Roma Tre News 2/2016

Page 1

Periodico di Ateneo

Anno XVIII, n. 2 - 2016

Tutela del territorio


Sommario

Editoriale Risanare, consolidare, guarire l’ambiente e la comunità Anna Lisa Tota

Primo piano Un progetto di laurea sostenibile Saperi diversi per costruire nuove competenze Mario Panizza Recuperare il valore della sperimentazione Le Università come motore dell’innovazione consapevole Pasquale Basilicata I nuovi paradigmi della sostenibilità Innovazione formativa, classi di laurea, didattica interdisciplinare Maria Francesca Renzi

1+1>2? Qualche riflessione sulla ricerca interdisciplinare Giuseppe Di Battista

5

7 11

13

16

Imparare a leggere il territorio 19 Una cultura ecologica nella pianificazione ambientale Marco Alberto Bologna

Terremoti Normativa e miglioramento sismico in Italia: quali prospettive? Gianmarco De Felice, Gianluca Valensise

Nuove strategie culturali Il ruolo dell’università nell’insegnamento della sostenibilità ambientale Claudio Faccenna, Aldo Fiori

22

27

Identità urbane Un nuovo paradigma formativo per la rigenerazione delle città

30

Principi giuridici e ambiente: interconnessioni con le altre discipline Il carattere interdisciplinare della tutela ambientale Giampaolo Rossi

36

Michele Furnari

Ricostruire l’ambiente Progetto e tecnologie per la resilienza degli ecosistemi naturali e urbani Paola Marrone

Per uno sviluppo economico sostenibile Il ruolo dell’economista nella pianificazione territoriale Valeria Costantini

39

42

Il caso della Vasca Navale Cedimenti delle fondazioni di una struttura esistente nell’area di Valco San Paolo indotti dallo sviluppo urbano dell’area Albino Lembo Fazio

45

La sfida della pianificazione Rischio idrogeologico e territori urbanizzati Giorgio Cesari

53

Il bacino delle Acque Albule Sperimentazioni interdisciplinari per la conoscenza di un territorio Laura Farroni, Giovanna Spadafora

59

Gestione del rischio d’inondazione a Roma La seconda fase di un progetto di ricerca condotto dai Dipartimenti di Architettura e Ingegneria Guido Calenda e altri

50

La resilienza dei sistemi urbani Disastri ambientali e interventi di ripristino Gioacchino Giomi

56

Il futuro del suolo Il paesaggio come archivio di significati in continua trasformazione Cesare Feiffer SIGLOID. Un Sistema Intelligente per gestire rifiuti

Recensioni I muretti a secco. Un sistema millenario di tutela del territorio

62

67 68


Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XVIII, numero 2/2016

Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Caporedattore Alessandra Ciarletti

Vicecaporedattore e segreteria di redazione Federica Martellini romatre.news@uniroma3.it

Redazione Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Giulia Pietralunga Cosentino, Francesca Simeoni

Periodico di Ateneo

Anno XVIII, n. 2 - 2016

Hanno collaborato a questo numero Pasquale Basilicata (Direttore Generale Università degli Studi Roma Tre), Marco Alberto Bologna (professore ordinario di Zoologia e docente di Biologia della conservazione), Guido Calenda (Dipartimento di Ingegneria), Giorgio Cesari (segretario generale Autorità di Bacino del Fiume Tevere), Massimo Chiappini (dirigente di ricerca UP Misure e metodi per la geofisica dell’ambiente - Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia), Valeria Costantini (professore associato di Economia dell’ambiente), Gianmarco De Felice (professore ordinario di Tecnica delle costruzioni), Giuseppe Di Battista (Prorettore con delega alla ricerca scientifica, Università degli Studi Roma Tre), Claudio Faccenna (professore ordinario di Geologia), Laura Farroni (ricercatrice Dipartimento di Architettura), Cesare Feiffer (professore associato di Restauro), Aldo Fiori (professore ordinario di Idrologia applicata), Albino Lembo Fazio (professore associato di Geotecnica), Gioacchino Giomi (capo del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco), Corrado Paolo Mancini (Dipartimento di Ingegneria), Paola Marrone (delegato del Rettore alla sostenibilità ambientale), Lorenzo Mattone (Dipartimento di Architettura), Oliva Muratore (Dipartimento di Architettura), Mario Panizza (Rettore Università degli Studi Roma Tre), Maria Francesca Renzi (Prorettore vicario Università degli Studi Roma Tre), Gianpaolo Rossi (professore di Diritto amministrativo Università degli Studi Roma Tre e Lumsa), María Margarita Segarra Lagunes (ricercatrice Dipartimento di Architettura), Giovanna Spadafora (Dipartimento di Architettura), Gianluca Valensise (dirigente di ricerca “Struttura Terremoti” - Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia), Elena Volpi (Dipartimento di Ingegneria) Immagini e foto Antonio Azzurro©, Archivio storico ENI, Associazione Tu Quoque, Gregory Acs©, Marco Alberto Bologna, Jean-Christophe Capdupuy©, Centro documentazione del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, Giuseppe Di Battista, Margherita Ermirio, Grade Stack, INGV, ISPRA, Emiliano Mancini, Federica Martellini, Federico Orsini, Silvia Rinalduzzi, Giovanni Scarano, Riccardo Zipoli©, www.abtevere.it, www.interno.gov.it Progetto grafico Magda Paolillo, Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma - 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico Impaginazione e stampa Tipografia Revelox srl, Viale Charles Lenormant 112 – 00119 Roma In copertina Casa colonica, Fermo, Italia, 1989 (foto: Riccardo Zipoli©)

Tutela del territorio

Fine lavorazione settembre 2016 ISSN: 2279-9206

Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998


La chiesa di Borca di Cadore, 2011 (Archivio storico Eni)

Villaggio Eni di Borca di Cadore, capanna in legno laboratorio per artisti, 2011 (Archivio storico Eni)


Risanare, consolidare, guarire l’ambiente e la comunità Anna Lisa Tota

«Che cosa dobbiamo intendere per paesaggio? Non solo l’intatta natura nel suo grandioso scenario di cime, ghiacciai, boschi e prati, ma anche l’opera dell’uomo che in quest’ambiente si è inserita, trasformandolo e creando al paesaggio un nuovo volto, realizzando insomma un paesaggio costruito e umanizzato». Edoardo Gellner

Mentre scrivo queste righe l’Italia ha Anna Lisa Tota tremato di nuovo: è il 24 agosto e un nuovo terremoto colpisce il territorio nazionale, questa volta nel centro Italia. Di fronte all’ennesima catastrofe ci interroghiamo sulle modalità preventive possibili. Queste catastrofi sono davvero inevitabili o possiamo contribuire ad un ripensamento delle modalità di costruzione, come sottolineano Gianmarco de Felice e Gianluca Valensise nelle pagine che seguono? Ci sono “buone pratiche” che possiamo mettere in atto per limitare gli effetti catastrofici dei potenziali prossimi eventi sismici che colpiranno il territorio nazionale? E non è forse l’università il luogo principe, in cui aggregare e divulgare queste competenze per le future generazioni?

Questo numero di Roma Tre News è dedicato alla tutela ambientale e ha come guest editor il Rettore prof. Mario Panizza. L’idea centrale che viene proposta è quella di istituire una laurea sostenibile capace di mettere insieme competenze apparentemente distanti fra loro, ma in realtà assolutamente complementari e necessarie, in modo che esse possano confluire nella pratica del cantiere. Si tratta di mettere insieme climatologi e geologi, ingegneri e architetti paesaggisti, ecologi e studiosi della biodiversità del territorio, sociologi e studiosi delle pratiche sociali, in modo da intervenire sul territorio per consolidarlo, per risanarlo piuttosto che per distruggerlo. La lunga scia di ecomostri, che nei decenni si sono susseguiti, ha generato nel senso comune una parziale sfiducia nella possibilità di un intervento umano sul territorio capace di risanare, consolidare, conservare. Si tratta di un pregiudizio

che sul piano giuridico si è talora tradotto in una serie di vincoli legislativi che impediscono tout court di fare, costruire, intervenire. È come se il legislatore, preso atto delle capacità distruttive dei progetti sia giunto talora alla conclusione che “non fare alcunché” sia meglio di un “qualsiasi fare”. Come sottolinea Mario Panizza, la parola d’ordine è salvaguardia, piuttosto che intervento attivo e preventivo.

La proposta qui presentata è di portata rivoluzionaria, ma di quelle rivoluzioni silenziose, fatte con grande misura e con la cura dei dettagli. Si tratta di ripensare strutturalmente le modalità della progettazione, per far convogliare attorno allo stesso tavolo di lavoro tutte le competenze che davvero servono per costruire “con l’ambiente”, insieme ad esso, piuttosto che costruire “sull’ambiente”, dall’alto in una logica di dominio e sopraffazione sul territorio

La proposta qui presentata è di portata rivoluzionaria, ma di quelle rivoluzioni silenziose, fatte con grande misura e con la cura dei dettagli. Si tratta di ripensare strutturalmente le modalità della progettazione, per far convogliare attorno allo stesso tavolo di lavoro tutte le competenze che davvero servono per costruire “con l’ambiente”, insieme ad esso, piuttosto che costruire “sull’ambiente”, dall’alto in una logica di dominio e sopraffazione sul territorio. Perché, come ricorda Cesare Feiffer nelle

5


6

pagine che seguono: «se non si conosce l’architettura e il paesaggio non si sa da che parte iniziare un progetto: i rilievi sono sommari, le analisi assenti, le previsioni distanti dalla realtà e, forse questo è l’aspetto più tristemente noto, i preventivi e i tempi di esecuzione saltano dopo il primo giorno di cantiere, avviando lunghi contenziosi».

Non è un caso che il modello esemplare, che ci viene proposto da Mario Panizza, sia il villaggio di Corte di Cadore progettato da Edoardo Gellner su commissione di Enrico Mattei, ai tempi presidente dell’AGIP e dell’Ente Nazionale Idrocarburi. Il progetto di Corte di Cadore riguarda un villaggio di vacanza per circa seimila abitanti su un’area di circa duecento ettari a pochi chilometri da Cortina d’Ampezzo, nel comune di Borca di Cadore. Edoardo Gellner è un architetto formatosi alla Kustgewerbeschule di Vienna e poi a Venezia con Giuseppe Samonà e Carlo Scarpa, ma è anche un uomo che conosce la montagna. Vuole costruire proprio là dove la montagna ha bisogno dell’intervento umano per essere consolidata, per essere resa più solida, non per essere distrutta. Tuttavia l’architetto Gellner è geniale nella sua proposta, in quanto non solo fa dialogare le sue idee e i suoi progetti con le rocce e i ruscelli attorno ai quali progetta di costruire, ma anche con gli uomini, le donne e i bambini che in quel villaggio dovranno abitare. Quali sono le loro abitudini e i loro stili di vita? Gellner è anche studioso sociale. Vuole provare a prevedere come le persone useranno gli spazi che progetta. È consapevole del fatto che costruire sulla montagna è un’occasione non soltanto per risanare il territorio, ma anche per gettare le basi di un’armoniosa e pacifica convivenza fra coloro che ci abiteranno. Questo legame indissolubile e fondamentale tra l’organizzazione degli spazi e la vita di una comunità è stato documentato su più fronti in primis dagli architetti, ma anche dagli studiosi di

prossemica, dagli psicologi sociali, dai sociologi urbani e da quelli dell’organizzazione. A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, in una serie di contributi sulla costruzione organizzativa e sociale della malattia mentale, un gruppo di studiosi, fra i quali lo psicologo David Rosenhan e il sociologo Erving Goffman, documentò l’incidenza dell’organizzazione spaziale all’interno degli ospedali psichiatrici americani sullo stato di salute mentale dei pazienti. Ma non è necessario aver letto studi specifici, tutti noi abbiamo fatto esperienza di luoghi che producono la sofferenza delle persone che ci abitano. A ognuno di noi è capitato di trovarsi a percorrere piazze o strade “fuori misura”, dove spazialmente l’incontro sociale è reso impossibile, perché travalicano la misura del gesto adeguata all’essere umano di quella cultura. Ci sono spazi in cui non ci si incontra mai, luoghi in cui il modello di utente iscritto nello spazio è talmente costrittivo da rendere altamente improbabile qualsiasi comportamento alternativo.

L’architetto Gellner è geniale nella sua proposta, in quanto non solo fa dialogare le sue idee e i suoi progetti con le rocce e i ruscelli attorno ai quali progetta di costruire, ma anche con gli uomini, le donne e i bambini che in quel villaggio dovranno abitare La tutela dell’ambiente in questa proposta non passa attraverso l’annientamento dell’intervento umano, ma passa attraverso la piena attuazione del concetto e della pratica della sostenibilità. Il paesaggio, come dice Gellner, può essere la somma armoniosa delle distese boschive e degli insediamenti abitativi costruiti e progettati all’interno di una pianificazione del territorio consapevole e in grado di dialogare con l’ambiente. E il dialogo, si sa, richiede competenze specifiche: per intervenire su un territorio bisogna avere le competenze per comprendere il suo linguaggio, conoscere quel suolo, quelle rocce, quel clima, quei boschi, conoscere le abitudini, gli stili di vita e i valori di quella comunità. L’Università Roma Tre, con il progetto di questa nuova laurea, si propone come interlocutore attivo di questo processo e intende mettere a disposizione delle generazioni prossime future questo bagaglio di competenze.


Un progetto di laurea sostenibile Saperi diversi per costruire nuove competenze I danni all’ambiente sono sempre più frequenti e la loro intensità cresce, soprattutto dove gli interventi edilizi sono più invasivi. Frane, smottamenti, alluvioni, cedimenti del terreno solo raramente risultano, a posteriori, impreMario Panizza vedibili: il più delle volte dipendono da incuria o da errori progettuali. Anche i terremoti portano alle stesse conclusioni: i danni più gravi si registrano dove non si è provveduto a costruire con i necessari accorgimenti. Eppure la normativa nei confronti della tutela del territorio, in continua evoluzione, prevede il coinvolgimento di sempre maggiori e nuove competenze, invitando gli operatori a considerarle sempre nel loro insieme e a porre le prescrizioni ogni volta in rapporto tra loro. Esiste però, e non si tratta di casi isolati, il mancato rispetto delle regole, conseguenza spesso di risvolti speculativi che hanno indotto a trascurare la sicurezza strutturale e il controllo in fase di esecuzione. I fattori di rischio sono pertanto noti e tutti singolarmente quantificati; al contrario la loro diagnosi combinata non è altrettanto facile: essa richiede una conoscenza tecnica approfondita e soprattutto multidisciplinare. Finora la tutela e la salvaguardia del territorio si è basata sull’attuazione di un regime quasi esclusivamente vincolistico, teso a modificare meno possibile; talvolta sarebbe stato più opportuno avviare invece procedure impostate su una tutela attiva e non solo di salvaguardia. Non che ciò non appartenga alla cultura attuale dell’urbanistica e del paesaggio, però questa è scomposta in campi di applicazione distinti, con competenze separate anche nel tempo. Il dissesto della linea ferroviaria delle Cinque Terre ha richiesto dapprima l’intervento del geologo che, analizzata la situazione, ha fornito i dati al geotecnico che, a sua volta, dopo aver provveduto a realizzare le opere di contenimento e di consolidamento, ha trasferito all’archi-

tetto-paesaggista l’onere di ricostruire l’integrità del panorama, attraverso opportuni “rammendi” ambientali. Competenze così distanti e interventi così separati non possono certo accelerare i tempi e condurre a soluzioni omogenee.

Finora la tutela e la salvaguardia del territorio si è basata sull’attuazione di un regime quasi esclusivamente vincolistico, teso a modificare meno possibile; talvolta sarebbe stato più opportuno avviare invece procedure impostate su una tutela attiva e non solo di salvaguardia

Anche in assenza di danni all’ambiente, lo scempio edilizio che per anni ha devastato molte aree di pregio, sia urbane che extraurbane, ha radicato nell’opinione pubblica la convinzione che edificare è comunque una “violenza” all’ambiente e che, pertanto, le norme devono soprattutto riguardare la tutela. Quasi sempre questa convinzione culturale e giuridica si concentra sul valore estetico e non ecologico e geologico dell’ambiente e del territorio, preoccupandosi di vietare, piuttosto che avviare operazioni di prevenzione e di consolidamento, anche attraverso interventi edificatori. Insomma il rischio del disastro ambientale andrebbe anticipato, ponendo le condizioni perché le specifiche competenze convergano su un intervento progettuale propositivo con le relative ipotesi di rafforzamento del territorio. Tale capacità di sintesi operativa può essere originata solo da un intreccio di conoscenze che, sovrapponendo le competenze del geologo, dell’ingegnere, dell’ecologo e dell’architetto-paesaggista, possano inquadrare un campo professionale di riferimento ampio. Le professionalità esplicitate sono naturalmente solo le principali, poiché a queste si dovrebbero aggiungere quelle del climatologo, dell’archeologo etc. La figura tecnica risultante sarebbe in grado di progettare il rafforzamento del territorio e non sarebbe costretta a rincorrere il ripristino, una volta che il danno è già avvenuto. È necessario a tal fine strutturare un impianto formativo, solido nella preparazione teorica delle prin-

primo piano

Mario Panizza

7


8

cipali discipline di base, ma, allo stesso tempo, aperto allo scambio continuo delle esperienze, soprattutto pratiche, impostate nelle attività di laboratorio e sviluppate nell’esercizio del cantiere. I recinti disciplinari dell’accademia hanno finora spesso soffocato i tentativi di inclusione tra discipline diverse, indicando, addirittura con un po’ di sospetto, chi ricercava soluzioni di sintesi piuttosto che di analisi. Ritengo che oggi il clima culturale e scientifico sia pronto a sistematizzare questo tipo di competenze e a sopperire, attraverso un’offerta consapevole, a una formazione che, finora, è stata patrimonio esclusivo di chi, per suo acume scientifico, ha saputo rielaborare conoscenze provenienti da esperienze diverse, spesso convergenti nella pratica del cantiere. Un esempio che meglio di altri può esplicitare questi ragionamenti è quello del progetto per il Villaggio di Borca di Cadore, commissionato da Enrico Mattei a Edoardo Gellner. Gellner si forma e si laurea nella scuola tecnica viennese, si trasferisce a Cortina D’Ampezzo dove apre uno studio che, nei primi anni del secondo dopoguerra, produce opere innovative, attente all’inserimento nell’ambiente. Coniuga con estrema capacità e naturalezza le sue competenze da “ingegnere austriaco” con la cultura tradizionale del “montanaro ampezzano” che del terreno e della montagna conosce l’intima natura. Quando incontra Enrico Mattei, l’attenzione all’ambiente si arricchisce di ulteriori contributi: il presidente dell’ENI aggiunge la componente sociale, prescrivendo soluzioni che tengano conto della sostenibilità psicologica dei futuri abitanti-villeggianti. Questi non dovranno in nessun modo sentire la dif-

ferenza di censo, legata al ruolo ricoperto nell’azienda; nello stesso tempo a tutti dovrà essere garantita la privacy per non indurre forzate promiscuità. Lo spunto iniziale di Gellner è tipologico, proprio perché deve far coincidere la contenuta occupazione del suolo con la richiesta di Mattei di avere residenze unifamiliari sufficientemente isolate. Da qui il progetto sviluppa uno studio pluridisciplinare che analizza le abitazioni di montagna, le abitudini dei futuri fruitori, ponendo in primo piano le differenze che li contraddistinguono, ma anche il carattere figurativo ed espressivo delle finiture stradali e del verde. Questo approfondimento si colloca all’interno di una cornice generale di modifica antropizzata del paesaggio, che sceglie il principio di invasione contenuta del territorio di qualità, per rivolgersi invece verso aree degradate e insignificanti che dall’intervento dell’uomo, sempre che sia ben progettato, possono ricavare beneficio. Il metodo deriva pertanto dall’intenzione di non intaccare i luoghi dove la natura presenta equilibrio strutturale e paesistico. Nei luoghi invece dove la natura presenta condizioni di degrado l’opera architettonica, combinata all’interno di un impianto urbanisticamente bilanciato, si rende complementare alla costruzione di un panorama dall’insieme armonico. Nel suo diario Gellner annota che la data più importante è l’8 settembre 1954. «Fra le varie proposte di localizzazione c’era anche quella di un’area in Comune di Borca di Cadore, sul versante che degrada dal Pelmo: una zona molto bella dal punto di vista della vegetazione e dell’ambiente, ma di scarsa insolazione, particolarmente nel periodo invernale, come ho potuto stabilire in un sopralluogo verso la fine del 1954, in un tardo pomeriggio autunnale, con clima freddo e orientamento poco idoneo. Ho, invece, rilevato sul versante opposto l’esistenza di una zona in pieno sole al tramonto:

Villaggio Eni di Borca di Cadore. Foto di Aldo Ballo, 1960 (Archivio storico Eni)


Gli ospiti nel campeggio maschile del villaggio Borca di Cadore, 1961 (Archivio storico Eni)

Interno di una villetta del villaggio di Borca di Cadore, 2011 (Archivio storico Eni)

I bambini della colonia Eni di Borca di Cadore nel piazzale, 1960 (Archivio storico Eni)

mi sono subito informato presso gli uffici comunali sulla disponibilità di quest’area situata ai piedi dell’Antelao ed ho appreso che anch’essa apparteneva quasi totalmente al Comune di Borca e poteva essere acquisita». Leggiamo in altra parte del diario che questa zona era soggetta a dissesti idrogeologici e, per giunta, piena di vipere. Per Gellner non ci sono stati dubbi

circa l’area dove intervenire: quella più degradata e meno solida, affidando al progetto edilizio il compito di consolidare e pianificare. Come può l’università contribuire alla tutela del territorio esercitando una azione attiva? Dapprima riconoscendo la rilevanza del problema che, sicuramente, sarà in primo piano per molti anni e in molte aree geografiche: in Italia, nel resto

9


10

Le capanne del camping di Borca di Cadore, 2011 (Archivio storico Eni)

Momenti di vita al Camping di Borca di Cadore, 1961 (Archivio storico Eni)

dell’Europa, ma anche in zone di rapidissima trasformazione come la Cina. Operativamente deve assumere il compito di predisporre una formazione interdisciplinare e multidisciplinare, favorendo il più possibile nuove competenze, professionalmente definite, e un’attenzione civica degli allievi verso i problemi dell’ambiente. La ricerca di nuove professionalità, che prevedano la combinazione di competenze specifiche all’interno di tematiche complesse, in questo caso legate alla tutela del ter-

Una parte della rampa di collegamento tra i dormitori e l’edificio satellite della colonia di Borca di Cadore, 1960. Struttura architettonica progetto di Gellner. Foto di Aldo Ballo (Archivio storico Eni)

ritorio, non dovrà limitarsi a indicare interessanti opportunità di lavoro, ma dovrà favorire negli allievi un rinnovato coinvolgimento etico e sociale. Infine l’università dovrà preoccuparsi di diffondere la cultura della tutela ambientale, sollecitando nelle amministrazioni pubbliche la costituzione di uffici tecnici deputati a raccogliere gli indicatori di conoscenza dell’ambiente e del territorio per trasferirli e trasformarli in progetti di salvaguardia attiva e preventiva.


Recuperare il valore della sperimentazione Le Università come motore dell’innovazione consapevole Pasquale Basilicata

Pasquale Basilicata

Non è più tempo di rinvii supplichevoli alla complessità delle situazioni geomorfologiche e alla imponderabilità degli accadimenti. Occorre ribellarsi all’idea dell’inevitabile prossima sciagura ambientale, interrompere la conta diligente

della ragioneria dei disastri. Alla complessità di un territorio definito “fragile” (quasi ad alludere ad un elemento di grazia estetica) occorre rispondere con la complessità adeguata di un sistema di competenze e di conoscenze professionali ordinato per prevenire la conta dei danni irreparabili, ridurre quella dei danni materiali e porre fine alla tragedia della perdita di vite umane. Appare evidente a tutti, nei momenti e sotto l’emozione trascinante della tragedia di un terremoto (come l’ultimo che ha colpito l’Italia centrale), che prevenire una catastrofe naturale non è possibile. È invece possibile mettere in atto misure sufficienti a ridurre gli effetti devastanti per la vita degli uomini innanzitutto, per la salvaguardia dei beni materiali in secondo luogo, nonché per la salvaguardia di quell’immenso patrimonio culturale di edifici storici, opere d’arte e di ingegno che custodiamo (e con risultati per la verità a volte miserevoli, persino). Non esiste un punto certo da cui tutto possa partire per rifondare l’approccio con il territorio e la sua complessità “fragile”, e probabilmente non vi è neppure una moltitudine di punti di avvio. Occorre recuperare un atteggiamento culturale e per così dire etico che consenta di progettare, nel rapporto con il territorio, un’idea di futuro condiviso e nel quale la certezza della bellezza possibile, come metafora di rivelazione dell’umano, e la priorità del rispetto della vita di ogni uomo e di ogni donna rappresenti la sfida, l’obiettivo, il traguardo unico di ogni intrapresa. C’è bisogno di una politica, di una economia, di un piano istituzionale, di un quadro legislativo rica-

mati intorno alla trama dell’uomo come valore irrinunciabile della socialità, come ambiente nel quale la sicurezza di ciascuno è il sostegno della sicurezza di tutti, e la coesione è il meccanismo attraverso il quale la ricerca della felicità di ognuno è la garanzia della serenità di tutta la comunità.

C’è bisogno di una politica, di una economia, di un piano istituzionale, di un quadro legislativo ricamati intorno alla trama dell’uomo come valore irrinunciabile della socialità, come ambiente nel quale la sicurezza di ciascuno è il sostegno della sicurezza di tutti, e la coesione è il meccanismo attraverso il quale la ricerca della felicità di ognuno è la garanzia della serenità di tutta la comunità

Abbiamo sentito dire che è stato un terremoto severo, una espressione, che all’inizio era apparsa addirittura risibile, ha finito in queste giornate drammatiche del dopo terremoto per contagiare il linguaggio dei commentatori e delle stesse istituzioni. Severo per l’importanza del disastro, per l’imprevedibilità notturna, per l’enormità dell’energia liberata, per la grandiosità del fenomeno geologico che ha disvelato. Ma la severità va tuttavia tradotta in un’opportunità di consapevolezza e di nuovo rigore nel metodo e sulla capacità di analisi delle possibili risposte. Severo deve essere soprattutto il giudizio che dobbiamo dare su di noi, la nostra generazione e le due che ci hanno preceduto, sulla inconsistenza delle misure tecniche, degli adeguamenti tecnologici e soprattutto, se non essenzialmente, sulla capacità di utilizzare le risorse, piccole o grandi che siano state, in un quadro di prospettiva di sicurezza e di benessere pubblico. Non ci sono assoluzioni possibili e ciascuno, a prescindere dai livelli e dalla possibile qualificazione di rilievo penale, ha contribuito alla situazione di “fragilità” irresponsabile nella quale vivono almeno venti milioni di italiani, dalla zona rossa del Vesuvio alla situazione dei paesi appenninici, per passare ai disseppellimenti dei veleni e l’incendio di intere porzioni del Paese.

11


12

Città ideale (fine XV sec.), dipinto di anonimo fiorentino, conservato al Walters Art Museum di Baltimora

Occorre, con la precipitazione di chi ha conoscenza dei tempi, rimettere mano alla disciplina degli OO.PP. e soprattutto nelle Università ad un progetto di innovazione responsabile. È per questo che l’iniziativa di dar vita a una nuova figura professionale capace di tenere insieme e di saldare, in una superiore competenza, progettazione e sensibilità tecnologica da un lato e rispetto delle compatibilità economiche, sociali e ambientali dall’altro, risulta di grande valore non solo didattico e formativo ma culturale e forse etico. Essa non nasce, e questo ne rafforza il valore, sotto l’influenza degli avvenimenti di Amatrice, ma la precede e quasi ne fa da anticipazione sofferta. Le Università sono il terreno naturale della sperimentazione e dell’innovazione consapevole, guidata, ma tuttavia capace di rimettere in gioco i vincoli del presente e l’eredità del passato, per costruire nuove conoscenze e soprattutto nuove competenze professionali. La sperimentazione deve ritornare ed essere il motore della vita degli Atenei con tutto quello che essa comporta, anche in termini di interessi consolidati, di sicurezza professionale, di certezze economiche e imprenditoriali presenti nel Paese. Rompere questi vincoli può essere decisivo per il futuro del sistema Paese e per la sicurezza dei suoi abitanti. Può essere decisivo anche per creare un clima nuovo che a partire dalle Università contagi il resto del Paese. Non si può rimanere prigionieri del settore disciplinare e non si può misurare ogni scelta di sviluppo in termini esclusivi di salvaguardia dell’interesse certo delle cattedre attese. La “classe”, pur nella funzione irrinunciabile di perimetro della equivalenza disciplinare/formativa, non può costituire un ostacolo alla attività di apertura verso l’interdisciplinarità. Occorre trovare un meccanismo adeguato di supporto al valore legale del titolo di studio (almeno

fino a quando sarà possibile sostenerne l’applicabilità), e nello stesso tempo di ricerca ragionata di soluzioni formative più rispondenti al principio di adeguatezza alla interconnessione disciplinare, che è la vera sfido del futuro. Questo meccanismo deve essere ricercato agevolmente nell’introduzione di una maggiore elasticità nell’ideazione di soluzioni di “interclasse”, senza sbarramenti aprioristici; per esempio con l’allargamento a più di due classi e con approfondimenti sui perimetri delle attività “di base e caratterizzanti”. Se non riusciamo a fare questo, il rischio di “burocrazia” degli ambiti disciplinari che pure a parole tutti consideriamo (la burocrazia appunto) come il male della Pubblica Amministrazione e delle Università italiane, finirà per condizionare pesantemente il contributo che il Paese si aspetta dalle sue Università. Occorre sfidare la stanchezza e la comodità dei quadri istituzionali consolidati. La sperimentazione non può esaurirsi nell’avvilente sedime della “struttura organizzativa”, della “innovazione gestionale”, o nel terreno stucchevole della modernità che si libera dalla burocrazia delle procedure. Deve andare oltre, saper pensare altrove e sfidare l’innovazione dei saperi, in un sistema sempre più interconnesso. Ambiente naturale, tecnologia ingegneristica, conoscenze sanitarie, tecniche giuridiche, modelli econometrici, storia dell’arte, sono componenti essenziali e ineliminabili di un nuovo modo di avvicinarsi al tema della difesa del territorio (o se volete di difesa dal territorio). Forse con la ritrovata capacità di sperimentare, ritroveremo anche la capacità di maggiore dialogo con il tessuto socio-economico, e insieme anche una maggiore semplicità nella metodica degli ordinamenti concettuali, come per esempio ritrovare il diritto dell’ambiente nel diritto alla vita e nel diritto al futuro delle nuove generazioni.


I nuovi paradigmi della sostenibilità Innovazione formativa, classi di laurea, didattica interdisciplinare Maria Francesca Renzi

È universalmente riconosciuto all’università il ruolo di istituzione depositaria della conoscenza. Ricerca, formazione di alta qualità e cooperazione sono gli aspetti chiave su cui si fonda la triplice missione degli Atenei. AtMaria Francesca Renzi traverso la propria azione istituzionale le università contribuiscono alla formazione dei giovani promuovendo l’incremento e la divulgazione di saperi, favorendo lo sviluppo economico e culturale della comunità e del territorio. Ogni professore è, allo stesso tempo, ricercatore e docente. Nella sua veste di ricercatore ha il compito istituzionale di contribuire all’arricchimento della conoscenza attraverso scoperte e intuizioni, verificate e confrontate nell’ambito della comunità scientifica internazionale. Questi saperi, a volte molto specifici, rappresentano il bagaglio di conoscenza innovativa che rende unica l’istituzione universitaria in quanto depositaria di un sapere solidamente radicato, ma costantemente rinnovato. Nella veste di docente il compito è quello di rendere accessibile i risultati della ricerca alla comunità attraverso la formazione di giovani professionisti capaci di integrarsi rapidamente nel mondo del lavoro o riqualificando i meno giovani attraverso formazione permanente. In questo senso un’offerta formativa di alta qualità rappresenta un progetto sintesi tra l’arricchimento della conoscenza apportato dall’attività di ricerca e l’analisi di quanto sia necessario alla comunità e al territorio in termini di competenze e professionalità ai fini di una crescita culturale economica e sociale durevole e sostenibile. Nel realizzare con ampiezza il suo mandato, l’università è chiamata, quindi, a operare una integrazione virtuosa fra innovazione e tradizione, coniugando fra loro strategie di generazione, rigenerazione e conservazione della conoscenza. Aprirsi al confronto con i portatori di interesse non significa, per le università, abdicare la progetta-

zione della didattica per rimettersi ai desiderata dei portatori di interesse, ma esprime una capacità di analisi prospettica di quelle che possono essere le competenze e conoscenze necessarie per formare professionalità durevoli e flessibili. La progettazione dell’offerta formativa rappresenta, quindi, un continuo sforzo creativo che gli atenei sono chiamati a realizzare e che non può prescindere dalle disponibilità di risorse e competenze presenti al proprio interno, dalla definizione di una visione chiara e programmatica degli obiettivi formativi identificati a livello di ateneo e di dipartimento, non in modo autoreferenziale, ma in funzione di una costruttiva analisi del contesto di riferimento.

Attraverso la propria azione istituzionale le università contribuiscono alla formazione dei giovani promuovendo l’incremento e la divulgazione di saperi, favorendo lo sviluppo economico e culturale della comunità e del territorio

Gli atenei hanno rappresentato da sempre un motore virtuoso per la valorizzazione culturale di un paese e di un territorio; ma cosa significa questa affermazione oggi? Ogni epoca ha le sue esigenze e caratteristiche che costituiscono il substrato, a volte fertile, entro il quale gli atenei hanno potuto crescere e proliferare, ma che determinano anche i confini entro i quali può essere pianificata l’offerta formativa. Non si tratta solo di regole, e di norme di riferimento, ma anche e soprattutto dell’evoluzione della società che cambia le sue sembianze generando nuovi bisogni di formazione. Alcuni quesiti sorgono spontanei. Cosa significa allora oggi progettare un’offerta formativa di qualità, quali sono gli interlocutori di riferimento e quali sono le figure professionali che siamo chiamati a formare per rispondere ai bisogni di formazione di un contesto globale dinamico e in continua e rapidissima evoluzione? Quali sono le esigenze degli studenti e come sono cambiati i processi di apprendimento? Come è possibile favorire l’integrazione e il networking internazionale accogliendo, negli atenei, giovani con background, culture, e conoscenze di base molto differenti tra loro? E ancora,

13


14

"La città dei bambini", lavoro di gruppo tratto dal laboratorio su Paul Klee, Art Camp 2016, a cura di Sabrina Carletti

come si pone il quadro normativo nazionale di riferimento e quali sono i vincoli imposti per una progettazione formativa all’avanguardia, dalle classi di laure triennali e magistrali e dallo stesso valore legale del titolo di studi? Come può l’università italiana competere nel contesto globale? Sono tutti temi e questioni di grande attualità e che spesso non trovano risposte facili e condivise. Le linee guida ESG 2015 promuovono un approccio centrato sullo studente e sui processi di apprendimento, con particolare riferimento alla stretta complementarietà fra ricerca e formazione, alla promozione della flessibilità dei percorsi educativi, allo sviluppo delle competenze didattiche e alla sperimentazione di metodi e strumenti didattici innovativi.

Cosa significa oggi progettare un’offerta formativa di qualità, quali sono gli interlocutori di riferimento e quali sono le figure professionali che siamo chiamati a formare per rispondere ai bisogni di formazione di un contesto globale dinamico e in continua e rapidissima evoluzione?

Oggi viviamo in una società globalizzata in cui le informazioni viaggiano in tempi rapidissimi e i comportamenti vengono condizionati in modo prepotente da pochi detentori della conoscenza che, la veicolano in modo non disinteressato. L’evoluzione dell’ITC, i social media, social network e altre innovazioni tecnologiche facilitano le relazioni tra contesti molto differenti, accorciando o eliminando i concetti di spazio e tempo. Interi mercati e settori industriali sono stati spazzati via nella loro versione originaria generando la nascita di nuovi modelli sociali: esempi tipici sono la discografia o il settore turistico e molti altri. In questo contesto assumono estrema rilevanza temi trasversali che contaminano tutti i settori economici e che determinano la na-

scita di nuovi ambiti di ricerca. Questi cambiamenti generano impatti di natura giuridica, di natura economica e natura sociale e richiedono un impegno proattivo, da parte delle università, di interpretazione della società globale, di individuazione di nuove professionalità. Di conseguenza la progettazione dell’offerta formativa richiede di uscire dal seminato e di proiettarsi verso proposte che permettano l’integrazione dei saperi e che coinvolgano più ambiti scientifici. Più semplicemente, l’università è stimolata, dalle dinamiche esterne al sistema universitario, a innovare l’offerta formativa. Quando parliamo di didattica innovativa è necessario, dall’altro canto, far riferimento alla progettazione dell’offerta formativa dei corsi di studi di cui si assume la responsabilità, in primis, l’ateneo definendo il piano strategico e in seconda battuta (non per importanza), i dipartimenti che realizzano gli obiettivi di ateneo contribuendo in modo attivo e creativo alla progettazione didattica. Naturalmente l’innovazione deve riguardare necessariamente anche le metodologie didattiche concretamente messe in campo negli specifici insegnamenti; metodologie e strumenti didattici sono direttamente correlati e connessi agli obiettivi di formazione proposti nell’ambito del corso di studi, ma non possono prescindere dalla evoluzione dei processi di apprendimento delle nuove generazioni. Il tema della sostenibilità, in generale e della tutela del territorio in particolare è un buon esempio per parlare di didattica innovativa e interdisciplinare e della responsabilità che hanno le università nell’identificare percorsi formativi proattivi rispetto alle esigenze di formazione. La generazione di professionisti, imprenditori e amministratori formata nei decenni passati - tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 - ha imparato a valorizzare il risultato, spesso di breve termine, riferito alla propria specifica area di interesse, senza valutare gli effetti in termini di diseconomie ed economie generate dalle diverse iniziative su tutti gli attori


coinvolti. Il paradigma di riferimento prevalente era fondato sulla teoria della valorizzazione del capitale di rischio (Friedman 1970). Non si tratta solo di un modello economico, direi piuttosto che si tratta di un modello culturale che valorizza il risultato individuale. Oggi, parlare di sostenibilità significa rivedere i paradigmi di riferimento e identificare altre vie di sviluppo (Freeman, 1984; Carrol, 1991; Porter & Kramer, 2007). Non si tratta in questo caso esclusivamente di conoscenze e competenze professionali, ma di un piano valoriale e culturale che deve essere compreso e diffuso. La crisi economico-finanziaria degli ultimi anni, lo sfruttamento di interi territori, lo sfruttamento incondizionato di lavoratori dei paesi in via di sviluppo derivato dal progressivo trasferimento della produzione nelle aree più povere del pianeta che ha progressivamente impoverito i paesi industrializzati, sono tutte conferme di una carenza culturale sul tema della sostenibilità, principalmente della classe dirigente che non ha avuto una visione di lungo periodo e che ha determinato effetti negativi a livello globale in tutti gli ambiti. Un primo impegno delle università è quello di interpretare il cambiamento in atto e di formare una nuova classe dirigente che abbia acquisito il senso di responsabilità sociale e che sia capace di applicarlo in tutti i settori e in tutto il globo. La sostenibilità necessita di nuovi paradigmi, economici, tecnologici, gestionali; diventa essenziale l’individuazione di nuove figure professionali capaci di comprendere e sintetizzare linguaggi diversi (economico, ingegneristico, paesaggistico, tecnico, finanziario, giuridico, scientifico). In tal senso la progettazione, dell’offerta formativa, a livello di singolo insegnamento e/o di corso di studio deve fondarsi sulla contaminazione dei saperi aggregando, opportunamente non opportunisticamente - contenuti disciplinari diversi. Figure professionali altamente specializzate devono integrarsi con nuove figure professionali in grado di comprendere linguaggi differenti e problemi complessi. La tutela del territorio, la prevenzione sanitaria e sostenibile (anche delle malattie della terza età), la valorizzazione dei beni culturali, l’avvento dei Big data potrebbero essere un terreno fertile per proporre nuove professionalità fondate sull’intreccio di competenze, in grado di coordinare e gestire risorse e abilità in modo trasversale. Un limite alla progettazione della didattica innovativa è certamente rappresentato nel nostro paese, dai vincoli normativi e regolamentari che riducono la possibilità di progettare l’offerta formativa in funzione delle effettive esigenze della società. In

particolare, il DM 270 del 2004 regola l’attivazione dei corsi di studio attraverso le classi di laurea triennali e magistrali, che seppure in alcuni casi rappresentano riferimenti utili per definire ambiti e confini disciplinari, riducono il grado di flessibilità dell’offerta didattica. Vincoli connessi a settori scientifico disciplinari predeterminati e distinti aprioristicamente in “di base, caratterizzanti e affini e integrativi” rendono, in alcuni casi, la progettazione molto complessa limitando la possibilità di introdurre contenuti trasversali, viceversa presenti nell’offerta formativa internazionale. Certamente sarebbe opportuna una rivisitazione dell’impianto delle classi di laurea adeguandole alle esigenze di flessibilità al quale il sistema universitario italiano è richiamato quando si confronta a livello internazionale - ad esempio per l’attivazione di corsi di laurea a titolo congiunto o per attivare corsi di laurea innovativi - che proprio perché intercettano esigenze di formazione poco codificate, anche se fortemente contestualizzate, non trovano facilmente riscontro nel quadro normativo nazionale.

Quali sono le esigenze degli studenti e come sono cambiati i processi di apprendimento? Come è possibile favorire l’integrazione e il networking internazionale accogliendo, negli atenei, giovani con background, culture, e conoscenze di base molto differenti tra loro?

Diverse università hanno introdotto nella propria offerta formativa corsi di studio incardinati in due classi di laurea. Una maggiore flessibilità potrebbe essere introdotta attraverso la integrazione anche di tre classi di laurea. Naturalmente una scelta di questo tipo dovrebbe essere fondata su una ampia e articolata interlocuzione con i portatori di interesse, prevedendo una proposta formativa solida dal punto di vista delle competenze teoriche e tecniche necessarie alla nuova figura professionale che si intende formare. Si tratta di una soluzione sfidante, che non sembra trovare particolari vincoli sul piano normativo. Dall’altro canto, una maggiore flessibilità della progettualità dell’offerta formativa universitaria è certamente coerente rispetto a quanto indicato dalle linee guida per l’accreditamento dei corsi di studio che richiamano continuamente a una interlocuzione con i portatori di interesse e a una capacità a livello di ateneo, dipartimento e corsi di studio di progettare una offerta formativa innovativa e realmente integrata nel contesto di riferimento.

15


16

1+1>2?

Qualche Riflessione sulla Ricerca Interdisciplinare Giuseppe Di Battista

Per avere un’idea di quanto il sapere scientifico si sia progressivamente specializzato nel corso degli ultimi centocinquanta anni basta osservare come nel 1870 il Sistema Decimale Dewey, concepito per classificare pubblicaGiuseppe Di Battista zioni, contasse 2.000 classi e come attualmente lo stesso Sistema ne conti circa 27.000, con ulteriori 13.000 possibili declinazioni. La ricerca scientifica è andata ovviamente di pari passo ed, essendo straordinariamente cresciuta in termini di metodi, strumenti e risultati, ha dovuto necessariamente articolarsi in una complessa struttura di discipline. Di contro nel corso degli ultimi venti anni si è registrato un rinnovato interesse per la ricerca interdisciplinare (RI) ed effettivamente hanno questa natura molti dei temi di ricerca più attuali: per fare alcuni esempi le nanotecnologie, la bioinformatica, la genomica, gli studi sul terrorismo. Allo stesso tempo molti dei più grandi successi scientifici recenti sono eminentemente di natura interdisciplinare. Ancora per fare qualche esempio: il sequenziamento del genoma umano, le tecniche operatorie basate su laser, la risonanza magnetica. In letteratura sono state date varie definizioni per la RI1 , per la ricerca cross-disciplinare, per quella multidisciplinare2 ed anche per quella transdisciplinare. Una definizione abbastanza pragmatica e condivisibile è stata data dalle National Academies3 ed è attualmente utilizzata dalla National Science Foundation (NSF)4 : «la RI è un modo di fare ricerca da parte di singoli o gruppi di ricerca che integra informazioni, dati, metodologie, strumenti, prospettive, concetti e/o teorie di due o più discipline o insiemi di conoscenze specialistiche con l’obiettivo di avanzare la conoscenza su questioni fondazionali o di risolvere problemi la cui soluzione non è ottenibile nell’ambito di una singola disciplina o area di ricerca».

Sono quattro i fattori principali che sospingono il forte interesse per la RI da parte di tutti i paesi scientificamente più avanzati e da parte di molte istituzioni di ricerca: il riconoscimento dell’inerente complessità della natura e della società, il desiderio di esplorare problemi non confinati ad una singola disciplina, la necessità di risolvere problemi socialmente rilevanti e la spinta delle nuove tecnologie. Tutto ciò in questo momento sollecita fortemente l’attenzione almeno sulle tematiche della sostenibilità ambientale, dei beni culturali, dei cambiamenti climatici e della salute.

Negli ultimi venti anni si è registrato un rinnovato interesse per la ricerca interdisciplinare (RI) e molti dei temi di ricerca più attuali hanno questa natura: per fare alcuni esempi le nanotecnologie, la bioinformatica, la genomica, gli studi sul terrorismo. Allo stesso tempo molti dei più grandi successi scientifici recenti sono eminentemente di natura interdisciplinare. Ancora per fare qualche esempio: il sequenziamento del genoma umano, le tecniche operatorie basate su laser, la risonanza magnetica

Eppure questo grande interesse si scontra ancora oggi in modo netto con diverse tipologie di ostacoli. In primo luogo ci sono le barriere culturali, le barriere linguistiche e di comunicazione tra le diverse discipline5 e quindi il sospetto per ciò che, fondandosi su metodologie diverse dalle proprie, rischia di essere tacciato di superficialità o di improvvisazione. In secondo luogo ci sono gli ostacoli legati alle tradizioni e alle istituzioni accademiche, che di solito sono organizzate in dipartimenti basati su aspetti disciplinari stratificatisi nel tempo. Quindi ci sono gli ostacoli legati alla strutturazione dei programmi di finanziamento per la ricerca – spesso rigidamente disciplinari – e alla allocazione delle risorse. Infine ci sono gli ostacoli legati al fatto che le riviste sono spesso orientate a singole


^dKZ/ >>͛ Zd

INFORMATICA

INGEGNERIA

WELFARE

CINEMA

LINGUE

MATEMATICA

POLITICA

TEATRO FISICA ARCHITETTURA

FILOSOFIA

GEOLOGIA

ACCOUNTING

BIOLOGIA

GIURISPRUDENZA ARCHEOLOGIA

SOCIOLOGIA

FILOLOGIA

ECONOMIA

MANAGEMENT

PEDAGOGIA FOOD SECURITY

discipline, alla organizzazione dei concorsi – in Italia imperniati sui settori scientifico-disciplinari – e comunque dei meccanismi di assunzione, alle difficoltà di realizzazione di efficaci peer-review interdisciplinari Per ciò che riguarda il finanziamento alla ricerca, consapevole degli ostacoli sopra elencati, l’Europa ha orientato i programmi H2020 ad affrontare un insieme di sfide per la società piuttosto che alla elencazione di priorità per singole discipline. Inoltre la NSF finanzia da tempo la RI sia attraverso bandi dedicati sia attraverso la possibilità di proporre progetti di ricerca su temi non contenuti nei normali bandi e che vengono esaminati con metodologie apposite. Si noti come i laboratori industriali siano spesso più avanti dell’accademia nella pratica della RI. Infatti la necessità di risolvere problemi concreti in tempi brevi impedisce di farsi condizionare dalle barriere tra le discipline a favore di una maggiore efficacia nel perseguimento dei risultati. La stessa continua ridefinizione delle tipologie di problemi da affrontare porta le aziende a ricostruire continuamente l’assetto organizzativo dei propri laboratori, che non rimangono quindi cristallizzati in una struttura disciplinare fissata a priori. Inoltre, in uno scenario economico in cui spesso le aziende ridimensionano le proprie strutture R&D lasciando la propria capacità di innovarsi all’acquisizione di specifiche startup, sono proprio queste ultime spesso a raccogliere il testimone della RI.

CHIMICA

STORIA

Basti pensare al panorama delle startup cresciute attorno ai temi della informatica e dei beni culturali, o attorno ai temi della biologia e della medicina.

I laboratori industriali sono spesso più avanti dell’accademia nella pratica della RI. Infatti la necessità di risolvere problemi concreti in tempi brevi impedisce di farsi condizionare dalle barriere tra le discipline a favore di una maggiore efficacia nel perseguimento dei risultati

In questo contesto ci si può chiedere se la RI debba essere incentivata in ambito accademico e, in caso di risposta affermativa, come ciò possa avvenire. La risposta alla prima domanda è ragionevolmente semplice. Da una parte si può ovviamente continuare a fare un’ottima ricerca di natura disciplinare ignorando la RI. Si può sostenere, a ragione, che la RI non è necessariamente una buona ricerca, che non si fa buona RI senza un’ottima preparazione disciplinare e che non è mettendo assieme due debolezze scientifiche che si ottiene una buona RI. D’altra parte però, soprattutto in un ateneo generalista, nel quale sono rappresentate molte discipline, non cogliere le opportunità di collaborazione tra

17


18

colleghi, gruppi di ricerca o laboratori di diverse discipline, rischia gravemente di non mettere a frutto l’intero potenziale di ricerca che l’ateneo può esprimere. Inoltre ove si vogliano attivare percorsi didattici fortemente interdisciplinari, la RI accademica diviene una scelta ancor più necessaria e motivata.

Si può sostenere, a ragione, che la RI non è necessariamente una buona ricerca, che non si fa buona RI senza un’ottima preparazione disciplinare e che non è mettendo assieme due debolezze scientifiche che si ottiene una buona RI. D’altra parte però, soprattutto in un ateneo generalista, non cogliere le opportunità di collaborazione tra colleghi, gruppi di ricerca o laboratori di diverse discipline, rischia di non mettere a frutto l’intero potenziale di ricerca che l’ateneo può esprimere

ratterizza, l’azione del bando è articolata in due fasi consecutive. Nella prima fase è previsto un bando Call for Ideas, nel quale i docenti dell’Ateneo sono chiamati a proporre temi di natura interdisciplinare o ad esprimere il proprio interesse per alcuni di essi. Nella seconda fase è previsto un bando per la presentazione di veri e propri progetti di ricerca di durata biennale sui temi selezionati nella prima fase. Quanto questa azione sarà stata proficua lo si potrà stabilire solo a posteriori con un’analisi che consideri non solo la qualità e la quantità dei risultati delle ricerche finanziate ma anche quanto gli aspetti di RI siano stati effettivamente funzionali al conseguimento dei risultati.

La risposta alla seconda domanda è più complessa e difficilmente può essere data in astratto6, senza considerare le caratteristiche dello specifico contesto accademico in cui essa è posta. L’Università degli Studi Roma Tre ha stabilito, in questo ambito, di emanare un bando, con caratteristiche di forte innovatività nel panorama nazionale, che, tra gli altri, ha l’obiettivo di verificare l’esistenza, nell’ambito dell’Ateneo, dell’interesse dei docenti ad aggregarsi per svolgere ricerca su grandi temi interdisciplinari. Proprio per la dimensione sperimentale che la ca1 Si veda ad esempio: S.W. Aboelela, E. Larson, S. Bakken, O. Carrasquillo, A. Formicola, S.A. Glied, J. Haas, and K.M. Gebbie, Defining Interdisciplinary Research: Conclusions from a Critical Review of the Literature, 2007, DOI: 10.1111/j.1475-6773.2006.00621.x 2

http://www.4researchers.org/articles/transcript/5213

Committee on Facilitating Interdisciplinary Research, National Academy of Sciences, National Academy of Engineering, Institute of Medicine, Facilitating Interdisciplinary Research, Washington, D.C., The National Academies Press, 2005, DOI 10.17226/11153. A questo libro sono ispirate molte delle riflessioni contenute in questa breve nota 3

4

http://www.nsf.gov/od/oia/additional_resources/interdisciplinary_research/index.jsp

Una discussione sugli ostacoli metodologici per la RI, relativamente alla collaborazione tra humanities and sciences è contenuta in: J.T.M. Miller, Methodological Issues for Interdisciplinary Research, Postgraduate English, Issue 23, 2011 5

6 Una revisione critica degli strumenti utilizzati per promuovere la RI è contenuta in J.A. Jacobs and S. Frickel, Interdisciplinarity: A Critical Assessment, 2009, DOI: 10.1146/annurev-soc-070308-115954


Imparare a leggere il territorio Una cultura ecologica nella pianificazione ambientale Marco Alberto Bologna

Gli interessi e le esigenze umane sono spesso viste come un elemento di totale contrasto con le esigenze della tutela della natura, sia nella sua componente vivente, la biodiversità, sia nella sua componente non vivente, come Marco Alberto Bologna i suoli e le acque. Non è certo possibile ipotizzare però un mondo in cui la crescita delle società umane debba arrestarsi totalmente, ma al contempo è necessario trovare nuovi equilibri poiché la situazione è già estremamente compromessa. Il vero problema di chi si deve occupare di pianificazione territoriale è sempre più, da un lato superare questo contrasto ideologico, e al contempo concreto, in modo sostenibile, e dall’altro operare nella quotidianità partendo da un approccio culturale, olistico, che nasce da esperienze e conoscenze in campi, da quello urbanistico a quello storico, da quello geologico a quello ingegneristico, e ovviamente da quello ecologico, tra loro apparentemente distanti. La settorializzazione di queste conoscenze e la frequente mancanza di sensibilità delle figure professionali che operano nella pianificazione e trasformazione territoriale, ma anche nella protezione e gestione della natura, sono un elemento da superare urgentemente. Una sfida di questa portata risulta di estrema urgenza a livello mondiale, ma anche solo europeo e italiano, dopo secoli di accrescimento demografico e trasformazione territoriale che hanno prodotto la devastazione di immense aree naturali. Restando nel nostro paese, si pensi alle immense foreste che si estendevano nella Pianura padana fino all’epoca imperiale romana, o a quelle dell’Agro pontino e della Maremma che sono sopravvissute fino alla prima metà del secolo scorso. Tutto ciò, oltre a produrre devastazione di alcuni ambienti naturali, ha determinato l’accelerazione di rischi geologici e idrogeologici, già insiti in alcune aree del nostro

paese, in alcuni casi accelerati dai repentini cambi climatici degli ultimi 30 anni che hanno portato a regimi pluviali di carattere non stagionale ma eccentrico e subtropicale. Parlare di territorio e di sostenibilità significa pertanto anche valutare in quale misura le trasformazioni indotte dalle azioni umane impattino negativamente sull’ambiente naturale. Anche in Italia, così come nell’Europa intera, vi sono quattro aspetti particolarmente significativi e che aumentano la fragilità della situazione: la distruzione degli ecosistemi naturali, l’aumento demografico, i cambi climatici in atto e i rischi naturali.

In Italia, così come nell’Europa intera, vi sono quattro aspetti particolarmente significativi e che aumentano la fragilità della situazione: la distruzione degli ecosistemi naturali, l’aumento demografico, i cambi climatici in atto e i rischi naturali

Per una sfida come questa bisogna attrezzarsi con la costruzione di una nuova formazione culturale diffusa, soprattutto su chi ha responsabilità dello sviluppo, che non veda più solo l’uomo e le sue esigenze immediate in primo piano, ma come “una specie vivente” inserita in un sistema che ha delle regole naturali ben precise. Tali esigenze convivono in realtà con quelle di tutti gli altri viventi della natura, milioni di specie unicellulari e pluricellulari, prodotti attraverso processi irripetibili di evoluzione che sono andati avanti in “equilibrio dinamico” con le trasformazioni della Terra per milioni di anni. Dopo un lungo periodo in cui queste tematiche venivano trattate solo da ecologi ed ambientalisti, la recente Enciclica di Papa Francesco è stata una vera frustata che ha messo a fuoco correttamente, e senza preconcetti, tutti i rischi ambientali e sociali a cui andiamo incontro, e tutte le sfide che ci attendono. L’uomo ha una responsabilità oggettiva nel mantenimento della “casa comune” (come la definisce Bergoglio), in tutte le sue componenti e non solo di se stesso. Non si deve però sfuggire davanti a una problematica di tale entità né pensare di affidarne la risoluzione ad un’ipotetica o reale entità di gestione

19


20

La rosalia alpina, uno spettacolare c oleottero, bioindicatore di foreste vetuste ben conservate (foto: Emiliano Mancini)

Rete Ecologica del Comune di Roma: aree a maggiore densità di punti di presenza per le specie target di Anfibi (foto: Marco Alberto Bologna)

politica globale del mondo. Sin da subito bisogna operare ad ogni scala, da quella mondiale a quella comunitaria, a quella nazionale, regionale o locale, raddrizzando per quanto è possibile la situazione. Proprio in questo senso servono, oltre alla costruzione di nuova cultura di cui parlavo, e alle professionalità di settore già esistenti (ingegneri del territorio, urbanisti e pianificatori, geologi, ecologi), anche delle nuove figure poliedriche nella formazione e nella sensibilità ai problemi ambientali, orientate verso un nuovo modo di intendere la pianificazione e la gestione del territorio nel suo insieme, sia quello di primario utilizzo antropico sia quello di utilizzo delle altre componenti della natura. L’esigenza di questa nuova figura professionale multidisciplinare, di larghe vedute filosofiche e ampie conoscenze anche in campo ecologico, deve trovare una chiara risposta nella formazione universitaria, per costruire professionisti che andranno a lavorare negli uffici pubblici che si occupano di pianificazione, in quelli che si occupano di rischi naturali, ed anche in quelli che si occupano di gestione delle risorse naturali. Si pensi agli uffici tecnici di tutti i comuni italiani, alla protezione civile, agli enti che si occupano dei bacini idrici e via dicendo. Ed è verso un simile obiettivo che bisogna organizzarsi urgentemente, anche nel nostro Ateneo. È ben chiaro agli zoologi, ai botanici e agli ecologi, ma deve essere reso noto a tutti gli italiani, che la nostra penisola, per la sua storia e la sua posizione geografica, per la sua forma allungata in mezzo al Mediterraneo e le tante grandi e piccole isole, per la sua orografia molto particolare, rappresenta un grande mosaico di ecosistemi terrestri, d’acqua dolce e marini in uno spazio geografico ristretto. Ciò ne fa il paese europeo più rilevante in termini

di biodiversità. Si pensi che solo per quanto riguarda la fauna, le specie viventi nel nostro paese sono quasi 60.000, di cui oltre un 10% sono endemiche, cioè esclusive. Ed una situazione simile, ancorché con numeri minori, ma percentuali analoghe, è presente anche nella nostra flora. Che responsabilità etica e scientifica abbiamo di salvaguardare questa biodiversità di fronte a tutto il mondo! Ma questa responsabilità non è solo di ecologi inascoltati, ma anche degli economisti, di chi si occupa dello sviluppo del paese, dei pianificatori territoriali, e di chi applica queste progettualità.

È ben chiaro agli zoologi, ai botanici e agli ecologi, ma deve essere reso noto a tutti gli italiani, che la nostra penisola, per la sua storia e la sua posizione geografica, per la sua forma allungata in mezzo al Mediterraneo e le tante grandi e piccole isole, per la sua orografia molto particolare, rappresenta un grande mosaico di ecosistemi terrestri, d’acqua dolce e marini in uno spazio geografico ristretto. Ciò ne fa il paese europeo più rilevante in termini di biodiversità

Le trasformazioni ambientali prodotte negli ultimi venti secoli, soprattutto nel XX, ma anche l’inurbamento, l’abbandono delle campagne, la costruzione di nuove, spesso orrende ed inutili aree commerciali, hanno devastato senza criterio gran parte delle aree costiere e planiaziali del nostro paese, salvando un poco solo le zone interne mon-


Possibilità di ripristino ambientale di aree industriali dismesse: cava Tacconi (Pomezia). (foto: Marco Alberto Bologna)

Effetti positivi della successione ecologica gestita dopo l’incendio del 2000 a Castelfusano (Roma). (foto: Marco Alberto Bologna)

Anche alcune specie italiane di vertebrati, come l’endemica lucertola delle Eolie, si stanno estinguendo a causa dell’introduzione su piccole isole di altre specie competitive dovuta ad attività antropica

tane e submontane. Si pensi al consumo di territorio nella piana alluvionale del Tevere, trasformata negli ultimi 10 anni in un labirinto di mega aree commerciali, ricreative e turistiche, laddove un fiume aveva favorito il nascere di una civiltà. Queste ed altre trasformazioni antropiche, oltre ad aumentare il consumo di ecosistemi naturali e di suolo, ha aumentato i fenomeni di dissesto in un paese dove già naturalmente i rischi geologici (terremoti, eruzioni) sono incombenti. Ecco che diventa imprescindibile una gestione sostenibile del territorio ed una mitigazione dei rischi naturali, la qual cosa deve partire da nuove strategie educative e culturali che aumentino la consapevolezza del valore ambientale del nostro territorio e dei rischi che corre a causa di una gestione troppo antropocentrica. La figura multidisciplinare che vogliamo costruire nel nostro Ateneo, dovrà operare nella sua quotidianità lavorativa ad una pianificazione sostenibile e alla salvaguardia dai rischi, sapendo anche affiancarsi e interagire con le altre professionalità sopra ricordate in casi con problematicità più complesse. Questo professionista dovrà mantenere nel suo operato una lettura del territorio che tenga conto del contesto ecosistemico in cui agisce, dei rischi naturali esistenti, e sappia equilibrare le vere esigenze antropiche senza un condizionamento asettico del mercato economico. Dovrà saper sviluppare strategie di monitoraggio dello stato di salute dell’ambiente presente nelle aree urbanizzate, ma anche delle strutture e infrastrutture urbane soggette a sollecitazioni naturali ed antropiche. In questo senso dovrà anche indirizzare il suo operato al restauro di qualità dell’urbanizzato esistente, alla deframmentazione della componente naturale attraverso il mantenimento di reti ecologiche davvero funzionali. Come ha recentemente sintetizzato in un convegno svoltosi a Roma Tre il gruppo di lavoro che sta lavorando nel nostro Ateneo, il nuovo professionista che vogliamo formare dovrà «avviare processi di pianificazione basati su uno sguardo più ampio e profondo, che sappia leggere e interpretare la storia del territorio, mettendo insieme la lettura della storia geologica, di quella ecosistemica e di quella della antropizzazione, con la consapevolezza che un tale approccio alla gestione del territorio significa lavorare per una concreta mitigazione del rischio».

21


22

Terremoti

Normativa e miglioramento sismico in Italia: quali prospettive? Gianmarco De Felice, Gianluca Valensise

Che conseguenze possiamo aspettarci dai forti terremoti che inevitabilmente colpiranno l’Italia nei prossimi decenni? Quali sono le attività di prevenzione più critiche e urgenti per mitigare gli effetti di questi terremoti? Quali comGianmarco De Felice petenze richiederà questo immenso sforzo preventivo? E soprattutto, chi e come formerà i soggetti che nei prossimi anni parteciperanno a questo sforzo? I due più forti terremoti italiani dell’ultimo decennio*, non molto distanti tra loro in termini di magnitudo ma inseriti in contesti diversissimi, forniscono a riguardo numerose e preziose chiavi di lettura. Questo breve testo le riassume e le discute, identificando priorità e manchevolezze del Sistema Paese e avanzando proposte operative, a partire dal ruolo che può e deve avere il sistema educativo universitario nazionale. Il 6 aprile 2009 L’Aquila è drammaticamente caduta in rovina a seguito di un terremoto di Mw 6.3 – dunque forte ma non catastrofico – localizzato proprio sotto quella città. L’Aquila aveva già subito forti terremoti, tanto che quella post-2009 è la sesta ricostruzione dopo quelle che hanno seguito i terremoti del 1315, 1349, 1461, 1703 e 1915: un lu-

L’Aquila, 2009

gubre primato nazionale, indubbiamente. Dopo il terremoto del 1703 – di gran lunga il più forte – la città veniva recintata, per non fare uscire gli abitanti e spingerli a provvedere alla ricostruzione delle case diroccate. Oggi una buona parte del centro storico Gianluca Valensise dell’Aquila è ancora zona rossa, diroccata e perimetrata perché pericolante. Certo, L’Aquila tornerà a vivere, perché è una città di inestimabile valore storico e artistico, per la tenacia degli aquilani e per l’enorme sforzo economico attraverso cui il Paese sta finanziando la ricostruzione. Tuttavia le straordinarie difficoltà poste dalla ricostruzione di un centro storico – una cosa molto diversa dalla ricostruzione dell’edilizia corrente – sommate a ritardi di altra natura fanno ritenere che la prospettiva migliore per avere di nuovo la città abitata e funzionante è di almeno altri dieci anni, con un costo finale difficilmente quantificabile ma certamente molto alto. La pericolosità sismica dell’Aquila è elevata, come dimostrano le sue ripetute ricostruzioni, quasi una per secolo, ma non molto più elevata di quella di tante altre città d’arte italiane, come ci ricorda Emanuela Guidoboni nel suo Terremoti e città: la catena dimenticata delle distruzioni e delle ricostruzioni (Guidoboni e Valensise, 2013, pag. 243). Guidoboni ricorda che attraverso la storia almeno 43 città italiane con una popolazione odierna superiore a 30.000 abitanti hanno subito effetti sismici a partire dall’VIII grado della scala * Il 24 agosto 2016, durante la pubblicazione di questa nota, un nuovo evento sismico colpiva l’Italia centrale distruggendo i centri di Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto; una drammatica conferma della necessità e dell’urgenza di porre in essere iniziative concrete per la valutazione e la mitigazione del rischio sismico del nostro paese.


Mercalli, e sono numerose quelle che hanno subito ricostruzioni multiple. Sappiamo anche che a L’Aquila la qualità media dell’edilizia storica non è peggiore di quella di tante altre città esposte al medesimo livello di pericolosità sismica. Molte delle costruzioni vantano tecnologie e dispositivi di prevenzione sismica messi a punto in sette secoli di storia sismica; dai radiciamenti lignei muniti di capochiave di estremità, già impiegati nel Cinquecento e poi estensivamente usati nelle ricostruzioni settecentesche, alle catene in ferro, agli alleggerimenti delle volte per ridurre le masse e quindi le forze sismiche, alle capriate impalettate sui muri per contrastarne il moto relativo. Una città dove buona parte delle fabbriche era stata riparata e rinforzata non più di un secolo fa, dopo i danni cagionati dal disastroso terremoto di Avezzano del 13 gennaio 1915 (Mw 7.0); e dove, a differenza di molte altre città italiane, negli anni del boom edilizio si costruiva già in base ad una regolamentazione sismica di stampo moderno, in cui l’analisi strutturale includeva forze statiche equivalenti orizzontali derivanti dall’azione sismica attesa. Il 20 e 29 maggio 2012 l’Italia ha di nuovo tremato. Questa volta però ad essere colpita non è stata un’area a forte vocazione sismica come l’aquilano, dove i terremoti sono frequenti, ovvero un’area ad alta pericolosità. A cedere sotto la potenza di due scosse di Mw 6.1 e 6.0 – più una moltitudine di scosse minori – sono state principalmente l’edilizia storica e i capannoni industriali della bassa modenese, uno dei distretti manufatturieri più importanti del nostro paese (a riguardo si vedano rispettivamente i contributi di Carla Di Francesco e di Antonio Tralli nel citato volume di Guidoboni e Valensise, 2013), mentre l’edilizia residenziale è rimasta quasi del tutto indenne. Si tratta di un’area a bassa pericolosità, ovvero un’area in cui è più raro che si raggiungano livelli di scuotimento tali da provocare il collasso degli edifici. Le differenze tra i livelli relativi di pericolosità delle due aree e tra le tipologie edilizie colpite non sono gli unici aspetti che pongono questi due terremoti quasi agli antipodi nel quadro della sismicità italiana più recente. Il terremoto de L’Aquila, ad esempio, ha causato molte vittime tra i residenti e tra gli studenti fuori sede – tutti ricordiamo il tragico crollo della Casa dello Studente – mentre i terremoti dell’Emilia hanno portato

lutti soprattutto tra i lavoratori impiegati nei capannoni industriali crollati. E inoltre, mentre i modelli di pericolosità e la relativa normativa antisismica da sempre identificano l’aquilano come un’area “ad alto rischio”, è solo con la mappa di pericolosità elaborata dall’INGV all’inizio del 2004, poi diventata riferimento per la normativa introdotta tra il 2006 e il 2008, che la pericolosità della fascia pedeappenninica dell’Emilia è stata correttamente messa a fuoco. Questa circostanza ha comportato che mentre a L’Aquila, come si è già osservato, l’edilizia ha seguito norme molto rigide già dagli anni del boom economico – purtroppo non senza gravi eccezioni – nei centri di Mirandola, Cavezzo, Medolla, Concordia si è da sempre costruito in assenza di una normativa specifica. E se è vero che le nuove Norme Tecniche per le Costruzioni pubblicate nel 2008 (NTC08) hanno imposto standard diversi e più severi, è anche vero che tali norme sono diventate cogenti solo dopo il terremoto del 6 aprile 2009, esattamente cinque anni dopo che il livello di pericolosità dell’area era stato aggiornato al rialzo e quando ormai la maggior parte dei capannoni che punteggiano la campagna della bassa modenese erano stati edificati da tempo. Del resto è noto che ormai si costruisce molto poco, non solo in Italia ma in effetti in tutta Europa, e predominano gli interventi sull’edilizia esistente. Questa circostanza nasce dalla combinazione della sacrosanta necessità di arrestare il processo di consumo del suolo con la minore esigenza abitativa legata alla diminuzione della natalità e con l’invecchiamento del costruito e delle infrastrutture esistenti. Tuttavia molto spesso il processo di riqualificazione trascura gli aspetti della protezione sismica e la necessità di programmare interventi di manutenzione adeguati.

Finale Emilia (MO), 2012

23


24

Chi apprezza l’Italia per la sua bellezza e per il suo straordinario valore artistico certamente conosce anche la fragilità dei suoi centri storici, e dunque sa che le distruzioni de L’Aquila nel 2009 e degli operosi centri della bassa modenese nel 2012 purtroppo non rappresentano un’eccezione nel panorama nazionale. Queste ripetute distruzioni non sono l’esito di una sfortunata coincidenza di eventi calamitosi imprevedibili e irripetibili, ma devono purtroppo essere riguardate come l’esito infausto di una condizione di rischio che minaccia moltissimi altri centri italiani. Questi due eventi sono la drammatica dimostrazione di quanto sia necessario mettere in atto opere appropriate di mitigazione del rischio sismico con interventi di prevenzione e rinforzo in grado di proteggere gli abitanti, il patrimonio e le infrastrutture, così da mitigare il rischio di perdita di vite umane e di beni materiali garantendo una resilienza adeguata alle nostre comunità. Il punto di partenza del grande sforzo di mitigazione dei rischi naturali che l’Italia dovrà necessariamente affrontare nei prossimi decenni è il cittadino stesso, che deve essere indotto a sviluppare una autonoma consapevolezza dei pericoli a cui è esposto nell’area in cui vive e lavora. Il percorso dovrà includere non solo le buone pratiche da attuare al momento dell’evento calamitoso, ma soprattutto una solida cultura della prevenzione e della regola dell’arte. In questo le istituzioni, con particolare riferimento al sistema educativo accademico, sono chiamate a un nuovo sforzo che deve essere sostenuto. In linea generale la valutazione del rischio sismico si compone di tre ingredienti fondamentali: la pericolosità sismica, vale a dire la probabilità – va-

Amatrice (RI), 2016

riabile da luogo a luogo – che possa verificarsi un evento con un dato valore di intensità; la vulnerabilità del costruito, vale a dire la probabilità che, assegnato un dato livello di scuotimento sismico, possa essere superata una soglia prefissata di danno; e l’esposizione, vale a dire l’estensione del costruito esposto al rischio in quel dato territorio.

Chi apprezza l’Italia per la sua bellezza e per il suo straordinario valore artistico certamente conosce anche la fragilità dei suoi centri storici, e dunque sa che le distruzioni de L’Aquila nel 2009 e degli operosi centri della bassa modenese nel 2012 purtroppo non rappresentano un’eccezione nel panorama nazionale

Da questa formulazione discende con immediatezza che fenomeni geodinamici anche imponenti possono avere effetti complessivi inferiori a quelli causati da un terremoto relativamente piccolo ma localizzato in prossimità di un centro storico; peggio ancora se avvenuto in una di quelle zone – come la bassa modenese – dove i terremoti sono rari, l’età degli insediamenti è di appena qualche secolo, e le catastrofi sismiche sono di fatto assenti dalla memoria collettiva. La stima della pericolosità sismica è una disciplina giovane ma che negli ultimi anni ha registrato grandi progressi da parte della comunità scientifica internazionale. In questo contesto giova ricordare che l’Italia vanta certamente un primato in questo ambito disciplinare, legato sia ad una storica tradizione accademica e osservazionale, sia alla esuberanza delle diverse istituzioni in campo – basti ricordare l’Eucentre, il Consorzio RELUIS e l’INGV, sia al fattivo stimolo fornito dal Dipartimento della Protezione Civile a partire dalla fine degli anni Novanta. Un risultato (forse) ormai acquisito è la consapevolezza, diffusa non solo tra i ricercatori ma anche in larghi strati dell’opinione pubblica, che se i terremoti sono e restano imprevedi-


bili nel loro istante di accadimento, molto è stato fatto e si potrà fare per prevedere nel dettaglio le caratteristiche del moto del suolo dei terremoti prossimi venturi. L’era moderna della pericolosità sismica in Italia si può considerare iniziata con il terremoto del 31 ottobre-1° novembre 2002 in Molise (Mw 5.8), quando il governo nazionale, prendendo atto che erano passati quasi venti anni dall’ultima revisione della normativa antisismica (completata tra il 1982 e il 1984), ha incaricato l’INGV di produrre un nuovo elaborato da porre a base di una normativa totalmente aggiornata. La nuova Mappa di Pericolosità, ultimata nella primavera del 2004 e denominata MPS04, recepiva quasi un ventennio di progresso delle conoscenze; un lasso di tempo non lunghissimo ma durante il quale la comunità sismologica nazionale, recependo anche i frutti della ricerca svolta in vista della costruzione delle centrali nucleari in Italia, aveva proceduto ad una velocità molto superiore a quella della media degli altri ambiti disciplinari.

Il punto di partenza del grande sforzo di mitigazione dei rischi naturali che l’Italia dovrà necessariamente affrontare nei prossimi decenni è il cittadino stesso, che deve essere indotto a sviluppare una autonoma consapevolezza dei pericoli a cui è esposto nell’area in cui vive e lavora. Il percorso dovrà includere non solo le buone pratiche da attuare al momento dell’evento calamitoso, ma soprattutto una solida cultura della prevenzione e della regola dell’arte

Oggi l’INGV si appresta a varare un nuovo modello di pericolosità, denominato MPS16, che si pone ai vertici mondiali per quello che riguarda la qualità e quantità dei dati di ingresso e la robustezza delle procedure di analisi. MPS16 resta comunque un elaborato convenzionale, ovvero uno schema che per ogni punto del territorio nazionale restituisce una stima probabilistica della accelerazione di picco (PGA) attesa per diversi periodi di ritorno, ma allo stesso tempo è un elaborato basato su dati e procedure che possono essere facilmente utilizzati per analisi di stampo deterministico o misto. In effetti da tempo si discute su quali siano gli stimatori più corretti della pericolosità tra i tanti che

sono stati proposti. A questo dibattito si aggiunge oggi un elemento nuovo e forse risolutivo, perché la disponibilità di una mappatura tridimensionale delle sorgenti sismogenetiche italiane, di dati sperimentali sul profilo di velocità delle onde sismiche nelle diverse aree, di metodi di analisi molto avanzati e di sistemi di calcolo sempre più veloci consente oggi di stimare le sollecitazioni che il costruito dovrà subire nell’istante del terremoto in modo molto più completo che non nel recente passato. Sappiamo bene che se stimare la pericolosità attraverso un singolo parametro, come la PGA o l’intensità spettrale (Luco & Cornell, 2007), può essere sufficiente nella progettazione di nuovi edifici, progettare strutture complesse o valutare la risposta attesa dell’edificato storico richiede invece che si disponga di una time-history completa dello scuotimento atteso; questa non rappresenterà semplicemente la scalatura di un accelerogramma reale (Iervolino & Cornell, 2005), ma rifletterà le dimensioni e la geometria della faglia sismogenetica, le reali condizioni di propagazione del moto del suolo nel volume crostale attraversato, le eventuali amplificazioni causate dalla risposta sismica caratteristica del sito e dall’interazione suolo-struttura. Non solo questo è oggi possibile, ma i tempi sono forse maturi perché i ricercatori italiani propongano alla comunità scientifica internazionale un aggiornamento delle procedure e della relativa normativa che renda ragione di questo rapido progresso. Per quanto riguarda la valutazione della vulnerabilità sismica, i metodi correnti impiegati nella progettazione del nuovo, basati sull’analisi dinamica modale e l’adozione di un coefficiente di struttura, non sono altrettanto accurati nella verifica dell’esistente. Spesso progettate per i soli carichi verticali, le strutture esistenti, infatti, possono manifestare collassi improvvisi o rotture fragili di elementi strutturali che mal si prestano ad essere descritti da modelli lineari. Questo spiega il ricorso sempre maggiore alle analisi di pushover (Fajfar, 1999), ormai entrate nella pratica professionale, o ai metodi di analisi dinamica incrementale (Vamvastikos & Cornell 2004), che però restano una prerogativa della comunità scientifica. A fronte della disponibilità di strumenti computazionali sempre più efficienti, il passo decisivo nella stima della vulnerabilità sismica dell’esistente è certamente l’impiego di analisi dinamiche non lineari tramite le quali simulare l’effettiva risposta della struttura rispetto al terremoto di scenario atteso. E qui diventa cruciale la selezione delle storie temporali dei terremoti di scenario, perché rispon-

25


26

dano ai caratteri sismogenetici del sito, tenendo conto del meccanismo di rottura della faglia, degli eventuali effetti near-source, dei possibili fenomeni di amplificazione locale. Alla scala della struttura, stante il livello di conoscenza necessariamente sommario, giocano un ruolo determinante le incertezze relative alle proprietà dei materiali e ai dettagli costruttivi; si rende quindi necessario ricorrere a tecniche di rilevamento, monitoraggio e diagnosi delle costruzioni che dovrebbero in effetti diventare una pratica corrente nel processo di valutazione, anche in virtù delle tecnologie innovative oggi disponibili. Alla scala territoriale, infine, esiste la necessità di superare i metodi tipologici e osservazionali a favore di metodi quantitativi, fondati sulla caratterizzazione fisico-meccanica delle strutture e calibrati sulla base dei rilievi dello stato di danno post-sisma disponibili. La valutazione del rischio sismico dovrebbe essere uno dei principali indicatori per l’allocazione delle risorse e la programmazione degli interventi di mitigazione necessari. Va rimarcato che le Norme Tecniche vigenti hanno già rappresentato un significativo passo avanti nelle procedure di valutazione della sicurezza attraverso l’introduzione di una ampia sezione relativa alle costruzioni esistenti. Tuttavia l’aggiornamento normativo in corso, già votato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, stabilisce una soglia molto bassa per gli interventi di miglioramento, pari ad appena il 10% del livello di sicurezza previsto per le nuove costruzioni. A questa preoccupazione si aggiunge il fatto che la necessità di trovare le risorse per porre rimedio agli eventi passati lascia poco spazio alle politiche di prevenzione e mitigazione rispetto agli eventi futuri. Occorre spezzare al più presto questo perverso meccanismo di “inseguimento” tra ricostruzione dei danni già subiti e prevenzione, puntando a destinare almeno una parte delle risorse al miglioramento sismico delle zone più a rischio. A questo fine sembra necessario esplorare nuovi meccanismi di finanziamento, attra-

verso incentivi fiscali in grado di promuovere processi virtuosi di spesa, o cercando nuovamente, dopo diverse proposte di intervento normativo purtroppo non andate a buon fine, di coinvolgere nel processo le grandi compagnie di assicurazione. La valutazione e mitigazione del rischio sismico impegna una filiera professionale decisamente lunga e articolata, della quale gli autori di questa nota rappresentano in modo molto parziale la parte inziale del geologo e quella finale dell’ingegnere. Non è un percorso semplice, come semplice non è mai stato il rapporto tra categorie professionali così apparentemente distanti, ma l’importanza sociale del tema giustifica certamente uno sforzo straordinario di superamento dei tradizionali steccati disciplinari. La complessità del problema sismico, con le sue mille sfaccettature scientifiche, economiche e sociali, richiede che vengano create nuove figure professionali in grado di percorrere tutto il processo di valutazione e di mitigazione del rischio; persone che abbiano familiarità sia con l’interpretazione dei caratteri sismologici che con la conseguente stima della pericolosità del sito, che abbiano competenze nel campo dell’analisi strutturale e della valutazione della vulnerabilità del costruito, fino al poter contribuire al progetto strutturale e architettonico delle opere di mitigazione e di protezione. Il quadro delineato mostra con evidenza quanto complesso e variegato sia il processo di valutazione del rischio sismico. Lo stesso quadro illustra quanto sia grande lo sforzo necessario per formare soggetti in grado di orientare l’allocazione delle risorse e la realizzazione delle opere di mitigazione necessarie per garantire la protezione e la resilienza appropriata all’Italia e ai suoi cittadini. La cultura e la tecnologia possono e devono spezzare la catena dei disastri sismici in Italia, ma per farlo servono scelte coraggiose e iniziative concrete da parte del sistema accademico nazionale.

Per approfondire. Riferimenti bibliografici DISS Working Group (2015). Database of Individual Seismogenic Sources (DISS), Version 3.2.0: A compilation of potential sources for earthquakes larger than M 5.5 in Italy and surrounding areas. (http://diss.rm.ingv.it/diss/, Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia; DOI:10.6092/INGV.IT-DISS3.2.0) Fajfar, P., Capacity spectrum method based on inelastic demand spectra (Article) Earthquake Engineering and Structural Dynamics, Volume 28, Issue 9, September 1999, Pages 979-993. Guidoboni, E., Valensise, G., L’Italia dei disastri - Dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali (1861-2013), Bononia University Press, ISBN: 97888-7395-904-5, 430 pp. Iervolino, I., Cornell, C.A., Record selection for nonlinear seismic analysis of structures , Earthquake Spectra, Volume 21, Issue 3, August 2005, Pages 685713. INGV, Pericolosità sismica di riferimento per il territorio nazionale - Ordinanza PCM 3519 del 28 aprile 2006, All. 1b (http:// http://zonesismiche.mi.ingv.it). INGV, Mappe interattive di pericolosità sismica. Risultati del progetto INGV-DPC “S1-Proseguimento della assistenza al DPC per il completamento e la gestione della mappa di pericolosità sismica prevista dall’Ordinanza PCM 3274 e progettazione di ulteriori sviluppi” (http:// http://esse1-gis.mi.ingv.it). Luco, N., Cornell, C.A., Structure-specific scalar intensity measures for near-source and ordinary earthquake ground motions, Earthquake Spectra, Volume 23, Issue 2, May 2007, Pages 357-392. Vamvatsikos, D., Cornell, C.A., Applied incremental dynamic analysi, Earthquake Spectra, Volume 20, Issue 2, May 2004, Pages 523-553. Woessner, J., L. Danciu, D. Giardini, H. Crowley, F. Cotton, G. Grünthal, G. Valensise, R. Arvidsson, R. Basili, M. B. Demircioglu, S. Hiemer, C. Meletti, R. Musson, A. Rovida, K. Sesetyan, M. Stucchi e SHARE Consortium, The 2013 European Seismic Hazard Model: key components and results, Bulletin of Earthquake Engineering, 13(12), 3,553-3,596, doi: 10.1007/s10518-015-9795-1.


Nuove strategie culturali

Il ruolo dell’università nell’insegnamento della sostenibilità ambientale Claudio Faccenna, Aldo Fiori

Nonostante la crescente popolarità del concetto di sostenibilità, la possibilità che le società umane potranno raggiungere la piena sostenibilità ambientale è costantemente Claudio Faccenna messa in discussione dall’emergenza di problemi quali il crescente degrado ambientale, i cambiamenti climatici, il consumo eccessivo di risorse, la crescita della popolazione e i rischi naturali. Per la sua posizione geografica e geologica, il nostro paese è particolarmente esposto a questi elementi. La sua posizione nel Mediterraneo ospita in poco spazio un variegato mosaico di ecosistemi terrestri e marini che ne fanno il più rilevante paese europeo in termini di biodiversità. Questi ecosistemi sono a rischio alla luce dello sviluppo e della ridistribuzione della popolazione con un processo di abbandono delle aree interne e l’urbanizzazione diffusa delle pianura. Tali trasformazioni si accompagnano al cambiamento climatico che ha ripercussioni molto evidenti lungo la nostra penisola che, circondata da barriere orogeniche importanti, sta subendo la progressiva desertificazione nella sue parti meridionali. A questo si associano i rischi naturali. L’Italia è un territorio geologicamente giovane afflitto da eventi naturali come terremoti, alluvioni, frane, eruzioni vulcaniche. Solo per i terremoti e alluvioni in Italia il bilancio è drammatico: negli ultimi 50 anni abbiamo sofferto migliaia di vittime, feriti e senza tetto oltre una spesa di circa 6 miliardi/anno. In Italia, occuparsi di sostenibilità ambientale non si limita a scelte energetiche e al miglioramento delle emissioni di anidride carbonica, ma significa dunque anche mitigazione del rischio degli eventi naturali, riducendo esposizione e vulnerabilità con interventi mirati, implica la salvaguardia di ecosistemi a rischio, la riqualificazione di paesaggi di campagna urbanizzata e la rioccupazione delle aree interne. Alla luce di quanto illustrato, appare indispensabile

attuare nuove strategie educative e culturali, non solo finalizzate a una corretta gestione delle emergenze, ma soprattutto orientate alla formazione di una maggiore consapevolezza della Aldo Fiori ricchezza, della fragilità e quindi del rischio cui è esposto il nostro territorio. Occorre un cambiamento culturale profondo in cui sia la coscienza delle conseguenze innescate dalle azioni umane sulla natura, sul territorio e sull’edificato, a guidare i progetti di pianificazione e programmazione territoriale e urbanistica. Strumento fondamentale per questo è la diffusione dei principi di sostenibilità ambientale a tutti i livelli della società, a partire dai diversi livelli di istruzione. Particolare importanza è rivestita dall’istruzione universitaria poiché essa fornisce gli strumenti di base necessari per lo sviluppo di politiche e tecniche di sostenibilità ambientale. Questa innovazione nelle strategie culturali sta progressivamente prendendo piede; ma, al di là delle facili proposte, la traduzione di questo in scelte precise è tutt’altro che semplice, poiché dal punto di vista scientifico presuppone competenze del tutto transdisciplinari. Tra i primi tentativi volti a legare la sfida della sostenibilità all’istruzione universitaria, e in generale alle tematiche dell’apprendimento, si annovera la UN Conference on Environment and Development di Rio de Janeiro (UNCED, 1992). In particolare, l’Agenda 21 ha identificato l’educazione superiore come la componente «fondamentale per promuovere lo sviluppo sostenibile e migliorare la capacità delle persone di affrontare le questioni ambientali e di sviluppo», promuovendo l’idea che i paesi «could support university and other tertiary activities and networks» (UNCED, 1992, pp. 265-266). Un’azione più incisiva è stata intrapresa 12 anni dopo la conferenza di Rio, in preparazione della UN Decade of Education for Sustainable Development (DESD, 2005-2014), la cui operatività è stata

27


28

a

b

c

d

a) Mappa della pericolosità da frana e idraulica (fonte: Sintesi Rapporto 2015 Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio, ISPRA, 2015); b) mappa di pericolosità sismica (fonte: www.INGV.it);

c) mappa delle aree sensibili alla desertificazione (fonte: Perini et al., 2008, La desertificazione in Italia. Processi, indicatori, vulnerabilità del territorio, Bonanno Editore, CRA, CNLSD, MATTM);

d) incremento del suolo consumato a livello provinciale tra il 2012 e il 2015 (%). (fonte: elaborazioni ISPRA su carta nazionale del consumo di suolo ISPRA-ARPA-APPA)

affidata all’UNESCO. In tale ambito si è reso evidente come l’istruzione superiore debba rivestire un ruolo chiave: «Universities must function as places of research and learning for sustainable development […] Higher education should also provide leadership by practicing what they teach through sustainable purchasing, investments and facilities that are integrated with teaching and learning […] Higher education should emphasize experiential, inquiry-based, problem-solving, interdisciplinary systems approaches and critical thinking. Curricula need to be developed, including content, materials and tools such as case studies and identification of best practices». (UNESCO, 2004, pp. 22-23). Concetti simili sono stati veicolati durante il decen-

nio precedente dalla Confederation of European Union Rectors’ Conferences, che ha preceduto l’attuale European Universities Association, determinando la stesura della Carta COPERNICUS. Quest’ultima, siglata a Groningen nel 1993, consiste in una serie di line-guida rivolte alle strutture accademiche, al fine di integrare lo sviluppo sostenibile in tutti i segmenti delle loro istituzioni. All’anno 2009, più di 320 università europee appartenenti a 37 diversi paesi avevano siglato la carta. La Carta COPERNICUS ha inoltre ribadito l’importanza di incorporare il concetto di sostenibilità nei curriculum universitari, enfatizzando ulteriormente la necessità di un approccio interdisciplinare nei programmi di ricerca ad essa rivolti: «Universities shall incorporate an environmental perspective in all their work and set up environmental education programs involving both teachers and researchers as well as students – all of whom should be exposed to the global challenges of environments and development, irrespective of their field of study […]. Universities shall encourage interdisciplinary and collaborative education and research programs related to sustainable development as part of the institution’s central mission».

In Italia, occuparsi di sostenibilità ambientale non si limita a scelte energetiche e al miglioramento delle emissioni di anidride carbonica, ma significa anche mitigazione del rischio degli eventi naturali, riducendo esposizione e vulnerabilità con interventi mirati, implica la salvaguardia di ecosistemi a rischio, la riqualificazione di paesaggi di campagna urbanizzata e la rioccupazione delle aree interne

Ulteriore stimolo è stato fornito dalla Dichiarazione di Bonn, a valle della Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sull’ESD (Education for Sustainable Development) del 2009, ribadendo la necessità di «mobilitare le funzioni fondamentali delle università: l’insegnamento, la ricerca e l’impegno della comunità per rafforzare la conoscenza globale e locale della ESD» (UNESCO, 2009, p.4). Le azioni sopra discusse hanno contribuito a creare negli anni le premesse per cambiamenti nell’offerta didattica degli atenei rivolti alle tematiche della sostenibilità. Ad esempio, negli Stati Uniti corsi di


laurea in sostenibilità ambientale, economica e sociale sono ormai affermati in tutte le principali università, e la sostenibilità è oggi considerata come il campo di ricerca del XXI secolo caratterizzato dalla crescita più veloce (Harvard Graduate School). Recenti statistiche, ad esempio, mostrano che un gran numero di studenti ha trovato lavoro a pochi mesi dal conseguimento della laurea.

Negli Stati Uniti corsi di laurea in sostenibilità ambientale, economica e sociale sono ormai affermati in tutte le principali università, e la sostenibilità è oggi considerata come il campo di ricerca del XXI secolo

L’educazione sostenibile è quindi un progetto centrale per lo sviluppo universitario ed è accompagnato da una serie di iniziative internazionali promosse da agenzie come la Association for the Advancement of Sustainability in Higher Education (AASHE) nate per ispirare e catalizzare l’insegnamento superiore sulla sostenibilità o la Higher Education Sustainability Initiative (HESI), organismo delle Nazioni Unite, con partner UNESCO e UNEP, creato per sviluppare run-up educativi universitari. 300 università internazionali hanno aderito al programma sviluppando progetti educativi per la sostenibilità.

Il piano strategico dell’Università di Utrecht annovera la sostenibilità ambientale tra i tre temi principali di sviluppo strategico; il tema della sostenibilità è in quel caso supportato mediante la creazione di un Istituto interdisciplinare nato per incentivare le interazioni tra ricerca scientifica, economica e socio-culturale e per sviluppare nuove metodologie didattiche

In Europa, l’importanza dell’insegnamento superiore di tematiche sostenibili si sta rapidamente affermando. Nel programma Horizon 2020, il 60% del budget viene devoluto a progetti di sviluppo sostenibile. In molti atenei europei, la sostenibilità è divenuto uno dei temi centrali, sia per la formazione che per la ricerca. Il piano strategico dell’Università di Utrecht, ad esempio, annovera la

sostenibilità ambientale tra i tre temi principali di sviluppo strategico; il tema della sostenibilità è in quel caso supportato mediante la creazione di un Istituto interdisciplinare nato per incentivare le interazioni tra ricerca scientifica, economica e socioculturale e per sviluppare nuove metodologie didattiche che possano combinare applicazioni pratiche e teoriche nel campo della sostenibilità. In Italia, La CRUI ha promosso nel luglio 2015 un progetto per una Rete delle Università per la Sostenibilità (RUS) a cui ha aderito l’Università Roma Tre. La finalità principale della rete è la diffusione della cultura e della pratica della sostenibilità per incrementare le ricadute positive in termini ambientali, etici e sociali. La sostenibilità si sta velocemente diffondendo in quasi tutti gli atenei italiani, incardinando in diversi profili economisti, ingegneri, architetti, geologi, biologi a qualunque livello, dalle laurea magistrali, ai master di secondo livello. Tuttavia, nonostante l’opportunità per lo sviluppo di percorsi di studio interdisciplinari impegnati nella costruzione di obiettivi formativi comuni, sono ancora rari gli esempi di insegnamento interdisciplinare e di percorsi di laurea interclasse. La fragilità del sistema italiano e la sua conformazione morfologica e strutturale richiedono un impegno “sostenibile” anche maggiore rispetto alla gran parte degli stati europei e occidentali. Lo studio delle tematiche associate alla sostenibilità richiede, per sua stessa natura, un approccio interdisciplinare, capace di far dialogare competenze anche assai diverse tra loro. La sostenibilità ambientale non può esser competenza di singoli specialisti. Definire il rischio da terremoto in una data regione non è competenza solamente del sismologo, ma richiede una valutazione fatta da geologi, ingeneri sismici, architetti, storici ed economisti. Il compito dell’Università è preparare una generazione di professionisti e tecnici pronti ad affrontare questo tipo di problemi con una visione ampia del problema senza perdere la loro preparazione tecnica. Ciò richiede un cambio di paradigma nell’istruzione universitaria, tale da superare lo schema angusto dei settori scientifico-disciplinari, che tuttavia appare ancora lontano dal compiersi. La prossima generazione di pianificatori ambientali dovrà esser in grado di leggere e interpretare i deversi aspetti del territorio, nella sua parte tecnica, culturale e ambientale. Questa è una sfida importante che le istituzioni universitarie internazionali hanno già intrapreso con successo e rappresenta un’opportunità che speriamo si possa concretizzare presto nel nostro Ateneo.

29


30

Identità urbane

Un nuovo paradigma formativo per la rigenerazione delle città Michele Furnari

L’identità urbana delle città italiane si è mantenuta a lungo immutata e ha resistito nel tempo, ma l’immagine dall’alto di una qualunque di queste città può aiutarci a comprendere oggi, meglio di qualunque altra testimonianza, il significato di una crescita urbana avvenuta, negli ultimi decenni, in maniera quanto mai convulsa. Nelle mappe di Google, la città storica, che spesso si riconosce al centro della struttura urbana, ha mantenuto le sue dimensioni per circa 1500 anni; tutte le costruzioni che si vedono intorno a essa, e che ne hanno moltiplicato ‘n volte l’estensione, non hanno più di 100 anni: «cresciuta senza ordine e senza fantasia, la nuova città è tutta provvisoria intorno all’altra, stagionata, eterna» scrive il poeta Alfonso Gatto.

Nelle mappe di Google, la città storica, che spesso si riconosce al centro della struttura urbana, ha mantenuto le sue dimensioni per circa 1500 anni; tutte le costruzioni che si vedono intorno a essa, e che ne hanno moltiplicato ‘n volte l’estensione, non hanno più di 100 anni: «cresciuta senza ordine e senza fantasia, la nuova città è tutta provvisoria intorno all’altra, stagionata, eterna» scrive il poeta Alfonso Gatto

Il paesaggio italiano è mutato di più nell’ultimo secolo di quanto sia accaduto nei secoli antecedenti. Il concitato sviluppo delle città ha macinato il territorio, trasformandolo talvolta per il meglio ma lasciandosi dietro una quantità di relitti e di aree di risulta. «Il bello o il brutto – nota l’attore Marco Paolini – è che nessuno ha progettato o organizzato questo cambiamento. Quello che è oltre il bordo della strada è il risultato di migliaia di azioni prodotte da singoli individui o gruppi di persone, da centinaia di piani non coordinati fra loro, in ogni comune di una terra già densamente popolata». Il racconto della città costituita in due parti, una bianca e una nera, una vecchia antica e una nuova moderna, è solo un pretesto per descrivere il contenuto di una peculiarità tutta italiana, nella quale le due città sono ancora riconoscibili. Talvolta oc-

cupano luoghi sostanzialmente distinti, ma il più delle volte risultano inestricabilmente intrecciate. Ma questa semplificazione ci serve anche per enfatizzare come la parte più antica con i suoi monumenti e edifici storici da parte dell’opinione pubblica sia ritenuta la città della conservazione e del rispetto, mentre la parte moderna sia ritenuta la sola potenzialmente assoggettabile ai nuovi interventi. Il dibattito è talvolta anche duro, fra chi sostiene lo statu quo ed è convinto che qualunque alterazione o addizione possa soltanto intaccare il valore complessivo della città storica, e quanti – più convincentemente – tentano di sostenere che la salvaguardia degli edifici antichi non ha nulla a che fare con la possibilità di recuperare edifici esistenti o costruire edifici nuovi e che talvolta, se necessario, ri-progettare, aggiungere o modificare alcune parti del tessuto urbano può addirittura migliorare lo stato complessivo della città storica. Nel frattempo, tranne poche eccezioni, il processo di crescita delle nostre città non sembra conoscere flessioni e soprattutto nelle parti nuove delle nostre periferie il consumo di suolo, l’impoverimento dello spazio pubblico, la scomparsa della dimensione collettiva dell’abitare sembrano essere i caratteri costanti di una città che non smette di avanzare. La città contemporanea d’altronde è il luogo nel quale i valori urbani si equalizzano: la periferizzazione e il degrado delle aree interessa indifferentemente zone collocate nelle periferie più estreme così come compound prossimi o addirittura interni alla città storica. Per questo, se l’obiettivo è quello di raggiungere una sostenibilità della città, non possiamo che parlare della necessità di un intervento complessivo di rigenerazione urbana della città nel suo insieme, poiché parti nuove e quartieri storici sono spesso accomunati da una eguale necessità di riqualificazione, e nelle nostre città a macchia di leopardo si alternano enclave di pregio e distretti da rigenerare. Secondo uno studio del patrimonio edilizio residenziale esistente, pubblicato dall’ANCE e dal Censis del 2012, lo stato manutentivo generale è quanto mai critico: la maggioranza sono edifici che dal punto di vista strutturale e antisismico da quello


impiantistico fino a quello di tipologico e distributivo, sono obsoleti. «Un vero e proprio cambio di paradigma si rende necessario se si vuole realizzare una effettiva inversione di tendenza. Dal punto di vista dello sviluppo insediativo l’opzione di fondo non può che essere quella di guardare al patrimonio esistente come una grande risorsa oggi mal utilizzata che richiede un recupero di qualità e di funzionalità con particolare attenzione al risparmio energetico, al contenimento del consumo di suolo e alla necessità di dare risposta alla nuova domanda abitativa».

Parti nuove e quartieri storici sono spesso accomunati da una eguale necessità di riqualificazione, e nelle nostre città a macchia di leopardo si alternano enclave di pregio e distretti da rigenerare

D’altronde è a partire dalle esperienze della Barcellona olimpica, poi recepite nella commissione inglese presieduta da Richard Rogers insieme proprio con il sindaco di Barcellona Maragal, che la strategia urbana di gestione delle città non si indirizza più nei termini della progettazione della

espansione orizzontale della città, quanto della sua ricostruzione dall’interno aumentandone la densità e riutilizzando tutte quelle aree che seppure urbanizzate sono state trascurate o dismesse nel frattempo. Questa è un’opera che si incentra soprattutto sull’adeguamento del patrimonio edilizio esistente e sulla sua messa in sicurezza, e su di una politica urbana che consenta di superare tutte le perplessità legate ad operazioni di sostituzione edilizia (va ricordato infatti che dal punto di vista economico l’adeguamento, o soltanto anche il miglioramento della qualità edilizia e della sicurezza di un edificio è il più delle volte assai più costoso di quanto costerebbe l’abbattimento e la ricostruzione dell’edificio stesso) e che abbia come obiettivo un lavoro integrato e sostenibile a scale diverse: alla scala del piano di assetto urbano di interi quadranti della città, alla scala del quartiere e dell’isolato, intervenendo sul tessuto urbano, alla scala dell’edificio singolo contemplando un progetto che vada dalla riqualificazione del manufatto fino alla progettazione ex-novo dello stesso. Volendo schematizzare la realtà delle nostre città, semplificazione che ci consente di procedere in maniera più chiara e puntuale nell’economia di questo contributo, possiamo dire che il patrimonio edilizio

31


32

italiano è costituito per larga parte da due grandi insiemi di edifici. Il primo è quello degli edifici storici, antichi, di interesse architettonico e artistico, istituzionale ma anche tutta la gran parte dell’edilizia (nella quasi totalità è a muratura portante) di costruzione ottocentesca e della prima parte del Novecento (poco meno del 50% del totale). Il secondo gruppo, numericamente più consistente, è quello che presenta i più grossi problemi ed è costituito per 2/3 da tutta l’edilizia post bellica ovvero quella che va dall’inizio degli anni ‘50 fino gli anni ‘70. Circa 1/3 è invece formato dagli edifici più recenti ovvero quelli realizzati dagli anni ‘80 ad oggi. All’interno di questo gruppo vi sono tanto i grandi quartieri residenziali di iniziativa pubblica che gli insediamenti abusivi ma anche la miriade di case sparse nel territorio circostante le nostre città e nelle campagne. Ma mentre gli edifici più recenti sono di qualità mediamente superiore (purché realizzati a regola d’arte, cosa non sempre verificata in special modo negli interventi più spiccatamente speculativi) poiché costruiti secondo leggi che contemplavano già una prima normativa antisismica così come una regolamentazione energetica, gli edifici post-bellici sono quelli ad avere i maggiori problemi di messa in sicurezza e di adeguamento

normativo ai fini dell’abitabilità. Questi due grandi gruppi di edifici hanno perciò necessità di intervento molto diverse fra di loro. Ad esempio per il primo gruppo degli edifici storici, saranno sicuramente prevalenti interventi di conservazione e di messa in sicurezza soprattutto riguardo al miglioramento o all’adeguamento della risposta antisismica delle strutture, oltre a interventi di natura energetica e impiantistica (naturalmente il tenore degli interventi varierà moltissimo fra edifici di interesse storico artistico o istituzionale rispetto a edifici più correntemente appartenenti al patrimonio storico e antico delle nostre città nei quali gli elementi pre-esistenti sono meno vincolanti). Mentre per il gruppo degli edifici più recenti si tratterà di intervenire più con piani di manutenzione ciclica e interventi di aggiornamento e adeguamento più mirati, ma comunque da realizzare in un contesto assai diverso di quello dell’edilizia storica, piuttosto che con interventi di recupero più radicali tipici invece di quegli edifici realizzati nell’immediato dopoguerra. Aldilà delle specificità, si deve tener conto che in tutti i casi si tratterebbe di interventi di una complessità molto alta in quanto la loro realizzazione richiederebbe una serie di conoscenze specifiche


33


34

molto diverse che ampliano notevolmente il numero e la gamma delle competenze professionali necessarie a portarli a termine. Ad esempio in un progetto di recupero di un immobile storico, anche senza immaginare particolari pregevolezze di tipo artistico o particolari dettagli di natura architettonica, accanto a figure tradizionali come quella dell’architetto, del geotecnico o dell’ingegnere spesso bisogna reperire competenze, ad esempio, nel campo della tecnologia delle murature così come esperti delle stratigrafie e nelle prospezioni di tipo archeologico, senza voler tralasciare tutte le competenze di tipo impiantistico e relative al risparmio energetico, ancora più critiche in strutture antiche. Né d’altronde l’intervento di ristrutturazione e di recupero di edifici più recenti comporta il coinvolgimento di una minore gamma di specializzazioni poiché il confronto con il contesto urbano (in special modo quelli così tipicamente stratificati dei nostri territori) può richiedere una pari molteplicità di competenze.

Ma spesso anche quelle figure tradizionali cui si è accennato sopra (professionisti come gli architetti o gli ingegneri che siamo abituati a immaginare portatori di un sapere universalistico) devono nel

loro ambito avere particolari specializzazioni per potersi misurare per esempio con manufatti di carattere storico rispetto alle competenze molto diverse che invece debbono avere quei professionisti fra essi, che abbiano una consuetudine maggiore con strutture più recenti. In una ipotetica riunione tecnica iniziale, di uno qualunque di questi progetti i tecnici intorno al tavolo sarebbero innumerevoli e ciascuno rappresentante di un punto di vista professionale quanto mai essenziale ma altrettanto ristretto. Bisogna infatti tener conto infatti che queste figure professionali per la natura stessa delle loro specializzazioni sono costretti ad un costante attenzione alle innovazioni e agli aggiornamenti di tipo scientifico tecnico o normativo del proprio settore disciplinare. Non hanno perciò il tempo né giustamente la formazione per poter coltivare una visione di tipo esteso del progetto, per cui sempre di più si sente la necessità che a quel famoso tavolo, possa sedere anche una figura che non surroghi le singole competenze relative a questi differenti aspetti scientifici e settoriali, ma che invece sia per formazione in grado di colloquiare e di poter rappresentare un punto di riferimento e di coordinamento tra essi. Ecco perché in sede di formazione, in particolar


Guidonia Montecelio. Comune in provincia di Roma di circa 90.000 abitanti residenti

modo per gli architetti (che per forma mentale e abitudine a sintetizzare in una forma costruita istanze e aspirazioni le piĂš diverse sembrano essere sulla carta quelli naturalmente in grado di rivestire un simile ruolo), bisogna immaginare di

costruire un percorso didattico che metta insieme gran parte delle discipline coinvolte, in modo da poter formare in futuro tecnici che hanno come propria caratura genetica la capacitĂ di dialogare con i diversi saperi.

Quartiere residenziale di iniziativa pubblica Laurentino 38, Roma. (foto: da L38 Squat neighborhood / laurentino)

35


36

Principi giuridici e ambiente: le interconnessioni con le altre discipline Il carattere interdisciplinare della tutela ambientale Giampaolo Rossi

La novità qualitativa del diritto dell’ambiente La disciplina giuridica del diritto dell’ambiente è nuova sotto vari profili. Lo è anzitutto perché, come è noto, non esisteva fino a pochi Giampaolo Rossi decenni fa. Esistevano normative specifiche su singoli aspetti, come le industrie insalubri, gli scarichi industriali, il trattamento delle acque reflue, il trattamento dei rifiuti, che trovavano il loro inquadramento nelle funzioni ordinarie degli apparati già esistenti preposti all’igiene, alle attività produttive, all’assetto del territorio. Anche la tutela del paesaggio, poi sancita dall’art.9 della Costituzione, era presa in considerazione dalla normativa essenzialmente sotto il profilo estetico, tanto che la legge 1497 del 1939 era intitolata “Protezione delle bellezze naturali” e le bellezze panoramiche erano “considerate come quadri naturali”.

La tutela del paesaggio, sancita dall’art.9 della Costituzione, era fino a pochi decenni fa presa in considerazione dalla normativa essenzialmente sotto il profilo estetico, tanto che la legge 1497 del 1939 era intitolata “Protezione delle bellezze naturali” e le bellezze panoramiche erano “considerate come quadri naturali”

Di qui la competenza attribuita al Ministero dell’educazione nazionale. La novità dell’emergenza ambientale, del «prevalere delle forze distruttive su quelle creative e costruttive dell’uomo» (M.S. Giannini) ha indotto tutti i paesi a considerare l’ambiente come feno-

meno unitario, retto da apposite normative che hanno sancito una serie di diritti e di doveri specifici e hanno creato appositi organismi preposti alla tutela. Ma la novità è soprattutto qualitativa perché presenta tratti sconosciuti agli assetti precedenti.

Dopo un primo periodo di irrilevanza della tutela dell’ambiente e un successivo periodo di antagonismo fra l’interesse all’ambiente e l’interesse allo sviluppo, nel quale il primo è stato considerato come un limite al secondo, si è determinata una consapevolezza che ha determinato la nascita di nuovi valori economici non solo ecocompatibili ma fondati proprio sulla salvaguardia dell’ambiente

Il carattere trasversale Il primo profilo di novità sta nel carattere trasversale della disciplina e del sistema delle competenze in materia ambientale. L’ingresso nella sfera pubblica di questo nuovo interesse non ha comportato la nascita di organismi amministrativi e di fattispecie procedimentali che, in prevalenza, incidono su quelle poste in essere da altre amministrazioni. Le funzioni pubbliche concernenti la produzione agricola o industriale, i consumi, la salute e l’assetto del territorio continuano ad essere esercitate dalle autorità già competenti, ma su questo esercizio influiscono, in maniera vincolante, le autorità preposte alla tutela ambientale. Poche sono le funzioni il cui esercizio si esaurisce all’interno delle competenze di queste autorità. Ne deriva, tra l’altro, una complessità organizzativa e procedimentale più aggravata rispetto a quella che si registra in tutti i settori dell’ordinamento. Anche la connessione che sempre vi è fra la scienza giuridica e gli altri settori delle scienze si manifesta in modo più evidente in materia ambientale perché l’ambiente è, in sostanza, il modo


Paesaggi italiani. Il borgo di Orsomarso, nel Parco nazionale del Pollino

d’essere dell’insieme dell’habitat umano e dell’equilibrio ecologico del pianeta e delle sue singole parti: è “ambiente” il modo di produrre, di consumare, di organizzare nel territorio la convivenza civile.

I nuovi principi La seconda novità qualitativa consiste nella nascita di nuovi principi giuridici: della sostenibilità (le decisioni normative e amministrative non sono legittime se non tengono conto della compatibilità con le esigenze di tutela dell’ambiente), di precauzione (non si possono porre in essere attività che mettano a rischio l’ambiente), di responsabilità estesa del produttore (chi produce deve garantire il corretto smaltimento o riutilizzo dei beni prodotti), di “chi inquina paga” (chi provoca il danno ambientale ne deve sopportare le conseguenze anche economiche. È un principio che presenta margini di equivoco perché può far ritenere che si possa inquinare pagando). Vi è chi ne aggiunge anche altri, come quello di sussidiarietà, di proporzionalità, di adeguatezza, di tutela delle generazioni future, che

però non sono specifici del diritto dell’ambiente (anche se in questo hanno trovato un particolare sviluppo) ma riguardano l’insieme dell’attività dei pubblici poteri. I principi giuridici nascono da una cultura diffusa nel corpo dell’intera società e il più delle volte il legislatore (europeo, nazionale e regionale) è costretto a rincorrerla e a sancirne le acquisizioni in norme giuridiche. Ciò spiega il ruolo creativo esercitato dai giudici, che hanno precorso le norme che sono state poi adottate: così la Corte di giustizia europea ha affermato la preminenza della tutela ambientale su quella della concorrenza prima che vi fossero norme europee in tal senso; così, ancora, la Corte Costituzionale italiana e le magistrature superiori hanno sancito l’esistenza di un diritto soggettivo all’ambiente al di fuori di una esplicita previsione normativa. L’affermazione di questi nuovi principi è quindi indicativa della consapevolezza ormai diffusa della particolare importanza della tutela ambientale e della sua incidenza innovativa sui valori in precedenza consolidate.

37


38

Gli stabilimenti ILVA di Tarnato (2007). (Di mafe de baggis from Milano, Italy - Le Benevole, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20466457)

Conclusioni di prospettiva e operative Poiché, come si è visto, la tutela dell’ambiente ha carattere trasversale ed è interconnessa con le altre discipline giuridiche, tecniche, economiche e sociali, lo studio delle tematiche ambientali non può che avere carattere interdisciplinare. La stessa comprensione delle problematiche implica una analisi dei diversi profili che compongono le fattispecie complesse che deve essere effettuata congiuntamente da studiosi delle varie discipline coinvolte perché i nuovi principi di tutela dell’ambiente non si limitano a prospettare alcune esigenze nuove che si sommano a quelle precedenti ma mettono in discussione i valori che erano prima consolidati. Dopo un primo periodo di irrilevanza della tutela dell’ambiente e un successivo periodo di antagonismo fra l’interesse all’ambiente e l’interesse allo sviluppo, nel quale il primo è stato considerato come un limite al secondo, si è determinata una consapevolezza che ha determinato la nascita di nuovi valori economici non solo eco-compatibili ma fondati proprio sulla salvaguardia dell’ambiente. Così i rifiuti, considerati come scarto inquinante, stanno progressivamente diventando

materia prima, le energie rinnovabili hanno creato un nuovo mercato, i valori biologicamente naturali hanno acquisito un valore economico superiore, l’idoneità a salvaguardare l’ambiente viene considerata un elemento influente nell’aggiudicazione degli appalti pubblici, la “contabilità ambientale” è elemento essenziale nel budget di impresa, l’assetto del territorio viene arricchito da una rimodulazione che privilegia le esigenze dell’ambiente. Questa evoluzione, che è ormai abbastanza consolidata e che è destinata ad accentuarsi, sta determinando l’esigenza di nuove figure professionali e le Università si stanno attrezzando per formarle promuovendo corsi di studio idonei a sviluppare capacità professionali che possano padroneggiare i diversi profili (giuridici, economici, ingegneristici, architettonici, delle scienze biologiche) che concorrono alla salvaguardia dell’ambiente. Il richiamo per i giovani è certamente molto forte perché la dignità del lavoro e la motivazione che vi è connessa trovano una applicazione evidente e pregevole nella consapevolezza di poter contribuire a una migliore qualità della vita per tutti.


Ricostruire l’ambiente

Progetto e tecnologie per la resilienza degli ecosistemi naturali e urbani Paola Marrone

Le tempeste di sabbia note come Dust Bow, raccontate da John Steinbeck in “The Grapes of Wrath”, che colpirono gli Stati Uniti centrali e il Canada tra il 1931 e il 1939, costringendo oltre mezzo milione di americani a miPaola Marrone grare verso ovest in cerca di case e lavoro, furono causate da decenni di tecniche agricole inappropriate e dalla mancanza di rotazione delle colture. Da quel disastro ambientale e dagli altri che seguirono, la salvaguardia dell’ambiente divenne il tema principale del pensiero ecologico, dibattuto, fino dalla sua nascita nell’Età della Ragione, tra una visione “biocentrica”, radicata nei valori arcadici e romantici, e una visione “positivista”, fiduciosa nelle possibilità di uno sviluppo illimitato, grazie al controllo della tecnica sulla natura (Worster, D., 1994, Storia delle idee ecologiche. Bologna, Casa editrice il Mulino).

La ricostruzione dell’ambiente è oggi un obiettivo specifico e trasversale dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Nel 2012 il rapporto Healthy environment. Healthy People (United Nations Environment Programme) ha stimato che, a causa dei danni inflitti all’ambiente, si sono verificate morti 234 volte superiori a quelle delle guerre. In Italia, nello stesso anno, il rapporto Ance-Cresme sullo stato del territorio italiano ha dimostrato la stretta dipendenza tra gli effetti dei rischi naturali, sismici e idrogeologici e uno sviluppo urbanistico indifferente alla manutenzione e messa in sicurezza del territorio.

È così maturata la consapevolezza che, per ricostruire l’ambiente, non sia sufficiente salvaguardare il “capitale naturale”, ma occorra operare affinché la natura possa continuare ad assorbire o controllare gli impatti, favorendo la resilienza del sistema eco-territoriale nelle zone urbane e naturali, quale condizione per mantenere la dipendenza vitale per

l’uomo dall’ecosistema in cui vive e per fronteggiare le sfide poste dai cambiamenti climatici. “Capitale naturale” e “servizi ecosistemici” sono temi noti in campo tecnico e scientifico, e ai quali oggi è affidata la ricostruzione ecologica, urbana e periurbana, purché si integrino due tipi di azione: una per il mantenimento attivo dell’ambiente esistente, ossia del “capitale naturale” che produce quei benefici importanti per la sopravvivenza dell’uomo (“servizi ecosistemici”); l’altra per la realizzazione di nuove “unità ecosistemiche naturali”, con caratteristiche ambientali pari a quelle precedenti.

Nel 2012 il rapporto Healthy environment. Healthy People (United Nations Environment Programme) ha stimato che, a causa dei danni inflitti all’ambiente, si sono verificate morti 234 volte superiori a quelle delle guerre. In Italia, nello stesso anno, il rapporto Ance-Cresme sullo stato del territorio italiano ha dimostrato la stretta dipendenza tra gli effetti dei rischi naturali, sismici e idrogeologici e uno sviluppo urbanistico indifferente alla manutenzione e messa in sicurezza del territorio

Le infrastrutture verdi sono state individuate come “soluzioni naturali” strategiche per la tutela dell’ambiente e per il ripristino degli ecosistemi degradati (Strategia UE 2020 per la tutela della biodiversità e nella programmazione dei fondi strutturali 2014-2020). L’infrastruttura “grigia” delle politiche urbanistiche per la tutela e la pianificazione dell’ambiente naturale e antropizzato degli anni Quaranta e Cinquanta, si trasforma in “verde” per ricostruire l’ambiente con interventi integrati a livello urbanistico e architettonico, ossia attraverso una progettazione ambientale multidisciplinare che cerca un equilibrio tra aree naturali e ambiente costruito, tra tutela e sviluppo, per favorire la capacità di rigenerazione dei sistemi naturali. Nella Strategia europea Infrastrutture verdi-Rafforzare il capitale naturale in Europa COM (2013)

39


in maniera da fornire un ampio spettro di servizi ecosistemici. Ne fanno parte gli spazi verdi (o blu, nel caso degli ecosistemi acquatici) e altri elementi fisici in aree sulla terraferma (incluse le aree costiere) e marine. Sulla terraferma, le infrastrutture verdi sono presenti in un contesto rurale e urbano». Ad essa è affidato, entro il 2020, il ripristino di almeno il 15% degli ecosistemi degradati (Malcevschi, S., Bisogni, G.L., 2016, Infrastrutture verdi e ricostruzione ecologica in ambito urbano e periurbano, in Techne n.11, pp.33-39).

40

Dust Bowl, Dallas, South Dakota, 1936

Verso un’economia circolare e verde (Immagine tratta da: United Nations Environment Program, Uncovering pathways towards an inclusive green economy. A summary for leaders, 2015)

Parc de Gerland, Atelier Corajoud, Lyon (foto: Federico Orsini)

249, l’infrastruttura verde è «una rete di aree naturali e seminaturali pianificata a livello strategico con altri elementi ambientali, progettata e gestita

Il riferimento al contesto rurale e urbano evidenzia come le infrastrutture verdi non siano solo riferite agli spazi protetti, ma siano importanti per ricostruire un ambiente degradato e mantenere i benefici che l’uomo ricava dagli ecosistemi che lo compongono: servizi di supporto alla vita (formazione dei suoli, fotosintesi, cicli naturali); di produzione (cibo, legno ed altre fibre; sostanze chimiche; acqua); di regolazione (del microclima, dei flussi idrici, autodepurazione, impollinazione etc.) e culturali (fruibilità ricreativa, identità dei luoghi etc.). In questa accezione, il termine ‘infrastruttura’ supera la dimensione tecnica per occupare un ambito progettuale molto più ampio, in cui l’innovazione tecnologica, consolidata nell’esperienza dell’ingegneria naturalistica, è orientata alla sostenibilità per valorizzare le potenzialità specifiche dei territori, intrecciando tutti i tipi di infrastrutture in essi esistenti: quelle naturali, umane, economiche e culturali. Una recente esperienza di decarbonizzazione nel comune di Montieri ha dimostrato, per esempio, che è possibile un efficiente recupero del patrimonio costruito senza profondi interventi di risparmio energetico sull’involucro, ma con una pluralità di soluzioni tecnologiche che sfruttano le energie rinnovabili a disposizione, dalla geotermia ai vapori di scarto della produzione elettrica, integrandole in un conveniente sistema di “collaborazione” tra edifici, ossia attraverso una rete di teleriscaldamento (Marino, V., Pagani, R., 2016, Un’infrastruttura geotermica per un borgo storico in Toscana: riflessioni sulla sostenibilità delle soluzioni di riqualificazione energetica, Techne n.11, pp. 87-96).

Accanto ai parchi e alle aree protette per la conservazione della biodiversità, intervenire per ricostruire l’ambiente urbano o periurbano vuol dire,


sostanzialmente, progettare per proteggere e aumentare la resilienza degli ecosistemi, attraverso misure di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici con tecnologie adeguate; ossia, in grado di migliorare in modo significativo le prestazioni ambientali di altre tecnologie in relazione alle specifiche esigenze locali e ai fattori geografici e temporali che le possono influenzare. Salvaguardare il capitale naturale non significa solo migliorare la qualità ecologica e sociale delle aree urbane, ma anche favorire una crescita sostenibile e durevole, attraverso interventi che, generando incrementi nei valori del capitale costruito, possono attrarre investimenti. E, per raggiungere questi obiettivi attraverso una scelta motivata di soluzioni efficienti, diverse competenze e professionalità sono chiamate a esprimere il loro punto di vista (interdisciplinarità) affidate alla capacità di sintesi di chi è chiamato a progettare e gestire gli interventi di salvaguardia e ricostruzione.

Le infrastrutture verdi urbane per il ripristino degli ecosistemi degradati e per la protezione del capitale naturale possono essere progettate per assolvere a diverse funzioni, a seconda dei singoli contesti, ad esempio: l’assorbimento di CO2 e di inquinanti atmosferici; la termoregolazione delle isole di calore; la laminazione e il recupero delle acque meteoriche; la produzione di alimenti e materie prime; il risparmio delle risorse energetiche e il riutilizzo degli scarti e dei rifiuti. In questo compito sono sostenute da tutte quelle tecnologie (ESTs - Environmentally Sound Technologies) che, rispetto alle tecnologie che sostituiscono, sono in grado di proteggere l’ambiente; inquinare di meno; usare le risorse in modo sostenibile; riciclare gran parte dei loro rifiuti e prodotti; trattare i rifiuti in un modo più accettabile per l’ambiente. Le ecotecnologie per la ricostruzione dell’ambiente, pertanto, non sono definibili a priori, ma possono individuare diversi tipi di interventi, purché appropriati per i bisogni locali (Baiani, S., Valitutti, A., 2013, Resilienza del territorio e del costruito. Strategie e strumenti operativi per la prevenzione, la mitigazione e l’adattamento di contesti fragili e sensibili, in Techne n.5, pp.95-100). Alcuni esempi di tecnologie mirate alla ricostruzione dell’ambiente sono gli ecosistemi filtro, gli spazi verdi e le zone umide multifunzionali, gli interventi di préverdissement, i tetti e le pareti verdi, le aree agricole e le foreste urbane, le vie ciclabili e navigabili con funzioni anche ambientali, i buffer idraulici urbani e i SUDS (Sustainable Urban Drainage Systems). Molte esperienze internazio-

nali hanno già realizzato interessanti esempi di infrastrutture verdi ed ecotecnologie per il recupero ambientale: dalle Green Belts inglesi al Piano Infrastrutture verdi di New York.

Diversi approcci allo sviluppo sostenibile si sono avvicendati, e talvolta anche confusi, in questo ultimo quarto di secolo per giungere alla consapevolezza che un’economia verde del pianeta sia progettabile se basata su condivisione, circolarità, collaborazione, solidarietà, resilienza, opportunità e interdipendenza (Uncovering pathways towards an inclusive green economy. A summary for leaders, United Nations Environment Programme, 2015). Concetti, quali green e circular economy, industrial ecology, ecological infrastructure, e approcci ispirati alla natura, quali cradle to cradle, biomimicry o anche quello sotteso all’industrial symbiosis, sono diventati ricorrenti nel linguaggio della ricerca, della pianificazione e della progettazione di prodotti, processi e servizi. In questo contesto, ricostruire l’ambiente significa progettare innovando in modo incrementale e non radicale, usando le risorse esistenti, infrastrutturali, economiche, umane per realizzare interventi che diventino parte essenziale dell’ecosistema rurale e urbano. La programmazione accademica ha il compito di affrontare il tema della ricostruzione dell’ambiente ponendosi l’obiettivo di prefigurare professionalità nuove, formate attraverso la combinazione di competenze disciplinari plurime. I danni ambientali devono essere prevenuti e solo raramente riparati: gli esempi sono ormai molti e possono essere messi a profitto per anticipare frane, smottamenti, crolli edilizi, inquinamenti per scorie sulla superficie terrestre e nelle falde acquifere. Il tecnico da preparare deve avere competenze proiettate sulle conseguenze future degli interventi. Deve saper individuare, anche se non singolarmente risolvere, le azioni che nelle aree, urbanizzate e non, possono portare al depauperamento del territorio, con esiti nocivi sulle condizioni ambientali. L’università deve pensare a una competenza di sintesi, in grado di inquadrare il singolo tema all’interno di angoli di lettura diversi, dove più discipline hanno titolo e obbligo a intervenire. L’accademia ha anche il compito di “convincere” le amministrazioni pubbliche che questa professionalità va ricercata e coltivata, sapendo che, provenendo da una formazione di base generale e comune, deve, nel rapporto con gli enti locali, essere orientata sulle specificità che caratterizzano i diversi territori.

41


42

Uno sviluppo economico sostenibile Il ruolo dell’economista nella pianificazione territoriale Valeria Costantini

L’emergere di un’esigenza sempre più diffusa di intraprendere sentieri di crescita e sviluppo economico che abbiano come punto centrale il rispetto e la salvaguardia degli Valeria Costantini ecosistemi e del territorio in cui vengono svolte le attività antropiche, sta lentamente ma inesorabilmente modificando la sensibilità della società civile e, di conseguenza, l’assetto istituzionale che in via diretta e indiretta governa le scelte di sviluppo. Il sistema universitario in questo panorama di cambiamenti sociali costituisce il perno cruciale per garantire quelle basi scientifiche necessarie a tradurre in azioni concrete dei policy makers le istanze manifestate dalla società civile. La complessità degli ecosistemi ha come diretta conseguenza una molteplicità di canali e legami attraverso cui le attività antropiche influenzano il funzionamento dei vari sistemi ambientali. Diretta conseguenza di tale complessità è la necessità che gli ambiti e le discipline di studio coinvolti nell’analisi di tali sistemi siano contemporaneamente sollecitati ad intervenire per proporre soluzioni multidisciplinari a problematiche per loro natura complesse. Il sistema universitario appare quindi come luogo privilegiato dove formare sia le figure specialistiche in grado di capire nel dettaglio gli aspetti critici della gestione sostenibile degli ecosistemi, sia di fornire una preparazione completa per figure professionali in grado di dialogare con differenti figure specialistiche ed essere adeguati nel formulare risposte efficaci a problemi complessi, sintetizzando differenti punti di analisi in un sistema di pianificazione armonico e coordinato. Negli ultimi anni si è dato molto spazio, anche di natura mediatica, alla crescente importanza delle nuove tecnologie come strumento chiave per promuovere strategie di produzione e scelte di consumo più sostenibili. Non a caso anche nel gergo

tecnico adottato dalle linee programmatiche promosse dall’Unione europea è stato introdotto il concetto di “eco-innovazione”, intesa come l’insieme delle tecnologie di prodotto e di processo che hanno come scopo primario quello di ridurre l’impatto sull’ambiente. È forse meno noto però che la rapida crescita e diffusione di tali tecnologie “verdi” abbia beneficiato di ampi interventi di natura pubblica sotto forma di sussidi e creazione vera e propria di mercati di sbocco.

Anche nel gergo tecnico adottato dalle linee programmatiche promosse dall’Unione europea è stato introdotto il concetto di “eco-innovazione”, intesa come l’insieme delle tecnologie di prodotto e di processo che hanno come scopo primario quello di ridurre l’impatto sull’ambiente

La sistematica introduzione di strumenti di controllo e gestione della sostenibilità ambientale da parte della politica pubblica rappresenta esattamente la traduzione delle nuove sensibilità della società civile in strumenti di intervento in grado di modificare il funzionamento di mercato e le scelte di consumo. Se le soluzioni tecnologiche sono prevalentemente di appannaggio delle cosiddette scienze dure, la progettazione di politiche pubbliche atte a promuovere comportamenti eco-sostenibili è oggetto d’indagine degli economisti. In tal senso la disciplina economica negli ultimi venti anni ha visto il nascere e fiorire di una branca sempre più importante, ovvero l’“economia dell’ambiente”. Anche se può apparire un controsenso che la scienza economica, percepita dal sentire comune come concentrata unicamente sul profitto e su aspetti monetari della società, si occupi di ambiente naturale, considerato come vittima dei danni prodotti proprio dalle attività economiche, l’economia dell’ambiente rappresenta esattamente quella disciplina che legge i bisogni sociali di protezione dell’ambiente naturale e li traduce in indicazioni normative affinché i policy makers possano con-


Chêne. Foto Jean-Christophe Capdupuy©

cretizzare le aspettative dei propri elettori. Volendo riflettere sulla necessità di formare figure professionali che siano in grado di svolgere il difficile compito di studiare e rendere operative strategie di pianificazione e gestione del territorio e degli ecosistemi nella direzione di una migliore salvaguardia della natura e delle funzioni ambientali a favore sia della generazione presente che di quelle future, due esempi possono ben descrivere quale sia il contributo degli economisti a tale complesso e articolato obiettivo. Partiamo dalle nuove tecnologie verdi di cui si è accennato in precedenza. Se l’ingegnere o il biologo o il chimico o l’informatico sono le figure professionali necessarie per creare le invenzioni e tradurle in innovazioni, l’economista è colui che analizza quale sia la forma più efficace di intervento pubblico per stimolare le industrie ad innovare e per favorire al contempo la diffusione delle nuove tecnologie nelle dinamiche di consumo. A tale proposito gli interventi di politica ambientale, energetica e industriale debbono essere definiti attraverso un approccio sistemico, al fine di disegnare un mix di politiche che siano in grado di ottenere la massimizzazione del risultato al minor costo possibile per la collettività. Per fare un esempio concreto, si pensi alla diffusione delle nuove tecnologie per la produzione di

energia da fonti rinnovabili. L’economista in tal senso ha come primo compito quello di elaborare degli scenari di diffusione di tali fonti energetiche temendo conto del relativo costo di produzione e delle peculiarità del territorio oggetto di indagine. Il costo di produzione deve a sua volta essere confrontato con quello dell’energia da fonti tradizionali. Il divario di costo tra la produzione da fonti rinnovabili e quella da fonti tradizionali sarà l’informazione necessaria per determinare l’entità degli aiuti pubblici sotto forma di sussidi o incentivi necessari per rendere le fonti rinnovabili competitive sul mercato con quelle tradizionali. Sempre rimanendo sul tema dell’energia, possiamo delineare il secondo aspetto che può aiutare a comprendere il contributo dell’economista alla pianificazione e gestione sostenibile del territorio. Uno dei motivi per cui si è posta crescente attenzione alle fonti energetiche rinnovabili è rappresentato dalla necessità di ridurre le emissioni antropiche di gas climalteranti, di cui sono prevalentemente responsabili quei processi produttivi e di consumo che utilizzano in larga misura le fonti energetiche di natura fossile. Come noto, tali emissioni, note anche come gas serra, si sono concentrate nell’atmosfera nel corso degli ultimi duecento anni a causa del processo di sviluppo industriale, e costituiscono oggi la causa

43


44

Centrale elettrica dell’Agro Romano

prevalente del cambiamento climatico in atto. Il cambiamento climatico è considerato oggi come il danno globale recato all’ecosistema da attività antropiche più urgente da affrontare. Al fine di rendere concreto simile danno e renderlo percepibile dall’intera collettività, molte organizzazioni internazionali di ricerca sono impegnate nella valutazione economica dei danni provocati dal cambiamento climatico, proprio al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica e rendere l’intera società partecipe alle azioni per rallentare tale processo. La quantificazione dei danni economici provocati dal fenomeno del cambiamento climatico costituisce un esercizio necessario al fine di avere un termine di paragone (in gergo tecnico un “benchmark”) con cui valutare la convenienza economica ad adottare misure correttive e strategie di sviluppo alternative, come ad esempio la diffusione delle fonti energetiche rinnovabili in sostituzione di quelle da fonti fossili. Il quesito, seppur brutale ma altresì efficace, a cui l’economista cerca di rispondere diventa dunque: il costo sostenuto dalla collettività per una transizione verso un sistema energetico sostenibile è inferiore al danno economico provocato dal

cambiamento climatico qualora tale transizione non avvenisse? Se la risposta è affermativa, ciò indica una convenienza per la collettività in termini di massimizzazione del benessere sociale ad intraprendere un sentiero di trasformazione verso un sistema energetico a basse emissioni di anidride carbonica, ovvero a basso impatto climatico. Al tempo stesso, tale esercizio di quantificazione monetaria non può prescindere da un dialogo continuo con gli scienziati che analizzano da un punto di vista fisico i fenomeni climatici. Né tantomeno possono essere fatte valutazioni di convenienza relativa sulle alternative tecnologiche senza un confronto costante con gli sviluppatori stessi di tali tecnologie. Un sistema di gestione efficace di un ambito disciplinare tanto complesso non può che basarsi quindi su un approccio di lavoro e di preparazione fortemente interdisciplinare, integrato nelle sue diverse componenti che devono influenzarsi reciprocamente nello svolgimento del difficile compito di elaborare risposte efficaci e durature nella direzione di un miglioramento generalizzato del benessere collettivo.


Il caso della Vasca Navale

Cedimenti delle fondazioni di una struttura esistente nell’area di Valco San Paolo indotti dallo sviluppo urbano dell’area Albino Lembo Fazio

Introduzione L’inserimento di nuove opere in ambienti già urbanizzati richiede una valutazione dei possibili effetti di interazione tra le nuove strutture ed il costruito esistenti. I fenomeni di interazione che si esplicano attraverso il terreno assumono particolare importanza in quanto possono compromettere la funzionalità e la stabilità delle opere preesistenti ed impongono pertanto una specifica valutazione del grado di sicurezza rispetto ai possibili stati limite che l’interazione contribuisce a determinare.

L’edificio dell’ex Vasca Navale rappresenta un caso tipico dell’interazione tra un edificio esistente e lo sviluppo urbanistico di un’area della città che si è trasformata da estrema periferia urbana in un quartiere densamente popolato. L’edificio è situato in un’ansa del Fiume Tevere, in prossimità di Viale Marconi, in un’area che, all’epoca della costruzione, rappresentava l’estrema periferia Ovest della città di Roma. L’edificio, ultimato nel 1930, fu costruito in appena 18 mesi allo scopo di consentire l’esecuzione di prove di modellazione in scala per la progettazione di navi militari.

Il corpo di fabbrica, che comprende la vasca e le officine, si estende in direzione Est-Ovest per una lunghezza di circa 307 m e larghezza di 17 m. Il bacino è formato da un corpo monolitico in cemento armato lungo 275 m e largo 12.5 m. Nel periodo compreso tra il 1954 ed il 1970 l’intera area nell’intorno dell’impianto fu interessata da un intenso sviluppo urbanistico con la costruzione dell’importante rilevato stradale, alto mediamente 5m, su cui si sviluppa Viale Marconi, ed edifici adiacenti il Viale. Nel 1973 le lesioni indotte dai cedimenti differenziali dell’Ex Vasca Navale ed il forte stato di deterioramento della struttura di copertura determinarono la chiusura dell’impianto e nel 1982 si verificò il crollo parziale della copertura. Modello stratigrafico e geotecnico del sottosuolo L’area è situata in un’ansa della valle alluvionale del Tevere, in una zona sub pianeggiante, posta ad

una quota di circa 11 - 12 m s.l.m. Prima della realizzazione degli argini del Tevere l’area era soggetta a periodiche alluvioni per esondazione delle acque del Fiume.

L’edificio dell’ex Vasca Navale rappresenta un caso tipico dell’interazione tra un edificio esistente e lo sviluppo urbanistico di un’area della città che si è trasformata da estrema periferia urbana in un quartiere densamente popolato. L’edificio è situato in un’ansa del Fiume Tevere, in prossimità di Viale Marconi, in un’area che, all’epoca della costruzione, rappresentava l’estrema periferia Ovest della città di Roma

In questa zona il basamento argilloso grigio-azzurro, da consistente a molto consistente, appartenente all’Unità di Monte Vaticano, è coperto dai depositi alluvionali il cui spessore è di circa 50-60 m che colmano la valle del Tevere (Pleistocene superiore-Olocene).

I depositi alluvionali sono caratterizzati da un livello basale di ghiaie poligeniche in matrice sabbioso limosa, di spessore variabile tra 7 e 9 m, seguito verso l’alto da depositi prevalentemente limo argillosi e limo sabbiosi, che si sono depositati durante il periodo di risalita del livello marino alla fine ultima glaciazione (würmiano).

All’interno di questi depositi si possono distinguere: un livello inferiore, di spessore assai variabile, costituito prevalentemente da limi sabbiosi grigi, un corpo sedimentario intermedio formato da limi argillosi da grigi a neri passante ad argille limose con livelli torbosi ed un livello superiore formato da sabbia limosa da marrone a grigia. La complessità di questa sequenza stratigrafica è da mettere in relazione ai processi sedimentari ed ero-

45


46

Unità litologiche individuate dall’esame delle carote estratte dai sondaggi geognostici ed i risultati delle 5 prove penetrometriche statiche realizzate lungo l’asse longitudinale (E-W) della vasca

sivi del fiume Tevere e dei suoi affluenti i quali hanno determinato frequenti eteropie laterali e verticali dei sedimenti.

Le indagini finalizzate alla progettazione di un intervento di recupero e ristrutturazione dell’edificio della ex Vasca Navale per la nuova destinazione ad aule e strutture universitarie ha consentito di definire un modello geotecnico del sottosuolo. La sezione della figura 1 riporta le unità litologiche individuate dall’esame delle carote estratte dai sondaggi geognostici ed i risultati delle 5 prove penetrometriche statiche realizzate lungo l’asse longitudinale (E-W) della vasca.

Il terreno di riporto (Terreno T1 - R), di origine antropico, ha spessore variabile lungo l’asse longitudinale della struttura; il tetto delle sottostanti argille consistenti (T2 - C) rappresenta il piano campagna esistente all’epoca della costruzione. Procedendo in profondità si rileva la presenza di uno strato coesivo di limo con sabbia (T3 – SM) ed un potente strato di sabbia (T4 – S) di spessore medio pari a circa 11 m. Il Terreno T5 è costituito da argilla con limo, con abbondante torba, e rappresenta lo strato deformabile che ha maggiormente contribuito a determinare i cedimenti dell’edificio dell’Ex Vasca Navale; questo strato ha uno spessore di circa 30

m. Il sottostante Terreno T6, di spessore medio pari a 12 m, è costituita da ghiaia sabbiosa ciottolosa passante a sabbia con ghiaia (G); quest’ultimo strato alluvionale poggia sul basamento argilloso molto consistente (C) dell’Unità di Monte Vaticano.

Il caso della Ex Vasca Navale Il guscio in calcestruzzo della vasca è sostenuto da una serie di costole posizionate ad una distanza reciproca di 2,5 m; ciascuna costola è fondata su pali dislocanti gettati in opera di tipo “Simplex”. I pali, battuti a rifiuto, raggiungono una profondità variabile tra 8 e 12 m per intestarsi nel banco di sabbia T4. Le fondazioni della copertura, indipendenti da quelle della vasca, sono a plinti isolati con interasse di 7,5 m, poggianti anch’essi su pali infissi.

Nel 1930, all’epoca della costruzione della vasca furono effettuati accurati controlli sul bordo del bacino su cui correvano le rotaie di un carro ponte dinamometrico; questi controlli consentirono di accertare che la differenza di quota e di distanza tra i due fianchi non fosse in nessun punto superiore a 2 mm. Accurati controlli furono inoltre effettuati sulle rotaie del carro dinamometrico per verificarne la perfetta orizzontalità ed il parallelismo. Nel 1936, a seguito delle prime difficoltà riscon-


Sezione trasversale reale

trate per la traslazione del carro dinamometrico, venne effettuato un nuovo controllo da cui si accertò un cedimento verticale differenziale che interessava un tratto di 150 m all’estremità Est (verso Viale Marconi) con un valore massimo di 3 cm.

Nel 1946 il cedimento differenziale aveva raggiunto 7,6 cm; il controllo dei cedimenti assoluti del terreno adiacente la vasca indicò un abbassamento variabile tra 10 cm all’estremità Ovest e 17 cm ad Est.

Nel 1956 – 57 il cedimento differenziale aveva raggiunto 14,5 cm.

La situazione si aggravò ulteriormente, con inaspettata velocità, e nel 1964 il cedimento differenziale aveva raggiunto 27 cm su una distanza di 150 m. Nel 1973 le lesioni della vasca ed i dissesti della struttura di copertura determinarono la chiusura dell’impianto e infine, nel 1982, si verificò il parziale crollo della copertura.

La curva dell’evoluzione dei cedimenti nel tempo non mostra l’andamento tipico dell’assestamento per consolidazione del terreno, di una fondazione soggetta a carichi costanti. La curva dei cedimenti differenziali, ottenuta dall’interpolazione di misure molto accurate effettuate sul bordo vasca per inse-

rire degli spessori sotto le rotaie di movimentazione del carro dinamometrico, è caratterizzata da 3 sezioni distinte che consentono di ipotizzare 3 fasi nello sviluppo dei cedimenti: • •

Fase 1: 1930 – 1944 in cui vengono misurati cedimenti differenziali di circa 6 cm;

Fase 2: 1944 – 1956 con un incremento del cedimento differenziale di circa 8 cm, al termine di questa fase la velocità di cedimento era di circa 5 mm/anno;

Fase 3: 1956 – 1964 in cui l’incremento del cedimento differenziale è risultato pari a circa 14 cm.

Dalla sezione stratigrafica dei terreni di fondazione risulta evidente che il principale responsabile dei cedimenti sia da attribuire all’elevata deformabilità del terreno torboso T5 su cui viene a gravare una elevata percentuale dei carichi della fondazione, trasferiti dai pali al più rigido strato di sabbia T4. L’interpretazione e l’analisi dei cedimenti misurati è stata dapprima ricercata in eventuali disomogeneità stratigrafiche e geotecniche dei terreni. Le indagini geognostiche condotte hanno però fatto escludere questa ipotesi. L’interpretazione della

47


48

curva dei cedimenti osservati è stata pertanto indirizzata analizzando le variazioni di carico nell’area adiacente la Vasca Navale a seguito dello sviluppo urbanistico della zona.

Le indagini finalizzate alla progettazione di un intervento di recupero e ristrutturazione dell’edificio della ex Vasca Navale per la nuova destinazione ad aule e strutture universitarie ha consentito di definire un modello geotecnico del sottosuolo

diamente pari a 5 m rispetto all’originario piano campagna.

Tenendo conto dell’evoluzione urbanistica e dei carichi trasmessi dalle nuove strutture e rilevati costruiti nell’area, è stata effettuata un’analisi geotecnica dei cedimenti lungo l’asse E – W della Vasca Navale.

Le analisi geotecniche hanno consentito di interpretare in modo attendibile l’andamento dei cedimenti differenziali ricavati dalle osservazioni sperimentali così come sinteticamente riportato:

Dall’epoca della costruzione della Vasca (1930) e fino al 1943 l’area era prevalentemente rurale a meno della costruzione di alcuni leggeri edifici industriali. Nel 1954, a seguito della costruzione del rilevato di Viale Marconi, alto 6 m, orientato in direzione pressoché perpendicolare all’asse vasca, in prossimità della testata Est, vennero realizzate le prime costruzioni tra la Vasca Navale e Viale Marconi. Tra il 1954 ed il 1970 l’area fu poi interessata da un intenso sviluppo urbanistico, con la costruzione della maggior parte degli edifici attualmente presenti e di un ulteriore rilevato, di raccordo tra l’area della Vasca e Viale Marconi, di altezza me-

Interpretazione dell’andamento dei cedimenti differenziali nel tempo

Fase 1: i cedimenti differenziali sono correlabili al peso proprio della struttura ed al riempimento della vasca per le prove su modello; Fase 2: accelerazione dei cedimenti dovuto alla sovrapposizione ai cedimenti per peso proprio con quelli determinati dai carichi trasmessi dalle prime opere di urbanizzazione dell’area;

Fase 3: la notevole accelerazione ed incremento dei cedimenti differenziali è determinata dalla costruzione del rilevato in terra tra la testata Est della vasca e Viale Marconi e dalla realizzazione degli edifici in questa zona.


Per saperne di più. Riferimenti bibliografici

Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile (2001) – Progetto di Recupero della Ex Vasca Navale, Relazione geotecnica.

Amorosi A., Lembo Fazio A., Scarpelli G. (2002) – Interazione tra una struttura esistente e lo sviluppo dell’ambiente urbano circostante: l’esempio della ex Vasca Navale di Roma. Conv. Naz. Geotecnica XXI Conv. Naz. Geotec. L’Aquila, 1, 323 – 330.

49


50

Gestione del rischio d’inondazione a Roma La seconda fase di una ricerca condotta dai Dipartimenti di Architettura e di Ingegneria

Guido Calenda, Aldo Fiori, Corrado Paolo Mancini, Lorenzo Mattone, Oliva Muratore, Maria Margarita Segarra Lagunes, Giovanna Spadafora, Elena Volpi In passato Roma è stata allagata mediamente tre volte al secolo. Oggi la situazione è cambiata, e dall’anno 1900 fino a oggi ben quattro piene (1900, 1915, 1937, 1965 – quest’ultima piena è giunta a Roma fortemente laminata dal Lago di Corbara il quale, essendo stato appena ultimato, era ancora completamente vuoto al momento dell’evento), che prima della costruzione dei muraglioni avrebbero prodotto estese inondazioni, sono state contenute nell’alveo. Tuttavia, a partire dal XV secolo si sono verificate almeno quattro piene che se avessero luogo oggi inonderebbero la città. Anche la piena con un tempo di ritorno di 200 anni (ossia superata in media una volta ogni 200 anni), adottata dall’Autorità di Bacino come piena di riferimento per la progettazione degli interventi di difesa e la cui portata al colmo può essere valutata intorno ai 3500 m3/s, oggi produrrebbe vaste inondazioni nell’area urbana. Ciò significa che, anche se la probabilità d’inondazione è relativamente bassa, dell’ordine dello 0,5% all’anno, la probabilità che si verifichi un evento in un secolo è quasi del 40% e in due secoli supera il 60% (Calenda et al., 2015), e ciò senza tener conto degli effetti di eventuali mutamenti climatici. Come mostra la figura 1, estratta dalla simulazione con un modello bidimensionale shallow water di una piena con un tempo di ritorno di 200 anni, i tiranti idrici (ossia i livelli dell’acqua sul piano stradale) superano l’altezza d’uomo in ampie zone della città, con massimi che possono arrivare a circa 4 metri in prossimità del Panteon. In una città d’arte come Roma un’inondazione di questo genere produrrebbe danni irreparabili, non inferiori a quelli subiti da Firenze a seguito dell’inondazione del 1966. Per gestire eventi di estrema gravità la nostra legislazione fa largamente affidamento sulla Protezione Civile, che dovrebbe intervenire in seguito al preannuncio di una piena catastrofica. Il bacino imbrifero del Fiume Tevere è sufficientemente ampio perché il preannuncio possa essere effettivamente

attuato, ma a partire dall’emissione dell’allarme i tempi di reazione sono purtroppo troppo brevi perché dei provvedimenti possano avere efficacia, a meno che non sia stata predisposta con largo anticipo la natura e le modalità degli interventi. Tali interventi, infatti, non possono limitarsi all’allertamento della popolazione, ma devono provvedere allo sgombero delle persone eventualmente presenti nei piani interrati e in altri locali a rischio, seguendo procedure predefinite e collaudate per mezzo di esercitazioni. Devono essere inoltre definite in anticipo e verificate le procedure per la messa in sicurezza di tutti i beni artistici, storici e documentari che potrebbero essere danneggiati e distrutti dall’inondazione. Per valutare l’entità del rischio e definire le procedure d’intervento si è costituito un gruppo composto da ricercatori dai Dipartimenti di Architettura e di Ingegneria dell’Università Roma Tre, che su un’area campione ha avviato una ricerca articolata in tre fasi: fase 1) determinazione degli scenari di allagamento tramite un’analisi statistica degli eventi storici e lo sviluppo di un modello di simulazione dell’inondazione; fase 2) individuazione nell’area inondata di tutti gli elementi d’importanza artistica, storica e documentaria soggetti al rischio di danneggiamento nei diversi scenari; fase 3) identificazione delle possibili strategie d’intervento sia preventive, sia in tempo reale, per mettere in sicurezza gli elementi a rischio. I primi risultati di questa ricerca, relativi essenzialmente alla prima fase, sono stati già presentati su questa rivista in un precedente articolo (Calenda et. al., 2015). Tuttavia, la messa a punto del modello d’inondazione della città di Roma presenta ancora elementi d’incertezza ed è dunque in fase di perfezionamento. Infatti, data la vastità del patrimonio artistico della città, l’accurata definizione delle aree allagate e dei tiranti idrici è un elemento critico al


Figura 1. Simulazione dell’inondazione della piena con tempo di ritorno 200 anni: tiranti idrici in una zona del centro e indicazione degli isolati analizzati dai vari gruppi di ricerca (delimitati in rosso)

fine di limitare gli interventi a quanto effettivamente necessario, per evitare, da un lato, il lievitare dei costi degli interventi, e per tutelare, dall’altro, tutti i beni effettivamente a rischio.

In questo articolo si rende sinteticamente conto dei primi risultati ottenuti nello sviluppo della seconda fase. Nell’ambito della seconda esercitazione del Laboratorio di Restauro dell’anno accademico 2015/16 è stata svolta un’analisi dettagliata di un’area limitata, compresa tra la piazza del Panteon e Largo di Torre Argentina. La ricerca è stata ripartita tra 19 gruppi di studenti, ognuno dei quali ha

preso in esame un isolato o parte di esso, come indicato nella figura 1. Ogni gruppo ha proceduto quindi alla ricostruzione storica dello sviluppo edilizio dell’area interessata, al rilevamento di tutte le facciate, su cui sono stati riportati i livelli idrici dell’inondazione simulata con la portata al colmo 3500 m3/s (tempo di ritorno 200 anni), e a identificare le aperture che possono rappresentare una via d’ingresso alle acque esondate. Dove è stato possibile accedere si sono ispezionati i locali interrati e dei piani sopra terra soggetti a inondazione e sono stati identificati gli elementi a rischio di particolare pregio. Infine sono stati ipotizzati possibili inter-

Figura 2. Simulazione della piena con tempo di ritorno 200 anni: livello idrico massimo a Palazzo Besso in Largo di Torre Argentina (Blanco et al., 2015-16)

51


52

Figura 3. Esempi di ambienti inondabili nell’isolato: a) resti delle terme di Agrippa sotto il ristorante la Ciambella in Via dell’Arco della Ciambella; b) piano interrato della libreria Feltrinelli in Largo di Torre Argentina; c) Antica Erboristeria Romana in Via di Torre Argentina. Possibile intervento: d) sbarramento mobile (Blanco et al., 2015-16)

venti per impedire l’accesso delle acque e la messa in sicurezza dei beni. A titolo di esempio nella figura 2 è rappresentata la facciata sud di Palazzo Besso, con affaccio sul Largo di Torre Argentina, rilevata dal gruppo n° 14 (Blanco et al. 2015-16), in cui è anche indicato il livello dell’inondazione. Nella figura 3 sono visibili le foto di alcuni locali a rischio in cui è stato possibile accedere: i resti delle Terme di Agrippa, visibili attraverso una vetrata sul pavimento del ristorante la Ciambella in Via dell’Arco della Ciambella, sul lato nord dell’isolato (figura 3a); il piano interrato della libreria Feltrinelli, in Largo di Torre Argentina, sul lato sud dell’isolato (figura 3b); il locale dell’Antica Erboristeria Romana, in Via di Torre Argentina, sul Per approfondire. Riferimenti bibliografici

lato ovest dell’isolato (figura 3c). Nella figura 3d è infine mostrato un esempio di un possibile intervento per contrastare l’allagamento di un locale. I rilievi esterni, non hanno presentato particolari impedimenti, ma qualche incongruenza si è manifestata in merito ai livelli idrici, essenzialmente dovuta a problemi di rilievo delle quote stradali, incongruenze che peraltro possono essere risolte senza particolari problemi concettuali. Ha incontrato, invece, notevoli ostacoli l’individuazione dei beni a rischio, perché è stato rifiutato l’accesso a buona parte dei locali. Queste difficoltà potranno essere superate nel momento in cui la ricerca, per ora svolta autonomamente allo scopo di mettere a punto una metodologia, acquisisca carattere ufficiale.

G. Calenda, C. P. Mancini, M. M. Segarra Lagunes, E. Proietti (2015). Inondazione delle città d’arte. Il caso di Roma. Roma Tre News, XVII, 2: 42-44.

Blanco C., Cosentino F., Pianaro Caron B., Peiciu A., Sanchioli M. (2015-16). Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre, Laboratorio Restauro C, gruppo 14.


La sfida della pianificazione Rischio idrogeologico e territori urbanizzati Giorgio Cesari

Nella recente relazione dell’IPCC, l’attuale riscaldamento globale è stato il più alto mai registrato, con la conseguente necessità di un approccio end-to-end sull’adattamento climatico e l’adozione di tecniche adeguate, modelli Giorgio Cesari di previsione e di una molteplicità di misure di adattamento ai fenomeni di dissesto, compresi i sistemi di allerta precoce e l’informazione sul rischio, nonché la condivisione e la partecipazione attiva del pubblico. Tutti i paesi della Terra, in forza dell’Agenda Globale 2030, devono valutare il proprio “stato di salute”, secondo una serie di parametri e di obiettivi collegati, su aspetti economici, sociali, giuridici, umani, tecnologici etc. Il nostro Paese presenta alcuni punti di forza (aspettativa di vita, energia da fonti rinnovabili), ma pure molti di fragilità (corruzione, disoccupazione, scarse competenze in talune materie, abbandono scolastico, disuguaglianze di genere, rischi ambientali). Gli obiettivi da conseguire non sono solo ambientali, bensì spaziano dal miglioramento della qualità della vita alla riduzione della vulnerabilità, anche al fine di rimuovere le differenziazioni economiche, giuridiche, sociali e culturali tra generi e generazioni, per un’equa distribuzione delle risorse e una buona generale governance. Gli eventi catastrofici di dissesto idrogeologico, che si verificano periodicamente in Italia, pongono in evidenza il tema dell’impatto dei cambiamenti climatici sugli eventi estremi di natura idrologica e geomorfologica, soprattutto in ragione dell’espansione urbana, che in tutto il Paese ha incrementato l’antropizzazione del territorio e il progressivo aumento del rischio per la popolazione e per i beni esposti. Sorge la necessità di una politica di adattamento con un efficace bilanciamento fra azioni strutturali e non strutturali. Considerando la complessità e la “giovinezza” del

territorio nazionale, in un contesto di cambiamento climatico e di forte antropizzazione, appare peraltro evidente l’attuale inadeguatezza di alcuni concetti ritenuti fondamentali, come il tempo di ritorno, così come diviene anche più arduo garantire una sicurezza completa (“rischio nullo”), sempre e comunque, e per tutti gli elementi esposti. Se, a tal fine, la strategia di adattamento può considerare pure l’adozione di schemi assicurativi pubblici o privati, in via sussidiaria e complementare agli strumenti adeguati di previsione, prevenzione, preparazione e gestione del rischio, assumono fondamentale importanza misure di adattamento “non strutturali”, tra i quali sistemi di allerta precoce affidabili ed efficaci, con conseguente necessità di investimenti su monitoraggio, database, modellistica, comunicazione, partecipazione pubblica e percezione del rischio.

Tutti i paesi della Terra, in forza dell’Agenda Globale 2030, devono valutare il proprio “stato di salute”, secondo una serie di parametri e di obiettivi collegati, su aspetti economici, sociali, giuridici, umani, tecnologici

Occorrono però, urgentemente, adeguate e innovative risposte (normative, istituzionali, di governance, pianificazione, progettazione, gestione e manutenzione, tecnologie, investimenti) per impostare un nuovo assetto del territorio, attraverso l’ideazione e la realizzazione di misure efficaci e sostenibili, compatibili con le dinamiche naturali e capaci di partecipare allo sviluppo socio-economico del territorio e del sistema produttivo italiano, non necessariamente ricorrendo alle sole misure strutturali convenzionali di riduzione del rischio. Se le misure da mettere in campo scaturiscono dal criterio di multidisciplinarità della pianificazione di bacino, ai sensi delle Direttive Quadro Acque e Alluvioni, tenendo conto delle direttive collegate (Habitat, Uccelli etc.), al fine di impedire un’ulteriore artificializzazione del territorio, le misure strutturali convenzionali di riduzione del rischio devono essere accompagnate ad altre misure, quali la rinaturalizzazione degli alvei o le misure “win-win” richieste dalle Direttive.

53


54

(fonte: Grade Stack)

Divengono così indispensabili sia una strategia di messa in sicurezza che contempli la riqualificazione degli alvei e dei versanti, sia un efficace servizio di difesa del suolo, mentre la delocalizzazione dei beni a rischio deve corrispondere a un preciso impegno pubblico finanziario e amministrativo, che consente peraltro il miglioramento della “possibile risposta” anche delle aree urbanizzate, in forza dell’aumento della capacità di laminare e infiltrare l’acqua di pioggia, della diffusione di innovativi ma già sperimentati approcci e tecniche (Sistemi Urbani di Drenaggio Sostenibile), del conseguimento di concreti obiettivi di Smart City e Water Sensitive City. I progetti dovranno comprendere sviluppo di infrastrutture verdi senza soluzione di continuità in un intero bacino, misure di contrasto all’abbandono delle aree marginali, strumenti per superare il conflitto nelle aree fortemente antropizzate tra artificialità e naturalità, favorendo l’acquisizione e la conoscenza delle informazioni territoriali, secondo i principi della green economy e ai fini di una gestione integrata del territorio più coerente con i principi della sostenibilità ambientale e sociale. Significativa è la sfida sulla pianificazione urbana e territoriale, attualmente ancora ben in fase di incremento ma con ampi margini di miglioramento possibile: se l’espansione dello spazio comporta sempre più la saturazione della pianificazione urbana, le aree urbanizzate diventano un aggregato di auto-organizzazione, che deve appoggiarsi su una serie di tecnologie emergenti, per le quali il contributo della rivoluzione informatica è un grande fattore di ausilio, insieme alla ricerca di

energia da fonti rinnovabili, alla mobilità sostenibile, allo sviluppo delle comunicazioni. Per una pianificazione e progettazione di qualità divengono indispensabili il confronto con la ricerca applicata del mondo universitario e il dialogo con l’imprenditoria per un concreto contributo in termini di soluzioni tecniche e di scambio di buone pratiche, soprattutto nella lotta contro il dissesto che assume un ruolo di protagonista nelle azioni di adattamento ai cambiamenti climatici. I nuovi professionisti, nell’ottica della multidisciplinarità, devono saper promuovere un nuovo metodo di pianificazione e progettazione, sinergico tra gli obiettivi di riduzione del rischio e di miglioramento della qualità ambientale, soprattutto sui progetti di opere di difesa convenzionali nel rispetto dei concetti di sostenibilità, di delocalizzazione dei beni, di riqualificazione ambientale, contemplando il ricorso a tecniche di ingegneria naturalistica e di sistemazioni idraulico-forestali, con il concreto coinvolgimento degli operatori sul territorio e dei portatori di interesse. I nuovi tecnici devono però essere formati così da possedere elementi chiave per un approccio essenziale alla gestione del rischio attraverso un’adeguata preparazione istituzionale e giuridica, la cultura multidisciplinare, la conoscenza di tecniche per il coordinamento e il flusso delle informazioni, un approccio progettuale per l’integrazione delle misure strutturali e non strutturali, lo sviluppo della pianificazione territoriale con il coinvolgimento dei portatori di interesse, pubblici e privati. Per rispondere a questi obiettivi occorrono soluzioni eccellenti in ingegneria, geologia e architet-


L’esondazione del Fiume Paglia (valle del Tevere) del 12 novembre 2012, vista dalla fortezza Albornoz a Orvieto. Si distinguono bene la linea ferroviaria Direttissima Roma-Firenze, lambita dalla acque e il parcheggio della stazione di Orvieto con le automobili sommerse dalla piena. (foto: Federica Martellini)

tura, un’adeguata attenzione ai problemi della gestione e della manutenzione, la capacità di saper esaminare molteplici emergenze, il continuo miglioramento e adeguamento della capacità professionale con il sostegno multidisciplinare della conoscenza. A tutto ciò si deve aggiungere la capacità di una formazione capace di insegnare a progettare non per indagare e rispondere alle proprie insicurezze, bensì in una visione ampia dei problemi e, soprattutto, delle soluzioni più idonee e sostenibili per risolverli. L’attuale inadeguatezza, da parte di molti professionisti nel progettare in maniera congeniale alle correnti necessità dell’am-

biente e del territorio, è alquanto evidente, a testimonianza di un fallimento sia della psicologia sia della progettazione. Spesso i progettisti si dibattono in cerca di spiegazioni ai problemi minuti e finiscono per puntare a obiettivi banali, anche secondo interpretazioni erronee che non aiutano a comprendere l’origine e il fine della sostenibilità. Le opere devono essere concepite da professionisti che abbiano sia l’umiltà di interrogarsi sulle reali necessità, sia la tenacia di tradurre le istanze reali in progetti logici per creare finanche ambienti che soddisfino bisogni di cui consciamente non si sospetta nemmeno l’esistenza.

55


56

La resilienza dei sistemi urbani Disastri ambientali e interventi di ripristino Gioacchino Giomi

Secondo l’Enciclopedia Treccani, nel linguaggio quotidiano la parola “emergenza” indica una situazione subitanea e imprevista che rende necessaria un’azione immediata. Negli ultimi quattro decenni gli studiosi della soGioacchino Giomi cietà hanno mostrato sempre più spesso la tendenza a concepire l’emergenza come un aspetto della situazione sociale provocata da disastri o catastrofi di origine naturale o tecnologica. In realtà, sembra che la prevalenza nelle varie lingue di uno dei tre termini – “disastro”, “catastrofe” o “emergenza” – dipenda solo da una preferenza d’uso: per esempio, gli studiosi italiani di scienze sociali hanno preferito il termine “emergenza”, mentre gli studiosi americani hanno usato generalmente la parola “disastro”, ma i fenomeni presi in esame sono più o meno gli stessi in entrambi i casi. Questa considerazione di carattere lessicale serve a introdurre uno degli aspetti principali del tema da illustrare: se “catastrofe” ha lo stesso significato di “emergenza”, il Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco (CNVVF), in quanto componente primaria del sistema di soccorso e di quello della protezione civile, è uno dei protagonisti principali delle attività che si svolgono tra il verificarsi della calamità e l’avvio della fase successiva, che prelude alla ricostruzione. Il Corpo, infatti, dalle emergenze quotidiane agli interventi complessi, fino ad arrivare a quelli di protezione civile, ha il compito di intervenire nelle aree coinvolte per salvare vite umane e, quando possibile, limitare i danni ai beni. Essere al centro degli scenari operativi, che in taluni casi sono definiti “zone rosse” perché implicano una particolare esposizione al rischio, ha contribuito negli anni a consolidare una capacità operativa che, iniziata nelle città bombardate negli anni del secondo conflitto mondiale, ha visto l’impegno di migliaia di Vigili del fuoco nelle inonda-

zioni, nelle frane, nei terremoti, fino agli effetti degli tsunami del 2004 o della ricaduta radioattiva del 2011 a seguito del terremoto nella costa ovest del Giappone. La spinta a migliorare la risposta in caso di catastrofi, sempre affiancata dalla ricerca di innovazione tecnologica, permette oggi all’Italia di disporre di un organo in grado di gestire non solo con la presenza fisica, ma anche con la capacità decisionale, le emergenze (o catastrofi) a cui una società complessa è esposta. Sebbene le sfide, nel corso dei decenni, siano mutate (si pensi alla minaccia nucleare, che da quella di un conflitto tra potenze si è mutata nel rischio terrorismo, oppure alle cyber-guerre, che sono in grado di infliggere danni molto più pesanti delle guerre tradizionali), nel caso si manifestino degli effetti del meccanismo catastrofe-emergenza è molto probabile che i Vigili del Fuoco siano tra i primi ad essere coinvolti.

Essere al centro degli scenari operativi, che in taluni casi sono definiti “zone rosse” perché implicano una particolare esposizione al rischio, ha contribuito negli anni a consolidare una capacità operativa che, iniziata nelle città bombardate negli anni del secondo conflitto mondiale, ha visto l’impegno di migliaia di Vigili del fuoco nelle inondazioni, nelle frane, nei terremoti

Svolte queste considerazioni introduttive sul significato di emergenza e sugli attori coinvolti, possiamo affrontare il tema del rapporto tra catastrofe e ricostruzione, cioè di come coordinare l’attività di emergenza con quella di post emergenza. Questo punto si pone come una delle questioni più complesse da trattare per la comunità che si occupa di sicurezza. Per ipotizzare l’avvio della ricostruzione, infatti, le esperienze raccolte dalla ricerca mostrano che, prima di tutto, devono essere valutati gli effetti del disastro su piani diversi: quello fisico (numero dei decessi e quantificazione dei danni agli edifici e alle infrastrutture), quello psicosociale, quello demografico, quello economico e infine quello politico. La materia, dunque, è di natura eminentemente multidisciplinare e, proprio per questo


Alluvione Senigallia (AN), 2014

aspetto, attende ancora di raggiungere la maturità e la profondità di analisi che hanno già raggiunto altri settori della sicurezza. Per motivi di brevità limiteremo le nostre considerazioni al primo dei livelli citati (quello dei danni fisici), evidenziando però che un’analisi seria non possa prescindere da tutti gli altri punti citati. Con riferimento ai danni di carattere fisico (ambiente costruito, infrastrutture di vario tipo, comprese quelle tecnologiche) si nota che la ricostruzione non può consistere nel semplice ripristino di edifici e infrastrutture, dato che questo approccio riproporrebbe la stessa esposizione al rischio della situazione precedente. In fase di ricostruzione, quindi, le analisi da compiere sono diverse. Si deve operare sul piano della riduzione dei rischi, sulle misure di protezione della collettività, ma allo stesso tempo sull’analisi delle vulnerabilità del sistema che, in definitiva, introducono il tema della resilienza dei sistemi urbani. Questo tema negli ultimi anni è stato gradualmente enfatizzato dalle Nazioni Unite per il profondo impatto che ha sulla sicurezza collettiva in un mondo la cui popolazione pare inevitabilmente aggregarsi in conurbazioni sempre più estese. Dal punto di vista della comunità che si occupa di sicurezza, quindi, la resilienza può essere considerata come l’obiettivo finale della ricostruzione e, allo stesso tempo, la base su cui impostare inizialmente ogni progetto. Un esempio di quanto il CNVVF stia già facendo per mettere in pratica questo concetto è l’attività sui beni culturali danneggiati dai terremoti. All’Aquila, come in Emilia-Romagna o in Nepal, i Vigili del fuoco hanno operato per mettere in sicurezza gli edifici danneggiati per favorirne l’immediato recupero e permetterne, in definitiva, la fruizione da parte dei cittadini. In questo modo, si è cercato e si

cerca di dare immediatamente alle comunità la possibilità di fruire di un bene che consenta anche di migliorare l’economia locale. Per enfatizzare questo passaggio si può citare una considerazione di carattere economico-finanziario: se si attribuisce credibilità agli studi più recenti sugli effetti economici delle emergenze, la chiusura di un’attività produttiva a seguito di un evento catastrofico, anche solo per pochi giorni, ne determina l’uscita dal mercato. Circa venti anni fa questo intervallo di tempo veniva espresso in termini di settimane e la sua riduzione mostra quanto sia importante nel mondo globalizzato rispondere alle sfide della competizione in termini di maggiore e più celere capacità di risposta alle catastrofi. Anche in questo caso, il contributo alle esigenze delle comunità colpite dalle catastrofi deve misurarsi con i diversi piani ai quali si è accennato prima. L’indisponibilità di alloggi, la distruzione dei luoghi di lavoro, l’inutilizzabilità delle infrastrutture e dei servizi di base rendono impossibile vivere e lavorare nell’area colpita, esponendola all’abbandono. I documenti ONU che trattano la materia considerano fasi e funzioni della ricostruzione (termine con il quale consideriamo sia la funzione recovery che reconstruction), che possono essere sintetizzate con la valutazione del disastro, il recupero a breve termine, la ricostruzione a lungo termine e la gestione del recupero.

Per ipotizzare l’avvio della ricostruzione le esperienze raccolte dalla ricerca mostrano che, prima di tutto, devono essere valutati gli effetti del disastro su piani diversi: quello fisico (numero dei decessi e quantificazione dei danni agli edifici e alle infrastrutture), quello psicosociale, quello demografico, quello economico e infine quello politico

In altre parole, la nuova frontiera della ricostruzione è la capacità delle Autorità di agire tenendo conto che la protezione dei cittadini dalle calamità non riguarda più la sola garanzia di sopravvivenza fisica delle persone, ma che è fortemente connessa alla salvaguardia del contesto di sistemi e impianti

57


58

che permettono di vivere e lavorare. Anche in questo caso, la capacità che i Vigili del Fuoco hanno nell’analisi dei rischi (frutto dell’attività e della forma mentis propria della prevenzione incendi) in presenza di scenari operativi con le minacce più varie, può fornire un contributo determinante per migliorare le condizioni post disastro (ma anche in tutte le occasioni in cui sia possibile adeguare preventivamente i sistemi urbani). Si può portare come esempio quanto realizzato dal Corpo in occasione del terremoto dell’Aquila nel 2009 e dell’EmiliaRomagna nel 2012 in cui, oltre alle operazioni di salvataggio della popolazione dalle macerie, sono state portate a termine importanti attività di messa in sicurezza del patrimonio culturale e degli stabilimenti di interi distretti produttivi nelle aree interessate, proprio in un’ottica di accelerazione del recupero delle attività ordinarie e di avviamento della ricostruzione. In questo quadro va tenuto conto che Terremoto Amatrice (RI), 2016 le tecnologie innovative costituiscono termini di continuità operativa), le quali, a loro un fattore di vulnerabilità (si pensi ai cyber attacchi volta, devono essere poste alla base della progettaad esempio) ma che sono anche uno strumento di zione o dell’adeguamento degli edifici e del terrilimitazione dei danni e di mitigazione del rischio. torio. A questo riguardo vale la pena evidenziare Anche su questo settore, che si aggiunge a quelli che nel dibattito che si è sviluppato in Italia negli legati alle emergenze più tradizionali, il Corpo naultimi mesi sulle smart cities, il tema della sicuzionale dei Vigili del Fuoco riesce a mantenere un rezza non sia stato posto quale priorità nelle valuelevato livello di aggiornamento, costituendo un tazioni tecniche a fondamento della progettazione. esempio per gli enti omologhi nel mondo. La rete In questo contesto diventa evidente il ruolo della delle sale operative del Corpo, infatti, è una delle formazione, soprattutto universitaria, e dell’aggiorpoche infrastrutture a scala nazionale in grado di namento professionale. Nel momento in cui la regarantire la resilienza del sistema di soccorso tecsilienza inizia a diventare oggetto di corsi nico urgente e di quello nelle emergenze di proteuniversitari, si genera inevitabilmente una sfida zione civile. La sua evoluzione, largamente legata volta a migliorare la risposta complessiva del sialle esperienze maturate negli anni attraverso la stema in presenza del ciclo catastrofe-disastropartecipazione ai progetti di ricerca e sviluppo fiemergenza. Questo tema, ad esempio, potrebbe nanziati dall’Unione Europea, costituisce il punto portare a introdurre, nelle materie di studio, l’ingedi arrivo di un percorso di sviluppo dedicato. gneria della ricostruzione, cioè la valutazione del In definitiva quindi il rapporto tra disastro e ricocomplesso delle azioni messe in campo per rendere struzione risiede fondamentalmente nella capacità più robusto il sistema urbano dopo una calamità. di immaginare un sistema di sicurezza che sia in Su questo tema, per gli aspetti di competenza spegrado di portare immediatamente soccorso alla pocifica, il CNVVF è già impegnato, sia al proprio polazione, ma anche di dare risposte operative utili interno che nell’ambito di progetti di ricerca che al riavvio delle attività produttive e delle infrastrutcoinvolgono altri organi italiani e comunitari, forture necessarie a tali attività. Per fare questo, però, nendo un contributo esperienziale innovativo e il sistema di soccorso deve essere organizzato in qualificato. modo coerente con le esigenze della comunità (in


Il bacino delle Acque Albule

Sperimentazioni interdisciplinari per la conoscenza di un territorio Laura Farroni, Giovanna Spadafora

Riconoscere l’identità di un territorio e indagarne gli equilibri significa riconoscere un complesso e delicato sistema in cui tutte le componenti sono legate e interdipendenti tra loro. Laura Farroni Paradossalmente, il progressivo aumento delle capacità tecniche ha dato l’illusione di poter intervenire ovunque e nonostante il territorio, con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi, rendendo sempre più urgente rivedere le modalità di gestione e programmazione degli interventi di pianificazione. Gli specialismi hanno rivelato la loro debolezza nella incapacità di pensare il territorio come sistema, mentre appare oramai evidente che, ai fini di una pianificazione sostenibile, occorra condurre una lettura profonda e integrata delle diverse componenti territoriali, che sostituisca l’indagine per strati orizzontali successivi e sovrapponibili troppo spesso non confrontabili e quindi slegati tra loro - con una lettura sincronica e diacronica. Nel nostro paese, natura e cultura definiscono ambiti di grande rilevanza paesaggistica, di cui permane traccia anche in contesti nei quali l’equilibrio generale è stato compromesso. Un esempio è rappresentato dal Bacino delle Acque Albule, posto nel quadrante nord-est di Roma (Valle dell’Aniene), in cui coesistono risorse naturali, insediamenti produttivi - dedicati specialmente ad attività estrattive - e preesistenze archeologiche e architettoniche di pregio, manufatti di archeologia industriale e casali storici legati al ciclo di lavorazione del Lapis Tiburtinus e all’uso agricolo del suolo (Fig. 1). Le acque e i travertini, unitamente alla presenza delle testimonianze storiche, concorrono a fare di questo territorio un bene culturale paesaggistico unico al mondo. Allo stato attuale, tuttavia, è evidente una situazione di profondo squilibrio tra le risorse naturali, gli insediamenti urbani e produttivi e il patrimonio storico; situazione alla quale hanno concorso,

nel tempo, diversi fattori. Intorno a queste considerazioni si è riunito un gruppo di lavoro interdisciplinare che ha dato avvio a una ricerca, il cui obiettivo è quello di pervenire a una Giovanna Spadafora conoscenza sistematica dell’area - utile alla ridefinizione della sua identità e alla individuazione delle potenzialità presenti e future - finalizzata alla pianificazione di azioni di tutela e rigenerazione urbana e territoriale. La metodologia operativa messa in atto ha trovato nella rappresentazione grafica lo strumento di sintesi di fenomeni la cui analisi si presenta diversa, sia per la loro durata, sia per la scala alla quale devono necessariamente essere studiati. Un lavoro, quindi, la cui interdisciplinarità impone il controllo di analisi trasversali e interscalari.

Nel nostro paese, natura e cultura definiscono ambiti di grande rilevanza paesaggistica, di cui permane traccia anche in contesti nei quali l’equilibrio generale è stato compromesso. Un esempio è rappresentato dal Bacino delle Acque Albule, posto nel quadrante nord-est di Roma (Valle dell’Aniene), in cui coesistono risorse naturali, insediamenti produttivi e preesistenze archeologiche e architettoniche di pregio

Architetti, geologi, biologi, urbanisti, tecnologi, ingegneri sono chiamati a confrontare il loro sapere su uno stesso luogo per capire le cause e gli effetti dei processi naturali e artificiali che hanno determinato l’antropizzazione e che hanno contribuito alla definizione dei contesti attuali. Data la natura geomorfologica del Bacino delle

59


60

Fig. 1 - Il Casale Nuovo (detto del Bernini), sullo

sfondo di una delle cave di travertino (foto: Silvia Rinalduzzi)

Fig. 2 - Serie cronologica delle carte storiche analizzate (immagine: Silvia Rinalduzzi)

Acque Albule, il primo confronto ha visto impegnati geologi e architetti*. I dati dedotti dall’analisi geologica e stratigrafica dell’area sono stati rielaborati mettendoli in relazione con quanto emerso dalle indagini condotte sulla cartografia storica e sulle fonti iconografiche e bibliografiche (Fig. 2), per restituire, attraverso la lettura dei tracciati viari, dell’evoluzione delle infrastrutture e della realizzazione delle vie d’acqua, l’immagine dei fenomeni che hanno de-

terminato l’antropizzazione del territorio. In primo luogo, l’attenzione è stata rivolta alla ricostruzione storica del processo di escavazione per misurare le modalità e i tempi dell’uso del territorio legato alla presenza del travertino. Studiata sotto questo aspetto, la cartografia storica rivela come il disegno del territorio cambi in relazione alla richiesta di materiali da costruzione: una maggiore richiesta di travertino determina sulle carte la comparsa di grandi aree destinate allo scavo, ma le alluvioni ciclicamente trasformano le cave in pantani. Ecco, allora, che lavori di ingegneria idraulica trasformano nuovamente il territorio: le bonifiche ad opera dei Papi sono deducibili grazie al ritorno del segno grafico che indica la presenza di una cava attiva e del toponimo Latomiae; ancora, una lettura diacronica della cartografia consente di mettere in relazione l’aumento della superficie di scavo con l’attivazione, nell’Ottocento, della tramvia a vapore Roma-Tivoli che agevola il trasporto del travertino; mentre un confronto con le ortofoto conferma un riuso dell’area con l’ascesa del fascismo e con la fondazione di Guidonia, “Città dell’aria”. Ridisegnare i confini del sito destinato all’estrazione, facendo un confronto diacronico progressivo, ha consentito di estrapolare un profilo del suolo sfruttato per questa attività ciclica di anno in anno, in modo da poter procedere alla indicazione delle aree estrattive dismesse, protagoniste indiscusse del paesaggio attuale. Lo studio sistematico del ciclo dell’escavazione e dei segni che nel tempo si sono impressi nel territorio, ha permesso di distinguere le cave attive da quelle esaurite o in via di dismissione fino all’anno 2013, così da arricchire e attualizzare il censimento delle cave riportato dal P.r.a.e. del 2009. Per registrare l’attuale quantità di vuoti all’interno del territorio, per percepire la loro effettiva qualità in relazione al contesto di cui fanno parte, e per concretizzare lo sguardo interscalare, è stato costruito un modello tridimensionale a scala territoriale (Fig.3) che ha evidenziato i rapporti tra volumi costruiti e volumi scavati, le direzioni di sviluppo dell’edificato e delle aeree estrattive, e le tipologie edilizie presenti in relazione alle morfologie del costruito. Nella costruzione del modello, l’analisi a una scala di maggiore dettaglio ha condotto alla individuazione di famiglie di oggetti simili per connotati architettonici, storici e paesaggistici, che vanno a costituire, nell’ambito della lettura complessiva, un sottosistema. Tra questi, ad esempio, il sistema casale/cava, o il sistema dell’edificato sul margine dei vuoti, che ormai ha sviluppato, per necessità, la propria contestualizzazione. Le analisi idrogeologiche consentono di ipotizzare


Fig. 3 - Ricostruzione 3D del sito estrattivo e dei centri di Villalba e Villanova allo stato del 2013. In alto sezione CC’ e B-B’ in corrispondenza degli scavi più profondi. A destra, immagine satellitare del sito estrattivo allo stato del 2013. In evidenza, le cave ritombate (immagine: Silvia Rinalduzzi)

che al di sotto del giacimento del Lapis Tiburtinus sia presente un sistema di faglie e che, ai margini del bacino, le faglie minori seguano un andamento obliquo. Poiché tali particolari condizioni idrogeologiche producono processi quali doline, depressioni morfologiche e sinkhole, lo studio ha sovrapposto queste informazioni alle aree ormai coinvolte nello sviluppo edilizio, rilevando la presenza di testimonianze archeologiche che potrebbero risultare esposte a rischio: i resti delle Terme di Agrippa attigui ai laghetti delle Colonnelle e della Regina, la tenuta di Sant’Antonio a Sud di Colle Fiorito, un sepolcro, un tratto di antica Via Tiburtina e i vecchi Bagni di Tivoli presso Tivoli Terme. È importante sottolineare che al momento non esiste un censimento integrale delle aree soggette a fenomeni di subsidenza, bensì si dispone di mappature parziali che segnalano le aree in cui si è verificato il fenomeno. Inoltre, il fiume Aniene scorre, da Nord-Est a SudOvest, tra manufatti facenti parte del patrimonio culturale-architettonico che potenzialmente potrebbero subire danni da inondazioni: quelli di maggiore spicco sono il Ponte Lucano e l’annesso Mausoleo dei Plauzi, collocati dove la via Tiburtina attraversa il fiume, in un luogo attualmente in stato di abbandono ed esente da ogni forma di prevenzione o tutela.

In questa prima fase di analisi, dunque, il territorio e i beni paesaggistico-architettonici da tutelare sono messi in relazione con le principali risorse, acqua termale e travertino, ma anche con i potenziali rischi ambientali. A questi si aggiungeranno i risultati degli studi sugli ecosistemi naturali, in modo che tutti i dati possano concorrere all’avvio di azioni orientate a ripristinare gli equilibri tra le componenti territoriali e a garantire, nel tempo, la sostenibilità degli interventi. La lettura e la restituzione grafica del territorio, dagli strati più profondi a quello del suolo è, dunque, un lavoro di interpretazione e messa a sistema di informazioni eterogenee che coinvolge diversi saperi, e che ha reso immediatamente evidente la necessità di non procedere per ambiti separati, ma con un approccio di tipo interdisciplinare, al quale le attuali figure professionali, proprio a causa di una formazione settoriale e specialistica, difficilmente possono pervenire, se non nel caso di occasioni di ricerca sperimentale come quella che si è brevemente descritta. Al di là dei necessari specialismi, anche nella pratica corrente occorrono figure in grado di riconoscere i valori identitari di un territorio, di orientare le indagini interdisciplinari e di correlare le informazioni interscalari in modo da valutare azioni e conseguenze che ne garantiscano la sopravvivenza.

*Questo testo sintetizza alcuni risultati della prima parte della ricerca condotta da Laura Farroni, Giovanna Spadafora, Silvia Rinalduzzi, architetto assegnista di ricerca (Dipartimento di Architettura Università Roma Tre), Claudio Facenna (Dipartimento di Scienze della Terra, Università Roma Tre), Andrea Billi, geologo CNR, Luigi De Filippis, geologo PHD, Pier Paolo Poncia, geologo,

61


62

Il futuro del suolo

Il paesaggio come archivio di significati in continua trasformazione Cesare Feiffer

«Non c’è nulla di più fragile dell’equilibrio dei bei luoghi. Le nostre interpretazioni lasciano intatti persino i testi, essi sopravvivono ai nostri commenti; ma il minimo restauro imprudente inflitto alle pietre, una strada asfalCesare Feiffer tata che contamina un campo dove da secoli l’erba spuntava in pace creano l’irreparabile. La bellezza si allontana; l’autenticità pure». Margueritte Youcenar, Taccuini di appunti

Premessa Anticipo le conclusioni. Se non si conosce l’architettura e il paesaggio non si sa da che parte iniziare un progetto: i rilievi sono sommari, le analisi assenti, le previsioni distanti dalla realtà e, forse questo è l’aspetto più tristemente noto, i preventivi e i tempi di esecuzione saltano dopo il primo giorno di cantiere, avviando lunghi contenziosi.

Il progetto sul paesaggio Il tema del paesaggio, della sua bonifica, del suo riuso e valorizzazione tramite interventi a misura è oggi approfondito. Poco indagata è invece quella sottile linea di confine che separa la valorizzazione compatibile del paesaggio da quella prevaricante, perché trasforma senza conoscere e trasferisce sul paesaggio segni incompatibili che non nascono dallo studio di questo ma da altre culture. In questi casi il paesaggio “soffre” e viene cancellato da segni progettuali o da soluzioni tecniche che con violenza più o meno consapevole si sovrappongono. Il grave ritardo culturale dell’aspetto operativo nei confronti del paesaggio è dovuto, da un lato, all’arroganza della speculazione, la principale responsabile dello scempio, e, dall’altro, alla convinzione dei professionisti progettisti e dei professionisti controllori per i quali il problema di tu-

tela del paesaggio si esaurisce con l’approvazione del progetto in commissione paesaggistica. Ma non è così perché quel progetto serve solo a superare delle soglie amministrative e burocratiche abbastanza banali, spesso anche inutili per la vera conoscenza-conservazione del paesaggio. Diverso è il caso della riprogettazione, della modifica, della trasformazione, in cui ci si concentra sul creare un nuovo paesaggio, lasciando quello esistente come sfondo.

È poco indagata la sottile linea di confine che separa la valorizzazione compatibile del paesaggio da quella prevaricante, perché trasforma senza conoscere e trasferisce sul paesaggio segni incompatibili che non nascono dallo studio di questo ma da altre culture

Tale metodo può trovare giusta applicazione in alcune aree prive di segni e di storie, tipo quelle industriali dismesse, in quei “paesaggi” urbani periferici e sconvolti da capannoni o da villettopoli, negli svincoli e tra le tangenziali, in quelle zone massacrate e violentate dall’abusivismo etc.; lì si può parlare di rigenerazione del paesaggio e quindi legittimare, anzi rendere doverosa, la modifica compositiva anche di segno forte. Ma per i paesaggi storici e naturali, per quei “paesaggi costruiti” che arricchiscono l’Italia, dove le trasformazioni ci sono state ma solo in modo parziale, limitato e fisiologico, dove la modifica non ha sconvolto il contesto, l’intervento va calibrato e orientato in base ai valori dell’esistente. In questi paesaggi costellati da documentazioni di ogni genere bisogna mettere in primo piano la conservazione e in secondo piano la modifica compositiva; il progetto deve quindi partire da una profonda attenzione e rispetto per le stratificazioni di segni che connotano lo stato attuale per orientarsi delicatamente verso la trasformazione compatibile, la sola che produce quella qualità alta che il nostro patrimonio merita e giustamente pretende. Cos’è oggi il paesaggio? Il tema centrale sta nel concetto di “paesaggio edi-


ficate dal suo valore di patrimonio derivante dalla sua configurazione naturale e/o dal tipo di intervento umano. Paesaggio è tutto ciò che ci circonda, non solo le emergenze o i valori positivi del visibile, ma è anche l’invisibile: la terra ma anche il cielo, ciò che cogliamo con i sensi della vista ma anche ciò che si apprezza con l’udito, con l’olfatto e con altri sensi e altre percezioni. Il paesaggio è il grande contenitore di tutti i “segni” delle storie che si sono sovrapposte e quindi delle relazioni tra loro.

Archivio di significati Il paesaggio è un vero e proprio archivio, per questo si deve avere la cultura e la sensibilità per saperlo leggere e farlo raccontare; la sua storia è sempre la storia degli uomini che lo hanno vissuto, trasformato. È una cultura questa che costiAbbazia di Ross Errily, Headford, Irlanda, 1988 / La strada I-163, Monument Valley, tuisce il presupposto fondaStati Uniti, 2009. mentale per poter intervenire Gli interventi devono risultare congrui anche nel contesto paesaggistico, siano presenti o meno i segni costruiti dall’uomo. Due strade sono state prese a simbolo di questo concretamente con qualità; per processo: un viottolo sterrato di campagna e una striscia di asfalto. Nel primo caso si chiunque, per chi lo governa tratta della riuscita manutenzione di un vecchio tracciato con i muretti in pietra, nel politicamente, per chi ci lavora secondo si assiste alla dolorosa ma non troppo invasiva aggiunta di una via di professionalmente e per quanti collegamento da cui il mondo moderno, soprattutto quello turistico, non può oggi ritengono che accanto al patriprescindere. Sullo sfondo, a sottolineare la comunanza delle situazioni, le sagome simili dei due “monumenti” cui portano le strade: l’abbazia edificata dall’uomo e la montagna monio architettonico il paesaggio meriti tutte le cautele e le costruita dalla natura. (foto e testo: Riccardo Zipoli©) attenzioni per essere conservato. ficato” che Settis tratta in molti suoi contributi conNegli ambienti che ci circondano non esistono cependolo come un unicum stretto tra uomo e naquasi più paesaggi senza contaminazioni antropotura; in questo senso molto chiara è la definizione logiche e in qualche modo vergini; troppi sono i leche ne è stata data nella Convenzione europea del gami, i rapporti e le relazioni reciproche che paesaggio, Firenze 20 ottobre 2000 (che poi è stata l’uomo nelle epoche storiche e recenti ha stabilito recepita nel Codice dei Beni Culturali ben quattro con il paesaggio trasformandolo. anni dopo), nella quale si è definito il “paesaggio” Dalle pianure che manifestano i segni dell’agricolcome una determinata parte di territorio il cui catura e dell’edificazione, alle fasce collinari che verattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o dono diradare i nuclei edificati e dilatarsi le fasce umani e dalle loro interrelazioni; di conseguenza, boscose a vantaggio delle coltivazioni particolari, “salvaguardia dei paesaggi” è l’insieme delle azioni dell’allevamento, fino a quelle alpine che, più difdi conservazione e di mantenimento degli aspetti ficilmente antropizzabili, comunque possiedono significativi o caratteristici di un paesaggio, giustipalesi i segni della presenza dell’uomo quali le

63


64

strade, le piste da sci, i tralicci della corrente, i sentieri e le mulattiere, i ripetitori fino ai più esili segni quali la croce che indica la cima di un monte o il bivacco a cavallo del valico tra le rocce: tutto ciò che ci circonda è un’inscindibile commistione tra uomo e natura. Perfino il mare, apparentemente incontaminato dai segni dell’uomo possiede in realtà fortissime presenze antropiche, resti galleggianti della nostra “civiltà”, fari e radiofari ci fanno capire dove siamo e le rotte commerciali che lo solcano sono come strade altrettanto visibili. Ma non basta: i segni dell’uomo sono anche quelli notturni che vanno dall’inquinamento luminoso delle aree più avanzate alla singola luce che identifica il rifugio sulla cima della montagna.

Nei paesaggi costellati da documentazioni di ogni genere bisogna mettere in primo piano la conservazione e in secondo piano la modifica compositiva; il progetto deve quindi partire da una profonda attenzione e rispetto per le stratificazioni di segni che connotano lo stato attuale per orientarsi delicatamente verso la trasformazione compatibile, la sola che produce quella qualità alta che il nostro patrimonio merita e giustamente pretende

Trasformazioni Nel contesto paesaggistico, molto di più che in quello architettonico, sono maturati nella cultura avanzata alcuni concetti che hanno demolito quel mito del restauro inteso come “cura” che “guarisce il “malato”, come passaggio da uno stato negativo a uno positivo per raggiungere uno stato di equilibrio stabile e definitivo. La metafora che connota ancora molti interventi di restauro non considera il continuo mutare e trasformarsi degli oggetti immersi nella storia, ma si riferisce a oggetti immutabili nel tempo. Nella cultura aggiornata si ritiene più corretto pensare in termini di un continuo divenire degli oggetti nel tempo, un divenire che modifica, trasforma progressivamente, in ogni frazione di tempo. Riguardo all’architettura e al paesaggio questi sono sottoposti «(…) alle stesse trasformazioni continue e silenziose che subisce la totalità degli esseri e delle cose, in un ambiente in continua trasformazione. (…) Questo potrebbe significare

innescare processi virtuosi: osservare, individuare il potenziale della situazione in atto e lavorare affinché la trasformazione si evolva in una mutazione a noi favorevole». L. Napoleone, “Dalla prevenzione a una strategia della trasformazione”, in G Biscontin e G. Driussi (ac.d.), Pensare la prevenzione, Atti del convegno di studi Bressanone 13-16 luglio 2010, p. 82. È segno di una elevata sensibilità culturale concepire l’esistente (architettura e natura) come un sistema mutevole nel tempo, dove le trasformazioni devono essere indirizzate soprattutto in relazione al fattore compatibilità. In questo senso c’è notevole differenza tra il concetto di cura, concepito in termini medici che parte da uno stato negativo e intende arrivare a uno positivo e finale, e il concetto di cura del genitore, che si preoccupa del figlio garantendone la crescita e l’evoluzione nonché lo sviluppo compatibile nel tempo. Tutelare il paesaggio-territorio non significa mantenerlo così com’è perché se ne negherebbe la natura di contesto-documento in continua trasformazione. È indispensabile maturare che il progetto di trasformazione-conservazione del territorio-paesaggio deve avere il fine di definire al meglio lo “stato di riforma”, ciò che sarà, riducendo la perdita di significati, tramite azioni calibrate volte innanzitutto alla limitazione della perdita non ragionata durante i processi. Prevenzione È maturo il concetto, faticosamente affermatosi nel restauro delle architetture, che è necessario «regolare in forma colta le trasformazioni massimizzando le permanenze» (Bellini) piuttosto che fissarsi sull’immagine consolatoria di un momento storico privilegiato. Quindi non più uno stato primigenio o un momento formalmente compiuto da rifare o ripristinare ma, anche nel paesaggio-documento-territorio, l’obiettivo dev’essere quello di preservare il più possibile la successione delle trasformazioni intese come documenti portatori di significati e informazioni. È chiaro che il corollario di tale atteggiamento culturale è l’attività di pianificazione che dovrebbe farsi carico sia dei valori del documento-paesaggio nella sua evoluzione, sia dello sviluppo socio economico del luogo in un rapporto proficuo. Questa difficile attività si dovrebbe esprimere sempre in accordo con gli organi di tutela che possono dare un contributo determinante ma invece, purtroppo, vengono visti, talvolta però anche a ragione, come contrasto e impedimento allo sviluppo.


culture non è in grado di possedere la capacità di elaborare e condurre a termine tali studi e approfondimenti. Chi possiede questa specializzazione, sia esso progettista o costruttore, ha anche una particolare sensibilità nei confronti della storia della fabbrica antica, sensibilità che è direttamente proporzionale alla qualità della realizzazione.

La salina abbandonata, Guerrero Negro, Messico, 2007 / La nuova rotatoria, Nizwa, Oman, 2010. La coppia di immagini vuole suggerire l’importanza della cultura e le conseguenze nefaste della sua mancanza. Da una parte abbiamo un monumento dedicato ai libri, inserito armoniosamente nel mondo naturale e accompagnato da una persona su un motorino in corsa, dall’altra i ruderi abbandonati di una vecchia salina in un paesaggio lunare con la sola presenza della carcassa bruciata di un’automobile. Il contrasto fra la vivacità dei colori di un’immagine e la piatta monocromia dell’altra evidenzia la stridente differenza fra le due ispirazioni. (foto e testo: Riccardo Zipoli©)

Qualità Il progetto di restauro, di conservazione dell’architettura e del paesaggio e la sua realizzazione pratica sono attività che richiedono sia progettisti con preparazione specifica nel campo dell’architettura del nuovo e imprese con quadri dirigenziali e maestranze formatesi nei cantieri di restauro e non (solo) in quelli della nuova costruzione. Questo presupposto è l’unico modo per produrre qualità sia nelle soluzioni progettuali generali, sia nella gestione-organizzazione del cantiere, sia nella realizzazione complessiva. Per produrre qualità è quindi necessaria una marcata specializzazione, perché chi proviene da altre

Conclusioni Questa capacità di vedere e trasferire nel progetto i tanti risultati che l’analisi ci sottopone mette in luce quello che si può definire il “limite del fuorigioco” nell’ambito della progettazione del paesaggio e cioè quel limite all’interno del quale è corretto mantenersi. Al di là ci sono interventi di rigenerazione, riprogettazione ex novo di paesaggi che non fondano sulla conoscenza del sito e dei suoi valori creando nuovi scenari paesaggistici etc.; al di qua ci sono progetti di conservazione, di valorizzazione compatibile e riuso che coniuga trasformazione e conservazione. È una linea di confine che varia di volta in volta in relazione a moltissimi fattori e non è tracciabile una volta per tutte a prescindere dalle realtà storico culturali che il paesag-

gio possiede. Progettare il paesaggio in modo conservativo, avendo l’attenzione e la cura di salvaguardarne il più possibile i caratteri, i “segni” e i significati non comporta immobilizzare tutto e proibire ogni modifica; anzi, significa contemplare gli interventi tecnici di bonifica, consolidamento e ripristino geo-idro-morfologici nell’ambito di una cultura diversa che contempli la trasformazione ma che tenga come fine principale la conservazione. Le proposte operative progettuali che fondano su questi studi illustrano le soluzioni d’intervento sia nel loro impatto immediato sia in quello dopo anni, perché l’intervento sul paesaggio si completa con

65


66

Dasht-e Kavir, Yazd, Iran, 2000 / Panorama, Meteor Crater, stati Uniti, 2009. È superata la concezione di paesaggio come porzione di territorio limitata e circoscritta da contemplare come un quadro secondo “viste” o scorci, com’era per le “bellezze naturali”, che decenni fa s’immaginavano costanti e immutabili nel tempo. Paesaggio è oggi l’interazione quotidiana fra uomo e natura, dove la trasformazione è insita e presente nella definizione stessa; la qualità di questa trasformazione sta nella conoscenza del sito, dei suoi “segni” e delle sue particolarità, nel loro più assoluto e ampio rispetto, e nella volontà di rendere compatibile l’aggiunta con il contesto materico, culturale e paesaggistico nel quale si inserisce. (foto: Riccardo Zipoli© - testo: Cesare Feiffer)

il prendere forza delle soluzioni vegetali, con il variare delle stagioni: il paesaggio non è come un intonaco sempre uguale a se stesso, ma varia con i diversi mesi dell’anno e la difficoltà è spesso nel controllarne gli esiti nel loro risultato invernale piuttosto che estivo. Mi rendo perfettamente conto che è un modo particolare di interpretare il riuso e la valorizzazione del “paesaggio culturale” e che quello della conservazione e della modifica compatibile, minima e

non prevaricante, è sicuramente minoritario in quanto tutt’ora domina l’impostazione meno conservativa e quella più progettuale compositiva. E ciò è vero anche nelle specifiche competenze di geologi, ingegneri, agronomi e competenze affini spesso spinti da realtà oggettive (il dissesto idrogeologico, frane, smottamenti etc.) a proporre interventi molto invasivi che avrebbero potuto esser ridotti e più compatibili se concepiti con altri occhi e culture.


SIGLOD. Un Sistema Intelligente per gestire i rifiuti

Presentati presso la sede di Palermo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), i risultati e le applicazioni di SIGLOD-Sistema Intelligente per la gestione e localizzazione delle discariche di rifiuti solidi urbani in Sicilia. Uno strumento di supporto decisionale a disposizione della Regione Sicilia e degli enti locali interessati, per la corretta localizzazione e gestione delle nuove discariche e per la bonifica di quelle in essere, garantendo adeguati livelli di qualità nell’offerta di servizi di gestione del territorio. Obiettivo, trasformare i sistemi tradizionali di smaltimento dei rifiuti in sistemi ambientali “intelligenti” e integrati, attraverso l’uso di dati aerei, satellitari e terrestri. Il progetto SIGLOD (Sistema Intelligente di supporto alla Gestione e alla LOcalizzazione delle Discariche e di impianti di gestione dei rifiuti), che vede tra i partner, oltre all’INGV, in qualità di soggetto capofila, l’Università degli Studi di Palermo, la SMART Elicotteri e il Consorzio per la ricerca e le applicazioni di tecnologie innovative (CRATI), è stato cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito del PON-Programma Operativo Nazionale “Ricerca e Competitività 2007-2013, Smart Cities and Communities and Social Innovation”. «L’emergenza rifiuti in Sicilia», spiega Massimo Chiappini, Direttore della sezione Roma 2 dell’INGV e coordinatore del progetto, «è uno scenario quanto mai attuale e la richiesta di ulteriore proroga dell’emergenza, recentemente avanzata dalla regione siciliana al governo nazionale, conferma la criticità della situazione. Il sistema parte dalla consapevolezza che molti reflui restano attivi per oltre 30 anni e producono biogas e liquami (percolato) con possibili effetti contaminanti nelle falde acquifere, attraverso i naturali processi di decomposizione». Come confermato dall’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), è ben noto l’effetto sulla salute delle popolazioni a causa di una cattiva gestione dei rifiuti. L’esposizione al rischio nel territorio circostante alla discarica può essere determinata dall’inalazione di emissioni gassose nocive, dal consumo alimentare di acqua contaminata dal percolato, oltre che dal consumo di prodotti agricoli e agro-zootecnici provenienti da terreni inquinati. «Due le direttrici di sperimentazione affrontate da SIGLOD: la caratterizzazione del territorio con tecniche, metodologie scientifiche e strumentazioni d’avanguardia, a cui ha dato un rilevante contributo scientifico anche l’Università degli Studi di Palermo, e l’erogazione dei servizi all’utente finale attraverso un Multi Criterial Expert Spatial Decision Support System (MC-ESDSS)», prosegue Chiappini. Le tecnologie innovative introdotte da SIGLOD integrano dati acquisiti da reti di monitoraggio al suolo e da piattaforma aerea, simulando scenari di gestione delle nuove discariche o di bonifica di quelle esistenti. In definitiva, uno Smart Waste Environment System. In definitiva, il sistema SIGLOD permette sia di pianificare la gestione del territorio, con la migliore destinazione d’uso di aree di competenza di Comuni, Provincie o Regioni, sia di intervenire in caso di emergenza ambientale che dovesse verificarsi in installazioni ed impianti già esistenti. La chiave sta nell’utilizzo sinergico e integrato delle tecnologie applicate e nell’uso del sistema di supporto alle decisioni. Tale approccio può essere adottato su qualunque porzione del territorio nazionale. Gli esempi messi in luce dalla sperimentazione attuata nel corso del progetto sono tutti in Sicilia e sono le aree interessate dalle discariche di Bellolampo, di Siculiana e di Cava dei Modicani. Questi siti sono stati studiati con un elevato livello di dettaglio mettendo in campo tutte le metodologie previste dal progetto, prefigurando scenari differenti. Vale la pena menzionare anche che, nell’ambito di SIGLOD, sono stati condotti 3 distinti corsi di Alta formazione per operatori, specialisti e decisori che hanno ricevuto formale attestazione di conseguimento dei diplomi. In tal modo le Pubbliche Amministrazioni interessate potranno avere a disposizione personale già formato da assumere o contrattualizzare.

67


recensioni

68

I muretti a secco. Un sistema millenario di cura del territorio

Sono circa sette mila i chilometri di muretti a secco che costellano la costa ligure fra il Parco delle Cinque Terre e i comuni di Vernazza, Chiavari e Lavagna. Messi tutti in fila sarebbero lunghi come la Muraglia cinese. Una grande opera di secolare memoria, frutto di una maestria e di una sapienza che ha permesso agli abitanti di queste terre di abitare e coltivare a olivi e vite un territorio che, per sua stessa natura e collocazione, è difficile e impervio, stretto com’è fra il mare e le montagne.

I terrazzamenti, sostenuti da muri a secco ottenuti con pietre (arenaria, scavata sul posto) e terra, sono


uno dei segni piÚ longevi e caratteristici del paesaggio ligure, testimonianza e retaggio di antiche tecniche costruttive che hanno permesso nei secoli di tutelare e salvaguardare il territorio riducendo i fenomeni di erosione, regolarizzando i flussi idrogeologici e il naturale corso delle acque. Per questo motivo si tratta di elementi che vanno tutelati e ricostruiti. A questo obiettivo si dedica l’Associazione Tu Quoque di Vernazza, presieduta da Margherita Ermirio, che dal 2015 organizza corsi per insegnare a ricostruire i muretti a secco. In queste immagini, fornite da Tu Quoque, alcuni momenti di lavoro durante i campi di volontariato dell'estate 2016. (https://www.facebook.com/Tu-Quoque1435691433423911/?fref=ts)

69




UniversitĂ degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.