WILD. Pane selvaggio di Martino Beria

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~ THE HOME BAKERY ~

Ma r t i n o B e r i a

WILD

P A N E S E LV A G G I O

Come fare pane, focacce e altri prodotti da forno con farine macinate a pietra, lievito madre selvaggio e acque fermentate



Mart ino Beria

WILD pa n e s e lva g g i o Come fare pane, focacce e altri prodotti da forno con farine macinate a pietra, lievito madre selvaggio e acque fermentate


© 2020 Edizioni Enea - SI.RI.E. srl Prima edizione: novembre 2020 ISBN 978-88-6773-104-6 Fotografie: Martino Beria (eccetto pp. 52, 64, 102, 104, 130, 146, 186, 190, 196, 201 di Veecoco e pp, 14, 150, 166, 239, 253 di Antonia Mattiello) Revisione: Antonia Mattiello Art Direction: Camille Barrios / ushadesign Stampa: Lineagrafica (Città di Castello) Edizione realizzata in collaborazione con Gruppo Macro Via Giardino 30, 47522 Cesena (FC) - www.gruppomacro.com Edizioni Enea Ripa di Porta Ticinese 79, 20143 Milano info@edizionienea.it - www.edizionienea.it Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di quest’opera può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta dell’editore, a eccezione di brevi citazioni destinate alle recensioni.

Questo libro è stampato su carta certificata FSC®


I due odori piĂš buoni e piĂš santi son quelli del pane caldo e della terra bagnata dalla pioggia. ardengo soffici



INDICE 9

Prefazione di Danilo Gasparini

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Premessa

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Introduzione Dei grani e dei pani: la genialità umana I grani antichi Le farine selvagge Farine molite a pietra, utilizzate fresche

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PA R T E P R I M A – I L L I E V I T O M A D R E S E LVA G G I O 53 59 69 79

Il lievito madre Come iniziare uno starter di lievito madre Il rinfresco del lievito madre selvaggio Le acque fermentate

PA R T E S E C O N D A – I L PA N E S E LVA G G I O 89 91 95 97 101 103 105 107 111 117 119 138 147 149 151 153 155 157 159 161

Attrezzatura Come impastare L’autolisi La fermentazione in massa Lo staglio e la porzionatura La prima formatura e la puntatura a banco La formatura finale La lievitazione finale La cottura Come conservare il pane Il pane step by step Tabelle del processo produttivo Come calcolare l’idratazione totale di un panificato Pane base di grano tenero emiliano 100% Senatore Cappelli 100% verna integrale 100% farro integrale con acqua fermentata 100% timilia integrale 100% maiorca burattata 100% jervicella

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100% solina 100% frassineto 100% gentil rosso 100% perciasacchi 100% marzuolo (timilia veneta) 100% farro marchigiano burattato 100% russello 100% segale 4 grani

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PA R T E T E R Z A – L A P I Z Z A E L A F O C A C C I A R U S T I C H E

La pizza rustica Formule per pizze La focaccia rustica Formule per focacce

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PA R T E Q UA R TA - A LT R I PA N I F I C AT I

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Premessa agli altri panificati Baguette semintegrale Panfrutto goloso con acqua fermentata e lievito madre Piadina Tigella Frisa Cracker Grissini Bretzel Puccia Pane arabo SchĂźttelbrot. Mini dischi di segale Taralli rustici

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BIBLIOGRAFIA

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P R E FA Z I O N E . L E T T E R A A L L’AU TO R E

Quanta storia, la storia, e quante storie in una pagnotta di pane.Ti chiedo placet Martino per abbozzarne alcune: troppo appetitoso l’invito. Non so se, nel pensare al titolo di questa tua nuova “infornata”, avevi in mente il suggestivo testo di Piero Camporesi, Il pane selvaggio appunto, uscito nel 1980. In quel percorso di finissima erudizione di testi letterari alternativi e diversi, Camporesi raccontava del pane selvaggio come pane della fame, della carestia, della miseria, degli assalti ai forni che obbligava torme di miserabili e pitocchi ad andare “per il mondo malabiando” e invadere le città. Menego, protagonista del Dialogo Facentissimo di Ruzante, recitato durante la carestia del 1528, conta, aiutandosi con le dita, i mesi che lo separano dal pane che fugge: “Gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio e mezzo giugno al frumento. (Sospira) Oh, non ci arriveremo mai! Canchero, non è un anno ben lungo, questo. Io so che il pane scappa da noi, ma sì, più che le passere dal falco”. E allora se pane doveva essere si cercava di mescolare la scarsa e carestiosa farina con il tribolo acquatico, la ghianda, la castagna, la rapa, il navone, la gramigna, il lupino, la pastinaca, il radicchio selvatico, i semi d’abete, la coccola d’alloro, l’asparago selvatico, la nocciola, la sorba, la zucca, la foglia degli olmi e l’infinto mondo dei “menudi”, dei cereali inferiori, di tutte le radici “più innocenti e più gustose”. Un incredibile serbatoio, un’arca della salvezza, “d’ingredienti impropri che bolliti, pestati, setacciati, ridotti in farina e variamente miscelati potevano diventare un incerto e approssimativo pane, vagamente affine a quello di frumento” (P. Camporesi), con, a volte, annessi effetti allucinogeni perché in quelle miscele finiva di tutto. Era la caccia al “pane selvaggio” quella che si faceva tra i campi, i prati e i boschi per ricavare da ogni frutto, erba selvatica o addirittura dalla corteccia degli alberi, farina che potesse essere impastata e cotta per farne un pane commestibile. E poi ancora nel Settecento, a placare squassanti carestie, ci sarà il pane con le patate di Parmentier. Perché comunque e sempre pane doveva diventare, da millenni. Questo il pane selvaggio. Ma c’è anche il “pane annuale” di tante comunità alpine, come quella di Villar-d’Arêne, nella regione dell’Oisans nelle Alpi francesi, studiata da Marcel Maget: qui, per secoli gli abitanti hanno preparato e cotto, tutti insieme, alla vigilia della ricorrenza di San Martino, pane di segale in pagnotte da 5 kg, destinate a durare tutto l’anno: è il pain boulli. E il forno diventava luogo di aggregazione della comunità prima del lungo isolamento invernale. Ma il cromatismo del pane è stato, per secoli, lo sappiamo, forte e tangibile marcatore sociale: la nascita di un pane bianco e delicato, realizzato con cerali pregiati, e destinato alle classi più agiate si contrapponeva a uno scuro e rozzo, impastato con cerali non raffinati, diventando per eccellenza, il pane dei contadini. Questa variazione cromatica si insinua tra la popolazione divenendo dogma essenziale, distinguendo un prodotto di lusso per l’alta borghesia e aristocrazia da uno comune per i poveri. Il secolare contrasto fra “pane da principi e da gran maestri” e il “pan da cani” instaura una “gerarchia del pane”. Il pane era il simbolo di uno statuto ideologico, prima ancora che un alimento reale. Giovenale annotava che conoscere la propria posizione significa conoscere il colore del proprio pane.

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Poi c’è anche il pane della scienza medica! I grandi medici dell’insegnamento ippocratico non esitavano a sostenere che il pane fosse un cibo perfetto, dotato di equilibrio tra i diversi componenti in quanto conteneva più sostanze nutritive di qualsiasi altro alimento. Michele Savonarola, medico padovano nel suo Libreto de tutte le cosse che se manzano (1450-1452) scrive: “Il pane adunca de lui facto (sta parlando dell’orzo) non è bono come quello de formento. Ma antiquamente, che la natura humana molto più forte era, lo usavano li mortali, hora hano i stomachi troppo delicati”. E ancora: “Il fomento più nutrica che tutti i altri grani e il sangue facto de lui è temperato assay più del sangue facto per gli altri grani”. Riprendendo quanto i maiores avevano testimoniato, Plinio aveva scritto: “Il migliorato tenore di vita ha condannato il pane d’orzo (mangiato dai Greci) in uso presso gli antichi, ed esso è ormai quasi cibo per le bestie”. Gli fa eco Columella: “È nei momenti di carestia non c’è altro cereale che salvi meglio dalla fame”, l’orzo appunto. Tra molti di questi testi di medicina, penso a quelli di Baldassare Pisanelli o di Castore Durante, bolognese il primo, perugino di nascita il secondo, risalenti al XVI secolo, nei quali si osserva empiricamente che alcuni di questi grani, di queste farine erano qualche volta enfiative, gonfiavano. La certificazione che alcune intolleranze comunque erano note… Non sapevano della celiachia di sicuro, ma avevano osservato e speculato. E arriverà poi la “rivoluzione bianca”, quella legata all’avvento dell’industria molitoria di fine Ottocento, quella dei mulini a cilindri che smonterà e vivisezionerà il chicco del grano separando tutte le sue componenti. Così il pane sarà più bianco, finalmente per milioni di consumatori che lo avevano sognato da generazioni, incorporando però più aria, costando meno, pronto velocemente, per una connessa industria della panificazione. Una farina economica, stabile, trasportabile e ricca di energia. Già, ma ammoniva allora Sylvester Graham in Treatise on Bread and Bread Making : rimuovere dal frumento la frazione della crusca, significava “dividere quel che Dio aveva unito”. Vedi Martino, quante storie (e non sono tutte), anzi la storia dell’umanità dentro a un chicco. Riprendendo le recenti suggestioni di James C. Scott, colpisce che tutti gli stati classici fossero basati sui cereali, compreso il miglio: non si sono basati sulla manioca, la patata dolce… I cereali sono più adatti alla concentrazione produttiva, alla valutazione dell’imposizione fiscale, all’appropriazione, alla rilevazione catastale, al magazzinaggio e al razionamento. Le colture agricole preferite dall’“esattore fiscale” premoderno sarebbero stati i cereali più importanti; parafrasando Sergio Endrigo, “per fare uno stato ci vuole un chicco”. Concedimi un’ultima glossa. Affronti il tema dei cereali antichi mettendo in guardia contro questa narrazione. Lo sai meglio di me: ci sono grani geneticamente antichi ma dal punto di vista agronomico storici… anzi recenti. Pensa al lavoro dei grandi costitutori di autarchica memoria, a Nazzareno Strampelli, Francesco Todaro, Emanuele De Cillis. È curioso quanto antico sia questo disquisito tema. Castore Durante, il medico sopra ricordato, scriveva nel 1586 nel suo Tesoro della sanità, “Frumenti sono chiamati il farro, la segala, l’orzo, il grano et la spelta. Si conoscono i buoni dal colore, dallo splendore, dal peso, da l’odore et dall’età: percioché i frumenti nuovi son troppo humidi et viscosi et difficilmente si digeriscono et son ventosi. Gli antichi son secchi et poco nudriscono”. Come vedi, vexata quaestio. E sulla macinazione, a cui dedichi belle pagine, mi taccio ricordando però, almeno due proverbi che stigmatizzano la figura del mugnaio: “Chi cambia muner cambia ladro” e “Chi

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va al mulin s’infarina”, perché, lo sai, il mulino era anche luogo di seduzione: basta riascoltare “La mamma di Rosina” cantata dai Gufi. Poi per il resto Martino non posso che inchinarmi alla tua scienza, al tuo saper fare, sperimentare, proporre ai lettori tecniche e processi, il tutto commentato da bellissime e calde immagini. Magari sono andato fuori tema… il lievito madre. Chiedo venia. Non ho altro che da imparare e quando si impara da un ex allievo vuol dire che abbiamo seminato in un terreno fertile e promoso, cioè curioso! Danilo Gasparini Autore, saggista e docente di Storia dell’Agricoltura e dell’Alimentazione all’Università di Padova e al master in Cultura del Cibo e del Vino presso l’università Ca’ Foscari di Venezia

PREFAZIONE

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PREMESSA

Quanto presentato in questo volume e, più nello specifico, le tabelle orarie e le tempistiche di fermentazione non vanno prese come fisse e indiscutibili. Scoprirete durante la lettura e con l’esperienza, che quando si fermenta sarebbe presuntuoso pensare di poter controllare i processi microbiologici, maggiormente quando parliamo di fermentazioni selvagge, senza aggiunta di inoculi preformati in industria. La panificazione selvaggia, con l’utilizzo di farine poco note e poco catalogabili, ne costituisce un chiaro esempio. Il grano Senatore Cappelli coltivato in un campo, differisce fortemente con quello coltivato in altro terreno e in un altro territorio. Questa differenza va a modificarne anche la flora microbica, che se fatta sviluppare in lievito madre, si fenomenizzerà con caratteristiche sue proprie. È quindi chiaro che il mio lievito madre rispetto al vostro risponderà differentemente, dando luogo a tabelle orarie diverse per ognuno di noi. In questo libro ho inserito alcuni passaggi tecnici tratti dal volume The Home Bakery per la chiarezza dell’esposizione e della didattica, pensando anche a tutti i nuovi lettori unicamente interessati all’utilizzo di farine integrali e molite a pietra. Passaggi come la cottura, la lievitazione finale e la formatura finale saranno simili o identici, sia nella produzione di pane con farine tecniche che con farine rustiche. L’ordine espositivo e argomentativo è stato mantenuto estremamente fedele nello sviluppo logico, rispetto al volume The Home Bakery, in quanto ritengo che lo studio della panificazione necessiti di un’analisi graduale, a partire dalla microbiologia, fino ad arrivare alla tecnica. Nella mia filosofia, questo vale per qualsiasi stile e materia prima utilizzata in panificazione. Inoltre, questo sarà estremamente vantaggioso per chi ha già letto il volume precedente, poiché avrà maggior dimestichezza nel trovare i riferimenti utili nell’arco della trattazione dei nuovi argomenti. Le ricette sviluppate in questo libro hanno come scopo quello di mostrare l’applicazione specifica delle tecniche insegnate e la resa particolare di alcuni grani monocultivar, spesso poco conosciuti, oppure intesi come troppo poco tecnici per poterci fare il pane. Vogliono quindi essere uno spunto dal quale partire per produrre i propri prodotti da forno. Le ricette della sezione dedicata agli “altri panificati”, come quelle dei pani ottenuti da mix di farine, non devono essere interpretate come immutabili: vogliono solo farvi comprendere come unire diverse varietà per ottenere differenti prodotti, arricchiti questi dalle farine stesse e dalle loro caratteristiche aromatiche. Per concludere, ciò che scrivo sui grani antichi non vuole essere un testo esaustivo: riguardo all’argomento ci sono fonti molto più autorevoli e complete. È stata mia intenzione, una volta ancora, dare uno spunto dal quale partire per informarsi riguardo a questo vastissimo argomento. Infine, per i contenuti presenti nelle tabelle di censimento e altre informazioni riguardanti questi grani storici, è stato fondamentale il contributo del professor Danilo Gasparini, che ringrazio e stimo da sempre.

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I N T R O D UZ I O N E

Il chicco è tutto. Il chicco è nuova vita. Se bagnato si attiva, modifica le riserve di amidi in zuccheri, germina, mette radici, fa spuntare le foglie, dà vita a una nuova pianta, dalla quale usciranno fino a cinque spighe che produrranno ognuna settanta chicchi. Il chicco è lievito. Su di esso si insedia una flora microbica indigena fatta di lieviti e batteri che, se posti nelle giuste condizioni, iniziano a metabolizzare i nutrienti interni al chicco e, se guidati, danno vita al lievito madre. Il chicco è pane. In esso ci sono proteine e amidi, combinazione ideale per un cibo energetico capace di dare sostentamento. Una volta reso farina e idratato, il chicco ha tutto quello che serve per poterci nutrire con qualità. Sempre che non lo si privi di ciò che nutre, che lo rende completo, vivo! Nel mio lavoro, sono sempre stato un esteta, attratto dal realizzare prodotti belli, fossero questi dei piatti o delle pagnotte di pane. Ho ricercato le tecniche per ottenere l’alveolatura più spinta possibile, e questa mia ossessione per l’immagine del cibo mi ha inevitabilmente portato a impastare del delizioso pane, semi raffinato, con farine più povere dal punto di vista nutrizionale rispetto a quelle macinate a pietra, seppur tecnicamente perfette. Saper lavorare con farine macinate a cilindri è un punto di partenza imprescindibile per ogni panificatore. Grazie alle farine tecniche si possono imparare le diverse fasi della panificazione, si entra in armonia con i tempi della lievitazione, la manualità e lo studio delle cotture. Inoltre, alcune preparazioni come il panettone sarebbero impossibili senza l’utilizzo di questa tipologia di farine. Farsi la mano con farine tecniche ci aiuta a comprendere quale sarebbe la consistenza ideale dell’impasto da crudo e ci guida alla lettura delle farine molite a pietra. Da sempre noi esseri umani ricerchiamo la facilità in tutto ciò che facciamo: per questo anche per fare il pane abbiamo sviluppato un metodo efficace di macinazione che rende più semplice la gestione del prodotto (conservabilità) e la produzione di farine di più facile utilizzo e veramente bianche. Sin da quando ha iniziato a consumare pane, l’umanità ha tentato in tutti i modi di sbiancare la farina, con stratagemmi anche poco ortodossi: dato che la farina al massimo poteva essere burattata attraverso setacci sempre più fini, sbiancare la farina era un lavoro lungo e costoso e non portava mai a una farina “pura”, per questo i mugnai talvolta la tagliavano con gesso, farina di ossa, e altre adulterazioni, tanto che spesso il popolo diffidava di loro. Dall’Ottocento, con l’avvento del mulino a cilindri si riuscì effettivamente a ottenere ciò per cui l’umanità si era tanto adoperata. Questo tipo di macinazione, infatti, è in grado di rimuovere completamente, e già durante la prima fase, il germe e la crusca. Si procede poi con nuovi cilindri che ruotano in senso opposto con uno spessore tra di loro sempre inferiore, così da rendere la farina di volta in volta più sottile. In seguito, si scoprì che se la farina veniva esposta al cloro gassoso si riusciva a renderla ancora più candida, eliminando anche quell’ultimo nutriente residuo, il betacarotene, che dava colorazione leggermente gialla ai prodotti da forno. 17


Se fare pane rappresenta l’adattatività umana, capace di saper ricavare da un chicco di una graminacea un nutrimento perfetto, la follia del candore è l’esatto opposto. Dagli inizi del Novecento è stato impossibile ignorare i danni che questo comportamento umano maladattativo portava alla popolazione: dopo che l’umanità era riuscita, tramite la selezione genetica, a trasformare una graminacea quasi priva di valore nutrizionale nel cibo base dell’alimentazione mondiale, pur di inseguire il “candore”, la “purezza”, si era poi spinta fino al punto di privare nuovamente quel cibo del suo valore. Quando si macina il grano con il mulino a cilindri si va a eliminare quel 25% che contiene le parti più nutrienti del seme, la crusca e il germe, ovvero l’embrione della nuova pianta, mentre si tiene la parte meno nutriente, cioè l’amido e le proteine. Antiossidanti, vitamine, minerali, oli essenziali, tutto viene scartato e ceduto agli allevamenti per l’alimentazione degli animali o alle case farmaceutiche per produrre integratori alimentari, al fine di curare le nostre carenze, dovute in parte alla farina raffinata. Se la panificazione rappresenta un insieme di tecniche adattative ingegnose, che prevedono la fermentazione, utile a rendere per noi disponibili anche i nutrienti più inarrivabili che si trovavano nel chicco, la successiva iper-trasformazione della materia prima altro non è che l’espressione di una follia collettiva alla ricerca dell’inarrivabile. E questo ha favorito il diffondersi di malattie e cattiva salute generale. Fu verso la fine dell’Ottocento che un gruppo di medici francesi e britannici si mise a ricercare le cause di malattie come diabete, ictus, cardiopatie, cancro, beriberi e patologie dell’apparato digerente, denominandole “malattie occidentali” in quanto si erano manifestate quasi esclusivamente nelle zone del mondo con un’alimentazione “moderna”, dove si consumavano quotidianamente zucchero e farina raffinati. Le ricerche attuali confermano quelle teorie che individuavano come causa di queste malattie la carenza di vitamine e di fibre, o l’eccessivo consumo di carboidrati raffinati. Ma l’inseguimento cieco del candore ha delle motivazioni antiche, da un lato simboliche, dall’altro tecniche. Dal punto di vista simbolico, il colore bianco ha sempre rappresentato la purezza, la pulizia, e in epoche in cui il cibo era spesso contaminato e le condizioni igieniche erano pessime, la farina bianca era sinonimo di sicurezza alimentare. Questo era ben lontano dall’essere vero, se si considera che è sempre stata cosa difficile capire con certezza cosa ci sia dentro a un sacco di farina o a una pagnotta di pane, che può essere oggetto di adulterazioni di ogni genere. La sfiducia del popolo verso la figura del mugnaio era quindi in parte placata dal candore della farina, senza un vero pensiero critico. Il colore del pane, fin dall’antica Roma, rifletteva la posizione sociale di chi lo consumava, assumendo quindi connotazioni elitarie e ponendo le basi per pregiudizi in base allo status e alle condizioni economiche dei consumatori presenti nella storia dell’alimentazione fino al secolo scorso. Per gran parte dell’Ottocento, la farina bianca era considerata generalmente più sana di quella integrale. E va detto che la farina integrale a quei tempi era un prodotto molto più “difficile” da lavorare in panificazione di quella che conosciamo noi oggi, macinata grossolanamente e non setacciata, lentamente consumava i denti di chi non aveva alternative al pane scuro che si ricavava da essa.

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Dal punto di vista tecnico, invece, la farina bianca era ben più desiderabile di quella integrale, principalmente perché consentiva di ottenere pane con alveolatura maggiore. La crusca, infatti, è più pesante della polvere della mandorla amilacea e se vista al microscopio è tagliente, come minuscole schegge, che vanno a inficiare la maglia glutinica e causare la fuoriuscita di gas di fermentazione dall’impasto compromettendone l’altezza. Rimaneva ancora un problema molto rilevante che la setacciatura non risolveva: la conservabilità. La farina macinata a pietra, infatti, mantenendo tutto il seme (sia crusca che germe) è soggetta a un rapido irrancidimento ossidativo, già poche settimane dopo la macinazione. Si utilizzavano dei semplici setacci che riuscivano a separare il grosso dei tegumenti esterni dalla farina, ma non potevano eliminare il germe, che contenente omega-3 e macinato assieme al resto del chicco, finiva nei sacchi, rendendo il prodotto instabile. Se la setacciatura permetteva di sbiancare la farina, non poteva tuttavia risolvere il problema della deperibilità, cosa che portava a macinare il grano più di frequente e localmente, tanto che ogni piccolo villaggio aveva il suo mulino. Da metà Ottocento, l’invenzione dei mulini a cilindri spazzò via i mugnai locali e i mulini a pietra, permettendo di ottenere un prodotto meno deperibile, più trasportabile, e quindi anche più economico: un gran vantaggio per l’umanità! Il pane incorporava più aria, era più leggero, più dolce, più bianco. Sembrerebbe tutto meraviglioso, nell’economicità generale. Nello stesso periodo l’avvento del nuovissimo lievito di birra diede ai panettieri la possibilità di tagliare nettamente i tempi di lavorazione e di sfornare più volte al giorno pane leggerissimo, semplificando di molto il lavoro. Il pane bianco divenne così simbolo della rivoluzione industriale, economico in tutti i suoi aspetti. Consumare pane scuro voleva dire per gli operai delle industrie, andare più spesso al bagno, lasciando scoperta la postazione di lavoro: per i proprietari delle aziende voleva dire pagare alla fine dell’anno almeno ottanta ore di gabinetto a ciascun dipendente. La farina bianca, stabile, non deperibile, divenne un bene controllabile secondo gli interessi umani, dando forma a un pane più denso di energia, più simile a un carburante che a un alimento, prodotto velocemente per essere consumato altrettanto velocemente. Ma le cose fatte di fretta portano a danno, e le moderne diete ricche di carboidrati raffinati furono così deleterie per la salute che agli inizi del Novecento fu evidente la necessità di correre ai ripari. All’inizio del secolo scorso, le autorità sanitarie in Inghilterra e negli Stati Uniti non potevano più ignorare le voci che si levavano numerose sin dalla fine dell’Ottocento, a sostegno del ritorno all’integralità e i legami tra la farina bianca raffinata e le diffuse carenze nutrizionali. Tuttavia, tornare a consumare solo cibi non sofisticati era fuori discussione: sarebbe saltata tutta la moderna industria alimentare. L’industria molitoria e le autorità sanitarie escogitarono così una soluzione che non andasse a minare l’ormai radicata industria della farina bianca, ma anzi, che le desse più possibilità economiche. Inoltre, non era possibile pensare di tornare a una macinazione integrale, visto che gli impianti delle moderne industrie di macinazione erano stati progettati appositamente per produrre farina bianchissima, separando germe e tegumenti alla prima rottura del seme. Secondo la logica capitalistica, per risolvere il problema, invece di tornare indietro, si decise di elaborare ancora di più il prodotto: se alla farina venivano a mancare fibre e vitamine, era la INTRODUZIONE

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giusta occasione di fortificarle con l’aggiunta di vitamine del complesso B e fibra, la stessa che veniva rimossa a inizio macinazione. Sarebbe stato molto più remunerativo produrre farina bianca e svendere i nutrienti, che produrre vera farina integrale. Geniale! Purtroppo questa trovata non funzionò, o almeno non come avrebbe dovuto. In nutrizione è curioso come gli individui che seguono una dieta equilibrata in tutti i suoi nutrienti assunti tramite integratori, non risultino essere in buona salute tanto quanto coloro che assumono gli stessi nutrienti direttamente dal cibo, e lo stesso vale per i cereali integrali. Il cereale è un seme, e il seme è un tutto non ricostituibile artificialmente dai suoi elementi costituenti, perfetto e superiore alla tecnologia già così com’è. Il vero motivo ancora lo si sta cercando. Nemmeno la scienza moderna è in grado di rispondere a questo quesito, e il chicco rimane qualcosa di inimitabile, simbolo di Madre Natura, di complessità e semplicità al tempo stesso. Negli anni Sessanta del Novecento il movimento hippie cavalcò questa controcultura di ritorno alla naturalità, all’integralità, attribuendo al pane bianco a tutto ciò contro cui andava: la modernizzazione, l’artificialità del cibo, l’industrializzazione, il capitalismo, e tutti i mali della civiltà moderna. Il pane integrale diventò così un atto politico, un modo per contestare i valori da “pane bianco”. Ma l’idealismo raramente ci azzecca con la tecnica e con la gastronomia. Questo portò alla produzione di pagnotte scure, estreme, più simili a dei mattoni che a un pane, una pesante eredità con cui chi vuole produrre pane integrale deve scontrarsi ancora oggi. Che quello fosse pane selvaggio non c’è dubbio, ma che il pane selvaggio debba essere per forza fatto così, assolutamente no! Ciò che sta avvenendo in questi ultimi anni intorno al pane integrale è da ricondursi al fenomeno che si ripropone frequentemente nella storia dell’alimentazione, cioè l’inversione di tendenza, che rende “di moda” ciò che prima non lo era. Simbolo di nuova consapevolezza, di eticità, di eco-sostenibilità e salute, il pane integrale oggi viene eletto dalle classi alte come giusto e migliore, assieme alla pasta, ai cereali e al biologico integrali. Non è un fenomeno da giudicare positivamente o negativamente, semplicemente esiste, succede sempre, e si ripete in tutte le epoche storiche. Ciò che prima era dei poveri, viene successivamente nobilitato dall’attenzione dei ricchi ed eletto cibo migliore. Esiste una curva di tendenza che indica come il cibo meno raffinato stia aumentando nei consumi delle popolazioni più sviluppate, cosa che dimostra un altro fenomeno: maggiore è lo sviluppo culturale e maggiore sarà la richiesta dei consumatori di un cibo più sostenibile per se stessi e per il mondo. Il pane bianco con lievito di birra è ormai diventato obsoleto, di seconda scelta. La stessa cosa sta avvenendo nell’ambito dei grani antichi, tema che tratteremo nei prossimi capitoli. Le linee guida delle autorità sanitarie consigliano di assumere almeno il 50% dell’introito di cereali in forma integrale, e così gli scaffali dei negozi si sono riempiti di alimenti che strillano la loro apparente integralità sul loro eco-packaging dai colori tenui. La maggior parte dei prodotti dall’aura integrale sono in realtà ricostituiti, ovvero fatti di farina bianca con aggiunta di cruschello, rinforzati con minerali e vitamine, sistemi intelligenti per poter stampare in etichetta la parola “integrale”. Il pane integrale presenta due criticità: da un lato il sapore troppo amaro, poco gradevole, dato dalle varietà di grano moderne, con crusca sempre più dura e amara, perfette per i nuovi 20

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Donna che cuoce il pane di Jean-Franรงois Millet (1854)


impianti a cilindri. Dall’altro lato il fatto che non volendo o non sapendo utilizzare il lievito madre, che incrementa lo sviluppo di glutine, chi produce pane integrale si trova di fronte a una massa che fatica a lievitare e che, una volta cotto, tende a sbriciolarsi e a seccarsi. Usare il lievito di birra per la produzione di pane integrale presenta, infine, un’altra problematica da non sottovalutare: tutti i cereali integrali hanno al loro interno l’acido fitico, un fattore antinutrizionale che sequestra tutti i minerali, non solo nel pane, ma anche in chi lo consuma. Come già spiegavo in The Home Bakery, una lunga lievitazione con lievito madre, invece, riesce a demolire l’acido fitico, rendendo accessibili i minerali chelati nei cereali, oltre a rendere più digeribile il glutine e a rallentare l’assorbimento dell’amido, attenuando i picchi glicemici. Come sempre nel mio percorso professionale, anche la decisione di dedicarmi alle farine selvagge è il risultato di studio, sperimentazione e consapevolezza delle materie prime. Se le farine tecniche mi hanno dato moltissima esperienza e immense soddisfazioni nel realizzare pani e grandi lievitati spettacolari, la panificazione con farine selvagge riflette tutta la volontà di raccontare la meraviglia nei confronti di ciò che la Natura ci ha dato, la passione per la ricerca (che non finisce mai!) e una sfida volta a valorizzare il pane di farine molite a pietra di grani antichi e integrali, anche da un punto di vista estetico. Sono consapevole del fatto che in molti ormai scelgono l’integralità a scapito dell’estetica, che spesso però, come abbiamo visto, porta a una cottura non totale dell’impasto. Dal momento che queste farine reggono a fatica l’idratazione, ci si limita a idratarle poco, pur di far stare in piedi i panetti. Ma poca idratazione porta a pochissima alveolatura, e quindi, a una non completa gelatinizzazione degli amidi. Sentivo la necessità di trovare una soluzione. Con questo libro mi sono proposto di offrire delle nuove tecniche di lavorazione e una chiave di lettura diversa per le farine difficili, quelle che io chiamo farine selvagge, per rompere l’idea che integrale sia associato al concetto di brutto o perfino cattivo.

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D E I G R A N I E D E I PA N I : L A G E N I A L I TÀ U M A N A

Quando dico che il pane è un insieme di tecniche adattative, simbolo dell’ingegno umano, intendo che il pane nasce dal campo, e il campo nasce nel momento in cui, circa diecimila anni fa, in Mesopotamia, detta anche Mezzaluna Fertile, una parte della popolazione umana decise di diventare stanziale, piuttosto che vagare per il mondo in cerca di cibo. Tutto cominciò dalla selezione dei chicchi più grossi di un’erba, una graminacea, come quelle che crescono selvatiche lungo le strade, e dalla decisione di piantarla. Avevano capito che da un chicco di quest’erbaccia, con pazienza e perseveranza, si potevano ottenere più chicchi, e che dalla macinazione di quelli, potevano ottenere una pappa nutriente, specialmente se cotta. Il pane nasce da qui, dall’intuito umano nella selezione di una pianta, da una macina rudimentale, fatta di una pietra concava e capiente e un pestello simile a un matterello, con cui si rompevano e si sminuzzavano i grani. Dalla quasi farina di questo cereale si usava fare un rudimentale impasto: i semi venivano tostati o macinati e poi bolliti in acqua ottenendo quindi una poltiglia, che permetteva di ottenere energie delle piante grazie alla gelatinizzazione degli amidi, altrimenti a noi indigesti. A volte queste pappe venivano spalmate su una pietra rovente così da ottenere una sorta di crêpe, un pane azzimo; era allo stesso tempo un modo semplice ed efficace per assimilare energia. L’intuizione, avvenne per caso, ipoteticamente per dimenticanza, da qualche parte nell’antico Egitto. Fu un colpo di fortuna che ci permise di fare il salto di qualità e di farci uscire dallo “stato di minorità” in cui sguazzavamo; diventammo quindi “uomini” e non più “barbari”. Immaginiamo che un mattino qualcuno si sia accorto che un avanzo della pappa di cereali dimenticato la sera prima non era più del volume iniziale, ma era diventato spumoso e aveva acquisito un aroma caratteristico ed era in qualche modo “vivo”. Quando quell’impasto pieno di vita fu messo a cuocere, si gonfiò ancora di più, incamerando quelle bolle e rendendo l’interno di quel cibo ben alveolato: si ottenne così un prodotto che era qualitativamente diverso dalla base di partenza, ma era oltretutto quantitativamente molto più abbondante della somma delle sue parti. Trasformando la materia prima con la sola aggiunta di acqua, si diede vita a qualcosa che prima non esisteva. Avevamo scoperto la fermentazione, e quindi la panificazione! Avevamo finalmente accesso a tutti i nutrienti delle piante: invece di cibarci di animali che si cibavano delle piante e le trasformavano in energia e muscoli, avevamo eliminato un passaggio altamente dispendioso per alimentarci più direttamente dell’energia solare! Fermentare i cereali per produrre pane ci metteva a tutti gli effetti sullo stesso piano degli erbivori che metabolizzavano le piante. Per fare ciò, i ruminanti hanno dovuto subire una mutazione genetica, portandosi dietro un secondo stomaco, con batteri specifici capaci di scindere il legame beta-glicosidico presente nelle catene di cellulosa, e questo li rende animali ad altissima efficienza nel nutrirsi dell’energia solare trasformandola in biomassa. A differenza di loro, noi abbiamo esternalizzato questi processi microbiologici per rendere i cereali digeribili, avendo quindi risparmiato in complessivo quattro ore di attività digestiva nell’arco di una giornata. Potevamo dedicarci ad altro, invece che ruminare. 23


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IL PANE SELVAGGIO

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100% SENATORE CAPPELLI Quando ho toccato con mano questa farina per la prima volta è stato amore! Ne ho subito sentito le potenzialità. Il suo glutine, per quanto poco, ha una buona dose di glutenine che rendono la farina molto adatta alla panificazione. Ne risulta un pane che sa di resina, lievemente pungente, ricco, che nutre. Per questa ricetta ho scelto la procedura più lunga e laboriosa, con una lenta autolisi fredda, e con l’inserimento della crusca alla fine. Con questo piccolo “trucco di magia”, otterrete un pane 100% integrale, ma dalla tipica morbidezza data dalla farina burattata. Ingredienti per 2 pagnotte da 500 g 490 g di farina di Senatore Cappelli burattata 300 g di acqua a 15°C 180 g di lievito madre maturo (in crema) 120 g di crusca bagnata 80 g di acqua per la crusca 12 g di sale fino integrale

Burattate la farina integrale tenendo da parte la crusca. Ammollate quindi la crusca con l’acqua necessaria e lasciatela a riposo in frigorifero. Procedete mescolando l’acqua con la farina fino a farla idratare completamente. Mettetela in frigo per 12 ore di autolisi fredda. Assicuratevi di avere il lievito madre pronto per inserirlo in impasto a momento debito, quindi 12 ore dopo aver impastato. Dopo 12 ore, tirate fuori dal frigo la boule con l’impasto, inserite il lievito madre al centro della boule, e con la mano bagnata, iniziate a pinzare in modo che il lievito madre si assorba completamente in impasto. Lasciate riposare un’ora e poi inserite il sale prima a spaglio e successivamente pinzando con la mano bagnata. Usate il tatto per sentire lo sviluppo della maglia glutinica. Date una prima piega di rinforzo e lasciate lievitare per 2 ore a temperatura ambiente. Stagliate l’impasto sul banco leggermente inumidito e apritelo per laminarlo. Spagliate la crusca ammollata sopra tutta la superficie dell’impasto e ripiegatelo in modo da inserirla completamente all’interno. In questo modo avrete sviluppato un’ottima maglia glutinica, ammollato la crusca rendendola meno tagliente e poi l’avrete inserita come fossero ingredienti inerti, quasi un panettone. Lasciate riposare l’impasto in vasca di lievitazione per 30 minuti, quindi stagliatelo, e procedete alla preformatura. Date 5 minuti di puntatura a banco e poi procedete con le pieghe finali per formare delle pagnotte tese al massimo della loro potenzialità. Lasciate lievitare in frigo per 10 ore e poi infornate. Da qui seguite la metodologia iniziale vista alle pagg. 133-135 per arrivare a prodotto finito.

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100% VERNA INTEGRALE Il verna è un grano tenero dal sapore dolce, se lo si lascia integrale sarà lievemente più graffiante sul palato, ma sempre rotondo. Non ha molto glutine e, soprattutto, ha più gliadine che glutenine, cosa che ci impone di trattarlo con cautela. Il gioco sta sempre a metà tra il dare forza all’impasto tenendolo basso di idratazione, oppure accettare la perdita di verticalità a favore di una perfetta gelatinizzazione e di alveoli più marcati. Io sono sempre per la seconda opzione, che rende il pane più digeribile e morbido, anche se più basso. Ingredienti per 2 pagnotte da 500 g 600 g di farina di verna integrale 350 g di acqua a 15°C 180 g di lievito madre maturo (in crema) 12 g di sale fino integrale

Per questa ricetta vi consiglio di usare lievito madre preso leggermente “giovane”, quindi con un pH di 4,5. Lavorare con pH più alto smonta meno la maglia glutinica. Unite acqua e lievito. Fate dissolvere. Aggiungete la farina e mescolate vigorosamente fino ad averla idratata tutta. Inserite in una boule e coprite con un coperchio lasciando riposare in autolisi per 2 ore e mezza. Al termine dell’autolisi aggiungete il sale a spaglio, poi con una mano bagnata, pinzatelo all’interno dell’impasto. Lasciate riposare 20 minuti. Trasferite l’impasto dalla boule alla vasca di lievitazione e, con mani umide, applicate la prima piega di rinforzo. Lasciate lievitare per un’ora. Stagliate l’impasto come vi ho spiegato nella metodologia step by step. Porzionatelo, applicate la prima formatura dando il giusto grado di tensione a ciascun panetto. Lasciate 5 minuti di puntatura a banco con temperatura di 20°C. Infarinate bene i cestini di lievitazione, applicate le pieghe finali ai panetti secondo la tensione che volete esercitare (alta, media o bassa) e trasferiteli nei cestini di lievitazione. Applicate una lievitazione ritardata in frigo a 5-7°C per 12 ore. Da qui seguite la metodologia iniziale vista alle pagg. 133-135 per arrivare a prodotto finito.

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A LT R I PA N I FI C AT I



P R E M E S S A AG L I A LT R I PA N I F I C AT I

Per anni ho mangiato panificati commerciali. Queste bontà croccanti erano indispensabili per riempire i miei attacchi di fame quotidiani. Da molti anni sono appassionato di autoproduzione e ho sempre preparato in casa qualsiasi cosa mi passasse per la testa, dal pane, alle conserve, alla birra, ecc. Penso sia proprio questa mia attitudine che mi ha spinto a diventare un cuoco: saper fare con le mie mani tutto ciò che occorre per nutrire me e i miei cari. Una volta entrato nel mondo della panificazione, mi si sono aperte infinite possibilità e il cervello ha iniziato a ragionare, da un lato, sulle differenti tecniche per realizzare i panificati che comunemente si trovano “standardizzati” dall’industria, dall’altro, su come poter consumare meno plastica, meno energie di trasporti, e di conseguenza inquinare meno. Riuscirci vuol dire elevare in tutto e per tutto la qualità della propria alimentazione. Quando si possiede un forno a pietra, una volta acceso sarebbe un vero peccato non sfruttare tutto quel calore accumulato! Per me è un dovere pianificare le giornate di produzione di pane o pizza, per poter poi procedere con numerose altre infornate. Infatti, quando preparo la pizza, generalmente subito dopo entrano nel forno la farinata, le verdure, il pane, tanti altri piccoli panificati e, per concludere, un bel coccio di zuppa, tutto in base alla temperatura che man mano cala. Acquisite padronanza della tecnica e dimestichezza nell’utilizzo delle farine, è facile farsi prendere la mano nella produzione di panificati che non siano propriamente il classico pane da fare a fette. Scoprirete che è magico ed entusiasmante capire come con un po’ di farine, del lievito madre, dell’acqua e dell’olio si possa fare tutto ciò che si vuole. Alcuni panificati saranno più idratati del pane, anche se spesso lo sono molto meno. Alcuni prevedono l’inserimento in impasto di grassi o olio. Per scelta personale ho rivisitato tutte le ricette sostituendo gli ingredienti animali con i corrispettivi vegetali. Per i panificati che prevedono l’inserimento dell’olio o del grasso, si potrà procedere in due modi: quello più rustico vedrà mescolato l’olio o il grasso a inizio ricetta; quello più professionale sarà effettuato per mezzo di un’impastatrice, un macchinario che permette l’assorbimento dei grassi all’interno della maglia glutinica grazie al suo movimento ripetitivo e meccanico. Per fare ciò riporto di seguito il metodo che applicherete a tutti i panificati che prevedono la presenza di grassi o olio. Inserimento di grassi o olio con impastatrice Sciogliete il lievito madre maturo in acqua e aggiungete tutta la farina. Azionate a velocità minima e lasciate impastare per 10 minuti, fino a che tutta l’idratazione sarà assorbita. Aggiungete il sale e lasciate impastare per 5 minuti. Spegnete l’impastatrice e procedete con un fermo macchina di 20 minuti. L’impasto deve riposare e il sale si deve sciogliere. Azionate nuovamente l’impastatrice, fate impastare per 30 secondi e procedete inserendo l’olio in tre riprese a velocità minima. Una volta terminato l’inserimento dei grassi, estraete l’impasto dal cestello, date un paio di pieghe per renderlo liscio e ordinato e trasferitelo in una vasca di lievitazione. ALTRI PANIFICATI

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B AG U E T T E S E M I N T EG R A L E Mi sognavo una baguette rustica, di farine aromatiche, con le punte bruciacchiate e irregolari, à l’ancienne. Volevo tornare in Francia per un momento e rivisitare con grani antichi italiani questo caposaldo della panificazione francese. Ancora ricordo il forno in mezzo alle montagne, nelle Gorges du Verdon, dove io e mia moglie abbiamo preso le baguette quel giorno di tanti anni fa: erano quasi bruciate, appena uscite dal forno a legna, buonissime! Abbiamo iniziato a mangiarle rompendole con le mani mentre camminavamo verso la macchina e in un batter d’occhio erano già finite. Ingredienti per 6 baguette 400 g di farina di grano emiliano tipo 0 120 g di frassineto 80 g di russello 400 g di acqua 160 g di lievito madre maturo (in crema) 12 g di sale fino integrale

Create l’impasto come per il resto degli altri pani, procedete con 2 pieghe di rinforzo durante la prima ora di bulk per poi concluderla con 6 ore di frigo. Fate quindi una bulk mista. Stagliate l’impasto sul banco e porzionatelo in 6 pezzi. Date una preformatura tesa all’impasto e lasciate riposare per 10 minuti. Arrivati qui dovete imparare la tecnica per la formatura delle baguette. Infarinate leggermente i panetti, poi, uno alla volta, procedete così: con la spatola da panettiere capovolgete il panetto con la parte umida rivolta verso di voi. Ripiegate un terzo del panetto verso l’interno, schiacciandone il lembo di chiusura con il palmo della mano. Ripetete l’operazione per il secondo terzo del panetto e poi chiudete teso il terzo terzo. Ora infarinate leggermente il panetto, che avrà preso una forma a filoncino, e iniziate a farlo rotolare sotto le mani, avanti indietro, dal centro verso le due estremità, schiacciando leggermente a formare le punte. Portate ciascuna baguette alla lunghezza di 45-50 cm. Preparatevi per tempo uno straccio lungo e spesso da infarinare e da tirare a formare diverse U, che conterranno ciascuna una baguette per la lievitazione finale. Lasciate lievitare a temperatura ambiente per 3 ore. Infornate, trasportando ciascuna baguette, prima su una delle due pale da baguette, quindi con la parte inferiore che guarda l’alto, e poi sull’altra pala, nel senso giusto. Incidete con la lametta da panettiere tre incisioni trasversali, o un’incisione lungo tutta la lunghezza della baguette. Infornate facendo scivolare di lato la baguette dalla pala, sul piatto del forno. Fate cuocere per 20 minuti a 240°C con vapore, come per la consueta cottura del pane. Date ulteriori 5 minuti di cottura senza vapore, per far crostificare a dovere. Sfornate e lasciate raffreddare sulla gratella. ALTRI PANIFICATI

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BIBLIOGRAFIA

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RINGRA ZIAMENTI

Un caloroso grazie a tutte le persone che hanno partecipato a questo progetto, siamo una squadra, anche se non siamo tutti uniti fisicamente nello stesso posto. Ognuno con il suo contributo ha reso possibile la realizzazione di questo libro, che per me è un traguardo bellissimo, frutto di tanta fatica e dedizione. È un onore aver collaborato con il mio ex professore Danilo Gasparini, che ha dato un importante contributo a questo libro, aiutandomi con il materiale riguardante i grani storici, oggetto di anni di ricerca. Grazie a tutti i corsisti che in questi ultimi anni hanno seguito assiduamente i miei workshop: grazie alle vostre domande e riflessioni questo libro è stato arricchito di tante risposte che saranno utili a tantissimi di voi, appassionati di panificazione. Questo libro nasce in un momento storico particolare e difficile, in cui siamo sempre più distanti gli uni dagli altri, in cui la paura diventa sempre più forte e il malcontento inizia a rendersi palpabile. Spero, quindi, che possa essere d’aiuto per alleggerire il carico emotivo e mentale di questi momenti così duri, e che possa portare molti di voi a impastare, toccare, annusare, assaggiare, lasciarvi cullare dagli aromi, per trovare maggiore pace interiore. PA R T N E R S E S P O N S O R

Un ringraziamento speciale a: · Molino Agostini: farine di grani antichi biologiche molite a pietra · Azienda Agricola Fontanazza: farine di grani antichi siciliani · Azienda Agricola Seminiamo: farine di grani antichi siciliani · Azienda Agricola Mulinum: farine di grani antichi biologici calabresi · Azienda Agricola Nero D’abano: farine di grani antichi · Azienda Agricola Pederzani: coltivazione biologica e macinatura a pietra di cereali · Pizza Party: forni portatili artigianali a legna e a gas · CDK Campbell: spatole e attrezzature artigianali per panificazione · Pradlar Bakers: lame per panettieri · Punto.DE: distributore di prodotti di design per la casa · Veecoco Academy: produzione video e foto, corsi online di cucina vegana Dove trovare le farine utilizzate in questo libro: · Molino Agostini: jervicella, frassineto, solina, saragolla, farro, Senatore Cappelli, maiorca, kamut, farine tecniche molite a pietra a diverso grado di aburattamento · Azienda Agricola Fontanazza: farine di grani antichi siciliani maiorca e timilia · Azienda Agricola Seminiamo: farine di grani antichi siciliani russello, perciasacchi, maiorca e timilia · Azienda Agricola Mulinum: farine di grani antichi biologici calabresi Senatore Cappelli, verna, farro dicocco, segale · Azienda Agricola Nero d’Abano: farine di grano antico marzuolo · Azienda Agricola Pederzani: grani emiliani, farro, segale 252

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Il chicco è tutto. Il chicco è nuova vita. Se bagnato si attiva, modifica le riserve di amidi in zuccheri, germina, mette radici, fa spuntare le foglie, dà vita a una nuova pianta, dalla quale usciranno fino a cinque spighe che produrranno ognuna settanta chicchi. Il chicco è lievito. Su di esso si insedia una flora microbica indigena fatta di lieviti e batteri che, se posti nelle giuste condizioni, iniziano a metabolizzare i nutrienti interni al chicco e, se guidati, danno vita al lievito madre. Il chicco è pane. In esso ci sono proteine e amidi, combinazione ideale per un cibo energetico capace di dare sostentamento.

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Le farine macinate a pietra, biologiche, di grani antichi, di piccole realtà agricole parlano di tradizione, nutrono l’uomo e la terra. E queste farine mettono sempre a dura prova anche i panificatori più esperti. Se con The Home Bakery Martino Beria ha insegnato la panificazione tecnica con il lievito madre, in Wild ha voluto fare un passo indietro: indietro rispetto all’eccessiva lavorazione della materia prima per ricercare le farine rustiche, selvagge. Da queste ha lavorato a tecniche innovative per poter ottenere dei prodotti da forno che non accettano la pesantezza e che vogliono superare l’idea che integrale e macinato a pietra vogliano dire minore qualità. Partendo da un’analisi tecnica delle farine rustiche, e usandole per la creazione di lieviti selvaggi e acque fermentate, l’autore accompagna il lettore nella produzione di pane selvaggio, pizze e focacce rustiche, grissini e altri prodotti da forno dai gusti ancestrali. Wild si propone di dare nuova voce alle farine “difficili” e a tutte quelle piccole realtà che ancora credono nella salvaguardia di grani che hanno segnato il corso della storia del nostro paese.

~ Martino Beria è uno dei più rinomati chef vegani in Italia. È laureato in Scienze e Cultura della Gastronomia e della Ristorazione, lavora come chef e consulente e si occupa di divulgazione e formazione di gastronomia vegetale. È autore dei libri Le Proteine Vegetali, Il Manuale dell’Estrattore e Il Giro del Mondo in 60 Piatti Veg e Vegano Gourmand (Gribaudo) da cui l’omonimo sito di ricette www.veganogourmand.it

€ 29,00 ISBN 978-88-6773-104-6

www.edizionienea.it www.thehomebakery.it

9 788867 731046


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