Rrose 03

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Rrose. 03 La creatività, di volta in volta

trimestrale anno 2 numero 3 ottobre 2012 € 5,00

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yue minjun demetrio paparoni sara boggio giorgio manganelli lietta manganelli internozero massimo de nardo emma dante giuseppe distefano rodolfo di giammarco mauro cicarè michele dall’ongaro ed wood elisa savi ovadia tullio pericoli paolo fabbri tirelli costumi tommaso lagattolla josef svoboda massimo puliani jérôme bel riccardo giacconi gerard malanga fondazione pescheria chiara gabrielli francesco micheli rrose silvia camporesi lottie davies chris rain elena ovecina andrea tentori montalto stefano fantelli antonio tentori paolo rinaldi Rrose. | 1


{indice}

diamo i numeri

copertina » {yue minjun} Untitled, 2005 interno 2›3» Gli autori di Rrose n. 3 4 › 10 » {yue minjun} Il genio che ride di Demetrio Paparoni La rivoluzione senz’armi di Sara Boggio 12 › 13 » {giorgio manganelli} Dentro una vecchia valigia di fibra di Lietta Manganelli 14 › 17 » {internozero} Ti disegno un film con un solo fotogramma di Massimo De Nardo 18 › 21 » {emma dante} Un modo di far teatro che ci ha contagiati e scossi di Giuseppe Distefano Emma Dante, rito e messa a fuoco di Rodolfo Di Giammarco 22 » Suonatina al chiaro di luce di Mauro Cicarè 23 » Big big bang di Michele Dall’Ongaro 24 › 25 » {ed wood} «Ma che ne sa lei, ha mai sentito parlare di sospensione dell’incredulità?» di Elisa Savi Ovadia 26 › 27 » {tullio pericoli} Un meraviglioso portrattista di Paolo Fabbri 28 › 31 » {atelier tirelli} Che abiti indossano le stelle di Tommaso Lagattolla 32 › 34 » {josef svoboda} Svoboda multimediale di Massimo Puliani 36 › 37 » {jérôme bel} Veronique Doisneau, in punta di piedi di Riccardo Giacconi 38 › 41 » All'improvviso mi ricordo di Robert Lowell - Addio a tutto questo di Gerard Malanga 42 › 43 » {fondazione pescheria} Guardare dentro di Chiara Gabrielli 44 › 45 » {francesco micheli} Le cose parlano tra di loro e ci restituiscono la bellezza di Rrose 46 › 47 » {c(art)oline} Gli onironauti di Elena Ovecina 48 › 49 » L’abisso di Andrea Tentori Montalto, Stefano Fantelli, Antonio Tentori

Rrose numero 3. Non è vero che non c’è 2 senza 3, come non è vero che la gatta ci lascia lo zampino. Le regole sono saltate. Sì, ovvio, 2 più 2 fa sempre 4, ma puoi anche percepirlo come fosse un 5 o un 1, a seconda dei casi (stati d’animo?). Oggi conta (anche in senso matematico) il percepito. Si è cominciato con le temperature e poi l’illusione ha coinvolto tutto. Nel numero 2 di Rrose abbiamo scritto che la nostra redazione ha in mente altre specialità della casa (editrice), oltre alla rivista. Le specialità ci sono. Abbiamo chiesto ad alcuni distributori di libri di far viaggiare un libro edito da Rrose Sélavy. Ci hanno risposto che si deve già avere da un minimo di 3 ad un massimo di 10 libri per iniziare la diffusione. Alla faccia delle startup! Per aprire una casa editrice devi essere casa editrice, e neanche tanto piccola. Sa un po’ del mitico e schizzato Comma 22: “Solo chi è matto può chiedere di essere esonerato dalle azioni di guerra, ma chi chiede di essere esonerato non è matto”. Noi, che siamo contro tutte le porche guerre, andiamo avanti. Siamo pure arrivati in Cina e negli Stati Uniti (non c’entra la par condicio), con un pittore e con un poeta fotografo. E con meravigliosi costumisti, scrittori, poeti, fotografi, illustratori, registi, coreografi, grafici, scenografi, disegnatori, giornalisti. Tutto via internet. Quanto a vita percepita, il www ha la sua parte importante. Il tema di questo Rrose n. 3 è la “messa in scena”. Speriamo che qualche applauso possa venir fuori. Battere le mani. Non è forse uno dei modi più strani per manifestare la nostra approvazione? Alla fine di uno spettacolo si applaude, alla fine di un evento si applaude. Anche ai funerali. Le regole sono saltate, ovunque. Il brutto di tutta la faccenda è scambiare un’abitudine per una regola. Fare determinate cose sempre a quell’ora lì. Abitudine. Crediamo che sia la strada più dritta per arrivare all’indifferenza. Disabituiamoci! Per adesso godetevi Rrose numero 3, e percepitelo come pare a voi. Buona lettura.#

Rrose ringrazia per la preziosa collaborazione: Francesco Cardinali {ADV Creativi – Ancona} Riccardo Ruggeri {Studio Ruggeri – Design e comunicazione – Civitanova Marche}

DIMORAE, situato nel centro di Civitanova di fronte al mare, nasce nel rispetto di un nuovo concetto di ospitalità, con un design che si allontana dalla standardizzazione tipica del settore alberghiero. 18 grandi camere dai 30 ai 60 mq, gran parte dotate di cucina privata, sala convegni e sala riunioni, semplicità, eleganza e funzionalità di impronta minimalista ma nello stesso tempo atmosfera calda e intima degli ambienti, fanno di DIMORAE uno spazio non convenzionale per il vostro soggiorno.

Rrose. La creatività, di volta in volta

albergo r.t.a. via Santorre di Santarosa, 29 62012 Civitanova Marche mc T 0733 770267 F 0733 772881

www.dimorae.eu info@dimorae.eu Nello spazio espositivo interno sono presenti opere di Riccardo Ruggeri

Trimestrale Registrazione n. 606 / 27.09.2011 Direttore editoriale Massimo De Nardo Direttore responsabile Alessandro Feliziani Coordinatrice editoriale Chiara Gabrielli Impaginazione Paolo Rinaldi

Font Gill Sans, Joanna (Eric Gill) Stampa Tipografia San Giuseppe (Pollenza – MC) ottobre 2012 Carta Fabriano Extra Offset interno 120g copertina 250g

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione Via F. Argelati, 35 20143 Milano Edita da Rrose Sélavy Associazione culturale per le arti visive, musicali e sceniche p. iva 01774270431 cod. fisc. 92020620438

Sede Via Carlo Santini, 6 62029 Tolentino MC Contatti rroseselavy24@tiscali.it www.rroseselavy.org T 0733 971310 T 0733 963041

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{gli autori di rrose n. 3} demetrio paparoni

rodolfo di giammarco

tullio pericoli

riccardo giacconi

andrea tentori montalto

paolo rinaldi

Critico d’arte, saggista e curatore. Ha fondato nel 1983 la rivista d’arte contemporanea Tema Celeste. Ha insegnato Storia dell’arte contemporanea (Facoltà di Architettura, Catania). Ha curato, fra le altre, le mostre antologiche dedicate a Tony Oursler (PAC, Milano), Anish Kapoor (Rotonda della Besana e Fabbrica del Vapore, Milano) e Surreal Versus Surrealism all’IVAM di Valencia. www.demetriopaparoni.com

Giornalista e critico teatrale per la Repubblica dal 1979; autore di Paolo Poli,Tutto Peppino e Grandi monologhi del teatro contemporaneo vol. I e vol. II (Gremese). Direttore artistico delle rassegne teatrali Garofano Verde, Trend - Nuove frontiere della scena britannica, a Roma. Direttore di corsi di drammaturgia, di teatro inglese, e coordinatore del Premio Lettera 22 di critica teatrale.

Disegnatore, grafico, pittore. Sui lavori su Linus, Corriere della Sera, la Repubblica, l’Espresso. Ha disegnato scene e costumi per il teatro. Ha pubblicato Ritratti arbitrari (1990), Morgana (3 voll., 1996-99), I ritratti (2002), La casa ideale di Robert Louis Stevenson (2004), Attraverso l’albero, una piccola storia dell’arte (2012). La sua “avventura d’artista”, dalla provincia ascolana a Milano, è descritta in Le colline di fronte (2011), di Silvia Ballestra.

Ha studiato arti visive all’Università IUAV di Venezia, alla UWE di Bristol e alla New York University. Ha presentato i suoi film in diversi festival nazionali e internazionali. Fa parte del collettivo artistico Blauer Hase, con cui cura la pubblicazione periodica Paesaggio. Realizza spesso delle interviste e segue Rrose da vicino, sin dall’inizio.

Ha frequentato la Scuola Internazionale di Comics. Ha realizzato diverse copertine di libri, illustrazioni per manuali di giochi di ruolo e commissioni per privati. È stato tra i finalisti del concorso Biennale Giovani Artisti Marchigiani 2011. Sua la copertina della rivista “Io come autore” (n. 25, ottobre 2011). www.andreatentorimontalto.com

Giovane progettista grafico, si è diplomato al Centro sperimentale design di Ancona. È il fantasista e l’impaginatore di questo numero di Rrose (come lo è stato per i numeri 1 e 2), dalla prima pagina all’ultima, copertina compresa. Ha un debole (che poi sarebbe la sua forza) per l’elaborazione o la completa trasformazione grafica dei font.

mauro cicarè sara boggio Laureata in Lettere e in Pittura. Ha collaborato con Italian Poetry Review e lavorato come writer, redattrice e traduttrice per numerose case editrici, in Italia e in Australia. Attualmente è tutor di Storia dellarte contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Torino, curatrice e critico darte freelance.

Disegnatore di fumetti, illustratore e pittore. Sue opere sono apparse su riviste e quotidiani, in Italia e all’estero. Ha collaborato con importanti case editrici tra cui Feltrinelli, Einaudi, Utet Librerie. Con lo scrittore Angelo Ferracuti ha realizzato la graphic novel L’Angelo Nero, pubblicata sul settimanale Alias. www.maurocicare.it

paolo fabbri Semiologo, docente presso l’Università IULM di Milano e LUISS di Roma. Ha fondato il Centro di Semiotica di Urbino nel 1970. È autore di libri, saggi e articoli sui problemi del linguaggio e della comunicazione. Fa parte del comitato scientifico o editoriale di numerose riviste ed istituzioni nazionali e internazionali. www.paolofabbri.it

michele dall’ongaro lietta manganelli Si occupa da anni con caparbia testardaggine delle opere postume del padre. Ha fondato il Centro Studi Giorgio Manganelli. Svolge attività di editor per varie case editrici. Ha curato un libro di lettere famigliari del padre e uno di lettere fra Giorgio Manganelli e Luciano Anceschi. manganelli.altervista.org

Compositore, musicologo, conduttore radiofonico e televisivo. Ha frequentato il Conservatorio Santa Cecilia di Roma sotto la guida di Aldo Clementi. Ha composto musiche per il teatro, brani sinfonici, musiche di scena. Dal 2000 è il responsabile della programmazione musicale di Rai-Radio3. Dal 2008 è sovrintendente dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.

Poeta, fotografo e regista statunitense. Dal ‘63 al ‘68 è stato il più stretto collaboratore di Andy Warhol. Numerosi i libri di poesia pubblicati nell’arco di venticinque anni, da Chic death (1971) a Mythologies of the Heart (1996). Sue fotografie sono pubblicate in volumi e copertine ed esposte in mostre internazionali. www.gerardmalanga.com

tommaso lagattolla Costumista e scenografo, direttore degli allestimenti scenici presso la Fondazione Petruzzelli di Bari. Si è dedicato soprattutto all’opera lirica, verso cui lo guida anche la sua formazione da violinista. Si occupa di costume storico presso la Galleria del Costume di Palazzo Pitti. Insegna Costume per lo spettacolo all’Accademia di Belle Arti di Bari.

elisa savi ovadia

massimo puliani

Pubblicista, fotogiornalista e fotografo di scena. Critico di teatro e di danza per il settimanale Città nuova e per il quotidiano Il Sole 24 Ore. Collabora con il mensile Danza&Danza e con il sito www.teatro.org. Ha intervistato importanti personaggi del mondo dello spettacolo. Ha tenuto mostre personali e partecipato a mostre collettive.

Stilista di moda e costumista teatrale, video maker e collaboratrice di Moni Ovadia, suo compagno di vita da molti anni. Da sempre interessata alla storia del costume e della moda, colleziona cappelli di tutto il mondo e di tutte le epoche, in particolare degli anni Venti e Trenta. Nel 2008 ha creato – insieme ad Elena Masut, amica di sempre – il marchio “Capplé, cappelli fatti a mano in Italia”. www.capple.it

Insegna all’Accademia di Belle Arti di Macerata. Regista teatrale e multimediale, promotore di festival tematici. Fra le sue pubblicazioni: Gaberscik: il teatro di Giorgio Gaber, testo, rappresentazione, modello (2008), PlayBeckett. Visioni multimediali nellopera di Samuele Beckett (2006), SvobodaMagika. Polyvisioni sceniche di Josef Svoboda (2006). www.massimopuliani.blogspot.com

massimo de nardo stefano fantelli Ha all’attivo più di cento pubblicazioni apparse su numerose riviste e antologie. Ha pubblicato le raccolte di racconti Alla fine della notte (Mobydick, 2003) e Dark Circus (Cut-Up, 2009), la graphic novel El Brujo Grand Hotel (CutUp, 2010) e il romanzo Strane ferite (Cut-Up, 2012).

Copywriter, critico d’arte, docente di Linguaggi della comunicazione. Autore di testi teatrali e di racconti. Ha pubblicato in ebook, con il gruppo Gems, il romanzo Ogni tanto fatela suonare. È responsabile dell’associazione culturale Rrose Sélavy e di questa rivista, che gli ha fatto perdere qualche ora di sonno però gli ha regalato, da sveglio, un po di sogni. www.massimodenardo.it

antonio tentori francesco micheli

giuseppe distefano

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gerard malanga

Diplomato alla Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”, insegna regia presso l’Accademia di Brera. Collabora con la rete satellitare Sky Classica. Ha lavorato come autore e regista per il Teatro Stabile di Torino, il Maggio Musicale, il Festival di Sant’Arcangelo, il Luglio Musicale di Trapani, il Rossini Opera Festival. È direttore artistico dello Sferisterio Opera Festival di Macerata. francescomicheli.wix.com

elena ovecina Giornalista d’arte, collabora con diverse testate. Da sempre, la sua attenzione è rivolta verso quei fotografi emergenti che si fanno conoscere attraverso il web, servendosi di “canali democratici” come Flickr, Picasa, Facebook e che preferiscono affrontare tematiche innovative e coraggiose. www.elenaovecina.com

Ha pubblicato racconti in antologie (Sul filo del rasoio, Supergiallo Mondadori, 2010; Apocalissi 2012, Bietti, 2012; Cattivissimi, Stampa Alternativa, 2012), la novelization di Inferno di Dario Argento (Newton Compton, 1997) e Nero Profondo (Cut Up, 2008). Ha scritto Dracula 3D di Dario Argento. www.antoniotentori.it

chiara gabrielli Ama la razionalità della procedura penale, materia in cui svolge la sua attività di ricerca universitaria, e la creatività delle arti, del teatro e della letteratura, che occupano gran parte del suo tempo libero. Preziosissima in redazione: corregge, suggerisce, trova.

hanno partecipato ai primi due numeri di rrose: Bruno Ceccobelli, Mimmo Jodice, Margherita Palli, Monica Randi, Annamaria Testa, Pasquale Barbella, Gillo Dorfles, Germano Celant, Elisa Savi Ovadia, Maurizio Ferraris, Dem, Fabrizio Ottaviucci, Vittorio Zincone, Mauro Cicarè, Angelo Ferracuti, Lorenzo Fonda, Mauro Bubbico, Barbara Garlaschelli, Piero Feliciotti, Mimmo Paladino, Gabriele Basilico, Achille Bonito Oliva, Maria Luisa Spaziani, Matteo Pericoli, Maurizio Maggiani, Franco Arminio, Angelo Simone, Musica nuda, Angelo Trani, Fabio Palombo, Osvaldo Pieroni, Riccardo Falcinelli, Carmina Campus, Chiara Gabrielli, Paolo Rinaldi, Massimo De Nardo.

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IL GENIO CHE RIDE di Demetrio Paparoni L’opera di Yue Minjun riprodotta sulla copertina di Rrose mostra lo stesso artista che si sdoppia per impersonare la Statua della Libertà e la sua fiaccola, che gli stanno alle spalle. Convinto che la creatività non debba lasciarsi ingabbiare dai canoni di un unico stile, egli ha un lavoro estremamente diversificato, anche se noto soprattutto per la serie degli autoritratti nei quali affronta le situazioni più disparate con una risata disarmante. Prendendo in giro innanzi tutto se stesso – il soggetto delle sue opere è sempre lui, qualunque cosa egli dipinga – Yue Minjun smitizza qualunque situazione, svuotandola di enfasi. La sua risata, espressione di significati diversi a seconda del contesto, suggerisce la necessità di saper prendere le distanze dalle situazioni che ci angosciano. A far da comun denominatore alle sue diverse serie di lavori è la confusione mentale insita nell’essere umano e accentuata da un mondo che cambia troppo velocemente per potergli star dietro. Questo senso di disagio emerge anche nelle sue rivisitazioni pittoriche di capolavori della storia dell’arte, fedeli all’originale ma svuotati della presenza umana (Scene Series), nei labirinti (Maze Series) o nei collage, ottenuti con ritagli di riviste patinate, fotografie e materiali sintetici. Parlando del quadro in copertina su questo numero di Rrose,Yue Minjun mi ha spiegato che esso ironizza sul concetto di libertà e di sé: «Il sé diviene la Statua della libertà, e la libertà una fiaccola. Cerco di parlare di libertà e del modo di concepirla nel contesto cinese come nel mondo occidentale. Non mi piacciono le spiegazioni che si danno di questa parola. In Cina, come nei paesi occidentali, se ne fa un uso accademico che non mi soddisfa». Tutta l’opera di Yue Minjun del resto evidenzia che la libertà è un attributo e non un valore a se stante.

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the laughing genius of yue minjun The painting by Yue Minjun on the cover of Rrose shows the artist doubling himself, in order to identify with the Statue of Liberty with its torch that stands behind him. Since Yue Minjun believes that the artist’s creativity must not allow itself to be caged by the canons of a single style, his work is extremely varied, even if known mainly for the series of self-portraits where his image confronts disparate situations with a disarming laugh. Making fun, first of all, of himself (he’s always the subject of his paintings, no matter what he depicts), Yue Minjun deglamorizes every situation, leaving out all emphasis. His laugh, which expresses different meanings depending on the context, suggests the necessity of distancing oneself from any distressing situation. The common denominator of his many series of works is the mental confusion inherent to the human being, stressed out by a world that changes too quickly for him/her to keep up with it. This sense of uneasyness also surfaces in his pictorial revisitations of art history’s masterpieces, which remain faithful to the originals but are deprived of any human presence (Scene Series), in his labyrinths (Maze Series), and in his collages, made of pictures cut out from glossy magazines, of photographs, and of synthetic materials. Regarding the painting on the cover of this issue of Rrose, Yue Minjun explained that it expresses an irony about the concepts of freedom and of self: “The self becomes the Statue of Liberty, while freedom becomes a torch. I am trying to talk about freedom and the way it’s conceived in a Chinese context as well as in the Western world. I don’t like the explanations usually given about this word. In China, like in Western countries, it’s used in an academic way, and that doesn’t satisfy me”. Yue Minjun’s entire work underlines the fact that freedom is an attribute, not a value in itself.

岳敏君:大笑的天赋 Translated by Stephanie Lu 本期《Rrose》的封面是岳敏君的作品。画中的艺术家通过复制自 我,实现了对身后手握火炬的自由女神像的模仿。 在岳敏君看来,有创造力的艺术家绝不会甘于单一的风格。因此, 尽管一提到岳敏君,人们立刻会想到一系列在绝望情境中开怀大 笑的画家自画像,他的作品其实非常多样化。岳敏君以取笑自我为 主要武器(无论描绘对象为何,岳敏君都是画面的主角),消解了 一切情境的神圣意义,于是,画面中便不再有重点。在岳敏君的作 品中,不同情形下的笑被赋予了不同的意义,提醒着人们:无论现 实多么绝望,请保持距离。 岳敏君的很多创作都在表现人生来就有的意识混乱。为了跟上这 个变幻纷繁错综复杂的世界,人类无可避免地感到压力。这种不 安感也体现在他对名作的重塑之中。在《场景系列》里,岳敏君抹 去了所有人物,只忠实于原作的场景。同样, 《迷宫系列》, 《拼贴 系列》 (由从时尚杂志中剪裁下来的页面、照片、综合材料等制作 而成)也是如此。 岳敏君说,这幅作品是对自由、自我的反讽。 “自我化身为自由女 神,自由化身为火炬。我想探讨的是西方世界和中国对自由涵义的 理解。我并不满意现阶段中国、西方、学术上对自由的诠释。”在 岳敏君的作品里,自由是固有的属性。

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di Sara Boggio

{yue minjun}

Dietro la maschera dal ghigno imperturbato, la rivoluzione senz’armi di Yue Minjun Uno dei volti più noti della scena artistica cinese e internazionale ostenta una risata impetuosa in centinaia di tele e altrettante sculture. È l’autoritratto di Yue Minjun, il suo avatar prolifico di multipli. Uno, nessuno, centomila. Di quell’espressione (cinica, derisoria, sarcastica?) è già stata data ogni sorta di interpretazione. Yue Minjun (nato nel 1962, e oggi artista fra i più quotati e apprezzati) dapprima usa gli amici come modelli, poi opta per una soluzione più comoda: l’autoritratto. I suoi primi cloni non ridono, ma l’espressione austera è resa vivace dai colori sgargianti e dai contorni netti che prendono elegantemente le distanze sia dall’estetica pop occidentale sia dall’arte di propaganda autoctona (di cui pure conservano, in molti casi, l’involucro, appropriandosi di simboli specifici e inequivocabili come il sole, le bandiere, la stessa Piazza Tienanmen di Pechino). Poi i cloni diventano sorridenti. In Cina i lavori non “ortodossi” faticano a trovare spazi

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{yue minjun}

espositivi, ma non c’è motivo di rifiutare un uomo che ride, quasi rendesse omaggio alla “felicità” del realismo socialista, i cui soggetti erano sempre sorridenti. Tuttavia l’etichetta cinese raccomanda equilibrio e compostezza nell’espressione dei propri sentimenti. Sarà per questa ragione, o per i malcelati riferimenti a fatti e misfatti realmente accaduti, che il suo lavoro s’impone prima all’estero, soprattutto in Europa, che in patria. Il suo primo quadro viene acquistato da una galleria di Hong Kong nel 1992 (a una cifra irrisoria rispetto ai recenti record d’asta); la prima personale importante si tiene a Basilea nel 1997, la seconda a Londra nel 2000 (Red Ocean). A Pechino Yue Minjun arriva solo nel 2002 (Handling). Nell’arco di vent’anni, gli autoritratti di Yue – l’incarnato sempre acceso da toni acidi e brillanti – hanno assunto ogni posa e abbigliamento immaginabile sullo sfondo di innumerevoli contesti. La figura dell’artista si è materializzata anche in gruppi di sculture in fibra di vetro, lega di alluminio o bronzo. La serie più nota è Contemporary terracotta warriors, rivisitazione dell’esercito della dinastia Qin,

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scelta da Harold Szemman per la Biennale di Venezia del 1999, la più recente è The archelogical discovery in AD3009, presentata a Pechino nel 2009. Non stupisce che la scelta e la ripetizione compulsiva del soggetto abbiano suscitato un’unica domanda (perché quella risata?) e un’infinità di ipotesi. Se è vero che è finito il tempo delle grandi narrazioni introspettive, se occorrono esperienze semplici e dirette, e perciò un volto riconoscibile che possa subito tradursi in icona, è vero anche che il sorriso può essere ambiguo e contraddittorio come una maschera pirandelliana, al di sotto della quale si cela sempre il tragico. Recuperare la risata quale strumento di mediazione tra sé e il mondo è, nell’opera di Yue, un atto quasi rivoluzionario: l’unica arma capace di mitigare il dolore, se non di estirparlo. Lo diceva il maestro taoista Lao Zhuang, cui non a caso Yue ascrive l’essenza spirituale del suo lavoro. Ma la risata non esaurisce in questo il proprio effetto. Yue ha prodotto un ciclo di opere in cui sostituisce la propria immagine alle figure umane dei capolavori dell’arte occidentale,

tra cui, attinti all’iconografia cristiana, il Battesimo di Cristo di Piero Della Francesca e La deposizione di Cristo nel sepolcro di Caravaggio: l’ilarità che ne deriva non è dissacrante, né cinica, né provocatoria ma, in prima istanza, liberatoria. Solo l’uomo che ride è libero, e ridendo partecipa a un processo di emancipazione del pensiero tanto pacifico (non-violento) quanto profondo. È così che i modelli culturali, religiosi e politici, ereditati o imposti, si sgretolano – ed è così che il volto dell’artista si appropria con disinvoltura di Delacroix (Massacre of Chios), Goya (Execution), Manet (Luncheon on the grass), Velázquez (Princess). Il sorriso prodotto dall’ironica e originale rielaborazione di opere classiche crea quel

corto circuito intellettuale ed emotivo che è in grado di farci vedere il passato da un’angolatura mai considerata prima, come fosse per la prima volta. «L’arte demolisce significante e significato e crea un caos che può servire come incubatore di nuove possibilità», afferma Yue Minjun, anche quando, come fa lui, si utilizzano i più tradizionali strumenti della pittura: la tela e il pennello. «Il passato – continua Yue – non va soltanto riconosciuto come vero o falso. Occorre negarlo del tutto per riconoscerlo in modo completamente nuovo». Così, a partire dal 1996, Yue dà avvio al ciclo Landscapes with no one. Si riappropria dei capolavori della storia artistica occidentale e cinese, sottraendone però i soggetti: La morte di Marat di David diventa una vasca vuota. Lo stesso avviene per la Ragazza che legge una lettera vicino a una finestra aperta di Vermeer, per le Donne di Algeri nei loro appartamenti di Delacroix, per Il Presidente Mao al Monte Jinggang di Luo Gongliu. Dopo il distacco ironico, dunque, la tabula rasa, perché la posta in gioco è, ancora una volta, la libertà dell’individuo: «Non intendo ridefinire l’arte, ma rendere manifeste le dinamiche di potere e di controllo sottese a ogni sistema culturale». Il suo assillo esistenziale (e per questo tema ricorrente) è «lo stato mentale indotto dall’influenza di una singola cultura e di una singola ideologia», nonché la violenza che da queste deriva. I cloni di se stesso, visti tutti insieme, compongono un esercito di automi che a George Orwell sarebbe parso perfettamente eloquente. Ma né la lucidità delle dichiarazioni di poetica dell’artista, né la leggerezza apparente del suo lavoro devono far pensare a un percorso lineare e privo di ostacoli, come mostra in modo quanto mai esplicito la serie Maze (“labirinto”) iniziata nel 2005: tele in cui la figura umana rimpicciolisce o scompare per lasciare posto a ragnatele di strade composte

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{yue minjun}

Una scelta di gusto.

sulla falsariga dei caratteri cinesi oppure ritorte sul motivo della spirale, in ogni caso avviluppate su se stesse e senza uscita. Il lavoro, che è diventato anche progetto architettonico per una casa labirintica nella periferia di Shanghai, trae ispirazione dalla “guerra al terrore” e dallo stato di allarme permanente che l’accompagna – contemporanea caccia alle streghe che è perfetta metafora del disorientamento comune a vittime e carnefici. A questo punto, più osserviamo i volti di Yue, più la loro ambiguità appare manifesta. Congelato in una paralisi del tutto innaturale,

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il riso sardonico non cita Omero e la forza sprezzante di Ulisse contro i Proci ma, piuttosto, la terminologia medica (che definisce riso sardonico la contrazione spastica dei muscoli facciali in caso di avvelenamento). Dunque, volti contratti da stricnina, inebriati da gas esilarante, saturi di nitriti alchilici. O forse annichiliti, squilibrati, folli. Non così lontani dai volti della modernità occidentale, dall’Urlo di Edvard Munch agli autoritratti di Francis Bacon, contratti da un orrore che ne ha deformato per sempre e senza rimedio i lineamenti. Gli uomini che ridono sembrano

uno specchio che li riflette al contrario: capovolto ma fedele. «Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare» commenta Mattia Pascal la prima volta in cui si guarda allo specchio. Di certo lui e Yue Minjun avrebbero avuto di che discutere, prima di dissolversi nei loro centomila multipli.#

www.varnelli.it Rrose. | 11


di Lietta Manganelli

{giorgio manganelli} IBRA

A

DENTRO UN Io non ho prova della mia esistenza se non per questo dolore continuo dell’orecchio, una lettera d’amico, il gusto denso della birra contro le gengive. Fuori del sigillo della paura ininterrotta non ho altro indizio della mia continuità. Giorgio Manganelli, Poesie, Crocetti Editore, 2006, Milano

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IA DI F IG L A V IA H C VEC

Giorgio Manganelli, il più funambolico, visionario ed eccentrico scrittore del Novecento, in realtà nasce come poeta. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Cresciuto a pane e poesia dalla madre Amelia, unica intellettuale in una famiglia dove, da sempre, i componenti si occupavano esclusivamente di numeri, Giorgio dimostra da subito forti interessi letterari e un odio mortale ed eterno per tutto ciò che sapesse vagamente di matematica. La madre Amelia Censi si diploma maestra nel 1905, anni in cui poche erano le donne che andavano a scuola, e da subito inizia a scrivere poesie che fa leggere e correggere al figlio Giorgio, suo naturale e unico interlocutore. Appassionata di cultura e mitologia greca e fervente cattolica, inculcherà nel secondogenito, timido, impacciato e lettore accanito, queste due passioni. Come meravigliarsi, allora, se il giovane Giorgio inizia a scrivere poesie prima ancora di scoprirsi scrittore? Le prime creazioni del giovane poeta ricalcano i modelli materni. Nascono così, da una parte “La Deposizione” e “L’Annunciazione”, e dall’altra “Le Cariatidi” e “Tre canti per Euridice”, tanto per fare degli esempi. Ben presto, però, la sua personalità ha il sopravvento e, lasciati i temi materni, si avvicina ai temi più disparati, la morte, la rabbia, la dissacrazione, temi che poi ritroveremo in tutti i suoi scritti. La produzione poetica di Manganelli, al di là del suo valore intrinseco, ha una forte valenza di laboratorio: nel giovane Manganelli c’è tutto il Manganelli della maturità. Non è un caso, infatti, che le ultime poesie in ordine di tempo accompagnino l’autore verso la nascita di “Hilarotragoedia”: a quel punto la poesia ha esaurito il suo compito, e Manganelli non ne scriverà più. Dopo un certo numero di innamoramenti assolutamente non ricambiati, anche perché mai confessati, Manganelli si innamora e si fidanza con Fausta Preschern naturalizzata Chiaruttini, giovane insegnante di Lettere che, naturalmente, scrive poesie. È a lei che fa leggere per prima le sue creazioni, provocando le ire materne, ed è ancora lei che ricopia in bella calligrafia, o almeno leggibile, gli sgorbi del giovane fidanzato. Sempre a lei confida le sue speranze letterarie e racconta dei suoi incontri con il professor Vittorio Beonio Brocchieri, suo insegnante all’Università di Pavia, che dimostra di apprezzare le poesie di Manganelli al punto da proporgli di pubblicarne alcune nella rivista di poesia che presto avrebbe visto la luce e di cui il professore sarebbe diventato il direttore. La rivista non decollò mai e di conseguenza le poesie non furono mai pubblicate. Il matrimonio di Giorgio e Fausta dura pochissimo e Manganelli incontra quella che in quegli anni fu il suo tormento ma anche la sua musa: la poetessa Alda Merini. Se Manganelli fu il mentore di Alda, insegnandole in primo luogo la scrittura degli aforismi, Alda fu per lui il riscatto dalla delusione e dal dolore, e l’incontro, fondamentale, con il disagio mentale, accompagnato non dalla disperazione e dalla sofferenza, tipo di disagio che lui conosceva benissimo per averlo provato sulla sua pelle, ma unito alla gioia e alla voglia di vivere e di amare, caratteristiche principali della giovane Alda. Manganelli fugge da Milano, si rifugia a Roma dove comincia a collaborare con il Terzo

Il pianto mi scivola nelle vene mi fu promesso il sole ma io nulla vedo ancora e la notte lotta col crepuscolo. Per quanto? Sono stanco, soffro, prego. Dio della serena bellezza, della bruciante gioia, abbiate pietà di me! Perché tanto penare? Meglio [ ] senza indagarlo L’enorme mister dell’Universo. Senza gioia sognare, sognare Inedita. Purtroppo la parola fra parentesi è illeggibile. Nemmeno Fausta Chiaruttini, sua moglie, cioè mia madre, che pure ricopiava le sue poesie, è riuscita, ai tempi, a decifrarla.

Programma della Rai. E da dove inizia? Naturalmente curando trasmissioni su poeti inglesi, da Elisabeth Jennings a Robert Conquest, traducendo per la prima volta in italiano le loro opere. Come si vede, la poesia insegue Manganelli, che in realtà non se ne libererà mai; continuerà a riscrivere e a correggere i suoi componimenti poetici, comporrà indici su indici, non li pubblicherà mai ma continuerà a tenerli in una vecchia valigia di fibra, che lo seguirà sempre in tutti i suoi numerosi spostamenti e traslochi, una delle poche cose da cui non si separerà mai. Le sue poesie sono state poi pubblicate postume, nel 2006, dall’editore Crocetti a cura di Daniele Piccini, e hanno suscitato grande interesse sia da parte degli studiosi di Manganelli - seppure con qualche polemica - sia da parte di artisti che fino a quel momento non si erano mai avvicinati a questo funambolico scrittore, presentandole in reading pubblici e, forse ancora più strano, ma forse no, musicandole. Uno per tutti, Giovanni Nuti, che nel suo prossimo concerto “Ciao Alda”, unirà alle poesie musicate e cantate di Alda Merini due poesie appunto di Manganelli. Coraggio? Follia? Forse solamente passione.# Nella foto, Lietta e Giorgio Manganelli. La foto è tratta dal libro “Album fotografico di Giorgio Manganelli - Racconto biografico di Lietta Manganelli”, a cura di Ermanno Cavazzoni, edito da Quodlibet, 2010. Ringraziamo l’editore.

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di Massimo De Nardo

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Internozero comunicazione è “un’agenzia di advertising, comunicazione e design, fondata nel 2010”. Prima si chiamava soltanto Internozero, uno studio “specializzato nella comunicazione del settore cinematografico, che realizza tra il 1990 e il 2010 più di 400 campagne di lancio per altrettanti film italiani e stranieri e vince numerosi premi di categoria”. È questa la parte che interessa a noi di Rrose: i manifesti per il cinema. L’elenco dei manifesti realizzati fino ad oggi dall’agenzia romana assomiglia ai titoli di coda, di quelli che non finiscono mai e che continuano a scorrere sullo schermo anche dopo che uno è uscito dalla sala. Qui sono immagini (nel loro sito web), e si resta con il piacere di vederli passare uno ad uno quei manifesti, molti dei quali sono davvero le pagine della storia moderna del cinema, italiano e non. I meno giovani della redazione di Rrose ricordano che farsi regalare il manifesto di un film proiettato nel cinema cittadino era un’impresa impossibile. Bastava che fosse il manifesto di un film, senza troppe pretese, ma il gestore negava il sogno. Era sufficiente averne uno per arredare la propria camera, non era collezionismo. Tanti anni fa si andava al cinema anche tutte le sere, costava davvero poco. La televisione non tutti ce l’avevano e le trasmissioni erano ad orari precisi. Nelle grandi città i manifesti di film celebri si potevano

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acquistare in qualche libreria o negozio di dischi. Un po’ cari, a dire il vero. Oggi sono affissi in sequenze sui cartelloni delle multisale come fossero prodotti da supermercato. Qualche manifesto è da incorniciare, qualcun altro da staccare e basta. Ovviamente. Per la nostra prima domanda a Riccardo Fidenzi e a Maurizio Ruben, responsabili di Internozero comunicazione, prendiamo spunto da una affermazione di Riccardo Falcinelli, che abbiamo intervistato per Rrose 2. Falcinelli progetta copertine di libri. Le locandine dei film sembrano copertine. A volte fa quest’effetto. Falcinelli dice che «Le copertine devono assomigliare a tre cose: al libro che racchiudono, all’editore che lo pubblica, al lettore che lo compra». Potrebbe essere lo stesso con i manifesti del cinema, sostituendo libro con film, editore con produttore, lettore con pubblico? R: Decisamente potrebbe essere lo stesso. Anzi, dovrebbe. Il manifesto, come del resto la copertina di un libro, è sostanzialmente una promessa, la promessa di un’emozione. E quindi deve raccontare (o, meglio, suggerire) qualcosa dell’emozione del film che promuove. Ma lo deve fare usando un linguaggio simile a quello utilizzato dal regista e che sia comunque vicino a quello del pubblico potenziale di

quello specifico film. Abbiamo detto regista invece di produttore, come tu hai suggerito, ma così abbiamo semplificato troppo. Infatti il problema è tutto qui: di chi è il film, del regista che lo ha girato, del produttore che lo ha reso possibile, del distributore che lo porta nelle sale e che ne cura la promozione? Insomma, vogliamo dire che gli “attori” sono molti, e tutti partecipano alla campagna promozionale, o comunque desiderano di farlo, e questo a volte rende difficile il nostro compito. M: Il manifesto deve incuriosirti, deve attirare l’attenzione nelle strade in mezzo ad altre pubblicità e come la copertina di un libro deve farti venir voglia di saperne di più, deve riuscire a darti un’emozione. Al tempo stesso deve accontentare i tre “attori” principali: autore, produttore/distributore e pubblico, cercando di equilibrare una buona dose di senso estetico/ artistico, essere d’impatto e far venire voglia di andare al cinema. Le scene (o la scena) mostrate in un manifesto sono veri e proprio fotogrammi o sono fotografie di scena o immagini realizzate appositamente per i manifesti che nel film non ci sono? O a volte l’una, a volte l’altra cosa? R: Dipende dai casi: di norma si lavora sulle foto di scena, fatte espressamente da un fotografo specializzato che è presente sul set e che quindi in qualche modo “ruba” gli allestimenti e le luci del film, ma li reinterpreta a modo suo. Questa soluzione è preferibile a quella dell’uso diretto di fotogrammi del film, perché tecnicamente (specialmente ora, con l’avvento della fotografia digitale ad altissima definizione) offre una maggiore risoluzione dell’immagine. Il fotografo di scena, poi, può anche fare dei primi piani dove invece il regista utilizza un campo lungo e viceversa, oppure inquadrare la stessa scena da altre prospettive, offrendoci dei punti di vista alternativi e spesso molto utili. A volte realizziamo, sempre in accordo con il fotografo di scena, dei servizi ad hoc, sul set o fuori, basandoci su idee

specifiche che ci sembrano adatte, ma questo riusciamo a farlo soltanto quando la produzione o la distribuzione ci mette in condizione di intervenire quando le riprese del film non sono ancora terminate. E questo non accade spesso. A volte, infine, le foto sono scarse, o inesistenti, o inadatte, e lì la creatività deve esprimersi al massimo. M: Qualche anno fa si lavorava con le diapositive o con i “faldoni fotografici” pieni di provini, dei quali dovevi farti stampare un’accurata selezione, scansionare la foto, e solo allora potevi cominciare il lavoro di composizione al computer. Con il digitale si lavora meglio, perché c’è sicuramente più materiale rispetto a prima ed è lavorabile da subito, però c’è anche tanto materiale fatto da fotografi improvvisati con fotocamere inadeguate, per cui molto spesso manca quella immagine specifica, interessante, che invece nel film c’è. Allora si cerca di risolvere scaricando il fotogramma dal film, e in questo caso la risoluzione utile alla stampa è decisamente superiore di quella del fotogramma e allora dobbiamo fare delle “acrobazie” tecniche, creative, compositive per ottenere un risultato accettabile. Chi decide cosa inserire in un manifesto? Il produttore, il regista o l’esperto di marketing? R: Anche qui dipende. In tutte le case di distribuzione c’è un responsabile marketing, che è il nostro naturale referente perché la responsabilità della campagna di lancio di un film è della casa di distribuzione. Ma, soprattutto nel caso di film italiani, si lavora sempre in team con il produttore e il regista, anche se questo a volte può provocare dissensi, dissapori e incomprensioni. Nella maggioranza dei casi, comunque, siamo noi ad avere la responsabilità e la libertà di proporre il nostro punto di vista, di tentare strade che ci convincono e ci attraggono, per poi confrontarci con i vari protagonisti. Se abbiamo

fatto bene il nostro lavoro, di solito riusciamo a metterli tutti d’accordo. M: Sono tanti anni che realizziamo manifesti cinematografici e solitamente quando ci coinvolgono in un progetto si aspettano un manifesto “diverso” e questo è un bene perché ti permette di esplorare idee non usuali e ci stimola a trovare sempre dei manifesti particolari. Solitamente presentiamo diverse soluzioni, dalla più classica alla più coraggiosa. A quel punto dipende molto dalla voglia di diversificare del nostro interlocutore. Nel caso, ad esempio, di Caro diario, Buongiorno notte, Il divo, Una vita tranquilla, Fortapàsc siamo riusciti a trovare soluzioni che hanno messo d’accordo tutti subito, o quasi. Pensando alla prima domanda, cioè ai libri, un lettore guarda la copertina, a volte coglie anche uno stile che gli somiglia, legge la quarta di copertina per entrare un po’ nella vicenda, o per lasciarsi convincere. Su un manifesto non c’è scritto nulla del film. Non funzionerebbe inserire una trama? O non ha senso perché tanto ci sono i depliant

distribuiti nelle multisale a raccontarci qualcosa? R: Il lancio di un film è un’operazione complessa, che spesso vede coinvolti capitali superiori e mezzi più vari di quelli usati per il lancio di un libro. Basti pensare ai trailer e agli spot televisivi, che, insieme ai depliant di sala, hanno appunto lo scopo di raccontare qualcosa in più della trama del film. Il manifesto invece, insieme al resto della campagna stampa sulle riviste e sui quotidiani, deve piuttosto avere la funzione di “promemoria emozionale”, legarsi al film e agli estratti che il pubblico già vede nei trailer e negli spot ed evocarne l’atmosfera e il senso. La fruizione di un manifesto è spesso rapida, il manifesto deve usare un linguaggio visivamente semplice ed emotivamente intenso, troppe parole sarebbero solo d’impaccio. M: Il manifesto è quello che rappresenta il film nella memoria visiva della gente dopo l’uscita del film, oltre alle immagini del film stesso, ovviamente, per cui più è secco, deciso, intenso, determinato, senza bisogno di ulteriori spiegazioni, e meglio è.

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Con Habemus Papam, di Nanni Moretti, avete vinto il Ciak d’oro 2011 come migliore manifesto. Qual è stata la motivazione del premio? R: Le motivazioni ufficiali non ci sono state comunicate, normalmente non accade, né per i Ciak d’oro né per altri premi. Noi speriamo sia stata premiata la nostra capacità di sintesi, l’emozione di quel gesto appena accennato che a noi sembrava capace di rendere appieno l’esitazione e il travaglio esistenziale di un uomo chiamato ad un compito così gravoso. È una foto che abbiamo pensato ancor prima di vedere il film, basandoci sul solo soggetto, e abbiamo coinvolto Nanni Moretti e il fotografo del film, Philippe Antonello, per realizzare uno scatto sul set giusto, proprio davanti alla finestra dalla quale il Pontefice avrebbe dovuto affacciarsi. Anche se non si vede, ci sembrava importante che l’ambientazione fosse proprio quella. M: La nostra grande soddisfazione per quel manifesto è stata, appunto, quella di averlo pensato prima di vedere il film.

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Il vostro primo manifesto? R: Il nostro primo manifesto è stato quello di un film, decisamente poco noto, di un autore inglese “di culto”, Monte Hellman. Il film si chiamava Iguana e abbiamo realizzato un bozzetto illustrato ad aerografo nello stile più classico del tradizionale cinema d’avventura. Ma il film non ha avuto nemmeno una vera e propria distribuzione in sala, per cui noi consideriamo come il nostro primo “vero” manifesto quello del film d’esordio di Antonietta De Lillo, Matilda, distribuito dalla Mikado. Lo avete incorniciato? R: Non abbiamo idea di dove sia finito il bozzetto di Iguana, purtroppo, e di Matilda abbiamo solo una locandina un po’ stropicciata. Per cui no, nessuno dei due è stato incorniciato. M: In qualche archivio di Internozero ci dovrebbe essere l’originale del film Iguana, un’illustrazione 50 per 100 centimetri, ad aerografo e pennello. In quel tempo ci potevamo permettere anche un mese per realizzare i bozzetti illustrati; oggi con il computer e Photoshop ti danno al massimo qualche giorno. Le sottili (o corpose) differenze tra progettare un manifesto per un film, un manifesto per uno spettacolo teatrale, un manifesto per un’agenzia viaggi (o per un prodotto da bottega e non da botteghino). R: Differenze ce ne sono molte. È vero che in ogni caso ci viene richiesto uno sforzo creativo a partire da un mix di dati razionali (aspettative di vendita, pubblico potenziale, piano marketing, eccetera) e spinte emotive, ma per quanto riguarda i manifesti di cinema (ancora di più che per quelli teatrali) c’è un fattore in più, qualcosa di peculiare. Si tratta di opere visive, con la loro estetica forte, un’estetica scelta e curata dal regista e dai suoi collaboratori. E occorre farci i conti. Rispettarla. Introiettarla. Adattarla e reinterpretarla senza tradirla. È molto stimolante, ma è sempre una

sfida molto difficile. M: Direi che le differenze sono più tra un manifesto che rappresenti un’opera artistica e uno di un prodotto commerciale. Il manifesto viene fruito in modo diverso anche se lo scopo è comunque lo stesso: riuscire a incuriosire. Una volta i manifesti erano quasi tutti disegnati. Evoluzione della tecnica o una questione di diverso stile, di linguaggio? R: Entrambe le cose. Abbiamo iniziato a lavorare nel cinema proprio quando il tradizionale manifesto illustrato era al tramonto, se ne facevano ancora ma sempre di rado e la soluzione fotografica era spesso scelta dai produttori perché più contemporanea, moderna. La tecnologia informatica era agli albori, anche se parliamo solo di una ventina di anni fa: Photoshop era un programma molto rozzo ed elementare che girava su computer costosi e lentissimi, quindi ancora aveva un senso sfruttare la totale libertà creativa del manifesto pittorico. Ma era il linguaggio della comunicazione che stava cambiando, il pubblico giovanile iniziava a “cibarsi” di cose come VideoMusic e Mtv, il mondo cambiava rapidamente ed era indispensabile fare un salto stilistico, avvicinarsi al nuovo millennio. Noi venivamo da una formazione pubblicitaria ed eravamo giovani, eravamo – insieme con altri colleghi di quegli anni – i più adatti a cercare di fare questa piccola “rivoluzione” di stile e di linguaggio. M: Credo che oggi, con l’uniformarsi della tecnica, ci sia una scoperta dell’illustrazione, magari non quella dei pittori del passato, ma più moderna. Spesso ci viene chiesto un segno o un manifesto pulito alla Saul Bass. Li comincia una nuova sfida per trovare un linguaggio attuale che attinga dal passato ma che non sia già visto. Spesso il titolo di un film in italiano è tutt’altro dal titolo originale. La più buffa traduzione? R: Non ci è mai capitato – o almeno non ce

ne ricordiamo – di lavorare ad un film con un titolo tradotto in maniera “approssimativa”. Ricordiamo molte esitazioni nel decidere qualche traduzione e qualche strano sottotitolo un po’ forzato, il tutto nella speranza di conquistare degli spettatori in più, però niente di clamoroso. Tra il manifesto da affiggere in un cinema e la copertina di un dvd non c’è alcuna differenza? Una pura questione di centimetri e basta? R: La questione è dibattuta. C’è chi ritiene sia meglio tenere fede alle scelte fatte al momento dell’uscita in sala e rafforzare la memoria latente dello spettatore riutilizzando lo stesso manifesto. C’è chi, invece, ritiene che il pubblico dell’home video sia diverso e abbia esigenze differenti, e che sia quindi meglio realizzare qualcosa ad hoc. Ci resta il sospetto, però, che la scelta sia molto influenzata dalle sorti del film in sala: se il film è piaciuto, ha avuto fortuna e ha incassato, magari si lascia a cuor sereno la stessa immagine, mentre se l’uscita al cinema è stata deludente magari si tentano strade nuove. M: Dipende dalle sorti del film: solitamente se il film ha funzionato in sala si mantiene lo stesso manifesto, altrimenti lo cambiano per dare nuove “atmosfere” al film. Se dico “pizza” voi pensate ad una Margherita o c’è qualche altra storia nel mezzo? R: Ce ne sono tante di storie, tutte quelle legate al simbolo per eccellenza del cinema, la pellicola contenuta nella classica scatola metallica che ancora tutti chiamano pizza. Ne abbiamo maneggiate molte, facendo scorrere a mano la pellicola avanti e indietro alla ricerca di quel singolo frame che era proprio quello che ci voleva per realizzare un manifesto come dicevamo noi. Ora invece, se proprio si vuole lavorare su di un frame si chiede al laboratorio l’estrazione di un file digitale, e la pellicola non la frequentiamo più. Chissà, forse a breve sparirà del tutto e anche le sale inizieranno a proiettare in digitale. Che sia una perdita o una conquista lo scopriremo col tempo. M: Dipende dalla fame. Il manifesto che avreste voluto fare e che invece ha realizzato la concorrenza. R: Forse quello de L’amore molesto di Mario Martone. Era distribuito dalla Lucky Red, una casa di distribuzione per la quale curavamo l’intero listino. Ma questa volta, su richiesta del regista, è stato chiamato a occuparsi del manifesto un artista napoletano, Patrizio Esposito. E ha fatto un ottimo lavoro, un manifesto bello e intenso, molto vicino al film, ma con una sua particolare forza emotiva. M: Personalmente ogni volta che vedo un’idea nuova di comunicazione, una grafica innovativa, un’elaborazione moderna dell’immagine. Quando questo succede, l’agenzia ha lavorato bene e in sintonia con il cliente. Fare manifesti nuovi, diversi, aiuta noi, la concorrenza e il mercato stesso a evolversi nelle scelte e strategie di marketing.

Consigliateci un manifesto (film italiano o film straniero è lo stesso) da appendere nella redazione di Rrose. R: Ne consigliamo due, uno nostro e uno, prestigioso, di un concorrente straniero. Il primo è quello di Caro diario, il nostro portafortuna, quello che abbiamo appeso nella nostra sala riunioni e a cui siamo più affezionati. E l’altro è il manifesto teaser del prequel di Star Wars, episodio 1, quello in cui un giovane Anakin proietta dietro di sé l’ombra dell’adulto Darth Vader. Due manifesti diversissimi per due film che più distanti non potrebbero essere e che pure – immodestamente – hanno qualcosa in comune: la semplicità visiva, la sintesi concettuale e la capacità di permanere nell’immaginario degli spettatori ed elevarsi a icona. M: Caro diario e qualcuno di Saul Bass, appunto, forse Anatomy of a Murder. Bello, diretto, colorato, di grande impatto!#

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di Giuseppe Distefano

{emma dante}

Un modo di far teatro che ormai da tempo, con l’importanza di una rivelazione, ci ha contagiati e scossi

Palermo, andata e ritorno. Palermo, odiata e amata. Palermo è, e rimane, per Emma Dante, il luogo dell’ispirazione. Lo è stata da sempre. Dal primo spettacolo che porta lo stesso nome della città, all’ultima e nuova tappa dell’artista siciliana impegnata nella messinscena cinematografica: sviluppo ulteriore della sua scrittura scenica e letteraria. Dall’omonimo romanzo “Via Castellana Bandiera” pubblicato nel 2008, nasce ora un film da lei diretto e interpretato accanto ad Alba Rohrwacher ed Elena Cotta. Una storia tipicamente palermitana ambientata in un vicolo della città: un budello che diventa il centro di un’umanità grottesca, da teatro dell’assurdo, il palcoscenico di una tragicommedia tutta siciliana. Narra di Rosa e Sara, che, arrivate a Palermo in una calda giornata d’estate per

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il matrimonio di un amico, si smarriscono con la loro automobile finendo nello stretto vicolo di via Castellana Bandiera dove sopraggiunge, in senso contrario, un’altra macchina guidata da un’anziana donna albanese, Samira. La surreale contesa che si genererà, dove nessuna è disposta a cedere il passo all’altra, diventa sfida di potere e innesca la partecipazione da tifo tra gli abitanti del quartiere; in particolare degli uomini della famiglia Calafiore i quali, per sfruttare a loro favore il faccia a faccia, organizzano un giro di scommesse su quale macchina indietreggerà per prima. La testardaggine e l’ostinazione delle donne le farà resistere alla fame, alla sete, al sopraggiungere della notte e del sonno, con esiti che sconvolgeranno ogni previsione. «Samira spegne il motore, Rosa risponde

automaticamente con lo stesso gesto - scrive l’autrice - Le donne si fissano come galline, con il collo teso e la testa leggermente spostata in avanti. Pronte a scattare, tendono le orecchie. Entrambi gli equipaggi guardano il proprio conducente con profonda stima e senso dell’onore. Anche se resterà segreto per loro il motivo della sfida: Rosa e Samira dichiarano guerra alla propria sottomissione». Ne ha fatta di strada Emma. Da attrice di giro, durata pochi anni, a regista. Di teatro, di lirica, e ora di cinema. Decisione drastica – quella di provare con la regia – che coincise con la scelta di tornare in Sicilia. «Ero stanca di stare dentro la foresta selvaggia del teatro – racconta –. Mi sentivo a disagio e non mi piaceva stare in scena. Sentivo che non era attraverso la recitazione che avrei

detto qualcosa. Sono tornata a Palermo anche per assistere mia madre che si era ammalata gravemente, fino ad accompagnarla alla morte. Durante tutto questo percorso, come fossi stata risucchiata nel ventre della mia terra, in una specie di nascita al contrario, ho conosciuto i miei ragazzi con i quali ho costituito la Compagnia Sud Costa Occidentale. Era il 1999». I loro spettacoli all’inizio erano delle performance in case private, pub, centri sociali. «Poi il teatro ho cominciato a scriverlo, ma all’inizio prendevo pezzi da racconti e romanzi. Se devo mettere le mani su una cosa sicuramente non è un testo teatrale con i dialoghi. M’interessa semmai la tragedia, altrimenti lavoro su un romanzo. All’inizio prendevamo testi di Aldo Nove, David Foster

Wallace, Valerie Solanas, autori con una scrittura molto rabbiosa. Mi interessavano perché volevo andare davanti al ragazzetto di buona famiglia e buttargli addosso qualche veleno. Avevo addosso una rabbia che derivava da tutto il dolore vissuto nella vita (ho avuto molti lutti, e per questo il tema della morte ritorna spesso nel mio teatro, che è un modo per esorcizzarla: faccio teatro per questo). Avevo bisogno di svegliare la gente. Era un lavoro sulla memoria, un modo di tenerla sveglia a tutti i costi. È lo stesso lavoro che faccio tutt’ora, con la differenza che adesso scrivo delle cose mie. In realtà mi sento autrice perché lo sono di tutto. Fondamentalmente sono una teatrante, nel senso più largo. Ci sono poi dei testi che mi sconvolgono e allora li metto dentro. La lettura de Le due zitelle di

Le pulle

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{emma dante}

rito e messa a fuoco

Landolfi mi aveva talmente ferito che sentivo di dovermene liberare. E l’ho fatto a teatro con La scimia (2004). Tutto ciò che mi colpisce profondamente non posso tenerlo per me perché altrimenti impazzisco. Devo darlo, offrirlo come miseria: quella che mi procura dentro». Il mio primo incontro con Emma Dante è stato con mPalermu. Ricordo ancora l’emozione fortissima di quella indimenticabile serata al teatro Valle di Roma con tutto il pubblico in piedi ad applaudire il debutto di uno spettacolo (vincitore del Premio Scenario 2001) che da lì in avanti avrebbe segnato la scena italiana contemporanea, portando alla ribalta una regista dal talento dirompente. Avrei desiderato, quella sera, poter fotografare il susseguirsi di quelle sequenze folgoranti che si componevano a ritmo vorticoso pur nella dinamica staticità e nell’apparente semplicità compositiva della struttura scenica. Erano quadri viventi di corpi caravaggeschi venuti dal buio, personaggi grotteschi, umanissimi, di potente visionarietà, che al buio ritornavano dopo essere venuti alla luce. I cinque straordinari attori della Compagnia Sud Costa Occidentale evocavano sentimenti, stati d’animo, immagini che appartenevano alla mia terra, la Sicilia, ma esplodevano fuori da quel confine geografico e dell’anima, e diventavano universali. Quella nuova scrittura scenica creata da Emma e dai suoi attori apriva visioni, mutava prospettive di grammatica teatrale, squarciava veli di tabù famigliari, celebrava microcosmi ancestrali e attualissimi di squassanti lacerazioni interiori rese anche in immagini e movimenti che andavano necessariamente fissati nella retina dell’occhio. E restituiti in altrettante visioni fotografiche. Da allora ho seguito con crescente passione tutti gli spettacoli successivi di Emma, sempre da spettatore. E ogni volta si rinnovava l’incantamento violento anche degli occhi. Fino a che l’occasione di una lunga e appassionata intervista che le feci per il mensile Primafila, per me rivelatrice del suo teatro e soprattutto della persona, mi permise di conoscerla più da vicino e di entrare, un po’ di più, nella sua turbolenta e appassionante dimensione artistica. Era alle prese con un laboratorio per lo spettacolo Cani di bancata e le chiesi il permesso di assistervi per fotografare le varie fasi di lavoro. Da lì in avanti ho cominciato a entrare nelle viscere del suo “fare” teatro, ad apprezzarlo ancora di più fotografando poi, a ritroso, Carnezzeria, Vita mia, Mishelle di sant’Oliva, e gli spettacoli che seguirono. Concepisco la fotografia di scena non come mera documentazione dell’evento teatrale, bensì come atto creativo, come ulteriore e personale messinscena che può accompagnare lo spettatore dentro la creazione. Entrare nello spazio creativo di Emma significava “sporcarsi”, essere anch’io corpo vivo della scena, per poter trarre fotogrammi di dettagli fuggevoli che, fissati, svelavano ulteriori significati. Perché l’immagine, come la finzione, può servire a stimolare, ad interrogare

C’è tutta una cartografia antropologica, negli spettacoli di Emma Dante, che non troverete alla lettera nei suoi testi pubblicati, negli story board dei suoi cantieri, nell’esegesi della critica anche la più avveduta e analitica, e che invece potrete identificare nella segnaletica plasmata dalle testimonianze fotografiche dei suoi lavori. (…) Ci sono quadri viventi di questo portfolio che vi convinceranno della bellezza estrema d’una certa teratologia delle vicende (in)civili e domestiche drammatizzate da Emma Dante, ci sono smorfie sante di questo o quel personaggio che vi inquieteranno, ci sono balli epici o quotidiani delle figure componenti l’universo di questa ritrattista della Vergogna e della Morte Gioiosa insite in tutti noi che vi faranno legittimamente pensare a una Pina Bausch mediterranea, ci sono tante e varie iconografie di uomini e donne espressivi attraverso l’alfabeto muto della loro fisicità tanto da indurvi a pensare a una sua preminente creatività senza parole, ci sono vestiti da sposa che sono il più pauroso, amoroso e spudorato vilipendio all’istituto

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Vita mia

ed interrogarsi, offrendo allo spettatore-lettore suggestioni sommerse e svelamenti di un immaginario soggettivo e, allo stesso tempo, comune. La forza e la potenza delle immagini che Emma crea sono pane per gli occhi, nutrimento emotivo e conoscitivo di un mondo interiore, psicologico, sociale, che si allarga all’intero consorzio umano. Il suo teatro-immagine colpisce allo stomaco, urta, scomoda, infrange regole linguistiche e canoni scenici. Esplora territori aspri e violenti, è testimone di cerimonie e ritualità; è rappresentazione dell’anima di un mondo che è messinscena della condizione umana.#

di Rodolfo Di Giammarco

matrimoniale, ci sono lumicini funebri che accostano e accentuano una miscela record di disgrazia tenerissima e crimine efferatissimo, ci sono simboli religiosi che ricorrono e che svelano profondi retaggi con una cultura meridionale di devozione atavica e incombente, ci sono vari patrimoni del sapere e del dissipare (e del vivere e del non vivere più) che si concentrano in fisionomie di piedi, ci sono risate che sono pianti, ci sono rapporti imperscrutabili tra generazioni e tra rappresentazioni del sesso, ci sono camminate sghembe e muri del pianto per file d’attrici, e ci sono giravolte con bambole gonfiabili o danze eseguite abbracciando una scopa, ci sono assemblee di mafia e manifesti scritti sulle spalle, e ci sono silhouette feticcio, ci sono cabaret turpi, ci sono liturgie impressionantemente funeree, ci sono disperazioni che ti stringono il cuore, ci sono solitudini senza un’ombra attorno e solitudini di gruppo, e ci sono tipologie e fenomeni di quel disagio che logora i fianchi o l’anima.

A sinistra: Ballarini A destra: Il festino

Tratto da Rodolfo Di Giammarco, Emma Dante, rito e messa a fuoco in Il teatro di Emma Dante nelle fotografie di Giuseppe Distefano, Infinito edizioni, 2011

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suonatina al chiaro di luce

di Mauro Cicarè

di Michele Dall’Ongaro

big

big bang

Ho sempre pensato che il rapporto che esiste tra musica e scena (nel senso più ampio possibile: dramma, cinema, tv, documentario, teatro, libretto d’opera, istallazione, video e in parte la danza) sia molto simile a quello che c’è tra il lettore e il libro. Da una parte abbiamo il testo nella sua realtà oggettiva fatta di carta, cartone, cuciture, parole, lettere, punteggiatura, colori, odori, peso, spessore. Dall’altra, le infinite interpretazioni di quelle parole, tante quante le persone che leggono il testo. Ecco: la musica si sostituisce al lettore e guida (fatalmente) la percezione e l’interpretazione del testo diventando per forza di cose testo essa stessa (e infatti sappiamo che anche il lettore diventa testo, in realtà). Ovviamente il modo in cui queste alchimie avvengono muta a seconda dei casi e di nuovo le combinazioni sono infinite soprattutto in epoca crossmediatica dove distinguere tra uovo e gallina è molto

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problematico. Nelle sue manifestazioni più aggiornate e interessanti la vecchia divisione dei ruoli non esiste più da tempo e anzi diamo per scontato questo assioma senza addentrarci nei mille e mille esempi che la pratica quotidiana ci presenta. Ma, in linea generale, laddove la musica arriva “dopo” (la colonna sonora di un film, la musica di scena per una piece teatrale, la musica per un melologo) la ricezione del testo originale è indirizzata in modo sostanziale dal suo sound. Quindi il modo di regolare questo flusso di coscienza – l’impatto che il tutto ha sul pubblico e, a conti fatti, una abbondante fetta del successo o dell’insuccesso (commerciale, artistico) del progetto – dipende alfine dalla musica. Si comprende quindi l’attenzione che i registi pongono su questo elemento che è anche quello che controllano di meno (o per nulla), pur svolgendo un mestiere per il quale l’ossessione del controllo è requisito primario. Da qui una serie di aneddoti, storie, esperienze che intrecciano musica

d’uso e musica d’arte, ricerche parallele, sperimentazioni straordinarie, furibondi litigi, sodalizi fraterni, vittorie e sconfitte. Per quanto mi riguarda ho avuto poche esperienze intorno a questi temi, ma molto emozionanti: una specie di musical per la radio per una strepitosa Lisistrata firmata Ronconi, musiche di scena per Tartufo nella (bellissima) versione di Carlo Cecchi, un balletto con Amedeo Amodio, e – sorvolando sul teatro musicale nel senso pieno del termine, insomma le opere per capirci – un certo numero di melologhi su testi di Michele Serra, Vittorio Sermonti, Giuseppe Sinopoli. Però di certo il progetto più azzardato e formativo è stata l’opera Alexandr Nevskij – Video (1989) di Daniele Abbado e Studio Azzurro, dove il film di Ejzenstejn è stato completamente rimontato e fuso sulle immagini del concerto della cantata di Prokof’ev diretta da Claudio Abbado. Seguendo criteri strettamente legati all’analisi musicale

e audiovisiva della partitura e del film originale in mesi e mesi di lavoro, ogni fotogramma, ogni semicroma sono stati affiancati dopo un serratissimo dibattito sulla precisa funzione della singola figura, dopo uno studio approfondito delle relazioni audiovisive tra scena del concerto, del film e suoni della partitura. L’insegnamento che ne ho tratto è che siamo ancora, dopo tanti anni, appena all’inizio di una avventura della creatività in cui la dimensione del “musicabile”, il concerto stesso di musica, si sta espandendo ancora di più, includendo elementi fino ad ora esclusi dalla logica del percorso artistico: dopo il rumore, dopo il silenzio, dopo il corpo, dopo la luce, dopo le nuove tecnologie, dopo l’immagine il numero dei parametri disponibili per l’invenzione e la fantasia è cresciuto e sta crescendo esponenzialmente. La fine di questo big bang non si vede e per fortuna la strada da fare è ancora molto, molto, molto lunga.#

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di Elisa Savi Ovadia

{ed wood}

Ed Wood discute con dei produttori non contenti:

«La lastra tombale di cartone è caduta, questo cimitero è manifestamente finto.»

«Il cinema non è fondato su piccoli dettagli, è la magia dell’insieme.» «La magia dell’insieme?»

«Già.» «È magico anche il fatto che i poliziotti sono arrivati in pieno giorno e all’improvviso è notte?»

«Ma che ne sa lei, ha mai sentito parlare di sospensione dell’incredulità?» 24 | Rrose.

Nel 1953, gli Stati Uniti d’America non erano ancora usciti dall’oscuro tunnel del “maccartismo”. Il clima di sospetto, intimidazione e censura imposto dal senatore Joseph McCarthy – con l’appoggio, se non per conto, di John Edgar Hoover, il famigerato capo dell’FBI – con la scusa della lotta al comunismo si rivelò una vera e propria campagna accusatoria e persecutoria verso persone o gruppi ritenuti “sovversivi”. Eleanor Roosevelt lo definì “una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto”: coinvolse tutti coloro che non si conformavano ai rigidi dettami imposti dalla Commissione per il bene della nazione: dagli attivisti politici agli intellettuali ed artisti liberal, dagli omosessuali agli ebrei. In questo contesto, risulta ancora più singolare che uno sconosciuto sedicente regista, Ed Wood, personaggio imprevedibile e non omologato, dotato solo della sua immensa passione per il cinema, sia riuscito a convincere gli Studios a finanziare il suo primo film che trattava di un fatto così “scabroso” come il desiderio di cambiare sesso. Nelle sale americane, Glen or Glenda fu un fiasco di proporzioni gigantesche. Definito della critica “probabilmente il peggior film mai girato”, fu solo l’inizio di una serie di insuccessi, dovuti non tanto alla mancanza tecnica e di mezzi, alle trame approssimative e alla rapidità di realizzazione – spesso solo tre o quattro giorni – che li caratterizzava, quanto all’assoluta assenza di logica, congruità e coerenza. Addirittura utilizzava spezzoni di altri film come scene di guerra o riprese di bisonti che sovrapponeva alle proprie immagini con risultati nonsense e surreali. La troupe di fedelissimi con cui girava era un’armata Brancaleone, composta da un direttore della fotografia daltonico, un veggente che fungeva da aiuto-regista, un

lottatore di wrestling “suonato”, la fidanzata di turno e da altri stravaganti personaggi. Malgrado fossero spesso girate in luoghi inverosimili e con mezzi a dir poco primitivi, le scene erano sempre buone al primo ciak. Glen or Glenda avrebbe dovuto trarre spunto da un fatto realmente accaduto: il primo intervento per il cambiamento di sesso effettuato da Christine Jorgensen nel 1952. Ma, sotto la direzione di Ed Wood, la storia prese una piega decisamente autobiografica, finendo col trattare l’argomento del travestitismo. Ed Wood era infatti un crossdresser*: fin da ragazzo amava indossare abiti e biancheria femminili – la indossava persino sotto l’uniforme da soldato – con una passione feticistica per i golfini di angora. E in abiti femminili dirigeva anche le sue strampalate e bizzarre opere. La sua fotografia più nota, tratta dal set di Glen or Glenda, lo ritrae seduto su un divano a fiori, assorto nella lettura di una rivista, con una parrucca bionda in testa e un maglioncino rosa tipico della moda degli anni Cinquanta, di quelli perfetti per evidenziare tanto le procaci curve delle attrici dell’epoca, quanto le larghe spalle e i bicipiti muscolosi di Wood. Sul volto non c’è traccia di trucco, piuttosto un’ombra scura sopra il labbro, le braccia pelose spuntano dalle maniche corte, le mani grandi hanno lunghe unghie finte applicate; sotto il golfino, un reggipetto imbottito simula dei vistosi attributi. Non c’è traccia di alcuna “femminilità” in questo travestimento, quanto piuttosto un’intenzione brechtiana di porre una distanza tra sé e il personaggio interpretato. Ed Wood non desidera diventare donna, sentirsi donna, vuole percepirsi un uomo vestito da donna, con il gusto del proibito e il senso di trasgressione che questo comporta. Mi torna in mente la foto di Marcel Duchamp, Portrait of Rrose Sélavy, in un’ennesima accezione: se Duchamp, per sua ammissione, giocava con

la propria identità e il proprio sesso, Ed Wood gioca con l’identità e il sesso di un’altra e li fa propri per gioco – lo spazio di un’eccitazione fugace – mentre si espone agli sguardi stupefatti e moralistici della società. Eros c’est la vie, e Wood la vita la vive come una libera ed eccentrica occasione “erotica” per manifestare le proprie passioni e soddisfare le proprie pulsioni. Difficile dare un giudizio sul lavoro cinematografico di Ed Wood: col gusto tipico di certi intellettuali per il revival, in molti hanno rivalutato quello che nel 1980, due anni dopo la sua morte, i due critici Harry e Michael Medved avevano definito il “peggior regista di tutti i tempi”. Tim Burton, da filmmaker di razza, e l’attore Johnny Depp, che l’ha interpretato, hanno costruito su di lui una storia straordinaria in cui un uomo senza apparenti qualità consuma la vita dietro ad un sogno, tra esaltazioni infantili, involontari sperimentalismi cinematografici e incolmabili solitudini. La storia di un piccolo uomo che ci impartisce una grande lezione: essere noi stessi al di fuori delle convenzioni, nel rispetto delle proprie e delle altrui diversità. * Chi indossa abiti del sesso opposto, pubblicamente o in privato. A differenza dei termini transessuale e transgender, l’espressione crossdresser non riguarda l’identità di genere né l’orientamento sessuale.#

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di Paolo Fabbri

{tullio pericoli} un meraviglioso “portrattista” Tullio Pericoli ritrae i ritratti di Rossini. Li moltiplica come se ogni suo quadro fosse l’esecuzione originale d’uno spartito visivo fatto con le immagini canoniche del cigno pesarese. I ritratti canonici di Rossini – sui quali sembra modellata anche la sua fotografia – sono diversi quanto i loro intenti e quanti erano i loro destinatari. Stendhal descrive Rossini con “gilet nero, abito blù, una cravatta ogni mattina, ecco ad es. un costume che non gli farete togliere neanche per presentarlo alla più grande delle principesse”. Henry Beyle ne tratteggia la fisionomia attraverso la conversazione: “una mente tutta fuoco, che sorvola tutti i soggetti e vi coglie un’idea gradevole, vera o grottesca” e pur se talvolta “assurdo, non ha mai mancato di spirito”. Per giungere infine allo stile: “vario e vivo più che gaio, mai appassionato, sempre spiritoso, raramente noioso, più raramente sublime”. Il ritratto narrato è uno stenogramma, una biografia sintetica. Le immagini chiave cercano nuove serrature e Tullio Pericoli a differenza degli illustratori non disegna come “si” disegna, ma come sa disegnare lui. Sa che ritrarre non è una resa dei conti con la rassomiglianza, ma la messa in racconto di un significato che resta incompiuto. Nel tempo si diventa molto più simili o tanto più diversi da un certo ritratto. Cerca, come ha fatto con altri musicisti, un Rossini “per me, vero, vivo, segreto”. Difficile compito perché il grande musicista vive ormai immerso in quei ritratti e quelle facce le ha definitivamente calzate. Svisarle, sfacciarle è contrariare una individuazione canonizzata, una sospensione a divinis. Disfare un volto è rifare un destino, ma è solo liberando i “tratti di faccialità” – i lineamenti, le fattezze – che possiamo poi connetterli con nuovi “tratti di pittoricità, di musicalità, liberati anch’essi dai rispettivi codici” (Deleuze, Guattari). È nel mutamento che diventiamo veramente consapevoli dell’aspetto. Esemplificando altre proprietà del volto, il quale è il nostro portavoce, questo può dirci qualcosa d’altro, parlare con un nuovo accento. Pericoli ha il suo modo di operare, di ragionare per immagini. Sa per esperienza e molti esperimenti che ogni viso è fatto di relazioni tra caratteri; ogni fisionomia, anche le più stereotipe e culturalmente mediate, è un equilibrio precario e irregolare di connotati. Un minimo spostamento di forma, spazio, colore ne trasforma il significato: un ritratto cattura sempre una caricatura. Perciò moltiplica le variazioni, per sovrapposizioni e accostamenti creando, parole sue, dei “fotogrammi”, verticali e orizzontali di facce possibili. Non cancella i primi schizzi, come altri disegnatori; sovrapponendoli su supporti trasparenti, come su un palinsesto, individua a poco a poco i caratteri salienti fino a un definitivo fermo immagine. Dal diafano affiora un’epifania, soprattutto quando Pericoli disegna gli occhi e il

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viso ritratto lo riguarda. Mi piacerebbe chiamare “portratto” – come nell’inglese portrait o il francese portrait – questo procedimento di protrusione e trasfigurazione dell’immagine. In italiano, il prefisso ri-, di “ritratto”, conserva un senso di ripresa e di rappresentazione, mentre nelle variazioni di Pericoli c’è la presentazione di quella prospettiva ampia e continua che si trova nel prefisso por-. Come in “portento”, quel meraviglioso che per E.T. Hoffmann non era solo una proprietà del soprannaturale ma anche dell’opera buffa, quando la trivialità del quotidiano viene sovvertita dall’irrisione: “l’impossibile ha il sopravvento, gli avvenimenti casuali si accumulano, il risultato è un sollievo liberatore. In balia dell’imprevisto i personaggi diventano marionette e la restrizione della loro libertà mette in risalto l’onnipotenza dei loro creatori, librettista, compositore, attori. L’ironia che denuncia la risibile finitezza della condizione umana si attribuisce le prerogative dell’infinito”. Estratto dal catalogo (di prossima pubblicazione) della mostra Tullio Pericoli, Quelques Riens pour Rossini, Galleria Franca Mancini, Pesaro, in occasione del Rossini Opera Festival 2012.#

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di Tommaso Lagattolla

{sartoria tirelli}

A sinistra: Morte a Venezia regia Luchino Visconti costumi Piero Tosi (1971) A destra: La Traviata - regia Franco Zeffirelli costumi Piero Tosi (1983)

Il mio primo incontro con la sartoria Tirelli è avvenuto quando mi è stato chiesto di stivare la donazione che il suo fondatore fece nel 1986 alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze. Negli appartamenti della Meridiana, un centinaio di costumi ancora sui manichini attendeva di riposare in scatole sterili e a temperatura controllata. In un’atmosfera surreale, Medea e Alphonsine Duplessis dovevano essere spogliate dei loro abiti da affidare per sempre alle amorevoli cure di esperti conservatori: davanti ai miei occhi non c’erano solo dei costumi, tra i più straordinari mai realizzati, ma piuttosto il guardaroba vero di quei personaggi. I costumi della corte della Colchide della Medea pasoliniana realizzati da Piero Tosi emanavano ancora l’odore acre del corno bruciato, del cuoio conciato naturalmente, del decadimento delle tinture naturali su stoffe tessute e plissettate a mano con tecniche antiche, a tal punto che per il restauro si ricorse all’intervento dell’Opificio delle Pietre Dure, esperto in materiali poco ortodossi. La sartoria Tirelli è l’espressione di un sincretismo tra invenzione e ricerca del vero, al limite di un’ossessione che porterà Umberto Tirelli alla creazione di una delle più consistenti

collezioni private di costumi d’epoca autentici che conta circa quindicimila capi. L’esistenza di Umberto Tirelli è avvincente come un film: dall’azienda vinicola dei genitori, comincia a frequentare Bigi, noto sarto milanese che l’introduce in un ambiente intellettuale e festaiolo; poi il trasferimento a Milano come fattorino, grossista di foderami, direttore di maglificio, e finalmente factotum nella sartoria teatrale Finzi che gli dà la possibilità di conoscere costumisti come Tosi, Donati, De Nobili e che gli permette di far pratica con i colossali spettacoli dell’Arena di Verona. Nel 1955 lavora presso le anziane sorelle Maggioni alla Safas, storica sartoria che collabora in simbiosi con Visconti. È l’inizio di un sodalizio artistico che culmina con la titanica produzione de Il Gattopardo, l’atto di nascita di un tipo di ricostruzione filologica mai praticata, che lo costringe alla ricerca maniacale del materiale autentico. Nel 1964 nasce la Sartoria artigiana Tirelli, che collabora sistematicamente con le produzioni di Visconti, Strehler, De Lullo, Bolognini, Bolchi, Ronconi. Tanti spettacoli e tanta ricerca tecnologica e storica che lo portano all’acquisizione di importanti strumenti come l’archivio di

Maria Monaci Gallenga, storica rivale di Fortuny, che consta, oltre che in una cinquantina di capi, in settemila stampi per imprimere in oro e argento qualsiasi tessuto. Questa acquisizione permette a Tirelli di realizzare una gran quantità di produzioni dell’amatissimo Pier Luigi Pizzi, dall’Enrico IV di De Lullo al celeberrimo Orlando Furioso di Ronconi. Sono note le loro incursioni nel maleodorante magazzino di Concetta Gazzoni che recuperava gli abiti usati dell’aristocrazia romana per rivenderli. Un paradiso dell’haute couture da cui proviene il sessanta per cento del museo privato di Tirelli. La fama di questa collezione attraversa l’oceano grazie alle collaborazioni con il Metropolitan di New York e con il Kyoto Institute e viene consacrata dalla grandiosa mostra di Palazzo Pitti del 1986: trecento capi, tra autentici e realizzati. Questi materiali furono indispensabili per la realizzazione dei grandi film di Visconti da Ludwig a Morte a Venezia, che segna l’acme dell’utilizzo di materiale originale in un film. Con la morte di Visconti, e complice la crisi economica dei primi anni Novanta, la sartoria è spinta ad aprirsi al mercato internazionale. Costumisti come Theodor Pistek, Milena Canonero, Ann Roth, Gabriella Pescucci, Maurizio Millenotti

C’era una volta in America - regia Sergio Leone - costumi Gabriella Pescucci (1984)

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{sartoria tirelli}

Contessa di Castiglione, 1865. Collezione Fondazione Tirelli Trappetti Mostra “Moda in Italia. 150 anni di eleganza”, settembre 2011, gennaio 2012. Reggia di Venaria, Torino.

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consentono alla sartoria di ottenere prestigiosi riconoscimenti internazionali, come gli Oscar per Amadeus, Barry Lindon, Momenti di gloria, L’età dell’innocenza. Con la morte di Tirelli la sartoria passa nelle mani del suo collaboratore di sempre, Dino Trappetti che crea la Fondazione Tirelli Trappetti, giudicata dallo Stato italiano ente di interesse culturale nazionale. Lo incontro nello studiolo della stupenda villa liberty che ospita la sartoria, per parlare delle future prospettive. La Fondazione organizza mostre di altissimo livello (ad esempio per la celebrazione dei 150 anni dell’Unità nazionale a Venaria Reale, e nell’immediato futuro ci sono progetti a Rio de Janeiro e a New York), ma soprattutto si sforza di incrementare il patrimonio di abiti autentici, ormai quasi solo grazie a donazioni private: l’obiettivo è da un lato colmare le lacune cronologiche di una collezione nata sull’onda dell’entusiasmo più che su intenti programmatici, dall’altro restaurare, oltre al patrimonio storico, anche i costumi realizzati che ammontano ormai a circa 170.000 capi. La fondazione si

occupa inoltre della formazione di giovani talenti: a ottobre è previsto uno stage di studenti brasiliani che avranno la fortuna di impratichirsi con maestri come Tosi, Pescucci e i loro discepoli che ormai hanno una carriera internazionale. Nei film in lavorazione più volte compare il nome di Carlo Poggioli, attualmente impegnato nel fantasy Abraham Lincoln. Vampire Hunter e con Milena Canonero per il film Romeo and Juliet. Sono le grandi serie internazionali a dare respiro economico alla Tirelli, che collabora alla realizzazione delle fortunatissime produzioni della HBO: Game of Thrones con i costumi di Michele Clapton e The Borgias, disegnata da Gabriella Pescucci. Prendo congedo da Dino Trappetti e lo lascio nel suo sancta sanctorum, attorniato dai più bei figurini della storia del costume, dalle gouaches di De Nobili, ai disegni di Maccari, Clerici, Manzù, Balthus, e da una serie infinita di ritratti di Tirelli abbigliato nelle fogge più varie, amichevole tributo – mi piace pensare – di tutti quegli artisti che sono entrati in contatto con un uomo che ha saputo vestire i loro sogni.#

A sinistra: Dino Trappetti Evita, regia di Alan Parker (1996); abito di Evita indossato da Madonna; nomination British Academy Film Awards per i costumi di Penny Rrose. Età dell’Innocenza, regia di Martin Scorsese (1993); abito indossato da Michelle Pfeiffer; premio Oscar per i costumi a Gabriella Pascucci. Il Paziente inglese, regia di Anthony Minghella (1996); abito indossato da Kristin Scott Thomas; premio Oscar per i costumi a Ann Roth. A destra: Umberto Tirelli

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{josef svoboda}

di Massimo Puliani

svoboda multimediale Io sono stato sempre emozionato dalla tecnologia Ho cercato di far oscillare l’aria Improvvisamente dalla spirale blu cade giù quella nera e tocca il pavimento È come la luce che piove Ho diffuso il laser attraverso pezzi di specchi (Josef Svoboda)1

lo scienziato artigiano Maestro di illusioni teatrali, sperimentatore curioso, fabbricante di architetture di luce, Svoboda è stato una delle grandi anime della scena internazionale, sia di prosa sia di lirica, degli ultimi cinquant’anni. Un faro del teatro del ‘900 conteso dai maggiori registi, compositori e direttori d’orchestra. Per Svoboda, “scienziato artigiano” (come lo definì Franco Quadri), autore di circa 700 allestimenti fra opere teatrali, liriche e balletti, il “fare teatro” è una diabolica officina dell’immaginario,

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dove i linguaggi si uniscono, si confondono, si rigenerano. Seppur attratto da una forte smania di ricerca per le nuove tecnologie, in lui il senso artigianale dello scenografo ha sempre prevalso su quello del creatore tecnologico. L’interesse di Svoboda era più che mai concentrato su un’idea poliforme della scena, sulla polyvisione scenica che consentiva di ingigantire o di far interagire la presenza del performer. La simbiosi dell’azione scenica con le proiezioni era considerata come essenziale per la natura dello spettacolo, che conservava le regole del teatro e che trovava la piena collaborazione di tutti gli artisti che partecipavano con entusiasmo a quella nuova esperienza multivisiva e multimediale.

l’expo del 1958 Era il 1958 quando Svoboda e Alfréd Radok presentarono all’Esposizione Universale di Bruxelles Lanterna Magika, uno spettacolo (ma anche nome del gruppo) che adottava il sistema

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{josef svoboda} di multiproiezioni Polyécran, continuazione ideale di quelle dinamiche cubofuturiste dei Budetljane (rivoluzionari uomini del futuro) proclamate da Vladimir Majakovskij, o delle performance che Oskar Schlemmer realizzò per Il Balletto Triadico (1923), o delle innovazioni tecnologiche espresse dal Bauhaus di Gropius nell’arte, nel design e nell’architettura che nutriranno il “teatro totale” di Moholy-Nagy e Piscator. La scenografia de La primavera praghese di musica metteva a disposizione del regista otto schermi per la proiezione situati in uno spazio nero. Gli schermi avevano la forma di trapezio e di quadrato. Nonostante gli spettatori fossero abbastanza vicini, percepivano le forme tutte insieme. La platea, arredata in maniera confortevole, era inondata dalla musica stereofonica dei riproduttori situati in modo tale da dare l’impressione che lo spazio intero risuonasse. Sugli schermi si susseguivano le immagini, fisse o mobili, rimandate da sette proiettori cinematografici e otto per le diapositive. La soluzione tecnica proposta dall’Istituto sperimentale partiva da un circuito memorizzante che dirigeva tutte le funzioni indispensabili per lo spettacolo, inclusa la sincronia del suono.

intolleranza 1960 Con il sistema Polyécran nello spettacolo Lanterna Magika, Svoboda mise a punto una tecnica di composizione, di scrittura scenica plastico/ sonora applicata al teatro. L’azione dell’attore o del danzatore si svolgeva in una scena cinetica con tapis roulant e girelle, proiezioni di luci con effetti espressionistici, suoni stereofonici e immagini proiettate sulle superfici più diverse, fisse e mobili. Per Svoboda l’approfondimento delle proprie ricerche nel campo della contaminazione linguistica fra teatro e mezzi di riproduzione visiva fu una scelta estetica che trovò la sua massima sperimentazione nel riallestimento americano nel 1965, dopo la prima a Venezia nel ‘61, di Intolleranza 1960

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di Luigi Nono (da un’idea di Angelo Maria Ripellino) con opere pittoriche di Emilio Vedova: Al Teatro di Boston ebbi a disposizione mezzi che fino ad allora avevo solo sognato, a partire dalla collaborazione della televisione, con la possibilità di riprodurre immediatamente le riprese dello spettacolo. Ai preparativi collaborarono anche il MIT e il secondo canale televisivo di Boston. Sul palcoscenico c’erano tre schermi di proiezione: su quello centrale scorreva la ripresa filmata di ciò che accadeva in scena, mentre sui due laterali c’erano dodici monitor e due eidofor (la dimensione del quadro era di 6 metri per 4), dove apparivano le azioni riprese in contemporanea da due camere situate in due studi lontani dal teatro, per le strade di Boston, davanti al teatro, in platea e sul palcoscenico. In uno degli studi facevamo le riprese del testo, le fotografie, le reclame, nell’altro il film seguiva il coro e il gruppo dei politici, il pubblico in platea e gli attori in palcoscenico. A questo collage di immagini il senso veniva dato dal regista televisivo, che ne proiettava la sequenza su due enormi schermi situati sul palcoscenico. Questa complicata attrezzatura rese possibile al coro, che si trovava in uno studio esterno, di cantare quando la bacchetta del direttore d’orchestra, visibile sul monitor, veniva usata dal direttore in persona, che dirigeva l’orchestra all’interno del teatro. Lo spettatore vedeva nello stesso momento quello che succedeva anche davanti al teatro, per strada. Lo scopo fondamentale di questo complicato sistema era trascinare il pubblico e farlo partecipare intensamente allo spettacolo. Durante il canto di protesta della cantante nera la telecamera riprendeva le persone del pubblico proiettandone l’immagine sullo schermo. La gente si riconosceva e si divertiva. A un certo punto scambiammo l’immagine dal positivo al negativo, e sullo schermo le persone apparvero tutte nere. Alcuni spettatori cominciarono a

protestare, noi li filmammo e li trasmettemmo. Riuscimmo a inserire nello spettacolo persino una dimostrazione che si svolgeva in quel momento davanti al teatro.2

la lampada “svoboda” A Monaco, nel 1970, chiedeva alla Philips di frantumare le luci laser (operazione non priva di rischi); pareva attendere con fiducia da un giorno all’altro che il progresso tecnologico gli consegnasse finalmente le possibilità dell’ologramma. E intanto, in un’Era non ancora informatica, di rudimentali computer troppo lenti per le sue necessità, si serviva di un’arte molto vicina alla magia, alla magia del teatro, appunto. Vera protagonista degli allestimenti di Svoboda era la luce, che rivestiva un ruolo centrale nelle sue scenografie, quale fattore drammatico che disegna e dà vita agli spazi. Lo scenografo ha infatti inventato, nel 1967, il pilastro di luce in tre dimensioni e la tecnica del “controluce”: con l’illuminazione verso il pubblico, che crea così nuovi spazi e nuove profondità. Una “scoperta” che rivoluziona completamente la scenografia e l’architettura teatrale, dando la possibilità di utilizzare i giochi e gli effetti di luce come elementi fondanti di una rappresentazione: una tecnica usata oggi da tutti i teatri d’Europa, realizzata anche con il famoso “proiettore Svoboda”, che Spotlight realizza e vende nella versione motorizzata (Arc Svoboda) con forcella motorizzata a 2 parametri per applicazioni speciali con proiettori ADB. Parte di questo saggio è tratto da “SvobodaMagika -Polyvisioni sceniche di Josef Svoboda: Intolleranza 1960 di Nono (su un’idea di Ripellino), Faust interpretato da Strehler, La traviata di Verdi” di M.Puliani e A.Forlani, Halley Editore 2006 1

Da un’ntervista tratta da un documentario per la tv

cecoslovacca. 2

Josef Svoboda, I segreti dello spazio teatrale; a cura di E. de

Angeli, Ubulibri, Milano, 1997.

C

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di Riccardo Giacconi

{jérôme bel}

Veronique Doisneau, in punta di piedi Nel 1968 Peter Brook diede una celebre (e minimale) definizione di teatro: “Un uomo attraversa [uno] spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò di cui c’è bisogno perché un atto di teatro abbia luogo”. Il coreografo francese Jérôme Bel sembra essere andato perfino più lontano, quando ha lasciato gli spettatori prima nell’oscurità e poi di fronte ad un palcoscenico vuoto durante tutta l’introduzione del suo spettacolo The show must go on (2001). Jérôme Bel è considerato uno dei più sperimentali coreografi contemporanei. Oltre che nei luoghi tradizionali della danza e del teatro, i suoi spettacoli sono stati recentemente presentati nei più importanti luoghi dell’arte contemporanea, come la Tate Modern, il Centre Pompidou e dOCUMENTA (13). Bel ha spesso affermato di lavorare sul “grado zero dello spettacolo” (citando come riferimento Roland Barthes). Uno dei suoi obiettivi – afferma lui stesso – è «riattivare la posizione dello spettatore», svolgendo «piuttosto il lavoro dello spettatore che quello del coreografo». Per Bel la coreografia è composta da «objets – ou sujets – placés dans l’espace avec des temps

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donnés» (una definizione che riprende quella data da Brook rispetto al teatro). Ho recentemente avuto occasione di intervistare Jérôme Bel. Ero in particolare interessato a parlare con lui del suo spettacolo Veronique Doisneau, e della locuzione che è stata spesso associata ad esso, quella di documentario performativo. Tutto ha avuto inizio quando Bel fu invitato a realizzare uno spettacolo per l’Opéra de Paris, che andò in scena nel 2004 e su cui poi è stato prodotto un video. È una sorta di breve autobiografia di una danzatrice dell’Opéra che sta per ritirarsi dalle scene, Veronique Doisneau, narrata da lei stessa in prima persona. Attraverso un vero e proprio montaggio, ai momenti di narrazione parlata vengono regolarmente alternati accenni di coreografie, eseguiti da Veronique. Spesso, riferendosi ai lavori di Bel, si parla di “non-danza”. In un certo modo, sarebbe come definire i ready-made di Duchamp come “non-arte”: non trovo sia una definizione utile. Credo invece che, soprattutto in Veronique Doisneau, la forza dello spettacolo stia nel fatto che tutto è ancora danza, sebbene al “grado zero”: anche le parti raccontate a voce, anche il riprendere fiato rientrano all’interno della coreografia presentata all’Opéra de Paris. La danzatrice fa il suo ingresso su un palco vuoto e inizia a raccontare di sé: «Buonasera. Mi chiamo Veronique Doisneau. Sono sposata e ho due figli. Ho 42 anni, e sto per ritirarmi dalle scene. Questo è il mio ultimo spettacolo all’Opéra de Paris». Bel ricorda che lo spettacolo «fu definito ridicolo, perché non avrebbe mai potuto entrare in alcun repertorio. È chiaro: il pezzo era fatto specificatamente su Veronique, non era un’opera prêt-à-porter». Veronique racconta di non essere mai stata una étoile, ma di essere sempre rimasta sullo sfondo, i ruoli principali erano affidati ad altre. Ad un certo punto dello spettacolo, per dieci minuti, mostra al pubblico cosa vuol dire per le danzatrici fare l’“arredamento umano”, ovvero restare immobili mentre le étoiles eseguono degli assolo o dei pas de deux. La danza viene mostrata in un modo inedito, come lavoro, come fatica. Evidente il messaggio politico, sulla posizione dell’individuo in un contesto sociale. «Si tratta di esplorare una persona in modo che possa raccontare quale sia il suo lavoro» dice Bel. «Non volevo ritrarla come una principessa, una silfide o un cigno, ma in quanto lavoratrice, come la gente del pubblico. In questo spettacolo c’è una sorta di messa a nudo, in cui si può parlare allo stesso tempo di danza e di politica». Durante lo spettacolo Veronique esegue alcuni passi di danza, canticchiandone la musica; passi che durante la sua carriera ha

particolarmente amato o odiato. Sono frammenti di coreografie di Jean Coralli e Jules Perrot, Merce Cunningham, Rudolf Nureyev, che assumono qui lo statuto di citazioni. Il montaggio, in Veronique Doisneau, sembra seguire il formato del film documentario: le dichiarazioni e i commenti della danzatrice sono intrecciati ai passi di danza, che svolgono lo stesso ruolo delle immagini d’archivio nei film documentari. Jérôme Bel sostiene che a teatro non si può essere solamente concettuali: dal momento che c’è sempre un “fattore X” (il pubblico, il corpo degli attori e degli spettatori), non si può ridurre tutto al concetto, all’idea. Per lui, il documento e la citazione non sono mai perfetti, a teatro: «Nella danza, il problema del documento si situa fra la vita e la morte: è una questione di possibilità – o meno – di effettuare modifiche per mano dell’autore. È un po’ crudele, ma ho l’impressione che, una volta che lo spettacolo non si può più modificare, sia già il tempo di documentarlo, in modo da permettergli di rimanere. Questo è particolarmente vero per uno spettacolo come Véronique Doisneau, che non può essere interpretato che da lei stessa». Il documento non è dunque una cosa in sé, ma piuttosto una determinata modalità di esistenza della cosa, un certo uso che se ne fa. È una “segnatura” che lasciamo su qualcosa per poterlo includere in una narrazione, in una teoria, in una storia – come le citazioni dei passi di danza nel racconto della vita di Veronique. Il documento è un’intensità, una corrente che corre attraverso un elemento. Abbiamo un documento solo quando lo usiamo come tale: esso non è, alla fin fine, che una certa performance di una certa cosa. La chiave di lettura più efficace del suo lavoro la dà lo stesso Jérôme Bel: «Ciò che mi ha sempre interessato nel teatro – e nell’arte in generale – non è la verità, ma piuttosto la realtà. Tramite l’arte, sento di far presa sulla realtà». Jérôme Bel Coreografo e regista francese (1964). Dopo gli studi al Centre National de Danse Contemporaine di Angers e varie esperienze come danzatore, ha dato vita alle sue prime creazioni, Nom donné par l’auteur, Jérôme Bel e Shirtology, che esplorano il “grado zero della danza”. Nel 2010 mette in scena Un spectateur, pièce interpretata da lui stesso, in cui ricostruisce le esperienze che lo hanno segnato come spettatore. Nel 2005 ha ricevuto il Bessie Award per The show must go on.#

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di Gerard Malanga

all’improvviso Non è mai stata la distanza salmastra della banchina di sabbia al largo di Madaket1 mai il cimitero dei quaccheri a Nantucket né Land of Unlikeness2 ma quello che è venuto dopo. Ricordo il tuo nome scarabocchiato su un foglietto ripiegato in tasca - Ateliers des Artistes, 1 West 67th.

mi ricordo

Ricordo la notte nella pausa dopo la conclusione di Frank una delle sue fiabesche poesie mozzafiato su Lana Turner hai detto, “...e ora ne leggo qualcuna delle mie”. I tuoi occhi abbassati, solenni. La brevità di quel commento è con me ora, con mezzo sorriso, come i pochi altri - “sfrondare la poesia”, ti piace dire,

di robert lowell o la tua foto scattata in una giornata freddissima una strada umida di Londra a metà novembre. L’istante congelato, poi scomparso mentre ti volti, richiamato, “Gerald” una luce colta nei tuoi bifocali. Robert Lowell (1917-1977),

1

Primo verso della poesia

poeta statunitense.

“Il cimitero dei quaccheri

Obiettore di coscienza

a Nantucket” di Robert

durante la Seconda guerra

Lowell, citata nel verso

mondiale (per cui finisce

successivo.

alcuni mesi in prigione),

2

attivista per i diritti civili

di Robert Lowell.

Prima raccolta di poesie

Ci siamo salutati da lontano. Qualcosa torna alla memoria, anche se vorrei aver fantasticato. Lontano da Tremont Street e da Marlborough Street. Lontano dal cimitero ventoso. Lontano da casa.

e contro la guerra del Vietnam. Due volte premio Pulitzer, nel 1947 e nel 1974.

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Da piccolo non ha mai letto mai storie d’avventura per ragazzi; piuttosto un atlante del mondo; un Webster’s New Collegiate Dictionary, edizione 1953; o New York’s Changing Scene3 di Margot Gayle nel Coloroto4 della domenica. Il resto è stato più o meno una vita all’aperto, se già da adolescente, le cose che lo catturavano e più ammirava sono state a una a una strappate adagio da ieri a ieri senza giustificazioni, finché d’un tratto il futuro non fosse un lungo passato in declino; e ciò che è andato è andato. Le estati afose sotto la sopraelevata. I lotti liberi nient’altro che un sogno in quel gioco di schermaglie, Re della Collina5. Il re sconfitto, autoesiliato nel tedioso appartamento con il montavivande muto e sigillato... ancora e ancora. Lampioni che non illuminano più. Il vialetto dei vicini immerso nei grigi gessosi, cremisi. Voci di bambini smorzate nella nebbia cupa. Il senso del tempo tradito dal tempo. Le nevi dei giorni andati. Mentre ogni giorno andato cancella la memoria. I nomi, i luoghi. Niente da ricordare.

addio

a tutto questo Traduzione a cura di Sara Boggio. Si ringrazia Bruno Osimo per la supervisione della traduzione.#

3

Rubrica del “Daily News”.

4

Inserto del “Daily News”.

5

Gioco d'infanzia che,

ricorda Gerard, consisteva nel raggiungere la cima di una collina combattendo contro nemici immaginari. Chi raggiungeva la meta diventava “re della collina”.

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di Chiara Gabrielli

{fondazione pescheria centro arti visive pesaro}

ph Michele Sereni

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La Fondazione Pescheria Centro Arti Visive si trova a Pesaro, nel centralissimo corso XI Settembre, al 184. Ci siamo andati. C’era anche una bella e particolare mostra su Pino Pascali, “L’altro Pascali”, con opere grafiche e video che l’artista ha realizzato per il cinema e la televisione (pubblicità e sigle tv; primi anni Sessanta). Il tema centrale di Rrose 3 è “la messa in scena” e una galleria è certo un luogo fatto apposta per mettersi in scena, per mostrarsi, arte e artista insieme. Fondazione Pescheria è molto più di una galleria, vuoi per le dimensioni, e vuoi soprattutto per l’atmosfera da museo contemporaneo che si respira (con gli occhi) appena entrati. Una parete di cristallo si alza davanti al loggiato a colonne in muratura, il fianco della costruzione. Lo stesso è per l’ingresso, parete di cristallo e due colonne. Chi passa per strada sbircia dentro e forse questa prima occhiata curiosa servirà ad

entrare, prima o poi. A seconda delle mostre, la galleria sembra cambiare aspetto nella sua architettura. Una sensazione che si ha osservando le foto d’archivio. Il Centro è nato da un’idea del professor Loreno Sguanci – che ne è stato il primo direttore artistico – e del sindaco Oriano Giovanelli: per promuovere l’arte contemporanea e per stimolare dibattiti culturali e artistici. Un’intenzione che, con i tempi odierni, saprebbe di utopia. Ma qualcuno ciò che pensava lo ha fatto, e lo ha fatto anche bene. Era il 1996. Oggi il direttore artistico è Ludovico Pratesi. Si continua a far bene. In sedici anni, Il Centro Arti Visive ha allestito mostre di artisti già da antologia come Mattiacci, Cucchi, Paladino, Vercruysse, Penone, Icaro, Hofer, e di artisti emergenti come Gennari, Pintaldi, Ruffo, Ozzola. Nel 2011 i visitatori sono stati ventimila, per metà giovani. Il merito va anche a Ludovico

Pratesi che ha sviluppato l’attività della Fondazione lungo quattro filoni principali: i grandi maestri, la promozione degli emergenti, la fotografia e la valorizzazione del territorio. Ci si incontra anche per “dibattere” nelle conferenze sul design, l’architettura, la musica oppure ci si incontra per uno spettacolo teatrale, un film, un concerto. Il “far bene” è anche questo. «La necessità di legare l’Istituzione alla città che la ospita suggerisce l’elaborazione di una serie di eventi espositivi in grado di sottolineare l’evoluzione dell’arte contemporanea nelle Marche dal primo Novecento ad oggi, attraverso rivalutazioni di artisti poco noti, indagini sul collezionismo e ricostruzioni storiche di momenti culturali ed artistici degni di essere riscoperti», così il direttore Pratesi riassume la sua linea di condotta. Culturalmente ce n’è da star tranquilli per un bel po’ di anni, ma con la cultura il fiato è sempre sospeso; si sa, è la prima ad andare giù quando c’è da tagliare i fondi. Pesaro è comunque una rara eccellenza. In autunno Fondazione Pescheria ospiterà Perepepé, un progetto multimediale promosso da Radio Pereira che coinvolge artisti, fotografi, scrittori e cineasti per “animare la città”, seguito dalle personali di due artisti delle ultime generazioni, Marco Neri e Sergio Breviario, con i loro progetti realizzati appositamente per gli spazi del Centro. Alla fine dell’anno, appuntamento con la storia attraverso le retrospettive di due architetti

programma Perepepè – Sia caldo l’autunno della mia città

Doppia personale

22 settembre - 21 ottobre 2012

11 novembre - 9 dicembre 2012

Un progetto artistico e sociale a cura di Radiopereira.it:

Sergio Breviario

per “vivere” la città di Pesaro, coltivare il senso di

Prototipo di macchina per la conquista del mondo

appartenenza, promuovere l’incontro in tutte le sue

Marco Neri

forme. Piazza del Suffragio a cura di Quilombo −

Passante incrociato

CineclubShining – Radiopereira

Inaugurazione 10 novembre ore 18.30

Diaries - Quel che resta di 365 fotografie e di una città a cura di No−r−Way (fotografie e testi) e Federica

per informazioni e calendario eventi:

Campi (testi)

www.perepepe.org

Mitologie Urbane a cura di Paolo Paggi

www.mitologieurbane.it www.radiopereira.it www.centroartivisivepescheria.it facebook fan_Centro arti visive Pescheria Pesaro facebook_Perepepè facebook_Mitologie Urbane

ph Michele Sereni

pesaresi, Mario Urbani e Celio Francioni. Nel 2013 la Pescheria renderà un omaggio alla fotografia d’autore ospitando gli scatti di Mimmo e Francesco Jodice. Accanto alla galleria-loggiato c’è la chiesa seicentesca del Suffragio, oggi adibita a spazio per le esposizioni e per la proiezione di

audiovisivi. Interno bianco con un soffitto a trabeazioni in legno; non resta alcuna traccia che possa far pensare ad una chiesa (non più luogo di culto già dall’inizio dell’Ottocento), anche se – come in ogni museo – una sorta di sacralità c’è sempre. Magari anche solo duchampianamente. La Fondazione Centro Arti Visive Pescheria è associata alla Amaci – Associazione Musei d’Arte Contemporanea Italiani – che, dal 2002, riunisce i venticinque musei pubblici d’arte contemporanea più importanti d’Italia. Ancora un altro bel risultato per chi sa far bene.#

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di Rrose

{francesco micheli}

Francesco Micheli è – e sarà ancora per le prossime tre stagioni – il direttore artistico di Macerata Opera Festival. Il più giovane tra i vari direttori che si sono occupati del programma musicale dello Sferisterio, la piccola elegante “arena” ottocentesca di Macerata, un tempo luogo dedicato al gioco della palla a bracciale. Di certo è il direttore più innovativo e più attivo. Sempre presente ad ogni manifestazione, coinvolto e coinvolgente. Molto apprezzato anche per quella ventata di novità che per un mese ha rinfrescato un po’ l’estate maceratese. Successo di critica e di pubblico (in aumento le presenze alle serate d’opera). È così o siamo degli ingenui ottimisti? È così. È andata proprio bene. Ha fatto anche un certo effetto vedere che il pubblico è stato non solo numeroso ma soprattutto vario, diverso, eterogeneo: moltissimi i giovani, che in genere non ti aspetti alle serate d’opera. Lo Sferisterio è un luogo davvero bello, di una bellezza che definirei “appartata, riservata”. Una bellezza che è venuta però allo scoperto, e che abbiamo portato fuori. Il festival è stato davvero una festa popolare, nel senso più autentico, di divertimento e di cultura, capace di mescolare il popolare – lo spettacolo ottocentesco – al pop – un atteggiamento più contemporaneo. {Merito del suo lavoro, sottolineiamo noi. E facciamo riferimento alla comunicazione, al suo andare un po’ ovunque (festival, dibattiti, incontri, conferenze stampa) a spiegare come e perché il melodramma è musica, spettacolo e cultura che non “stonano affatto” nel XXI secolo. Micheli sorride. È certo consapevole di avere dato molto, in questo intenso anno maceratese, ma si ritrae, perché è normale comportarsi così per un professionista impegnato. Non nasconde il fatto, importante, che il suo lavoro, qui a Macerata, gli piace davvero. Se lo fai anche con gusto, al di là della fatica, poi l’entusiasmo lo trasmetti, e lui è riuscito ad entusiasmare gli altri – il pubblico, in particolare}. Come è arrivato, uno giovane come te, a dirigere il Macerata Opera Festival? Dall’esperienza dell’Arena di Verona. Lo scorso anno ho curato la regia del Roméo et Juliette di Gounod. È stato uno spettacolo molto poco convenzionale. “Toccare” i due personaggi più famosi della città poteva sembrare un’operazione rischiosa, invece il pubblico e la critica hanno

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apprezzato, perché la messa in scena aveva portato il XVI secolo ad assomigliare al nostro. Subito sono arrivate delle interessanti proposte di collaborazione, e tra queste c’era la proposta di Macerata, che a me è sembrata la più interessante per la possibilità di mescolare tradizione e innovazione. Eccomi qua. Con piacere, con entusiasmo. Musicalmente, con la lirica, si parte dall’Ottocento e non si va oltre la prima decade del Novecento. Si può innovare con le scenografie, i costumi, le luci, con le ambientazioni senza tempo, la grafica dei manifesti, ma la musica è ovviamente immutabile. La Bohème si mette i jeans, però il suo “mi chiamano Mimì, ma il mio nome è Lucia. La storia mia è breve. A tela o a seta ricamo in casa e fuori. Son tranquilla e lieta ed è mio svago far gigli e rose”, non potrà mai cambiarlo nessuno. Canterà eternamente con quelle parole lì, ovvio, in un linguaggio ormai impolverato. Cos’è, allora, al di là della messa in scena, che può rendere attuale il melodramma? Credo che Mimì rappresenti la bellezza contemporanea, per il suo essere una donna “resistente”, malgrado il suo star male, la sua malattia. L’attualità del melodramma sta nei personaggi, e nelle loro storie. Il modo di rappresentarle, di portarle sulla scena, evidenzia una condizione, un contesto sociale, che è anche personale, individuale; lo spettacolo fine a se stesso ha poco successo. Potrà lì per lì stupire, scandalizzare, occupare le pagine dei giornali, ma resterà il contenitore di una meraviglia immediata, e quindi non duratura. Con Bohème, Carmen e Traviata abbiamo voluto raccontare le storie di tre donne, diverse l’una dall’altra, che in qualche modo sono ancora delle icone attualissime, per il loro spirito libero, la loro indipendenza, la loro tenacia, la loro passione. Hai allargato lo spazio dello Sferisterio portando per le vie di Macerata i personaggi delle opere, specialmente nella “notte dell’Opera”: canzoni (romanze), musica d’opera e anche rock, flamenco, teatro itinerante, scenografie di luci sulla facciata dello Sferisterio. Una festa che ha coinvolto, e divertito, quasi l’intera città. Quasi. Il che vuol dire: analizziamo le critiche. Perché c’è sempre un bastian contrario. Il tuo qual è stato? Non c’è stato. È la verità. Sì, certo, all’inizio ti osservano con sguardo

sospettoso, ma è normale. Sei anche giovane, che è considerato – a torto – sinonimo di inesperienza. Però non ci sono stati atteggiamenti di rifiuto. Io offro la mia serietà professionale e mi confronto con le idee e le obiezioni degli altri, sono disposto a mettere tutto in discussione così come a far valere le mie convinzioni. Importante è, ovviamente, confrontarsi, comunicare, dire apertamente, lealmente, ciò che si pensa. Lavoro con dei professionisti con i quali la fiducia è totale, e reciproca. E questo, conoscendo abbastanza bene “l’ambiente”, è una condizione che ha un suo valore. Allo Sferisterio solo Verdi, Puccini, Bizet (e compositori di questo livello) oppure anche qualche buona opera rock contemporanea? Lo Sferisterio è aperto a qualsiasi proposta. Affiancare al melodramma un’opera contemporanea di qualità è una linea culturale da considerare, da incoraggiare. Purché sia un’opera completa, complessa, nel senso compositivo, e sia anche specchio della nostra epoca, della nostra difficile e complicata società, nella quale trovano sempre più spazio, purtroppo, l’ingiustizia, l’indifferenza. Che poi creano ignoranza, disinteresse. {Il discorso si sposta sui gruppi rock più famosi degli anni Settanta-Ottanta.The Wall (1979), dei Pink Floyd, commenta Micheli, è un’opera moderna di grande impatto, da inserire in un programma operistico. Poi cita i nomi di Bruno Maderna (1920-1973) – direttore e compositore di musica contemporanea – e Benjamin Britten – direttore, compositore e pianista britannico (1913-1976), le cui opere potrebbero stare insieme, in un futuro programma, alle celebri opere dei nostri compositori più popolari}. Abbiamo tutti un maestro, o più d’uno, che ci ha insegnato qualcosa. Io devo molto ai miei genitori. La mia educazione, ciò che sono, nell’insieme di cultura e sensibilità, e anche di contraddizioni, lo devo a loro. Ho comunque avuto un bel rapporto, speciale, con un mio zio, zio Alberto: mi ha insegnato a privilegiare sopra tutto la relazione tra le persone. «Le cose parlano tra di loro» diceva «e queste cose ci restituiscono la bellezza». Nella mia professione i riferimenti sono invece Gabriele Vacis e Gigi Dall’Aglio, due registi teatrali. Da loro ho imparato la possibilità del fare senza dover dipendere dalle istituzioni, una sorta di autarchia, non però individualistica, solitaria, bensì collettiva. E i maestri che avresti voluto avere e che non hai avuto per ovvi motivi anagrafici? Pasolini e Visconti. Straordinarie persone. Per certi versi apparentemente diversi, ma simili nell’aver trattato, in particolare al cinema, la scenografia e i costumi come fossero delle scritture, dei capitoli di

letteratura. Cioè nell’aver aggiunto a questi settori talvolta considerati “ornamenti” una loro dimensione narrativa, per arricchire il racconto, la trama principale. Visconti lo ha fatto anche quando ha realizzato regie per la lirica; aveva una maniera di guardare il mondo, la vita, con occhi indubbiamente da aristocratico, però sapeva raccontare la borghesia e le classe umili (il Visconti neorealista) con senso critico e, soprattutto per chi in fondo fa un prodotto di spettacolo, con la maestria di un vero “scrittore visivo”. Pasolini probabilmente è più complesso, più spiazzante. Diceva che l’arte è una attività politica, poiché si occupa delle “cosa pubblica”. Sono d’accordo, perché va intesa come polis, cioè come la città nella quale i cittadini dovevano sottostare alle stesse leggi. Una figura femminile ha unito in qualche modo le loro diversità: la Callas. {Micheli parla con grande ammirazione di questi due personaggi; ci sembra di cogliere una certa nostalgia, forse il rammarico che personalità di questo spessore – intellettuale e professionale – oggi non sapresti proprio dove andarle a cercare}. Qual è il motivo che canticchi più spesso? {La domanda alleggerisce la conversazione, sa più di battuta da quiz estivo. È una di quelle domande alle quali non è necessario rispondere. Invece Micheli ci pensa su e dà una risposta serissima, e chissà in quale archivio musicale, nella sua testa, è andato a rovistare. La risposta è preceduta dal motivetto canticchiato}. La banda che introduce il re Duncan nel primo atto del Macbeth, di Giuseppe Verdi. Ogni tanto mi viene in mente. Ci vedo tanto di me, un provinciale appassionato. {Poi aggiunge che ama ascoltare la musica quando lavora. Musica non dalla radio, ma cd o iPod, perché preferisce scegliersi la “scaletta”}. “Un bel dì vedremo…” Qualche anticipazione? Nel 2013 ricorre il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi. Non mancheranno nel cartellone dello Sferisterio il Nabucco e il Trovatore. Riproporremo la Bohème, nell’allestimento di Muscato, che ha ottenuto un grande successo. Poi ci sarà tutto il programma “off”, quello che ha trasformato Macerata in un grande e festoso palcoscenico. {Micheli non nasconde il desiderio di poter inserire accanto al repertorio dell’800 e del ‘900 anche la musica barocca. Chissà quello che sta orchestrando, nella sua testa, ma pare di sentire già da ora della buona musica. Micheli è una persona disponibile, garbata, colta, seria. Lo abbiamo visto indossare lo smoking per le serate allo Sferisterio e t-shirt con sopra i Simpson durante le conferenze stampa, e durante la nostra gradevole conversazione. Proprio vero, l’abito non fa il monaco. Meglio così}.#

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di Elena Ovecina

{c(art)oline} Fotografie come sogni lucidi, allucinate visioni che impressionano la pellicola. Mondi paralleli, paesaggi fittizi, incantevoli inganni. Avete mai cercato di riaddormentarvi per continuare un sogno? Silvia Camporesi, Lottie Davies, Chris Rain: tre giovani artisti in grado di costruire regni fantastici e di afferrare quelle immagini che affollano la mente quando scivoliamo nel sonno. Come dei veri onironauti, sono capaci di diventare registi dei propri sogni, di manipolarli e di offrirli a noi sotto forma di surreali fotografie.

Lottie Davies racconta l’inconscio, gli incubi partoriti dalla mente e le tracce di memoria. Lottie è regista delle proprie fotografie: ogni scatto ha una sceneggiatura ed è interpretato da attori professionisti, proprio come un’opera teatrale. Il suo progetto più premiato, Memories and Nightmares, si concentra sui primi ricordi di infanzia, suoi e dei suoi amici. Ciò che le interessa sono le esperienze personali, uniche, difficilmente condivisibili. La sfida è quella di cercare di tradurre visivamente ciò che sembrerebbe non rappresentabile. The day my brother was born (2008) è il primo ricordo d’infanzia di Lottie, la sola immagine del progetto cui è legata emotivamente.

Silvia Camporesi fabbrica scale sospese in aria e figure geometriche trasparenti che galleggiano come ologrammi su mistici paesaggi. Lo scatto scelto fa parte del progetto Possibly maybe (2012), in cui l’autrice aggiunge al rettangolo della foto la tridimensionalità dell'immagine. Il luogo è un campo vicino Faenza. Piegando e tagliando la fotografia con la tecnica del pop-up, l’artista innalza una scala che parte dal nulla e non conduce in nessun posto, ma appare immersa nei fiori secchi e nell’evanescenza della luce dorata. Questa operazione fisica e concettuale crea una realtà parallela governata da leggi a noi sconosciute.

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Chris Rain costruisce nuovi percorsi fondendo particolari del quotidiano in collage fantastici. Fotografa esclusivamente in analogico e sovrappone manualmente gli scatti, come in questo fotomontaggio della serie Glockenspiel drama (Il titolo deriva dal nome di uno strumento musicale, una specie di xilofono grande) che ritrae un gabbiano incurante del forte vento e della neve intorno. Lo sfondo, al di là della staccionata, sembra quasi un’aurora polare; l’effetto deriva dalla sovrapposizione di due negativi: alberi scuri mescolati a dei negativi con texture generiche che Chris prepara appositamente per poi combinarli con altri scatti.

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di Antonio Tentori, Stefano Fantelli, Andrea Tentori Montalto

l’abisso Questa è una storia pensata, scritta e disegnata come un omaggio a Howard Phillips Lovecraft, statunitense, tra i maggiori scrittori di letteratura horror. La storia, anticipata qui in due sole tavole, è di quel genere lì.

Il protagonista si è appena svegliato da un incubo. La vita reale gliene ha comunque riservati degli altri, di incubi. Raccontiamo tutto nel libro che stiamo preparando. Sarà anche un omaggio al cinema degli anni Settanta.# disegni di Andrea Tentori Montalto soggetto e sceneggiatura di Antonio Tentori e Stefano Fantelli

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Nimbo e Dizzy fanno due mestieri davvero speciali: Nimbo ripara la nuvole, Dizzy cerca le parole. Quando non piove o piove troppo, arriva Nimbo e mette tutto a posto; quando fai i compiti e non trovi la parola giusta o ce l’hai sulla punta della lingua e non viene fuori, basta telefonare a Dizzy e lui risolve la faccenda. Ma accade qualcosa di strano nei loro strani mestieri. Sapranno cavarsela anche questa volta? Scopriamolo pagina dopo pagina, anche nella meraviglia dei fantastici disegni di Tullio Pericoli. In libreria da dicembre 2012.

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www.castagnari.com


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