Recuperare la parte migliore del passato per riportare alla luce del presente le opere che hanno meglio rappresentato la nostra capacità creativa, ma anche la memoria degli affetti e delle passioni che le hanno generate, è una sfida nei confronti del tempo: operazione i cui risultati non sono garantiti o prevedibili. Ci vuole una certa dose di coraggio e ironia per riguardare il lavoro passato confrontandosi con il resto del mondo, e valutare senza inganno o autoillusione il proprio contributo. Da un’altra prospettiva, se si è abbastanza buoni, c’è anche la soddisfazione di sentirsi parte di una comunità che condivide speranze, intelligenza e impegno morale, sia pure nel legittimo spirito di competizione individuale e ambizione personale. In qualche caso, guardare indietro può farci scoprire che qualcun altro ha utilizzato le nostre idee e intuizioni per chiudere il cerchio e arrivare a un livello più alto, in barba ad ogni principio di proprietà intellettuale. Il legame tra eredità del passato e originalità del presente, è un elemento fondamentale nell’evoluzione di ogni ambito culturale. Per alcuni artisti, il legame con il passato si traduce in una ripetizione ciclica di temi o modalità espressive che finiscono per identificarli in modo inconfondibile, senza alcuno spazio per il dubbio o la scoperta. Non è il caso di Claudio Marini, che ha rinunciato a qualsiasi modulo identificativo, pur mantenendo una coerenza etica e filosofica che è linguaggio riconoscibile per chi lo conosca veramente. Per questo mi sento così vicino alla sua opera, e anche alla persona. Mi spiace di non avere potuto condividere la vicinanza fisica e culturale tra Claudio e Gian Maria Volontè, un personaggio quasi mitico per la mia generazione. Quando Claudio mi parlava dello spettacolo del 1994, facevo fatica ad immaginarlo nella piazza di Velletri insieme a Gian Maria, perché le foto del tempo non rendevano giustizia a nessuno dei due. Ora finalmente qualcosa di concreto è riemerso dalla nebbia della memoria, ed è più bello delle migliori attese. Claudio ci ha abituato a questo processo di trasformazione fisica della materia. Tra i lavori che più apprezzo ci sono le bandiere dipinte a smalto sopra vecchie opere in cemento grezzo su tela, e poi bruciate da dietro per far sciogliere e colare il colore. Ma rivisitare a distanza di vent’anni un’opera monumentale, e poi ritagliarla in frammenti che continuino a vivere di vita propria al di fuori del contesto originale, è tutta un’altra faccenda. Qualcuno potrebbe sospettare che l’apprezzamento per i tagli abbia a che fare con la professione di chirurgo, ma noi i pezzi prima o poi dobbiamo ricomporli, e nel modo più fedele possibile al loro stato originale.
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