna ai Tin Machine con l’idea di un secondo album, anche se il progetto comincia a mostrare qualche crepa: al di là di alcuni screzi interni, il disco in alcuni casi mostra un Bowie che vuole tornare al suo stile, dall’altra concede qualche uscita, malaugurata, agli altri. Tin Machine II (Victory, 1991, 6.5) parte a bomba sulla falsariga del primo, col carrarmato Baby Universal tra le migliori uscite dell’intera esperienza e uno dei pochi pezzi (l’incontenibile A Big Hurt, ad esempio) a ricordare il suono del Volume Uno. Già One Shot però torna al Bowie classico addolcendo l’andamento tipico della band con una chitarra acustica, come Betty Wrong; e l’acustica guida anche la bella Shopping For Girls, appassionata e tesa ballata sul turismo sessuale in oriente, ingiustamente sottovalutata. Le delicatezze tornano nell’affascinante, eterea Amlapura, così come un

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beat allegro e potente con accenni di elettronica quale You Can’t Talk stempera l’approccio monolitico della band per guardare altrove. L’equilibrio però viene spezzato, e il disco minato, da un trattamento garage di If There’s Something dei Roxy Music che rimane un po’ lì, da una You Belong To Rock’n’Roll che caracolla sorniona senza decollare più di tanto, dalla Sorry scritta dal sempre più invadente batterista, il quale ammazza un lento che cantato da Bowie avrebbe avuto qualche chance in più (il cantante ci prova con affascinanti backing vocals). Ma il brano che assesta un colpo fatale alla credibilità dell’album, e a quella dell’esperienza stessa del gruppo, è Stateside: un blues che più banale non si può, cantato grottescamente sempre da Hunt Sales, lungo quasi sei minuti e che non viene nemmeno salvato da un ritornello in cui il Duca cerca di sabotare la banalità del pezzo facendo ironia sulla canzone, grazie anche a una citazione degli America. È ora di cambiare: Goodbye Mr. Ed dice di un altro dei bei pezzi di questo disco, buona fusione tra il suono del gruppo e la scrittura del Nostro, poi goodbye Tin Machine. Il terzo disco sarà solo il live Oh Vey Baby (London, 1992, 6.0), ovvero un’autentica occasione persa. La potenza live del gruppo era ed è fuori discussione, né qui mancano le prove in questo senso, come la versione di Heaven’s In Here; ma otto pezzi presi più o meno a caso, includendo Stateside e lasciando fuori qualche cover interessante come Debaser dei Pixies, Betty Wrong - che dal vivo beneficiava di una bella parte centrale con Bowie al sax - o l’inedito Now (prima bozza della canzone Outside), per di più col pubblico sfumato tra una canzone e l’altra, dimostrano che l’intenzione principale è chiudere la storia più in fretta possibile. D’altronde il compito storico del gruppo è stato portato a termine: magari l’artista Bowie non ha ancora recuperato la forma piena dei giorni migliori, ma ha sicuramente ritrovato il metodo e la sicurezza per continuare ad essere - se non centrale come una volta - alme-


no interessante anche dopo venticinque anni di carriera. E intanto, sposa la modella Iman Abdulmajid: oltre al divorzio dai Tin Machine, infatti, è infine arrivato anche quello da Angie. Anche la vita privata riparte.

Look i n g f o r Dav i d L’inizio degli anni ‘90 stava dando in un certo senso ragione all’esperienza Tin Machine: due anni dopo di loro, sia pure in maniera minore come numeri ma maggiore come modernità, anche le classifiche passano al rock fragoroso in un 1991 che è anno di capolavori e svolte. Bowie c’era arrivato con Tin Machine II, ok, ma mentre per una breve stagione le chitarre elettriche tornano protagoniste anche nelle charts (prima e meglio che con i Green Day), il Nostro sta già guardando altrove: per esempio dalla finestra della casa di Los Angeles dove, appena arrivato con la nuova moglie, assiste allo scoppio delle rivolte razziali del ‘92. L’uomo che in Loving the Alien aveva parlato della possibilità/necessità di armonia interreligiosa (“senza sospettare che un giorno avrei sposato una mussulmana”) e che aveva sposato una somala, vede in diretta l’ennesima manifestazione di ciò che sapeva da tempo (la coppia a quel punto si sposta a NY, dove vive tuttora). Il nuovo album affronterà la questione, a partire dal titolo per arrivare alla musica e ai collaboratori. Mentre il grunge impazza, infatti, Bowie guarda invece a certe tendenze della black, ovvero il funkjazz mescolato all’elettronica, zona Us3, che per ora non è ancora acid-jazz e ancora non imperversa annacquato in compilation chiamate come il locale di tendenza. Ma nel disco c’è anche un elemento di festa, diremmo: per celebrare matrimonio e ripartenza solista, si mette insieme, più che un album di figurine-guest celebri, un autentico parterre di ospiti al fine di tirare le fila di una carriera e insieme guardare avanti, con una visione rinnovata e coerente tenuta con polso saldo.

La notizia più rilevante di Black Tie White Noise (Arista, 1993, 7.2) è infatti la chiamata alla produzione di Nile Rodgers a dieci anni da Let’s Dance: solo che stavolta è cambiato tutto e il Nostro non ha più nessuna voglia di cedere le redini a chicchessia. Rodgers cercherà infatti di spingerlo a fare delle hit, ma una candidata al ruolo come Lucy Can’t Dance finirà sì su singolo ma sul lato B, e dalla versione in vinile del disco sarà proprio esclusa: ovvero “comando io, e stavolta viene prima l’artista”. Bowie infatti deve riaffermare e ridiscutere la sua identità, e al riguardo richiama Mick Ronson a suonare su I Feel Free (pezzo dei Cream presente nelle scalette degli Spiders From Mars e qui trasformato in un funk rock elegante in linea con l’album); omaggia Morrissey riprendendo la sua I Know It’s Gonna Happen Someday in un gioco di specchi multipli (l’album in cui compariva l’aveva prodotto proprio Ronson, e la canzone era un omaggio a certa teatralità ziggyana); riprende Nite Flights del maestro Scott Walker - una versione più eterea e meno ansiosa dell’originale - col risultato di offrire uno dei momenti più affascinanti del disco, il quale si apre e chiude con due versioni della musica che ha composto per il matrimonio con Iman; si autocita nella tesa e drammatica You’ve Been Around, dal basso sinuoso, per la quale richiama Gabrels e in cui riflette dicendo “scivolo da una vista vuota..per amore del denaro ..”; richiama anche Mike Garson per Looking For Lester. Tutto ha uno scopo e una direzione, comprese le cover e i duetti. La title-track, sempre parlando di duetti, ospita il rapper Al-B Sure! ed è un rap-soul elegante e sereno che a livello di testo è il centro tematico del disco: “Ci tendiamo le braccia al di là delle razze e ci teniamo la mano, per poi morire tra le fiamme cantando We shall overcome”, canta con sguardo ampio, e “Ci sarà del sangue, non c’è dubbio; ma ce la faremo, non dubitare. Guardo nei tuoi occhi e so che non mi ucciderai”, o anche “Ci insegneranno a

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infrangere le regole, ma mai a dettarle; ci ridurranno a dei poveri dementi. Urla fasciste, di bianchi e di neri: chi ha il sangue, chi ha la pistola?”. Lester invece è Lester Bowie del gruppo jazz d’avanguardia Art Ensemble of Chicago, insieme sperimentale e divertente, col quale Bowie voleva suonare da tempo e che in principio era stato chiamato per intervenire solo su una cover di Don’t Let Me Down And Down, un pezzo arabo fattogli conoscere da Iman che, per come viene realizzato qui, cancella in un attimo i lenti di Tonight. Invece si rivela presenza positiva e contagiosa e la sua tromba rimane a impreziosire di sapida vivacità altri cinque brani: tra questi, appunto, Looking For Lester, nel quale duetta con un Bowie che ha ripreso in mano il sax e lo suona estensivamente. L’artista torna ad avere le idee chiare, ma anche il manager è moderatamente soddisfatto: Jump They Say, irruente funk-rock nel quale in pratica si dichiara che è l’apparato medico-repressivo ad aver spinto il fratellastro al suicidio, entra nella top ten UK (ci vorrà il botto mediatico del 2013 perché accada di nuovo), e lo fa mescolando arte e presa pop, suggerendo che con un po’ più di oculatezza gli anni ‘80 avrebbero potuto essere diversi e migliori e che tutto sommato il manager e l’artista possono andare d’accordo. Intanto combattono, ma non fra di loro: l’uno con il fallimento dell’etichetta americana che aveva pubblicato il disco, la Savage, con grosso danno alle vendite in loco; l’artista con una certa diffidenza che la frivolezza anni ‘80 e i giochi dei Tin Machine hanno instillato nel pubblico (tra l’altro neanche troppo in pace con certo colore house del disco o con la leggerezza della hit mancata Miracle Goodnight, contagiosa dichiarazione d’amore per Iman). Pubblico che oltretutto lo vede ormai come un vecchio e non ha voglia di farsi indicare la strada della nuova elettronica da club dalla Pallas Athena di un 45enne o da Real Cool World, altra canzone per film realizzata con staff e stile dell’album.

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Da qui in avanti, nonostante la forma ritrovata, Bowie sconterà infatti questo gap di credibilità durato un decennio: tornerà ad essere amato (come peraltro non ha mai smesso di essere) ed anche stimato, ma l’arbiter tendentiarum non è più lui. È solo un artista creativamente ritrovato: neanche poco, neanche scontato. GP

Sc ream i n’ alone... La seconda parte dell’anno 1993 procede ancor di più verso il netto turning point per un Bowie decisamente stanco degli “avvenimenti intorpiditi e degradanti dell’ultimo decennio” e stretto nella volontà, sempre parole sue, “di riequilibrare l’abisso sovente grossolano” in cui è caduto. Protagonista di questo tentativo è The Buddha of Suburbia, album colonna sonora dell’adattamento a serie per la BBC2 del racconto omonimo dell’autore Hanif Kureishi che, nel febbraio del 1993, intervistò il musicista per una rivista americana. In quella sede, inizialmente, la richiesta di Kureishi fu quella di utilizzare, tra le musiche della serie, alcuni tra i primi brani di Bowie, idea che ben presto si trasformerà in una sostanziale collaborazione: il cantante scriverà dunque nuovi pezzi ad hoc e darà vita a una vera e propria OST. Ancora oggi risulta misterioso, almeno agli occhi di molti fan, il motivo per cui Bowie lavorò con tanto entusiasmo a quest’album, un disco che molti, persino parte del suo pubblico più affezionato, non hanno mai ascoltato, preso in considerazione o persino considerato tale. Le motivazioni vanno senz’altro ricercate in un rinnovato desiderio di lavorare a qualcosa di intellettualmente forte, nuovamente concettuale, così da ricreare una sorta di ponte che risulterà essere essenziale non solo nel legare il precedente BTWN all’immediatamente successivo 1.Outside, ma anche nel collegare, in un modo all’epoca del tutto inatteso, la propria contemporaneità agli sperimentalismi di Low e “Heroes”, saltando e cancellando figu-


rativamente tutti gli “errori” degli ‘80, tentando metaforicamente di eliminare quell’”abisso grossolano” di cui dicevamo poco fa. The Buddha of Suburbia è la storia di Karim, un ragazzino che negli anni Settanta cerca la propria identità mettendosi in prima linea in alcuni scontri razziali e rendendosi protagonista di marcate ambiguità sessuali, facendo l’attore e avendo come migliore amico un rocker che somiglia un po’ a Sid Vicious e un po’ allo stesso Bowie. Il racconto è una storia di formazione, di crescita, di conoscenza di sé e dell’altro da sé, attraverso le spinte dello scontro con sé stessi e con gli altri, fino all’esplosione finale di un percorso che conduce dai suburbs alla celebrità. I temi affrontati, dunque, sono tutti molto cari a Bowie fin dagli esordi ed appartengono anche intrinsecamente alla sua stessa vicenda biografica. Inevitabile, dunque, il balzo nel passato. Se nella titletrack, addirittura, il Nostro cita la chitarra di Space Oddity, la chiave scelta per raccontare è quella dello sperimentalismo che, mescolando synth e chitarre acustiche, dà felicemente vita a lunghi

brani ambient che non tagliano fuori, comunque, alcune dense atmosfere pop. Il disco, non a caso composto e registrato in tempi brevissimi, rende senza dubbio ben chiara, nei risultati, l’enorme ispirazione di Bowie durante la lavorazione. Mike Garson rinnova la propria presenza dopo il recente ritorno in BTWN e sull’intero album aleggia l’ombra di Brian Eno, esplicitamente citato nelle note di copertina. Di Eno il disco ha la forza compositiva delirante e l’apparente anarchia dei testi totalmente non lineari. Era non a caso dai tempi della Trilogia che Bowie non si lanciava in una simile sperimentazione. 1994/1995: the music is... The Buddha of Suburbia, ascoltato con le orecchie di oggi, si configura in tutto e per tutto come uno schizzo, un disegno preparatorio di quello che sarà il Bowie di 1.Outside, quest’ultima sicuramente la più strutturata e stratificata opera d’arte del Nostro dai tempi della trilogia. Siamo nel 1994, immersi in un magma culturale che unisce il cyber-punk alle popolari teorie su cospirazioni extraterrestri, uno sguardo sul futuro filtrato

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dalle visioni pop à la X-Files avvolto dall’angoscia pre-nuovo millennio. In termini più strettamente musicali i nuovi sguardi da ricordare sono quello art-rock industrial dei Nine Inch Nails e quello trip-hop e techno di Chemical Brothers, Tricky e Goldie. E’ in questo spazio ampio, vario e soggetto a scosse ancora tutte da esplorare, che Bowie colloca le sue nuove mosse, tanto ardite, high profile, quanto geniali. In questo panorama si vanno configurando tre macroelementi essenziali alla lavorazione e alla riuscita finale dell’album: il ritorno, già preannunciato nemmeno troppo velatamente in The Buddha of Suburbia, di Brian Eno, una formazione composta da musicisti con già più o meno consolidate esperienze con il Nostro e un permeante enorme numero di riferimenti all’arte contemporanea e alle sue derive più estreme. A quindici anni di distanza dalle sessions di Lodger, Eno e Bowie si danno un nuovo appuntamento ai Mountain Studios pronti a mettere insieme quelli che Bowie definì negli anni come due afflati distanti ma facilmente combinabili: quello romantico e “ottocentesco”, il suo, e quello del suo compagno, più strettamente inserito nelle visioni del XX secolo. Con Brian Eno ritornano le Strategie Oblique, questa volta declinate - come lo stesso musicista racconta nel suo diario “1995, A year with swollen appendices” - in una serie di giochi di ruolo che coinvolge ogni membro della band. L’idea del gioco di ruolo è fondamentale per comprendere l’ideologia e la messa a punto concettuale di 1.Outside: ogni giocatore/musicista si libera di sé stesso seguendo i dettagli di un personaggio che gli viene assegnato, ne legge i tratti e può permettersi, stando chiuso in una stanza con il proprio nome anagrammato e una nuova personalità, di provare ad aggirare i limiti del sé e spingersi in territori, anche e soprattutto creativi, completamente nuovi. Al fianco di Bowie e Eno si configura una band che è sintesi di vari stadi della carriera del Nostro: ancora Mike Gar-

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son al piano, Reeves Gabrels alla chitarra solista (da ora in poi membro permanente della band), Erdal Kizilcay - già ospite negli ultimi due lavori - al basso e f “il creativo” alla batteria. Tutti ricordano quel periodo in studio come uno dei più creativi mai vissuti: all’inizio, per alcuni giorni, Bowie non toccò musica, limitandosi a dipingere sulla tela mentre gli altri suonavano, tutti alla ricerca di snodi interessanti da cui partire o da utilizzare. Le radici di questa nuova factory trovano terreno in quella che per Bowie è l’ultima grande passione/ ossessione: l’arte contemporanea, specie nelle sue derive più macabre e violente, quelle della della body art, in particolare portate avanti dai Castrazionisti viennesi di Rudolf Schwarzkogler e dalle performance del sieropositivo newyorkese Ron Athey, con un’attenzione particolare anche al neo brutalismo britannico di artisti come Damien Hirst (che utilizzerà poi l’album come colonna sonora alle sue “mucche sezionate”). A tutto ciò va aggiunto un generale interesse anche per le derive pop della body art, che in quegli anni si diffondono sempre di più: scarnificazioni, piercing e, naturalmente, tatuaggi. Di tutte le influenze che abbiamo citato, da 1.Outside, Bowie non lascia fuori nulla, trasformando così la propria figura nell’eteronimo di ruolo, detective Nathan Adler, protagonista di un mondo lynchano vicinissimo a quello descritto in Twin Peaks, in cui una novella Laura Palmer, la quattordicenne Baby Grace, viene uccisa misteriosamente durante un rituale artistico. L’indagine di Adler diventa dunque l’espediente narrativo attraverso il quale Bowie dipinge una gran quantità di personaggi bizzarri, osceni, malati psichici, sospettati dell’assassinio della ragazza. Oxford Town, città del New Jersey in cui il Nostro ambienta questo concept, si configura come un’oscura Spoon River cibernetica, popolata da esseri umani misteriosi, che Bowie/ Nathan Adler svela uno a uno nelle pagine del suo diario, canzone dopo canzone. Il disco vede la luce nel settembre del 1995 con


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il titolo 1.Outside - The Nathan Adler Diaries, sebbene le sessioni a Montreux fossero già terminate alla fine dell’anno precedente. Nessuna casa discografica risultò però interessata a pubblicare la versione originaria del disco, quella del 1994, doppia, e priva di materiale allineato, pop, vendibile. Brani come We Pick You, l Have Not Been To Oxford Town, il singolone Strangers When We Meet e No Control, vennero composti ex novo, mentre altri, tra cui I’m Deranged e Hallo Spaceboy, vennero ricavati da materiale abbozzato l’anno prima. Accompagnato da note ai testi - in UK il Nathan Adler diaries e in Italia, in prima stampa, una prefazione di Fernanda Pivano accanto ai testi tradotti - il disco si fregia di un artwork raffinatissimo, nel quale le immagini dipinte, macabre, immerse in un’oscura e dominante tonalità pastello, accompagnano un’opera complessa, sfaccettata, stratificata, definita unanimemente difficile, che la critica ha molto amato ma anche, in alcuni casi, considerato eccessivamente pretenziosa. Mentre Ikon parla di un “Bowie che vuole a tutti costi essere considerato un intellettuale ma ha perduto ogni potenziale di alchimia naturale”, 1.Outside si impone lentamente come la miglior musica prodotta da Bowie dai tempi di Scary Monsters. Difficile? Troppo lunga (75 minuti)? Pretenziosa? Il Nostro non ha problemi a esplicitare tutto ciò, a definire i tratti di quest’opera come precise, pregresse volontà “Io e Brian decidemmo già nei tardi ‘70 che avevamo sviluppato una nuova scuola di pretenziosità, pensavamo già allora che questa caratteristica fosse una cosa da ricercare”. The diaries of Nathan Adler promette un seguito, lascia l’ascoltatore/lettore con un “Continua...” ma non continuerà mai. Il disco infatti, pensato come primo di cinque, non avrà mai un seguito. In più occasioni Bowie parlò di circa 25 ore di materiale inutilizzato e nel 2000 si fa chiaro il riferimento a una seconda parte dal titolo 2.Contamination che però non vedrà mai luce. Conoscendo gli approcci mai casuali di Bowie a tutte le

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questioni relative a tempi/continuità nelle proprie produzioni, è facile immaginare pregresse volontà di incompiutezza per Outside. Per chiarire l’idea di fondo si legga questo pensiero di Brian Eno, assolutamente calzante: “Mi sono sempre piaciuti i dischi con assolvenze e dissolvenze, così ha l’impressione che ciò che si ascolta faccia parte di qualcosa di più grande e sconosciuto, qualcosa di già esistente da qualche parte, nell’etere, ma alla quale non si può avere accesso”.

1997: ti me does fly Dopo il soddisfacente Outside tour nel 1996, per Bowie la strada è nuovamente in discesa. Non mancano ispirazione e voglia di rimettersi al lavoro su nuovo materiale ma, al tempo stesso, il clima post 1.Outside è tale da permettergli di vivere un po’ di rendita. Anzitutto è felicissimo della sua band e decide di condurla al Looking Glass, lo studio di Philip Glass a Manhattan. Lì, in primis insieme a Reeves Gabrels e al tecnico Mark Platì - già, tra gli altri, con Prince in Graffiti Bridge dà il via a sessioni velocissime, molto spontanee, per un disco che, dirà lui stesso “si strutturava da solo”, ecco che dunque si cominciano a raccogliere i frutti del lavoro intenso e complesso fatto, in termini compositivi e strutturali, con 1.Outside: Earthling, il nuovo album, si configurerà come perfetto seguito della strada techno già intrapresa in alcuni momenti del disco precedente, ne enfatizzerà i tratti jungle e tutte quelle spinte dance che, durante l’Outside tour, erano state sperimentate live in un costante abbraccio con le influenze più rock e industrial. Il lavoro con Gabrels si fa essenziale (e lo sarà, vedremo, sempre di più): con lui Bowie lavora a un metodo di sovrapposizione di campionamenti di chitarra e suono analogico. Al centro del discorso musicale di Earthling c’è proprio questo mix, questa unione, quasi si riaprissero lentamente le porte a una forma canzone più immediata, pura, a suo modo pop e commerciale, distesa, pur partita da una


rielaborazione di quei momenti - come quello che poi si trasformerà in I’m afraid of americans - che da 1.Outside furono esclusi per eccesso di sperimentalismo. Uscito il 3 febbraio 1997, dopo una sorta di presentazione ufficiosa l’8 gennaio al live in occasione del cinquantesimo compleanno di Bowie, Earthling viene accolto con largo consenso dalla critica musicale mondiale, nonostante ne venga un po’ grossolanamente enfatizzato il lato più strettamente inserito in filoni musicali hype del periodo: la techno, la jungle e soprattutto il drum’n’bass mentre, come si accennava poc’anzi, l’album è in realtà un passo ben radicato in una nuova sensibilità compositiva tradizionale. Anche i testi seguono la stessa linea e, dopo le oscurità ciniche e brutali dei diari di Nathan Adler, ora è il momento del lento ritorno alla spiritualità con pezzi duri e commuoventi come Dead Man Walking e Looking For Satellites. Non è un caso che, all’interno di questa tendenza al ritorno, Earthling risulti anche l’album più “britannico” del Nostro da quelli dei 70s. Bowie non esita, nel 1996, a definirsi “più britannico che mai”, finendo col confermarlo in modo evidentissimo proprio nella cover di Earthling, indossando la redingote con fantasia Union Jack disegnata insieme ad Alexander McQueen - elegante risposta alle bandiere che coprivano iconograficamente gli eroi del britpop - mentre ci dà le spalle e osserva davanti a sé, infinita, una campagna inglese tutta verde, di blakeiana fluorescenza. Il nome di Bowie, nel 1997, invade gli articoli di giornale non solo (e non principalmente) per via della recente uscita discografica, ma anche per la notizia sorprendente della quotazione in borsa del suo patrimonio, operazione di cui è, ancora una volta, pioniere - Elton John, infatti, lo seguirà poco dopo. Intanto vende alla EMI il suo vecchio catalogo che verrà poi ristampato disco dopo disco nel 1999 e ne approfitta per comprare una quota dei diritti di pubblicazione trattenuti da Defries.

1998/1999: 20 t h Cen t ury d ies Dopo nuovi ruoli nel cinema nel 1998 e la scelta di investire un po’ di energie artistiche accompagnando live e in studio (in Without You I’m Nothing) i Placebo, alla fine dell’anno si fa sempre più forte il sodalizio con Reeves Gabrels che sarà infatti il primo collaboratore di Bowie, nel momento dell’uscita di Hours.. nell’ottobre 1999, ad essere citato come co-autore dei brani. I due compongono quelle che lo stesso Bowie ama definire “normali canzoni”, cioè brani dalla struttura classica, pezzi fin dall’inizio molto strutturati dove la chitarra acustica è centrale. Bowie e Gabrels iniziano a incidere da soli nello studio di Bermuda suonando la maggior parte degli strumenti, per poi richiamare Mark Platì, Sterling Campbell e aggiungere all’organico due nuovi arrivati (Mike Levesque alle percussioni e il chitarrista Chris Haskett) e fare dunque ritorno tutti inseme al Looking glass di Manhattan. A loro si aggrega anche Alex Grant, vincitore su Bowienet - il nuovo avanguardistico sito del Nostro - del concorso di scrittura di una cyber-canzone (con lui Bowie scriverà il testo di What’s Really Happening?). Nonostante non si configuri apertamente come un concept album, Hours..., che avrebbe inizialmente dovuto chiamarsi The Dreamers, di fatto, lo è. Bowie, già durante la lavorazione, dichiara di star scrivendo alcuni pezzi che vorrebbero raccontare la sua generazione attraverso l’esplorazione del rapporto di un uomo adulto con il ricordo, il passato, i propri sogni, la vita com’è e come avrebbe potuto essere. Canzoni sul dubbio della persistenza della memoria (Seven, If I’m Dreaming My Life) che però risultano incredibilmente pervase di ottimismo, di serenità. Bowie dichiarerà infatti di aver lavorato a un album pieno di storie, non di stretto autobiografismo, di essersi cioè messo figurativamente a disposizione della propria generazione, per raccontarne l’evoluzione adulta e un rapporto maturo con il tempo che passa che, ora, non è più ricco di ansie e timori, ma pacifico.

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In Hours... si amplifica inoltre quel tratto di spiritualità già evidente in Earthling, tratto che si mostra apertamente presente non solo nei testi, ricchi di riferimenti alla vita, alla morte, a figure come dei e angeli, all’Inferno e al Paradiso, ma anche nella grafica, con un’immagine che richiama la Pietà: il David di oggi tiene in braccio quello di ieri (i capelli di chi sta tra le sue braccia sono quelli del periodo Earthling, i tratti quelli di un bimbo). Anche lo stesso titolo dell’album, gioco di parole tra “ours” e “hours” si ispira a The Book Of Hours, un libro di preghiere medievali che racconta giornate divise in ‘horae’. L’aspetto grafico, in quest’album, ha moltissimo rilievo: il logo con il nome David Bowie scritto in lettere e numeri è la vera e propria immagine di un brand, che si ripete più volte sul sito e che richiama i recenti sviluppi in Borsa di cui si diceva su. La critica, soprattutto quella britannica, accoglie molto bene l’album che, d’altronde, ha una forte configurazione pop, melodica, ricco com’è di introduzioni in chitarra dodici corde che riportano in qualche modo al Bowie di Hunky Dory e questo, senza crollare in arditi paragoni, proprio per via dell’approccio soft, addolcito, acustico ancorché del tutto contemporaneo, impreziosito con slanci di synth, effetti sibilanti, vocoder. 2001/2002: show me who you are A partire dal 2000 Bowie si mette a lavorare su un disco che non vedrà mai luce, il titolo provvisorio è Toy e si tratta di una raccolta di canzoni del Nostro uscite o nascoste negli anni ‘60, tutte nuovamente incise per quello che Bowie aveva dichiarato essere “non tanto un Pin Ups II ma un Up Date I”. Tra le canzoni figurano The London Boys, I Dig Everything, Conversation Piece e alcuni pezzi inediti come Afraid e Uncle Floyd (poi Slip Away) che, vedremo, finiranno sul disco successivo. Bowie, coadiuvato in studio da alcuni artisti ospiti tra cui Lisa Germano, attento e dichiaratamente appassionato durante le sessioni, racconta di essere entusiasta della freschezza conferita a pezzi

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così lontani nella sua storia discografica. La EMI/ Virgin però non risulta particolarmente interessata a questo lavoro, tende a farne slittare l’uscita e infine invita Bowie a lavorare su nuovo materiale: nonostante l’apparente buongrado dichiarato ai giornali, Tony Visconti e altre fonti intime, dichiareranno un grande risentimento da parte del Nostro a proposito della scelta dei discografici, con i quali i rapporti saranno destinati a incrinarsi sempre di più, fino alla definitiva rottura nel 2001, quando Bowie, dopo aver fondato la ISO (un’etichetta indipendente) lascerà la Virgin e firmerà con la Columbia. A partire dai primi mesi del 2001 partono nuovi lavori, nel segno di una nuova grande collaborazione con Tony Visconti con il quale, dopo Scary Monsters, i rapporti si erano un po’ incrinati a causa della “franchezza di Visconti con gli intervistatori all’inizio degli anni ‘80” La reunion entusiasma entrambi e il lavoro procede plasmandosi sulle tempistiche di Bowie, appena diventato - nuovamente - padre nell’agosto 2000 e assai desideroso di non perdersi nulla della vita della piccola “Lexie”. L’idea alla base del nuovo album è, per Bowie, quella di raccontare grandi interrogativi esistenziali e, ancora una volta, spirituali, senza rinunciare alla cantabilità delle canzoni, senza perdersi in momenti riflessivi che conferiscano ai pezzi eccessiva seriosità. Per fare ciò il Nostro dichiara di voler proseguire nel recupero di una scrittura classicheggiante che non appartenga in alcun modo, nella propria struttura creativa, a un mood del passato. Dopo un lavoro preparatorio ai soliti Looking Glass Studios, il nuovo percussionista Matt Chamberlain, insieme al chitarrista David Torn, suggerisce a David uno studio di registrazione a due ore di macchina da NYC e “assolutamente incredibile”. Gli Allaire Studios si trovavano nella lussuosa tenuta anni ‘20 chiamata Glen Tonche, circondata da prati, animali e da un paesaggio arido eppure suggestivo che sarà di enorme ispirazione al Nostro durante i mesi di composizione


dell’album. In questi studi dotati di mixer all’avanguardia inseriti in spazi ampi e luminosi, Bowie lavorerà per mesi e mesi, circa dieci ore al giorno alla composizione di Heathen che uscirà nel giugno del 2002 e riuscirà a coniugare l’elemento spirituale e riflessivo presente da 1.Outside in poi, con la scioltezza acustica di Hours.., di cui si accentuano i tratti melodici e il cantato da decenni mai così eccellente. Accolto entusiasticamente dalla critica, Heathen, tutto intriso di interrogativi spirituali profondi, del rinnovato desiderio di cantare “the way the oldman ride” nonché di citazioni di Freud, Nietzsche, Einstein e, nella grafica, delle opere di Guido Reni, Raffaello Sanzio, Danilo Dolci e Duccio di Buoninsegna, è per Bowie una nascita nuova, la rinascita della maturità e questo nonostante manchi quasi del tutto di brani immediati, cantabili, come invece era previsto dal progetto iniziale. Tra una cover di Neil Young (I’ve Been Waiting For You) e una - riuscitissima - dei Pixies (Cactus), il disco è ricco di pezzi di forza sorprendente, capaci di unire l’elemento classico della forma canzone a un nuova oscurità monumentale, pura (Sunday, Slow Burn, Afraid e pure la title track in chiusura).

2003 : l et m e disa p p e a r . . . Il primo ad essere soddisfatto di Heathen è lo stesso Bowie che dichiara di non sentirsi da molti anni così ispirato e appagato dalle proprie composizioni. Cavalcando l’onda dell’entusiasmo dell’Heathen tour, dunque, si rimette quasi immediatamente al lavoro su nuovo materiale, questa volta con la precisa volontà di incidere un disco adatto ad essere portato in tour, live, in tutto il mondo. Le canzoni di Reality, che dovranno quindi essere dotate di un tiro particolarmente rock, non vedranno luce nel locus amoenus degli Allaire Studios ma, prevedibilmente, nei consueti Looking Glass in piena New York City. In particolare, Bowie, sceglierà lo studio più piccolo, lo studio B, quasi completamente affidato a Tony Visconti

con cui, dato il successo appena raggiunto, la collaborazione non può che cementarsi e proseguire. Lo spirito riflessivo di Hours.. e Heathen continua anche in Reality che, con questo titolo, vorrebbe essere il disco del confronto umano con la realtà del nuovo secolo: quella storica scaturita da grandi eventi come l’attentato dell’ 11 settembre 2001 e, soprattutto, quella mediatica. Com’è prevedibile, Bowie è profondamente attratto da tutte le novità mediatiche del nuovo secolo e da tutte le loro interazioni con il quotidiano, a partire dal nuovo eterno confronto tra realtà e Reality Show. Nonostante l’enorme carico riflessivo e la volontà di concepire un disco rock dalle ampie prospettive e ispirazioni, Reality è decisamente l’episodio meno entusiasmante di Bowie da BTWN. La quasi totale assenza di pezzi d’impatto e immediatezza è ben poco se si considera la trama molto esile su cui tutto il disco è costruito, con canzoni quasi mai brillanti, spesso melodicamente inconcludenti, nei migliori dei casi appena sufficienti. Episodi retromaniaci come Never Get Old e un paio di cover (Try Some Buy Some di George Harrison e Pablo Picasso dei Modern Lovers) non aiutano il disco a staccarsi da un limbo di pressapochismo piuttosto ingombrante. Reality verrà portato sui palchi di tutto il mondo fino al 25 giugno 2004 quando, sul palco tedesco del Hurricane Festival, Bowie verrà colpito da un infarto che lo costringerà ad annullare le quattordici date successive, il tour e, per diversi anni, qualsiasi attività artistica salvo alcune sporadiche collaborazioni (live con gli Arcade Fire nel 2005, ai cori in Province dei TV On The Radio nonché una partecipazione nel 2008, al disco di Scarlett Johansson, tutto di cover di Tom Waits). Colpisce come Bring Me The Disco King, ultima traccia di Reality in realtà scritta da Bowie ai tempi di BTWN e lasciata lì tra vari tentativi di arrangiamento succedutisi negli anni, sia rimasta per un decennio una sorta di testamento musicale, con quel testo così solennemente desolato, nel ricordare

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il passato (quello dei 70s) e far coincidere - per la prima volta nella storia di chi crea personaggi e poi li uccide - l’idea di morte artistica con quella della fine fisica dell’esistenza.

2011 / 2 0 1 3 : W h e r e a r e w e n ow ? Se nel 2011 diventa facile reperire online TOY, con alcuni dei pezzi, come dicevamo poc’anzi, che ormai avevamo avuto modo di ascoltare

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all’interno di Heathen, è il 2013 l’anno del ritorno. Nel giorno del suo 66° compleanno, infatti, l’8 gennaio, Bowie annuncia di aver pronto un album che uscirà il 12 marzo. Tutte le voci su che fine avesse fatto, sulla sua salute, se la scomparsa fosse dovuta a questa o a un’impasse creativa trovano così risposta. E dopo essere stato in ritardo sulle tendenze negli anni ‘80 e in pari nei ‘90, ci si chiedeva come si sarebbe rapportato agli anni


zero, ovvero se avrebbe ricominciato a trovare tendenze semisotterranee da rivelare al mondo o se avrebbe continuato a rielaborare il proprio passato come nella trilogia a cavallo del millennio. Perché accodarsi alle tendenze filo-’80 del decennio scorso non era possibile per uno che gli ‘80 aveva contribuito ad inventarli nel periodo 19771980 e che poi li aveva seguiti nelle vie più banali nel decennio vero e proprio. La risposta musicalmente segue, con altra verve e con un approccio postmoderno sempre più marcato, la revisione del proprio passato esplorata nelle ultime uscite; ma rivela anche la capacità di vedere e rielaborare la vera nuova tendenza degli ultimi anni, ovvero le nuove forme di fruizione musicale determinate dalla rete. Anche su quelle era stato all’avanguardia, ai tempi della creazione del bowienet, quando era stato il primo artista a diffondere via web un suo nuovo singolo, (Telling Lies, 1996); ma nei 2000 che vedono un contatto diretto, continuo tra artista e pubblico (fatto di social media, anticipazioni del disco, news in tempo reale, ecc..), Bowie spiazza tutti trasformando l’assenza da convalescenza in un silenzio che fa crescere l’attesa (nonché i dubbi su un futuro tout court) rotto solo dalle ristampe utili a collocarlo nel limbo dei grandi del passato cui guarda un pubblico e una stampa sempre più retromaniaca. Ma soprattutto trasforma quest’assenza in un ciel sereno nel quale far brillare e tuonare il fulmine della notizia di un nuovo disco che non si aspettava più nessuno, negando e al contempo esaltando, rinnovandole, le nuove suddette forme di rapporto dell’artista con i media. The Next Day è immediatamente anticipato dal video del primo singolo, Where Are We Now?, registrato a New York e naturalmente prodotto da Tony Visconti. La canzone lascia immediatamente intendere come ci si trovi davanti a qualcosa di diverso ed enorme rispetto a Reality. Straordinario come Bowie sia riuscito a tenere nascosti i lunghi tempi di lavorazione del nuovo album,

anche smentendo attraverso il proprio sito qualsiasi news vagante per il web secondo la quale, effettivamente, ci fosse in arrivo nuovo materiale. Tutto cosparso di venature oscure, melanconiche, crudeli, The Next Day non è soltanto l’album del ritorno dopo dieci anni di silenzio, è un grande disco. L’urgenza dei brani e la totale assenza di momenti confezionati per compiacere, a distanza di molti anni, l’ascoltatore, fanno di The Next Day un disco completo, complesso, stratificato dove il citazionismo non si esaurisce in sé stesso e l’ispirazione è autentica. Brani come Valentine’s Day ne sono, formalmente, manifesto: mentre il testo racconta un eccidio in una scuola, la musica procede dolce, da singolo pop. The Next Day, insomma, riesce a coniugare il Bowie in grado di raggiungere le masse (quello di Let’s Dance, per intenderci) a quello più profondamente ispirato, urgente. Dopo 45 anni di carriera, non è poco. GC

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ru br ic he

Savages

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Magnolia Milano 21 Maggio 2013

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Il primo concerto italiano dell’ultima generazione new new wave è un successo. Energie e idee, grammatica essenziale, tutto al posto giusto pur nell’inevitabile effetto Ian Curtis al femminile Non fosse stato surclassato dalla reunion dei My Bloody Valentine, questo sarebbe diventato, con ogni probabilità, il concerto del mese. Le Savages sono infatti il vero cult group esordiente del 2013. Riscuotono consensi praticamente ovunque: testate specializzate e non solo, articoli firmati da penne prestigiose e una corposa fila di giornalisti in attesa per l’intervista di rito. L’album Silence Yourself, ancora fresco di pubblicazione, finirà sicuramente nelle classifiche di fine anno. Se si tratta di predestinate o solo del fenomeno del momento è presto per dirlo. Certo, i paragoni ingombranti tirati in ballo portano da Siouxsie a PJ Harvey, e se qualcuno potrebbe scambiarli per gli abbagli di media eccessivamente benevoli e pronti a lanciare qualsiasi novità arrivi dalla perfida Albione, è comunque un’etichetta come l’americana Matador a pubblicare insieme alla Pop Noire: non varrà come garanzia assoluta ma è un dettaglio strategico in grado d’attirare l’attenzione anche dei più refrattari alle “novità indie” dagli anni Zero a oggi, e degli ancor più scettici per quanto riguarda il filone neo post-punk. Filone le cui origini si perdono addirittura nella metà dei 90s con il fenomeno della new wave of the new wave (vi ricordate le Elastica? Alle reunion di turno mancano solo loro...). Fortuna per tutti, al di là della somiglianza molto superficiale, le Savages sembrano fatte di tutt’altra pasta rispetto al gruppo di Justine Frischmann. E da bravi prevenuti - pur fidandoci della Matador - siamo andati a vederle a mo’ di vero banco di prova di un disco e di una band tutta - ancora - da rispettare. Il risultato? Più che confortante. A parte quelle canzoni che già sembravano di qualità superiore come Shut Up e soprattutto She Will, le esecuzioni e il mixaggio live restituiscono un’idea in 3D dell’album d’esordio del quartetto londinese, e la cosa più interessante è che City’s Full, Strife e Waiting for a Sign si fanno addirittura preferire trasportate sul palco che non in versione studio. La geometria basso-chitarra-batteria, essenziale e spigolosa, permette d’apprezzare i singoli contributi e soprattutto il lavoro della chitarrista Gemma Thompson: i suoi interventi sotto forma di riff, frasi ritmiche, fill rumoristici e arpeggi in punta di dita sono sempre azzeccati oltre a citare più o meno tutti i chitarristi più originali della new wave, da Daniel Ash dei Bauhaus a Robert Smith a Bernard Sumner, John McGeoch, Andy Gill, Keith Levene, Will Sergeant, Geordie Walker dei Killing Joke, ridotti a una grammatica essenziale e funzionale ai singoli pezzi, senza ricalcare uno stile particolare ma come in una palette dove prendere ora un colore ora l’altro a seconda di ciò che serve. E’ il segno di un approccio più creativo che calligrafico, per quanto reverenziale nei confronti di una certa estetica che i filologi hanno già avuto modo di sviscerare in tutte le sue componenti, e che ha bisogno di idee ed energie fresche per risultare ancora efficace. Energie e idee che le nostre sembrano avere dalla propria parte. Il repertorio per forza di cose non va oltre una dozzina di brani, quasi tutti dell’album a parte il


lato B Flying to Berlin e la conclusiva Fuckers, ma le esecuzioni hanno tutte quella “grazia sottopressione” che piace tanto a chi non può fare a meno di ascoltare rock chitarristico anche nel secondo decennio del XXI secolo. Giusto accennare alla presenza vocale di Jhenny Beth, il cui accento si spiega con le origini francesi e non con la volontà di scimmiottare cadenze proprie di scene come quella di Manchester (guarda che cattiverie vanno a pensare certi critici da strapazzo della rete..). Rimane l’effetto “Ian Curtis al femminile”, ma molto meno accentuato di quello che si potrebbe pensare e soprattutto per nulla fastidioso: la ragazza ha personalità nonostante i noti riferimenti stilistici. Nessuno si aspettava chissà quali prodezze, piuttosto conferme di una solidità che alla prova dei fatti c’è. Peccato soltanto per lo spazio scelto dal locale, un po’ angusto per il pubblico presente. Tommaso Iannini

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Primavera Sound 2013 Barcellona dal 23 al 25 Maggio 2013 #bestfestivalever? Dipende da come lo si guarda, dipende da come lo si vive I timori di un possibile flop per la fine della storica partnership con San Miguel e la successiva, rassicurante conferma di Heineken come nuovo sponsor principale; la lineup - mai così ricolma di “big” - e le consuete defezioni (Fiona Apple, DIIV, Foxygen, Fidlar e Band Of Horses) riparate alla meglio (o meno peggio); l’ampliamento dell’area agibile del Parc del Fòrum ed il folcloristico esordio di una ruota panoramica in stile Coachella: tutto ciò che è stato preludio (e contorno) all’edizione 2013 del Primavera Sound Festival di Barcellona - la più chiacchierata di sempre a livello social - lo conosce bene anche chi non ha presenziato e persino chi non se ne è proprio (mai) curato. Ci concentreremo dunque, in questa sede, sull’incognita generata dalla dichiarazione di intenti, violenta ed autocelebrativa, legata all’altrettanto noto hashtag: #bestfestivalever sì oppure no? La risposta che ci sentiamo di dare è piuttosto semplice: dipende da come lo si guarda, dipende da come lo si vive. Se infatti si limitasse il giudizio alla sola qualità delle performance andate in scena nella tre giorni, allora sì, non si incontrerebbe alcuna difficoltà nel parlare del PS13 come di uno dei migliori festival europei degli ultimi anni. Di più: si potrebbe addirittura arrivare a circoscrivere il parco delle vere e proprie delusioni ai soli Merchandise, tanto interessanti su disco quanto anonimi dal vivo; ai Daughter, con qualche problema tecnico ma soprattutto Elena Tonra - emozionatissima, costretta ed affatto pronta a fronteggiare i grandi pubblici - a fare “disastri” neanche fosse Lana Del Rey; agli Hot Chip, mai così piatti; a degli Animal Collective che, eccedendo nuovamente in improvvisazione rumoristica e generale cazzeggio, su suolo catalano sembrano non mancare mai di dar prova di incostanza.

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Per il resto, andando palco per palco, c’è stato davvero poco di cui lamentarsi. All’Heineken stage (che prima era il Mini e quest’anno è il palco principale), tra visuals epilettiche, coriandolerie, crowdsurfing oceanici ed il cameo di J Mascis nell’encore, hanno trionfato soprattutto i Phoenix. Non è mancata nemmeno l’ennesima conferma del perché i Tame Impala siano da annoverare, a detta di moltissimi, tra le migliori live band in circolazione e Kurt Vile ha rilanciato la candidatura a papabile disco dell’anno del suo Wakin on a Pretty Daze. Ben Gibbard ha fatto senz’altro meglio coi suoi Postal Service che coi Death Cab For Cutie nella scorsa edizione ed altrettanto piacevoli sono risultati sia Adam Green & Binki Shapiro, sia Wild Nothing (con le solite difficoltà a livello canoro, ma anche sempre più progetto organico e rodato). Le performance di Blur e Jesus & Mary Chain, pur ben lungi dalla memorabilità (fatta eccezione per l’ospitata di Bilinda Butcher su Just Like Honey), si sono rivelate comunque inattaccabili da prospettiva festivaliera, mentre Nick Cave ed i My Bloody Valentine sono semplicemente di un’altra categoria. Tanta, tantissima bella roba anche al Pitchfork stage. Ottimo il rave new-age messo in scena da Doldrums, così come la virata d’impatto sullo psych-rock da parte di una Melody’s Echo Chamber (con full-band) che già ci piaceva ed ora ci piace anche di più. Consigliatissimi anche i Disclosure ed un imprendibile Dan Deacon, Killer Mike che è un trattore (ed ha confermato la collab Run The Jewels con El-P), i Local Natives che, quanto a valore aggiunto dallo show dal vivo, le hanno suonate tranquillamente ai diretti avversari Grizzly Bear. Soprendenti, infine, le vibrazioni a stampo Motown dei 70s di Solange (che performer!), i Glass Candy che non hanno fatto rimpiangere i Chromatics (anche perchè Ida No non è traballante quanto Ruth Radelet ma frontwoman dalle parti di Alexis Krauss), Mac DeMarco che ha dato lezioni di intrattenimento ed empatia col pubblico (tra lanci di pacchetti di sigarette Viceroy ed immancabile mosh-pit) e suonato pure da dio (almeno rispetto al recente passaggio in Italia). A quest’ultimo canadese sarebbe andata la palma per il concerto più coinvolgente tenutosi sul palco del celebre portale, non fosse che da Barcellona son passate anche le Savages a prendersi - nonostante la chitarra fuori gioco per una decina di minuti e la scaletta decurtata - una enorme standing ovation che ha messo a tacere un po’ tutte le critiche al loro effettivo valore e all’urgenza comunicativa (per la verità, sorrette da osservazioni dello stesso peso del “non si sentivano le voci” che ci è toccato sentire dopo il live dei MBV). Al Primavera Stage (ex-San Miguel) le lodi sperticate sono andate ad un James Blake che ha pompato a dovere il nuovo Overgrown e si è nuovamente attestato come appuntamento live imprescindibile; ai Dinosaur Jr, guitar hero intramontabili. Non male anche lo show autocelebrativo dei Wu-Tang Clan (pur sofferente dell’assenza di Method Man) ed i Peace che non ci aspettavamo tanto divertenti. Non condividiamo, inoltre, le tante lamentele per la performance - in playback coreografato salvo due pezzi - dei The Knife. Più precisamente: non le condividiamo se mosse dall’alto delle tre e mezza del mattino ed all’interno del contesto del festival (mentre si fosse pagato soltanto per loro, allora sì, lasceremmo voce ai rammarici). Quello che qua contava era però il “far festa” e, in effetti, lo show di Karin, Olof e compagni di collettivo artistico (e qui sta la coerenza totale con Shaking The Habitual che ci hanno raccontato in intervista) è stata la più grande festa dell’intero weekend.


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Da segnalare, infine, l’irresistibile tiro primordiale di Death Grips e Goat a dominare lo schedule dell’ATP stage, How To Dress Well e Christopher Owens stelle nel firmamento di Vice Stage ed Auditorium, Dead Can Dance e Camera Obscura i migliori al Ray-Ban (anche se, in terra dell’indie-pop quale è quella spagnola, Tracyanne Campbell e soci non potevano che vincere facile). Dove è, dunque, che il Primavera Sound 2013 ha fallito? È presto detto: nel fornire la vivibilità ottimale all’esperienza. Tralasciando la questione legata ai rifiuti (non ci si farà mai trovare pronti alla maleducazione) e all’aumento di pressing ed aggressività della security dovuti al numero sempre maggiore di bigliettati “VIP” ed alla conseguente aggiunta di aree più ampie riservate a codesti privilegiati (fortunatamente problema contenuto), ciò che è davvero mancata è una corretta gestione deflattiva del carico di pubblico palco per palco. O meglio: quella condotta imponendo dolorosissime scelte e volta ad evitare la costipazione sotto all’Heineken stage in occasione del concerto dei Blur è stata perfetta, ma episodio isolato nonché a scapito della programmazione del day-after, stracolma di tempi morti. Purtroppo, insomma, le 170.000 presenze complessive (40.000 in più dello scorso anno, 30.000 in più del 2011) si sono fatte sentire, ai danni del singolo, ben più del dovuto. Una prima soluzione - lo fanno notare sottovoce anche Larry Fitzmaurice e Corban Goble di Pitchfork - potrebbe essere quella di rinunciare (quantomeno all’interno della manifestazione centrale al Parc del Fòrum) alla gran messa in mostra delle realtà musicali catalane e spagnole. È sempre stata parte integrante del Primavera, certo, ma non è nei fatti - appunto a livello di deflazione del pubblico - più utile al festival nella sua attuale (e futura) incarnazione “gigantizzata”. In generale, Gabi Ruiz ed il resto della crew degli organizzatori dovranno spingersi oltre, trovare il coraggio di fare il salto di qualità definitivo sotto tutti gli aspetti correlati al situazionismo festivaliero. Magari guardando proprio a quel Coachella che stavolta si è soltanto mimato, comunque senza troppo curarsi di quei propri tratti distintivi che sono stati e non possono più essere. Nel frattempo, noi già sognamo i Neutral Milk Hotel (annunciati come primo headliner per il 2014 sui maxischermi del palco di Nick Cave). Ed, ancora, il #bestfestivalever. [Special thanks to Luca Falzetti] Massimo Rancati

Death Grips Tunnel Milano 21 Maggio 2013 Si sente aria di Primavera Sound anche a Milano, i Death Grips fanno tappa al Tunnel Il 2012 è stato un anno fortunato per l’hip hop. Tra progetti e artisti più o meno rappresenta-

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tivi della scorsa annata quelli che hanno fatto parlare più di sé in ambito underground sono stati i Death Grips. Vuoi per il successo di The Money Store via Epic, vuoi per il proverbiale “dito medio” - se così lo vogliamo chiamare - alzato alla major con NO LOVE DEEP WEB, rilasciato su internet senza tanti complimenti. Necessità e immediatezza del contenuto quanto soddisfazione di mandare a quel paese l’establishment, fanno entrare a pieno titolo il progetto nell’immaginario collettivo di ribellione portandolo ad un record di download via web. Trovata promozionale o no i Death Grips si affermano, in ogni caso, come uno gruppo concreto e credibile, con gli occhi e la mente ben puntati al presente. Si sente aria di Primavera (Sound) anche a Milano, dove la vicinanza aerea al celebre festival spagnolo, con relativa facilità di spostamento, porta molti gruppi delle line up catalane a fare tappe fuori programma anche in Italia senza costi esorbitanti per gli organizzatori. Ad accaparrarsi i Death Grips per due eventi è stato DNA con esecuzioni al Circolo degli Artisti (Roma) e al Tunnel per Milano. Ma veniamo a noi. La promozione “al dettaglio” per il concerto milanese viene affidata a Mere.dith, giovane organizzazione locale e appuntamento fisso del Leoncavallo che si sta facendo strada con eventi di nicchia dal buon tasso qualitativo (The Bug feat. Daddy Freddy su tutti). Le luci si spengono e sul palco del Tunnel salgono senza troppi proclami “MC Ride” Stefan Burnett e “Floatlander” Andy Morin alla consolle ma, come previsto, niente Zach Hill alla batteria. Dopo un pomeriggio speso nel silenzio per non compromettere la voce di MC Ride il duo parte saggiamente con Cut Throat, traccia prevalentemente strumentale pescata dal primo mixtape Exmilitary. Il ragazzo di colore è un diesel, ma appena si scalda diventa una macchina da guerra. L’attacco di Get Got è folgorante e il concerto prende vita nel delirio totale, con tanto di stage diving ripetuti tra il pubblico delle prime file per tutta la durata dell’esibizione. I volumi annunciati altissimi risultano godibili, con un impianto tutto sommato in media con i (bassi) standard milanesi. La prestazione di MC Ride è sopra le righe e non si risparmia, nonostante conservi la voce in ottica Primavera Sound, mentre Floatlander sta dietro una tastierina scimmiottando qualche accordo scenico. Vengono privilegiati i pezzi di The Money Store ma nei momenti in cui l’aria si fa pregna di beat saturi e si parte con NO LOVE DEEP WEB la tensione sale alle stelle, in particolare, con Lock Your Door e Deep Web. I beat sono curati, densi, e la resa su cassa non lascia nulla al caso se non per qualche “fischione” imputabile all’impianto. Dunque un live elettronico, per basi e batteria sintetica, che arriva dove deve arrivare, alla faccia dei rockettari che vorrebbero Zach Hill alle pelli, con l’unico grande difetto legato al tempo: tre intensissimi quarti d’ora (ma forse anche meno) per un duo californiano da fischiare ma soprattutto da ammirare. Davide Nespoli

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Blixa Bargeld, Teho Teardo

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Circolo Degli Artisti Roma 07 Maggio 2013 Il tour di Still Smiling vede Teho Teardo e Blixa Bargeld in gran forma Uno dei dischi più attesi genera una delle tournée più attese dell’anno, lapalissiano. Lo dimostra un Circolo degli Artisti praticamente colmo e l’ampiezza del range del pubblico in cui darkettoni e hipster, attempati noisers e improbabili tailleur & tacco 12 si mischiano con tanta nonchalance quanta è la classe che i due responsabili mettono sul palco. In realtà è un trio a scendere in campo, complice il violoncello di una Martina Bertoni sempre più anima affine di Teardo, tanto da accompagnarlo ormai in pianta stabile anche quando le atmosfere si fanno più abrasive: vedi alla voce TAM TUUMB! Cento anni di Arte dei Rumori, l’omaggio a Russolo tenutosi all’Istituto Svizzero di Roma a fine aprile in compagnia di Cut Hands, Aaron Dilloway, Antoine Chessex, Andy Guhl e Dave Phillips. È infatti l’ottimo interplay tra Teardo e la Bertoni l’asse portante del live, in equilibrio pregevole nei contrasti tra classica ed elettronica: il primo intento a suonare la chitarra e trattare l’elettronica necessaria per sopperire ad una formazione così ristretta condensando l’ampia tavolozza del disco; la seconda pronta a far vibrare, scuotere, percuotere, scivolare dolcemente le dita sul suo violoncello insieme cameristico e disturbante. In mezzo lui, l’istrione tedesco, capace di attrarre magneticamente lo sguardo e le orecchie degli astanti senza rubare la scena ai colleghi, così come di incenerire il povero fonico per qualche minimo e ovviabile problema di ritorno in cassa. Roba superabile per tutti, tranne che per il perfezionista Blixa a suo agio nel cantare in più lingue e scherzare col pubblico, tanto che la sensazione è quella di un gruppo affiatato e non di una performance (più o meno) estemporanea. Still Smiling scorre nella sua interezza alternando momenti più ludici e attesi - Mi Scusi, come prevedibile, solleva scroscio d’applausi e occhiolini a più non posso, mentre a Come Up And See Me va la palma dell’ovazione -, altri più tesi e vibranti o romantici e pieni di pathos (Alone With The Moon dei Tiger Lilies, ad esempio) ma è l’insieme a fluire come un tutt’uno organico e ben equilibrato. Contrappuntato dal sorriso imperituro di Teardo e dagli scambi di battute di un Blixa incantatore e chiacchierone, (auto)ironico oltre ogni aspettativa. La cover di Soli Si Muore, poi, impreziosisce il bis e rinsalda il legame dei due con un immaginario italiano d’antan che mai avremmo creduto potesse esistere in siffatte forme. Chapeau. Stefano Pifferi

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Black Flag

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Alcatraz Milano 15 Maggio 2013 La prima reunion di membri storici dei Black Flag, quella con il nome ufficiale della band, è approdata a Milano Ecco la reunion dei Black, o meglio una delle due reunion dei Black Flag, o meglio ancora la più plausibile, data l’imprescindibile presenza di Greg Ginn (anche se concediamo il beneficio del dubbio ai Flag di Keith Morris, Bill Stevenson e Chuck Dukowski). Pochi ma buoni, si direbbe al primo colpo d’occhio dentro il locale. Si sta molto larghi all’Alcatraz, sfruttato solamente per metà, e dirottare il concerto su un club più piccolo sarebbe forse stata la soluzione migliore. Il programma prevede i Good For You come spalla dei Black Flag, ma nell’organico tra un gruppo e l’altro cambia soltanto il cantante. Oltre a Greg Ginn, che è l’assoluto mattatore, hanno un doppio ruolo pure il batterista Gregory Moore e il più giovane bassista Dave Klein. Good for You è il progetto che la mente dei Black Flag condivide con lo skateboarder e cantante Mike V (Mike Vallely all’anagrafe); è uscito da qualche mese l’album Life Is too Short to Not Hold a Grudge. Il loro hard rock/grunge ricorda i Black Flag seconda maniera, pionieri di quella fusione tra punk e metal che è stata il punto di partenza dei vari Melvins e Soundgarden. Si notano ovviamente più le escursioni soniche di un Ginn (alla faccia di quelli che “i punk non sanno suonare”) armato pure di theremin, rispetto alle doti sceniche da medio cantante rock di Mike V. L’esibizione è discreta ma dura troppo, considerando che il set dei Black Flag risulterà per forza di cose più concentrato. Se queste mezze reunion vi sembrano un po’ posticce, non dovreste dirlo ai ragazzi accalcati a pogare sotto il palco. Se ci si allontana da pur comprensibili pregiudizi, il concerto risulta in ogni caso più che onesto. La sezione ritmica carica a dovere, Ginn è all’altezza del “fu” ruolo di macchina da guerra e Ron Reyes è forse la vera sorpresa: c’è con la voce e tiene benissimo il palco. Reyes, alias Chavo Pederast è stato il secondo cantante dei Black Flag, dopo Keith Morris e prima di Dez Cadena. In quel periodo la band ha inciso Jealous Again, mentre l’album Everything Went Black contiene Gimmie Gimmie Gimmie, Depression e Police Story con la sua voce. Per forza di cose un concerto intero richiede un repertorio più ampio, che però si limita con qualche eccezione (Can’t Decide, Black Coffee) ai Black Flag prima di My War. Avanti tutta con Damaged, per l’entusiasmo di chi è venuto per lanciarsi a sgomitare al suono di Six Pack, TV Party e Rise Above, e il sorriso largo di chi è ormai troppo acciaccato per scatenarsi in una slam dance ma apprezza lo stesso. Niente bis, si finisce con Louie Louie, come dire per che, gira e rigira, quello eravamo e quello ritorneremo. It’s only polvere e rock and roll. Only? Siamo proprio sicuri? Tommaso Iannini

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Bruno Maderna

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Teatro Comunale di Bologna Bologna 03 Maggio 2013 Maderna celebrato a 40 anni dalla scomparsa. Luci e ombre sulla musica contemporanea oggi E alla fine si torna sempre ad Adorno. Sembra che non ci sia possibilità di uscire dalle polemiche e dalle discussioni generate dalle riflessioni del musicologo della Scuola di Francoforte o scaturite dall’intepretazione dei suoi scritti. La dicotomia si ripropone ogni qualvolta la musica elettronica e la musica elettroacustica fanno capolino in un teatro tradizionale. Da una parte c’è chi riempie le fila di chi sostiene che le avanguardie novecentesche hanno avuto il merito di riflettere in maniera profonda sul fare musica, ma non hanno saputo produrre un corpus di opere capaci di resistere all’invecchiamento: sarebbero, insomma, “invecchiate male”. Considerazioni sostenute anche interpreti, direttori d’orchestra e musicologi in una forma - si passi il termine - di “restaurazione neoromantica o neoclassica”. All’altro estremo dell’arco troviamo gli entusiasti di qualsiasi forma musicale eterodossa rispetto all’Ottocento imperante nei teatri, una schiera che i massimalisti di cui sopra vedono come figli di una degenerazione del post-moderno. Per questi è sufficiente che si possano ascoltare opere poco consuete nei cartelloni italiani (e internazionali) perché si gridi al miracolo e ci si prodighi in lodi sperticate. Nel caso del concerto in omaggio a Bruno Maderna nel quarantesimo anniversario della sua scomparsa, come spesso accade, le cose stanno a metà strada. Innanzitutto, bisogna sottolineare positivamente l’impegno di Teatro Comunale di Bologna, Conservatorio di Musica “G. B. Martini”, Archivio Maderna e Università di Bologna che hanno voluto ricordare un compositore e ricercatore la cui musica non è frequentemente eseguita dal vivo. La serata del 3 maggio (e la replica del 4) rimane, quindi, un momento (pubblico) di una serie di eventi (dal 2 al 9 maggio) dedicati a Maderna: conferenze, proposizione di documenti visuali inediti e rari, concerti elettronici, omaggi musicali di varia natura. Uno sforzo culturale, quindi, che non può essere sminuito dalla scarsa presenza di pubblico (palchi chiusi, platea piena per metà). Il programma mette insieme due opere scritte da Maderna in momenti diversi della sua carriera. La prima, Venetian Journal, risale al 1972, in un periodo in cui il musicista sapeva già di essere vicino alla fine. Il testo si basa sul diario di James Boswell, un letterato inglese che compie il Grand Tour a metà del Settecento. Il risultato è una specie di “Don Giovanni” da osteria (il tenore Saverio Bambi, molto espressivo) che dialoga con un gruppo di strumenti. Ora sotto gli effetti della baldoria e dell’alcol, ora vinto da nostalgia e sentimenti meno allegri, il tenore si esprime in una lingua meticcia, fatta di francese, italiano, veneziano, inglese e uno pseudo-latino, svariando dal registro comico a quello drammatico. Maderna fa riferimenti a Schoenberg e Stravinsky, in un gioco citazionista post-moderno che comprende anche Ravel e ballate folcloriche (la Biondina in gondoeta). Dalle parti dell’esercizio di stile, ma pensato con cura e una leggerezza che contraddistingue Maderna rispetto ad altri contemporanei.

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La seconda opera è il Don Perimplin (1961) tratto dal testo teatrale di Federico Garcia Lorca e appartenente al periodo RAI. Maderna lo pensa come un radiodramma, in cui alcuni personaggi sono intepretati non già da un attore o da un cantante, ma dagli strumenti: Don Perimplin è il flauto (Devis Mariotti), la suocera il gruppo di sassofoni. La vicenda racconta di un uomo che in tarda età si sposa con una ragazza molto più giovane (interpretata da Sonia Bergamasco) sotto la spinta dalla governante Marcolfa (Syusy Blady), andando incontro a un destino tragico. Il cast parlante, chiuso da Patrizio Roversi che interpreta la voce narrante, è il punto debole della serata. Se Patrizio Roversi può ancora funzionare come narratore, Syusy Blady non ha le doti attoriali necessarie per reggere questo tipo di opere. Il punto più basso, in questo senso, è il dialogo tra due folletti nella notte, cuore centrale del radiodramma maderniano, che la Blady e, in parte, anche la Bergamasco rendono con scarsa convinzione. Le opere scelte non sono tra le più importanti del corpus maderniano, ma questo può non essere un fatto negativo, soprattutto se inserito in un contesto di celebrazione e studio di una figura che ancora necessità di ulteriori approfondimenti musicali, musicologici e storici. E’ un fatto negativo, invece, affiancare alla ottima conduzione di Marco Angius, specializzato nel repertorio delle avanguardie novecentesche, un cast extramusicale di non sufficiente livello. Il risultato mostra il fianco alle critiche conservatrici, acuito dal fatto che un radiodramma, reso in un teatro oggi, non ha lo stesso impatto immaginativo che poteva avere sull’ascoltatore radiofonico del 1961. Agli entusiasti a prescindere, invece, si può ricordare che attribuire a tutte le opere di un musicista o di un periodo eguale valore (“tutti capolavori”) equivale alla notte senza luna in cui tutte le vacche sono grige. Opera del critico dovrebbe essere quella di vagliare con il chiaroscuro dell’analisi i pesi relativi in campo, mettendo in evidenza valori e difetti in una prospettiva. Ma ogni volta che si affronta un autore delle avanguardie novecentesche, specialmente quelli non ancora storicizzati, ci si imbatte in questo pantano originato da Adorno e alimentato da decenni di dibattito quasi sempre sterile. L’impressione è che non ci sia ancora una adeguata distanza storica per giudicare con serenità e che il continuo studio, come nel caso di queste celebrazioni di Maderna, sia oltremodo necessario. Marco Boscolo

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Lana Del Rey

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Mediolanum Forum Milano 07 Maggio 2013 A un anno e mezzo dalla nascita dell’hype, l’arrivo del tour in Italia è l’occasione per verificare l’evoluzione socio-musicale del fenomeno Lana Del Rey L’arrivo di Lana Del Rey in Italia permette di completare l’analisi su un’artista che ha bruciato le tappe: era infatti solo l’autunno del 2011 quando si iniziò a parlare di lei su Pitchfork e su altre webzine al di fuori del circuito mainstream, con una mole impressionante di notizie e aggiornamenti riservata, prima di allora, solo ai musicisti più affermati e ai ritorni più eclatanti. Un buzz così elevato da creare, di rimbalzo, un sempre crescente numero di hater - il più famoso di tutti è Carles di Hipster Runoff - pronti a coglierla ad ogni passo falso (e ce ne sono stati diversi) per farsene beffa. A febbraio 2012 esce il debut Born To Die e improvvisamente Lana Del Rey, da fenomeno “settoriale”, si trasforma in personaggio di massa. Gli streaming delle pagine web diventano passaggi su radio nazionali e i link di youtube si tramutano in video in rotazione su MTV. Poco dopo l’annuncio del tour nei palazzetti (la location di Assago è una conseguenza del sold-out istantaneo dell’Alcatraz) i riflettori si abbassano quasi totalmente, tanto che in rete l’evento pare - o almeno sembra - snobbato da addetti ai lavori che a dodici mesi dalla nascita dell’icona pop sembrano averla dimenticata. Già la vista all’ingresso, sul finire dell’esibizione del supporting act, pare smentire totalmente quanto traspare dal web. Persa ogni traccia di pseudo-hipster votati all’hype, i partecipanti sono persone d’ogni estrazione sociale e genere - con una discreta percentuale maschile, in parte accresciuta dal ruolo di icona gay della Del Rey - venute in contatto con l’artista americana tramite i mass media, fidelizzate e preparate sul repertorio, al punto da far risultare l’esibizione un continuo singalong col microfono puntato direttamente sulla platea. Alcune particolarità, come i numeri scritti col pennarello sulle mani in base all’ordine di arrivo, fanno presupporre una coda cominciata parecchie ore prima dell’apertura dei cancelli. Lana fa il suo ingresso poco dopo le 21.00 entrando dal lato di un palco volutamente kitsch e imponente: una sorta di Caesar’s Palace di Las Vegas riprodotto in scala, con palme, colonne romane e due enormi leoni di bronzo vicino a cui la star spesso indugia, data la presenza di telecamere fisse che la riprendono per proiettarla su due maxi-schermi. I primi passi sul proscenio contrastano con lo sfarzo descritto: l’artista appare meravigliata dal feedback del pubblico idolatrante, arrivando al limite della commozione; è stupita come se non si aspettasse una tale reazione, anche se a questo punto del tour dovrebbe essere abituata, lei che da sempre si è cucita addosso il ruolo di femme fatale. Sembra inoltre che l’affetto dei fan sia la spinta necessaria per ingranare e portare a termine una buona esibizione. La partenza con Cola concretizza questo paradosso, che sarà il leitmotiv della serata: la Del Rey risponde con frequenti discese tra il pubblico, strette di mani e una continua comunicazione durante le pause (ad un certo punto, mentre canta, arriva a inserire un “I love you” rivolto a uno

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spettatore cambiando in corsa il testo del brano). Nell’ora e un quarto di show (esibizione peraltro dignitosa a livello vocale, nonostante si dica che la data del giorno prima a Roma le abbia consumato la voce) questa cosa diventa lampante e si fa sempre più evidente la “forzatura” di alcuni gesti di scena voluti da chi le ha curato la comunicazione - l’attaccarsi alla schiena del chitarrista durante un suo assolo, il sollevare leggermente il vestito per fare alzare la gonna dai ventilatori e mostrare l’intimo per l’encore di Ride - nei quali è palese un certo imbarazzo della diretta interessata. Nel finale, con National Anthem per l’ennesima e conclusiva discesa verso le prime file, la Del Rey si attarda oltre venti minuti a dispensare autografi, foto e baci a stampo, il tutto con la band a farle da colonna sonora: qui l’indugiare del regista su una ragazza (l’unica) che scoppia in lacrime dopo un breve scambio di parole con il proprio idolo aggiunge un che di grottesco a una reazione di per sè già esagerata. L’impressione è che la ex Cenerentola Elizabeth Grant sia a un bivio: ritrovatasi di punto in bianco nei panni di una principessa, dovrà decidere se mantenere la genuinità che ha dimostrato facendo aderire l’immagine pubblica a ciò che è veramente, oppure permettersi di essere diva a tutti gli effetti senza badare alle critiche. Non a tutti è data una simile opportunità. live report

Andrea Forti

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G i m m e S o m e I n c h e s

#38

La solita ricognizione mensile sui formati “strani” stavolta tratta di 7” reali e virtuali, 10” e digitali di Al Cisneros, Var, Nun, El Torpe, Makhno, Occults, Rule Of Thirds...

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Nel giro Om sembrano averci preso gusto e molto. Nemmeno il tempo di parlare dei maxi-singoli modalità “dubplate” della casa madre che Al Cisneros torna all’attacco replicando l’uscita di Dismas. Anzi, aumentando dimensioni e peso specifico della sua intrippante e misticheggiante idea di psych. Certo, l’aver composto le due tracce che compongono il 10” Ark Procession, durante le pause tra la registrazione di Advaitic Songs e quelle dell’upcoming, getta sicuramente una certa luce sul vinilino. C’è per forza di cose un evidente senso di continuità e contiguità con la casa madre, di cui queste lunghe tracce - la title track e la sua gemella Jericho, che mai si discostano dall’immaginario spirituale in cui i nostri sono caduti di peso - sono l’ennesima dimostrazione: ritualistiche suite, dubbose il giusto e evocative nella misura in cui vi piaccia chiudere gli occhi e sognare mondi lontani, anche se una certa latente atmosfera urbana e quasi minacciosa qua e là si fa notare. Altra nostra conoscenza è Makhno che se ne esce con un 7” digitale che è insieme collaborazione e tributo. Collaborazione perché se nel lato A Nevadagaz vede Paolo Cantù in solo di chitarra e ammennicoli vari, nel lato B accreditato a HaveYouSaidMakhno emerge il lavoro a 6 mani svolto con l’Hysm? Duo aka Jacopo Fiore e Stefano Spataro. E tributo perché se in solo Makhno stravolge un classicone dell’italo-wave come il pezzone storico dei Gaznevada - molto electro-rock mutante in linea con l’originale spirito - nel gang bang coi due pugliesi a venir trafitto è She Is Beyond Good And Evil del Pop Group la cui resa, didascalica ma dai tratti originali e sfrontati (le peripezie strumentali della seconda parte), ci fa venir voglia di una joint venture più corposa che riscopra perle nascoste della wave nazionale e non. Visto che siamo sul digitale, segnaliamo un full-length di remix che personaggi del calibro di Ezra, M16 (aka Alessandro Bocci degli Starfuckers), Otolab, ecc. dedicano al caro El Torpe il cui Movin’ On avevamo apprezzato per la capacità industriale e groovey di catapultare il blues più sanguigno in lande di disturbante fascino. Nelle mani dei sapienti manipolatori raggruppati sotto l’autoironica sigla Various Talented Artists il blues del futuro di El Torpe assume connotati ancor più coinvolgenti, fatti di elaborazioni da dancefloor (Come Back Baby nelle mani di Mud di Otolab), atmosfere notturne e minacciose (Ezra su Rock Me Baby), crepitii e rifrazioni a cassa dritta (Baby Mine targata M16), ecc.. La dimostrazione che il blues è la musica da cui tutto parte?


#38 G i m m e S o m e I n c h e s

Andiamo dall’altra parte del globo per segnalare una fitta serie di uscite interessanti in terra australiana. Già da qualche anno noto ai più attenti follower del sottobosco post-punk (ma non solo), il Nuovissimo Continente continua a sfornare gruppi e label d’ottima fattura che hanno certo di che temere dal confronto internazionale. Iniziamo la carrellata ripescando dal mazzo un singolo uscito da già diversi mesi ma non per questo dimenticato. Debutto per i misteriosi NUN di Melbourne, Solvents è un 7’’ di soli due pezzi rilasciato dalla locale Nihilistic Orbs, già artefice dell’edizione domestica di Heat dei White Hex. Sulla carta il gruppo presenta tratti piuttosto diffusi nel giro: synth, drum machine, vocals robotiche e tutto il nécessaire. Eppure basta dare un paio di ascolti alla title-track per rimanere incollati alle case e rimandare in play ancora e ancora. Non è da tutti, specialmente al primissimo singulto creativo: c’è di che ben sperare per un full-length. Nuovo singolo anche per i gotici Rule Of Thirds. Alla prima uscita sul vinile dopo il demo tape dell’anno scorso, il quintetto di Adelaide è autore di garage cupo e incalzante che ben mescola la lezione dei Cramps con la tradizione locale dei vari Beasts Of Bourbon e Scientists. Solo una decina di minuti per questo 7’’ su No Patience, con l’opener Mouthful a fare da traino e già si intravedono rosee prospettive che speriamo non verranno deluse come a volte accade a gruppi che nascono e scompaiono con la medesima facilità. Restiamo su No Patience, ma spostandoci a Brisbane, e incappiamo negli Occults, duo (trio dal vivo) non troppo dissimile dai sopracitati Rule Of Thirds, anche se con un piglio leggermente più deathrock. Anche per loro debutto sulla breve distanza a base di sonorità scure e adrenaliniche al contempo, ben dimostrate da un brano come Sex After Death. A onor del vero va detto (qualora ce ne fosse bisogno) che nessuno di questi gruppi brilla per particolare originalità o innovazione, ma al contempo ciò non preclude un ascolto intrigante ed efficace. Fatevene una ragione, dunque: qui non troverete il disco dell’anno ma se siete degli insaziabili digger come noi, beh, qua c’è di che rosicchiare. Ancora in estremo oriente, ma spostandoci in territorio nipponico, troviamo ancora una volta all’opera Big Love, negozio di dischi, etichetta e fornitissimo distributore del sol levante. Non paga di aver appena pubblicato la stampa giapponese del nuovo, doppio Dirty Beahces (come ai tempi d’oro della discografia internazionale, verrebbe da pensare), la label di Tokyo rilascia un 7’’ per i danesi Vår (ex War) con The World Fell, il singolo estratto dal nuovissimo album No One Dances Quite Like My Brothers (Sacred Bones). Il lato B è quella The Boy or the Boot già apparsa sull’LP-compilation Five Years of Sacred Bones Records. Solo per i fanatici. Per tutti, invece, l’edizione in CD del medesimo No One Dances Quite Like My Brothers, sempre su Big Love. Unica differenza con l’edizione americana? La tracklist in ideogrammi. Stefano Pifferi, Andrea Napoli

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Massimo Volume

C A MPI M A G NETICI

#21

Lungo i bordi (Wea, Gennaio 1995)

Risulta sempre più stupefacente, negli anni e nel procedere delle uscite discografiche, il modo calibratissimo con il quale i Massimo Volume, band di stanze bolognesi, siano stati in grado di costruire la propria poetica. Vicende sonore che intrecciano armonie narrative: così potremmo definire il lavoro di Emidio Clementi, Egle Sommacal, Vittoria Burattini (oltre a Gabriele Ceci e, ora, Stefano Pilia), dai primi anni ‘90 pionieri di un incrocio magico - e peculiarmente italiano - tra post-rock (ma non solo) e spoken word. Lungo i bordi è, per i Massimo Volume, il disco della svolta, dopo un esordio (Stanze, 1993) ancora acerbo e accolto abbastanza tiepidamente. Nel 1995 la band va consolidandosi e affida la produzione di quest’album a Fausto Rossi, amatissimo da Clementi, artista sfaccettato, dalla poetica ipersensibile fatta da sempre di sussurri e grida (si pensi al balzo romantico che ha trasformato Faust’O nel Fausto Rossi che oggi possiamo ancora ascoltare live). Quelli di Clementi sono racconti autobiografici, storie di amici e compagni di vita bolognese, narrazioni, forse sogni o ricordi (La notte dell’11 ottobre), storie perlopiù indecifrabili una volta finite, difficilmente collocabili, solo raramente con un luogo e un tempo precisi. Lungo i bordi è una raccolta di racconti che sfiora il nodo dell’esistenza mantenendosi a lato, scorrendo introspettiva nelle vie di confine, in una periferia letteraria del raccontarsi. L’album è sorprendente nel dimostrare, per la prima volta, l’incredibile capacità di Egle Sommacal nel non costruire mai semplici sottofondi per le parole di Clementi: la magia dei Massimo Volume si annida in questa dote, ancora presente oggi, di non lasciare che la parola schiacci il suono e viceversa. I testi di Clementi sono piccoli film, brevi videoclip sospesi che chiedono, sempre, una colonna sonora, poi prontamente fornita dalla chitarra di Sommacal e dal beat pulito e quasi jazzistico di Vittoria Burattini. Post rock, si è detto, ma anche reiterazione ragionata delle strutture musicali, qualche elemento noise (Frammento 1), atmosfere sospese, chitarre elettriche tesissime (Fuoco fatuo), accenni swinganti decostruiti (Per farcela). Se negli annali è rimasto Il primo dio, brano dedicato e ispirato a Emanuel Carnevali - autore la cui poetica risulterà, anche nei dischi successivi, fonte di costante ispirazione per i testi di Clementi -, la forza di brani come Inverno ‘85, Meglio di uno specchio e una Nessun ricordo dal carattere quasi pop, fanno, se non la storia della musica italiana, senz’altro la definizione di un genere. L’eredità ancora mai raccolta dei Massimo Volume è stata declinata, negli anni, in modi diversi, ma spesso incapaci di rendere con altrettanta efficacia la forza dell’incontro suono-parola che ha contribuito a fissare, nel tempo e nella Storia, la band di Clementi & co. (7.8/10) Giulia Cavaliere

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The Breeders

c l ass i c a l b u m

Last Splash (4AD, Agosto 1993)

Siamo alla fine degli anni ‘80. Kim Deal cerca nuovi sbocchi creativi e soprattutto un gruppo più “suo” di cui essere, oltre che cantante e chitarrista, anche la principale compositrice. La leadership delle Breeders rimane infatti - e rimarrà - saldamente nelle mani della bassista e seconda voce dei Pixies, nonostante la band viva di fatto una nuova vita a ogni cambio di formazione. Breeders era innanzitutto il nome del complesso in cui da adolescente la Deal suonava insieme alla sorella Kelley; ma il quartetto titolare di Pod (1990) non comprende la gemella di Kim, bensì Tanya Donnelly (ex Throwing Muses), oltre a Shannon Doughton (alias Britt Walford degli Slint) e alla bassista Josephine Wiggs (con la partecipazione della violinista Carrie Bradley). Supergruppo? Del folk-punk delle prime Throwing Muses non ci sono che suggestioni, per non parlare del post-rock degli Slint; l’album prodotto da Steve Albini è - almeno per quanto riguarda la scrittura - una rivisitazione del sound dei Pixies dal versante Deal. Più asciutta, senza i guizzi nevrastenici di Francis o i fill di Santiago, ma non per questo meno fantasiosa, tanto che in molti considerano il disco superiore alle ultime prove dei folletti. Quando i Pixies si sciolgono, Kim può dedicarsi a tempo pieno alla sua creatura, di cui nel frattempo è uscito l’EP Safari (1992), piuttosto interlocutorio (e sempre molto pixiesiano). La formazione di Last Splash è cambiata per due quarti: Kelley Deal ha sostituito Tanya Donnelly (che intanto è andata a formare i Belly) e Jim Macpherson prende il posto di Walford dietro i tamburi. Le Breeders sono finalmente - sulla carta - un gruppo stabile. Il secondo LP si mantiene sul livello di Pod ma ha anche qualche freccia in più al suo arco: almeno un paio di potenziali singoli. Non è un caso se Cannonball arriva al n. 2 della modern rock chart di Billboard. Il brano in sé è un esempio lampante della semplicità/complessità delle canzoni à la Pixies, costruite su riff a incastro e scarti di dinamica che stanno alla scrittura pop un po’ come il cubismo geometrico di Braque e Picasso sta alla pittura moderna: presentare elementi simultanei scomposti per arrivare a una nuova sintesi. Le chitarre sono diventate più sporche e pesanti, perché nel frattempo gli stop & go e le dissonanze tipici dei Pixies di Doolittle sono diventati (anche) quelli dei Nirvana di Nevermind. Le altre canzoni hanno meno del collage; sfilano ballate dal cuore melodico in un guscio di chitarre rumorose (Invisible Man, Do You Love Me Now?) che non si fanno mancare neppure tentazioni surf (Flipside) e hawaiane (No Aloha), sempre flirtando con l’esotismo che Deal conosceva bene dalla sua precedente band. Non chiamatelo college rock, non chiamatelo punk, non chiamatelo noise: Last Splash è una riuscita combinazione di questi tre aspetti: il power pop del dopo hardcore (gravitiamo pur sempre dalle parti di Boston) è il format che forse si avvicina di più alle intenzioni delle Breeders, e diventa sublime in un pezzo come Divine Hammer. Un cofanetto da poco nei negozi celebra il ventennale di questo disco che fotografa perfettamente uno stato delle cose dell’alt rock del 1993. Un periodo, nel bene e nel male, assolutamente irripetibile, dove album come Last Splash erano nella norma (oggi non so...). Tra le curiosità c’è anche S.O.S., lo strumentale da cui i Prodigy hanno campionato il riff di Firestarter. (8/10) Tommaso Iannini

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sentireascoltare.com


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