Ripararsi di Elena Cavaciocchi

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RIPARARSI Elena Cavaciocchi

Visioni per la riabilitazione ai tempi della trasformazione

Ripararsi significa scoprire e riappropriarsi delle proprie capacità adattive e funzionali, attraverso un percorso di autoguarigione. Il libro contiene l’esposizione teorica delle più importanti scoperte riguardanti la neuroplasticità del cervello e del sistema nervoso centrale, ed è anche il racconto di un percorso che conduce il lettore dal buio della malattia, intesa come infermità, alla luce dell’accettare l’unicità del proprio corpo, comprendendone le peculiarità presenti o nuove e acquisendo capacità e conoscenze di sé.

Ripararsi è un’opera che prende in esame il tema della riabilitazione, partendo da un’esperienza condotta in gruppo. Oltre quindici anni di incontri settimanali in cui l’autrice ha lavorato con persone portatrici di svariate patologie: ictus, infarti, traumi – quindi persone che improvvisamente si sono ritrovate in un corpo diverso da quello che conoscevano; oppure soggetti con patologie neurologiche progressive che, lentamente ma inesorabilmente, modificano l’assetto fisico, psichico, sociale, economico delle loro vite e di quelle della famiglia; o ancora soggetti portatori di disabilità presenti fin dalla nascita. www.edizionienea.it

Elena Cavaciocchi

Ripararsi

Visioni per la riabilitazione ai tempi della trasformazione

© 2022 Edizioni Enea - SI.RI.E. srl

I edizione ottobre 2022 ISBN 978-88-6773-122-0

Art Direction: Camille Barrios / ushadesign Stampa: Graphicolor (Città di Castello)

Edizioni Enea Ripa di Porta Ticinese 79, 20143 Milano info@edizionienea.it - www.edizionienea.it

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di quest’opera può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta dell’editore, a eccezione di brevi citazioni destinate alle recensioni. Questo libro è stampato su carta che proviene da foreste ben gestite, foreste certificate FSC® e da altre fonti controllateQuesto libro è stampato su carta che proviene da foreste certificate FSC® e da materiali riciclati

Ai miei allievi “peggiori”: i miei migliori maestri.

Indice

Presentazione

1. Estrema-mente

2. Corpo estremo

I miei presupposti: psicologia e (ampi) dintorni Visioni altre sul corpo Segnali emergenti Rituali spontanei Reperti Storie e antropologie Nuovi sguardi Storie di danze Guarda in su Ri-evoluzioni Cre-attività

Lavorando a un sogno Nuove frontiere Bio-logia

Abitare il corpo Ripar-azioni Cavalca la tigre

3. Come ripararsi: il corpo ritrovato, l’unità ricomposta

Epilogo Bibliografia

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Presentazione

Sono onorata e felice di presentare il resoconto di una ricerca nella quale sono stata impegnata quotidianamente negli ultimi quindici anni. Credo che potrà essere utile a tutte le persone che si adoperano nel campo della riabilitazione, ma anche a chi si occupa di aiuto in generale, di insegnamento, e ai ricercatori.

Mentre nella cura mentale ci concediamo esplorazioni in sva riate direzioni, nella cura del corpo forse abbiamo ancora timore di uscire allo scoperto dichiarando i percorsi che ci hanno portato ad agire con certe modalità, e parlare apertamente di integrazione. “Integrazione” è la parola-chiave, il filo conduttore che ha ispirato l’esperienza che riporto in questo libro. Integrazione tra psiche, soma, emozioni e spirito da parte di chi opera la cura o conduce un gruppo.

Integrazione come obiettivo terapeutico oltre che evolutivo, per quanto riguarda chi riceve la cura. Integrazione di saperi: oggi possiamo farci coraggio e dire che ci ispiriamo a differenti punti di vista e che abbiamo seguito molteplici formazioni e orientamenti per venire in aiuto a noi stessi e poi all’altro. Bartali ni e Battaglia, che incontreremo più avanti nel corso della tratta zione, nel loro libro Con il filo di Arianna porgono coraggiosamente “l’invito, a chi si occupa dell’uomo, a dotarsi di una cultura trasversale (quando abbiamo) come obiettivo ambizioso quello di offrire all’individuo una nuova possibilità di esistenza” (Bartalini, Battaglia, 2009).

Integrazione nel considerare i parametri di un intervento. Esso dovrebbe comprendere l’aspetto tecnico specifico, ma anche oc-

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cuparsi del contesto in cui il soggetto che usufruisce della cura vive, si muove; i servizi che vengono erogati e la comunicazione fra questi, nonché fra gli agenti che conducono gli interventi sul soggetto stesso. È una questione politica, la cura. Comprende tan te sfaccettature, e più queste sono armonizzate, più essa penetra in profondità. Quindi sì, integrazione anche fra i vari erogatori. E potremmo continuare. Potremmo farlo insieme.

L’integrazione non è un processo che finisce. Integrare significa anche essere capaci di abbandonare le proprie convinzioni riguar do a una modalità di intervento, laddove constatiamo la sua inade guatezza in un certo momento. Naturalmente la nostra struttura, il nostro impianto di informazioni, formazioni ed esperienze rimane integro, ma elastico e pronto a lasciar entrare le nuove acquisizioni. Del resto: quali sono le caratteristiche di un corpo sano, di una mente sana? (quanto sono inadeguate queste distinzioni, che ancora il nostro linguaggio e la nostra cultura ci costringono a usa re. Mi viene in mente il Dialogo Bohmiano, nato dalla necessità che il fisico quantico David Bohm avvertì di creare un linguaggio che fosse aggiornato alle recenti scoperte della Nuova Fisica, poiché il vecchio linguaggio non era in grado di rispecchiare la complessità del nuovo approccio).

Una persona sana – ecco, mettiamola così – ha una struttura fisica, mentale. È dotata di un apparato scheletrico e muscolare che le consente la stazione eretta, la deambulazione, l’equilibrio; ma che è flessibile alle esigenze del momento, ne assicura l’ade guatezza delle risposte, l’adattamento alla situazione. Consente alla persona la possibilità di adottare nuovi schemi motori, o per necessità, o di fronte a un’emergenza; per paura, o per voglia di esplorare. Lo stesso si può dire riguardo all’aspetto intellettuale. Un soggetto ha la sua formazione, ma se è sano, vitale, curioso, allora è disposto a lasciarsi contaminare da informazioni anche divergenti, che andranno ad arricchire la sua mente ancor più delle informazioni in linea con ciò che sapeva fino a quel mo mento.

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Dunque, veniamo alla specificità dell’esperienza che vado a descrivere. Dal 2007 è in atto un Progetto di Attività Fisica Adattata per Disabilità Complesse, presso l’Associazione Arca con cui colla boro dal 2000. Lo abbiamo battezzato “Rimettersi in cammino”.

Le disabilità complesse riguardano sia problematiche presenti dalla nascita nella vita di una persona, sia malattie degenerative, sia eventi improvvisi come ictus, infarti o incidenti – che sono rappresentati nella maggioranza dei nostri utenti. In questi ultimi casi i soggetti si trovano improvvisamente catapultati in un corpo che non corrisponde più alle precedenti capacità motorie e cognitive. Dopo il ricovero e un ciclo di cure erogate dal Sistema Sanitario, fanno ritorno in una famiglia anch’essa impreparata ad affrontare la nuova situazione.

Le malattie a carico del Sistema Nervoso spesso hanno esiti imprevedibili e i medici stessi, al momento della dimissione, non sono in grado di dare indicazioni precise sull’evoluzione e sulle caratteristiche delle manifestazioni della malattia e del trauma. Così la famiglia “naviga a vista”. Se le conseguenze sono invalidanti per il soggetto colpito, un familiare dovrà dedicarsi alla sua cura; oppure, ci si dovrà appoggiare all’aiuto di una figura ester na, un assistente, una badante. Questa eventualità altera signifi cativamente l’equilibrio relazionale, affettivo ed economico della famiglia. Anche per quanto riguarda le malattie cardiovascolari, il quadro è analogo. Esse rappresentano nei paesi occidentali la prima causa di morbilità e mortalità, intorno al 40%.

In seguito, i pazienti sviluppano frequentemente forme depres sive, che raddoppiano la possibilità di morte e che aumentano i costi di gestione sia in termini economici diretti che indiretti (rinuncia al lavoro, spese farmaceutiche ecc.) a carico dei familiari e del Sistema Sanitario Nazionale. Pertanto, un percorso di intervento che tenga in considerazione anche la variabile psicolo gica è tanto importante quanto la gestione farmacologica. Sono debitrice al cardiologo Filippo Nannicini per questa riflessione.

Il caregiver, o assistente, è quella persona che per la maggior parte del tempo sta a contatto col soggetto sofferente. Può trattar-

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si di una figura interna alla famiglia oppure esterna. In ogni caso, il nostro corso è aperto, gratuitamente, alla sua partecipazione. Gli obiettivi di questa scelta sono:

generare benessere e prevenire forme di burn-out in entrambi i componenti della coppia;

creare una memoria degli esercizi e far sì che soggetto e caregiver possano ripeterli a casa;

acquisire buone prassi e mettere entrambi in sicurezza.

Come abbiamo scritto altrove descrivendo questo progetto (in particolare, per la partecipazione al Premio Terzani per l’Uma nizzazione della medicina), “l’orientamento pedagogico sfrutta il principio di self- empowerment, con l’obiettivo di fornire strumenti per la crescita personale, un long-life learning per una nuova conoscenza del proprio corpo, di nuove potenzialità, alla conqui sta di autonomia, autostima e cura di sé. […] Lavorare in gruppo aggiunge valore sociale al progetto, crea un setting di condivisione, reciproco aiuto, preparazione all’ascolto e al non giudizio, aumenta la motivazione dei partecipanti a continuare nel percorso, crea e rinnova relazioni. L’accoglienza e la compartecipazione sti molano empatia e voglia di migliorarsi; le caratteristiche del luogo (ambiente arricchito, ad altissima integrazione) aiutano ognuno a sentirsi meno medicalizzato, meno paziente e più persona. Attraverso gli esercizi fisico-espressivi, il paziente incontra se stesso, non solo nell’aspetto corporeo, ma anche emotivo ed energetico; diventa persona unica e unitaria, insieme di limiti e possibilità che non evidenziano le distanze dall’altro, ma la consapevolezza di essere capaci ognuno a suo modo” (Cavaciocchi e coll., 2015).

Ho ritenuto di procedere così, nella mia trattazione: partire dai presupposti scientifici, umanistici, ai quali mi ispiro e sulle cui basi il mio lavoro poggia, per poi passare a raccontarlo.

Vi auguro buon viaggio.

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Estrema-mente

“I sistemi complessi sono sistemi il cui comportamento non può essere compreso in maniera semplice a partire dal comportamen to dei singoli elementi interagenti tra loro, ovvero la cooperazio ne dei singoli elementi determina il comportamento ‘in toto’ dei sistemi globali e fornisce loro delle proprietà che possono essere completamente estranee agli elementi singoli che costituiscono il sistema stesso. Questa proprietà è chiamata comportamento emergente”. Così scrivono Battaglia con Bartalini nel loro libro Con il filo di Arianna (2009).

Lavorando il corpo in un certo modo, questo può compiere azioni che sarebbero impensabili, trattando lo stesso corpo in maniera analitica. Tutto questo conferma la definizione di oli smo come la tendenza della natura a formare interi che sono più grandi della somma delle parti attraverso l’evoluzione creativa. È anche definito dall’idea che le proprietà di un sistema non possono essere spiegate esclusivamente tramite le sue componenti. Del resto, ogni organismo biologico possiede questa caratteristica. Te nendola presente, si possono ottenere risultati molto significativi. Sempre secondo Battaglia, “il sanitario, per essere un vero riabi litatore […] deve essere, più che uno ‘specialista’ di settore, un uomo che sa di… in senso umanistico e illuministico: si confronta con l’uomo che sta male in modo da accedere alla sua dimensione globale con il passaggio dall’analitico all’olistico” (Bartalini, Battaglia, 2009).

Di fronte a un soggetto, si contrappongono almeno due mo dalità percettive: una, quella della scienza; due, le impressioni

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soggettive empiriche. Battaglia ci invita a considerare queste ultime come ipotesi essenzialmente simili alle ipotesi della scienza, partendo da esse per ricercarne la validità. Spesso le emozioni, i comportamenti e le comunicazioni non verbali ci indicano una strada percorribile per comprendere chi si ha davanti e ricercare una soluzione al suo dolore.

Un punto di vista sull’incontro che si ha con una persona speciale (come quella che viene inviata a un’Afa Speciale, Attività Fisica Adattata per disabilità complesse) ci viene data da una pro spettiva che potremmo definire ecologica. Qui, l’uomo è conside rato un essere dinamico in progressione fluida verso la conclusio ne della sua esistenza. Nel ciclo di vita sono inclusi momenti di crisi, in cui la persona subisce un arresto a cui segue una ripresa. Alle crisi evolutive si aggiungono le crisi di vita particolari per cia scun individuo, determinate dalle vicende della sua storia, unica e personale. Secondo questa visione dinamica, la crisi non rap presenta un’esperienza catastrofica, ma un punto di svolta dello sviluppo in cui esso deve prendere altre direzioni, continuare la propria evoluzione e differenziazione attraverso strade nuove che prima erano impensabili.

La crisi è un portale che la persona si trova ad attraversare e in cui è costretta a ridefinire le regole di un’esistenza che è diventata più complessa. I cambiamenti che avvengono nell’individuo durante il suo ciclo di vita hanno una eco più o meno diretta sulle modificazioni dei sistemi che interagiscono con la persona. Più importante è il disturbo o l’entità del danno subito, maggiore e più ampio è il raggio di azione sui sistemi, i cui confini possono dilatarsi fino a disgregarsi.

L’approccio olistico tiene in considerazione questi fattori, mirando a delineare un paradigma teorico che accolga contributi dalle diverse discipline che riguardano la persona e che a lei si rivolgono.

In questa mia trattazione, anch’io procederò in questa direzio ne, valorizzando ogni contributo che sia utile alla comprensione della condizione umana – in ogni fase della vita e con particolare

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riguardo ai momenti di fragilità – e al trattamento delle disabilità, specie quelle acquisite in seguito a un evento traumatico.

Concordo con Battaglia e Bartalini nella “consapevolezza che tanto ancora c’è da sapere per accedere al misterioso mondo della mente umana che sfugge alla ricerca e che disvela solo parte di se stessa, che lascia dubbi e semina perplessità” (ibid.). Dunque, gli autori affermano “che la progettualità riabilitativa può essere definita come una opera d’arte scientifica dove creatività, intuizione, percezione, sentimento, ricerca, misura, analisi, osservazione, empatia, eterocentrismo, riflessività, ascolto sono ingredienti ne cessari di cui lo studioso, il clinico, lo psicologo, il tecnico e le varie figure professionali e non, dovrebbero necessariamente dotarsi” (ibid).

Ho riportato questi estratti dagli scritti di Battaglia e Bartalini perché rileggendoli, dopo dieci anni dalla prima volta, mi sono rico nosciuta appieno nell’approccio da loro suggerito. E credo davvero che un operatore della riabilitazione, specie un conduttore di incontri di gruppo, possa giovare di una formazione olistica, accrescendo e perfezionando la sua sensibilità e in particolare la sua seconda attenzione (sulla quale torneremo in seguito, approfondendola) per cogliere in maniera significativa i segnali provenienti dagli utenti, dal loro sistema corpo e comportamento in senso esteso.

I giochi in una relazione, anche una relazione d’aiuto, sono fatti di segnali minimali che, se saputi cogliere, fanno la differenza nello sviluppo del rapporto e nell’evoluzione reciproca. Nessuno forse insegna a una madre come trattare il suo figlio neonato. Lei prova a prenderlo in un certo modo, poi impara. E apprende a distinguere il suono del pianto, modulando la sua risposta sulla base della percezione. Lo stesso accade fra due amanti… ed è l’ascolto profondo e la conoscenza reciproca che fa di un incontro qualcosa di pieno e soddisfacente.

Ancora. Un occhio o un orecchio attenti capiscono, conducen do un gruppo, che cosa è bene proporre in un particolare mo mento di una particolare giornata. Possiamo aver preparato un programma interessante per quell’incontro. Ma può capitare di

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sentire che c’è bisogno di altro. Allora, come un bravo artista, dobbiamo essere pronti a improvvisare. E, per poter far fronte a questa evenienza, è bene esserci dotati di un bagaglio di proposte varie e fantasiose. Nella mia esperienza, essere una danzatrice, aver frequentato e condotto centinaia di lezioni, con maestri e gruppi diversi, per età, estrazione, condizione fisica, dai bimbi piccoli agli anziani, da classi scolastiche impegnative a gruppi di danzatori con competenze avanzate, aver coreografato per decenni, tutto questo costituisce una risorsa inesauribile di proposte possibili. Per questo dedicherò un apposito paragrafo ad alcune indicazioni pratiche e possibilità da offrire ai gruppi nelle varie occasioni e di fronte alle esigenze che si presentano.

Tornerò adesso al campo dei presupposti teorici dell’intervento riabilitativo di gruppo, continuando a seguire “il filo di Arian na”, su un tema che mi sta particolarmente a cuore: l’autopoiesi. “Un sistema autopoietico è organizzato come una rete di processi di produzione (trasformazione e distruzione) di componenti che produce le componenti stesse, che attraverso le loro interazioni e trasformazioni rigenerano continuamente e realizzano la rete di processi (relazioni) che le producono e le costituiscono come un’u nità concreta nello spazio in cui (le componenti) esistono, speci ficando il dominio topologico della sua realizzazione in quanto tale” (Varela, 1996). E anche: “I sistemi autopoietici operano come sistemi omeostatici che hanno nella propria organizzazione la variabile critica fondamentale da essi attivamente mantenuta costante” (Maturana, Varela, 1985). E, ancora, loro: “La cogni zione è un fenomeno biologico e può essere compresa soltanto come tale” (ibid.). Trascrivo questi importanti presupposti perché rappresentano bene il paradigma in cui il mio intervento si realizza. Anche Piaget spiega che il mondo non è qualcosa che “ci è dato”, ma qualcosa a cui noi prendiamo parte nel modo in cui ci muoviamo, tocchiamo, respiriamo e mangiamo. In questo, è evidente anche l’inclusione del Principio di Indeterminazione di Heisenberg, che ha aperto un varco luminoso su tutto il dogmatismo che aveva caratterizzato la scienza fino a quel momento, po-

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nendo l’accento su quanto l’atteggiamento (e anche la disposizione inconscia) di chi osserva interferisce col fenomeno osservato.

Tradotto nel campo di cui ci stiamo occupando, ciò significa che il mio modo, come tecnico della ri-abilitazione, di vedere e considerare l’altro, nella sua complessità di corpo, mente ed emo zioni, influenza marcatamente l’andamento del processo riabilitativo stesso.

Per esempio, se i parametri dell’intervento si limitano al recupero di una o più competenze motorie, intendendo come “recu pero” lo svolgimento del gesto come era prima dell’evento trau matico o della malattia, verosimilmente il risultato sarà scarso. Ma se io sono aperta ad accogliere variazioni nello svolgimento di quella azione o funzione, apprezzando e includendo anche modalità non previste o prevedibili prima, che però siano appun to funzionali nel momento presente, allora il risultato sarà (va riamente) positivo. Infatti, la struttura di una unità autopoietica può mutare senza che essa perda la sua identità. Ma è necessario assumere la possibilità di autopoiesi come paradigma, per poter mettere in conto questa eventualità. “Il Sistema Nervoso Centrale può a tutti gli effetti essere considerato un sistema autopoietico in continuo rimodellamento. In questa ottica, se un evento lesivo ne modifica struttura e relazioni (come nel caso del trauma cranico encefalico), attraverso un’adeguata elaborazione di stimoli significativi che consentono di interferire gli uni sugli altri entrando in comunicazione attraverso un ‘accoppiamento strutturale’, pos siamo indirizzare questo ‘fisiologico rimodellamento’ verso mu tamenti organizzativi biologicamente utili rispetto al recupero di funzioni alterate” (Bartalini, Battaglia, 2009).

A questo punto, il passo successivo è cercare di analizzare il concetto di neuroplasticità, una scoperta davvero grandiosa che ten terò di riassumere.

La storia della neuroplasticità è la storia di una grande avven tura. Dagli anni ’70 in poi molti ricercatori si sono imbattuti in fenomeni di riorganizzazione funzionale del cervello e del com-

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portamento che non potevano essere spiegate tramite le teorie localizzazioniste. Ossia: prima si pensava che singole funzioni avessero sede in singole aree del cervello. Per cui, una volta lesio nata una certa area, si lesionava (definitivamente) la funzione che lì “abitava”, con gradazioni differenti a seconda della gravità del danno. In realtà, e fortunatamente, tanti pazienti esaminati sono stati protagonisti di recuperi o guarigioni impensabili, considerando l’estensione del danno subito. Così, questi ricercatori sono andati oltre e hanno scoperto che il cervello si può riorganizzare. Rigenerando parti lese o ricablando l’anatomia cerebrale. A que sto processo è stato dato il nome di neuroplasticità. Le comunità scientifiche, in diversi spazi e tempi, non hanno accettato questa ipotesi, e tanti ricercatori hanno condotto vite da carbonari, subendo accuse di cialtroneria, tagli dei fondi di ricerca, boicottaggi e storie simili. Nondimeno, i fatti erano indiscutibili. Ma, come si sa, ogni nuova scoperta porta con sé la necessità di ripensare e cambiare le procedure di intervento, e per questo incontra le resistenze del mainstream. Per fortuna però questi ricercatori, superando mille ostacoli, hanno continuato la loro missione, seppur in solitudine.

Il Sistema Nervoso è capace di modificarsi in senso strutturale: a livello chimico, molecolare, cellulare, di neurotrasmettitori, e persino di geni; e in senso funzionale. Questo è possibile attraverso la generazione di nuove sinapsi e la costituzione di nuovi circuiti attivi. E questo può accadere in risposta a eventi fisiologici (durante lo sviluppo per esempio); in seguito a eventi patologi ci (cerebrolesioni dovute a varie cause); in risposta a stimoli am bientali significativi (non stimoli qualsiasi o sopramodali come nei processi di apprendimento consueti).

Il BDNF (Brain Derived Neurotrofic Factor), una neurotrofina fondamentale nei processi di plasticità, incrementa significativa mente nell’esercizio finalizzato – ma non nel movimento afinali stico o in attività in assenza di motivazione o in stato di inconsa pevolezza cognitiva; inoltre, eventi stressanti acuti o cronici con produzione di corticosteroidi, e attività GABA (Acido Gamma

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Ammino Butirrico) energiche inibitorie quali stress da eccessivo o inappropriato carico di lavoro, ne bloccano l’azione. In particolare, nel corpo, il soggetto con danno neurologico centrale soffre di de ficit nei valori fondanti il corpo in movimento. Questi valori sono:

• la modificabilità, ossia la capacità di modificare costantemente le relazioni tra le parti del corpo per disporsi a raccogliere informazioni;

• la frammentabilità, ossia la capacità di ogni elemento del corpo di muoversi separatamente dagli altri ma in modo coordinato;

• la variabilità, cioè la capacità degli elementi del corpo di inter connettersi tra loro in modi infinitamente diversi, a seconda del compito che sono chiamati a svolgere all’interno di un’azione.

Tenendo in considerazione questi fatti, è possibile intervenire sulla persona lesionata tramite proposte che sono volte a stimola re la neuroplasticità.

Ma che cos’è la neuroplasticità? Seguiamo insieme le orme dello psichiatra Norman Doidge che nei suoi libri Il cervello infinito (2008) e Le guarigioni del cervello (2016) traccia la storia di tanti scienziati che, alle frontiere delle neuroscienze, dagli anni ’60 hanno com piuto scoperte inattese che portavano tutte alla medesima conclu sione, e cioè che il cervello modifica la propria struttura a livello di ciascuna funzionalità specifica e perfeziona i propri circuiti per renderli più adatti al compito da svolgere. E hanno ottenuto guarigioni in pazienti che prima erano considerati inguaribili. Inutile specificare che neuro sta per neuroni, le cellule di cui è composto il Sistema Nervoso, e plastico significa modificabile.

Michael Merzenich è un neurologo dinamico che scoprì che quando un grande nervo periferico, dotato di molti assoni, viene reciso, talvolta succede che “i fili si incrociano” (Doidge, 2008). Quando gli assoni ristabiliscono il collegamento con gli assoni del nervo lesionato, il soggetto può sperimentare false localizzazioni: per esempio, toccando il suo dito indice, egli avverte una sensazione tattile nel pollice. Merzenich e la sua équipe scoprirono inoltre

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che i nervi, anche se recisi, inviavano giusti segnali al cervello; la mappa cerebrale si riordinava topograficamente. Questo significa che le mappe cerebrali sono dinamiche; addirittura, possono variare da un giorno all’altro. Dagli esperimenti condotti si evidenziava che, se un nervo fosse stato reciso, altri nervi avrebbero preso il controllo della porzione di mappa utilizzata. Le mappe cerebrali entrano in competizione fra loro per ottenere questo controllo, e questa competitività è sempre in atto. Secondo il principio use it or lose it, se smettiamo di usare una facoltà mentale, la sua parte di mappa viene occupata da altre che continuiamo a esercitare. Oltre alla competitività e al principio use it or lose it, gli studiosi dei fenomeni neuroplastici, e in particolare Donald Olding Hebb, intorno al 1949 (ma anche Freud all’inizio del secolo), scoprirono che i neuroni che si attivano simultaneamente si legano fra loro.

Per esempio, quando raccogliamo un oggetto, lo afferriamo con il pollice e l’indice, e lo avvolgiamo poi con le altre dita; così accade che, nel nostro cervello, le mappe di pollice e indice tendono a fondersi insieme. In progressione, si formano le mappe relative alle altre dita, che afferrano dopo. La maggior parte delle mappe cerebrali lavora raggruppando spazialmente eventi che si verificano simultaneamente. La mappa uditiva, per esempio, è disposta in modo simile alla tastiera di un pianoforte. Da tener presente per i nostri fini riabilitativi che se le mappe cerebrali diventano più grandi, i singoli neuroni che lì si collocano funzionano meglio. A livello motorio, è interessante notare che un bambino che si appresta a suonare il piano, dapprima utilizza tutta la parte superiore del corpo. Progressivamente, impara a usare solo il dito giusto. Più i neuroni vengono esercitati e più diventano efficienti, e veloci nell’elaborazione dei dati. La velocità del pensiero umano è anch’essa plastica, ed è essenziale per la nostra sopravvivenza. Da notare anche che, per stabilizzare le modificazioni delle mappe cerebrali, è necessario che gli esercizi vengano svolti con molta concentrazione (ed è la modalità con cui cerchiamo di procedere, come vedremo in seguito). Abbiamo prima rammentato il BDNF (Fattore Neurotropico Cervello Deriva-

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to). Ebbene, quando svolgiamo attività che richiedono che alcuni neuroni specifici si attivino insieme, questi rilasciano il BDNF, che va a consolidare le connessioni fra neuroni e la crescita della guaina mielinica che li avvolge, accelerando la trasmissione dei segnali elettrici. Un’altra funzione del BDNF è che ci fa ricordare le esperienze. Esso permette la differenziazione delle mappe e fa sì che i cambiamenti si verifichino senza sforzo.

Nell’invecchiamento diventa più difficile registrare nuovi eventi nel nostro Sistema Nervoso: la velocità di elaborazione diminu isce, così come l’accuratezza, l’efficacia e la chiarezza delle per cezioni. E, se non si registra con chiarezza, non si può ricordare. Comunque, la neuroplasticità esiste sempre: l’unico requisito è che il soggetto deve ricevere una ricompensa o una penalità, per mantenere viva l’attenzione (e qui si entra nel dominio della do pamina, di cui ci occuperemo più avanti, in particolare riferendo ci ai pazienti con Parkinson).

Un altro padre della neuroplasticità è stato Paul Bach-y-Rita. Egli scoprì in diversi casi che il cervello può essere ricablato tramite esperienze sensoriali. Lavorò con pazienti con gravi lesio ni dell’apparato vestibolare, una delle quali, Cheryl, dopo la sua guarigione divenne terapista della riabilitazione e collaboratrice di Paul. Egli morì nel 2006, e un anno dopo la neuroplasticità fu riconosciuta dal mondo della scienza. Anche la vita di Paul è stata molto avventurosa, ma qui mi limito a raccontare una storia che lo riguarda, perché ha molto a che fare con il tema che stia mo trattando. Nel ’59 suo padre, Pedro, sessantaquattrenne, ebbe un’emorragia cerebrale: rimase paralizzato nel volto, in metà del corpo, e non poté più parlare. Il fratello di Paul, George, era allora studente di medicina. Poiché dopo un classico programma di riabilitazione di un mese Pedro non aveva ottenuto nessun miglio ramento, George decise di occuparsi personalmente del padre. Fortunatamente era libero da preconcetti e teorie riduzioniste, e questo gli permise di violare tutte le regole “scientifiche” del suo tempo. Valutò che la maggior parte di noi per imparare a cammi-

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nare passa dal gattonamento, e così decise che Pedro avrebbe dovuto ripartire da lì. All’inizio lo dovette sorreggere, perché Pedro non aveva abbastanza forza negli arti. Fu dotato di ginocchiere, e non appena fu in grado di sostenersi in qualche modo, George lo fece appoggiare al muro con il braccio e la gamba colpita. Questa prassi durò per mesi. Poi, come si fa con i bambini che gattonano, i due giocavano insieme sul pavimento nel giardino di casa: George rotolava le biglie e Pedro le doveva raccogliere, usando anche la mano lesa. Ogni momento del quotidiano diventava per loro un’occasione per esercitarsi. Un passo dopo l’altro, Pedro riuscì a spostarsi sulle ginocchia, poi ad alzarsi in piedi e infine a muo versi autonomamente. Riprese a parlare e a scrivere a macchina. Dopo un anno, il suo recupero fu tale da permettergli di tornare a insegnare. A 70 anni andò in pensione, accettò un nuovo inca rico in un’altra città e si risposò. A 72 anni morì per un infarto a 2700 metri di altitudine, durante un’escursione in montagna. Era il ’65 e all’epoca, non esistendo ancora il neuroimaging, le autopsie erano una procedura normale. Incredibilmente, l’autopsia rivelò un’ampia lesione nel cervello, che non era mai guarita dal momento dell’ictus: eppure, Pedro aveva recuperato molte funzioni! I centri cerebrali più importanti legati al controllo del movimento erano distrutti; il 90% dei nervi che vanno dalla corteccia cere brale al midollo spinale erano danneggiati. Questo significava che il cervello di Pedro si era totalmente riorganizzato attraverso il lavoro condotto dal figlio George.

Paul Bach-y-Rita si dedicò con entusiasmo al suo lavoro con la riabilitazione, aiutando centinaia di persone colpite da ictus, morbo di Parkinson, traumi cranici con esiti vari. Utilizzò diverse tecniche, che non sto qui a elencare, ma che si riconducono tutte al principio che il cervello è più adattabile e opportunistico di quanto pensiamo.

Smettere di usare delle funzioni produce un fenomeno che si chiama learned non use: per esempio, un paziente colpito da ictus, per un po’ cerca di muovere l’arto leso; non ci riesce, impara che l’arto non funziona, e così comincia a usare solo l’arto sano (ve-

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dremo più avanti il contributo del neuroscienziato Edward Taub a tal proposito). Il fenomeno riguarda casi di ictus, lesioni parziali del midollo, paralisi cerebrale, afasia post ictus, sclerosi multipla, traumi cranici, decorsi post-operatori in pazienti epilettici, Par kinson, patologie psichiatriche ecc.

Nelle lesioni cerebrali, alcuni neuroni muoiono, smettendo di emettere segnali; altri rimangono danneggiati, ma non necessariamente diventano silenziosi: anche un circuito cerebrale spento continua a produrre segnali elettrici a un ritmo diverso, spesso più lento. Tali segnali irregolari influenzano i network vicini, mandan doli in confusione. “Rumore” è un termine che si usa per descri vere ciò che accade in un sistema che non riesce a distinguere i segnali normali perché troppo deboli rispetto al rumore di fondo. Di qui la definizione di “cervello rumoroso”. I neuroni si attivano con un ritmo errato o insolito in caso di epilessia, Alzheimer, Parkin son, disturbi del sonno, nell’anziano, nei bambini con DSA ecc. Si ha un deperimento neuronale anche in aree lontane da quelle danneggiate, che probabilmente ricevono segnali confusi. La persona con simili disturbi smette così di compiere azioni che risultano faticose e complicate: ed ecco il learned non use. Eppure, le aree deputate allo svolgimento di suddette azioni non ospitano neuroni morti, ma sofferenti, i quali emettono e ricevono segnali deboli e confusi. Ebbene, la sincronia dei neuroni sopravvissuti può essere recuperata, e le abilità dormienti possono essere risvegliate, tramite interventi basati sulla neuroplasticità. I network neuronali danneggiati possono essere sostituiti da altri, perché si tratta di network appunto, ossia di circuiti che si formano per poter affron tare i compiti. E questo è stato abbondantemente dimostrato, fin dai tempi di Lashley, il quale scoprì nel 1923 che l’apprendimento e le abilità non vengono codificati in neuroni specifici, né nelle connessioni fra neuroni, ma nei pattern cumulativi di attività elet trica che risultano dall’attivazione simultanea dei neuroni interes sati (ipotesi poi ripresa da Karl Pribam). E questi patterns spesso sopravvivono in caso di danno strutturale al cervello. Si possono separare struttura e funzioni solo nelle macchine: esse sono accese

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o spente, e la materia di cui sono costituite è inanimata. Ma negli organismi, ci troviamo di fronte a processi. Non solo. Il pensiero è fondamentale. Di per sé, non può forse “resuscitare” un tessuto necrotico; tuttavia, è in grado di stimolare i tessuti rimasti sani per riorganizzarsi e svolgere le funzioni perdute.

Norman Doidge descrive cinque fasi della guarigione neoplastica, specificando che non necessariamente esse hanno luogo in un certo ordine, né è necessario che ogni paziente le attraversi tutte. Vediamole.

• Fase uno: correzione delle funzioni generali cellulari dei neu roni e delle cellule gliali. In certi casi, come l’autismo, i DSA e la demenza, ma anche disturbi psichiatrici comuni, il cervello risulta “cablato male” a causa dell’intervento di una fonte esterna (infezioni, tossine, metalli pesanti, pesticidi, farmaci, intolleranze alimentari; talvolta, insufficiente apporto di alcuni minerali) che ha colpito neuroni e cellule gliali. In questa fase, il problema deve essere corretto chimicamente; così, si può procedere verso il percorso che a questo punto può sfruttare le capacità neuroplastiche del cervello.

• Fase due: neurostimolazione energetica delle cellule cerebrali. Permette di riattivare i circuiti addormentati attraverso: suono, luce, elettricità, vibrazione, movimento, pensiero (quindi fonti esterne e interne). Il pensiero, se utilizzato adeguatamente e sistematicamente, è uno strumento potente: esso può accendere alcuni circuiti, e spengerne altri. A questo proposito sono inte ressantissimi gli esperimenti di Moskowitz sul dolore cronico, che vedremo in seguito. I circuiti attivati vengono prontamen te irrorati, per essere riforniti di energia come nella terapia di Taub e la Camminata consapevole di John Pepper, un esercizio in cui il soggetto deve stare costantemente concentrato sui suoi passi e le parti del corpo in essi coinvolti, pronunciando men talmente il nome delle azioni che compie.

• Fase tre: neuromodulazione. Altra modalità interna che rista bilisce l’equilibrio tra eccitazione e inibizione nei network neuronali, e calma il cervello rumoroso. Il paziente neurologico

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– ma anche alcuni DSA ecc. – non regolano adeguatamente le sensazioni: possono essere esageratamente sensibili o insensibili. Così, può rivelarsi necessario resettare il livello di allerta, agendo su due sistemi sottocorticali.

Il primo è il Sistema Reticolare Attivatore, o RAS, che regola il livello di coscienza e di allerta del soggetto. Accende il resto del cervello e controlla il ciclo sonno-veglia. Resettatolo, si permette al cervello di recuperare energia.

Il secondo è il Sistema Nervoso Autonomo (cioè non soggetto al controllo volontario). È composto di due parti. La prima è il Si stema Nervoso Simpatico, che è deputato alla risposta “combatti o fuggi”: invia il sangue al cuore e ai muscoli, per fronteggiare un pericolo o sfuggirlo. L’azione di questo sistema, volta alla soprav vivenza nell’immediato, non lascia spazio ai processi di crescita e di guarigione; quindi, non c’è energia per i processi neuroplastici. L’altra componente è il Sistema Nervoso Parasimpatico: esso disattiva le reazioni del Simpatico, lasciandoci calmi, in condizione di riflettere, nonché di recuperare energia. Tale condizione innesca reazioni chimiche che favoriscono la crescita, conservano l’energia, facilitano il sonno ecc., permettendo che avvenga la guarigione. Ricarica i mitocondri, le riserve di energia interne alla cellula; migliora il rapporto segnale-rumore nei circuiti cerebrali, contribuendo a calmare il cervello rumoroso. Infine, aiuta l’attivazione di un “sistema di coinvolgimento sociale”, per dare spazio alle relazioni e riceverne sostegno e conforto.

• Fase quattro: neurorilassamento. A questo punto, disattivata la modalità “combatti o fuggi”, il cervello può dedicarsi alla ripresa. Dormendo, esso apre i canali che gli permettono di eliminare i prodotti di scarto.

• Fase cinque: neurodifferenziazione e apprendimento. Arrivati qui infatti il cervello è pronto ad apprendere, fare distinzioni ecc. Considerando sempre che ogni cervello è diverso da un altro, e che non esistono due soggetti uguali.

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Ringraziamenti

I ringraziamenti sono infilati qua e là nel testo, e spero che riesca no ad arrivare a destinazione in tutta la loro intensità. Per quanto riguarda la fase finale e tecnica, esprimo qui la mia gratitudine verso Elena Biscardi, attentissima nella revisione del testo e preziosa nella ricerca delle citazioni; e Caterina Guadagno, che ha rinunciato a meravigliose ore di sole e di mare per accompagnarmi nei primi passi della correzione. Ringrazio il mio editore, Lorenzo Locatelli, per avermi lasciata libera di esprimermi.

Grazie a voi, per essere arrivati fin qua. La ricerca non ha fine, grazie per la strada prossima che vorrete percorrere insieme a me e alle meravigliose persone che questo lavoro mi ha permesso di incontrare. Ce ne sono ancora molte altre là fuori…

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Elena Cavaciocchi è psicologa, psicoterapeuta e trainer certificata di tecniche di rilassamento. Danzatrice, coreografa e insegnante di danza espressiva, si dedica dagli anni ’80 alla ricerca di una disciplina che integri le conoscenze sulla psiche con l’espressione corporea. Nel tempo si è orientata sempre più chiaramente verso obiettivi riabilitativi, sia nel campo del disagio psichico e sociale anche grave, sia dell’handicap motorio, anche acquisito. Conduce varie esperienze, individuali e di gruppo, sia terapeutiche che formative, in numerosi ambiti. Dal 2008 collabora con la Asl di Prato dirigendo il progetto “Rimettersi in cammino” rivolto a persone con disabilità complesse; inoltre, si dedica a gruppi rivolti a persone malate di Parkinson e di fibromialgia.

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