Roma Tre News 3/2012

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Periodico di Ateneo

Anno XIV, n. 3 - 2012

Scriverò pace sulle tue ali In questo numero: Luca Aversano, Alfredo Breccia, Francesca Brezzi, Giuliana Calcani, Fabiola Gianotti, Jeffrey Goldfarb, Flavia Lattanzi, Maria Luisa Maniscalco, David Meghnagi, Zachary Metz, Giusi Nicolini, Riccardo Noury, Mario Panizza, Maria Rosaria Stabili, Cecilia Strada


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Sommario Editoriale

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Primo Piano Architetture di pace 5 Quando le pietre segnano il corso della storia: il Ponte di Mostar, il Muro di Berlino, il Vallo di Adriano di Mario Panizza Il diritto come forza di pace Il ruolo della giustizia penale internazionale di Flavia Lattanzi

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Nient’altro che la verità 14 Riconciliazioni nazionali e costruzione della pace sociale in America latina di Maria Rosaria Stabili Sudafrica: la commissione per la verità e la riconciliazione di Gaia Bottino

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Donne e beni comuni Le radici etiche del vivere quotidiano di Francesca Brezzi

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«Di chi sono questi morti?» 21 Lettera aperta di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa e Linosa Mettere le ali alla pace Le mille gru di Sadako Sasaki di Michela Monferrini

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Peace and the social condition Seeking social justice and human dignity di Jeffrey Goldfarb

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Microscopes or macroscopes? Levels of engagement in peacebuilding di Zachary Metz

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Il suono della pace Il potere della musica, nella coincidenza del divino e dell’arte di Luca Aversano

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Ludovica Ioppolo. Il futuro tra memoria e impegno di Elisabetta Tosini

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Rubriche Popscene Ultim’ora da Laziodisu Non tutti sanno che…

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Recensioni The Lady 64 L’omaggio di Besson all’eroina della democrazia birmana di Francesca Gisotti Anime di materia In mostra al Vittoriano lo scultore libico Ali Wak Wak di Francesca Simeoni

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Cesare deve morire Lo Shakespeare dei fratelli Taviani nella sezione di alta sicurezza di Rebibbia di Stefano Perelli

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Gasland Il fracking e le sue ripercussioni sul territorio di Matteo Spanò

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Un film per la pace Una rassegna per riflettere di Francesca Gisotti

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Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XIV, numero 3/2012 Direttore responsabile Anna Lisa Tota (Professore straordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Caporedattore Alessandra Ciarletti Vicecaporedattore e segreteria di redazione Federica Martellini romatre.news@uniroma3.it Redazione Ugo Attisani, Gaia Bottino, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Indra Galbo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Elisabetta Tosini

El Sistema da Nobel 34 La rivoluzione pacifica dell’educazione musicale pubblica di Michela Monferrini Il bene più prezioso Problematiche per una gestione del territorio e delle sue risorse di Giancarlo Della Ventura

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L’Università per la pace Coscienza e conoscenza: il ruolo delle istituzioni accademiche nella diffusione di una cultura di pace di Giuliana Calcani

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Le vie della pace 42 L’impegno multidisciplinare di una educazione permanente alla pace di Alfredo Breccia Costruire la pace nel Mediterraneo 44 Un progetto del Master in Peacekeeping & security studies di Maria Luisa Maniscalco Un impegno che non conosce confini Thây: un monaco, un maestro, un uomo di Elisabetta Tosini

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David Meghnagi / Abraham Yehoshua: dialoghi

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Il bosone di Higgs e la nostra vita di Fabiola Gianotti

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Incontri Cecilia Strada. La cura di Federica Martellini

Riccardo Noury. Le emergenze dei diritti umani di Valentina Cavalletti

Hanno collaborato a questo numero Luca Aversano (ricercatore e docente in Musicologia e Storia della musica), Alfredo Breccia (professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali e di Storia dell’integrazione europea e direttore del Master in Educazione alla pace: cooperazione internazionale, diritti umani e politiche dell’Unione Europea), Francesca Brezzi (docente di Filosofia morale, delegata del Rettore per le Pari opportunità), Giuliana Calcani (professore associato di Storia dell’archeologia), Giancarlo Della Ventura (professore ordinario di Mineralogia), don Pino Fanelli (assistente spirituale a Roma Tre - Facoltà di Economia), Gianpiero Gamaleri (presidente Adisu Roma Tre), Jeffrey Goldfarb (Sociology Department, New School for Social Research, New York), Flavia Lattanzi (professore di Diritto internazionale e giudice al Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia), Maria Luisa Maniscalco (professore ordinario di Sociologia e coordinatore del Master in Peacekeeping & security studies), David Meghnagi (direttore del Master internazionale in Didattica della Shoah e membro della delegazione italiana presso la Task force for international cooperation on Holocaust remembrance dell'OSCE), Zachary Metz (director, Peace building practice - Consensus), Mario Panizza (direttore del dipartimento di Architettura), Stefano Perelli (studente Facoltà di Economia), Francesca Simeoni (studentessa CdL in Informazione, editoria e giornalismo), Matteo Spanò (studente CdL in Informazione, editoria e giornalismo), Maria Rosaria Stabili (professore ordinario di Storia dell’America latina) Immagini e foto Umberto Battaglia©, Amal Chen©, Peter Dammann©, Brian Hanley, Scott Langley©, Fabrizio Loiacono©, Zachary Metz, Mario Panizza, www.consensusgroup.com, www.emergency.it Un ringraziamento speciale a Bia Simonassi che ha ideato e disegnato per noi il mind map sulla pace, pp. 36-37 (www.freeyourideas.net - http://treebookgallery.blogspot.it - http://theprojectlabshow.blogspot.it/) Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico Impaginazione e stampa Tipografia Gimax di Medei Massimiliano Via Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - tel. 0766 511644 In copertina Foto editing di Francesco Martellini Finito di stampare febbraio 2013

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ISSN: 2279-9192 Registrazione Tribunale di Roma - n. 51/98 del 17/02/1998


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Fare pace, essere pace di Anna Lisa Tota

«Scriverò pace sulle tue ali/ intorno al mondo volerai/(…) (Sadako Sasaki)

valori delle minoranze. Se il tasso di mortalità infantile in Italia nel 2012 è 3, mentre in Sierra Leone è 77, questo è l’esito di una violenza strutturale che dipende dalle istituzioni, non dai singoli attori politici o dai singoli cittadini. Lo schema di Galtung è semplice ma efficace, in quanto permette di vedere la violenza anche laddove può assumere forme meno esplicite e pertanto invisibili. Se un uomo politico come Silvio Berlusconi durante una convention pone una domanda del tutto sconveniente ad Angela Bruno – giovane donna manager di Green Power – possiamo decidere di sorridere e ammiccare insieme a lui, oppure possiamo vedere la violenza culturale – ovvero il sessismo – che in quel momento viene esercitato. Per vedere la pratica della violenza in atto, basta usare un controfattuale di Teun Van Dijk: sarebbe pensabile che Lilli

In questo numero vi proponiamo il tema della pace. Abbiamo scelto un simbolo di pace che viene da lontano: la gru di carta, una figura tradiAnna Lisa Tota zionale realizzata con la tecnica dell’origami. In Giappone regalarla significa augurare pace e serenità. C’è un’antica credenza giapponese, secondo la quale se si riescono a fare mille Il Mahatma Gandhi soleva dire che gru di carta, si può realizzare qualsiasi desiderio. «Non c'è strada che porti alla pace che Sadako Sasaki era una bella bambina di due anni e non sia la pace, l'intelligenza e la mezzo, quando a poco meno di due chilometri da casa sua esplose la bomba di Hiroshima. A undici verità». Così come non si può spegnere anni ella scoprì di essersi ammalata di leucemia a il fuoco usando il fuoco, così non si può causa delle radiazioni che l’avevano colpita. Decifermare la violenza ricorrendo all’uso se allora di costruire mille gru di carta che potessedi altra violenza ro portare la pace in tutto il mondo. A Sadako è dedicata una statua che la raffigura mentre lancia una Gruber in una convention ponesse un’analoga dogru nel cielo e che è stata collocata nell’Hiroshima manda a Sergio Marchionne in relazione alle sue Peace Memorial. Sono passati molti anni dal sacriprestazioni sessuali? Evidentemente no. ficio di Sadako Sasaki e la pace per molti non c’è Possiamo qui proporre una concezione estesa delancora. la pace, che includa, secondo lo schema di GalChe cosa significa pace? Equivale semplicemente tung, l’assenza di ogni forma di violenza fisica, all’assenza di guerra o è un concetto più esteso ed strutturale e culturale in una socieequivale all’assenza di ogni forma tà. Parlare di pace significa dare di violenza nella società? Johan voce ai pensieri e alle riflessioni Galtung, un sociologo e matematico del Mahatma Gandhi, di Martin norvegese che può essere consideraLuther King, di Nelson Mandela, to come padre fondatore dei peace di Aung San Suu Kyi, di Simon studies contemporanei, elabora una Weil, di Aldo Capitini, di Tolstoy e distinzione che aggiunge molto alla di molti altri scrittori, filosofi, poenostra comprensione del mondo riti, intellettuali, scienziati e artisti spetto all’esercizio della violenza. che di pace si sono occupati. Il MaGaltung (2000) distingue tra almeno hatma Gandhi soleva dire che tre forme di violenza: a) la violenza «Non c’è strada che porti alla pace diretta, che causa danni fisici alle che non sia la pace, l’intelligenza e persone; b) la violenza strutturale, la verità». Così come non si può che deriva dalle disfunzioni delle spegnere il fuoco usando il fuoco, istituzioni politiche nazionali e incosì non si può fermare la violenza ternazionali; c) la violenza culturale ricorrendo all’uso di altra violenza. che comprende il razzismo, il sessiGandhi, che è stato il padre spirismo, la denigrazione dell’altro e la Mohandas Karamchand Gandhi tuale dell’India contemporanea, ha svalutazione dei punti di vista e dei


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teorizzato il satyagraha, un movimento di resistenza all’oppressione inglese tramite la disobbedienza civile di massa, che ha condotto l’India sulla strada dell’indipendenza. Il satyagraha si fonda sulla verità (satya) e sulla nonviolenza (ahimsa). Gandhi sottolineava la differenza tra nonviolenza e codardia o mancanza di forza e coraggio. L’ahimsa richiede resistenza attiva alla violenza, quindi per praticarla richiede in primo luogo la capacità di usare la forza ma l’esplicita rinuncia a farlo. La pratica politica e spirituale di Gandhi è stata ripresa in molti altri paesi: penso ad esempio a Aung San Suu Kyi, premio Nobel Aung San Suu Kyi per la pace nel 1991 e alla sua pratica di resistenza nonviolenta in Birmania oppure a Thich Nhat Hanh, un maestro buddista vietnamita che oggi è considerato uno dei maggiori padri spirituali del pianeta. Thich Nhat Hanh, al quale è dedicato un articolo di questo numero, iniziò la sua opera molti anni fa durante la guerra in Vietnam, fondando i piccoli corpi di pace che andavano a soccorrere i feriti di ambo le fazioni. Molti giovani dei piccoli corpi di pace morirono e si sacrificarono nel tentativo di soccorrere i feriti sia americani, sia vietnamiti. Sono passati molti anni da allora e oggi il monaco buddista ha 87 anni e propone una rivisitazione del buddismo che coniuga nonviolenza come pratica attiva nel quotidiano e meditazione. Il titolo di questo editoriale si ispira proprio al lavoro di Thich Nhat Hahn: non si tratta soltanto di avere o donare la pace (Dona nobis pacem è il titolo della bellissima musica di Mozart), ma di “essere pace”. In questo Thich Nhat Hanh riprende un grande insegnamento tradizionale del taoismo, di cui mi è già capitato di scrivere in un editoriale precedente: quello che abbiamo dentro, troviamo fuori. Essere pace allude ad un percorso interiore di pacificazione profonda che avvicina lo stato di pace, violenza e guerra al nostro modo di essere interiore. Pace o guerra non sono stati del mondo che stanno là fuori, lontano e sui quali ci pare di non poter praticare controllo alcuno. Sono in primo luogo stati interiori che possiamo praticare e frequentare nel quotidiano, nelle relazioni professionali e affettive. Ciò non toglie che possiamo e dobbiamo continuare a pensare e a occuparci attivamente delle vicende che dal 15 marzo del 2011 sconvolgono la Siria. Ma c’è anche un altro livello di responsabilità su cui ope- Thich Nhat Hanh

rare, sul quale abbiamo un potere completo e di cui possiamo assumere interamente la responsabilità: è la pace dentro di noi. Insomma vorrei proporre una concezione di pace non come variabile discreta (pace-guerra), ma come un continuum che va dalla pace come esito della pratica quotidiana dell’“essere pace” e della nonviolenza alla violenza estrema che si esplica nel caso delle azioni di guerra. Peraltro si tratta davvero di una variabile processuale. Non ci sono soltanto luoghi di pace e/o luoghi di guerra. Sì certo, in alcune aree del mondo la densità del conflitto è tale che la pace diventa impossibile per tutti. Ma ci sono anche luoghi di guerra che permangono nel tempo e nello spazio della presunta pace. Penso alla controversa vicenda del G8 di Genova e ai terribili episodi di violenza che si sono verificati dal 19 al 22 luglio del 2001 (l’assalto alla scuola Diaz, le torture inflitte ai giovani fermati nella caserma Bolzaneto). Uno degli episodi più

Non si tratta soltanto di avere o donare la pace (Dona nobis pacem è il titolo della bellissima musica di Mozart), ma di “essere pace”. In questo Thich Nhat Hanh riprende un grande insegnamento tradizionale del taoismo: quello che abbiamo dentro, troviamo fuori sconvolgenti degli ultimi dieci anni della storia d’Italia, in cui c’è stata la completa sospensione di tutti i diritti civili dei giovani no global oggetto di queste violenze. Come possiamo estendere la pratica della pace nel nostro paese? Riceviamo e volentieri pubblichiamo in queste pagine la lettera appassionata del neoeletto sindaco di Lampedusa, che ci racconta sgomenta di aver dovuto ricevere ventun corpi di persone annegate nel mare che circonda l’isola. Erano immigrati, cittadini del mondo in viaggio verso la pace. Mentre la Diaz è un caso eclatante di violenza fisica, la morte di questi immigrati è un caso di violenza strutturale, per ritornare alla distinzione proposta da Galtung. In questa lettera aperta, Giusi Nicolini si chiede sgomenta: «quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?» Appunto, quanto deve essere grande?


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Architetture di pace Quando le pietre segnano il corso della storia: il Ponte di Mostar, il Muro di Berlino, il Vallo di Adriano Il giorno 9 novembre succedono due eventi di grande significato e rilievo storico: nel 1989 cade il Muro di Berlino e nel 1993 viene distrutto il Ponte di Mostar. Sono due opere architettoniche di importanza molto diversa. Il Muro di Berlino non ha infatti alcun valore artistico, mentre ha una notevole Mario Panizza importanza strategica sia militare che politica; al contrario il Ponte di Mostar, simbolo della città, è uno dei più interessanti esempi di costruzioni in muratura a campata unica del XVI secolo, ma non costituisce nessun limite strategico-militare. L’abbattimento di queste due costruzioni assume immediatamente nel mondo un significato molto chiaro: con la demolizione del Muro di Berlino si avvia la pacificazione all’interno di una città che era stata dal 1961 il simbolo di una guerra molto dura, proseguita anche dopo la sua fine segnata dalla Conferenza di Jalta del 1945, che separava due mondi politici e militari, quello occidentale e quello dell’est; con il bombardamento del Ponte di Mostar si inaspri-

Il Ponte di Mostar ricostruito

sce invece un conflitto interetnico, iniziato nel 1992 che, fino ad allora, l’esistenza di quell’opera architettonica aveva contribuito a tenere lontano. Nella città di Mostar il fiume Neretva non rappresentava un vero e proprio limite e il Ponte era attraversato giornalmente da un gran numero di persone che, sebbene distribuite per composizione etnica, non vivevano la città come due settori separati. La presenza del Ponte era il vero elemento di pace e rendeva possibile la comunicazione fisica tra culture e religioni diverse. Musulmani e Croati avevano convissuto tranquillamente. I primi occupavano la parte est, i secondi quella ovest. Dopo l’aggressione dei Serbi, Croati e Musulmani iniziarono a combattersi tra di loro, in casa propria, nei luoghi che avevano condiviso per tanto tempo. Con le cannonate dei soldati croati la capitale dell’Erzegovina rimane divisa in due e finisce un mondo che per secoli, fino alla Jugoslavia di Tito, aveva convissuto nel rispetto delle diversità. Il bombardamento del Ponte, un danno artistico e culturale immenso, “costruisce” la vera cesura all’interno della città, generando una barriera insormontabile, militarmente molto efficace. Finché era rimasto in piedi, anche durante il periodo del conflitto, gli abitanti potevano passare, seppure a rischio di essere colpiti, da una parte all’altra della città, mentre con la sua demolizione la popolazione musulmana rimane

primo piano

di Mario Panizza

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tra. Rifiutava di cadere». (Paolo Rumiz, “La Repubblica” 2 novembre 2003). La ricostruzione dello Stari Most (“vecchio ponte”, da cui prende il nome la città), dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco, termina il 22 luglio 2004 e rappresenta il segno tangibile di una pace che con molta fatica si sta cercando di inseguire. Riprende anche la tradizione dei tuffi nella Neretva, con i ragazzi che si sfidano gettandosi dal “vecchio ponte”: il 27 luglio si tiene addirittura una gara ufficiale. La “Jugoslavia delle diversità” non è tuttavia superata e

Parti conservate del Muro di Berlino

imprigionata in una enclave priva di acqua potabile dalla quale è impossibile fuggire e soprattutto difendersi. «Quando crollò, il 9 novembre del 1993, la valle della Neretva si riempì di silenzio. I cannoni tacquero, muti davanti al ponte vecchio che non c’era più. Il rimbombo si spense, poi tacquero pure i cecchini. Quelli dei bosniaci, che l’avevano costruito quattro secoli prima. E quelli dei croati, che l’avevano tirato giù a colpi di granate. L’intera Mostar si fermò. Tutti, intorno, capirono che qualcosa di terribile era accaduto. Una lacerazione nella comunità, una ferita non rimediabile. Non era caduto solo un ponte, ma un simbolo grandioso di unione fra Oriente e Occidente. Senza di esso, la Bosnia stessa perdeva la ragione di esistere. Fu allora, nella luce del tramonto, che si vide una cosa inattesa. La parabola invisibile del vecchio ponte ottomano, la sua linea perfetta a schiena d’asino, sopravviveva al crollo del manufatto in pie-

Il giorno 9 novembre succedono due eventi di grande significato e rilievo storico: nel 1989 cade il Muro di Berlino e nel 1993 viene distrutto il Ponte di Mostar. Con la demolizione del Muro di Berlino si avvia la pacificazione all’interno di una città che era stata il simbolo di una guerra molto dura, che separava due mondi politici e militari; con il bombardamento del Ponte di Mostar si inasprisce invece un conflitto interetnico che, fino ad allora, l’esistenza di quell’opera architettonica aveva contribuito a tenere lontano la distruzione del 9 novembre 1993 ha marcato una lacerazione che per essere ricomposta richiederà ancora molto tempo. Solo quando le ferite saranno un


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ricordo remoto si potrà pensare di recuperare quella coesistenza pacifica tra le diversità che ha fatto nei secoli la storia di Mostar. A Berlino non esisteva nessuna barriera fisica che divideva la città: il limite è stato segnato nel 1961 da un muro molto aggressivo che, al contrario di come si possa immaginare, non separava la città in due parti, ma ne individuava una porzione all’interno di un territorio controllato militarmente da una potenza straniera. La demolizione dell’opera edilizia (due muri paralleli in cemento armato separati dal “corridoio della morte”) modifica completamente l’assetto urbano della città: quello che era periferia, soggetto a controlli e a pericolo, ridiventa il centro storico. La Porta di Brandeburgo è di nuovo il cuore fisico e simbolico di Berlino; intorno a essa cominciano a sorgere architetture importanti e innovative, sia dal punto di vista tecnologico che formale. In breve tempo la capitale tedesca diventa il punto d’incontro della gioventù europea che arriva per studiare e per conoscere quanto nel campo dell’arte e dell’architettura si sta sperimentando. La città non è impreparata a vivere questo periodo di sviluppo, perché già da più di un decennio il Municipio ha avviato importanti piani di sviluppo edilizio, proprio in previsione di una non lontana ricomposizione della città. I progetti dell’IBA coinvolgono i maggiori architetti in campo internazionale, richiamando curiosi e studiosi a vedere come si procede nella ricostruzione dei lotti interamente devastati dalla guerra. Dal 9 novembre 1989 Berlino è un fiorire di cantieri architettonicamente importanti, che la trasformano in un “museo al vero”: girando sembra di attraversare

Il Vallo di Adriano

un repertorio di opere, raccolte in esposizione permanente. Non è solo l’architettura che emerge da questo panorama, ma anche l’arte in genere che, attraverso gallerie contemporanee, si propone in alternativa alle

«Quando crollò, il 9 novembre del 1993, la valle della Neretva si riempì di silenzio. I cannoni tacquero, muti davanti al ponte vecchio che non c’era più. Il rimbombo si spense, poi tacquero pure i cecchini. Quelli dei bosniaci, che l’avevano costruito quattro secoli prima. E quelli dei croati, che l’avevano tirato giù a colpi di granate. L’intera Mostar si fermò» grandi esposizioni di New York e Parigi. Nelle piazze che affacciano lungo l’Unter den Linden capita di

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sentire prove d’orchestra e incontrarsi con tutte le popolazioni del mondo. Il segno della pacificazione è dimostrato dalla coesistenza di opere tra loro molto diverse che, come già detto, costruiscono un museo stilisticamente ricco ed eclettico: gli edifici neoclassici di Schinkel sono immersi in un tessuto urbano dove l’architettura moderna e post-moderna si confronta con le sagome prepotenti dei blocchi di ispirazione sovietica che disegnano il profilo dei grandi viali dell’ex Berlino est.

La Porta di Brandeburgo è di nuovo il cuore fisico e simbolico di Berlino; intorno a essa cominciano a sorgere architetture importanti e innovative, sia dal punto di vista tecnologico che formale Molti anni prima, in un periodo dell’alto medioevo che è difficile stabilire con precisione, un altro Muro viene abbattuto nel corso di un periodo alquanto lungo. È il Muro dell’imperatore Adriano, realizzato a partire dal 122, che segue da vicino la linea di confine tra l’Inghilterra e la Scozia. La sua costruzione impegna circa dieci anni e porta alla fine a un’opera lunga poco meno di 140 chilometri, alta tra 4 e 5 metri e profonda tra 2 e 3 metri. Il Muro serviva alla protezione della vulnerabile linea costiera della Cumbria nord occidentale e del Northumberland, mediante un sistema regolare di fortini e torri, posti rispettivamente a intervalli di un miglio romano e di un terzo di miglio. Si è accertato che, almeno in alcuni settori, i fortini e le torri erano protetti da due palizzate parallele che creavano un cordone difensivo. Il sistema proseguiva per almeno 40 chilometri oltre il termine del Muro di Αdriano e altri fortini, a circa 100 chilometri a sud, si trovavano nell’area di Ravenglass. Il Muro nasce quindi per difendersi e marcare con un limite chiaro i confini. Questo accade quando la capacità espansiva dell’impero è al termine ed è necessario frapporre una barriera verso i “barbari”. Il Muro o Vallo non è tuttavia una semplice linea difensiva: rappresenta un vero e proprio sistema urbanizzato con accampamenti e fortificazioni ben strutturate sia per i militari che per i civili. Gli edifici più interessanti dal punto di vista della tecnologia costruttiva sono infatti i magazzini del grano, posti all’ingresso dei forti e costruiti sollevati dal terreno, sempre bagnato, per consentire una costante ventilazione e una sicura protezione dalle incursioni dei topi. Anche quando devono difendersi, i Romani non dimenticano di urbanizzare, lasciando segnali di un possibile sviluppo che alcune targhe, poste tra le rovine, riconoscono ufficialmente. Con la fine dell’Impero, e durante la sua lunga agonia iniziata già nel IV secolo, il Muro perde progressivamente la sua funzione difensiva e si apre attraverso i molti varchi che rimettono in comunicazione le regioni della Britannia non più occupate dall’esercito romano. Questo si sfalda e i suoi soldati non tornano a Roma. Sono ormai Britan-

ni: qui hanno la famiglia, lavorano e coltivano la terra. Il Muro non è più uno strumento, anche se solo simbolico, di offesa bellica e, smantellato poco a poco, diventa una preziosa cava di pietra per costruire i villaggi che in epoca medievale sorgeranno lungo la linea tracciata circa tre secoli prima da Adriano. Oggi, visitando la Cumbria e il Northumberland, le vestigia romane sono molto rarefatte: per trovarle è necessario andare a cercarle a Vindolandia o affidarsi a mappe molto dettagliate che individuino resti un po’ scomposti, alti quasi mai più di 120 centimetri. In compenso si scopre che i piccoli villaggi che si incontrano lungo la strada sono incredibilmente omogenei. Le case sono fatte delle stesse pietre e la loro disposizione non si discosta molto dal tracciato dell’antico Vallo. I sassi utilizzati per edificare il Muro, una volta terminata l’occupazione militare, svolgono l’utilissimo compito di edificare case e costruire un panorama perfettamente rispettoso dell’ambiente e delle risorse naturali del posto. Ancora oggi il tracciato di Adriano costituisce un segno di pace e soprattutto di conoscenza: è utilizzato da camminatori o ciclisti che, avviandosi per un percorso leggermente collinare, vanno da costa a costa scoprendo i resti dell’evoluta ingegneria romana, immersa nei tipici paesaggi del territorio tra l’Inghilterra e la Scozia, ricco di verde, animali e pozze d’acqua ampiamente rappresentato dai vedutisti ottocenteschi.

Con la fine dell’Impero romano, e durante la sua lunga agonia iniziata già nel IV secolo, il Vallo di Adriano perde progressivamente la sua funzione difensiva e si apre attraverso i molti varchi che rimettono in comunicazione le regioni della Britannia non più occupate dall’esercito romano. Il Muro non è più uno strumento di offesa bellica e, smantellato poco a poco, diventa una preziosa cava di pietra per costruire i villaggi che in epoca medievale sorgeranno lungo la linea tracciata circa tre secoli prima da Adriano Anche a Berlino il Muro demolito è un’ambita meta turistica, ma più per cogliere immagini-souvenir, fatte di graffiti, che non per interpretare una storia che, ancora troppo recente, non va al di là della curiosità, per i più giovani, e della memoria di un periodo molto buio, per chi l’ha vissuto. Il Ponte di Mostar è in un’area ancora solo teoricamente pacificata: la sua architettura, anche se non più autentica ma ricostruita, ha tuttavia la qualità della tradizione storica e, sicuramente, potrà servire a riunificare popoli che, ritrovando i segni del loro passato, potranno tornare a convivere e riconoscersi in un’opera patrimonio dell’intera umanità.


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Il diritto come forza di pace Il ruolo della giustizia penale internazionale di Flavia Lattanzi L’obiettivo perseguito dagli Stati con la creazione nel 1945 delle Nazioni Unite era quello di imporre la pace attraverso il diritto (Kelsen, Peace Through Law, 1944). Ciò ha acquisito una ulteriore e maggiore valenza per il fatto che il sistema staFlavia Lattanzi bilito nel Capo VII della Carta delle Nazioni Unite di imporre la pace anche con il ricorso a un esercito ONU non si è mai concretamente realizzato per l’opposizione dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza (C.d.S.) a mettere le proprie forze armate a disposizione di un organismo militare che avrebbe dovuto operare in loco sotto un comando unificato. Di fronte a questa opposizione insuperabile – di tutti i membri permanenti – all’esercito troppo ottimisticamente pensato a San Francisco, il C.d.S. è riuscito a istituire e far funzionare a nome e per conto dell’Organizzazione come tale, quale timido surrogato, soltanto le Forze di pace. Queste Forze sono armate in modo leggero e inviate in loco soltanto con il consenso del sovrano territoriale e non sono quindi in grado di imporre la pace al di sopra e contro la volontà dei belligeranti, neppure nei casi in cui ricevano un mandato più incisivo, come quello di peace-enforcement, che rappresenta una funzione più di polizia in situazioni di violenza sistematica e su larga scala che un Esercito in grado di imporsi a eserciti – di stati e gruppi armati – organizzati e dotati di strumenti bellici spesso anche sofisticati. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la via della pace attraverso il diritto è stata perseguita dal C.d.S. con maggiore determinazione e fantasia nell’inventarsi nuove misure coercivite non armate volte a questo obiettivo. Tra queste misure svolgono un ruolo particolarmente significativo i due tribunali penali creati direttamente dal Consiglio e chiamati a determinare le responsabilità individuali di pianificatori, istigatori, comandanti militari e politici, complici ed esecutori di atti di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità commessi in ex-Iugoslavia e in Ruanda. Dei due suddetti tribunali e della mia esperienza come giudice ad litem prima del TPIR e poi del TPIY mi sono già precedentemente occupata su questa rivista. Qui mi limiterò a prenderli in considerazione, insieme agli altri meccanismi internazionali a carattere penale creati successivamente, sotto l’aspetto del contributo che la loro attività possa dare (o aver dato) al ristabilimento

della pace nelle due regioni rientranti nella loro competenza e dunque anche alla pace internazionale. Gli altri tribunali penali sorti nel quadro dell’attività delle Nazioni Unite per la repressione di crimini di rilevanza internazionale basano la loro ragione di essere, da una parte, sull’accertamento ad opera del C.d.S. della minaccia alla pace esistente in alcune regioni del mondo e, dall’altra, su un accordo internazionale fra l’Organizzazione e lo Stato coinvolto. Essi hanno quindi un carattere ibrido, interno-internazionale, tanto nella composizione quanto nelle norme che applicano, essendo queste essenzialmente norme internazionali sostanziali e processuali. Mi riferisco qui al Tribunale speciale per la Sierra Leone istituito nel 2000 per la repressione dei crimini commessi in quel Paese durante il conflitto, il Tribunale sui generis per il Libano, creato nel 2007 e che si occupa essenzialmente dell’assassinio, nel febbraio 2005, di Hariri e di altre 21 persone, gli special panels per i crimini commessi a Timor-est durante l’occupazione indonesiana (1975-1999) e che hanno operato dal 2000 al 2006, le Camere straordinarie di Cambogia per i crimini commessi dai Khmer rossi tra il 1975 e il 1979, decise purtroppo solo nel 2003 e ancora in funzione tra mille difficoltà. È così che in alcuni Paesi – Bosnia-Erzegovina, Kosovo – sono sorti tribunali essenzialmente interni a relativa partecipazione in-

È ormai radicata nella coscienza della comunità internazionale l’idea che una delle vie per ristabilire la pace è quella della repressione a livello internazionale dei crimini che, soprattutto nei conflitti interni, vengono commessi in modo sistematico non solo contro i combattenti, ma soprattutto contro la popolazione civile e in particolare contro la parte più debole di tale popolazione, anziani, donne e bambini ternazionale (di giudici e personale), che applicano anch’essi direttamente norme internazionali in materia di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra contro accusati che il TPIY ha lasciato alla responsbilità delle giurisdizioni locali. È dunque ormai radicata nella coscienza della comunità internazionale l’idea che una delle vie per ristabilire la pace è quella della repressione a livello internazionale dei crimini che, soprattuto nei conflitti

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La sede della corte penale internazionale, a L’Aja

interni, vengono commessi in modo sistematico non solo contro i combattenti anche se disarmati dell’una e dell’altra parte, ma altresì e soprattutto contro la popolazione civile, in particolare contro la parte più debole di tale popolazione, anziani, donne e bambini. Infatti, negli statuti dei meccanismi sopra menzionati si imputa ai suddetti crimini una minaccia per la pace e all’impunità dei responsabili un ostacolo al perseguimento della riconciliazione. La comunità internazionale ha preso altresì coscienza del fatto che la via migliore per la pace è quella della prevenzione delle violenze e degli stessi conflitti armati. Tale obiettivo può essere efficacemente perseguito da un tribunale internazionale a carattere permanente e a competenza potenzialmente universale rispetto a situazioni future, piuttosto che da tribunali penali straordinari creati ex post facto.

Nel 1998 è stato adottato in virtù di un accordo fra Stati lo Statuto della Corte penale internazionale (CPI) per la repressione di crimini collegati o meno con conflitti armati, dunque anche per crimini contro l’umanità commessi in tempo di pace È così che nel 1998 è stato adottato in virtù di un accordo fra Stati lo Statuto della Corte penale internazionale (CPI) per la repressione di crimini collegati o meno con conflitti armati, dunque anche per crimini contro l’umanità commessi in tempo di pace. Il TPIY ha emanato atti di accusa contro 161 imputa-

ti e spiccato altrettanti mandati di arresto, tutti eseguiti. È noto che gli ultimi tre accusati a lungo latitanti, Karadzic, Mladic e Hadzic, sono anch’essi ormai sotto processo davanti al Tribunale. Alla luce dell’esperienza che deriva a un giudice soprattutto dalle testimonianze viva voce delle decine e centinaia di testimoni e testimoni-vittime chiamati per ogni singolo processo dal procuratore e dalla difesa, posso qui sostenere che la pace in ex-Iugoslavia tiene. Lì si è altresì intrapreso un difficile processo di riconciliazione fra le tre comunità protagoniste del conflitto, grazie anche all’attività del TPIY e nonostante la comunità internazionale abbia perseguito la soluzione ambigua della nascita di nuovi Stati su base etnica cristallizzando così il risultato di un crimine, la pulizia etnica, che il Tribunale ha qualificato come genocidio. Questo Tribunale chiuderà i suoi battenti il 30 giugno 2013, quattro processi restando però da completare in prima istanza insieme agli eventuali appelli relativi agli assolti o condannati entro quella data. La pace tiene anche in Ruanda, dove il processo di riconciliazione nazionale ha avuto uno sviluppo veramente significativo, al quale ha contribuito decisamente il TPIR anche grazie alla stretta cooperazione giudiziaria instaurata con le autorità locali e ai trasferimenti alla giurisdizione locale di alcuni accusati e di alcuni dossiers processuali, che questo Tribunale aveva elaborato senza però arrivare agli atti di accusa. Questo Tribunale, completati i processi contro 72 accusati, ha chiuso i battenti il 30 giugno 2012, salvo per alcuni casi in appello. Peccato che esso non si sia

In ex-Iugoslavia si è intrapreso un difficile processo di riconciliazione fra le tre comunità protagoniste del conflitto, grazie anche all’attività del TPIY e nonostante la comunità internazionale abbia perseguito la soluzione ambigua della nascita di nuovi Stati su base etnica cristallizzando così il risultato di un crimine, la pulizia etnica, che il Tribunale ha qualificato come genocidio mai occupato dei crimini di cui sono sospettati, secondo le inchieste condotte dal Procuratore, alcuni fra gli insorti tutsi. Ma i risultati di tali inchieste non sono mai arrivati davanti alle Camere. Gli Stati usciti dalla disintegrazione della ex-Iugoslavia, come anche il Ruanda, hanno ormai ricostruito e rinnovato il loro sistema giudiziario grazie tanto all’assistenza internazionale che all’attività dei due Tribunali, i quali hanno anche contribuito alla formazione dei giudici locali, rendendoli così in grado di applicare ai crimini di rilevanza internazionale norme internazionali. Gli speciali tribunali interni con caratteri di internazionalità operanti in Bosnia-Erze-


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govina e in Kosovo continuano validamente l’opera del TPIY. È di questi giorni la firma di un accordo di cooperazione per le inchieste fra le Procure della Bosnia Erzegovina e della Serbia. Per i crimini del Ruanda l’attività del Tribunale internazionale è stata affiancata dalle procedure Gacaca, e cioè la giustizia amministrata dai saggi del villaggio, secondo vecchie consuetudini locali adattate alla nuova situazione, procedure che, però, lasciano qualche dubbio quanto alla garanzia dei diritti della difesa. Il Ruanda ha eliminato la pena di morte, e ciò al fine di poter chiedere il trasferimento dei restanti accusati ad opera del TPIR o dei sospettati che hanno trovato rifugio presso alcuni Stati (Italia compresa).

Gli Stati usciti dalla disintegrazione della ex-Iugoslavia, come anche il Ruanda, hanno ormai ricostruito e rinnovato il loro sistema giudiziario grazie tanto all’assistenza internazionale che all’attività dei due Tribunali, i quali hanno anche contribuito alla formazione dei giudici locali, rendendoli così in grado di applicare ai crimini di rilevanza internazionale norme internazionali Anche in Sierra Leone si è ormai stabilizzato un processo di pacificazione nazionale fra i diversi gruppi protagonisti della guerra civile terminata nel 2002 grazie anche all’attività del Tribunale speciale che ha concluso i quattro processi in prima istanza e tre in appello. La popolazione locale ha avuto inoltre la soddisfazione di vedere riconosciuta da questo Tribunale la responsabilità per complicità del Capo di uno Stato straniero – l’ex-Presidente della Liberia – per i gravi crimini di cui soprattutto i civili erano stati vittime durante il conflitto (è terminato nel 2012 il processo in prima istanza contro Taylor, l’ex Presidente liberiano, con una condanna a cinquanta anni di reclusione per complicità nei crimini ). Nonostante l’intensa attività svolta dai panels speciali per i crimini di Timor Est, i responsabili sono tut-

tora latitanti, poiché l’Indonesia, da cui quel Paese ha definitivamente acquisito l’indipendenza nel 2002, si è rifiutata di consegnare i propri cittadini autori di quei crimini. Forse anche in ragione di questa giustizia in parte abortita, Timor Est è ancora lungi dall’aver trovato la via per una pacificazione. In Libano la situazione è tuttora critica, visto che questo Paese è coinvolto nella delicata questione israelo-palestinese. Del resto, il Tribunale speciale non è riuscito per ora a fare arrestare nessun sospettato di quel massacro del 2005 o di altri fatti analoghi di sua competenza e un processo contro un imputato sarà a breve aperto, ma in contumacia. Nessun contributo hanno dato alla riconciliazione nazionale né alla pace locale e internazionale le Camere straordinarie per i crimini dei Khmer rossi, visto il grave ritardo con cui quelle Camere sono state istituite. Peraltro, nonostante la distanza temporale da quei nefasti avvenimenti, esse fronteggiano molti ostacoli nella loro attività, in ragione di interferenze politiche che dimostrano come la complicità con quel gruppo di criminali sia ancora forte nel Paese (e non è mancata, purtroppo, la complicità anche di un giudice di nomina internazionale, come sembra emergere da una quasi-inchiesta delle Nazioni Unite). Lo strumento internazionale di carattere penale che dovrebbe, come ho già rilevato, poter garantire al meglio una corretta amministrazione della giustizia penale internazionale nel perseguimento dell’obiettivo della pace è la CPI. Come vedremo, però, l’attivita di questo Tribunale permanente e potenzionalmente universale presenta ancora tante ombre. Un ruolo positivo ha svolto la CPI nel processo di pacificazione nella Republlica democratica del Congo, sostanzialmente realizzato su quasi tutto il territorio, con rinnovate gravi difficoltà in alcune zone come i Kivus e l’Ituri, dove i grandi interessi che la ricchezza in coltan, diamanti e oro suscita in alcuni Stati, porta questi ad alimentare il conflitto piuttosto che a cooperare per spegnerlo. La Corte, attivata dallo stesso governo congolese nel 2004, si è occupata con una certa efficienza dei crimini commessi in quel Paese. Due accusati sono stati giudicati in prima istanza in due diversi processi e l’uno è stato condannato a 14 anni di reclusione per il reclutamento forzato

Radovan Karadzic e Ratko Mladic a processo, 17 anni dopo la pulizia etnica in Bosnia Erzegovina

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una larga partecidi fanciulli mentre pazione di affilial’altro è stato assolti tanto al goverto e posto in libertà no al potere che in attesa della senai ribelli. tenza di appello su Una situazione ricorso del procuanaloga a quella ratore. È stato libedella Repubblica rato anche un altro centroafricana, congolese per ma forse ancora mancata conferma, più grave, si è vea maggioranza, rificata per i cridell’atto di accusa mini della Costa da parte della Cad’Avorio, Stato mera preliminare. che aveva accetSignificativo appatato ad hoc la re, inoltre, che docompetenza della po che la CPI è stata investita dal Nura Begovic e Hajra Catic, due donne bosniache, seguono in TV il processo a Karad- Corte già nel 2003. Ma solo Consiglio di sicu- zic. Sullo sfondo le foto delle vittime del massacro di Srebrenica nell’ottobre 2011 la Corte ha deciso di aprire un’inrezza della situazione di Darfur, il governo sudanese chiesta, dopo i ripetuti massacri di civili nello sconsia pervenuto a concludere un accordo di pace con la tro fra il presidente sconfitto nelle elezioni del 2010, più importante delle forze ribelli e che esso abbia al ma ancora al potere, e i sostenitori del Presidente ricontempo istituito un tribunale speciale per i crimini sultato vincitore e sostenuto internazionalmente. di quella regione. Purtroppo, però, resta l’ombra oscuLa CPI si occupa per la prima volta anche di crimini ra del mandato di arresto emanato dalla CPI nei concontro l’umanità non collegati con un conflitto armafronti del Capo dello Stato sudanese, ma non eseguito to e cioè delle violenze scoppiate in Kenya durante la per ragioni politiche che hanno trovato eco perfino nel campagna elettorale del 2007. Sei kenioti sono comquadro dell’Unione africana. La mancata esecuzione parsi volontariamente davanti alla Corte, che ha condi tale mandato, per via della mancata cooperazione fermato gli atti di accusa nei confronti di quattro di degli Stati, che continuano a ricevere le visite di quel loro respingendone due. Due degli accusati sono canCapo di Stato senza consegnarlo alla Corte, nonostandidati alle prossime elezioni di quest’anno, ma la te vi siano obbligati in quanto parti dello Statuto, ha campagna elettorale, nonostante i duri attacchi verdato un pessimo segnale alle diverse parti a confronto, bali alla Corte, si svolgono senza ricorso a violenze. sicure che si possa godere dell’impunità. Ciò ha portaCiò significa che la determinazione della Corte nel to tanto a riaccendere la tensione fra esse che al ritorperseguire anche politici di alto livello ha contribuito no alle violenze. a cercare la via della parola piuttosto che quella delle L’attività della Corte ha certamente dato uno stimolo violenze e delle armi. anche al processo di pacificazione nazionale nella siMolto complessa è la situazione della Libia portata tuazione dell’Uganda, nonostante la non esecuzione davanti alla CPI dal C.d.S. Questo Paese si rifiuta di dei mandati di arresto contro cinque leader delle forconsegnare alla Corte i destinatari di un atto di accuze ribelli del Nord del Paese, che sono tuttora in fuga sa (uno dei figli di Gheddafi, Seif al Islam e il capo (uno è deceduto) nei Paesi africani limitrofi al Nord dei servizi segreti libici Abdallah al Senussi), pretendel Paese. L’Uganda ha emanato una legge di amnidendo di avere la priorità nella competenza a giudistia che si rivolge a tutti i ribelli che depongano le arcarli e la Corte si è mostrata troppo cauta di fronte a mi e ciò ha contribuito alla reintegrazione dei “pesci queste pretese. La situazione politica interna è infatti piccoli” sospettati di crimini nella vita del Paese. ancora molto confusa e appare, anche alla luce della Per quel che riguarda la Repubblica Centroafricana fine di Gheddafi, ben lungi dal poter garantire promerita qui rilievo il fatto che nel 2007 si era raggiuncessi interni equi e sicuri contro gli sconfitti. to l’accordo con i ribelli proprio in connessione con Mentre si sta per aprire un’inchiesta davanti alla CPI l’apertura, tardiva (la situazione di violenza era stata per i crimini nel Mali, Stato parte dello Statuto di rinviata alla Corte dallo Stato in questione nel 2003), Roma, nulla si sta facendo relativamente ai crimini di un’inchiesta sui crimini commessi in quel Paese dell’attuale conflitto in Siria, la quale non è parte durante la guerra civile e si è subito dopo assistito, dello Statuto, ma la cui situazione potrebbe essere secondo quanto risultava da alcuni rapporti delle rinviata alla Corte dal C.d.S.: qui entra in gioco la seONG, a una diminuzione delle violenze contro i civilettività di questo organo delle Nazioni Unite. li. Purtroppo, l’accordo non ha trovato piena attuaPurtroppo, la selettività che porta perfino la Corte a zione e la tensione fra il regime al potere e i gruppi occuparsi soprattutto di una parte del continente afriche ad esso si oppongono si è riaccesa. Del resto, la cano, mentre il Nord Africa, il Medio Oriente, l’ACorte ha impiegato altri due anni prima di emanare merica latina, l’Asia e perfino qualche Paese euroun atto di accusa e peraltro lo ha fatto contro uno sopeo, sono afflitti da una violenza sistematica, la manlo dei sospettati dei crimini, che hanno invece visto


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cata cooperazione degli Stati alle inchieste del procuratore e all’esecuzione delle decisioni delle Camere, la cautela che la Corte assume rispetto alla non cooperazione e la lentezza con cui essa opera, sono tutti fattori tesi a rendere l’impatto della sua attività sui processi di pace e di riconciliazione nazionale piuttosto modesto. Ma forse è ancora presto per poter valutare a pieno l’efficacia della sua attività nel perseguimento della pace internazionale. Una delle critiche più frequenti alla giustizia penale internazionale è che essa operi in modo selettivo tanto rispetto alle situazioni che alle persone sospettate di crimini. È certo che la non selettività rappresenta un elemento importante della realizzazione del fine pressoché utopico di liberare l’umanità dal flagello delle guerre internazionali e interne e dunque da violazioni gravi e sistematiche dei diritti elementari della persona umana che a tali conflitti sempre si accompagnano. Varie possono essere le ragioni che portano il C.d.S. a occuparsi di alcune situazioni drammatiche e di tacere su altre. Ci sono purtroppo ragioni politicostrategiche, ma anche ragioni contingenti dipendenti dal momento storico, dall’eco che gli avvenimenti trovano nei media, ma soprattutto dall’esistenza di un accordo a intervenire fra i membri permanenti del C.d.S. Tutto ciò non inficia, a mio avviso, la bontà della decisione del Consiglio di far reprimere i gravi crimini nelle situazioni che ho menzionato.

Per i crimini del Ruanda l’attività del Tribunale internazionale è stata affiancata dalle procedure Gacaca, e cioè la giustizia amministrata dai saggi del villaggio, secondo vecchie consuetudini locali adattate alla nuova situazione, procedure che, però, lasciano qualche dubbio quanto alla garanzia dei diritti della difesa Del resto, proprio la criticata selettività ha portato a cercare altre vie, come l’istituzione di una corte permanente. Quanto alla selettività rispetto alle persone messe sotto accusa, il fatto che la giustizia penale internazionale raggiunga pochi rispetto ai tanti sospettati di gravi crimini non inficia, a mio avviso, il principio di imparzialità fra i sospettati: anzi, il fatto di occuparsi soprattutto delle persone che portano le maggiori resonsabilità («who bear the greatest responsibility», secondo l’espressione usata dal C.d.S.) è una scelta fatta in nome proprio dell’imparzialità che solo una giustizia distaccata dalle passioni dei luoghi dei crimini può assicurare, soprattutto allorché si tratti di giudicare pianificatori, organizzatori, istigatori, comandanti militari e politici, alcuni dei quali – proprio quelli posti al vertice della catena di comando – godono dell’immunità dalla giurisdizione locale e da quella di altri Stati. Del resto, è nell’essenza stessa della giustizia penale internazionale, in particolare di quella amministrata dai due Tribunali

Reazioni alla condanna dell’ex presidente liberiano Charles Taylor. Il Tribunale speciale delle Nazioni Unite per la Sierra Leone lo ha condannato a 50 anni di prigione per crimini di guerra e contro l’umanità; Taylor è accusato di aver appoggiato il Fronte Rivoluzionario Unito durante la guerra civile in cambio di “diamanti insanguinati”. I ribelli sono responsabili di migliaia di omicidi, stupri e violenze: le vittime di quegli 11 anni di guerra sono state quasi 50.000.

ad hoc e dalla CPI, privi di un contatto fisico con i territori teatro del conflitto, con i testimoni, con i sospettati e con le vittime, di non potersi occupare di tutti quelli che siano sospettati di aver commesso crimini di rilevanza internazionale in una determinata situazione (in Ruanda i sospettati sono ben 1.000.000!). Resta alle giurisdizioni statali il compito di assicurare una giustizia più capillare, non lasciando impuniti neppure i cosiddetti “pesci piccoli”. Preso atto di questo limite della giustizia penale internazionale, è d’uopo considerare che è molto importante, proprio ai fini del ristabilimento della pace, che questa giustizia operi in modo del tutto imparziale. Merita rilevare in proposito che tutti gli strumenti qui considerati applicano regole molto rigorose nel rispetto dei diritti della difesa e che offrono, quindi, le migliori garanzie di imparzialità. Ed è indubbio che, al di là degli standard dell’equo processo applicati dalle giurisdizioni internazionali, queste più di quelle statali possono porsi super partes nel perseguire un Capo di Stato o di governo, un alto comandante militare, un “signore della guerra”. Da questa breve descrizione della giustizia penale internazionale, l’obiettivo del ristabilimento e mantenimento della pace che essa persegue appare più utopico che mai, come sembrano mostrare i conflitti in corso e i crimini che si commettono in Siria, in Mali, l’impunità per i crimini che entrambe le parti a confronto hanno commesso nel nord dell’Uganda e in Libia, i crimini che si continuano a commettere in Darfur e in Costa d’Avorio e nel contesto di altri conflitti ormai dimenticati dalla comunità internazionale e dai mass media, come quello nei Kivus o quello colombiano, che mietono migliaia di vittime. Ma le utopie sono sempre state il motore per fare progredire l’umanità nelle conquiste per il suo benessere. E forse, come spero di essere riuscita qui a mostrare, anche la giustizia penale internazionale dà un piccolo contributo a trasformare l’utopia in realtà.

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Nient’altro che la verità Riconciliazioni nazionali e costruzione della pace sociale in America Latina di Maria Rosaria Stabili Gli ultimi quarant’anni del Novecento latinoamericano sono stati segnati da colpi di stato militari e conflitti armati di durata e intensità diverse. Una pesante contabilità di detenzioni, torture, morti, scomparse forzate è stata denunciata dagli organismi internazionali e dall’opinione pubblica Maria Rosaria Stabili mondiale. Dai primi anni Ottanta si avviano, nella regione, graduali processi di ricostituzione dello Stato di Diritto. Il problema etico e politico di come “amministrare” il lascito delle violazioni dei diritti umani perpetrate nel periodo immediatamente precedente è uno dei problemi prioritari più complessi dei nuovi governi rappresentativi. Infatti, in alcuni paesi, istituzioni, gruppi e personalità politiche responsabili degli atti criminali, continuano a occupare posti di rilievo sullo scenario pubblico e a gestire, anche nella fase della transizione politica, considerevoli fette di potere in una “sorprendente” continuità con il passato. La questione etica e politica di come affrontare le eredità di un passato repressivo diventa centrale nella definizione delle forme e dei modi che si vogliono adottare per la costruzione di uno Stato democratico e nella scelta di adottare politiche economiche e sociali che sembrano imposte da un mondo ormai globalizzato. In alcuni paesi uno dei primi atti dei governi di transizione è la formazione di commissioni d’inchiesta ufficiali per accertare la verità sulle violazioni dei diritti umani consumatesi nel periodo precedente. Dal 1982, anno in cui si forma la prima in Bolivia, sino ad oggi, quasi tutti i paesi della regione creano le loro Comisiones de la Verdad y Reconciliación Nacional (CVR). In alcuni di essi, come Cile, Guatemala, Paraguay, Perù, si conta con il lavoro di più commissioni. Persino in Costarica e Messico, che pure non sono nel novero dei paesi che hanno sperimentato discontinuità politiche violente, si formano commissioni d’inchiesta per specifici episodi di repressione. Varia la loro origine giuridica e politica, i criteri con cui si scelgono le personalità che le compongono, la quantità e qualità delle attribuzioni. Tutte, però, si configurano come organismi pubblici extragiudiziari che, in un tempo definito al momento della loro istituzione, hanno il compito di accertare le violazioni dei diritti umani commessi nel passato re-

cente, custodirne le prove, individuarne i responsabili, riabilitare le vittime, rendere pubblico il loro lavoro attraverso la compilazione di una relazione finale. Tale relazione deve contenere anche raccomandazioni perché i gravi fatti indagati non possano ripetersi nel futuro e deve suggerire misure di riparazione nei confronti delle vittime. Obiettivo finale della ricerca della verità storica, morale e politica è la riconciliazione nazionale considerata fondamento della costruzione dell’ordine democratico e della pace sociale. Conviene forse riflettere un momento sui concetti che, indipendentemente dal titolo, designano tutte le commissioni d’inchiesta: verità e riconciliazione nazionale. Concetti reiterati, quasi abusati e consumati da tutti gli attori politici e sociali delle transizioni latinoamericane e che provocano non poche divisioni e contrapposizioni nel dibattito politico.

La questione etica e politica di come affrontare le eredità di un passato repressivo diventa centrale nella definizione delle forme e dei modi che si vogliono adottare per la costruzione di uno Stato democratico e nella scelta di adottare politiche economiche e sociali che sembrano imposte da un mondo ormai globalizzato Iniziamo dal termine verità. Di quale verità si tratta? Storica, morale o anche, per certi versi, giudiziaria, benché le competenze delle commissioni siano espressamente extragiudiziarie? Si tratta di una verità “possibile”, socialmente costruita, che deve “adeguarsi” alle esigenze della congiuntura? È una verità della memoria delle vittime, dei loro vissuti e sofferenze e quindi essenzialmente una verità “riparatrice” come alcuni dei membri delle varie commissioni sostengono? È una verità “negoziata”, “pattuita” in funzione della riconciliazione in società lacerate e in cui le contrapposizioni sono tutte ancora irrisolte? È una verità che, in una congiuntura storica determinata, uomini e donne, con nome e cognome, con la loro biografia e che incarnano i poteri di uno Stato, riconoscono e assumono come fondamento per la costruzione di una nuova identità, pubblica e collettiva? Non è certamente possibile operare distinzioni nette e, in realtà, tutte queste verità si sovrappongono o si coniugano in modo diverso nelle varie esperienze latinoamericane. L’oggetto della faticosa ricerca della verità sono le violazioni dei Diritti Umani. Per quanto scontato e


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mente la responsabilibanale possa apparire, tà delle loro azioni e ritengo importante rinon chiedono perdocordare che si tratta dei no? L’uso di questo diritti “elementari”, concetto, che appartie“fondamentali” della ne alla sfera religiosa, persona e cioè del dimorale, individuale ritto alla vita e all’intenon è, a dire poco, grità fisica e morale. problematico? In Un insieme, quindi, liAmerica latina è stato mitato che, in alcuni e continua a essere casi, è condito con una utilizzato con troppa spolverata di diritti cifrequenza nella riflesvili e politici. Gli altri sione teorica e nella cosiddetti diritti di citsfera dell’azione politadinanza, quelli ecoConsegna al presidente Patricio Aylwin del rapporto finale della Commistica come “necessità” nomici e sociali, la cui sione nazionale per la verità e la riconciliazione cilena, il 9 febbraio 1991 e “dover essere” sociaconquista ha segnato le. «Posso riconciliarmi soltanto con qualcuno che ribuona parte della storia del Novecento, anche di conosce il dolore e i danni che ha provocato e chiede quello latinoamericano, rimangono, in sostanza, fuori perdono», afferma una vittima cilena del terrorismo dall’indagine. Sorge allora una domanda: è possibile di Stato durante il regime militare del generale Pinoparlare di transizioni democratiche e pace sociale, a chet. cavallo tra secondo e terzo millennio, quando questi Forse la riconciliazione nazionale, pensata come uniultimi si tralasciano? Non è, questo, un arretramento ca garanzia per la costruzione della pace sociale, è storico preoccupante? soltanto speranza per un futuro lontano, realizzata Il termine “riconciliazione”, invece, allude alla vodalle generazioni che non hanno vissuto personallontà di raggiungere la pace sociale attraverso la comente i fatti traumatici e quando tutti i loro autori sastruzione dello Stato di diritto, capace di offrire le ranno morti e sepolti. garanzie politiche, sociali ed economiche a tutti i Nel caso latinoamericano l’idea di fondare i processi di riconciliazione nazionale soltanto sulla base della Di quale verità si tratta? Storica, verità ricostruita e riconosciuta ufficialmente non ha riscontri nelle dinamiche concrete che continuano ad morale o anche, per certi versi, essere pesantemente segnate da rancori e contrappogiudiziaria, benché le competenze delle sizioni acuite dalle profonde disuguaglianze sociali. commissioni siano espressamente Per tentare di spiegare le difficoltà dei processi di riextragiudiziarie? Si tratta di una verità conciliazione è forse utile fare riferimento a casi concreti e le vicende peruviane offrono un terreno di ri“possibile”, socialmente costruita, che flessione utile. deve “adeguarsi” alle esigenze della La spirale di orrori in cui il Perù entra nel 1980 e congiuntura? È una verità della che si conclude nel 2000, ha tratti inediti. Sono memoria delle vittime? È una verità vent’anni segnati da governi civili autoritari, lotte interne e violazioni dei diritti umani che vedono “negoziata”, “pattuita” in funzione una pluralità di forze in campo variamente respondella riconciliazione? Non è possibile sabili. Lo Stato da un lato e i gruppi sovversivi operare distinzioni nette e, in realtà, dall’altro (in modo particolare il Partito Comunitutte queste verità si sovrappongono sta peruviano-Sendero luminoso e, in misura minore, il Movimento Rivoluzionario Túpac Amaru), rappresentano le forze principali contrapposte e suoi cittadini. Anche l’uso di questa parola contribuispecularmente responsabili ma, tra gli interstizi sce a creare dubbi e tensioni tra l’opinione pubblica della contrapposizione, s’insinuano gruppi e orgalatinoamericana, probabilmente in ragione del fatto nizzazioni che rendono ancor più fosco il quadro che, in passato e in America Latina, è stata troppe generale. È un pezzo di storia recente in cui venvolte sinonimo di amnistia e impunità. Anche qui gli gono al pettine nodi irrisolti di più lungo periodo, interrogativi sono molti. Com’è possibile che una soaggravati dai tentativi di modernizzazione autoricietà che ha vissuto contrapposizioni e lacerazioni taria dei vari governi in carica, peraltro miseraviolente nel tessuto sociale possa riconciliarsi? La mente falliti. I metodi sono sempre gli stessi: severità accertata dei crimini, le misure di riparazione questri, torture, violazioni, morte. Nel 2000, uno nei confronti delle vittime adottate dalle istituzioni scandalo finanziario di grandi proporzioni vede dello Stato sono elementi sufficienti a garantire la ricoinvolti i servizi di sicurezza, lo stesso Presidente conciliazione nazionale quando la giustizia non riedella Repubblica e spazza via i vertici del potere. sce a condannare i responsabili dei misfatti oppure Dopo appena due settimane dall’assumere il manquando essi non accettano di assumersi pubblica-

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dato, il Presidente provvisorio, Valentín Paniagua nomina, nel novembre 2000, una Commissione della Verità con il mandato urgente di fare chiarezza sulle violazioni dei diritti umani occorse tra il 1980 e il 2000. La commissione, riconfermata nell’agosto 2001 dal neoeletto Presidente Alejandro Toledo col nome di “Commissione della Verità e della Riconciliazione” presenta la sua relazione finale che viene resa pubblica nell’agosto 2003. I dati che essa presenta sono impressionanti: circa 70.000 morti; 4.600 fosse comuni; 215 massacri di comunità indigene imputati a Sendero Luminoso e più di 122 ad agenti dello Stato; mezzo milione di ri-

Forse la riconciliazione nazionale, pensata come unica garanzia per la costruzione della pace sociale, è soltanto speranza per un futuro lontano, realizzata dalle generazioni che non hanno vissuto personalmente i fatti traumatici e quando tutti i loro autori saranno morti e sepolti fugiati interni e un numero incalcolabile di vittime sopravvissute a ogni sorta di violenze e abusi. Ugualmente impressionante è la distribuzione di responsabilità: il 46% è attribuito a Sendero Luminoso; il 30% alle Forze armate; il 24% alle ronde contadine, ai comitati di autodifesa e ai gruppi paramilitari. Il danno economico di due decenni di conflitto armato interno è stimato in 26 miliardi di dollari dell’epoca. Il Presidente della Repubblica Toledo dichiara di avallare pienamente il lavoro effettuato dalla Commissione, accoglie le raccomandazioni proposte e decreta immediatamente lo stan-

ziamento di quasi tre milioni di dollari per le riparazioni nei confronti delle vittime e l’esecuzione di opere sociali nelle zone più colpite dalla violenza. L’impegno della Commissione e le parole del Presidente della Repubblica alimentano una speranza di giustizia molto forte. Tuttavia, Toledo non dà seguito al carattere vincolante delle raccomandazioni che ancora oggi sono ignorate dal mondo politico e dalla società civile. La sostanziale mancata realizzazione delle raccomandazioni della Commissione e delle misure di riparazione da essa indicate, provocano una delusione profonda tra le vittime sopravvissute e i familiari di quelle scomparse. La verità sulle violazioni dei diritti umani insieme alla mancata punizione dei responsabili, molti dei quali continuano a vivere impuniti a fianco delle loro vittime, acuisce la frustrazione e la rabbia di queste ultime. La società peruviana continua a essere spaccata: come scrive Mario Vargas Llosa, sotto una fragile e sottile facciata di modernità e civiltà il Perù continua a nascondere tutta la barbarie di un sistema retto dalla legge del più forte, dove gli istinti peggiori prevalgono sulla ragione e il razzismo, l’ignoranza e la brutalità senza limiti dominano sia i rapporti dei potenti nei confronti dei deboli, sia i rapporti tra i deboli. L’esercizio della giustizia e lo sviluppo macroeconomico continuano a favorire e proteggere i ceti sociali privilegiati mentre quelli più fragili e soprattutto la stragrande maggioranza della popolazione indigena pagano il prezzo delle profonde disuguaglianze economiche e sociali. Circola voce che alcuni nuclei del gruppo guerrigliero Sendero Luminoso si stiano ricostituendo proprio nei luoghi in cui, negli anni Settanta del secolo scorso, avevano mosso i primi passi. Insomma riconciliazione e pace, in Perù, sono per ora lontane dalla loro realizzazione.


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Sudafrica: la Commissione per la verità e la riconciliazione di Gaia Bottino «Quale beneficio scaturisce dalla verità? Come può aiutare a sapere dove e come i propri cari sono stati uccisi o seppelliti?» Winnie Mandela, ex moglie dello storico leader dell’African National Congress e primo presidente nero sudafricano dopo Gaia Bottino le elezioni dell’aprile 1994, pronunciò queste parole, che subito fecero il giro del mondo, nel marzo 2010. L’attività della Commissione per la verità e la riconciliazione, istituita con il Promotion of national unity and reconciliation Act del 26 luglio 1995, non fu quella di rispondere al dramma della segregazione razziale in Sudafrica con altre persecuzioni nei confronti di coloro che avevano calpestato diritti umani inalienabili ma di dare l’opportunità alle vittime di confrontarsi pacificamente con i loro carnefici. I processi infatti, non si proponevano di sapere solo chi fosse la vittima e chi il carnefice ma di cercare di capire in tutte le sue sfaccettature e in tutta la sua complessità, ciò che era successo, non solo per indagare il passato, ma soprattutto per ricostruire il futuro. La Commissione si articolava in tre sottocomitati indipendenti che collaboravano strettamente: • Il sottocomitato delle violazioni dei diritti dell’uomo che aveva il compito di trovare le vittime sottoposte a torture, i desaparecidos, persone uccise durante i conflitti politici o sottoposte a gravi maltrattamenti e di organizzare incontri pubblici durante i quali le vittime parlavano delle violazioni subite; momenti fondamentali perché permettevano alle vittime di recuperare la loro dignità. Gli incontri venivano ripresi dalla televisione e trasmessi in diretta dalla radio, in tutte le lingue ufficiali parlate in Sudafrica. • Il sottocomitato per l’amnistia si occupava dei processi e aveva il compito specifico di esaminare le richieste di amnistia per le gravi violazioni dei diritti dell’uomo; il requisito

necessario per poter chiedere l’amnistia da parte dei colpevoli, era quello di dichiarare tutto ciò che si era commesso e assumersi delle responsabilità definite e precise. Il colpevole doveva riferire in modo specifico di ogni persona uccisa o torturata e spesso accadeva che venisse interrogato dalla persona sopravvissuta alle sue torture. In tribunale solitamente, l’accusato ha sempre la tendenza a proteggersi e a non rivelare la verità sulle azioni compiute. Nel processo per l’amnistia invece, dire la verità permetteva all’accusato di evitare la condanna. • Il sottocomitato addetto alla riparazione e alla riabilitazione aveva il compito specifico di esaminare i casi di ciascuna vittima e di decidere le misure adeguate di risarcimento e riabilitazione. A volte si trattava di cure mediche per risolvere le conseguenze delle torture alle quali gli individui erano stati sottoposti e che non erano mai state curate; altre volte si trattava di permettere alle persone di riprendere gli studi interrotti o di trovare loro un lavoro; altre chiedevano di poter intitolare una strada o una scuola in memoria di una persona cara scomparsa. Si voleva così fornire alle vittime l’aiuto necessario per garantire che il processo della Commissione per la verità e la riconciliazione ricostruisse la loro dignità e per formulare proposte politiche sulla riabilitazione e la guarigione dei superstiti e delle loro famiglie. La Commissione per la verità e la riconciliazione espletò un enorme mole di lavoro: tra il 1996 e il 1998 vennero ascoltate oltre 20.000 persone e la sua attività ebbe una grande risonanza, monopolizzando per quasi due anni l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione. L’opinione prevalente in Sudafrica è che proprio grazie all’operato della Commissione, è stato possibile fondare e consolidare la democrazia: la Commissione infatti, ha dato voce a chi non l’aveva mai avuta, ha portato sotto lo sguardo del mondo gli orrori dell’apartheid, ha lenito le ferite della nazione. La Commissione mirava alla riconciliazione ma attraverso il perseguimento di una giustizia fondata sulla verità, la chiave di volta del sistema sociale. Su di essa infatti, riposano la giustizia e la pace.

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Donne e beni comuni Le radici etiche del vivere quotidiano di Francesca Brezzi «Noi vogliamo ottenere una pace duratura attraverso la sostituzione progressiva dell’arbitrato alle guerre, che causano da tempo la crescita delle tasse e sono causa di rovina per tutte le nazioni. Se ci affideremo alle donne – poiché è ad esse che è affidata la prima educazione dei bambini e se Francesca Brezzi questi vengono cresciuti nella stima dei grandi valori intellettuali e morali – noi avremo la speranza di poter ottenere nel corso di qualche generazione un reale perfezionamento dell’umanità». Così nel lontano 1905 in un testo di donne impegnate nelle battaglie sociali (ma anche le suffragette in quegli anni portavano in primo piano tematiche antimilitariste e pacifiste) si metteva già a fuoco un tema che genericamente possiamo porre sotto il segno “donne e pace”, tema che rappresenta un filo rosso talvolta presente nella grande Storia, più spesso sotterraneo e da ricercare con cura. Per il primo aspetto si potrebbe instaurare un ipotetico dialogo con quelle grandi figure di donne – di differenti paesi e di competenze diverse – che hanno ricevuto il premio Nobel per la pace, premio che dal 1905 – ottenuto da Jane Adams, grande educatrice americana – via via fino ai nostri giorni ha portato all’attenzione del mondo figure come Wangari Maathaï (Kenya), Shirin Ebadi (Iran), Jody Williams (Usa), Rigoberta Menchu Tum (Guatemala), Aung San Suu Kyi (Birmania) solo per ricordarne alcune, fino al 2011 che ha visto riconosciute nel loro impegno la presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf, la sua compatriota Leymah Gbowee, attivista pacifista, e Tawakkol Karman, giornalista yemenita fortemente coinvolta nella lotta per i diritti umani. Giustamente è stato detto da Thorbjoern Jagland, presidente del Comitato per il Nobel, che il premio rappresenta un riconoscimento per la «lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del diritto a partecipare al processo di pace». Ma a questo corrisponde la microstoria o meglio la necessità di ricercare quelle iniziative, riflessioni e azioni, presenze carsiche, che hanno come fine ultimo non solo la pace, ma un vivere migliore per tutti (fini che dovrebbero coincidere). Ritengo infatti che il tema della pace o della guerra non cada dal cielo all’improvviso e che non sia sem-

plicemente un argomento di politica estera, ma rappresenti l’esito di un processo culturale in cui le nuove generazioni (da qui l’importanza dell’università) sono chiamate ad intervenire in prima persona. Ci aiuta un famoso libro di Virginia Woolf, Le tre ghinee, che schiude una vastità di riflessioni: «Il modo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi. Non è di entrare nella vostra associazione, ma di rimanere fuori pur condividendone il fine. E il fine è il medesimo: affermare il diritto di tutti – di tutti gli uomini e di tutte le donne – a vedere nella propria persona i grandi principi della Giustizia, dell’Uguaglianza e della Libertà». Questo testo, scritto nel 1938, quando si avvertivano venti di guerra, è quindi in consonanza con i movimenti di donne che con passione rifiutavano la logica della violenza, come abbiamo letto nella citazione iniziale. Virginia Woolf – come è noto – alla richiesta di offrire un contributo ad una associazione maschile per la pace risponde (paradossalmente) in maniera negativa ritendendo che le tre ghinee vadano spese per rendere le donne autonome e libere: la prima servirà per la costruzione di un college femminile, la seconda per sostenere un’associazione in difesa delle donne che lavorano, ed infine la terza ghinea per tutelare la cultura e garantire la libertà di pensiero, perché solo la totale emancipazione delle donne contribuirà a prevenire la guerra.

«Noi vogliamo ottenere una pace duratura attraverso la sostituzione progressiva dell’arbitrato alle guerre (…) che sono causa di rovina per tutte le nazioni. Se ci affideremo alle donne, poiché è ad esse che è affidata la prima educazione dei bambini e se questi vengono cresciuti nella stima dei grandi valori intellettuali e morali, noi avremo la speranza di poter ottenere nel corso di qualche generazione un reale perfezionamento dell’umanità» Noi in questa occasione vogliamo raccogliere l’invito di Woolf e segnalare alcuni percorsi (ecofemminismo, beni comuni) del pensiero femminile che si fa pratica, prassi concreta per il raggiungimento di una società migliore perché giusta e pacifica. Ma è prassi che deriva da una riflessione, come il femminismo ha mostrato, che rivendichi una apertura e un rico-


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Wangari Maathaï (Kenya), Shirin Ebadi (Iran), Jody Williams (USA), Rigoberta Menchu Tum (Guatemala), Aung San Suu Kyi (Birmania), Ellen Johnson Sirleaf (Liberia), Leymah Gbowee (Liberia), e Tawakkol Karman (Yemen). Donne premi Nobel per la pace

noscimento delle differenze, un pensiero che si costituisce nella relazionalità, in uno scambio di parole, gesti, significati da compiersi insieme, pensiero destrutturante e ricostruttivo, critico e creativo al contempo: un progetto critico che mette in discussione le forme di discriminazione e di esclusione che i saperi patriarcali perpetuano e insieme un progetto creativo, che apre spazi alternativi all’autorappresentazione e autodeterminazione intellettuale delle donne. Pensare quindi non più quale mero esercizio concettuale o di passiva ripetizione di riflessioni altrui, in quanto l’esperienza – comportamenti, azioni, passioni – sconvolge gli ordini di giudizio già esistenti e dominanti. Il discorso radicato nell’esperienza può avere una forza di trasformazione e la parola femminista può avere effetti politici, come adesso vedremo. Un ambito che costituisce in qualche misura la cornice

Il tema della pace o della guerra non cade dal cielo all'improvviso e non è semplicemente un argomento di politica estera, ma rappresenta l'esito di un processo culturale in cui le nuove generazioni (da qui l’importanza dell’università) sono chiamate ad intervenire in prima persona più generale del tema che qui abbozziamo è rappresentato dalla cosiddetta “prospettiva di genere”, applicata al settore “pace e sicurezza”, cioè in situazioni di conflitto, dimensione che si è affermata negli ultimi anni come uno degli aspetti più innovativi e caratterizzanti del settore della cooperazione internazionale (e ricordiamo come Roma Tre fin dalla sua creazione abbia istituito un Master in Peacekeeping). Come afferma una esperta della tematica quale Luisa Del Turco tale approccio si dipana sia nella attenzione

alle sofferenze delle donne nelle situazioni di conflitto armato, ma soprattutto introducendo «la considerazione del loro ruolo attivo nella promozione della pace, dando luogo ad una vasta produzione di programmi e politiche che promuovono, oltre ad azioni specifiche di protezione e assistenza, la partecipazione delle donne ai tavoli negoziali e nei processi decisionali e la loro introduzione stabile nei ruoli del personale impiegato nell’ambito delle attuali missioni internazionali». Ne è derivato un forte sviluppo sul piano normativo: lo ius in bello, particolarmente per le previsioni riguardanti la protezione dei non combattenti (in maggioranza donne),circa l’assistenza umanitaria e soprattutto per la repressione di crimini specifici (tra cui lo stupro di guerra); lo ius contra bellum, soprattutto per quanto riguarda le modalità di intervento che prevedono un’azione integrata a più livelli, comprensiva di attività informali e di lungo termine in cui più spesso sono coinvolte le donne. Apparentemente lontana da questo settore, ma a nostro parere paradigmatico esempio di prassi innovative – produttive di pace, in cui le donne sono protagoniste – è la riflessione e poi le pratiche conseguenti intorno ai “beni comuni”. Anche in questo caso è significativo ricordare una interlocutrice molto interessante, Elinor Ostrom, premio Nobel (2009) per l’economia, premio significativo per tanti motivi (anche se nel nostro paese non si è data la necessaria risonanza). Significativo ed epocale, innanzitutto che sia stato assegnato per la prima volta ad una donna, in secondo luogo perché si è premiata la visione interdisciplinare di Ostrom che auspica la necessità di cooperazione fra le diverse discipline, nella visione di integrare piani analitici diversi. Infine e soprattutto Elinor Ostrom ha individuato con autorevolezza l’esistenza di una terza via tra Stato e mercato, che si oppone sia a una concezione privatistica dei beni (sfruttamento eccessivo) che ad una pubblicisti-

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Vandana Shiva

Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia 2009

ca, che dà luogo a costi amministrativi troppo elevati. La studiosa propone di considerare il bene comune come res communis omnium e non come res nullius, dove il nucleo pratico e pragmatico è l’esistenza di una comunità l’appartenenza alla quale impone agli individui certi diritti di sfruttamento del bene comune (i cosiddetti diritti a livello individuale o operazionali), ma anche determinati doveri (i cosiddetti diritti a livello collettivo o di amministrazione) di provvedere alla sua gestione. Sempre in questa prospettiva finalizzata a realizzare la pace vanno lette le prassi concrete delle donne come i movimenti femminili per lo sviluppo, e la cooperazione, riassumibili nell’ecofemminismo: ricordiamo solo le battaglie per l’acqua pubblica di Vandana Shiva, le manifestazioni per la salvaguardia delle foreste dei popoli dell’Amazzonia, per la terra nel Chiapas e nel Brasile etc. che sono alcuni esempi di beni comuni. Interessante ancora (e inaspettato forse) il movimen-

quanto include anche prospettive culturali altre; spiritualità concepita non in contrapposizione a corporeità nel senso platonico, ma come forza integrante ed essenziale della vita, più in profondità essa deve essere compresa, come azione di trasformazione della società, non dunque in senso ascetico, ma come energia, non come chiusura in se stessi, ma come vitalità che opera nel sociale. La Sofia, dicono queste autrici, ha lottato, era presente nelle piazze, nelle strade, era partecipe e agiva, concretamente in favore delle donne, dei bambini e della terra. In quest’ultima affermazione emerge l’ecofemminismo, ossia l’amore, la cura e la responsabilità per l’ambiente, responsabilità tale che prima di compiere una certa azione si debba pensare alle conseguenze che questa avrà per almeno sette generazioni, e qui irrompe l’etica intergenerazionale di Jonas, non solo, ma è necessario lasciar riposare la terra e farla germogliare di nuovo, prestare attenzione alla gestazione, alla gravidanza collettiva della Terra, dare tempo alla terra stessa di ricreare. Le teologhe – infine – affermano che non dobbiamo usare le metafore di lotta, di guerra, in maniera superficiale, perché queste hanno sempre una carica di aggressività, che può ingabbiare e deformare la spiritualità, ma dobbiamo provare a sostituirle con altre, si deve inventare un simbolismo nuovo, quello che dice resistenza, conoscenza attiva, paradosso, frontiera, cammino, processo: «il nostro (di donne) modo di vivere, pensare, amare e credere è spesso impregnato da queste espressioni, immagini, simboli e metafore. È pertanto arrivato il momento di proporle come alternativa alla spiritualità patriarcale della lotta intesa come guerra» come sostiene Mercedes Navarro Puerto. Conclusivamente vorremmo sottolineare come sviluppare un tema quale le donne e la pace ci riconduca alle radici etiche del nostro vivere quotidiano, radici fragili, da me altrove definite inquiete e problematiche, ma tali da mettere a tema le scelte concrete che il soggetto si trova ad affrontare. Si può dire che le questioni etiche sono questioni e inquietudini autobiografiche, problemi umani che hanno a che fare con la complessità della vita stessa, e la ricerca della pace può essere colta come un mettersi alla ricerca e sulle tracce delle dimensioni che ci aiutano a vivere, a trovare uno stile di vita per stare in pace con noi stessi e con gli altri.

Il movimento delle teologhe femministe, oltre ad operare per la liberazione delle donne, esprime teorizzazioni di grande valore, e disegna una divinità più appagante le domande della contemporaneità; pertanto propone un Dio che risponde alle questioni nodali dell’umanità, quali possono essere in primo luogo il bisogno di pane, pace e giustizia, una Divinità che libera gli oppressi, riportando in primo piano la tradizione della Sapienza to delle teologhe femministe – in specie del sud del mondo – che oltre ad operare per la liberazione delle donne, esprimono teorizzazioni di grande valore, e disegnano una divinità più appagante le domande della contemporaneità; pertanto propongono un Dio che risponde alle questioni nodali dell’umanità, quali possono essere in primo luogo il bisogno di pane, pace e giustizia, una Divinità che libera gli oppressi, e riportano in primo piano la tradizione della Sapienza, che esprime una spiritualità polisemica e feconda, in


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«Di chi sono questi morti?» Lettera aperta di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa e Linosa

Sono il nuovo sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio 2012, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per Giusi Nicolini me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola? Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce. Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica

europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore. In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre come è successo sabato scorso, i libici che erano a sole 30 miglia dai naufraghi ed avrebbero dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche. Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umani a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza. Giusi Nicolini

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Mettere le ali alla pace Le mille gru di Sadako Sasaki di Michela Monferrini in forma di gru (l’uccello che rappresenta una lunga viSe nasci il 7 gennaio 1943 a ta), e una storia di speranza, una leggenda alla quale Hiroshima, a un chilometro credere non sarebbe costata nulla. La credenza popolae settecento metri dal punto re voleva che chi fosse riuscito a costruire mille gru in cui viene sganciata la utilizzando la tecnica dell’origami, avrebbe potuto bomba atomica quando hai esprimere qualunque desiderio, e quello si sarebbe di due anni e mezzo, se vieni certo realizzato. Sadako partiva da uno, un origami, e sbalzato fuori dalla tua caun pensiero: la bambina che già sapeva di essere una meretta attraverso la finestra vittima dell’atomica, non avrebbe chiesto la guarigione e però sopravvivi, allora forper sé, ma la pace per tutti. se l’unica tua passione, negli Secondo molti, per circa un anno, avrebbe costruito ben anni a venire, potrà essere Michela Monferrini oltre mille origami; secondo altri, si sarebbe invece ferl’atletica, la corsa. Forse cremata a poco più di seicento, ma il migliaio sarebbe cosci soltanto col pensiero di correre via, di correre più munque stato raggiunto grazie all’aiuto dei suoi amici. lontano possibile, più veloce possibile. Sadako Sasaki, Sadako morì nell’ottobre 1955, circondata da gru reala figlioletta del barbiere del quartiere di Kusonokilizzate con ogni tipo di carta – compreso il cartoncino cho, era sopravvissuta. Intorno a lei i feriti erano stati delle scatole dei medicinali –, e i suoi origami furono innumerevoli; sua madre, per esempio, come molti, era rimasta accecata dalla grande luce dell’impatto e della Chi fosse riuscito a costruire mille gru deflagrazione. Però proprio sua madre, stringendola a sé, l’aveva trascinata in salvo senza vedere la pioggia usando la tecnica dell’origami avrebbe di cenere nera che cadeva loro intorno e le ricopriva; potuto esprimere qualunque desiderio quella cenere radioattiva, velenosa, assassina. Ma la faseppelliti con lei. Amici e compagni di classe aprirono miglia Sasaki in qualche modo ce l’aveva fatta, dopo subito una raccolta fondi – nutrita soprattutto dalle doun paio di anni il padre aveva persino rimesso in piedi nazioni provenienti da studenti di ogni luogo del Giapla bottega e l’attività, e Sadako era cresciuta sana, forpone – per la realizzazione della statua raffigurante Sate, talmente sana e forte da poter coltivare la passione dako nell’atto di lanciare una piccola gru verso il cielo, per l’atletica. Era piccola: un metro e trenta per venticome nel tentativo di farle spiccare il volo. Oggi la stasette chili, ma correva velocissima, più veloce di tutte tua è considerata il monumento commemorativo di tutle sue compagne; sette secondi e mezzo in cinquanta ti i bambini morti a causa dell’atomica; si trova nell’metri. Hiroshima Peace Memorial, e una targa sottostante reSi stava allenando per una gara di corsa anche il giorno cita: «Questo è il tuo pianto. La nostra preghiera. Pace in cui erano arrivate le vertigini, e un improvviso svenel mondo». I visitatori che vi si recano assecondano nimento. Poi il gonfiore di una ghiandola sul collo, le l’usanza di lasciare ai piedi di Sadako una piccola gru macchie rosse sulle gambe, la diagnosi che aveva detdi carta e un mesto: leucemia. La saggio di pace, e il bomba sganciata 6 agosto di ogni quando aveva poco anno in molti si più di due anni, ora danno appuntale esplodeva dentro, mento per lanciare a undici; succedeva in alto le gru, e fara molti, a troppi: con le volare per un atil tempo, l’atomica timo nel cielo di moltiplicava le sue Hiroshima. Le fivittime. Ricoverata gurine di carta alin un ospedale della lora si librano; sosua città, Sadako no leggere e veloaveva ricevuto nei ci, sono forse l’imprimi tempi della magine più fedele malattia la visita di di una piccola una sua piccola amibambina che si alca: Chizuko portava con sé una figurina Il monumento che rappresenta Sadako nell’atto di lanciare una gru, nell’Hiroshi- leni per una gara di corsa. di carta, un origami ma Peace Memorial


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Peace and the social condition Seeking social justice and human dignity di Jeffrey Goldfarb There are dilemmas that are intrinsically built into the social fabric. The form of social interaction in a field of human endeavor makes conflict and contradiction inevitable. I call this the social condition, the topic of my most recent research project. This condition is nowhere more evident than when we pursue peace, avoiJeffrey Goldfarb ding violence, while seeking social justice and human dignity. In this essay, I will explore peace and the social condition: first by compactly illuminating the social condition as a general problem and then demonstrating that the pursuit of peace is a primary instance of the challenges of the social condition, drawing upon memories of personal struggles. I will then examine Barack Obama’s Nobel Peace Prize as it shows how a statesman can confront peace and the social condition. It is a complex story, with apparent hypocrisy, alongside of political ideals and ethical resolve. The social condition The form of social interaction that develops around the pursuit of an ideal or an interest always closes some possibilities, as it opens others. The way we associate constrains as it enables. This is built into human society and is a specific part of the human condition, one that is too often ignored or oversimplified. We are quite familiar with biological limits and possibilities, how the cycle of life and death disciplines our lives. But, we tend to ignore how the way we associate determines human fate, which we can work to move around, but cannot overcome. Consider some examples. It is obviously important for a democratic society to provide equal opportunity for all young people. The less privileged should have the advantages of a good education. This is certainly a most fundamental requirement for equal opportunity. On the other hand, it is just as certain that a good society, democratic and otherwise, should encourage and enable parents to provide the best, to

present the world, as they know and appreciate it, to their children: to read to them, to introduce them to the fine arts and sciences, and to take them on interesting trips, both near and far. But not all parents can do this as effectively, some have the means, some don’t. Democratic education and caring for one’s own children are in tension. The social bonds and interactions of citizenship and the social bonds and interactions of family are necessarily in tension. This tension, in many variations, defines a significant dimension of the social condition.

Another dimension of the social condition was illuminated in a classic lecture, Politics as a Vocation, by Max Weber: the tension between what he called the “ethics of responsibility” versus the “ethics of ultimate ends” Another dimension of the social condition was illuminated in a classic lecture, Politics as a Vocation, by Max Weber: the tension between what he called the “ethics of responsibility” versus the “ethics of ultimate ends”. We can observe a popular iteration of this tension in the debate about Lincoln, the movie. In politics, there is always a tension between getting things done, as Weber would put it, responsibly, and being true to ones principles. Ideally the tension is balanced, as it was portrayed in the film: Lincoln the realist enabled Thaddeus Stephens, the idealist, to realize his ends in less than idealistic ways. A wise politician, Weber maintained, has to know how to balance, idealism with realism. But this tension goes beyond individual judgment and political effectiveness. Establishing the social support to realize ideals is necessary, but the creation of such supports can make it next to impossible for the ideals to be realized. Making sure that educational ideals are realized, for example, equal educational opportunity, requires measurement, but the act of measurement can get in the way of real education. Making sure that funds distributed by an NGO to disaster victims can get in the way of getting the funds to the victims. Most generally, organizing to achieve some end establishes the conditions for those who have their parti-

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cular interests in the organization itself to pursue their interests. NGOs often provide for a comfortable standard of living for their employees in impoverished parts of the world, sometimes this gets in the way of realizing organizational ends. But this is not a new development: Robert Michels described this in the early 20th century, as “the iron law of oligarchy.” I suggest that we think of this as a dilemma built into the social order of things. One of the most fundamental manifestations of the social condition animates the work of Erving Goffman. He explored the power of the Thomas theorem more intensively than any other social theorist. If people define situations as real, they are real in their consequences. Goffman was particularly interested in how in their expressive behavior people managed to define social reality. The dilemma arises when people disagree about the reality, are ambivalent about it, or even want to flee from it. A prime example is the concept and apparent reality of race. It’s a social construction, as every college freshman comes to know. It’s a fiction, but a fiction that we cannot ignore, a fiction that we continue to treat as real, becoming a social fact. To pretend it doesn’t matter, even as it does, is to flee from enduring social problems. But attending to the problems of race carefully has the unintended consequence of furthering its continued salience in social life. Recognize race and it continues to be real. Ignore race, and it is likely that you will ignore its continued negative effects. Controversies over affirmative action policies revolve around this dilemma of race. I worry when political actors pretend that the complications of the social condition can be easily overcome, following one formula or another, with negative political consequences. This is what motivates me to explore the topic, why I feel compelled to do so. I am concerned that bad sociology also pretends that these tensions are easily resolved, often with a theoretical slight of hand. We have to confront complexity, and this is no more apparent than when it comes to the issue of peace. Peace and the Force of Arms I remember struggling with the problem of peace as a young man. Subjected to the draft during the Vietnam War era, being a very early and precocious opponent to the war, I tried to convince myself that I was a pacifist. I read the writings of Gandhi and A.J. Muste. I looked into the pacifist activities of the Fellowship of Reconciliation. Although I realized that making the claim of being a Je-

wish pacifist would be practically difficult, I wanted to explore possibilities. But in the end, I gave up, because I could not convince myself that I would not fight against a Hitler, and I recognized then and see now that there are many other instances where I cannot oppose violence as a matter of absolute conviction. Sometimes force has to be used against force, and ironically often this seems to be the only way to support the ideal of a just peace. Yet, tragically, appreciating this also undermines the ideal of peace. This dilemma inevitably repeats itself (something that surrounds Obama’s peace prize and is at the center of his Nobel Lecture). More recently, I was not an enthusiastic supporter of either the first war in Iraq or the war in Afghanistan. It was not clear to me that a military response to either crisis was the appropriate one. But on the other hand, I could not in good conscience oppose either war. The slogan “No Blood for Oil” rang hollow. Those who claimed that these wars were absolutely wrong and were being fought for narrow material interest were unconvincing. America was attacked from bases that were protected and developed in the Taliban’s Afghanistan, and Saddam Hussein was indeed a brutal dictator who worked to create a totalitarian order, as Kanan Makiya, ably demonstrated in his gripping book, The Republic of Fear, and Saddam did attack Kuwait. The perceived enemy in both conflicts seemed to me to be a real one, and a military response was not clearly inappropriate. But, on the other hand, means do have a way of defining political action whether or not the ends are justified. The way the U.S. and its allies have fought these wars, the very fact that we responded to an attack with another attack and an invasion with another invasion, and the way our allies have ruled, have undermined the arguments for the war. And indeed the way the Gulf War was fought and the lessons that were drawn from the war cast into doubt its initial justification, especially as this was utilized for the George W. Bush’s war of aggression in Iraq. War against domination, in the name of justice, has a way of becoming a new form of domination, perpetuating more injustice. Yet, despite this, given the social complexity, I am not a pacifist as a matter of principle, though I still wrestle with this. I now realize that my personal quandary is part of a much larger problem of the social condition of peace. When I was a young man, I couldn’t commit myself to pacifism, because I appreciated that there were limits to non-violent resistance.


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Now I see, also, the limitations of violence, drawn to that position, not because of absolute conviction that turning to violent means is always morally wrong, but for practical reasons. For in the military resistance to fanaticism in Afghanistan and in the military resistance to tyranny in Iraq, the limitations of military action became apparent. Non-violence in fact may be more practical. This I came to know also through personal experience, for, I was an eyewitness to, and a foreign activist in, the velvet revolutions in Central Europe in the 1980s. Barack Obama and the Nobel Peace Prize The means have a way of determining the ends. This is the proposition, which has informed my self-reflections, thus far, and the proposition informs my review and analysis of President Obama’s Nobel Lecture as an exploration of the topic of peace and the social condition. I think Obama confronted complexity of the social condition, though the situation of his winning the prize was both awkward and rightly controversial from a variety of different points of view. Obama’s Peace Prize was exciting, strange and provocative. There was political poetry and hope in it: the better part of America and its relationship with Europe and the world were being celebrated, as there was the hope that the dark side of American hegemony had passed. But there was also confusion: exactly why did Obama win the prize?

Sometimes force has to be used against force, and ironically often this seems to be the only way to support the ideal of a just peace. Yet, tragically, appreciating this also undermines the ideal of peace. This dilemma inevitably repeats itself Obama’s critics saw in the prize confirmation that Obama was a cult figure, an eloquent player, but with no substance, winning the Nobel Prize for Peace before he accomplished anything on the global stage. Even his supporters were not sure exactly what to make of it. I was more convinced than most, but I understood my argument approving of his winning the Nobel Prize, published in Poland’s leading newspaper, Gazeta Wyborcza, as a provocation. Clearly, even Obama understood that there was a problem. As he noted in the opening of his lecture: «I would be remiss if I did not acknowledge the considerable controversy that your generous decision has generated. (Laughter.) In part, this is because I am at the beginning, and not the end, of my labors on the world stage. Compared to some of the giants of history who’ve received this prize – Schweitzer and King; Marshall and Mandela – my accomplishments

are slight». But he turned this to his advantage, at least in giving his speech. The speech became an exploration of the complex relationship between war and peace, as he put it: «the instruments of war do have a role to play in preserving the peace. And yet this truth must coexist with another – that no matter how justified, war promises human tragedy». He further reflected upon the role of political leadership, particularly his. It was a speech about the social condition and peace and his confrontation with this. Obama understood the larger issue. Although rightly appreciated for his dissent from the geo-political and military policies of his predecessor, and clearly more reluctant to engage in military aggression, less unilateral in his orientation and deeply critical of the war in Iraq from the beginning, all good reasons to identify him with peace, he was still the leader of the premier military power in the world. «But perhaps the most profound issue surrounding my receipt of this prize is the fact that I am the Commander-in-Chief of the military of a nation in the midst of two wars». The leader of the global hegemon as the Nobel Peace Laureate – he understood that there is a problem and made this the topic of his lecture. The dilemmas as he saw them in his lecture: «I come here with an acute sense of the costs of armed conflict – filled with difficult questions about the relationship between war and peace, and our effort to replace one with the other». He reviewed arguments for just wars, as he recognized that the need for such justification has been ignored for much of human history. Central values he identified were the fight for human rights and the struggle against human degradation, and also the need to minimize civilian causalities. But problems result. He observed: «And while it’s hard to conceive of a cause more just than the defeat of the Third Reich and the Axis powers, World War II was a conflict in which the total number of civilians who died exceeded the number of soldiers who perished». He noted that real enemies continue, even with the demise of the totalitarian threats of the twentieth century: «The world may no longer shudder at the prospect of war between two nuclear superpowers, but proliferation may increase the risk of catastrophe. Terrorism has long been a tactic, but modern technology allows a few small men with outsized rage to murder innocents on a horrific scale». And he drew the tragic observation: «We must begin by acknowledging the hard truth: We will not eradicate violent conflict in our lifetimes. There will be times when nations – acting individually or in concert – will find the use of force not only necessary but morally justified». Obama’s opponents accused him of making vacuous promises in his first Presidential campaign. We hear in his lecture quite the opposite. He was confronting the central difficulty. The pursuit of peace often includes the willingness to engage in military struggle, but that means peace, as an ideal, will, therefore, not

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red the possibilities be realized. for achieving peace Note: this paradox, in not through a radical his cogent account, is reform of human nanot the result of some ture, but “a gradual fundamental innate evolution of human aggressive drive, and institutions.” there is no need to po«To begin with, I besit evil or sin as the lieve that all nations – cause of the paradox. strong and weak alike Obama shows that we – must adhere to stanare locked into a didards that govern the lemma. Peace incluuse of force. I – like des the fight for rights any head of state – reand dignity, but in enserve the right to act gaging in the fight, unilaterally if necespeace can and often is sary to defend my naundermined. Aggressition. Nevertheless, I ve and sinful drives do am convinced that adnot explain this. It is Barack Obama ritira il premio Nobel per la pace 2012 hering to standards, woven into the fabric international standards, strengthens those who do, of social interaction. But Obama’s response to this and isolates and weakens those who don’t». suggests why his Nobel Prize may have had justificaIn light of recent events, specifically: the failure to tion. close the prison at Guantanamo, the drone program, secret operations and the like, these words seem to Meeting the challenge stand as an indictment of Obama’s own policies. I He started with humility, trying to stand on the think the remainder of the speech confirms this. shoulders of giants: «I do not bring with me today a Obama’s words stand as the basis of criticism of his definitive solution to the problems of war. What I own deeds, as his deeds suggests possible answers do know is that meeting these challenges will requito the criticism informed by his words. re the same vision, hard work, and persistence of «Furthermore, America – in fact, no nation – can those men and women who acted so boldly decades insist that others follow the rules of the road if we ago [referring here to the United Nations and the refuse to follow them ourselves. For when we doUniversal Declaration of Human Rights]. And it n’t, our actions appear arbitrary and undercut the lewill require us to think in new ways about the nogitimacy of future interventions, no matter how jutions of just war and the imperatives of a just peastified». ce». He understands that there have to be rules governing The humility is based on his sense of who he is and how he came to be delivering his lecture: «I make this statement mindful of what Martin Luther King Obama’s Peace Prize was exciting, Jr. said in this same ceremony years ago: “Violence strange and provocative. There was never brings permanent peace. It solves no social problem: it merely creates new and more complicapolitical poetry and hope in it: the better ted ones”. As someone who stands here as a direct part of America and its relationship with consequence of Dr. King’s life work, I am living teEurope and the world were being stimony to the moral force of non-violence. I know celebrated, as there was the hope that there’s nothing weak – nothing passive – nothing naïve – in the creed and lives of Gandhi and King». the dark side of American hegemony Yet, he also knows this is in tension with his prehad passed. But there was also sent responsibilities: «But as a head of state sworn confusion: exactly why did Obama win to protect and defend my nation, I cannot be guided by their examples alone. I face the world as it is, the prize? and cannot stand idle in the face of threats to the the conduct of military force in order for that force American people. For make no mistake: Evil does to have any chance to provide the basis of peace. exist in the world. A non-violent movement could Yet, he oversees and expands the unilateral use of not have halted Hitler’s armies. Negotiations cannot drone warfare without clearly articulated and geneconvince al Qaeda’s leaders to lay down their arms. rally agreed upon rules of this deadly military game. To say that force may sometimes be necessary is The Nobel Laureate Obama as critic of President not a call to cynicism – it is a recognition of hiObama: «Where force is necessary, we have a mostory; the imperfections of man and the limits of ral and strategic interest in binding ourselves to reason». certain rules of conduct. And even as we confront Informed by President John F. Kennedy, he explo-


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a vicious adversary that abides by no rules, I believe the United States of America must remain a standard bearer in the conduct of war. That is what makes us different from those whom we fight. That is a source of our strength. That is why I prohibited torture. That is why I ordered the prison at Guantanamo Bay closed. And that is why I have reaffirmed America’s commitment to abide by the Geneva Conventions. We lose ourselves when we compromise the very ideals that we fight to defend. And we honor – we honor those ideals by upholding them not when it’s easy, but when it is hard». But the Nobel Laureate would not be surprised by the President’s actions as he observed: «Even those of us with the best of intentions will at times fail to right the wrongs before us.» He presents guidance about how he should proceed, suggesting specific ways that we can build a just and lasting peace, with the different ways built upon a single vision. He explained in detail his position but then summarized: «Agreements among nations. Strong institutions. Support for human rights. Investments in development. All these are vital ingredients in bringing about the evolution that President Kennedy spoke about. And yet, I do not believe that we will have the will, the determination, the staying power, to complete this work without something more – and that’s the continued expansion of our moral imagination; an insistence that there’s something irreducible that we all share». … if we lose that faith – if we dismiss it as silly or naïve; if we divorce it from the decisions that we make on issues of war and peace – then we lose what’s best about humanity. We lose our sense of possibility. We lose our moral compass. Like generations have before us, we must reject that future. As Dr. King said at this occasion so many years ago, «I refuse to accept despair as the final response to the ambiguities of history. I refuse to accept the idea that the ‘isness’ of man’s present condition makes him morally incapable of reaching up for the eternal ‘oughtness’ that forever confronts him». Obama’s position is nuanced, thoughtful and political (in both the good and the bad sense). He identifies with radical peace advocates, those who present a principled opposition to violence, but as a responsible politician he cannot live by their principles alone. Thus, the tension between his stated ideals and his policies. There are two ways of interpreting this. Either he is a hypocrite or a statesman. He is able to depict ideals in his speech, and to declare commitment to their pursuit, but he is also committed to dealing with difficult realities in consequential ways in his actions. How we judge the relationship between the ideal and the reality is a matter of political opinion, more or less informed. Some are sure that Obama’s Peace Prize was undeserved and that his subsequent actions confirmed

this. Not only did he do little before he won the prize. Subsequently, he has not acted as a Nobel Peace Laureate should. He escalated the war in Afghanistan. The U.S. drone program has been greatly expanding during his watch, without clear justification and without a public specification of its limits. And under his leadership the U.S. played a key role in the war in Libya. In many ways, he has continued Bush’s policies and directions.

The leader of the global hegemon as the Nobel Peace Laureate – Obama understood that there is a problem and made this the topic of his lecture. The dilemmas as he saw them in his lecture: «I come here with an acute sense of the costs of armed conflict – filled with difficult questions about the relationship between war and peace, and our effort to replace one with the other» Others will counter that Obama actually has helped de-militarize American foreign policy, winding down two wars. He has publicly and clearly affirmed U.S. commitments to respect the Geneva Agreements and ended the American use of torture, so called “enhanced interrogation.” And under Obama’s leadership, American military engagements have been multilateral and debated in and supported by the United Nations. This was noteworthy Libya, and is being repeated right now in Mali. His policy of “leadership from behind” which is much ridiculed by his militaristic critics, certainly appears as a step in the direction of a more peaceful world order. The term refers to a change in the use of American force in the world. It suggests that the U.S. will not use military force on its own without international support. Rather than imposing American will with America’s overwhelming power, he seeks to embed American power within internationally legitimate concerted actions. I actually appreciate both this support and criticism of Obama. Both are consistent with Obama’s lecture. On the positive side, in a threatening world, he has somehow managed to work for the ideal of peace, but he has also fallen short of the very ideals that he has publically embraced. His lecture illuminates both the criticism and the appreciation, worthy of careful consideration by those concerned with the issue of peace in our times. The commander in chief of the world’s most powerful military force struggling with the dilemmas of the power at his disposal, an intriguing exercise, worthy of a Nobel Peace Prize Laureate, as he confronts the social condition.

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Microscopes or macroscopes? Levels of engagement in peacebuilding di Zachary Metz «There’s a crack in everything. That’s how the light gets in» Leonard Cohen, Anthem. Over the course of my career as a practitioner and researcher in the field known as “peacebuilding”, I have worked alongside thousands of people in conflicted societies, incluZachary Metz ding in Iraq, Burma, Lebanon, Israel and Palestine, Northern Ireland, Rwanda, the Balkans, and elsewhere. In this article I explore a dilemma I see in the field, namely the increasingly singular emphasis on grand narratives of peace, known as “Peace Writ Large”. I fear that this frame, while valuable in many ways, may have the unintended consequence of actually undermining inquiry into and support for the powerful micro interactions that occur in even the most polarized conflicts. I argue that we must not lose sight of the power embodied in “peace writ small”. Since the mid-1990s, approaches to theory-building, policy-making and intervention in conflict have increasingly emphasized macro, long-term societal changes, first under the rubric of “conflict transformation” and now “peacebuilding”.

“Peace Writ Large” articulates an expansive vision, embracing human rights, environmental sensitivity, sustainable development, gender equity, and other normative and structural transformations Building on Johann Galtung’s fundamental concept of positive peace (meant to contrast with “negative peace”, meaning the cessation of violence), “Peace Writ Large” articulates an expansive vision, embracing human rights, environmental sensitivity, sustainable development, gender equity, and other normative and structural transformations. Anderson and Olsen define Peace Writ Large as comprising change «at the broader level of society as a whole» which addresses «political, economic, and social grievances that may be driving conflict». Lederach, integrates Peace Writ Large into his definition of peacebuilding, which is: «…a comprehensive con-

cept that encompasses, generates and sustains the full array of processes, approaches and stages needed to transform conflict toward more sustainable, peaceful relationships…Metaphorically, peace is seen not merely as a stage in time or a condition. It is seen as a dynamic social construct». The focus in this article does not allow space for a full discussion of the rich dialogues and debates relevant to peacebuilding or Peace Writ Large. That said, I note that in my own work I have found that this meta approach expands our tools of engagement and pushes us to move beyond official “Track I” diplomacy and state-based mechanisms, to involve civil society, youth, women, faith leaders and others left out of traditional approaches to violent conflict. I have worked with university educators in Iraq, police in Northern Ireland, resistance leaders in Burma, human rights defenders in Maldives, Lebanese youth, international observers in the West Bank, development practitioners in Timor-Leste, and others, to support them in articulating and strengthening their own roles in relation to peace. I have seen how a broad view of peacebuilding is critical for deeply transforming intractable conflicts. However, I see that this trend also presents serious problems for theory and practice. Fundamentally, the problem comes down to what is being noticed and privileged in research and practice. As the lens widens to embrace a grander narrative of peace, dynamics of conflict and violence appear even more monolithic and without solutions. The fragile seams and small spaces, in which people and institutions do take enormous risks to engage across conflict lines, are overlooked or disregarded. They are obscured like hairline cracks in a massive obelisk. These cracks represent micro peace capacities that must be noticed, analyzed, and strengthened. In fact, a recent report by a leading institution in the field explicitly prescribes this approach: «Rather than focusing on micro-level interventions, a systems approach to peace allows for macro-level planning and cumulative impact» (Alliance for Peacebuilding). My concern is that the increasing focus on Peace Writ Large actually leads us away from the very sites that offer some of the most innovative and powerful opportunities to change the dynamics of intractable conflict. I suggest that this could be one of many reasons that observers write increasingly of “incomplete” and “unconsolidated” peace. Therefore, I suggest we explore the power of the small in the context of the monolithic. Important preliminary research has already been done on the impacts of “peace writ little”, defined as «a local or


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community level of sustainable peace…coming from work on more effective mechanisms for resolving interpersonal disputes, land conflicts…or political, cultural and/or ethnic tensions at a local level» (CDA Reflecting on Peace Practice Program). However, I am here arguing for the need to look at an even more granular level of interaction, at what might be termed “peace writ small”. Several social theorists have worked to illuminate the intrinsic power of the very small (Collins, Coleman). Jeffrey Goldfarb is one sociologist whose work has influenced my own thinking and practice. Building on Goffman’s framework, Goldfarb describes the often hidden political power of everyday social interaction. This power is particularly important in contexts of total institutions, authoritarian regimes, and, in my view, intractable conflict. Such settings are typified by monolithic and hegemonic conflict narratives. Goldfarb describes the overall framework as “the politics of small things”. He theorizes that everyday life is a significant domain for politics. Concurring with Foucault’s analysis, he notes that control, discipline and subversion are present and observable in everyday life. However, Goldfarb sees something that Foucault missed: in such interactions, there are also possibilities for change. Goldfarb explains that «The politics of small things happens when people meet, speak and develop a capacity to act together on the basis of shared commitments, principles or ideals. Through these contacts, they develop political power. This power is constituted in social interaction. It has its basis in the definition of the situation, the power of people to define their social reality. In the power of definition, alternatives are constituted to the existing order of things».

Partita di pallavolo, dopo un evento di peacebuilding, Iraq

He further asserts that when this power involves the «meeting of equals, respectful of factual truth and open to alternative interpretations of the problems they face», it has the capacity to democratize relations and the social order. In my work, I have seen that these are precisely the conditions for building peace.

As the lens widens to embrace a grander narrative of peace, dynamics of conflict and violence appear even more monolithic and without solutions. In illustrating the politics of small things, Goldfarb offers the example of a small group of people in an oppressive society sitting around a kitchen table, sharing frustrations, identifying “seams” in the smothering fabric of the regime, and discussing coping strategies. Alternative interactions, not condoned within the intractable conflict, are acted out at these tables. Therefore, these apparently mundane interactions become extraordinary sites in which people can reach outside of the constraints of repression and conflict. If we peer into markets, theaters, hospitals, pubs, schools, and even military checkpoints, Goldfarb asserts that we may see that “…people make history in their social interactions…democracy is in the details.” (Goldfarb, 2006:1) I have repeatedly found this to be the case in some of the world’s worst conflicts. Microscopes in action I conclude my discussion with an example of “peace writ small” and the politics of small things in ac-

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Differenti gruppi di irakeni celebrano il capodanno curdo

Zachary Metz con il primo ministro di Timor Est Xanana Gusmão a un summit nazionale

tion. In 2005, I led a training and dialogue on peacebuilding with a group of Iraqis involved in economic development. The participants shared some goals, but the stratifications within the group were also significant, and the group was reflective of Iraq’s demographic diversity. The event focused on increasing community participation in economic and political development. One hallmark of the facilitating methodology I used in this initiative is allowing participants a great deal of freedom during the process. Small groups engaged, discussed, and planned action. Participants moved freely from group to group, often appearing to exit the formal process altogether. People drank tea, smoked in the garden, and shared food. To a great degree, they met as equals. Much of the interaction appeared totally unrelated to the task. At one point, one of my Iraqi colleagues suggested I should bring order back to the apparently chaotic process. I chose to not intervene. In the closing plenary, participants each reflected on the experience, as they passed a symbolic item (a branch from an olive tree) around the circle. When the olive branch reached a young woman from the minority Turkoman community, she began speaking in the Turkoman language, rather than in Arabic or Kurdish, the two official (and dominant) languages of the country. Suddenly, an older Sunni Arab man interrupted loudly, scolding her for not speaking in Arabic. He shouted, «Iraqis speak Arabic! Why are you here if you are not a real Iraqi? Speak in Arabic!» This man came from Baquba, a city that had seen intense violence. As we had agreed to allow people to conclude in any language, I reminded him not to interrupt. The woman quietly finished her comments. When the olive branch reached the man who had interrupted, he started to say the foundational Muslim blessing, often invoked at important moments: «Bismillah ir-Rahman ir-Rahim - In the name of God, most Gracious, Most Compassionate...» After several words, he faltered and stopped. People prompted him with the next words of the blessing,

but he held up his hand for silence. Then he started to weep, unable to complete his thoughts. He passed the olive branch to the next participant. At the conclusion of the event, a participant complained that I had not really “taught” the group about democracy (one of their objectives). Suddenly, the elderly man who had interrupted earlier spoke up again, disagreeing strongly with the criticism. He insisted that the group had, in fact, «truly practiced democracy…because we were allowed to speak in our Mother Tongue and say what we needed to!» Others agreed, and the mood shifted to joyous celebration, unity and optimism, and away from tension and polarization. I assert that this interaction was an example of the transformative power of the politics of small things and peace writ small. In this experience, the group transgressed the stultifying intractable conflict narratives. The historical pluralism in Iraq was re embraced, and the ethnically divisive and anti-minority narrative of the Baath party (and of the current sectarian violence) was actively resisted. This group had met and spoken as equals, had developed a capacity to act, and ultimately had redefined the situation. This group engaged alternatives, which is miraculous in the context of intractable conflict. The man’s angry ethnocentrism, rooted in the intractable conflict narrative, had given way to tears and a renewed sense of freedom and possibility. A new narrative was enacted in that room, which, I believe, has long-ranging and important consequences for peace. Conclusion While I remain passionately committed to the optimistic vision of Peace Writ Large, I increasingly also believe in the power of the small to help guide the practice and study of peace building. A recent report by the Alliance for Peacebuilding (2012) argues that «Peacebuilding is on the cusp of a true revolution». I concur, and I believe that the real revolution for the field will be in the details. Intergroup Conflict. New York: Oxford University Press.


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Il suono della pace Il potere della musica, nella coincidenza del divino e dell’arte di Luca Aversano sitori hanno guardato al soggetto. Punto di partenza Dona nobis pacem: un obbligato, la pace come valore universale: vale a ditesto liturgico musicato re, la Nona Sinfonia di Beethoven, monumento sonoda molti compositori, ro alla fratellanza, alla libertà, all’amicizia, al rispetMozart su tutti. Nella to tra gli uomini. L’opera del maestro tedesco è un coincidenza del divino messaggio all’umanità intera, di là dal tempo e dallo e dell’arte, non è forse spazio. La melodia dell’Inno alla gioia, su testo di la musica stessa a esseFriedrich Schiller, percorre una linea volutamente re invocata? Non è forsemplice. Un temino facile, per gradi congiunti (tutti se a quei suoni che devono poterlo intonare), che compare al termine di chiediamo di rasserenaun itinerario sofferto attraverso il mistero della musire i nostri affanni, di ca e del mondo. Beethoven lo introduce in modo sciogliere le nostre andavvero affascinante, sussurrandolo nei bassi dell’orsie? Il potere della muLuca Aversano chestra, come eco profonda di un luogo remoto. Pian sica, in tal senso, si ripiano, la melodia dell’inno prende corpo e si avviciconosce nella chiarezza lontana del mito e nel dispiegarsi del pensiero filosofico. Se Orfeo ammansiva le belve al suono della cetra, la dottrina etico-educativa Dal concetto di “misura” muove della Grecia antica attribuiva alla musica la nobile un’ulteriore linea d’intersezione tra la funzione di ristorare l’animo degli uomini; in particolare, quella di placare gli effetti eccitanti dell’almusica e la pace. Fin da Pitagora, cool: «[…] s’introduce la musica quando il vino ha infatti, la musica non è mero fascino stravolto il corpo e lo spirito di coloro che ne hanno sensibile del suono, ma anche ordine di abusato ed essa li riporta, per effetto dell’ordine e rapporti matematici. L’armonia nasce della misura che le sono propri, nel dritto cammino» (Pseudo Plutarco, De Musica). Proprio dal concetto dalla sintesi positiva di elementi di “misura” muove un’ulteriore linea d’intersezione contrari, concordia discors, equilibrio tra la musica e la pace. Fin da Pitagora, infatti, la di tensioni contrapposte e di intervalli musica non è mero fascino sensibile del suono, ma numericamente diversi anche ordine di rapporti matematici. L’armonia nasce dalla sintesi positiva di elementi contrari, concordia na sempre più all’ascoltatore, passando per le altre discors, equilibrio di tensioni contrapposte e di intersezioni dell’orchestra, che si aggiungono una dopo valli numericamente diversi. La composizione musil’altra al tessuto sinfonico, fino all’entusiasmo sonocale in sé non è poi altro che combinazione di elero del fortissimo. È vero che si tratta di una soluziomenti disparati, un processo temporale al cui termine ne non particolarmente originale dal punto di vista si viene a costituire un’identità nuova che pacifica il tecnico-compositivo: il raggiungimento di un acme contrasto delle singole identità originarie degli eleattraverso l’accumulazione graduale di masse strumenti, appunto, “composti”. mentali. Ma l’idea è straorFin qui le affinità di natura, dinaria per forza icastica per così dire, ontologica tra ed espressiva. Beethoven la musica e la pace. Se, per costruisce l’immagine di parlare ancora in termini fiun canto lontano e leggero losofici, ci spostiamo sul che, al suo passaggio, ha il piano fenomenologico, il potere di attirare e portare ventaglio delle composiziocon sé tutti gli altri struni dedicate al tema della menti dell’orchestra. Una pace risulta molto ampio e musica che coinvolge, che articolato. Restringiamo affratella, che trasporta: gli qui lo sguardo alla musica strumenti la odono e si unid’arte, o “classica” che dir scono al canto, un singolo si voglia, attraverso un breve percorso antologico, Il maestro Zhang Xian dirige l’Orchestra sinfonica di Milano canto di pace che passa per esemplificativo delle varie Giuseppe Verdi nell’esecuzione della Nona Sinfonia di Beetho- i sentieri del “villaggio globale” e convince, come per prospettive da cui i compo- ven nel concerto di Capodanno 2013

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grado di raffigurare con la stessa efmagia, tutti gli uomini a seguirlo, ficacia, e con colori vivissimi, la poad andare con lui. Quando poi, fitenza distruttrice della guerra, del nalmente, lo strumento si fa voce contrasto violento delle passioni. umana, non è il coro ad apparire Per questo, nelle sue opere, la pace per primo, bensì il recitativo del ha spesso funzione chiaroscurale. solista. In altre parole, Beethoven Tra i tanti esempi possibili, vale la vuol dirci che la pace come valore pena di ricordare la scena finale delcollettivo nasce dal cuore dei sinl’Aida: Amneris appare nel tempio goli individui: non c’è pace per in abito di lutto e, prostrata sulla tutti, se non c’è pace nell’animo di pietra che chiude il sotterraneo in ognuno di noi. cui giacciono Aida e Radames, si Lasciamo la grande utopia beethostrugge in un’implorazione di pace. veniana, ma non la terra tedesca. Wolfgang Amadeus Mozart È l’esito disperato di un’opera che Un’altra importante opera che ha mette in scena scontri durissimi tra popoli, eserciti, trattato il tema della pace, in un momento terribile patria, amore, famiglia. La pace conclusiva non ha della storia recente, è il Friedenstag di Richard qui natura consolatoria, ma rappresenta lo stato di Strauss, atto unico su libretto di Joseph Gregor (da consumazione estrema del conflitto, il silenzio esauun’idea di Stefan Zweig), rappresentato per la prima sto della desolazione, quando non resta altro che lo volta al Nationaltheater di Monaco nel 1938. Ben spettacolo della rovina e della morte. presto la censura nazista ne impedì la circolazione, per il significato e i valori antimilitaristici che l’opeLa pace come valore universale: vale a ra esprimeva. L’episodio storico richiamato (l’ultimo giorno della guerra dei Trent’anni) assume in Strauss dire, la Nona Sinfonia di Beethoven, la forma di un evento simbolico. A differenza di monumento sonoro alla fratellanza, quando accade nella Nona Sinfonia, in cui agli uomialla libertà, all’amicizia, al rispetto tra ni è data possibilità di innalzarsi e di costruire da sé gli uomini. L’opera del maestro tedesco un mondo migliore, la pace che i protagonisti ritrovano nell’ultima scena del dramma arriva qui dall’eè un messaggio all’umanità intera, di là sterno: come in una fiaba, essa si realizza inopinatadal tempo e dallo spazio mente, quasi per miracolo del cielo. Proprio la morte quale eremo di quiete eterna è un altro tema diffuso nella letteratura musicale, primariaBeethoven costruisce l’immagine di un mente in ambito sacro. L’interpretazione mozartiana canto lontano e leggero che, al suo del testo del Requiem offre una visione della morte passaggio, ha il potere di attirare e intesa come approdo pacificato dello spirito, dove la portare con sé tutti gli altri strumenti paura lascia posto alla trasfigurazione delle passioni. Diversamente dal terrifico Requiem verdiano, l’opera dell’orchestra. Una musica che di Mozart mostra la possibilità di un accogliente ricoinvolge, che affratella, che trasporta: storo. Come lo stesso compositore scriveva in una gli strumenti la odono e si uniscono al lettera al padre nell’aprile 1787: «Dato che la morte canto, un singolo canto di pace che (ben riflettendo) è l’ultimo, vero fine della nostra vita, da qualche anno sono entrato in tanta familiarità passa per i sentieri del “villaggio con questa sincera e carissima amica dell’uomo, che globale” e convince, come per magia, la sua immagine non solo non ha per me più nulla di tutti gli uomini a seguirlo, ad andare terribile, bensì mi appare persino molto tranquillizcon lui zante e consolante! E ringrazio il mio Dio di avermi dato la fortuna di avere l’opportunità (lei mi comprende) di riconoscere in essa la chiave che apre la Anche nel melodramma italiano, come nel teatro muporta alla nostra autentica felicità». sicale tout court, il tema della pace assume rilievo Anche la musica per banda annovera nel suo repertoassoluto. I compositori lo hanno affrontato da angorio composizioni e marce espressamente dedicate ai lazioni diverse, declinandolo in forme molteplici. motivi della pace. Per fare qualche esempio, la Pace Ricorre l’idea di pace come sollievo dalle cure dello eterna. Marcia funebre di Aldo De Biasi (1933); la spirito, una condizione di quiete affettiva a cui i perPace europea: gran marcia militare, scritta da David sonaggi, in preda a passioni irrefrenabili e infelici, Delle Cese e dedicata a «sua eccellenza il presidente anelano nostalgicamente. L’invocazione della pace, del consiglio dei ministri Sig. Francesco Crispi» (fiin questi casi, può affidarsi a oasi liriche di eccezione XIX sec. ca.). Di celebrare, o comunque trattare nale bellezza, come quella di Leonora nella Forza lo stesso tema si occupano inoltre numerosi brani di del destino di Giuseppe Verdi: «Pace, pace, mio dio, musica vocale (romanze da camera, cori, mottetti cruda sventura / m’astringe, ahimè, a languir; / come ecc.), tra cui un Inno alla pace per baritono, coro il dì primo da tant’anni dura / profondo il mio sofmaschile e pianoforte composto da Rossini nel 1850. frir» (atto IV, scena VI). Verdi era d’altro canto in


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Concerto di capodanno al teatro La Fenice di Venezia

Ma torniamo al melodramma, giacché va ricordata un’ulteriore modalità di rappresentazione musicale della pace, che attraversa tutto il teatro ottocentesco: la pace come condizione ascetica, di distacco e allontanamento dal desiderio dei sensi. Un celebre archetipo dell’equivalenza simbolica tra pace e innocenza è la scena di Casta diva, nel primo atto della Norma di Bellini. La sacerdotessa invoca la luna piena, bianco riflesso di quella castità a cui lei stessa sarebbe consacrata, ma che ha invece irrimediabilmente perduto. Sullo sfondo, la pace ch’ella impone al suo popolo, cui – per paura di perdere l’amato proconsole Pollione - impedisce di muovere guerra ai Romani. Romani, tra l’altro, è il nome del Felice librettista, la cui penna ha consegnato alla storia i memorabili versi: «Casta Diva, che inargenti / Queste sacre antiche piante, / A noi volgi il bel sembiante / Senza nube e senza vel. // Tempra, o diva, / Tempra tu de’ cori ardenti, / Tempra ancor lo zelo audace, / Spargi in terra quella pace / Che regnar tu fai nel ciel». Il tema dell’ascetismo, dell’anelito alla pace come negazione del desiderio sensuale sarà poi fondamentale nell’opera wagneriana, da Tannhäuser a Parsifal. Wagner risolve la questione in senso mistico-religioso, di una religione intesa come amore del sacro. In conclusione è doveroso ricordare come il potere magico-incantatorio della musica possa essere utilizzato non soltanto per placare e consolare, ma anche con obiettivi contrari: per eccitare gli animi e rappresentarne l’agitazione. Senza contare che, nella storia della musica, le immagini guerresche hanno importanza almeno pari alle rappresentazioni della pace. La letteratura è ricchissima di composizioni dedicate alla descrizione sonora delle batta-

glie. Un esempio celebre è La bataille de Marignan di Clément Janequin, composizione polifonica scritta per celebrare la vittoria francese del 1515, che riproduce una serie di suoni onomatopeici a imitazione di quelli della guerra. Qualche secolo dopo, a partire dagli anni della rivoluzione francese, gli eserciti marciavano preceduti e seguiti da strumenti musicali, portando in Europa il gusto per le bande militari e contribuendo alla diffusione della musica di strada anche in ambito civile. Bellini e Wagner non hanno scritto soltanto pezzi di ascetica contemplazione, ma anche, rispettivamente, il coro Guerra, guerra (sempre nella Norma) e la cavalcata delle Walkirie. D’altra parte, guerra e pace sono, nel nostro immaginario, due poli complementari, praticamente inscindibili. E così, in musica, la serenità di Apollo si contrappone e allo stesso tempo si accompagna, fin dalla mitologia greca, alle ebbrezze dionisiache. A volte è persino difficile distinguere le due sfere. Pensate al giorno di Capodanno, quando – al risveglio dal bacchico cenone – accendete la televisione alla ricerca di un po’ di quiete apollinea. Risuonano, armonici e cullanti, i valzer viennesi degli Strauss. A fine concerto il celebre direttore di turno, insieme con i Wiener Philarmoniker, augura a tutti gioia e felicità, invocando pace per i cittadini del mondo. S’ode allora la Radetzky Marsch, nel suo andamento facile e orecchiabile… tanto piacevole da farci dimenticare come il brano celebri, in un’oleografia oggi tragicomica, le gesta militari (nel caso specifico il ritorno a Milano dopo i moti del 1848) di un temutissimo comandante d’armata, spietato repressore della libertà dei popoli.

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El Sistema da Nobel La rivoluzione pacifica dell’educazione musicale pubblica di Michela Monferrini Cosa succederebbe se a tutti, sin da piccoli, venisse garantito il diritto alla musica? Quante mani da pianista non hanno mai incontrato un pianoforte? Quanti bambini sono cresciuti senza poter esercitare – e forse nemmeno sapere di possedere – il loro orecchio assoluto? La musica ha un costo, la Michela Monferrini musica non è per tutti; diventa, il più delle volte, un’occasione mancata. Si pensi alle scuole, se non al privato: ma gli studenti italiani conoscono le note? Assistono alle opere liriche; studiano i testi dei libretti d’opera come le poesie di Ungaretti e Montale, Pascoli e Leopardi mandate a memoria sin dalle elementari? Non stupisca, allora, la candidatura al premio Nobel per la Pace di José Antonio Abreu, il politico venezuelano che nel 1975 ha messo insieme le sue due passioni, i suoi due percorsi di studio – la musica e l’economia, di cui è stato anche docente accademico – in un progetto che ha rivoluzionato la didattica della musica dapprima in Venezuela e ora, a poco a poco, in tutto il mondo. Lo ha chiamato El Sistema: una fondazione pubblica attraverso la quale ai bambini e ragazzi provenienti da qualunque livello sociale, da qualunque situazione economica e familiare, è stato garantito l’insegnamento della musica con diffusione capillare e acces-

so totalmente gratuito. Non è possibile sapere quante dita da pianista abbiano così trovato il loro pianoforte, o quante orecchie abbiano scoperto di avere un dono naturale e tra i più preziosi, ma si possono tuttavia conoscere i numeri impressionanti del progetto, che segue o ha seguito oltre cento orchestre giovanili, altrettante infantili e pre-infantili, trenta orchestre sinfoniche e centinaia di migliaia di coristi che si vanno ad aggiungere a circa trecentocinquantamila musicisti dislocati in ogni luogo del territorio venezuelano, e in ogni luogo raggiunto dal sostegno, dalle strutture e dai professionisti del Sistema. Grazie agli investimenti, prima statali (i più ingenti nella storia del Sistema provengono dalla presidenza Chavez, anche attraverso istituzione di strutture laterali, borse di studio e programmi governativi scolastici) e poi ban-

Si pensi alle scuole, se non al privato: ma gli studenti italiani conoscono le note? Assistono alle opere liriche; studiano i testi dei libretti d’opera come le poesie di Ungaretti e Montale, Pascoli e Leopardi mandate a memoria sin dalle elementari? cari, si è potuto guardare alla musica come a una società ideale, come a un mezzo potentissimo di riscatto sociale. Un’utopia? No, se la maggioranza dei ragazzi formati provenivano e provengono da quartieri poveri e malfamati, i barrios sudamericani; molti di loro hanno dichiarato che avrebbero probabilmente


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consiste nel fatto che si stretto un’arma, nella tratta di una nazione in mano, se non gli foscui si va obbligatoriase invece stato conmente, realmente a segnato uno struscuola: la difficoltà non mento musicale. Soè allora quella di attrarno stati istruiti dal re i ragazzi, di strapparSistema direttori li a contesti di povertà d’orchestra come il e delinquenza profonde giovane e sempre più (sebbene il disagio gionoto in Italia Diego vanile non conosca Matheuz (ha diretto, geografia e livello sotra le altre, l’Orcheciale), non è quella di stra della Fenice di avvicinare i ragazzi alla Venezia nel tradiziomusica, ma di avvicinanale concerto di Care la musica ai ragazzi. podanno, nel 2012) o Gustavo Dudamel con José Antonio Abreu Da questa base, proprio Gustavo Dudamel, dall’Italia, si stanno diffondendo nuovi progetti, sesotto la cui direzione ha debuttato nel 2007, nella condo i quali il Sistema dovrebbe non solo riguardare l’ambito musicale, ma le diverse discipline artistiche Si è potuto guardare alla musica come in generale. a una società ideale, come a un mezzo El Sistema di Abreu potrebbe così, dopo quasi quarant’anni e il giro del mondo, tornare nei luoghi delle potentissimo di riscatto sociale. sue origini – laddove ancora vige la legge delle banUn’utopia? No, se la maggioranza dei de criminali, e il tasso di delinquenza è di molte volragazzi formati provenivano e te superiore rispetto a quello degli stessi paesi sudamericani limitrofi – in una forma diversa, ampliata, provengono da quartieri poveri e forse ancora più incisiva. È per questo che José Anmalfamati, i barrios sudamericani; tonio Abreu è stato candidato al premio Nobel per la molti di loro hanno dichiarato che Pace, come chi cerca di contrastare la fame o le gueravrebbero probabilmente stretto re, lottando in fondo contro le stesse cose, per lo stesso obiettivo. un’arma, nella mano, se non gli fosse

invece stato consegnato uno strumento musicale Carnegie Hall di New York, l’Orchestra Sinfonica Simón Bolívar che ha subito riscosso consensi in ogni parte del mondo e che rappresenta a tutt’oggi il fiore all’occhiello del Sistema. Gli entusiasmi internazionali hanno creato una reazione a catena tra i diversi Paesi, portando all’emulazione del Sistema in Scozia, Inghilterra, Spagna, Stati Uniti, India, sempre partendo dalle aree depresse e allargandosi poi a macchia d’olio. L’Italia ne è stata raggiunta soltanto di recente: nel 2010 Claudio Abbado, che si è spesso trovato in collaborazione con Abreu e la Simón Bolívar, ha dichiarato di voler portare El Sistema anche nel nostro Paese. Nel 2011, il progetto è partito grazie al lavoro congiunto di Federculture e della Scuola di Musica di Fiesole (i cui presidenti onorari sono proprio i maestri Abreu e Abbado) che hanno lanciato l’iniziativa subito raccolta dalle diverse regioni. Se nel 2010 Abbado esprimeva il timore che tutto «si esaurisse nel solito convegno», dopo pochi mesi già raccoglieva uno dei primi risultati concreti con FuturOrchestra, orchestra giovanile di area lombarda, o con il progetto redatto dal LAMS (Laboratorio Arte Musica e Spettacolo) di Matera. Il vantaggio – che deve ancora essere sfruttato – di portare un programma di educazione musicale in Italia

La storia di El Sistema in un film documentario del 2006 di Paul Smaczny

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Il bene più prezioso Problematiche per una gestione sostenibile del territorio e delle sue risorse di Giancarlo Della Ventura Negli ultimi anni è emersa nella società una nuova consapevolezza del rapporto tra l’uomo e l’ambiente ed è diventato sempre più chiaro, spesso dopo eventi drammatici (terremoti, alluvioni, tsunami etc.), come la conoscenza geologica del territorio sia una condizione essenziale per la Giancarlo Della Ventura gestione sostenibile dell’ambiente e per un suo corretto sviluppo infrastrutturale. Tematiche come i rischi naturali (ad esempio il rischio sismico, idrogeologico, vulcanico, geochimico), i cambiamenti climatici, la gestione delle risorse idriche e dei rifiuti e la pianificazione territoriale si stanno imponendo all’attenzione generale per le varie conseguenze che possono avere sulla nostra vita. Per fare un esempio attuale, basti pensare al problema drammatico della mancanza di acqua potabile in molti comuni del Lazio, in particolare dell’area viterbese, per motivi legati alla cattiva gestione dell’inquinamento da arsenico delle falde idriche, problema che, anche se dovuto in gran parte a cause naturali ed indipendenti dall’attività antropica, è stato ignorato per anni. Un altro esempio è il problema gravissimo della gestione criminale dei rifiuti urbani ed industriali, denunciato da anni su libri e giornali e mai affrontato con la dovuta serietà. In conseguenza di questo, l’inquinamento da sostanze tossiche del tipo più disparato nelle falde acquifere, nei suoli e nell’aria, ha raggiunto livelli tali, in molte zone del nostro paese, da rappresentare ormai un rischio in alcuni casi irreversibile, se non a prezzi altissimi di bonifica, per le generazioni attuali e future. Il rapporto tra uomo e natura è sempre stato conflittuale, perché mentre da una parte lo sviluppo della società e dell’economia è stato basato sull’uso massiccio e spesso indiscriminato delle risorse naturali (tra cui il suolo, che può essere definito una “risorsa non rinnovabile”), dall’altro lato l’uomo ha sempre riconosciuto, anche se in modo spesso ipocrita, che lo sfruttamento del pianeta doveva seguire regole più rispettose dell’ambiente e delle sue risorse. Nel corso dei secoli, l’uomo ha realizzato profonde trasformazioni del territorio, riducendo gli spazi naturali come le aree boschive, le zone umide, le aree collinari, le zone fluviali etc. al fine di estendere le aree agricole e urbane. Lo sfruttamento e la sempre

maggiore sottrazione di suolo dal suo contesto naturale sta determinando cambiamenti radicali nel paesaggio, nell’ambiente e negli ecosistemi. Nei paesi industrializzati, la domanda crescente di suolo per le attività umane è legata principalmente allo sviluppo delle aree urbane e relative infrastrutture. Secondo dati della European Environmental Agency (EEA), l’Europa è uno dei continenti più urbanizzati del pianeta, dove circa il 75% della popolazione vive in aree urbane e più di un quarto del territorio è ormai, direttamente o indirettamente destinato ad usi urbani. Si stima che entro i prossimi decenni tale proporzione sia destinata a salire in modo significativo. Un punto importante è il fatto che la crescita delle città europee, sempre secondo il rapporto EEA, non è correlata ad un aumento della popolazione: negli ultimi decenni, a fronte di un incremento dell’estensione delle aree urbane pari al 20%, la popolazione è aumentata meno del 10%. La crescente domanda di urbanizzazione è quindi da collegare principalmente alle trasformazioni del sistema produttivo e sociale e al cambiamento degli stili di vita. Particolarmente rilevante in questo contesto è il fenomeno dell’urbanizzazione delle aree costiere, per motivi essenzialmente legati alle attività turistiche, in netto contrasto con le esigenze di tutela e protezione delle coste e

Il rapporto tra uomo e natura è sempre stato conflittuale: da un lato l’uso massiccio e indiscriminato delle risorse naturali, dall'altro la consapevolezza che lo sfruttamento del pianeta debba seguire regole più rispettose dell'ambiente degli ecosistemi marini. Le conseguenze negative della pressione urbana sul territorio, sono anche dovute a cause indirette come l’aumento del fabbisogno energetico, la necessità di adeguare e ampliare le reti infrastrutturali, il traffico, l’esigenza di trattamento di maggiori quantitativi di rifiuti urbani e di acque reflue. Un ulteriore danno legato all’urbanizzazione intensiva è poi legato alla perdita della risorsa “suolo permeabile”. Sebbene generalmente sottovalutata, questa perdita costituisce un forte elemento di perturbazione dell’equilibrio idrogeologico del territorio, ed è causa di erosione accelerata del suolo e, in alcuni casi, di gravi fenomeni di dissesto. Dall’VIII Rapporto ISPRA sulla Qualità dell’Ambiente Urbano del 2012 (vedi http://www.ispramb i e n t e . g o v. i t / i t / p u b b l i c a z i o n i / s t a t o -


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lazioni ad abbandonare i dellambiente/qualita-dellampropri territori: secondo biente-urbano-viii-rapporto.l’Alto Commissariato delle edizione-2012) emerge con Nazioni Unite entro il 2050 chiarezza che le superfici si arriverà a 200/250 milioimpermeabilizzate in Italia ni di profughi per motivi aumentano secondo un trend ‘ambientali’ che i paesi occostante a causa dell’espancidentali si troveranno ad sione edilizia urbana e della accogliere. La presenza di realizzazione di nuove infrarisorse naturali è spesso la strutture. causa di sanguinosi conflitUna cattiva gestione del terti nei Paesi in via di svilupritorio, dovuta ad attività po. Solo un’esigua minoagricole sempre più intensiranza della popolazione love, è all’origine di fenomeni cale gode dei vantaggi ecodi degrado del suolo come nomici derivanti dallo l’erosione accelerata, la persfruttamento delle materie dita di sostanza organica, prime, mentre la stragrande l’eccessiva salinizzazione maggioranza degli abitanti ed acidificazione. Fra le subisce solo le conseguenpratiche agricole che contrize negative (espropriazione buiscono maggiormente al degrado del suolo vi sono le Secondo stime delle Nazioni Unite entro il 2050 si arriverà a di terreni, devastazione ambientale e degrado socolture intensive senza il ne- 200/250 milioni di profughi per motivi ambientali ciale) dell’uso del proprio cessario apporto di sostanza territorio. Gli esempi di questo stato di cose sono organica, l’abuso di prodotti chimici e l’alterazione innumerevoli nel corso della storia e in tutti i contiartificiale e meccanizzata delle morfologie naturali nenti. Tra gli esempi meno noti si potrebbe citare il del territorio, il cui danno in termini economici ed conflitto cino-tibetano la cui causa principale non è ambientali non viene ancora quantificato. L’impoda ricercarsi in motivazioni politico-religiose, coverimento di sostanza organica nei suoli determina me troppo spesso si ritiene, ma molto più sempliceanche un aumento della formazione di croste supermente nel fatto che la gran parte delle risorse idrificiali le quali, oltre che interagire negativamente che della Cina si trova sulle (o nelle) montagne ticon la crescita delle piante, riducono drasticamente betane. l’infiltrazione dell’acqua con aumento del ruscellaLa conoscenza dei fenomeni che agiscono sul suomento superficiale e quindi dei processi erosivi. lo e delle dinamiche di utilizzo del territorio è Serie problematiche ambientali sono determinate quindi di fondamentale importanza per valutare le dalle attività estrattive di prima e seconda categotrasformazioni in atto e per intervenire nei procesria (miniere e cave) che rappresentano comunque si di pianificazione. Tale conoscenza necessita di un importante settore dell’economia. Oltre all’imdati omogenei e attendibili e di modelli corretti patto locale e temporaneo, come l’inquinamento per l’analisi dei dati stessi. I dati possono essere acustico, dell’aria e dell’ambiente circostante, tali oggi ottenuti, oltre che per mezzo di stazioni di riattività producono profonde e definitive modifiche levamento, anche tramite immagini satellitari semdel paesaggio, una perdita irreparabile di suolo, pre più dettagliate e complete di informazioni, inquinamento delle falde acquifere e difficoltà lementre le analisi vengono ormai comunemente efgate al ripristino delle aree dismesse. Uno dei profettuate attraverso tecniche geo-spaziali 3D/4D blemi più gravi nelle zone minerarie è il cosiddetsempre più sofisticate (vedi ad esempio to “drenaggio acido di miniera”, un fenomeno lehttp://www.digital-earth.eu). La comunità geologigato all’alterazione delle rocce mineralizzate che ca ha oggi la grande opportunità, oltre che responavviene per interazione tra i minerali e l’acqua in sabilità, di diventare un operatore centrale nella ambiente ossidante. Tale fenomeno, è fortemente gestione di queste problematiche. È auspicabile amplificato nelle zone soggette ad attività estrattiche i vari attori delle Scienze della Terra siano cava, dove può causare un diffuso inquinamento ampaci di offrire un contributo alle nuove necessità bientale da parte di metalli tossici, spesso contenudella società, integrando le proprie competenze ad ti anche in basse/bassissime concentrazioni nella altre discipline scientifiche che si occupano delle roccia madre. problematiche territoriali, come la geografia, l’arGli effetti dei cambiamenti climatici rappresentano chitettura, l’ingegneria, la biologia e l’agraria, per ormai la principale causa delle migrazioni di mascreare una nuova concezione di “scienza del terrisa. La perdita di aree coltivabili dovuta a desertifitorio e dell’ambiente” che tenga conto di tutti gli cazione, e lo sfruttamento intensivo delle risorse aspetti coinvolti nella salvaguardia di quel bene naturali stanno avendo un impatto non solo amprezioso per la vita dell’uomo che è l’ambiente nel bientale, ma anche sociale ed economico, creando quale viviamo. massicci flussi migratori e obbligando intere popo-

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L’Università per la pace Coscienza e conoscenza: il ruolo delle istituzioni accademiche nella diffusione di una cultura di pace di Giuliana Calcani Il Centro Studi dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma, in collaborazione con l’AESI (European Association of European Studies) e il nostro Ateneo, ha promosso un incontro di studi su The importance of cross cultural dialogue in peace building and the role of University cooperation in post-conflict reGiuliana Calcani conciliation, lo scorso 18 ottobre presso la sede della stessa rappresentanza diplomatica. La presenza a Roma di Nabil Oudeh, presidente e fondatore del Centre for Conflict Resolution International (CCR, con sedi in USA e Canada) e mediatore internazionale con un’esperienza di oltre venti anni nel campo della risoluzione dei conflitti, è stata la premessa per allargare il confronto di idee ad altre istituzioni che si occupano della formazione di giovani professionisti nella diffusione della cultura di pace. L’incontro è stato, quindi, anche un’occasione per presentare l’offerta formativa post lauream di Roma Tre, su questo tema specifico, al pubblico presente su invito.

L’Università dovrebbe essere in grado di diffondere la cultura della pace come risposta forte e attiva alle crisi, in ogni settore disciplinare Com’è noto, di pace ci si occupa soprattutto quando non c’è e non è un caso che i corsi di formazione e i master dedicati a questo tema aumentino di numero e riscuotano un crescente successo proprio in questi ultimi anni. A Roma Tre l’offerta è ampia e prestigiosa, ma poiché viene impartita nelle diverse strutture didattiche, non è facile coglierne il valore d’insieme non solo dall’esterno, ma forse anche per noi interni all’Ateneo. La didattica dei corsi di perfezionamento e dei master prevede inoltre, oltre alle lezioni, anche l’organizzazione di convegni, dibattiti, mostre e l’edizione di pubblicazioni. Insomma una quantità di iniziative che nell’insieme costituiscono una realtà davvero considerevole sul tema della pace. Vediamo, in estrema sintesi, i capisaldi di questa realtà. Con la prospettiva delle scienze politiche, delle discipline storico-umanistiche e delle scienze della formazione, i corsi post lauream di Roma Tre coprono le diverse fasi di intervento nei processi di pace: dalla prevenzione alla risoluzione dei conflitti, dai fenomeni migratori alle politiche di inte-

grazione. Peacekeeping and security studies è il master diretto da Maria Luisa Maniscalco che forma professionisti della gestione delle crisi civili e militari, mentre alle professioni per la pace, come esigenza permanente da tutelare, si rivolge il master in Educazione alla pace, cooperazione internazionale, diritti umani e politiche dell’Unione Europea, diretto da Alfredo Breccia. Dei fenomeni spesso riflessi dalle aree in conflitto, come la migrazione, si interessa il master in Politiche dell’incontro e mediazione culturale in contesto migratorio. Pratiche dei saperi e dei diritti per una nuova cittadinanza, fondato da Maria Vittoria Tessitore e ora diretto da Giacomo Marramao. Sulla spinta dei crescenti fenomeni migratori, i processi di pacificazione devono prevedere oggi anche l’integrazione delle comunità di immigrati, presenti in tutti i Paesi dell’Unione Europea. Perciò le politiche di inclusione sociale richiedono nuove professionalità e il master in Educazione interculturale: strategie per la valorizzazione delle diversità, diretto da Francesco Susi, così come il master diretto da Luigi Moccia in Cittadinanza europea e integrazione euro-mediterranea. I beni e le attività culturali come fattore di coesione e sviluppo, rispondono ad una delle esigenze prioritarie dei nostri tempi, ovvero l’inclusione dei nuovi cittadini europei nei Paesi d’accoglienza come garanzia di pace e di sviluppo socio-economico. Un accordo siglato tra il CRUL ed il Ministero per i Beni e le Attività Culturali su “I beni culturali per la pace e il dialogo tra i popoli”, consente a Roma Tre di attivare molte iniziative nel settore dei beni culturali che è uno dei campi più spendibili nella cooperazione internazionale, così come nelle strategie d’inclusione sociale. Nell’uno e nell’altro caso l’Università, come luogo di creazione e di propagazione della cultura, scientifica e umanistica, è uno dei principali canali di scambio e di relazione. Le azioni che anche il nostro Ateneo promuove sono quindi rivolte alla formazione dei giovani, italiani ed esteri, che seguono i corsi impartiti in sede o secondo la modalità dell’e-learning. Ma consistono anche nella partecipazione a programmi d’intervento della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri e di altri organismi internazionali con attività sul terreno e formazione locale. L’attuazione di interventi concreti – dal patrimonio culturale al settore dello sviluppo agrario, dalla progettazione architettonica e urbanistica ai piani di sviluppo scientifico e tecnologico – aiuta il dialogo tra le culture e favorisce quella conoscenza reciproca che è premessa indispensabile alla voglia di pace. Ma è sempre più un dato di fatto che parlare di “post-conflict” oggi non ha senso se non per aree molto limitate del Mediterraneo e del Medio Oriente e che spesso si è chiamati ad operare in situazioni di tensione


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La video-installazione Torre della pace, realizzata da artisti contemporanei di varie nazionalità sul tema degli attacchi alle Torri gemelle di New York, è stata interpretata musicalmente dalla DAMS Jazz Band in occasione del Roma Tre Film Festival 2012

permanente. Il ruolo più importante che l’Università può svolgere è anche quello di non cedere allo spauracchio dello scontro tra culture e mantenere accese le coscienze e la ragione anche quando i sistemi politici ed economici sono in guerra.

Il ruolo più importante che l’Università può svolgere è anche quello di non cedere allo spauracchio dello scontro tra culture e mantenere accese le coscienze e la ragione anche quando i sistemi politici ed economici sono in guerra L’apertura a Roma Tre dell’Euro-Arab Institute for the Dialogue between Cultures, presso il Centro di eccellenza Altiero Spinelli per l’Europa dei popoli e la pace nel mondo (CeAS), è un forte segnale in questa direzione. Inaugurato lo scorso 9 novembre, l’Istituto na-

sce con il sostegno della Fondazione Al-Babtain (“Prize for Poetic Creativity”), per iniziativa del prof. Touhami Abdouli, Presidente dell’Istituto stesso, del prof. Luigi Moccia, Presidente del CeAS, e dell’on. Gianni Pittella, Vice Presidente vicario del Parlamento europeo, co-fondatore del Centro Studi per l’Europa del Mediterraneo (Meseuro). Si sta facendo molto, ma non è mai abbastanza quando la posta in gioco è così alta. Accanto alla formazione di nuove professionalità richieste da un mondo che cambia e al potenziamento di settori tradizionalmente attivi nel campo delle scienze politiche, l’Università dovrebbe essere in grado di diffondere la cultura della pace come risposta forte e attiva alle crisi, in ogni settore disciplinare. L’intervento della formazione universitaria su questa condizione esistenziale dovrebbe essere quello di trasformare la pace da sentimento individuale a visione larga sul presente e sul futuro dell’umanità.

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Le vie della pace L’impegno multidisciplinare di un’educazione permanente alla pace di Alfredo Breccia Il primo decennio del secolo XXI ha riproposto drammaticamente la profonda contraddizione che da sempre lacera l’intera umanità: da un lato, l’aspirazione a conquistare una pace autentica e duratura, di cui si fanno interpreti le Nazioni Unite che hanno dedicato il decennio 1995-2005 alla “educaAlfredo Breccia zione ai diritti umani”, e il decennio 2001-2010 alla “cultura della pace”; dall’altro, l’esplosione di tensioni e di conflitti che, dopo il superamento del confronto Est-Ovest, hanno investito con successione travolgente i rapporti Nord-Sud, offrendo un terreno fertile per lo sviluppo di una cultura dell’odio e della guerra e non di una cultura della solidarietà e della pace. Da questa contraddizione scaturisce l’esigenza di dare un nuovo ed effettivo impulso ad uno sviluppo equilibrato e globale delle relazioni umane. A tal fine, soltanto un’attenta riflessione sui problemi della pace consente di cogliere la profonda interconnessione fra tutte le questioni che ancora oggi affliggono la comunità internazionale. Le crisi non sono più causate da rivalità strategiche e ideologiche tra due blocchi contrapposti, ma da molteplici fenomeni che hanno ormai raggiunto una diffusione planetaria: l’esplosione di conflitti di matrice nazionalistica, etnica e religiosa con una recrudescenza delle azioni terroristiche; i problemi del sottosviluppo, della fame, del degrado ambientale e dell’emergenza acqua; i processi di transizione democratica e dell’emergenza umanitaria; lo sviluppo di flussi migratori accompagnati da forti tensioni per i problemi sollevati dall’integrazione socio-culturale. Questi fenomeni hanno coinvolto in modo sempre più massiccio e indiscriminato le popolazioni civili, determinando gravi situazioni di dislocamento e di disconoscimento dei diritti umani. La comunità internazionale è stata, così, investita in misura crescente da una serie di problemi nuovi e complessi, che possono essere affrontati adeguatamente solo attraverso il concorso di forze e di competenze diverse. Di fronte a questo drammatico scenario, ciascuno di noi avverte la propria impotenza, ma reclama con forza un impegno congiunto e solidale delle Istituzioni sia pubbliche che private. A questo fine, è necessario creare le condizioni per tradurre le ricorrenti manifestazioni di intenti e le molteplici iniziative a

favore della cooperazione per la pace in un’azione permanente e coordinata, capace di promuovere una concreta assunzione di responsabilità per la costruzione di un mondo più giusto e solidale. Questa costruzione non può essere affidata al caso fortuito, ma richiede che ciascuno, qualunque sia il proprio credo politico e religioso, si impegni ad agire per formare le coscienze alla cultura della pace. L’impegno educativo deve essere concepito come un tutt’uno con l’azione per la pace e va risolto in una prospettiva di educazione permanente, che deve investire tutti gli ambiti formativi per finalizzarli al perseguimento dei valori della democrazia, della giustizia e della solidarietà.

Le crisi non sono più causate da rivalità strategiche e ideologiche tra due blocchi contrapposti, ma da molteplici fenomeni: l’esplosione di conflitti di matrice nazionalistica, etnica e religiosa con una recrudescenza delle azioni terroristiche; i problemi del sottosviluppo, della fame, del degrado ambientale e dell’emergenza acqua; i processi di transizione democratica; lo sviluppo di flussi migratori accompagnati da forti tensioni per i problemi sollevati dall’integrazione socio-culturale L’Istituzione universitaria si presenta come soggetto strategico nella politica di intervento sulle risorse umane, sia per affrontare il problema della pace secondo le metodologie proprie della scienza, come le stesse Nazioni Unite hanno sollecitato fin dalla loro costituzione, sia per promuovere iniziative volte a formare le coscienze alla cultura della pace attraverso l’elaborazione di approcci innovativi, integrati e globali. In questo contesto è maturata, nel 2001, la decisione di istituire presso la nostra Università un master di secondo livello in Educazione alla pace: cooperazione internazionale, diritti umani e politiche dell’Unione Europea. L’obbiettivo è quello di promuovere una cultura della solidarietà e della pace nella società civile, in particolare tra i giovani, e di contribuire efficacemente alla costruzione di “vie della pace”, attraverso una vera e propria “strategia” che si sviluppa sia sul piano formativo che su quello operativo.


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Sul piano formativo, il master si caratterizza per la sua impostazione “multidisciplinare” e si articola in: a) moduli di base, che mirano ad offrire gli strumenti indispensabili per cogliere le radici storiche e la natura delle trasformazioni in atto, e per rispondere alle pressanti esigenze imposte dai processi di revisione dell’assetto europeo e mondiale, dai nuovi contesti politici, economici e culturali della globalizzazione e dagli sviluppi dell’integrazione europea; b) moduli specialistici, che mirano a favorire l’acquisizione di competenze specifiche per la realizzazione di progetti e di interventi operativi, avvalendosi anche dell’apporto di esperti e di operatori di istituzioni e di enti pubblici e privati e di Organizzazioni governative e non governative, italiane ed estere; c) moduli opzionali, che si propongono di arricchire l’offerta formativa attraverso la partecipazione a seminari e a “corsi residenziali” attivati in collaborazione con organizzazioni che operano nei settori di interesse del master,

È necessario creare le condizioni per tradurre le ricorrenti manifestazioni di intenti e le molteplici iniziative a favore della cooperazione per la pace in un’azione permanente e coordinata, capace di promuovere una concreta assunzione di responsabilità per la costruzione di un mondo più giusto e solidale in particolare con Amnesty International e con il Volontariato Internazionale per lo Sviluppo (VIS). Questa collaborazione nasce dalla convinzione che una strategia di pace può avere maggiori possibilità di successo, se si avvale dell’apporto sinergico, concordato e mirato della società civile in tutte le sue forme associative. Il piano formativo del master si completa, favorendo lo svolgimento di stage o tirocini presso istituzioni pubbliche o private o presso le ONG, in Italia o all’estero, e si conclude con l’elaborazione di una tesi su un tema che ogni studente sceglie nel proprio settore di specializzazione. Sul piano operativo, il master è impegnato a svolgere compiti di sensibilizzazione culturale, sia con la promozione di convegni e incontri di studio a livello nazionale e internazionale, sia favorendo l’inserimento dei propri laureati, attraverso stage o tirocini, nelle attività che istituzioni pubbliche o private ed organizzazioni non governative svolgono,

in Italia o all’estero, nei diversi campi della cooperazione internazionale per la pace e per la tutela dei diritti umani. Inoltre, la funzione formativa e professionalizzante del master è stata fortemente valorizzata dalla Convenzione che la Provincia di Roma ha stipulato con l’Università degli Studi Roma Tre. Questa Convenzione, oltre a sostenere e incoraggiare la partecipazione di giovani laureati alle attività formative del master, gli ha affidato anche il compito di promuovere forme integrate di collaborazione sul piano culturale, scientifico, didattico e sociale volte a sviluppare, in modo permanente, una incisiva ed estesa opera di sensibilizzazione nella società civile e a coinvolgere le diverse realtà locali nella realizzazione di iniziative di respiro europeo e internazionale.

L’impegno educativo deve essere concepito come un tutt'uno con l'azione per la pace e va risolto in una prospettiva di educazione permanente, che deve investire tutti gli ambiti formativi Questa attività di sensibilizzazione si esprime anche con la pubblicazione di una rivista scientifica dal titolo Processi storici e Politiche di Pace / Historical Processes and Peace Politics. La rivista si propone come luogo di dibattito, riflessione ed approfondimento sui temi della pace, della cooperazione internazionale, dei diritti umani e del dialogo interculturale, con particolare riferimento alla riflessione sulle radici storiche dei problemi che tuttora affliggono la comunità internazionale. Lo studio dei processi storici consente di affrontare i problemi di attualità con una chiave di lettura che facilita la loro comprensione, fuori da ogni interpretazione di parte o da valutazioni puramente contingenti. In questo modo si può affermare che «lo studio del passato serve a conquistare il presente». Il master si propone, così, non solo di adempiere alla sua funzione formativa e professionalizzante, ma anche di partecipare concretamente al processo in atto di revisione o di rifondazione delle relazioni fra i popoli per promuovere un mondo più giusto e solidale. Esso mira a perseguire questo obbiettivo attraverso una mobilitazione di risorse culturali, morali e materiali, che offra a ciascuno la possibilità di dare responsabilmente il suo contributo alla costruzione delle “vie della pace”.

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Costruire la pace nel Mediterraneo Un progetto del Master in Peacekeeping & security studies di Maria Luisa Maniscalco La dimensione umana della pacificazione è una componente fondamentale dei processi di pace, ma in alcuni contesti è la più difficile da perseguire. Non è semplice dopo conflitti interni violenti e brutali muoversi da una storia intrisa di odio e divisioni verso un futuro condiviso. I lasciti del passato possono esMaria Luisa Maniscalco sere difficili da superare e il conflitto può riaccendersi in qualunque momento; per questo assistere la riconciliazione delle war-tornsocieties è un compito e uno scopo che ha visto sempre più coinvolta la comunità internazionale nella complessità dei soggetti che vi operano: non solo Stati e organizzazioni internazionali, ma anche organizzazioni non governative, fondazioni, associazioni, università, gruppi religiosi e così via. La Libia nel quadro dei repentini cambiamenti avvenuti recentemente in Nord Africa occupa un posto di particolare importanza: ha guadagnato la libertà con una guerra civile (e anche grazie all’intervento militare di alcuni paesi aderenti ad una coalition of the willing), ha tenuto con successo le sue prime elezioni libere e ora è impegnata a costruire un nuovo futuro. Ma la fine del regime di Gheddafi ha lasciato pericolose divisioni in un paese fragile e frammentato in cui le alleanze tribali sono più forti della lealtà al nuovo Stato e in cui pressoché ogni famiglia è stata toccata da perdite e da eventi traumatici. Violenze nuove e recenti hanno intrappolato consistenti fasce della popolazione in una spirale di paura e desiderio di rivalsa. Come ha affermato Mahmoud Jibril, leader del National Forces Alliance, vincitore delle elezione del luglio scorso «una delle maggiori sfide della Libia è la capacità di perdonare e di riconciliarsi per il futuro». Il National Transitional Council libico, la General National Conference e il governo riconoscendo l’esigenza di riconciliazione hanno già intrapreso azioni in tal senso sia in maniera autonoma, sia con il supporto di organismi internazionali quali UNSIMIL e UNDP e di programmi dell’Unione Europea. Molto resta però ancora da fare e la sfida non riguarda solo la Libia, ma interessa la

stabilità di un’area e quindi l’Europa nel suo insieme e in particolare il nostro paese, legato alla Libia da vincoli storici e da responsabilità politiche, come ribadito nella “Dichiarazione di Tripoli” del 21 gennaio 2012. In questa fase anche la società civile in tutte le sue molteplici sfaccettature può offrire il suo contributo. Per questo motivo ho accolto con convinzione l’invito dell’associazione internazionale Ara Pacis Initiative a mettere a punto e coordinare un piano di azione per la riconciliazione in Libia. Il know how teorico e di ricerca sul campo acquisito negli anni e riversato nelle attività didattiche e di formazione per l’insegnamento di Teorie dei conflitti e processi di pace e del master in Peacekeeping & security studies, si è rivelato fondamentale nel disegnare la strategia di intervento in collaborazione con gli esperti dell’Ara Pacis Initiative.

Assistere la riconciliazione delle wartorn-societies è un compito e uno scopo che ha visto sempre più coinvolta la comunità internazionale nella complessità dei soggetti che vi operano: non solo Stati e organizzazioni internazionali, ma anche organizzazioni non governative, fondazioni, associazioni, università, gruppi religiosi Il piano è stato preparato con un’indagine pilota (finanziata dal Ministero degli Affari Esteri italiano) condotta in Libia in due fasi (ottobre e dicembre 2012) al fine di identificare le priorità, di verificare la fattibilità del progetto e di costruire una rete di collaborazioni sul terreno. Le interviste e i contatti con i decision makers e gli operatori provenienti da ogni settore della società (compresi i leader tribali e religiosi, delle milizie, gruppi della società civile, associazioni delle vittime, donne, giovani) hanno fatto riscontrare la piena disponibilità alla collaborazione e una forte sottolineatura circa l’opportunità di coinvolgere individui e organizzazioni non identificabili attraverso affiliazioni politiche o religiose. Le informazioni raccolte ci hanno rinforzato nella convinzione che nei contesti lacerati da divisioni e conflitti un intervento assolutamente ‘terzo’, quale può essere quello guidato da un’istituzione uni-


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versitaria, e dedicato all’accrescimento della cultura e del dialogo trova agevolmente ascolto. Dai colloqui sono emerse come particolarmente significative alcune esigenze: il bisogno di un progetto di memoria per le vittime della rivoluzione e dei lun- Il portale The Lybia Iniziative ghi anni del regime; la necessità di diffondere una cultura della riconciliazione anche attraverso un sistema di informazione libero; la richiesta di formazione nelle metodologie della conflict transformation. Tutti i nostri interlocutori hanno convenuto sulla necessità di iniziare il più presto possibile l’implementazione delle misure discusse e condivise. A tal fine hanno considerato appro-

Ho accolto con convinzione l’invito dell’associazione internazionale Ara Pacis Initiative a mettere a punto e coordinare un piano di azione per la riconciliazione in Libia. Il know how teorico e di ricerca acquisito sul campo e riversato nelle attività didattiche e di formazione per l’insegnamento di Teorie dei conflitti e processi di pace e del master in Peacekeeping & Security Studies, si è rivelato fondamentale priata la decisione di creare nel novembre 2012 un portale (www.thelibyainitiative.com) in tre lingue (italiano, inglese, arabo) per gli scambi di informazioni in tempo reale tra i partner italiani e libici del progetto e tra quanti fossero comunque interessati a partecipare. Sulla base di quanto emerso dall’indagine pilota, è stato elaborato un progetto di intervento, dedicato alla dimensione umana della pace, che intende utilizzare le leve della produzione culturale e artistica per promuovere la riconciliazione sociale, la democratizzazione, i diritti umani e il dialogo interculturale. Il progetto si snoda attorno a tre cardini: a) sostegno e rafforzamento di media per la riconciliazione; b) azioni collettive per la memoria e la raccolta di storia orale; c) training per il consolidamento della fiducia, trasformazione del conflitto e nuovi orizzonti. Il primo punto si basa sulla convinzione che un sistema di informazione radicato in principi di inclusione e in standard condivisi di indipendenza e obiettività sia una condizione indispensabile per la riconciliazione sociale. È noto infatti come in numerosi casi i “media dell’odio” si sono trasformati in veri e propri

strumenti di morte, accompagnando e supportando le dinamiche violente di conflitti come quelli in Rwanda e nella ex Jugoslavia. L’intervento intende formare un giornalismo per la riconciliazione e sostenere citizen journalists e fotoreporter che aspirano a raccontare una Libia diversa e impegnata nella pacificazione. La costruzione di una piattaforma per la condivisione delle informazioni via web e telefono cellulare supporterà l’iniziativa. Il secondo punto riconosce il potere della narrativa nel mobilitare le persone attorno ad uno scopo comune e incoraggia, con la collaborazione dei colleghi di università libiche, lo sviluppo di un nuovo quadro narrativo, nell’intento di comporre i “frammenti” di esperienze in un mosaico condiviso. Il nuovo “racconto” sarà affidato nella sua diffusione anche alla comunicazione emozionale dell’arte. Il terzo intende formare una nuova generazione di operatori libici della dimensione umana attraverso metodologie di trasformazione del conflitto e la condivisione di esperienze e testimonianze al fine di promuovere una cultura politica del perdono e della riconciliazione. Essere ascoltati e condividere esperienze traumatiche rappresenta un’esigenza difficilmente negoziabile e un primo passo verso una normalizzazione della vita quotidiana. Nell’elaborazione del progetto è stata data particolare attenzione ai meccanismi sociali radicati nelle società arabo-islamiche quali per esempio la metodolo-

In Libia la fine del regime di Gheddafi ha lasciato pericolose divisioni in un paese fragile e frammentato in cui le alleanze tribali sono più forti della lealtà al nuovo Stato e in cui pressoché ogni famiglia è stata toccata da perdite e da eventi traumatici gia di composizione dei conflitti (as sulh) e di riconciliazione (musahala) come pure alla tradizione di cantastorie (el hakawati). L’azione in Libia prevede la partecipazione delle università di Bengasi, di Misrata, di Sebha e di Tripoli, dell’associazione libica Al Mubadara Libya Assalam, della testata Libya Herald e della casa editrice Al Kalema e dovrebbe iniziare nella tarda primavera. In ogni modo, la progettazione di questo intervento per l’indagine pilota sul campo e per i contatti che sono stati avviati ha costituito già di per sé un’esperienza ricca di significato sia sul piano scientifico che su quello umano.

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Un impegno che non conosce confini Thây: un monaco, un maestro, un uomo di Elisabetta Tosini Plum Village (Bordeaux). Dal poggio di fronte si scorge il castello di Eleonora d’Aquitania, dove nacque Riccardo Cuor di Leone. Non lontano la rocca medievale di Duras, paese natio del padre di Marguerite, scrittrice di storie ambientate nell’Indocina coloniale, ora Vietnam. Il destino Elisabetta Tosini vuole che un piccolo popolo vietnamita risalga ogni giorno quelle colline in silenzioso corteo. Avvolti nel saio marrone, visi lieti e assorti, praticano tra i vigneti bordolesi la “meditazione camminata”. A guidarli è Thây (maestro), il monaco più anziano. A lui fanno capo quattro cascinali divenuti monasteri buddisti di tradizione zen, dove soggiornano molti laici, anche cristiani, in cerca di quiete. Minuto, magro, dai lineamenti aspri, ma pronti a schiudersi nel più disarmante dei sorrisi. Occhi neri, vivacissimi e saettanti sotto la testa rasata. I movimenti lenti, di chi è in perenne stato contemplativo, confermano che non c’è niente di più vero per questo monaco buddhista che da mezzo secolo si batte contro la guerra. Thich Nhat Hanh, 87 anni, è tra i maggiori maestri spirituali del nostro tempo, ma è stato anche un formidabile guerriero della pace, avendo messo in pratica il precetto buddista della compassione in modo integrale, a 360 gradi, guardando alla sofferenza senza distinzioni ideologiche. A 16 anni entra come novizio nel monastero zen Tu Hieu, nella città imperiale di Hue, Vietnam centrale. Da subito si impegna nella ricerca per comprendere le radici stesse del buddhismo. Scrive articoli su riviste nazionali per far sapere che il cambiamento sociale può essere fondato sull’impegno, la responsabilità e l’amore. Pratica con rigore la via della presenza mentale nella vita quotidiana, e dimostra che la saggezza millenaria del buddhismo può dare un contributo importante al cambiamento sociale, partendo dalla trasformazione di se stessi. È il 1964, il Vietnam è devastato dalla guerra e i “Piccoli corpi di pace”, creati dal maestro, soccorrono le vittime di entrambi i fronti, morendo sotto i bombardamenti. Thây decise che quella tragedia doveva concludersi e volò a New York. «Questo gentile monaco buddhista vietnamita, è un umanista dalle immense Thich Nhat Hanh

capacità intellettuali. Le sue idee per la pace, se fossero applicate, costruirebbero un monumento all’ecumenismo, alla fratellanza mondiale, a tutta l’umanità». Così venne definito da Martin Luther King che lo propose per il Premio Nobel per la pace, proprio in quegli anni. A New York incontrò il sottosegretario alla Difesa Robert McNamara, che si disse «molto turbato» (si dimise dopo poco). In Vietnam, però, si continuava a morire. Il maestro creò una Delegazione buddhista per la pace e la guidò ai negoziati di Parigi fino agli accordi del ’73. Dopo la caduta di Saigon (1975), si impegnò per i profughi (boat people) dal Vietnam, e nelle sue visite negli USA portò avanti ritiri di consapevolezza per i veterani della guerra. I nuovi padroni comunisti, però, non gradirono, per lui fu l’esilio e i suoi libri furono vietati in patria.

Thich Nhat Hanh, 87 anni, è tra i maggiori maestri spirituali del nostro tempo, ma è stato anche un formidabile guerriero della pace Nel gennaio del 2005, dopo 39 anni di esilio, Thây ritorna in Vietnam per una visita di tre mesi su invito del governo. È accompagnato da 100 monaci e 90 laici provenienti da diversi paesi. In occasione del Capodanno Lunare, parla alle migliaia di persone riuniti nel tempio Phap Van, a Saigon, sottolineando come, per 39 anni, sia stato una cellula espulsa dal proprio corpo. Dopo l’11 settembre, agli americani che gremivano la Riverside Church di Manhattan, rivolge il suo invito a non cedere alla rabbia. Il fulcro del pensiero di Thich Nhat Hanh risiede nella capacità di dialogare, piena di silenzi e risonanze interiori: tra le singole persone, all’interno della propria casa, con i genitori e i figli, con i coniugi e i compagni. Lì risiedono le radici della pace, in quella comprensione intima che non sempre sappiamo applicare al nostro microcosmo. Per questo, nei suoi insegnamenti, il piccolo e il grande non sono mai separabili, si parla sempre del mondo e delle relazioni di tutti i suoi frammenti, a partire dall’invisibile, da ciò che non sappiamo cogliere, perché oberati o “sordi”. È nel 1983, a Bordeaux, in Francia, che nasce “Plum Village”, il monastero e centro di pratica per laici di tutto il mondo, dove Thây tuttora vive e prosegue il suo impegno che non conosce confini.


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David Meghnagi /Abraham Yehoshua: dialoghi, agosto 2000 Abraham Yehoshua. Dopo la guerra dei sei giorni, non è più possibile separare del tutto fisicamente i due popoli. Israeliani e palestinesi resteranno legati, anche se nascerà uno Stato palestinese ed io riAbraham Yehoshua tengo che nascerà con la conseguente creazione di confini politici fra i due Stati. Si tratta di un aspetto particolarmente complicato… del contenzioso israeliano palestinese, soprattutto per quel che riguarda l’assetto della città vecchia di Gerusalemme… Ci vorrà molto lavoro, molta saggezza, molta intelligenza… e volontà. Proviamo a immaginare Roma e Parigi nella stessa via… David Meghnagi. Qualcosa di più che Roma e Parigi insieme, nel senso che il confine, in questo paese, è come se passasse per il quartiere latino. È facile dare consigli, quando il confine non passa per “Notre Dame” e “Chatelet”, “Piazza di Spagna e Via del Corso, quando insieme lo Stato ebraico e il futuro Stato palestinese, sono grandi quanto la Sicilia, la distanza che separa il Mar Mediterraneo dal fiume Giordano è di poche decine di chilometri, il territorio su cui dovrà nascere lo stato palestinese è grande quanto la provincia di Viterbo, i sobborghi orientali di Tel Aviv, si affacciano sui confini… A.Y. … È la sfida di questo luogo, una grande sfida… Se avrà successo sarà un evento grandioso. Se non avrà successo, sarà un disastro per tutti. D.M. Mi hai detto prima che l’argomento ha ispirato un tuo nuovo libro sui rapporti tra Occidente e Oriente… A.Y. … Siamo in un luogo d’incontro non romantico alla Lorenz o di tipo orientalistico, ma di sostanza: un “super Occidente” e Oriente, con tutti i suoi problemi. Abbiamo da un lato l’occidente più autentico, scienza, democrazia, corte suprema, liberalismo, giornali liberi, high tech, tutto ciò il super occidente, abbiamo una Silycon Valley come a Los Angeles in California, super con formazione d’internet. Sotto quest’aspetto Israele è un paese occidentale. Allo stesso tempo abbiamo il partito Shas, gli ebrei orientali con i loro problemi… D.M. Anche un “super oriente”, il mondo arabo con la sua cultura e la sua storia, gli ebrei di origine orientali all’interno di una società di tipo occidentale…

A.Y. Certo anche un “super oriente”. L’oriente arabo, palestinese, il mondo arabo, cui si unisce il nostro oriente, l’oriente che viene dal popolo ebraico. C’è un occidente per eccellenza, dal punto di vista David Meghnagi dell’assetto democratico, del sistema giuridico, del liberalismo, del viaggiare e dell’edonismo. D’altro canto qui c’è un oriente arabo con i suoi grandi problemi, che non ha sperimentato sino in fondo liberalismo e democrazia. La civiltà araba tuttora fatica a integrare i principi della democrazia. Occidente e Oriente qui s’incontrano… I popoli europei che si affacciano sul Mediterraneo, devono aiutarci affinché quest’esperimento non fallisca. Se l’esperimento fallisse, sarebbe una catastrofe. Ne va del futuro stesso delle civiltà mediterranee che sono frutto d’incontri di questo genere. Per loro è importante che quest’incontro si realizzi. Dovete aiutare gli arabi e noi, perché una tale prospettiva si affermi. Il brano riprodotto è la parte conclusiva di una lunga conversazione con Abraham Yehoshua nell’agosto del 2000 per un documentario su Gerusalemme realizzato con Claudia Hassan (Gerusalemme città di specchi: la città santa; la città contesa, Abraham Yehoshua e Gerusalemme, Rai Sat). Con Yehoshua girai in lungo e in largo la sua città natale. Insieme sostammo nei luoghi della sua infanzia, dove mezzo secolo prima sorgeva un albero sotto il quale lo scrittore passava ore in cerca d’ispirazione. Eravamo passati per la casa in cui aveva abitato da ragazzo. Lì vicino sorgeva una tipografia di Reuven Massi, un editore che aveva perso il figlio nella guerra del 1948-49. Il fatto che Yehoshua ricordi la morte di quel giovane, che aveva conosciuto e con cui aveva forse giocato, ha un valore di richiamo che non può essere eluso. Con Yehoshua avevo sostato nelle vie in cui avevano vissuto Martin Buber, Scholem e Agnon. Osservando dalle colline circostanti, la città nuova e quella vecchia. Girando per le strette viuzze della città vecchia, solcate millenni orsono dai profeti assetati di giustizia, che hanno contribuito a rivoluzionare la morale e l’etica del mondo intero. A Gerusalemme le pietre hanno un cuore che palpita e chiede ascolto.

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L’infanzia di Yehoshua si era svolta a Gerusalemme in un mondo piccolo e accerchiato da un mare arabo ostile. Il padre parlava perfettamente l’arabo, una lingua che lo scrittore ha cominciato a scoprire molto dopo, introducendo delle parole nei suoi romanzi. La mia infanzia si era svolta dentro quel mare, in un paese arabo, la Libia, che ho definitivamente abbandonato dopo un sanguinoso pogrom nel giugno 1967. Il terzo in ventidue anni. Prima c’erano state le persecuzioni fasciste, le deportazioni nel campo di Giado per le popolazioni ebraiche della Cirenaica, dove in molti morirono. L’arabo lo parlavo quotidianamente per strada e in casa insieme all’italiano e al dialetto ebraico tripolino. Dipendeva dall’età delle persone e dalla loro appartenenza culturale e religiosa. Per strada e a scuola, Israele non poteva essere nominato. Il suo nome era cancellato dalle carte geografiche e la burocrazia spendeva molte ore della sua giornata lavorativa per purgare i giornali stranieri di ogni riferimento allo Stato ebraico. I giornali esteri arrivavano al pubblico con le pagine tagliate dalla censura. La pagine mancanti ci ricordavano quel che ci sarebbe potuto accadere se gli equilibri precari su cui poggiava la nostra sicurezza fisica fossero venuti meno. Conoscevo l’ebraico biblico e l’aramaico antico per averli studiati e questo mi permetteva di viaggiare attraverso le lingue semite ed europee. Il viaggio attraverso lingue diverse era per me un’oasi di libertà. Le differenze di cultura e di appartenenza non erano una barriera, ma un’opportunità. Con Yehoshua mi ero visto per la prima volta, molti anni prima a Buenos Aires, a un congresso di psicoanalisi, dove avevo tenuto una sessione sulle nuove forme di antisemitismo. Due anni dopo il nostro incontro a Gerusalemme, lo scrittore è stato ospite di Roma Tre, dove ha fatto lezione per un mese intero. Per il nostro Ateneo fu un’esperienza

Gerusalemme

indimenticabile. I temi che avevo concordato, avevano una grande valenza etica e politica, nessuno dei problemi era stato evitato: l’immagine dell’arabo e le sue trasformazioni nella letteratura israeliana; le ragioni e i torti; l’angoscia quotidiana e l’insicurezza prodotta dal terrorismo sulla vita degli israeliani; il dramma dei profughi palestinesi, cui per decenni gli Stati arabi impedirono di ricostruirsi una vita per trasformarli in uno strumento di guerra permanente contro Israele; la fuga in massa degli ebrei dai paesi arabi; la questione di Gerusalemme; la ricerca di un compromesso politico; il ruolo dell’Europa nella regione; il pericolo del fondamentalismo e del terrorismo islamici; l’antisemitismo più antico e quello più recente; la necessità di tenere viva la speranza in un futuro diverso. La domanda che ci eravamo posti e che avremmo voluto approfondire con la comunità scientifica di Roma Tre, era come tutti questi problemi apparivano riflessi nell’arte e nella letteratura. La scelta della letteratura come strumento di mediazione aveva una valenza terapeutica, di drammatizzazione e di abreazione. Obbligava a ripensare i luoghi comuni in cui è avvolto il dibattito sul Vicino Oriente, per non parlare delle derive antisemite che mettono in discussione il diritto all’esistenza di Israele. Non era in discussione il diritto alla critica, che è il sale della democrazia. Ma i modi in cui era, in molti casi, formulata, le equazioni simboliche sottese ed esplicite. Indugiare su un testo letterario o su una poesia, obbligava a pensare. Il concentrarsi sul come apparivano riflessi nella letteratura, i drammi della regione mediorientale, le angosce e le paure delle persone singole, era un atto di libertà e di responsabilità condivise. Obbligava a pensare prima di intervenire, a curare le proprie parole malate, come si curano le persone quando non stanno bene.


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Il bosone di Higgs e la nostra vita Stralci della prolusione tenuta da Fabiola Gianotti, ricercatrice presso il CERN di Ginevra e coordinatrice dell’esperimento ATLAS, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Accademico 2012-2013 Il CERN è il più grosso laboratorio al mondo per la fisica delle particelle, è un centro di eccellenza in cui da cinquant’anni a questa parte si fa ricerca fondamentale coronata da molte scoperte e da premi Nobel (anche a fisici italiani, come Carlo Rubbia nel 1984). È un centro in cui gli obiettivi scientifici richiedono lo sviluppo di tecnologie innovative di punta in molti campi, tecnologie che vengono poi trasferite alla società a vantaggio della vita di tutti i giorni. Un esempio famosissimo è il Web, che fu introdotto all’inizio degli anni Novanta al CERN per facilitare lo scambio di informazioni fra i fisici coinvolti negli esperimenti e che da allora ha cambiato il modo in cui la società accede alle informazioni. Il CERN è anche un posto in cui si formano i giovani, gli scienziati di domani ma anche studenti di scuole superiori, attraverso un grande numero di iniziative. Ed è un posto molto speciale per unire i popoli attraverso la collaborazione di più di 10.000 scienziati che vengono da circa 60 paesi di tutto il mondo. (…) La fisica delle particelle agli acceleratori, in particolare all’acceleratore più potente che abbiamo oggi, l’LHC, ci permette di studiare, scrutare e sondare la materia a livello dei quark, quindi su scale di un miliardesimo di miliardesimo di metro. E questo studio dell’“infinitamente piccolo” ci permette anche di capire “l’infinitamente grande”, cioè la struttura e l’evoluzione dell’universo. L’universo ebbe origine 14 miliardi di anni fa da un grande scoppio iniziale, il cosiddetto Big Bang, e all’inizio era governato dalle leggi della fisica delle particelle elementari. Quindi lo studio in laboratorio delle particelle e delle loro interazioni ci permette di riprodurre le condizioni iniziali dell’universo. Col tempo poi l’universo si è espanso e raffreddato e le macrostrutture (stelle, galassie) si sono formate dando luogo all’universo che conosciamo oggi. (…) L’acceleratore più potente, i rivelatori più sofisticati e le strutture di calcolo più avanzate in fisica delle particelle sono stati concepiti, sviluppati, costruiti e sono ora in operazione nell’ambito del progetto LHC. Quest’ultimo è senz’altro uno dei progetti scientifici più ambiziosi di tutti i tempi. Ha richiesto l’introduzione di concetti nuovi e tecnologie di punta in molti campi, dalla criogenia, alle tecniche di vuoto, ai materiali superconduttori, all’elettronica etc. e vent’anni di sforzi della comunità scientifica internazionale. Che cosa è l’LHC? È un tunnel sotterraneo a forma di anello di circonferenza 27 chilometri situato nella campagna tra la Svizzera e la Francia. L’LHC è localizzato 100 metri sotto terra. Il sito principale del CERN sorge vicino l’aeroporto di Ginevra. Due fasci

di protoni vengono fatti circolare in senso opposto in questo anello, sono accelerati fino a velocità prossima a quella della luce e poi vengono portati in collisione in quattro punti dove, in quattro enormi caverne sotterranee, sono stati installati quattro grossi apparati sperimentali che registrano i prodotti delle collisioni. Si chiamano ATLAS, CMS, LHCB e ALICE. ATLAS e CMS sono i più grossi e sono quelli che hanno portato alla scoperta del bosone di Higgs; in particolare il gruppo di Roma Tre partecipa all’esperimento ATLAS. (…) L’LHC ha cominciato a operare nel marzo del 2010, quando l’acceleratore ha prodotto le prime collisioni di fasci di protoni ad energie senza precedenti (…). Da allora l’acceleratore e gli esperimenti hanno funzionato in maniera eccellente e al di là delle previsioni più ottimistiche, nonostante la complessità senza precedenti di questi strumenti. Abbiamo registrato un gran numero di dati, abbiamo “riscoperto” tutte le particelle del Modello Standard che già conoscevamo e ne abbiamo misurato le proprietà e le forze in un nuovo regime di energia. Abbiamo anche cercato nuove particelle e fenomeni nuovi, non abbiamo trovato nulla finora al di là di quanto previsto dal Modello Standard, e abbiamo quindi potuto eliminare alcune teorie di nuova fisica le cui previsioni non sono state osservate. E, soprattutto, nel luglio di quest’anno, gli esperimenti ATLAS e CMS hanno annunciato la scoperta di una particella che ha tutte le caratteristiche del bosone di Higgs, una particella pesante, con massa circa 130 volte quella del protone. Qual è l’importanza di questa scoperta? Fino al 4 luglio scorso non conoscevamo l’origine delle masse delle particelle elementari, cioè perché il fotone non ha massa ed è pura energia, mentre le particelle W e Z hanno una massa pari a 100 volte quella del protone; perché la particella elementare più massiva scoperta finora, il quark top, ha una massa simile a quella di un atomo d’oro, mentre l’elettrone ha una massa circa 350.000 volte più piccola. Nel Modello Standard, le particelle elementari acquistano massa grazie ad un meccanismo che fu introdotto nel 1964 da alcuni fisici, fra cui Peter Higgs. Al momento del Big Bang, circa 14 miliardi di anni fa, le particelle non avevano massa, erano tutte pura energia e si muovevano nell’universo alla velocità della luce. L’universo era permeato da una specie di “etere”, il campo di Higgs, che c’era ma era come se non ci fosse, perché le particelle non lo vedevano. Ad un certo punto, quando la temperatura dell’universo è scesa sotto un certo valore e questo è successo un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, il campo di Higgs è per così dire entrato in funzione


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lizzati per applicazioni in campo medico, per esem(…) passando da uno stato di etere innocuo ad uno stapio per il trattamento dei tumori. Questi acceleratori to più consistente, immaginatevi una specie di “melasusati in medicina sono stati sviluppati su tecnologie sa”. A quel punto le particelle che prima di allora se ne sviluppate al CERN o in laboratori simili, con il conandavano in giro nell’etere alla velocità della luce, tributo di Istituti come l’INFN e di molte Università tranquille e indisturbate, hanno cominciato a sentire la italiane e straniere. Un altro esempio: uno degli scanpresenza di questo nuovo mezzo. Ora immaginate che ner più usati oggi è la cosiddetta PET, Positron Emisle particelle siano come piccole biglie, alcune perfettasion Tomography, il cui concetto è basato su strumente lisce altre più rugose. Le particelle lisce contimentazione sviluppata al CERN. nuano a passare attraverso la melassa senza accorgerL’Italia ha dato contributi molto significativi a queste sene, quelle più rugose appiccicano la melassa, si inimprese scientifiche e tecnologiche. L’Italia è uno dei grossano e vengono rallentate. Hanno acquistato una paesi fondatori del CERN, in particolare grazie alla vimassa. Questo è, in parole povere e scientificamente sione di Edoardo Amaldi, e conta due fra i Direttori non rigorose, il meccanismo di Higgs. Le particelle acGenerali del laboratorio, Carlo Rubbia e Luciano quistano massa attraverso l’interazione con il campo di Maiani. L’INFN continua una grande tradizione in fiHiggs: più forte è l’interazione, più massive sono le sica delle particelle e una scuola di altissimo valore particelle. L’idea è geniale e molto elegante; il probleche risale a Enrico Fermi e al gruppo di via Panisperma è che una delle conseguenze di questo meccanismo na. L’INFN ha contribuito alla realizzazione di LHC è l’esistenza di un’ulteriore particella, chiamata bosone con circa 600 fisici, dipendenti dell’Ente o Universitadi Higgs, che è stata cercata invano per quasi cinri associati, con molte idee e tecnologia, trascinando in quant’anni anni da acceleratori di tutto il mondo, senza quest’avventura anche l’industria italiana. successo, almeno fino al 4 luglio scorso. Apro una picÈ quindi con grande rincrescimento che assistiamo alle cola parentesi. Sono sicura che qualcuno di voi si stia conseguenze nefaste dei tagli alla ricerca di base nel nochiedendo perché il bosone di Higgs e le masse delle stro Paese. Il loro impatto è soprattutto sui giovani e sul particelle siano così importanti. Dopotutto l’impatto di loro futuro. L’aumento dilagante del precariato costrinquesti bei concetti sulla vita di tutti i giorni è nullo. Il ge i nostri giovani a emigrare all’estero. Trascorrere un problema è che se le particelle elementari non avessero periodo all’estero è un’esperienza molto arricchente che esattamente le masse che hanno noi non esisteremmo. consiglierei a tutti. Ma deve esserci la possibilità di torInfatti il protone potrebbe decadere, se il protone decanare in Italia per coloro che desiderano fare ricerca nel desse non ci sarebbero gli atomi e gli elementi chimici, nostro Paese. Il flusso non deve essere in una sola direnoi non saremmo quello che siamo, l’universo non sazione. I tagli alla ricerca fanno scappare i giovani, imrebbe quello che è. Magari esisterebbe, ma in forma pediscono alle Università e all’INFN di partecipare a completamente diversa. Noi siamo quello che siamo progetti di punta, rendono l’Italia sempre meno attraenperché le particelle elementari hanno esattamente le te per (giovani) ricercatori stranieri e di conseguenza rimasse che hanno. Il problema è che fino al 4 luglio non schiano di estinguere una Scuola di altissime tradizioni. sapevamo se il meccanismo che dà origine a queste In Italia le Scuole (con la S maiuscola), dall’arte almasse fosse corretto. Oggi sappiamo che lo è. l’artigianato alla ricerca scientifica, sono importan(…) tissime per il prestigio e il successo (anche economiQual è l’impatto del bosone di Higgs sulla nostra vico) del nostro Paese. Le nostre Scuole si basano su ta? Il bosone di Higgs cambierà la nostra vita? un patrimonio storico di grandi tradizioni e si traIo credo che il bosone di Higgs abbia già cambiato la mandano e rinnovano di generazione in generazione nostra vita. Infatti per scoprirlo abbiamo dovuto sviattraverso luppare tecl’insegnanologie di mento di punta in mol“grandi tissimi settomaestri” e ri, come ho l’esistenza già accennato di un amall’inizio, che biente ricco sono state poi e stimolantrasferite ad te. In quealtri campi. sto conte(…) Vorrei risto, perdere cordarvi che anche una al mondo esisola genestono 30.000 razione di acceleratori giovani di particelle e può portare 17.000 di a consequesti, quindi guenze irpiù della metà, sono uti- Fabiola Gianotti all’inaugurazione dell’Anno Accademico 2012-2013. Foto di Fabrizio Loiacono © reparabili.


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La cura Intervista a Cecilia Strada, presidente di Emergency di Federica Martellini

dei principi di neutralità e indipendenza è fondamentale sia per poter assistere al meglio tutti quanti, sia per garantire la sicurezza dei medici stessi. Perché nel momento in cui sei percepito, o rischi di essere percepito, come una delle parti in conflitto o come qualcuno che sostiene una delle parti in conflitto, chiaramente rischi di diventare anche tu un bersaglio. A questo bisogna stare particolarmente attenti. Per quanto riguarda Emergency ci fu un episodio che mi colpì con forza nel 2010, quando avemmo un problema con le forze di sicurezza afghane e le truppe dell’ISAF (International Security Assistance Force, missione di supporto al governo dell’Afghanistan che opera sulla base di una risoluzione dell’ONU, NdR) entrarono nel nostro ospedale, trattenendo alcuni nostri colleghi per otto giorni con delle accuse ridicole, prima di rilasciarli con tante scuse. In Italia si scatenò un dibattito in cui c’era chi si stupiva che Emergency in Afghanistan curasse anche i talebani. In una trasmissione radiofonica mi si rinfacciò, provocatoriamente, che noi avremmo curato anche le SS nel 1944. E ovviamente è così. Noi avremmo curato assolutamente tutti. I nostri medici si comportano in

incontri

Cecilia Strada è laureata in Sociologia con una tesi antropologica sulle donne afghane. Per quindici anni è stata volontaria di Emergency, l'associazione umanitaria italiana, fondata nel 1994 da Gino Strada, Teresa Sarti e Carlo Garbagnati. Per due anni ha lavorato nell'ufficio che si occupa delle missioni estere di Emergency, e dal 2009 ne è presidente. È stata, per l'ONG, in Afghanistan, Cambogia, Iraq, Sudan, Sierra Leone e Palestina. Obiettivi di Emergency sono offrire cure mediche e chirurgiche gratuite e di alta qualità alle vittime della guerra e della povertà e promuovere una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani. Dal 2006 Emergency è partner ufficiale del Dipartimento della Pubblica informazione dell'ONU.

Il centro "Salam" di cardiochirurgia gestito da Emergency a Karthum, in Sudan. Il centro occupa un'area di 12 mila metri quadri coperti, su un lotto di terreno di circa 40 mila metri quadri sulle rive del Nilo azzurro

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Cito dal giuramento di Ippocrate: «Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro: di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento; (…) di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario». Esercitare la professione medica in un luogo di conflitto o in qualche modo di frontiera è più difficile che in un ospedale europeo? Implica di mettere in campo più profondamente i principi della deontologia professionale? Lavorare in contesti di guerra è senza dubbio più complesso per tanti motivi, a partire ovviamente dalla scarsità di risorse: qui possono capitare situazioni in cui per ogni paziente hai cinque medici, specialisti, pronti a prendersi cura di tutti gli aspetti; là invece ti trovi in frangenti in cui un solo medico deve prendersi cura di cinquanta pazienti. Oltre a questo ovviamente in una zona di guerra lavorare sulla base


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Afghanistan esattamente nello stesso modo in cui si comportano nei propri paesi di origine. In Italia può succedere che, ad esempio, un boss mafioso venga ricoverato in ospedale e nessuno si sognerebbe mai di negargli le cure. È chiaro che la giustizia fa il suo corso e i magistrati fanno il loro dovere ma il dovere del medico non è certo quello di fare il giudice, e tantomeno il boia. Quando però si parla di un altro paese questo principio base, che sta nel giuramento di Ippocrate ma anche nella convenzione di Ginevra, nel diritto internazionale e nelle leggi dell’umanità e del buon senso, di colpo scompare e si muovono accuse per il fatto di aver curato anche i nemici, ignorando il fatto che i medici non sono nemici di nessuno. Fino a qualche decennio fa c’erano i corrispondenti di guerra. Oggi leggiamo i loro reportage come documenti storici, che ci raccontano la storia attraverso le storie che hanno incontrato. Alcuni sono diventati degli straordinari testimoni di pace, penso a Tiziano Terzani ad esempio. Nel presente invece mi pare che più che i giornalisti siano proprio i medici e il personale sanitario che operano nelle zone di conflitto ad essere i testimoni più efficaci di vicende che, proprio perché viste troppo a lungo in televisione, spesso non ottengono più l’attenzione, e nemmeno la commozione, di chi le guarda da lontano. Che guerre vedete? Che storie incrociate nel vostro lavoro? Effettivamente noi siamo nati nel 1994 con, da subito, una forte vocazione alla testimonianza. Soprattutto negli ultimi anni poi c’è il problema di intere aeree di conflitto che vengono completamente ignorate dai media oppure in cui i giornalisti non riescono ad arrivare per ragioni di sicurezza. A questo si collega il fenomeno dei giornalisti embedded, che viaggiano al seguito delle truppe e che a loro volta determinano una ancora più forte insicurezza per i giornalisti free lance, perché chiaramente, quando nelle zone di conflitto i giornalisti cominciano ad essere percepiti come quelli che stanno insieme all’esercito, diventa rischioso per tutti. Noi per tanti anni, dal 2003 al luglio dell’anno scorso abbiamo avuto anche un quotidiano on line che si occupava proprio di questo: di raccontare le storie dalla parte delle vittime. Purtroppo lo abbiamo dovuto chiudere per motivi economici. E ci manca questo

fatto di non poter raccontare di più le storie che incontriamo, che sono storie devastanti, perché ogni ragazzino che salta su una mina o che si trova sotto un bombardamento o che viene coinvolto in un attentato è una storia devastante, ma che sono anche storie belle: penso ad esempio a tutte le nostre colleghe afghane che lavorano con noi, che hanno ricevuto formazione, un lavoro e che adesso sono diventate ostetriche o infermiere. Sono storie di donne e di famiglie che ci credono e che ce la fanno a costruire una vita diversa per sé e per le proprie figlie. Ecco anche nelle zone di guerra ci possono essere storie così. E d’altro canto noi vediamo storie di conflitto tutti i giorni, anche in Italia: vediamo e curiamo migranti regolari o irregolari che lavorano come schiavi nell’agricoltura, in condizioni di lavoro che io pensavo esistessero ormai solamente nei film degli anni Cinquanta, situazioni al limite della sopravvivenza, in cui i diritti sono negati costantemente.

In una trasmissione radiofonica mi si rinfacciò, provocatoriamente, che noi avremmo curato anche le SS nel 1944. E ovviamente è così. Noi avremmo curato assolutamente tutti. I nostri medici si comportano in Afghanistan esattamente nello stesso modo in cui si comportano nei propri paesi di origine. La giustizia fa il suo corso e i magistrati fanno il loro dovere ma il dovere del medico non è certo quello di fare il giudice Un’altra guerra nella quale cerchiamo di stare dalla parte delle vittime è quella contro i poveri: noi ad esempio incontriamo sempre più cittadini italiani che ci chiedono una mano per pagare il ticket. A questo proposito in Italia Emergency gestisce dei poliambulatori in Sicilia e in Veneto e da poco anche degli ambulatori itineranti. Che valore ha questo tipo di servizio in un paese dove il diritto alla salute è o dovrebbe essere garantito a tutti gratuitamente? Pensi che il vostro possa essere in


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qualche modo un modelulteriore. Noi abbiamo lo anche per la sanità centri pediatrici in Sierra pubblica? Leone, nel campo profughi di Mayo in Sudan e nella L’articolo 32 della nostra Repubblica centrafricana. carta costituzionale preveLe cure di base e la pediade che la salute debba estria già la facciamo. Con la sere tutelata e che la Recardiochirurgia abbiamo pubblica debba garantire deciso di fare un passo in cure gratuite agli indigenti, più che ha due motivazioperò poi di fatto ci sono ni. La prima è clinica: non dei grandi buchi neri. Ci lo diciamo noi ma l’Orgasono tantissime persone nizzazione mondiale della che per una serie di motivi Centro chirurgico per vittime di guerra a Lashkar-Gah, in sanità, ci sono 18 milioni non riescono ad accedere Afghanistan di persone in Africa affette alle cure gratuite. A volte da febbre reumatica, questi si tratta della mancanza di sono la maggior parte dei casi che curiamo. Sono conoscenza dei propri diritti oppure, pensando agli persone giovani. Ci sono circa 300 mila morti all’anstranieri, di problemi linguistici e di mediazione culno per patologie da febbre reumatica e non ci sono turale oppure di problemi logistici e pratici. Quelli strutture gratuite e personale formato per rispondere che lavorano nelle campagne, lontani dalle città, si a questi bisogni, proprio perché ci si è concentrati firitrovano di fatto ad essere ostaggi del caporalato, in no ad oggi su altre cose: sulla diarrea, sulla malaria, posti in cui non ci sono mezzi di trasporto pubblici. sull’HIV, le patologie dei paesi poveri, che ci sono Arrivare all’ambulatorio del medico della mutua, che ovviamente, ma che non esauriscono le patologie magari chiude alle 4 del pomeriggio, in questi casi presenti in Africa. Non è che in Africa non si muoia diventa quasi impossibile. Ecco gli stranieri hanno di tumore o di malattie cardiovascolari. storie di questo genere. Poi ci sono gli italiani: seE questo mi porta alla seconda motivazione, che è di condo il Censis 9 milioni di italiani non si sono potutipo culturale. Noi prendiamo molto sul serio il fatto ti permettere il ticket lo scorso anno. Alcuni hanno che i diritti devono essere di tutti, altrimenti non soproblemi a pagare il rimborso dei materiali che viene no più diritti ma diventano privilegi e quindi non carichiesto anche agli esenti per reddito. Altri hanno piamo perché i progressi della scienza medica, ad problemi di liste di attesa: noi l’anno scorso ci siamo esempio nelle terapie antitumorali o nella cardiochitrovati a fare ecografie morfologiche a ragazze italiarurgia, debbano essere disponibili in Africa soltanto ne, a Palermo, perché c’erano liste di attesa di mesi e per chi è molto ricco e può permettersi di andare in questo invece è un esame che va fatto in un momento un centro privato in Nigeria, dove ti chiedono 20 miben preciso. la dollari per un intervento, oppure di farsi curare nei I medici non sono nemici di nessuno migliori centri in Europa o in America. Se mio figlio che ha tre anni avesse bisogno di un intervento carQuindi voi collaborate anche con la sanità pubblidiaco, io vorrei che avesse la possibilità di averlo. ca? Non mi accontenterei di un medico che mi dice che può curargli soltanto la malaria e che devo arrenderAssolutamente sì. L’idea del programma Italia è esatmi al fatto che morirà. Nessuno di noi lo accetterebtamente questa: non di sostituirsi ma di sostenere la be e allora perché dovrebbe accettarlo una madre sanità pubblica, ad esempio facendo orientamento africana? Per noi quindi l’aver portato la cardiochisociosanitario, spiegando a tutti quelli che ne hanno rurgia in Africa è un segnale culturale molto forte. diritto come si fa ad entrare nel sistema sanitario naAbbiamo invitato i ministri della salute di tanti stati zionale e accompagnandoli nel percorso di cura, aiuafricani: molti rimangono stupiti del fatto che anche tandoli a prenotare gli esami. In questi casi si tratta in Africa si possa fare. Il nostro messaggio è che non di un meccanismo di aiuto all’inserimento nel pubsolo si può fare, di più: si deve fare. Bisogna portare, blico. Per tutti gli altri invece, penso ad esempio agli ovunque sia possibile, l’eccellenza medica ed esattairregolari, si tratta di curarli. Loro nel pubblico non mente lo stesso tipo di terapie che vorremmo per i possono entrare perché hanno paura. Dal 2007 Emergency gestisce un centro di cardionostri figli se ne avessero bisogno. Altrimenti stiamo chirurgia in Sudan, una struttura altamente spefacendo solo della carità. cializzata che rappresenta un caso raro, credo, nel Oltre a questo c’è l’aspetto della formazione, che è continente africano. Da molte parti si è criticata molto importante: poter portare della formazione questa vostra scelta sostenendo la tesi che in paesi specializzata in Africa, significa lasciare risorse sul dove mancano le cure mediche di base avrebbe territorio e aiutare ad arginare la fuga dei cervelli. poco senso una struttura di questo tipo. Ce ne poLeggevo qualcosa sul fatto che ci sono più medici tresti spiegare le ragioni? sierraleonesi a Birmingham che in tutta la Sierra Leone: chi ha la possibilità di studiare all’estero poi Innanzitutto vorrei dire che la cardiochirurgia per noi non torna più. Perché un medico specializzato che ha non è un’alternativa alle cure di base ma è un passo

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studiato in Inghilterra poi dovrebbe tornare nel proprio Paese e lavorare in un dispensario col pavimento di terra battuta distribuendo antibiotici in scadenza? Per questo creare delle strutture che siano in grado di fare alta formazione del personale nazionale, nei paesi di origine, e poi dargli la possibilità di lavorare lì, significa coltivare delle risorse per il futuro.

Nelle zone di guerra si possono incontrare anche storie belle: penso ad esempio a tutte le nostre colleghe afghane, che hanno ricevuto formazione, un lavoro e che adesso sono diventate ostetriche o infermiere. Sono storie di donne e di famiglie che ci credono e che ce la fanno a costruire una vita diversa per sé e per le proprie figlie Proprio una storia legata al centro Salam di Karthum è stata raccontata in un documentario di Kief Davidson, Open Heart, coprodotto dell’emittente televisiva franco-tedesca ARTE. Open Heart è stato nominato qualche giorno fa per gli 85esimi Academy Awards. Ci parli della storia che racconta? È una cosa che ci ha fatto molto piacere. Questo regista, che noi non conoscevamo, stava girando per il Rwanda dove ha incontrato questi otto bambini che stavano intraprendendo un viaggio verso il nostro centro in Sudan per essere operati. Si è appassionato alla storia, ci ha contattato dicendo che avrebbe voluto mettere anche il nostro ospedale nel documentario. Alla fine il documentario è diventato il racconto di questa storia, che è la storia di otto ragazzini, le cui famiglie non avevano più speranza perché, come

troppe famiglie in Africa, si erano arrese al fatto che con una patologia cardiaca sei destinato a morire, perché non ci sono strutture che ti accolgono gratis. Poi hanno trovato noi e sono stati operati presso il centro. È incredibile vedere come un bambino rifiorisca dopo un intervento di questo tipo. Sono sempre dei pazienti estremamente complessi, perché spesso alla patologia si aggiunge la malnutrizione e a volte la malaria. Operiamo bambini di otto anni che pesano 11 chili. Questa è la norma. A due settimane dall’intervento alcuni sono irriconoscibili, completamente trasformati perché ricominciano a mangiare, a crescere.

I diritti devono essere di tutti, altrimenti non sono più diritti ma diventano privilegi A chi obietta che con quello che costa un intervento di cardiochirurgia si potrebbero curare tanti bambini ammalati di malaria, io dico che è giusto farsi delle domande, sono obiezioni che comprendo. Non seguo molto però chi comincia a parlare di costo-paziente perché associare un costo alla vita delle persone per me è una china sbagliata. Perché allora si potrebbe dire anche che un intervento di chirurgia di guerra su un bambino che è saltato su una mina costa di più che non curare una polmonite. Ma allora cosa dovremmo fare lasciar morire lui perché allo stesso costo si possono curare dieci polmoniti? No, si cura chi ha bisogno, per il motivo per cui ne ha bisogno e quando ne ha bisogno. Prima o poi mi piacerebbe avere i nostri critici, quelli in buona fede, in visita al nostro centro Salam a vedere qualcuno di questi ragazzini che poi ricomincia a correre e a giocare nel giardino dell’ospedale. Ecco questo forse, più di mille parole mie, dà il senso del perché questo progetto si deve fare.

Uno degli ambulatori mobili di Emergency che prestano servizio per periodi definiti in aree a forte presenza di migranti, come le aree agricole, i campi nomadi o i campi profughi


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Le emergenze dei diritti umani Intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia di Valentina Cavalletti

Riccardo Noury, 49 anni, fa parte di Amnesty International dal 1980. Autore o coautore di numerose pubblicazioni sui diritti umani, è attualmente portavoce e direttore della comunicazione dell’associazione per l’Italia. Ha curato l’edizione italiana di Poesie da Guantánamo. La parola ai detenuti (EGA, 2008) che raccoglie 22 poesie scritte da 17 uomini tenuti prigionieri in isolamento e senza processo per anni nel centro di detenzione degli Stati Uniti di Guantánamo. Cura due blog sui diritti umani su Il fatto quotidiano.it e su Corriere della Sera.it.

Il nuovo anno si è aperto con i dati allarmanti sul conflitto siriano, forniti dall’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani: 60.000 morti dal 15 marzo 2011 ad oggi. Dalle pagine del blog di Amnesty International e del Corriere della Sera, curato da lei e dalla giornalista Monica Ricci Sargentini, viene lanciato l’allarme per innalzare il livello di attenzione dei media e dell’Occidente nei confronti di questa drammatica guerra. Ci spiega le cause del conflitto e dell’apparente indifferenza della politica internazionale? La rivolta della Siria ha un’origine analoga a quella delle rivolte che all’inizio del 2011 hanno acceso quella parte di mondo che corrisponde all’Africa del Nord e al Medioriente. Una rivolta che aveva come parole d’ordine giustizia, fine della corruzione e fine della repressione e che si è sviluppata in larga parte e per molto tempo in forma pacifica, fino a quando, reagendo alla violenta risposta delle autorità governative, i protagonisti della rivolta hanno smesso di offrire fiori ai soldati. Oggi ci troviamo di fronte a una situazione molto complessa e l’avvitarsi della crisi spiega solo in parte l’indifferenza della politica internazionale. Alla base c’è una profonda divisione all’interno del Consiglio di sicurezza, un’importante responsabilità della Russia e in secondo luogo della Cina nell’aver impedito soluzioni possibili in tempi utili. In realtà le speranze di una composizione pacifica di questo conflitto sono nulle, se non altro perché un’ipotesi negoziale presupporrebbe una volontà politica da entrambe le parti che oggi manca del tutto. Peraltro bisogna pur ammettere che, in misura diversa, le due parti dovrebbero stare di fronte a un giudice internazionale piuttosto che sedere a un tavolo negoziale per la pace. L’Italia come si sta ponendo di fronte a questa tragedia? L’Italia segue gli orientamenti della politica comune dell’UE e quindi ha dato alcuni segnali: dal riconoscimento dell’opposizione alla dichiarazione di persona non grata nei confronti dell’ambasciatore della Cina in Italia. Per il resto ha la sua parte di responsabilità nell’aver lasciato incancrenire questa situazione.

Amnesty ha accolto con molta speranza il voto del 20 dicembre 2012 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che ha approvato, con un’ampia maggioranza, la risoluzione per una moratoria sull’uso della pena di morte. L’«obiettivo abolizionista» è davvero così vicino? Sì, oggi considero la pena di morte un’emergenza dei diritti umani molto circoscritta. La domanda vera infatti non è se verrà abolita ma quando verrà abolita. Se non arriveremo presto all’abolizione definitiva e formale, assisteremo di certo alla riduzione del fenomeno a una manciata di stati, come la Cina, l’Iran, l’Iraq, l’Arabia Saudita, che ancora per lungo tempo si ostineranno a utilizzare la pena di morte.

La rivolta della Siria ha un’origine analoga a quella delle rivolte che all’inizio del 2011 hanno acceso l’Africa del Nord e il Medioriente. Una rivolta che aveva come parole d’ordine giustizia, fine della corruzione e fine della repressione e che si è sviluppata in larga parte e per molto tempo in forma pacifica, fino a quando, reagendo alla violenta risposta delle autorità governative, i protagonisti della rivolta hanno smesso di offrire fiori ai soldati Le posizioni dell’America non sono confortanti da questo punto di vista: vede qualche margine di cambiamento per il futuro? Persino negli Stati Uniti ci sono segnali importanti di un ripensamento generale sull’uso della pena di morte: pur rimanendo costante il numero delle esecuzioni, che nel 2012 sono state 43 così come nel 2011, è aumentato il numero dei singoli stati abolizionisti, da quando anche il Connetticut si è pronunciato in tal senso; stanno diminuendo le condanne a morte inflit-

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te, cosa che comporterà una forte, corrispondente, diminuzione delle esecuzioni; l’opinione pubblica mostra di essere disponibile a prendere in considerazione pene alternative rispetto alla condanna a morte e parallelamente si riduce il consenso verso la pena capitale, pur essendo sempre maggioritario. L’ultimo sondaggio della Gallup dà i favorevoli al 63%, una maggioranza che abbiamo persino in Paesi dove la pena di morte non è prevista. Tuttavia, visto che la pena di morte significa vite umane che perdiamo, visto che si tratta di omicidi di stato, visto che ogni esecuzione è sangue che si pone tra noi e questo traguardo, il livello di guardia non si deve assolutamente abbassare. Lei ha curato la pubblicazione italiana delle poesie dei detenuti di Guantanamo. Come si può parlare di giustizia in un sistema dove non ci sono garanzie per chi sbaglia? Dopo la sentenza dell’8 gennaio, con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza, non si può più fare a meno di guardare con preoccupazione alla situazione delle carceri in Italia. Quali sono le questioni più urgenti da affrontare per il nostro sistema carcerario? Collegando il tema della giustizia alla pena di morte, noi sappiamo che l’infallibilità non fa parte di questo mondo, soprattutto nei giudizi. Lasciare pertanto questo potere così assoluto di vita e di morte nelle mani di una giustizia che di per sé è fallibile e che in alcuni paesi è arbitraria e completamente sfuggente a ogni standard internazionale sui processi equi è un errore grave. Questo è uno dei motivi, tra gli altri, per cui siamo per l’abolizione della pena di morte. Tornando a Guantanamo, oggi è l’undicesimo anniversario della sua apertura: dentro ci sono ancora 166 detenuti, molti dei quali con la prospettiva di non uscirne perché trattenuti a tempo indeterminato. Guantanamo è diventato il simbolo visibile di un trattamento carcerario che è equivalente alla tortura. La sentenza della Corte europea per quanto riguarda l’Italia è importante perché chiama il nostro Paese non solo a darvi attuazione in tempi certi ma pone una questione ancora più urgente e attuale: modificare le situazioni più gravi e palesi presenti all’interno degli istituti di pena italiani. Amnesty International non fa ricerca all’interno di questi istituti ma credo che, grazie a questa sentenza, questo problema abbia raggiunto la visibilità che merita.

Quali sono – se esistono nel mondo – sistemi penitenziari da prendere a modello per migliorare? I sistemi da prendere a modello sono quelli che rispettano gli standard internazionali. Quando si parla di sistemi penitenziari, possiamo far riferimento a principi metagiuridici, come quelli sanciti dalle Costituzioni, che sottolineano come il senso della pena sia quello della rieducazione più che della punizione; ma i principi vincolanti sono quelli sanciti a livello internazionale sul trattamento dei detenuti, che prevedono pene detentive che rispettino la loro dignità. Quella di adeguarsi pertanto non è un’opzione: oggi c’è anche una sentenza di un organo di giustizia europeo che ce lo ricorda. Obama chiuderà Guantanamo? Sulla base del luogo comune per cui nel secondo mandato i Presidenti sono più liberi di agire rispetto al primo, dovrei rispondere di sì. Ma poi ci sono segnali di tipo diverso, che a ben guardare non ci fanno ben sperare. Amnesty continua a chiedere al Presidente degli Stati Uniti di chiudere Guantanamo e oggi aspetta che vengano rispettate le promesse fatte.

Oggi considero la pena di morte un’emergenza dei diritti umani molto circoscritta. La domanda vera infatti non è se verrà abolita ma quando verrà abolita Quest’anno il Nobel per la Pace è stato assegnato all’Unione Europea. Tra le motivazioni si legge: «L’Ue sta affrontando una difficile crisi economica e forti tensioni sociali. Il Comitato per il Nobel vuole concentrarsi su quello che considera il più importante risultato dell’Ue: l’impegno coronato da successo per la pace, la riconciliazione e per la democrazia e i diritti umani. Il ruolo di stabilità giocato dall’Unione ha aiutato a trasformare la gran parte d’Europa da un continente di guerra a un continente di pace». Cosa pensa di questa scelta? Quali sono, se ci sono, i punti deboli dell’Europa sotto il profilo della negazione dei diritti umani? Questo Nobel all’UE appare simile ai premi alla carriera che si danno ai registi. Accontentarsi di questo premio, intendendolo come un riconosci-


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mento alle glorie del passato, non è sufficiente perché in Europa ci sono questioni aperte in tema di diritti umani che chiamano in causa in particolare la discriminazione profonda nei confronti delle minoranze, in particolare dei Rom e le politiche di chiusura nei confronti dell’asilo, che hanno fatto sì che nel corso degli ultimi anni si frapponessero più ostacoli e si investissero tanti soldi per respingere piuttosto che per accogliere. L’Europa potrebbe tuttavia considerare questo Nobel come uno stimolo per colmare le lacune del nostro continente nel rispetto dei diritti umani. Visto che anche Amnesty è un Nobel per la pace, possiamo dire che, quando non si danno premi alla carriera o premi sulla fiducia, come quello ad Obama nel 2009, scegliendo organizzazioni attive sul campo nell’ambito dei diritti umani, lo apprezziamo senza dubbio di più.

È l’undicesimo anniversario dell’apertura di Guantanamo: dentro ci sono ancora 166 detenuti, molti dei quali con la prospettiva di non uscirne perché trattenuti a tempo indeterminato. Guantanamo è diventato il simbolo visibile di un trattamento carcerario che è equivalente alla tortura Un tema molto caro ad Amnesty è quello dei diritti dei migranti. In Italia, lo sfruttamento degli immigrati è un fenomeno collegato al racket e alla criminalità organizzata, che opera in tutti i settori dell’economia, da quello dell’agricoltura a quello dell’edilizia. Anche nelle grandi città come Roma questo problema ha una forte ricadu-

ta: basta passeggiare per il centro storico e per le vie dello shopping per rendersi conto della spartizione – a volte legalizzata – delle strade, alla base della cosiddetta economia del degrado. Come si può invertire la rotta, trasformando le nostre città in laboratori di reale integrazione? Riportare al centro dell’interesse collettivo la vivibilità e la bellezza delle nostre città può restituire dignità anche agli immigrati vittime della speculazione delle reti criminali? La risposta è molto complessa. La prima responsabilità ricade senza dubbio sulle istituzioni che dovrebbero lavorare per permettere ai migranti di uscire da questa tenaglia composta da criminalità e criminalizzazione, attuando da un lato politiche di inclusione e dall’altro politiche che consentano l’emersione dall’illegalità. Per far questo occorre una modifica legislativa molto semplice, cioè l’abolizione del reato di ingresso e di soggiorno irregolare, con percorsi per l’ingresso che superino la logica delle quote, che sono insufficienti e hanno tempi troppo lunghi. Va anche sottolineato che c’è una convenienza generale nel far sì che questo fenomeno dilaghi nelle grandi città, fino a diventare un elemento dominante del nostro paesaggio. La convenienza è di tipo economico sia per chi sfrutta il lavoro dei migranti sia per i consumatori che accettano di comprare merci a minor prezzo ignorando tutti gli aspetti della filiera. Convengo sul fatto che c’è una corrente sotterranea di tolleranza e acquiescenza che alimenta il sistema e arriva a far diventare questo paesaggio minaccioso, valicando alle volte il limite della sicurezza dei cittadini che deve pur essere garantita. È difficile considerare il decoro e l’estetica obiettivi a se stanti ma devono essere la conseguenza di politiche virtuose in tema di diritti umani e di eventuali campagne organizzate ad hoc dalle associazioni di riferimento per sensibilizzare l’opinione pubblica.

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Il futuro tra memoria e impegno Intervista a Ludovica Ioppolo di Libera Formazione di Elisabetta Tosini

Ludovica Ioppolo è ricercatrice e sociologa. Si occupa di formazione, università e ricerca per “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”. Ha conseguito il dottorato in Ricerca applicata alle scienze sociali presso l’Università La Sapienza di Roma. È coautrice con Francesca della Ratta e Giuseppe Ricotta di Con i loro occhi. L’immaginario mafioso tra i giovani, Edizioni Gruppo Abele (2012) e con Martina Panzarasa di Al nostro posto. Donne che resistono alle mafie, Transeuropa Edizioni (2012).

Henri Bergson aveva parlato della memoria come di un vero e proprio non-luogo, un altrove che avvolge costantemente il presente, ma che appartiene a un’altra dimensione. A Roma in via IV Novembre, al civico 98, si erge una palazzina che da anni ormai è diventata un non-luogo. Sede di “Libera. Associazione, nomi e numeri contro le mafie”, questo stabile fu confiscato alla mafia e da quel giorno è diventato un posto in cui memoria e impegno si concretizzano. Qui ho incontrato Ludovica Ioppolo che per Libera si occupa del settore Formazione e ricerca. Da quanto tempo lavori a Libera? Dal 2008, anche se durante il periodo universitario collaboravo già con Libera attraverso la mia associazione studentesca. Appena laureata in Sociologia mi hanno proposto di entrare nel settore Formazione, poi ho concluso il dottorato in Metodologia della ricerca sociale. Il vostro obiettivo è sollecitare la società civile nella lotta contro la mafia e promuovere legalità e giustizia, ma essere educatori sociali, oggi, cosa vuol dire e soprattutto cosa comporta? Essere educatori sociali oggi è molto complicato. Le nostre società sono estremamente complesse, i ragazzi sono bombardati da mille stimoli e la comunicazione rende tutto più difficile, ma anche stimolante. Quella di Libera è sicuramente una sfida Don Luigi Ciotti, ispiratore e fondatore di Libera

educativa a tutto tondo, perché identifichiamo la mafia non soltanto nei reati in senso stretto di criminalità organizzata, ma guardiamo a ciò che di mafioso c’è nelle nostre vite, nei nostri atteggiamenti, nei nostri rapporti di potere e nei nostri rapporti interpersonali.

Quella di Libera è sicuramente una sfida educativa a tutto tondo, perché identifichiamo la mafia non soltanto nei reati in senso stretto di criminalità organizzata, ma guardiamo a ciò che di mafioso c’è nelle nostre vite, nei nostri atteggiamenti, nei nostri rapporti di potere e nei nostri rapporti interpersonali Qual è il vostro rapporto con gli studenti universitari? In realtà essendo Libera una rete, le associazioni studentesche sono da sempre all’interno. Ma anche realtà come l’A.G.E.S.C.I., più giovanili, hanno contribuito alla costruzione della rete di Libera. Negli ultimi anni il settore si è rafforzato grazie ad alcuni atenei che hanno collaborato nel realizzare dei seminari che si ripetono ogni anno. A Torino è sorto il primo presidio univer-


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sitario chiamato UniLibera e in contemporanea con La Sapienza sono partiti i primi seminari sulla comunicazione anti-mafia: un laboratorio di giornalismo in collaborazione con Libera informazione. Grazie all’interesse degli studenti, siamo riusciti ad ampliare i rapporti con i docenti. Negli ultimi anni abbiamo siglato numerosi protocolli di intesa in diversi atenei. Si va dai seminari, ai corsi di alta formazione – a Cosenza e a Padova – fino ad arrivare al master in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata a Pisa. Abbiamo anche un master a Bologna sui beni confiscati e ne sta per partire un altro a Napoli. Negli ultimi anni abbiamo anche ampliato il settore della Ricerca. Io mi occupo di un progetto sulla percezione del fenomeno mafioso tra gli studenti delle scuole superiori. Cerchiamo di analizzare l’influenza delle attività educative antimafia, sulle conoscenze che i ragazzi hanno e sui loro atteggiamenti. E i risultati? I ragazzi conoscono meglio i mafiosi dei protagonisti dell’antimafia. Non conoscono Pio La Torre o Peppino Impastato, ma sono informati su Riina e Provenzano. Si è quindi deciso di riflettere sulla mediatizzazione del personaggio mafioso e sull’importanza di rappresentare chi lotta contro la mafia. L’idea del progetto dove nasce? In realtà questo progetto nasce dal Centro di studi ed iniziative culturali Pio La Torre, da un’inchiesta svolta diversi anni fa in Sicilia, in cui emerse che gli studenti erano disposti a chiedere aiuto ai mafiosi pur di trovare lavoro. Noi abbiamo voluto inserire questa proposta formativa nel nostro progetto, approfondendo alcuni aspetti fondamentali. All’inchiesta di Pio La Torre, abbiamo apportato alcune modifiche in base a ciò che volevamo analizzare. Di fatto si innesca quella che noi definiamo una “ricerca mobilitante”: sentendosi ignoranti sull’argomento decidono di informarsi. Parliamo del recupero dei beni confiscati alla mafia, come questa palazzina… Fino al 1995, quando nasce Libera, era in vigore una legge del 1982, proposta da Pio la Torre, che prevedeva solo il sequestro e la confisca dei beni. Parte di questi beni restavano inutilizzati o andavano in rovina, inoltre i tempi per l’assegnazione erano lunghissimi. Libera diede vita a una proposta di legge, che prevedeva l’uso sociale dei beni. Non è possibile venderli o darli in affitto a privati, ma solo usarli per scopi sociali; possono essere lasciati in mano alle istituzioni per essere trasformati in

scuole o caserme, oppure date alle realtà del No Profit del terzo settore. È da qui che nasce l’idea delle cooperative autonome. La prima cooperativa in assoluto è stata la Placido Rizzotto, nata sui terreni di Riina e Provenzano.

Fino al 1995 era in vigore una legge del 1982 che prevedeva solo il sequestro e la confisca dei beni dei mafiosi. Parte di questi beni restavano inutilizzati o andavano in rovina, inoltre i tempi per l’assegnazione erano lunghissimi. Libera diede vita a una proposta di legge, che prevedeva l’uso sociale dei beni. Non è possibile venderli o darli in affitto a privati, ma solo usarli per scopi sociali Il momento più emozionante del vostro lavoro? Sicuramente quando nasce una nuova cooperativa. Ogni volta che questi ragazzi hanno la possibilità di lavorare sulla propria terra, in zone difficili, è grazie a una legge nata da una raccolta di un milio-

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ne di firme. Noi diciamo: è l’antimafia che si mangia, che diventa concretezza. Nel 2012 il Global Journal vi ha inserito nelle cento migliori ONG del mondo, cosa ha significato? Noi siamo una delle poche realtà in Italia che, negli ultimi anni, ha visto la partecipazione crescere, anziché diminuire. Ci ispiriamo a un principio che non è più quello della legalità, l’obiettivo è la giustizia sociale. Dobbiamo essere corresponsabili. Dobbiamo essere attivi. Dobbiamo essere un’esperienza positiva. La classifica del Global Journal, in questo senso, è un grande riconoscimento.

La memoria è il punto di partenza di tutto. Libera nasce dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, dall’impegno di don Ciotti, ma anche di Giancarlo Caselli e di Saveria Antiochia. In quel periodo ci fu una forte reazione della società civile, però mancava un coordinamento nazionale tra i vari movimenti

un milione di cartoline che consegnammo a Napolitano. Questa, oggi, è di fatto la nuova frontiera, non perché le mafie siano più deboli, ma perché il problema è che le organizzazioni criminali continuano a rigenerarsi anche grazie alle zone di contiguità e di corruzione. Abbiamo anche voluto rivolgerci alla classe politica, chiedendo di mettersi in gioco e di impegnarsi fino in fondo a favore della trasparenza e per cambiare la legge sulla corruzione. Una lunga serie di impegni quindi. I risultati a oggi? Il risultato è che moltissimi candidati alle politiche stanno già aderendo. Andando sul sito www.riparteilfuturo.it, si possono trovare gli aggiornamenti in diretta. Cos’è la memoria per Libera? È il punto di partenza di tutto. Libera nasce dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. In quel periodo ci fu una forte reazione della società civile, però mancava un coordinamento nazionale tra i vari movimenti. Libera nasce dall’impegno di don Ciotti, ma anche di Giancarlo Caselli e di Saveria Antiochia, familiare di una vittima. Si è partiti dalla costruzione di una rete di parenti delle vittime e dall’instaurazione della giornata nazionale della memoria il 21 marzo. La memoria è quello da cui tutto parte, ma non è niente se non si coniuga con l’impegno; le due parole non possono essere scisse e neanche in Libera. Don Ciotti chi è? È una persona incredibilmente attenta, che tiene moltissimo ai giovani e sottolinea sempre che bisogna dar loro spazio. Don Ciotti spesso viene visto come Libera stessa, ma in realtà lui ci tiene a sottolineare che il fulcro è l’individualità. All’interno di Libera si valorizzano le competenze di ciascuno. In questo sta la forza della rete, mentre la forza di don Ciotti è Libera.

Le principali difficoltà riscontrate nelle vostre collaborazioni? Le difficoltà sicuramente ci sono, però in realtà sono la nostra forza. Uno dei grandi meriti di don Ciotti è quello di aver creato non un’associazione, ma una rete. Ovviamente una rete comporta difficoltà, nel realizzarla e nel mantenerla. Ma è proprio questo che ci rende più forti, perché tutto quello che si fa nella rete rende vero il progetto complessivo, che è quello della giustizia sociale, non solo dell’antimafia. Come nasce il settore dell’università e della ricerca? Insieme alla memoria e ai beni confiscati, la scuola era uno dei tre pilastri iniziali di azioni di Libera nei primi anni di vita. Il settore universitario che si è sviluppato è servito a rafforzare la rete e la conoscenza, i punti forti di Libera. Cosa mi dice della vostra nuova campagna? Questa campagna si chiama “Riparte il futuro. Contro la corruzione”. É la prosecuzione di ciò che abbiamo organizzato un anno fa. In quell’occasione raccogliemmo Prodotti coltivati sulle terre confiscate alla mafia


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Popscene Zero Dark Thirty: la guerra al terrore dentro di noi di Kathryn Bigelow

Appena uscito nelle sale cinematografiche americane, e di prossima uscita anche in quelle italiane, il nuovo film di Kathryn Bigelow, prima donna ad aver ricevuto il premio Oscar come miglior regista, ricostruisce nel medesimo stile quasi documentaristico del suo precedente The Hurt Locker, la decenUgo Attisani nale caccia all’uomo scatenata dai servizi segreti americani all’indomani degli attentati del 11 settembre 2001 contro colui che ne era stato unanimemente ritenuto responsabile, lo sceicco saudita Osama Bin Laden. Inizialmente il progetto della Bigelow e dello sceneggiatore Mark Boal era quello di raccontare la battaglia di Tora Bora, avvenuta in Afghanistan nel 2001, in cui l’esercito americano e le forze tribali afghane avevano stretto d’assedio, all’interno del fitto sistema di caverne in cui si erano rifugiati, i combattenti talebani e durante il quale si ritiene fosse sfuggito alla cattura proprio Bin Laden; a cambiare il tema e la prospettiva del film è stata l’uccisione del capo di Al Qaeda ad opera di una squadra di Navy Seals, le forze speciali d’assalto dell’esercito americano, avvenuta il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan. Nell’arco temporale che va dagli attentati del 2001 alla cattura del terrorista che ne è stato il mandante, in questa “decade di guerra”, così come l’ha definita nel discorso di inaugurazione del suo secondo mandato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, sono racchiusi gli interrogativi più inquietanti sul valore dei principi sui cui si regge la civiltà occidentale, sul prezzo che si deve o si è disposti a pagare per proteggerli e sul prezzo che troppo spesso si impone al resto del mondo per affermarli. In questo la Bigelow, adottando un approccio estremamente realistico e con un punto di vista “dal basso”, non risparmia lo spettatore, mettendo in scena le torture praticate ai prigionieri nei black site della CIA per ricavare le informazioni necessarie all’individuazione del luogo in cui si nascondeva Bin Laden, e insinuando il

dubbio che, per quanto atroci e tremende, esse siano effettivamente servite al loro scopo. L’analista della CIA Maya, interpretata da Jessica Chastain, protagonista del film, è un personaggio senza storia, senza un passato e senza legami, uno strumento, al contempo narrativo e reale, per mettere in scena la ricerca di un nemico e di una verità, di una giustificazione al terrore in cui gli Stati Uniti sono precipitati all’indomani del 11 settembre e in cui hanno precipitato milioni di vite in altri paesi, quasi una gemella, se possibile ancor più minimalista, dell’agente Carrie Mathison, interpretata da Claire Danes nella pluripremiata serie tv Homeland. Il film però, a guardarlo più attentamente e senza per forza concentrarsi sulle polemiche che lo hanno accompagnato in patria riguardo all’accesso ad informazioni riservate dei servizi segreti e ad un presunto sostegno all’utilizzo della tortura, racconta anche una storia, tipicamente americana, di una donna alle prese con il proprio lavoro e che per portarlo a termine, quasi in parallelo alle numerose sospensioni della civiltà e della democrazia che il popolo americano ha subito durante questi anni di guerra, è disposta a perdere gradualmente la propria umanità. In questa spirale discendente delle vicende della protagonista, se da un lato è facile vedere l’elogio dell’individuo che, contro tutti, con la sua perseveranza e dedizione alla causa riesce ad ottenere un successo che per molti sembrava insperato, dall’altro sembra quasi insinuare il dubbio che “la più grande caccia all’uomo della storia”, come suggerisce la tagline del film, sia stata in realtà la caccia a un fantasma, i cui contorni e la cui importanza sembrano diventare man mano più incerti col passare del tempo, tanto quanto l’ossessione, invece, sembra diventare sempre più divorante per la protagonista. E allora, così come il disagio dell’artificiere interpretato da Jeremy Renner in The Hurt Locker davanti allo scaffale di un supermercato, lontano dal campo di battaglia, lasciava lo spettatore con lo sgradevole dubbio che per lui la guerra fosse diventata una condizione di vita irrinunciabile, non possiamo non chiederci se le lacrime di Maya alla fine del film siano di gioia per il ritorno a casa o di tristezza per la perdita di una ragione di vita.

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di Ugo Attisani

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Ultim’ora da Laziodisu Il Coro polifonico di Roma Tre alla Camera dei deputati per commemorare i caduti di Nassiriya di Gianpiero Gamaleri Il nostro Ateneo, come noto, sviluppa iniziative molto importanti nel campo musicale come il Coro Polifonico dell’Università degli Studi Roma Tre, attivo fin dal 1999 e Roma Tre Orchestra, nata nel 2005, allo scopo di contribuire a diffondere la cultura musicale tra le nuove generazioni, in Gianpiero Gamaleri particolare all’interno del mondo accademico e di introdurre gli studenti alla pratica musicale. Entrambe le iniziative godono, tra l’altro, del patrocinio di Laziodisu, nell’ambito del sostegno che l’ente accorda, in funzione di una concezione del diritto allo studio capace di valorizzare anche performance culturali e artistiche degli studenti. Nel febbraio 2008 è nata poi a Roma Tre la Dams Jazz Band, formazione musicale studentesca, costituita in seno alle Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo. Recentemente, il 12 novembre scorso, il Coro Polifonico di Roma Tre, accompagnato dall’ Orchestra Roma Sinfonica, è stato protagonista di una prestigiosa e commovente manifestazione svoltasi alla Camera dei Deputati, con il patrocinio di Laziodisu. L’occasione è stata la Giornata del ricordo dei Caduti mili-

Foto di Umberto Battaglia ©

tari e civili nelle missioni internazionali di pace e in particolare la solenne cerimonia di commemorazione dei caduti nella strage di Nassiriya del 12 novembre 2003. L’idea di un concerto alla Camera per celebrare il sacrificio dei martiri di Nassiriya e di tutti i caduti italiani, suggerita da una toccante lettera inviata al Presidente Gianfranco Fini dal figlio del Vice Brigadiere dei Carabinieri, Domenico Intravia, caduto nell’attentato terroristico in terra irakena, è stata accolta con slancio dall’Ufficio di Presidenza della Camera e successivamente dal Rettorato dell’Ateneo Roma Tre nella consapevolezza che l’aula di Montecitorio sia uno dei luoghi simbolo della solidarietà e della coesione nazionale e che il linguaggio musicale riesca a raggiungere più di ogni altro mezzo le sfere più profonde dell’animo umano. E lo spirito di commemorazione dei caduti, per lo più giovani, non poteva essere meglio rappresentato da una formazione musicale, quale appunto il Coro dell’Università degli Studi Roma Tre, composto prevalentemente da giovani, studenti, ex studenti e personale amministrativo e bibliotecario. In un clima di forti emozioni e di commozione, data anche la presenza del Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, del Rettore Guido Fabiani, di numerosi militari e, soprattutto, dei familiari dei caduti, il Coro e l’Orchestra hanno eseguito, dopo il saluto del Presidente Fini e l’Inno di Mameli, la Messa da Requiem KV 626 per soli, coro e orchestra di W.A. Mozart, sotto la direzione del Maestro Maria Isabella Ambrosini. L’organizzazione della manifestazione è stata curata dalla Segreteria Generale della Camera, Ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico, diretto dalla dott.ssa Consuelo Amato. L’esecuzione è stata conclusa da un lungo e commosso applauso dei presenti. L’evento è stato trasmesso in diretta sulla webtv e sul canale satellitare di Montecitorio nonché sulla rete tematica Rai5.


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Non tutti sanno che… L’Anno della Fede, un’opportunità per il mondo accademico di don Pino Fanelli La fede, intesa come apertura verso una dimensione trascendente che fa da orizzonte di senso al nostro vivere e agire quotidiano, sembra proprio che sia stata bandita dalla nostra “società liquida”. «Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largadon Pino Fanelli mente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone». Sono parole che Benedetto XVI ha usato nella sua Lettera apostolica per l’Anno della fede che è iniziato l’11 ottobre 2012. Anche nel suo rapporto con il mondo della cultura e della scienza la fede è spesso giudicata come un’intrusa o una presenza scomoda che è meglio tenere a distanza perché non essendo “verificabile” non è attendibile. «La fede (così) si trova ad essere sottoposta più che nel passato a una serie di inter-

rogativi che provengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche… In effetti tra fede e scienza non c’è un conflitto perché ambedue, anche se per vie diverse, tendono alla verità» (Benedetto XVI). La fede offre a tutti, credenti e non, la prospettiva di un cammino che valorizzando tutte le conoscenze umane porta gradualmente alla piena conoscenza della verità. «La stessa ragione dell’uomo, porta insita l’esigenza di ciò che vale e permane sempre. Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro» (Benedetto XVI). Una delle prime iniziative proposte nell’Anno della Fede dall’ufficio di pastorale universitaria del Vicariato di Roma è stato il pellegrinaggio ad Assisi dello scorso 10 novembre, che ha visto la partecipazione di circa 4000 studenti di tutti gli atenei romani. L’inno del pellegrinaggio (Credo) è stato composto da don Pino Fanelli, assistente spirituale alla Facoltà di Economia di Roma Tre, ed è stato il leitmotiv della giornata. Le altre iniziative programmate possono essere viste sul sito: www.universitas2000.org.

Biglietteria universitaria: progetto Lo spettacolo per i giovani A gennaio, è stato presentato Lo spettacolo per i giovani, iniziativa che promuove la biglietteria last minute e i botteghini universitari: un progetto promosso dall’Assessorato all’educazione, famiglia e giovani in accordo con AGIS ANEC Lazio e le tre università statali della città (La Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre) nell’ambito del secondo Piano Locale Giovani – Città Metropolitane di Roma Capitale cofinanziato dal fondo statale per le politiche giovanili del Ministero della gioventù, attraverso ANCI. La Biglietteria teatrale di Roma Tre, riservata agli studenti universitari, propone biglietti teatrali, per oltre cinquanta teatri romani, a costi ridotti fino al 50%. Sono inoltre previste agevolazioni anche per i docenti e il personale tecnico-amministrativo dell'Ateneo. Gli studenti e il personale di Roma Tre il lunedì e il martedì possono acquistare biglietti per il Cinema Adriano a soli 3 euro. Il botteghino universitario è realizzato dall'AGIS Lazio in collaborazione con la Regione Lazio, la Provincia di Roma e il Comune di Roma ed in coordinamento con le Università di La Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre. Per informazioni Biglietteria teatrale Roma Tre Via Ostiense, 139 tel. 06 57332243 - biglietteria.roma3@libero.it - http://www.uniroma3.it/page.php?page=sics lunedì - martedì - mercoledì 10.00-15.00; giovedì 10.00-13.00

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The Lady L’omaggio di Besson all’eroina della democrazia birmana

recensioni

di Francesca Gisotti Quando si parla di pace ci sono delle figure che immediatamente ci vengono alla mente, tanto forte e dirompente è stata la loro capacità di imporsi nell’immaginario collettivo. Si tratta di uomini e donne che con coraggio e determinazione hanno deciso di intraprendere il percorso della lotta non viodi Francesca Gisotti lenta per l’affermazione dei diritti umani, laddove questi rappresentano ancora un traguardo lontano dall’essere raggiunto. Tra i volti che spontaneamente associamo a tale ideale c’è senza dubbio quello dolce e dignitoso di Aung San Suu Kyi. La storia di questa piccola grande donna, promotrice di un movimento di democratizzazione nella Birmania oppressa dalla dittatura militare, è al centro dell’ultimo film del regista francese Luc Besson: The Lady. Un titolo semplice ma al tempo stesso potente, proprio come lo è stata Suu, un’orchidea d’acciaio (così l’ha ribattezzata il Time), in un Paese dove bellezza e tragedia convivono ancora oggi drammaticamente. Ed è proprio su questo binomio, di vita e morte, speranza e oppressione, che si gioca tutto il film di Besson, un’opera che, con accuratezza di dettagli e approfondimento psicologico, racconta la vicenda della rivoluzionaria gentile partendo dal lontano 1947. È questo l’anno in cui un tragico evento segna il corso di tutta la sua esistenza: l’uccisione del padre, il generale Aung San, eroe dell’indipendenza birmana. Quarant’anni dopo spetterà proprio a lei dover raccogliere quella dolorosa eredità. Ecco allora la straordinarietà della vita di Suu che, dopo una quotidianità costruita in Inghilterra, come moglie di un professore universitario e madre di due giovani adolescenti, metterà in secondo piano il proprio percorso individuale in nome di un obiettivo più alto: la difesa di un intero popolo. Ritornata a Rangoon, in seguito alla malattia della madre, Suu viene scelta dalla propria gente per guidare la rinascita del Paese e contrastare il regi-

me militare che sta reprimendo nel sangue ogni forma di opposizione. Laddove la violenza non riesce ad estirpare il consenso popolare ottenuto dalla nuova eroina della democrazia, per i militari al potere l’unica soluzione sembra essere quella di blindarla all’interno della propria casa. Gli arresti domiciliari si protrarranno per oltre 14 anni. Ma non saranno 14 anni vani, dato che il messaggio di Suu, si diffonderà con forza fin dentro le zone più impervie della Birmania, raggiungendo infine anche quell’Occidente del mondo troppo spesso cieco di fronte alla sofferenza dei popoli “lontani”. Sarà quello stesso Occidente a conferirle nel 1991, il premio Nobel per la pace, ma the lady dovrà aspettare fino al 13 novembre del 2010 per recuperare anche la libertà di poter uscire dal territorio birmano (in caso di espatrio, le sarebbe stato infatti impedito di ritornare a casa). Grazie alla magistrale interpretazione di Michelle Yeoh (già interprete di Memorie di una geisha), l’opera di Besson ci fa conoscere gli aspetti più intimi e privati di questa figura eccezionale. Una combattente forte e coraggiosa ma, allo stesso tempo, anche una madre ed una moglie, costretta a vivere lontano dalla propria famiglia. Una donna costantemente chiamata a prendere delle decisioni dolorose, con la consapevolezza che queste avrebbero condizionato, non solo le proprie sorti, ma quelle di un’intera nazione. Un’incessante tensione emotiva attraversa tutta la pellicola, che non scade mai nel patetico o nel sentimentalismo, restituendo, con realistica crudezza, l’immagine di un popolo martoriato ma ancor capace di sperare. Grazie all’uso del flashback, quasi spiazzante, Besson si muove con disinvoltura su diversi livelli spaziotemporali, con quella forza espressiva ed intensità registica che gli sono propri. Una nota di merito va anche ad un ottimo David Thewlis, qui nei panni del marito della San Suu Kyi. Per lui Besson ha costruito un personaggio pieno di sfumature. Un uomo capace di sostenere la battaglia della propria moglie, accettandone la lontananza anche nel momento della malattia. Purtroppo se ne è andato senza aver potuto assistere alla realizzazione, il 1° aprile del 2012, del grande sogno di Aung San Suu Kyi: la conquista di un seggio nel parlamento del suo amatissimo Paese.


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Anime di materia In mostra al Vittoriano lo scultore libico Ali Wak Wak di Francesca Simeoni Nel ventre del Vittoriano, tra i cimeli di una guerra passata e oggetti di epoca risorgimentale, c’è la testimonianza di una guerra recente. Sotto l’imponente colonnato, dove il milite ignoto ci ricorda il sacrificio di un milione di soldati caduti per la nostra nazione, uno scultore descrive la guerra della sua Francesca Simeoni nazione: la Libia. Ma che sia del 2011, che sia di un passato più o meno remoto, la guerra fa della morte e del male i suoi capisaldi. E Ali Wak Wak, artista e scultore libico, che ha vissuto sulla propria pelle i disastri del suo paese, ha raccolto gli elementi negativi generati dalla guerra, li ha assemblati nelle sue sculture e ha fatto della sua opera un mezzo di comunicazione di pace e di rinascita. Questo è l’oggetto della mostra di arte bellica intitolata Anime di Materia, la Libia di Ali Wak Wak, al Complesso del Vittoriano dal 16 gennaio al 28 febbraio 2013. Ali Wak Wak, classe 1947, è il più importante scultore libico contemporaneo. In un primo momento si dedicava alla scultura del legno ma, con la rivoluzione del 17 febbraio, la materia disponibile in grandi quantità diventano i residuati bellici, l’artista decide, allora, di utilizzare questi oggetti per di-

mostrare come sia possibile costruire partendo dalla distruzione. Dall’aprile 2011, due mesi dopo la rivolta libica, Ali Wak Wak, inizia a restituire anima alla materia: elmetti, armi da fuoco e munizioni diventano sculture antropomorfe e zoomorfe. Le armi che Gheddafi utilizzava contro il suo popolo, vengono trasformate in opere d’arte e lanciano un messaggio forte: continuare e ricominciare. La mostra Anime di Materia, la Libia di Ali Wak Wak costituisce un’anteprima mondiale: è la prima volta, infatti, che un artista libico riesce ad esporre le proprie opere fuori dalla sua nazione. E le opere di Ali Wak Wak escono dalla Libia, con una «materia nuova, con un’anima nuova, un sangue nuovo», come ha dichiarato l’artista. All’interno della mostra si incontrano animali e persone, soldati grandi e piccoli e le opere, incastonate nel sottofondo musicale sincopato, strappano un sorriso amaro all’osservatore. La curatrice della mostra, Elena Croci, descrive così l’essenza dell’arte di Ali Wak Wak che, attraverso una trentina di sculture, sceglie di rappresentare le immagini della guerra e «cerca di ricreare la vita dalla morte attraverso i resti di mezzi e armi trovati sul fronte; bossoli, fucili, mitragliatori. Tutto il suo lavoro è incentrato sulla rinascita dopo la distruzione, come ricostruire un Paese, noi stessi, attraverso lo stesso materiale che ha causato la morte dei nostri simili. Come questa stessa materia, non modificata ma solo plasmata attraverso gli occhi dell’artista può riprendere vita e divenire un qualcosa di diverso, di bello, un messaggio di fiducia nel futuro». Lo scopo della mostra, quindi, è quello di raccontare

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e percepire l’arte in modo differente: l’arte come strumento di meta-comunicazione che permette di raccontare anche le peggiori tragedie con leggerezza, disincanto. I materiali bellici, vengono plasmati in una forma nuova, combinati e rielaborati rispetto alla

lento miglioramento, si avvia gradualmente verso un futuro stato di felicità. Per Ali Wak Wak la felicità, oggi, è rappresentata da «la sicurezza, la tranquillità dei cittadini e la libertà di opinione», e «una Costituzione, che tuteli tutto e tutti». Probabilmente in un

forma per la quale erano stati creati e suscitano sbalordimento, indignazione, un senso di straniamento, dal quale scaturisce la riflessione. Una mostra che va sentita, oltre che guardata, un esempio di cosa possa significare l’unione di arte e politica, di libera ispirazione e di impegno civile. Un esempio di come l’arte possa rappresentare un aiuto concreto per il cambiamento, in un dopo Gheddafi caratterizzato da una novità: la libertà di espressione. La Libia, nazione in

paese come la Libia, un cantiere in via di ricostruzione, con progetti che sorgono ovunque, il messaggio dell’autore è semplice, ed è rivolto ad una speranza nel futuro: che il suo diventi un paese finalmente “saldato”, come le saldature delle sue opere.


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Cesare deve morire Lo Shakespeare dei fratelli Taviani, nella sezione di alta sicurezza di Rebibbia di Stefano Perelli Si potrebbe dire che un classico della letteratura è un’opera che si presta ad un’infinità di interpretazioni. Paolo e Vittorio Taviani con la loro cinepresa ne hanno data una al Giulio Cesare di Shakespeare che è, senza mezzi termini, straordinaria. Il loro Cesare deve morire, rimane profondaStefano Perelli mente fedele all’anima shakespiriana, riuscendo a compiere al contempo un’ulteriore difficile decontestualizzazione della tragedia, portandola nella sezione di alta sicurezza del carcere di Rebibbia a Roma. Il pretesto da cui parte il film è proprio la selezione degli aspiranti attori per il laboratorio teatrale nel carcere: nel provino i detenuti si presentano, enunciano le proprie generalità e la pena che stanno scontando. La rappresentazione inizia a prendere corpo giorno dopo giorno tra gli angusti spazi delle celle, nei corridoi, e negli stretti spazi comuni per l’ora d’aria, dove si consumerà l’assassinio più celebre della storia. La scelta del bianco e nero per tutte le sequenze all’interno del carcere rimarca un’atmosfera claustrofobica dove i decenni sembrano non trascorrere mai, mentre il colore torna a vibrare solo nelle sequenze all’interno del teatro: l’arte può far rinascere anche chi si è macchiato di gravissimi delitti. E di questo i fratelli Taviani sono profondamente convinti. C’è stata una precisa volontà degli autori di far parlare i personaggi con il dialetto d’origine di ciascun attore, così da ottenere una simbiosi totale tra attore e personaggio. Cesare (Giovanni Arcuri) parla un romanesco regale e solenne, Decio (Juan Dario Bonetti) ha il cadenzare esotico dell’oriundo italoargentino, Trebonio (Vincenzo Gallo) è siciliano, Cassio (Cosimo Rega) parla napoletano, così come Bruto (Salvatore Striano), che a tratti

sembra un Masaniello oscuro e violento, un eroe che vuole salvare la repubblica dal potere incontrollato del singolo. La potenza del suono vernacolare è micidiale, tanto da potenziare e stravolgere allo stesso tempo la sacralità della tragedia: «Cesare ‘a da murì», «’A ggiustizia nunn’è nu scannatoio» oppure, «Io so’ Cesare, chi è che me cerca?». I personaggi acquistano così un’espressività e una drammaticità tutta nuova, dando un’interpretazione di Shakespeare che parte dal basso, dal popolo, dalla galera. Al di là della bravura degli attori (ed innegabilmente alcuni lo sono davvero), quei detenuti/attori conoscono perfettamente le tragedie di Shakespeare: magari non le hanno mai lette ma, di sicuro, le hanno vissute da sempre. Si sentono perfettamente a loro agio sul palco e davanti alla cinepresa perché conoscono in prima persona quei sentimenti: provano lo stesso conflitto interiore di Bruto, la stessa ambiguità di Cassio, la stessa disperazione di chi paga le conseguenze delle proprie azioni. Sanno bene cosa vogliano dire “uomo d’onore”, “traditore”, “amico”. Essi stessi hanno realmente tolto la vita a qualcuno, proprio come faranno nei panni dei congiurati, con un minaccioso: «stai attento Cesare!». Immagino che Roberto Saviano non avrebbe difficoltà a tracciare proprio qui un’analogia tra i congiurati ed il clan di camorra che decide di eliminare il vertice perché mangia troppo e da solo. Quello dei fratelli Taviani è un messaggio molto complesso da inviare e da recepire soprattutto in un Paese come il nostro perché se da un lato la sicurezza delle persone è quotidianamente messa in pericolo, dall’altro lato, c’è un’emergenza carceraria ed un sistema che si mostra completamente incapace di adempiere alla sua missione di rieducare e reinserire il reo. Il film è stato molto apprezzato dalla critica sia in Italia che all’estero: finora è stato premiato con cinque David di Donatello e due Nastri d’argento, un altro importantissimo riconoscimento è arrivato al Festival di Berlino 2012 con un Goldener Bär.

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Gasland Il fracking e le sue ripercussioni sul territorio di Matteo Spanò Con il termine fracking ci si riferisce alla pratica della trivellazione, in particolare allo sfruttamento della pressione di un fluido, in genere acqua, al fine di creare e propagare una fratturazione nel sottosuolo, indispensabile per l’estrazione di gas naturali. Gasland, documentario del 2010 diretto da Josh Fox, si basa proMatteo Spanò prio su queste tecniche di estrazione e sulle conseguenti ripercussioni ambientali. Gasland, che è stato uno dei cinque documentari candidati agli Oscar 2011, è tratto dalla storia vera della campagna di Marcellus Shale, che si schierò contro le trivellazioni per i pozzi di gas in Pennsylvania. Una multinazionale insiste per acquistare il terreno su cui vive Josh, nel quale egli è cresciuto, un piccolo angolo di paradiso in Pennsylvania. Dopo aver rifiutato una cospicua somma di denaro (circa 100.000 dollari), Fox decide di approfondire la questione e intraprende un lungo viaggio che lo porta ad attraversare Texas e Colorado, Utah e Wyoming. Armato di telecamera e sulle orme di Michael Moore, Josh inizia a raccogliere testimonianze aprendosi dinanzi un quadro alquanto sconcertante, quadro dipinto lentamente racconto dopo racconto, di persona in persona. I rappresentanti delle grandi industrie pronunciano belle parole riguardo il futuro del continente. L’America ha una riserva naturale di gas proprio sotto i suoi piedi, perché mai non dovrebbe sfruttarla ed essere del tutto indipendente? Detta così, risulta un’affermazione inattaccabile. Le cose però stanno diversamente. Nel suo viaggio verso ovest Fox incontra paesaggi surreali che nel giro di pochi giorni hanno visto cancellati secoli di storia naturale, rocce e distese verdeggianti, pascoli e corsi d’acqua sostituiti e modificati da pozzi e trivelle: prima decine, poi centinaia, poi migliaia. Josh intervista gli abitanti di quei luoghi i quali convivono da anni con questa realtà, chiede loro cosa è cambiato, chiede loro di raccontare le vicende personali, in quei rari casi

dove il silenzio non è stato comprato con i soldi delle imprese petrolifere. La realtà con la quale Josh è costretto a scontrarsi è allarmante: famiglie che non possono più farsi la doccia perché dai rubinetti esce acqua nera, altre costrette ad utilizzare delle cisterne riempite con acqua del supermercato, e, come se non bastasse, vengono mostrate case che rischiano di saltare in aria da un momento all’altro, perché, paradosso dei paradossi, l’acqua che esce dal rubinetto è altamente infiammabile e prende fuoco con la minima scintilla. Si, proprio quell’acqua che è stata dichiarata potabile dagli inviati delle multinazionali incaricati di portare avanti delle analisi sull’impatto ambientale delle trivellazioni. Fox documenta storie di cancro, storie di persone che accusano la totale perdita del gusto e dell’olfatto, addirittura morti umane ed animali dovute ad intossicamento. Il regista riesce, per vie traverse, a reperire una lista di componenti chimiche che vengono mescolate all’acqua iniettata nel sottosuolo, ve ne sono numerose, dai nomi incomprensibili ai più e dalle conseguenze nefaste sulla salute e sull’ambiente. La gente ha paura di parlare, documenta Fox. Tutti abbiamo un prezzo, ma questo viene messo in discussione quando in gioco c’è il nostro futuro. Il fiume Delaware ad esempio costituisce in America una tra le primarie fonti d’acqua potabile, interessando lo stato di New York, la Pennsylvania e il New Jersey. Negli ultimi anni ci sono stati moltissimi ritrovamenti di pesci morti e le analisi dell’acqua hanno evidenziato la presenza di sostanze nocive utilizzate proprio nella pratica del fracking. Fox si interroga sulla rapidità di sviluppo di questo processo, ancora reversibile certo, ma del quale in pochi si vogliono prendere carico. Gasland racconta questa storia e ci interroga per 107 minuti usando lo stile asciutto del documentario, tra spezzoni di telegiornali, interviste a testimoni ed interventi in prima persona, senza contare riprese frettolose, angoli strani e un costante movimento sussultorio della macchina da presa. A tutto questo si aggiunge poi la carica emotiva di una lotta personale per la ricerca della verità; lotta che negli ultimi minuti di documentario, Josh ci ricorda essere tutt’altro che individuale perché il suo giardino contaminato domani potrebbe essere il nostro.


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Un film per la pace Una rassegna per riflettere di Francesca Gisotti Senza dubbio in Italia non mancano i festival cinematografici. Ne esistono di tutti i tipi, da quelli dedicati alle tematiche di gender, a quelli incentrati su questioni ambientali e territoriali. Spesso queste competizioni artistiche si trasformano in occasioni per parlare d’altro, spesso l’oggetto Francesca Gisotti filmico è solo il punto di partenza per discorsi di più ampia portata. In tale immenso panorama c’è una rassegna che merita particolare attenzione, sia per le finalità che si propone, sia per la rapidità con cui è riuscita a svilupparsi ben oltre i confini nazionali. Parliamo del festival Un Film per la Pace, nato nel 2006 da un’idea dell’antropologo e direttore artistico Enrico Cammarata e organizzato dalla Provincia di Gorizia, dal Comune di Medea, dalla Windcloak Film Production, con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia e il contributo del DAMS di Udine e della Mediateca di Gorizia “Ugo Casiraghi”. Come deducibile dal nome, il perno attorno a cui ruota l’intero evento è il concetto di pace, che negli anni è stato sviluppato dai registi partecipanti sotto molteplici aspetti, dando spesso luogo ad interpretazioni originali ed inedite. A valutare le opere, accanto alla giuria tecnica, c’è quella costituita dai ragazzi, selezionati all’interno di scuole, università e forum giovanili. A loro l’arduo compito di visionare e scegliere i film più meritevoli, o meglio quelli che più incisivamente hanno rappresentato l’idea di pace. Ecco allora che, nella prima edizione, a vincere è stato il documentario Danilo Dolci, memoria e utopia di Alberto Castiglione. Candidato ripetutamente al Nobel per la pace, Dolci è stato il principale promotore di un rinnovamento culturale e sociale nella Sicilia degli anni Cinquanta. Denominato non a caso, il Gandhi italiano, la sua lotta non violenta si è perpetuata per oltre vent’anni, che l’hanno visto

protagonista sia nell’azione di denuncia dell’attività mafiosa, sia nella richiesta d’attenzione da parte delle istituzioni verso le situazioni più degradate e miserabili della regione. Per lui pace significava soprattutto coinvolgimento attivo della cittadinanza nella realtà territoriale, attraverso quel “metodo maieutico”, a lui attribuito, che era già sinonimo di rinnovamento e rivitalizzazione dei rapporti umani e sociali. La vittoria di questo lungometraggio è stata importante non solo per ricordare una figura tanto centrale nella storia italiana, ma anche per testimoniare l’attenzione delle nuove generazioni verso una figura del passato la cui azione è tutt’oggi apprezzata e ritenuta fonte d’ispirazione ed insegnamento. Nel corso degli anni, il festival, inizialmente a carattere nazionale, ha assunto dimensioni ben più ampie, con la partecipazione al concorso di pellicole provenienti da tutto il mondo. Un anno di svolta, a tal proposito, è stato sicuramente il 2010 quando, per la prima volta, sono state esaminate e giudicate opere provenienti da tutti e 5 i continenti. In quest’edizione a vincere è stato il documentario Agent Orange: 30 Years Later di John Trinh. L’opera racconta la drammatica vicenda delle vittime dell’agent orange, un terribile erbicida usato dall’esercito statunitense, durante la guerra del Vietnam, per distruggere i cespugli dietro cui si nascondevano i soldati vietnamiti. Le conseguenze di tale avvelenamento dell’ambiente sono tutt’ora gravissime con la morte di moltissime persone e la nascita di bambini deformati o gravemente malati. La questione ambientale e i pericoli derivanti dall’industrializzazione selvaggia sono al centro delle riflessioni del festival che, proprio a partire dal 2010, ha introdotto un premio speciale, “Miglior Film Acqua Bene di Tutti”. Tra i lavori più significativi che si sono aggiudicati questo riconoscimento ricordiamo Acqua e pace di Emanuela Gasbarroni, vincitore dell’edizione 2011. L’opera è composta da 4 documentari, incentrati su 4 binomi fondamentali per la vita del Pianeta: acqua e pace, acqua e conservazione, acqua e salute, acqua ed ecosistemi. La tesi proposta è che la pace nell’area del mediterraneo sia sempre più ancorata ad una politica di salvaguardia delle risorse idriche,

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laddove un loro sfruttamento indiscriminato può essere invece una delle principali cause di guerre. Per sollecitare riflessioni sulle possibili azioni di contrasto all’esplosione di conflitti sanguinosi fra i popoli, a partire dal 2011, è stato inoltre istituito un premio speciale sul tema del disarmo. Il primo film ad essere premiato è stato WARdisease della regista Marie Magescas. Si tratta di un documentario di poco più di 8 minuti che, attraverso il montaggio serrato di immagini, presenta in maniera molto incisiva le due facce dell’umanità: quella capace di grandi gesti d’amore e solidarietà e quella che, al contrario, si è macchiata dei peggiori abbomini. A testimonianza della particolare rilevanza di cui si è voluto investire questo tema, c’è stata la decisione di proiettare e premiare il film vincitore in uno dei luoghi più rappresentativi della cultura internazionale: il British Museum di Londra. L’evento è stato arricchito anche da numerosi interventi di specialisti e studiosi della materia che hanno aperto un dialogo destinato a proseguire ben oltre i limiti temporali del festival. E arriviamo all’ultima edizione, conclusasi il 2 e 3 luglio scorsi. Le due giornate hanno rappresentato solo un tassello del lungo percorso di selezione che ha visto coinvolte numerose scuole italiane. Già il 22 marzo, con largo anticipo rispetto alla manifestazione ufficiale, è stato premiato il film americano Carbon for water, vincitore della sezione “Acqua Bene di Tutti”. La scelta di tale data non è stata casuale, coincidendo infatti con la giornata mondiale dell’acqua indetta dall’Onu. Per la premiazione delle altre pellicole si è dovuto invece aspettare il 3 luglio dopo che, nella giornata

del 2, c’era stata la proiezione dei film finalisti e l’incontro degli autori con il pubblico. Ad aggiudicarsi il primo premio è stato il film italiano Life in Italy Is Ok di Gianfranco Marino, vincitore ex aequo con Fluffy Pink Bunnies, una coproduzione Egitto-Tuvalu, di Ava Lanche. La pellicola nostrana è un documentario sulla condizione di emigranti, stranieri e nuovi poveri in Italia. Prodotto da Emergency, in collaborazione con lab8, il film presenta diversi punti di vista sul nostro Paese. Ecco allora che, per Gloria, una paziente nigeriana del Poliambulatorio di Palermo, “life in Italy is ok”, mentre nelle parole di un disoccupato italiano affiora l’incapacità di riconoscersi nella propria realtà nazionale. Filo conduttore delle varie esperienze raccontate è il sostegno ricevuto dai volontari di Emergency, spesso unica ancora di salvezza in un oceano di indifferenza istituzionale e sociale. Le altre pellicole premiate sono state: Il Sole tramonta a mezzanotte di Christian Canderan (miglior film finalista) e Hermeneutics di Alexei Dmitriev (miglior film sul disarmo). Anche nell’ultima edizione, inoltre, è stata coinvolta una delle istituzioni universitarie più prestigiose del mondo: l’Università di Cambridge. Grazie alla collaborazione dell’Associazione “La Dante” di Cambridge, il 21 settembre (giornata internazionale della pace) sono stati proiettati presso il prestigioso istituto le opere premiate ed è stato assegnato un ulteriore premio, quello per il “Miglior Film Cortometraggio Consigliato alle Scuole” che è stato conquistato dalla pellicola Bambini in esilio saharawi rifugiati, figli di rifugiati di Fiorella Bendoni.


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UniversitĂ degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it

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