Roma Tre News 1/2015

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P Periodico eriodico di Ateneo

La Luce

Anno XVII, n. 1- 2015


Sommario Editoriale Luce e ombra nel mondo: il visibile e l’invisibile

Il prisma di Newton La teoria sulla luce e sui colori di Antonio Clericuzio

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Primo piano «All’inizio fu il Caos» 7 L’alternanza degli opposti nella cultura greca antica di Adele Teresa Cozzoli

L’unità della luce La teoria dei colori di Goethe di Giovanni Sampaolo

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Luce e gravitazione La relatività generale, cento anni dopo di Enzo Branchini

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«Come i raggi luminosi di una stella» La fotografia secondo Roland Barthes di Daniela Angelucci

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Il lungo viaggio della luce Dai primi studi alle fibre ottiche di Marco Barbieri

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La scrittura della luce La ricerca della claritas moderna di Antonello Frongia

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L’eco della luce La luce e i suoi colori, tra il probabile e il certo di Maria Teresa Lepone

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La soglia dell’invisibile Alexandre Salzmann: cercatore di verità e genio della luce di Carla Di Donato

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La lanterna magica Quando la luce dava forma ai sogni di Francesca Gisotti

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L’inventore della luce Un ritratto letterario di Nikola Tesla di Michela Monferrini

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Onda su onda 16 La “coerenza” della luce nei processi di formazione delle immagini di Massimo Santarsiero La diffrazione della luce L’eredità scientifica di Thomas Young di Riccardo Borghi

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Quando la fantascienza diventa realtà I metamateriali e il superamento del limite della diffrazione di Filiberto Bilotti e Alessandro Toscano

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Crisi di banda Multiplazione ottica nel tempo, in frequenza o a metà? di Gabriella Cincotti Lighting design Ovvero come la luce ridisegna i luoghi d’arte e i paesaggi urbani di Marco Frascarolo

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Incontri Robert Cook. Materia evidente di Alessandra Ciarletti Alberto Tedeschi. Luce, acqua e musica di Michela Monferrini

The blue note 33 Il premio Nobel per la fisica all’invenzione dei LED ad alta efficienza di Giovanni Capellini

Reportage Due esploratori, una cometa e oltre Il racconto della missione Rosetta di Danilo Rubini

Telerilevamento tramite radar ad apertura sintetica (S.A.R.) di Fulvio Bongiorno

Rubriche Palladium Teatro Palladium e Roma Tre Film Festival. Una casa del cinema con la testa nell’università di Vito Zagarrio

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Post lauream 73 Il Perfezionamento in Giornalismo di moda: un percorso tra web e tradizioni identitarie di Maria Catricalà

Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XVII, n. 1/2015 Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

Master in Salute e sicurezza negli ambienti di lavoro in sanità di Silvia Conforto

Caporedattore Alessandra Ciarletti

Non tutti sanno che… 75 Dialogo sulla luce. Viaggio nei modi di percepire il mondo di Gabriele Sacchi e Ursula Grubenthal

Redazione Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Giulia Pietralunga Cosentino, Francesca Simeoni, Elisabetta Tosini

Recensioni Un’osmosi fra la città e gli astri La città del Sole di Tommaso Campanella di Giulia Pietralunga Cosentino La teoria del tutto La parabola scientifica e umana di Stephen Hawking: «Finché c’è vita c’è speranza» di Francesca Gisotti

P Periodico eriodico di Ateneo

Anno XVII, n. 1- 2015

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Vicecaporedattore e segreteria di redazione Federica Martellini romatre.news@uniroma3.it

Hanno collaborato a questo numero Daniela Angelucci (professore associato di Estetica), Marco Barbieri (ricercatore, Dipartimento di Scienze), Filiberto Bilotti (professore ordinario di Campi elettromagnetici - editor di IEEE Trans. on Antennas and Propagation), Riccardo Borghi (professore associato di Fisica della materia editor di Optics Letters), Enzo Branchini (professore associato di Cosmologia), Fulvio Bongiorno (professore senior Dipartimento di Ingegneria), Giovanni Capellini (Professore aggregato di Laboratorio di Fisica della materia), Maria Catricalà (coordinatrice del Corso di perfezionamento in Giornalismo di moda), Gabriela Cincotti (professore ordinario di Fotonica e Comunicazioni ottiche - editor di Optica), Antonio Clericuzio (professore associato di Storiua della Scienza e delle tecniche), Silvia Conforto (direttore del Master in Salute e sicurezza negli ambienti di lavoro in sanità), Adele Teresa Cozzoli (professore associato di Lingua e letteratura greca), Carla Di Donato (Victoria and Albert Museum, Londra /Theatre and Performance Department /Peter Brook Special Project Team; dottore di ricerca c/o Université de la Sorbonne Nouvelle/Paris III ed Università di Roma Tre), Marco Frascarolo (ricercatore di Illuminotecnica - fondatore e coordinatore scientifico di FaberTechnica), Antonello Frongia (ricercatore di Storia della fotografia), Ursula Grubenthal (laureata in Lingue e laureanda nel CdL Educatore professionale di comunità), Maria Teresa Lepone (Ph.D.- Lighting designer teatrale), Fabrizio Naggi (scultore), Danilo Rubini (ASI - Agenzia spaziale italiana), Gabriele Sacchi (studente CdL in Formazione e sviluppo delle risorse umane), Giovanni Sampaolo (professore associato di Lingua e traduzione tedesca), Massimo Santarsiero (professore ordinario di Fisica generale e Ottica - editor di Optics Express), Alessandro Toscano (professore ordinario di Campi elettromagnetici), Vito Zagarrio (professore ordinario Dipartimento di Filosofia, comunicazione e spettacolo) Immagini e foto Alessandra Ciarletti, G. Dall’Orto, Carla Di Donato, ESA©, Federica Martellini, Solmaz Nourinaeini©, Massimo Santarsiero, © Governatorato SCV - Direzione dei Musei, robertcook.org Ringraziamo Bia Simonassi (treebookgallery.blogspot.com) che ha realizzato per noi il mind map pubblicato alle pp. 42-43 Progetto grafico Magda Paolillo, Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma - 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico Impaginazione e stampa Tipografia Gimax di Medei Massimiliano Via Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - tel. 0766 511644 In copertina Deserto di Aqaba Fine lavorazione luglio 2015 ISSN: 2279-9206

La Luce

Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998



Luce e ombra nel mondo: il visibile e l’invisibile di Anna Lisa Tota «Forse adesso ci rendiamo meglio conto di cosa contiene questa piccola parola: “vedere”. La visione non è una certa modalità del pensiero o presenza a sé: è il mezzo che mi è dato per essere assente da me stesso, di Anna Lisa Tota assistere dal didentro alla fusione dell’Essere, al termine della quale soltanto mi richiudo su di me». (Merleau-Ponty 1960, ed. it. 1989, p. 234). Questo numero di Roma Tre News è dedicato alla luce, o meglio, a quel contrasto tra luce e ombra, che contraddistingue così intrinsecamente la condizione umana. L’immagine che abbiamo scelto per la copertina è quella della luce assoluta: il sole nel deserto di Aqaba in Giordania. È proprio dalle dune di un altro deserto – l’Erg Murzug situato nel Fezzan, nell’estremo Sud-Ovest della Libia- che ha origine la leggenda sahariana del popolo dei senza ombra. La leggenda narra che in questa distesa sabbiosa di forma circolare, la cui superficie è grande come un quinto della penisola italiana, viva una comunità di Tuareg chiamata Kei es-Souf (tribù del silenzio). L’Erg Murzug è un territorio senza acqua, quasi del tutto inesplorato. I Kei es-Souf sarebbero gli unici nomadi in grado di attraversarlo. Secondo questa leggenda i Kei es-Souf sono uomini senza ombra, non proiettano cioè nessuna ombra sul terreno. Essi inoltre non salano i cibi e sono in grado di camminare sulle sabbie mobili. I Tuareg ritengono che questi uomini misteriosi siano lì a proteggere i segreti dell’Erg. La condizione umana permette di originare la luce senza originare anche l’ombra? Qual è la natura della luce e quale quella dell’ombra? Questi sono alcuni dei quesiti che hanno affascinato poeti, filosofi, scienziati e artisti sin dai tempi di Platone. Le parole di Maurice Merleau-Ponty aprono il numero e ci introducono sin dall’inizio alla complessità del tema che desideriamo affrontare. Sono tratte da L’oeil et l’Esprit (1960) che può essere considerato il suo testamento spirituale e intellettuale, in quanto sua ultima opera pubblicata in vita (è morto nel 1961). In essa il filosofo francese, esponente di spicco della fenomenologia del Novecento influenzato dalla filosofia di Edmund Husserl e di Max Scheler,

si riferisce all’arte elaborando un’importante teoria della visione. «La visione del pittore – scrive – non è più sguardo su un difuori, relazione meramente fisico-ottica con il mondo. Il mondo non è più davanti a lui come mera rappresentazione: è piuttosto il pittore che nasce nelle cose, per una sorta di concentrazione e venuta a sé del visibile». (p. 229). Maurice Merleau-Ponty critica la concezione dell’occhio proposta da Cartesio: la sua opposizione all’occhio cartesiano è netta. La decorporeizzazione del soggetto proposta nel «cogito ergo sum» è criticata a favore di un pensiero che abiti il mondo e che sia quindi espressione del corpo. Si noti che quando egli si riferisce al corpo, pensa al “Leib” e non al “Körper”. In tedesco, infatti, Edmund Husserl (a cui Merleau-Ponty si ispira) può scegliere tra due termini per esprimere il concetto di corpo, mentre in italiano “Leib” resta intraducibile1 … Ma è proprio a questo “Leib” che si rifà il concetto di visione di Merleau-Ponty. È proprio questo “Leib” che rappresenta il punto di congiunzione tra il visibile e l’invisibile. Non è il corpo inteso come res extensa, dotato di peso e di altezza, misurabile e comparabile per le sue caratteristiche tra un soggetto e un altro (“Körper”, appunto). Si tratta piuttosto del corpo interiore (“Leib”), di quel corpo di cui il soggetto può fare esperienza quando ascolta il suo respiro, quando attraverso il sé abita il mondo. MerleauPonty definisce il Leib come “carne del mondo”, in quanto è proprio attraverso il corpo che diventiamo partecipi dell’universo. Poiché il sapere scientifico è avulso dal Leib, egli giungerà ad accusare la scienza di manipolare le cose e, nel far ciò, di rinunciare ad abitarle.

La condizione umana permette di originare la luce senza originare anche l’ombra? Qual è la natura della luce e quale quella dell’ombra? Questi sono alcuni dei quesiti che hanno affascinato poeti, filosofi, scienziati e artisti sin dai tempi di Platone Con questo piccolo omaggio alla teoria della visione di Merleau Ponty introduciamo il nuovo numero monografico di Roma Tre News dedicato appunto alla luce, un numero che vede la partecipazione di moltissimi colleghi e colleghe del nostro Ateneo e non, che

1 Anche in greco antico ci sono due parole per indicare il corpo: San Paolo usa le parole: σάρξ (sarx) e σῶμα (soma), dove la prima indica la carne del corpo, la seconda sembra indicare invece più il corpo dopo il sacramento del Battesimo e, quindi, un corpo più vicino allo spirito.


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intervengono con contributi scientifici, filosofici, letterari, storici. Il 2015 è stato dichiarato dall’UNESCO anno internazionale della luce. Ricorre, infatti, quest’anno il centenario di una delle più grandi scoperte dell’età contemporanea: nel 1915 Albert Einstein presentò all’Accademia delle Scienze Prussiana le equazioni di campo della teoria della relatività generale. Come vedremo nelle pagine che seguono, il tema della luce si presta a molteplici riflessioni in ambito filosofico, scientifico, artistico, architettonico e letterario. Siamo partiti dall’experimentum crucis di Isaac Newton che fondò la teoria corpuscolare della luce nel 1672. Secondo Newton la luce può essere scomposta attraverso il prisma nei suoi colori primari e, successivamente, attraverso una lente essi possono essere ricomposti nel fascio di luce bianca. Sempre nel XVII secolo Christian Huygens propose una teoria alternativa: quella ondulatoria, alla quale fecero seguito nei primi anni dell’Ottocento gli esperimenti di Thomas Young sul fenomeno della diffrazione e quelli di Joseph von Frauhofer nel 1814 sulle righe di assorbimento nello spettro del sole. Alla fine del XIX secolo James Clerk Maxwell elaborò la teoria elettromagnetica della luce fino ad arrivare a Max Planck e ad Albert Einstein con la teoria quantistica. Proprio per dar conto della pluralità di sguardi possibili e della complessità delle questioni da considera-

Il 2015 è stato dichiarato dall’UNESCO anno internazionale della luce. Ricorre, infatti, quest’anno il centenario di una delle più grandi scoperte dell’età contemporanea: nel 1915 Albert Einstein presentò all’Accademia delle Scienze Prussiana le equazioni di campo della teoria della relatività generale re, vi proponiamo - nelle pagine che seguono - anche un confronto tra la teoria di Newton di fine Seicento e la teoria dei colori di Goethe. Per Goethe (1810) la luce è interconnessa con la fisiologia dell’occhio umano («Se l’occhio non fosse solare, come potrebbe scorgere la luce?» – ci ricorda il collega Giovanni Sanpaolo citando Goethe nel suo contributo). Sulla luce si sono espressi molti poeti e letterati. La luce è uno dei temi fondamentali della Divina Commedia: l’inferno è definito la «valle buia» (Inf. XII, 86), «il loco d’ogne luce muto» (Inf. V, 28). Mentre Virgilio e Dante scendono nell’Inferno, Virgilio dice: «Or discendiam quaggiù nel cieco mondo» (Inf. IV, 10-13). Solo all’uscita dalla valle infernale Dante e Virgilio possono tornare a rivedere le stelle. Nel Purgatorio, regno della luce naturale dove i colori sono di nuovo possibili, Marco Porcio Catone Uticense chiede a Dante: «Chi v’ha guidati, o chi vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte /che sempre nera fa la valle inferna?» (Pg. I, 43-45). La luce del

Paradiso invece è soltanto in parte luce naturale: è soprattutto luce soprannaturale. È la luce di Dio che si irradia sui beati e sugli spiriti celesti. È il «lumen gloriae» di cui parla Giustiniano (Par. V, 118-119): «del lume che tutto il ciel si spazia/noi semo accesi». La luce diviene così sfumatura spirituale dell’occhio interiore, vera e propria tonalità dell’anima. Anche nella vita quotidiana tutti noi abbiamo fissato nel ricordo una luce particolare, un’alba, un tramonto, un bagliore solare che lentamente si offusca oppure un chiarore, una tonalità e una limpidezza della natura che in un momento particolare della nostra esistenza ci hanno colpito. Nella contemporaneità lo sanno bene i fotografi professionisti, capaci di catturare il respiro di un ambiente, di un volto, di un oggetto oppure gli architetti che attraverso le luci costruiscono le tonalità di uno spazio. Diceva Le Corbusier: «L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico, dei volumi sotto la luce». Nel passato lo sapevano bene i pittori, capaci di riprodurre sulla tela una particolare temperatura della luce solare, un suo particolare riflesso. Non è certo un caso che Maurice MerleauPonty elabori le sue riflessioni sull’occhio a partire dello sguardo del pittore. Ma anche per chiunque non abbia una particolare sensibilità cromatica, ci può comunque essere un ricordo di un cielo del Nord con quell’azzurro nitido e inconfondibile (quel cielo che sembra abbassarsi sulle nostre teste sino a sfiorarle) oppure un ricordo di quelle luci terse del Sud dove tutto è arso e la luce sembra riverberare il calore del sole. Come si è detto, parlare di luce significa parlare anche di ombra, cioè - come recita la definizione scientifica - di quell’area scura proiettata su una superficie da un corpo, che interponendosi tra la superficie stessa e una sorgente luminosa, impedisce il passaggio della luce. Nella psicolanalisi di Carl Gustav Jung la contrapposizione tra luce e ombra diviene cifra esplicativa del delicato equilibrio tra archetipi dell’inconscio collettivo e coscienza. L’ombra, infatti, corrisponde secondo Jung a quella parte della nostra personalità rifiutata, rimossa e non autorizzata dalla coscienza, in quanto contrastante con l’educazione e con le influenze culturali e sociali sull’individuo stesso. L’integrazione successiva di parti dell’ombra permette al soggetto di trasformare il processo di proiezione continua degli aspetti del sé rimossi sugli altri e sulle situazioni, con le quali via via egli si confronta nel quotidiano. L’uomo senza ombra, oltre a essere il titolo di un noto film di Paul Verhoeven (2000), esprimerebbe quindi una possibilità teorica, ma non una fattualità empirica. La condizione vitale è contraddistinta dal gioco reciproco di luce e ombra. Non è certo un caso che nella tradizione greca e latina il regno delle ombre sia quello di Ade, cioè il regno dei morti. L’ombra è ineludibilmente parte dell’esistenza. Anzi è una delle sue risorse fondamentali Dice un antico proverbio giapponese: «Se non vuoi farmi luce, almeno fammi ombra».


«All’inizio fu il Caos» L’alternanza degli opposti nella cultura greca antica di Adele Teresa Cozzoli

Phanes - Modena - Galleria Estense

be la Dea, la Notte tenebrosa, senza essersi unita ad alcuno». Luce, Giorno, Etere splendente, Sole, Vita rappresentano valori che si oppongono nel letteratura cosmogonica greca a Tenebra, Notte, Morte, Sonno e Sogni; nessuna delle due realtà può esistere o ha la sua ragione d’essere senza l’altra. Anzi è la Luce a nascere dalla Notte per partenogenesi. E Notte è grande e potente divinità arcaica nell’Iliade (14, 261), rispettata e temuta da Zeus, che si arresta di fronte ai suoi divieti per evitare di offenderla o di sconfinare nell’ambito del suo dominio. La grande Notte cosmica che viene dopo il Caos per diventare veramente Vita di esseri e non di entità astratte deve però creare essa stessa il

La grande Notte cosmica che viene dopo il Caos per diventare veramente Vita di esseri e non di entità astratte deve però creare essa stessa il Giorno e la Luce. In una continua alternanza cosmica, dunque, Giorno e Notte, Luce e Tenebra, Vita e Morte si susseguono in un ciclo inalterato Giorno e la Luce. In una continua alternanza cosmica, dunque, Giorno e Notte, Luce e Tenebra, Vita e Morte si susseguono in un ciclo inalterato. Luce e Tenebra, φῶς e σκότος, vivono in corrispondenza antitetica, ma necessaria. La privazione di Luce è assenza di Vita, mentre la Luce è essenza di Vita anche nella terminologia corrente: per indicare il sopraggiungere della morte Omero dice che la tenebra copre gli occhi per sempre al guerriero ucciso dall’avversario; per semantizzare il ritorno alla vita, nell’Alcesti, Euripide ripetutamente usa l’espressione rivedere la luce, φῶς’”. In queste cosmogonie di stampo tradizionale il principio dominante e primordiale appare comunque la Notte e l’Oscurità, invece nella cultura orfica la Luce, attraverso il dio Phanes, rappresenta l’essenza del divenire. L’Orfismo infatti predica la salvezza attraverso riti, purificazioni e in virtù di conoscenze apprese in vita, auspica, cioè, sul metro del tempo cosmico, una rigenerazione, una paligenesi, una rinascita, un ritorno alla Luce. Nella cosiddetta Teogonia rapsodica di matrice orfica il Tempo genera un uovo cosmico, che poi egli stesso spacca e ne esce fuori un dio dai molti nomi, Protogonos, Dioniso, Eros, Phanes. Egli porta in sé il seme degli altri dei e dà vita con sua figlia Notte a tutto il creato fino alla nascita finale di Zeus, il quale apprenderà da Notte, una specie di consigliera, che suo futuro destino è regnare in perpetuo; tuttavia, per ottenere poteri illimitati sugli altri dei, Zeus deve ingoiare

primo piano

Scrive Esiodo nella Teogonia (v. 115 ss.): «All’inizio dapprima fu il Caos; in seguito, quindi, la Terra dal largo petto, dimora sicura per sempre di tutti gli immortali, che abitano le cime nevose dell’Olimpo, ed il Tartaro, tenebroso nei recessi della Terra dalle Adele Teresa Cozzoli larghe vie; quindi venne Eros, il più bello tra gli dei immortali, colui che scioglie le membra che di tutti gli dei e di tutti gli uomini doma nel petto l’animo e i saggi consigli. Dal Caos nacquero l’Erebo e la nera Notte; dalla Notte quindi nacque l’Etere e il Giorno, che ella partorì dopo averli concepiti unita in amore con l’Erebo… La Notte quindi generò la Sorte odiosa, e la Nera Kere e la Morte; generò il Sonno, generò tutta la stirpe dei Sogni: questi figli eb-

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Phanes, solo così in un secondo momento potrà di nuovo generare tutto, portandolo, come recita il testo

La privazione di Luce è assenza di Vita, mentre la Luce è essenza di Vita anche nella terminologia corrente: per indicare il sopraggiungere della morte Omero dice che la tenebra copre gli occhi per sempre al guerriero ucciso dall’avversario; per semantizzare il ritorno alla vita, nell’Alcesti, Euripide ripetutamente usa l’espressione rivedere la luce greco, di nuovo alla luce, ἐς φάος. La Luce nella cultura greca arcaica dà significato all’esistenza e si confonde con essa. Un inno alla Madre del Sole, Theia dai molti nomi, che permette agli uomini di apprezzare il valore e lo splendore di ogni bene, compare in apertura all’Istmica 5 di Pindaro, mentre altrove nella Pitica 8, che appartiene alla vecchiaia del poeta ed è rivolta all’amata isola di Egina, egli ricorda che l’uomo sogno di un’ombra, soggetto al divenire fenomenico, trova una gioia compiuta, solo quando un lampo che viene dal dio ne illumini l’esistenza. La monotonia della grigia esistenza umana assume fulgore di luce solo quando un dio dà un senso e vigore all’azione umana, gli concede uno sprazzo di Luce. È solo però in Saffo che la Luce si fa metafora di poesia e di gloria imperitura nel mondo terreno e ultraterreno; l’amore del sole comporta la possibilità di apprezzare la raffinatezza e conseguentemente di trasfonderne lo splendore e la bellezza in poesia: «ma io amo la raffinatezza, l’ἀβροσύνα — dichiara Saffo — e a voi e a me l’amore del sole ha dato in sorte questo splendore e questa bellezza» (frr. 58.23-26+59 Voigt). L’ἀβροσύνα non è né il lusso né lo sfarzo arrogante, non è la ricchezza in quanto tale, è una scelta di vita

Nelle cosmogonie di stampo tradizionale il principio dominante e primordiale appare comunque la Notte e l’Oscurità, invece nella cultura orfica la Luce, attraverso il dio Phanes, rappresenta l’essenza del divenire fondata sul senso dell’eleganza e dell’arte, della poesia cioè, che la Luce fa esprimere e amare. E Saffo è consapevole che chi non conosce questa luce e questo splendore, come ad esempio una delle rustiche e volgari direttrici dei tiasi rivali al suo, una volta morta nell’Ade, si aggirerà oscura ἀφανης tra le scure ombre dei morti, senza memoria e ricordo alcuno (fr. 55 Voigt); al contrario la poetessa si auspica, grazie al dono della raffinatezza e della luce che si riverbera da essa, di poter continuare a vivere nella fama tra quanti sulla terra illumina la luce del sole (frr. 65-66c) e a cantare, ammirata tra le ombre dei morti, quando spirerà,

come se fosse ancora in vita (PKöln fr,1, col.1, r. 3-8). Che Saffo identifichi Luce e Vita e vi aggiunga come tramite per possederle a pieno e per garantire nel futuro la fruizione di questi beni anche la Poesia, proclamando anzi che il dono delle Muse proprio nell’Aldilà sia una garanzia contro l’oscurità della Morte, non stupisce, poiché ci troviamo ancora nel solco dei valori tradizionali, variamente presenti nelle cosmogonie arcaiche, per cui Vita e Luce si oppongono a Tenebre e a Morte. È Platone nel IV secolo a mescolare le carte. La poesia diventa menzogna, favola, gioco irreale da fanciulli che oscura e annebbia la mente; l’uomo dovrebbe guardare la Luce del sole, ma si rifiuta di volgersi verso l’accecante verità dell’unico mondo reale, crogiolandosi nella suprema falsità e in erronee fantasie. Nel libro 7 della Repubblica questa concezione è allegorizzata nel mito della caverna in cui gli uomini, privi della Luce del vero, vivrebbero incatenati nell’oscurità e percepirebbero solo l’ombra e l’eco di esseri e oggetti che si proiettano sul muro della grotta da uno spiraglio di Luce che penetra e che pertanto intendono

La monotonia della grigia esistenza umana assume fulgore di luce solo quando un dio dà un senso e vigore all’azione umana, gli concede uno sprazzo di Luce. È solo però in Saffo che la Luce si fa metafora di poesia e di gloria imperitura nel mondo terreno e ultraterreno come gli unici veri e reali. Chi tra i pochi fortunati riesce ad uscire dalla prigionia della caverna è prima accecato dalla luce del sole e non è neanche in grado di discernere e guardare il vero mondo, perché i suoi occhi sono assuefatti all’oscurità, ma piano piano riuscirà a sollevare gradualmente il suo sguardo e sopportare l’intensità della luce che promana dalla realtà. Tornato dai suoi compagni di prigionia cercherà di spiegargli che vivono nell’oscurità di un mondo falso e irreale, ma potrà riuscire a stento a convincerli, perciò — conclude il filosofo — è necessario bandire dall’educazione dei giovani tutte quelle forme di espressione come l’arte e soprattutto la poesia che perpetuano e giustificano questa condizione d’oscurità, producendo nelle menti dei giovani opinioni certo allettanti e fantastiche, ma errate. Solo la filosofia, la dialettica, e le scienze matematiche ‘razionali’ per Platone contribuiscono ad esercitare la ragione e l’intelletto, agevolandone così il lento percorso che permetterà alla fine di uscire dalla caverna e di contemplarla Luce della vera e unica realtà, al di sopra del mondo sensibile. La Luce accecante della realtà — ci perdoni Platone — non ha mai guidato verso i capolavori della poesia e della letteratura; solo l’oscurità e le ombre, proiettate su uno schermo, sono un limite che fa viaggiare gli occhi della mente con l’immaginazione. L’aveva invece capito molto bene il sofista Gorgia che predicava al contrario il piacere che si fruisce nell’inganno dell’ar-


te, condannando come di livello teoretico inferiore chi prova o ha imparato ad eluderne il magico incantamento. Ma sentiamo che cosa ci racconta Italo Calvino nelle Cosmicomiche. In “Sul far del giorno”, quando il protagonista del racconto QfWfq era bambino,

La Luce accecante della realtà — ci perdoni Platone — non ha mai guidato verso i capolavori della poesia e della letteratura; solo l’oscurità e le ombre, proiettate su uno schermo, sono un limite che fa viaggiare gli occhi della mente con l’immaginazione. L’aveva invece capito molto bene il sofista Gorgia che predicava al contrario il piacere che si fruisce nell’inganno dell’arte, condannando come di livello teoretico inferiore chi prova o ha imparato ad eluderne il magico incantamento tutto era freddo e buio, anzi buio pesto, e non c’era altro da fare che aspettare, sperare che qualcosa cam-

Orfeo, Museo Archeologico Palermo. Foto G. Dall’Orto

biasse, augurarsi che passasse l’enorme notte cosmica. Solo la sorellina del protagonista nel buio si trovava a suo agio: la piccola G’d( w) sceglieva luoghi un po’ discosti sull’orlo della nebula, contemplava il nero e parlava tra sé, canticchiava e s’abbandonava –addormetata o desta— a sogni. I sogni di G’d( w) non erano come quelli degli altri, dal suo vaneggiare si capiva che la bimba sognava un buio cento volte più fondo e vario e vellutato; vagava cioè con la fantasia e sul buio era in grado di creare e di divertirsi con le sue visioni poetiche. Quando il primo raggio di luce squarciò l’oscurità e riscaldò l’atmosfera, G’d( w) si sperse, si ritrasse nel fondo della nebula, per ricomparire tanti anni dopo, — conclude Calvino — molto mutata, irriconoscibile, a Camberra nel 1912, sposata ad un certo Sullivan, un pensionato delle ferrovie. Ammoniva Freud che «Il poeta si comporta come il bambino che gioca. Egli crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio – in cui, cioè, investe una grande carica emotiva – e lo separa nettamente dalla realtà». La Luce del Sole e del Giorno riportando alla realtà G’d( w) hanno annientato la fantasia che si sprigionava in lei solo giocando nell’oscurità di un mondo che non era ancora diventato reale, vero. G’d( w) alla Luce del Giorno è diventata una persona comune, banale, oscura, reale, una tra molti.

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Luce e gravitazione La relatività generale, cento anni dopo di Enzo Branchini Il 25 nov em b re 1915, da poco trasferitosi a Berlino, Albe rt E i n ste in pr es en t a all’Accademia delle S ci en ze Prussiana il breve, ma fondamentale, articolo che contie ne le fam o s e equazioni di campo della Relatività Generale. Enzo Branchini È l’atto finale di un percorso iniziato nel 1907, attraverso il quale il Einstein si proponeva di superare la teoria della Gravitazione di Newton e di spiegare tutti i fenomeni gravitazionali noti (dalla mela che cade, al pianeta che orbita, ai moti delle galassie). Negli ultimi mesi il percorso era diventato concitato: tra luglio e novembre, in competizione con il grande matematico David Hilbert, che arriverà a formulare indipendentemente le medesime equazioni, Einstein rielaborerà più volte il suo modello. Lo sforzo è enorme, ma il risultato finale è rivoluzionario: nella nuova teoria la gravità non è come una forze come le altre, ma una proprietà dello spazio-tempo: la sua curvatura. Quest’anno ricorre il centenario di tale evento, ma non solo: il 2015 è anche stato dichiarato dall’UNESCO Anno Internazionale della Luce. La coincidenza non è casuale: la relazione tra Relatività Generale e luce è, ed è sempre stata, molto stretta, sin dal momento in cui questa teoria fu sottoposta al vaglio sperimentale.

fetto è piccolo e misurabile solo in presenza di campi gravitazionali particolarmente intensi, ovvero in prossimità di corpi molto massicci, come il nostro Sole. Einstein concepisce un esperimento ideale in cui, a causa di questo effetto, la posizione di una stella nel cielo cambia quando il Sole le transita davanti. Secondo Einstein una stella vicina al bordo solare dovrebbe spostarsi di circa 5 millesimi di grado, una deviazione piccola ma già misurabile nel 1915. E che tuttavia non fu possibile misurare subito. Sia perché la misura può essere eseguita solo durante un’eclisse totale di Sole; sia perché lo stato delle relazioni internazionali alla fine del conflitto mondiale rendeva difficile raggiungere i luoghi interessati dalle eclissi. Si dovette attendere fino al 1919 quando l’astronomo Sir Arthur Eddington, approfittando di un’eclissi nell’isola di Prince, davanti alle coste africane, ottenne dei risultati in perfetto accordo con la nuova teoria: la vecchia teoria di Newton era stata falsificata. Per Albert Einstein fu un trionfo. Egli diventa una star internazionale la cui fama continuerà a crescere, trasformandolo in quell’i-

Nella teoria di Einstein la luce non viaggia necessariamente in linea retta: in presenza di un campo gravitazionale la luce modifica il proprio percorso in maniera analoga a quando essa passa attraverso una comune lente ottica Ciò avvenne sfruttando il fenomeno di lente gravitazionale. Nella teoria di Einstein la luce non viaggia necessariamente in linea retta: in presenza di un campo gravitazionale la luce modifica il proprio percorso in maniera analoga a quando essa passa attraverso una comune lente ottica. L’ef-

Prima pagina del New York Times del 10 novembre 1919 che annucia il risultato dell’osservazione di Eddington e la conferma della Teoria della Relatività Generale.


cona pop di scienziato geniale e anticonformista che tutti conosciamo. Ma torniamo alla luce: l’effetto di lente gravitazionale è stato osservato molte volte e rappresenta ormai un importante strumento di indagine astronomica. Molti oggetti celesti, oltre al Sole, agiscono come lenti gravitazionali: le stelle, le galassie e gli ammassi di galassie. Questi ultimi sono i sistemi gravitazionalmente legati più grandi dell’Universo: contengono centinaia o migliaia di galassie; sono, inoltre, lenti gravitazionali straordinariamente potenti, in grado non solo di cambiare le posizioni celeste degli oggetti posti alle loro “spalle”, ma anche di modificare la forma ed il numero delle loro immagini. Analizzando queste immagini moltiplicate e distorte è possibile ricavare la massa dell’ammasso. Qui si ha una grossa sorpresa: la massa misurata è molto maggiore di quella contenuta nelle galassie o nel gas diffuso dentro l’ammasso. La maggior parte della massa è oscura. Questo è vero per tutti i sistemi autogravitanti nel nostro universo: la gran parte della loro massa non è osservabile direttamente. E quindi deve essere composta da un nuovo tipo di particelle, diverse da quelle già note, la cui esistenza rappresenta una grande sfida per la fisica fondamentale, tanto che la loro rivelazione è uno degli obiettivi principali degli esperimenti in corso al CERN, dopo la scoperta del bosone di Higgs. La luce è centrale anche in altri aspetti della teoria della relatività. Uno di questi è il cosiddetto redshift gravitazionale; lo spostamento verso il rosso della lunghezza d’onda emessa da una sorgente luminosa posta in un campo gravitazionale. Anche questa predizione è stata verificata, tra il 1959 ed il 1965. L’effetto, per quanto piccolo, ha dei risvolti pratici sulla nostra vita quotidiana: ignorando il redshift gravitazionale la tecnologia GPS non potrebbe determinare le posizioni con la precisione necessaria. Un effetto simile al redshift gravitazionale, il

La luce è centrale anche in altri aspetti della teoria della relatività. Uno di questi è il cosiddetto redshift gravitazionale: lo spostamento verso il rosso della lunghezza d’onda emessa da una sorgente luminosa posta in un campo gravitazionale redshift cosmologico, permise ad Edwin Hubble nel 1929 di fare una scoperta fondamentale. Hubble osservò che la lunghezza d’onda della luce emessa da una galassia distante subisce uno spostamento verso il rosso proporzionale alla distanza a cui si trova. La teoria della Relatività Generale contempla la possibilità di tale effetto nel caso in cui l’Universo non sia statico, come pensava anche Einstein, ma si espanda. E questo è proprio

Einstein nel suo studio a Berlino nel 1920, pochi mesi dopo la conferma seprimentale della sua teoria.

ciò che si osserva: tutte le galassie, compresa la nostra, si allontano le une dalle altre con una velocità proporzionale alla loro distanza. La teoria della relatività ci permette di seguire a ritroso questa storia di espansione, rivelandoci che l’Universo, come noi lo osserviamo, si è evoluto partendo da un evento estremamente energetico. Tale evento è il Big Bang, di cui abbiamo evidenza indiretta attraverso il fondo cosmico di microonde, osservato per la prima volta nel 1968 e immediatamente interpretato come luce emessa quando l’Universo, molto più giovane, aveva una temperatura confrontabile a quella della superficie di una stella simile al Sole. Il redshift cosmologico fornisce uno strumento per misurare le distanze delle galassie e ricostruirne la loro distribuzione spaziale. Ed è proprio grazie allo studio di questa distribuzione che, nel 1995, due differenti gruppi scoprirono, in modo indipendente, che l’universo sta accelerando la propria espansione. Anche questa fu una scoperta inattesa: ogni forma di energia o di massa a noi nota, compresa l’ipotetica materia oscura, dovrebbe rallentare l’espansione dell’Universo. Per spiegarne lo stato di accelerazione è necessario ipotizzare l’esistenza di un’ulteriore, nuova forma di energia, l’Energia Oscura, la cui origine e natura costituisce, assieme a quello della materia oscura, uno dei problemi più affascinanti della Fisica moderna. Esiste infine un ultimo aspetto del rapporto tra relatività e luce, quello più conflittuale e probabilmente più interessante per le possibili conseguen-

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Ammasso di galassie A2218. In questo ammasso, distante circa 2 miliardi di anni luce, oltre alle galassie che ne fanno parte (gli oggetti brillanti e compatti con forme circolari o ellittiche) si notano degli archi di cerchio concentrici. Queste sono le immagini di galassie più lontane distorte e moltiplicate per l’effetto di lente gravitazionale [NASA/ESA]

ze future. È un aspetto legato alla natura stessa della teoria. La forza elettromagnetica, di cui la luce è espressione diretta, e quella nucleare debole e forte hanno molti aspetti in comune e possono essere comprese in un quadro teorico autoconsistente. Più sinteticamente: possono essere unifica-

La teoria della relatività ci permette di seguire a ritroso questa storia di espansione, rivelandoci che l’Universo, come noi lo osserviamo, si è evoluto partendo da un evento estremamente energetico. Tale evento è il Big Bang, immediatamente interpretato come luce emessa quando l’Universo, molto più giovane, aveva una temperatura confrontabile a quella della superficie di una stella simile al Sole te in una sola forza. Al contrario, la forza di gravità è molto diversa e resiste ad ogni tentativo di unificazione. Una delle differenze è rappresentata dall’intensità: la forza di gravità è incredibilmente debole: per confrontarla con le altre forze è necessario considerare quei sistemi in cui la gravità è estremamente intensa. Sistemi di questo tipo sono rari. Uno di questi è l’Universo in epoche vicine al Big Bang, la cui osservazione diretta, però, non sembra possibile. Un altro esempio, più abbordabile sperimentalmente, sono i buchi neri. Non è quindi sorprendente che questi oggetti siano diventati il terreno

di caccia preferito di molti fisici teorici, tra cui il famoso Stephen Hawking. I buchi neri sono oggetti in cui la luce, e con essa l’informazione, una volta entrata, rimane intrappolata per sempre…..o forse no. É in questa incertezza che si gioca, probabilmente, una delle più importanti partite della Fisica moderna, e che potrebbe nascondere la chiave per arrivare ad una teoria che descriva in modo unificato le forze della natura. Tutte queste scoperte derivano, in modo più o me-

I buchi neri sono oggetti in cui la luce, e con essa l’informazione, una volta entrata, rimane intrappolata per sempre... o forse no. É in questa incertezza che si gioca, probabilmente, una delle più importanti partite della fisica moderna, e che potrebbe nascondere la chiave per arrivare ad una teoria che descriva in modo unificato le forze della natura no diretto, da quel breve articolo che Albert Einstein presentò ai suoi colleghi tedeschi una mattina di 100 anni fa. C’è da chiedersi quali saranno gli sviluppi nei prossimi 100 anni. Difficile dirlo. L’unica certezza è che grazie allo sforzo di Einstein e di quanti sono venuti e verranno dopo di lui, arriveremo una comprensione del mondo fisico assai più profonda di quella, pur non disprezzabile, che abbiamo raggiunto finora.


Il lungo viaggio della luce Dai primi studi alle fibre ottiche di Marco Barbieri Per molti di noi, è il primo contatto con quello che ci circonda, siano oggetti familiari o insoliti, visi noti o volti sconosciuti, oppure stelle lontanissime. È la protagonista di tutti i quadri di Turner, di Manet, di Caravaggio, antichi popoli vi hanno visto l’origine del mondo, ha ispirato poeti, interrogaMarco Barbieri to filosofi e scienziati. La percepiamo in modo talmente immediato che saremmo in difficoltà a spiegare a parole cosa sia a chi lo domandasse. Comprendere la luce è stato un viaggio che ha richiesto all’uomo migliaia di anni e che ci ha portato a poter comunicare velocemente in tutto il pianeta e a curarci meglio. In tutti i suoi colori, anche quelli che non possiamo vedere, la luce rappresenta una forma di energia, che oggi sappiamo produrre, far scorrere lungo fibre ottiche e impiegare per gli usi più differenti, come abbiamo imparato con l’acqua tanti millenni fa. Negli ultimi anni, le tecnologie che impiegano la luce sono aumentate e hanno visto una crescita in settori al di fuori dell’illuminotecnica tradizionale, come le comunicazioni e la salute. Qui ripercorreremo le tappe più recenti che ci hanno portato dall’ottica, lo studio fondamentale della luce, alla fotonica, il suo impiego tecnologico. Cos’è la luce La nostra partenza è comprendere cosa sia la luce. Fin dal ‘700 si sono contrapposte due teorie. La prima vedeva la luce come un flusso di particelle, come nell’acqua di una fontana sono delle gocce a muoversi; la seconda, invece, sosteneva che la luce dovesse essere compresa come una specie di onda. In realtà, entrambe le teorie aprivano forse più interrogativi di quanti non ne chiudessero: una teoria a particelle non spiega bene come la luce passa da un materiale ad un altro, una teoria ondulatoria, invece, non chiarisce che tipo di onda sia la luce. Lo sviluppo dell’elettromagnetismo e della fisica moderna, ci hanno rivelato che la teoria più corretta è… che sono entrambe corrette: la luce è allo stesso tempo un flusso di particelle, chiamate fotoni, e un’onda. La luce è un’onda elettromagnetica: è in grado di muovere elettroni, come fanno i campi elettrici che causano correnti nelle pile. La differenza è che dentro una pila il campo elettrico resta costante;

il campo elettrico della luce, invece, oscilla milioni di milioni di volte in un secondo e, come le onde del mare, passa da un’intensità massima ad una minima. Queste oscillazioni, però, sono troppo veloci perché ce ne possiamo accorgere e vediamo solo un effetto medio; ecco perché normalmente gli oggetti non brillano. I nostri occhi però hanno un modo per capire quanto sono veloci queste oscillazioni: il colore. Più è rapida l’oscillazione, più la luce ci appare blu. Se l’oscillazione è molto lenta, è luce infrarossa e i nostri occhi non riescono più a percepirla se non come una sensazione di calore, e poi ancora microonde e onde radio. Se è molto veloce, invece, è luce ultravioletta o addirittura raggi X. Ma la luce è anche un flusso di fotoni, ciascuno dei quali porta con sé le proprietà che associamo alle onde, prima di tutto il colore: i fotoni blu sono diversi da quelli verdi, che sono diversi da quelli rossi o infrarossi oppure ultravioletti e così via. La luce che si riflette su uno specchio è il risultato di fotoni che urtano come delle biglie su di un muro. Che la si descriva come un’onda oppure come una particella, la luce è in grado di trasportare energia, attraverso una stanza, come per una lampadina, o addi-

Comprendere la luce è stato un viaggio che ha richiesto all’uomo migliaia di anni e che ci ha portato a poter comunicare velocemente in tutto il pianeta e a curarci meglio rittura galassie, come per le stelle. Con questo concetto, possiamo capire perché le lampadine led ci promettono una bolletta più leggera. I led Per migliaia di anni, l’umanità ha avuto due sole possibilità per avere luce: aspettare l’alba, oppure accendere un fuoco. Le prime lampadine a incandescenza sono arrivate solo alla fine dell’Ottocento e hanno portato una rivoluzione nell’organizzazione delle nostre giornate e della nostra società. Il principio di funzionamento, però, è lo stesso che fa emettere luce a una torcia. Quando gli atomi dell’aria oppure di un filamento sono scaldati a temperature molto elevate, cercano di perdere energia emettendo luce di tutti i colori. Siccome per emettere un fotone blu un atomo deve aspettare di aver immagazzinato molta energia, preferisce liberarsene subito, emettendo fotoni infrarossi. Questo rende il processo di conversione di

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energia in luce si incontrano, si molto inefficienannullano tra di te: bisogna riloro e dall’urto scaldare i filane vien fuori un menti a temperafotone. Questi ture molto elevadispositivi si te e, siccome per chiamano light riscaldare si usa emitting diodes, la corrente un che è il nome po’ come nei completo dei vecchi scaldabaled: sono dei gni elettrici, le diodi, come lampadine a inquelli che si candescenza ne usano in elettroconsumano molnica, ma sono ta. Inoltre l’alta capaci di protemperatura dedurre luce. grada il mezzo Luce di quale che ci dà luce, La luce può comportarsi come un’onda o come una particella. Le nuove tecnologie riesco- colore? Questo che sia la torcia no a sfruttare al meglio questa dualità. dipende dall’eche si consuma o il filamento che si fulmina. nergia che hanno accumulato l’elettrone e la buca e, Con gli anni, però, abbiamo imparato come funzioa sua volta, essa dipende dal materiale, per esempio, nano i materiali e come possiamo controllare gli eletnelle leghe, da quanto gallio e quanto arsenico si usa, troni che si muovono al loro interno. Sappiamo che e dai droganti che vi si trovano. Produrre luce in quenei conduttori gli elettroni si possono muovere libesto modo è molto più conveniente, perché non dobramente in tutto il materiale, mentre negli isolanti rebiamo riscaldare nulla, ma solo far incontrare un stano vicino ai loro nuclei di origine. Esiste una terza elettrone e una lacuna. Normalmente i semiconduttocategoria di materiali a metà tra i due, i semicondutri emetterebbero luce infrarossa o al più rossa, ma tori come il silicio o il germanio e alcune leghe di negli ultimi decenni gli scienziati sono riusciti a trovare le ricette giuste per inserire il tipo e la concentrazione giusta di droganti per coprire tutto lo spettro In tutti i suoi colori, anche quelli che della luce visibile.

non possiamo vedere, la luce rappresenta una forma di energia, che oggi sappiamo produrre, far scorrere lungo fibre ottiche e impiegare per gli usi più differenti, come abbiamo imparato con l’acqua tanti millenni fa gallio e arsenico. Gli elettroni non sono né liberi come nei conduttori, né vincolati come negli isolanti, e non sono i soli a causare le correnti: ci sono infatti anche delle lacune, che non sono propriamente delle particelle, ma delle mancanze di elettroni dove ci aspetteremmo di trovarne uno. Queste si comportano però come delle vere e proprie particelle, come delle bolle in un liquido. Non sono le bolle a muoversi, ma il liquido intorno, però conviene pensare che sia l’inverso; nel nostro caso, al posto dell’acqua ci sono gli elettroni che sono rimasti legati ai nuclei del materiale. Possiamo mettere uno accanto all’altro due materiali differenti, uno che porta elettroni e l’altro che porta lacune. Questi eccessi o difetti di carica si ottengono inserendo nei materiali dei droganti, cioè degli atomi ‘estranei’, come il fosforo, l’alluminio o l’azoto. A seconda di quanti elettroni sono presenti nell’atomo, si comportano come delle sorgenti di elettroni oppure di lacune. Quando una lacuna e un elettrone libero

La luce è un’onda elettromagnetica: è in grado di muovere elettroni, come fanno i campi elettrici che causano correnti nelle pile. La differenza è che dentro una pila il campo elettrico resta costante; il campo elettrico della luce, invece, oscilla milioni di milioni di volte in un secondo e, come le onde del mare, passa da un’intensità massima ad una minima Il laser Tutte queste sorgenti di luce - il sole, i gas e i filamenti incandescenti, i led - hanno una caratteristica in comune: ogni atomo oppure ogni elettrone emette per conto suo, senza sapere quello che stanno facendo gli altri intorno a lui. Questo vuol dire che la luce si disperde in tutte le direzioni. Come possiamo fare per convincere gli elettroni per emettere tutti insieme? La soluzione è di usare un meccanismo di amplificazione, il laser (che è appunto l’acronimo per light amplification by stimulated emissioni of radiation). Prendiamo uno dei nostri led e mettiamolo tra due


specchi, uno guaina di vetro molto riflettente leggermente dife uno con un po’ ferente. Questa di perdite. Sicguaina si comcome i fotoni soporta come uno no particelle, specchio che imquesti rimbalzepedisce ai fotoni ranno tra i due di scappare lunspecchi molte go le pareti e li volte prima di fa scorrere lungo poter uscire per la guida, come effetto delle peracqua in un tudite. Siccome i bo. Tuttavia, su fotoni sono andistanze molto che delle onde, lunghe, molti fola loro oscillatoni sono cozione, quindi il munque persi loro colore, sarà perché riescono influenzato dalla Lo schema di un laser. I fotoni sono amplificati da un mezzo attivo che trasforma l’energia a scappare da distanza tra gli che ha immagazzinato, in questo caso sotto forma di corrente, in nuovi fotoni, del tutto qualche imperspecchi: non tut- identici a quelli originari. fezione o venti i colori (e non gono assorbiti tutte le direzioni) sono possibili, ma solo quelle perdal materiale. La tecnologia che ha davvero permesmesse dai due specchi. Quando il led emette, deve so l’impiego su grande scala delle fibre ottiche è staemettere delle copie dei fotoni che sono già intrappota l’introduzione di amplificatori. Questi si basano lati tra i due specchi; esso deve, in altre parole, amsullo stesso principio dei laser, in cui un materiale plificarli, come un microfono amplifica la voce agcede energia alla luce amplificandola, ma sono così giunge energia, ma senza cambiare i suoni. Grazie ai efficienti che non hanno bisogno di specchi, anzi, sonumerosi passaggi dentro il led, l’amplificazione è no realizzati direttamente in fibre speciali, drogate molto efficace. Cambiano leggermente il dispositivo, con atomi di erbio che hanno il compito di accumupossiamo invece fare in modo che i fotoni non siano lare energia per poi cederla alla luce. emessi tutti nello stesso colore, ma tutti allo stesso momento: otteniamo così degli impulsi luminosi. La luce che vien fuori è la luce laser. Che la si descriva come un’onda Il vantaggio di concentrare la luce su un solo colore oppure come una particella, la luce è o su in un solo impulso, e su una sola direzione è che in grado di trasportare energia, così otteniamo luce molto più intensa e molto più controllabile di quella possibile con una lampadina o attraverso una stanza, come per una un semplice led. È per questo che i laser sono impielampadina, o addirittura galassie, gati nei lettori DVD e negli scanner dei codici a barcome per le stelle. Con questo re, ma anche in applicazioni più avanzate nelle telecomunicazioni e in medicina: basta pensare a come i concetto, possiamo capire perché le laser hanno completamente rimpiazzato il bisturi nelampadine led ci promettono una gli interventi di correzione della cornea.

bolletta più leggera

Luce per comunicare e per curare Disporre di luce in impulsi brevi e di colori differenti è ciò che ha permesso l’esplosione delle comunicazioni su fibra ottica. Tutti i dispositivi elettronici, inclusi i computer, sanno contare solo 0 oppure 1, ma questo linguaggio binario è loro sufficiente per compiere qualsiasi operazione. Possiamo quindi “parlare” ad un computer usando la luce: se il livello dell’intensità è alto, il computer lo interpreta come un 1, se invece è molto basso, come uno 0. È un po’ come se volessimo comunicare in Morse da una finestra accendendo e spegnendo la luce. Nel caso reale, la finestra da cui si guarda è l’uscita di una fibra ottica. Questi dispositivi sono costituiti da un nucleo di vetro molto piccolo - ha un diametro di circa 50 millesimi di millimetro - con intorno una

Ma le fibre ottiche hanno anche rivoluzionato la chirurgia. Gli appassionati di calcio ricorderanno ancora il grave infortunio al ginocchio che ha terminato la carriera di Marco Van Basten; oggi, lo stesso infortunio può essere curato in modo meno invasivo perché i medici possono usare le fibre ottiche per guardare dentro la parte malata e non dover aprirla per operare. Questa tecnica si usa comunemente in molte branche della chirurgia e permette un intervento più leggero e tempi di recupero più veloci. Cosa ci aspetta in futuro? è difficile predirlo guardando a quali tecnologie abbiamo oggi, impensabili un secolo fa. In ogni caso, la luce sarà lì a parlarci, a curarci e ad affascinarci.

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Onda su onda La “coerenza” della luce nei processi di formazione delle immagini di Massimo Santarsiero

Alla fine dell’Ottocento, dopo gli esperimenti di Young e i lavori di Maxwell sul campo elettromagnetico, l’annosa questione sulla natura corpuscolare o ondulatoria della luce fu finalmente risolta. La luce fu definitivamente annoverata tra i fenomeni di propagazione ondosa, esattamente coMassimo Santarsiero me il suono e le onde del mare. In realtà il successivo avvento della meccanica quantistica mescolò nuovamente le carte, stabilendo un legame tra i due punti di vista, ma qui ci limiteremo a considerare i fenomeni dal punto di vista della fisica classica. La grandezza fisica che oscilla e si propaga è il campo elettromagnetico, esattamente lo stesso che utilizzano i nostri telefoni cellulari per comunicare tra loro, con la differenza che nella luce la rapidità con cui il campo oscilla è circa centomila volte superiore, dell’ordine di un milione di miliardi di oscillazioni in un secondo. C’è da mettere in evidenza un’altra differenza tra le onde elettromagnetiche utilizzate per le comunicazioni e la luce, almeno quella cosiddetta “naturale”, come quella che proviene dal sole o che è prodotta dalle comuni lampadine. Proprio per il suo carattere naturale, infatti, tale luce è generalmente caratterizzata da elevati livelli di irregolarità. Volendo fare un’analogia con le onde del mare, le prime potrebbero essere paragonate alle onde prodotte da un sasso gettato nell’acqua. L’andamento nel tempo di un fissato punto della superficie del mare, misurato osservando la posizione di un oggetto che galleggia sulla superficie, segue un moto oscillatorio piuttosto regolare. E lo stesso vale per la forma stessa delle onde in un fissato istante. Si possono anche individuare i cosiddetti fronti d’onda, cioè le linee che congiungono tutti i punti corrispondenti alla cresta di un’onda in quell’istante, e notare che ad instanti successivi essi si sono mossi conservando, più o meno, la loro forma. Nel caso della luce naturale, viceversa, le onde somigliano di più alle increspature prodotte da un gruppo di ragazzi che gioca nell’acqua. È impossibile individuare qualsiasi regolarità, sia nell’andamento temporale che nel loro profilo spaziale, e diremmo piuttosto che ci troviamo di fronte a un fenomeno di tipo aleatorio. La forma dei fronti d’onda varia, sia nel tempo che nello spazio, in maniera imprevedibile

e assolutamente irregolare. Nel caso della luce naturale, in particolare, i fronti d’onda variano con una rapidità tale che non esistono strumenti sufficientemente veloci per poterne individuare la forma. L’idea stessa di fronte d’onda, in questo caso, perde senso. Assodata quindi la natura ondulatoria della luce, scopriamo che alcuni dei fenomeni che riteniamo più elementari e con i quali abbiamo a che fare quasi costantemente durante la nostra vita, in realtà sono interpretabili solo ricorrendo a modelli piuttosto sofisticati. Prendiamo in considerazione il processo di formazione delle immagini sulla retina del nostro occhio. Quest’ultimo funziona secondo gli stessi principi di una macchina fotografica: la luce proveniente

Qualcuno potrebbe osservare, giustamente, che l’intensità luminosa non è l’unica grandezza associata alla propagazione di un’onda. Essa è legata all’energia trasportata dall’onda e, nell’analogia con le onde del mare, all’altezza delle onde stesse dagli oggetti che sono di fronte a noi entra nella pupilla, attraversa il cristallino, che funge da obiettivo, e si propaga fino alla retina, formando su di essa un’immagine che riproduce la scena che stiamo osservando. Ciò significa che la totalità delle informazioni contenute nell’immagine (e quindi la posizione di tutti gli oggetti, le loro forme, i loro dettagli, i colori, le differenze di luminosità, eccetera) è in qualche modo contenuta in quei pochi millimetri quadrati di superficie di onda luminosa che riesce a entrare nella pupilla del nostro occhio. Ed è impressionante pensare all’enorme quantità di informazione che deve essere trasportata dalla luce proveniente da una qualunque scena tridimensionale. È sufficiente spostare la posizione del nostro occhio, o anche solo inclinare lo sguardo, perché l’immagine formata sulla nostra retina cambi, anche in maniera radicale! Ma come è codificata questa informazione nell’onda luminosa che giunge fino a noi? Per scoprirlo, proviamo a osservare la luce che incide sulla pupilla del nostro occhio. Naturalmente, potremmo farlo solo guardando la luce che entra nella pupilla dell’occhio di un’altra persona (o nell’obiettivo di una macchina fotografica), per esempio ponendo davanti alla pupilla uno schermino bianco o un foglio di carta che intercetti la luce destinata ad entrare nell’occhio. Ebbene, l’unica cosa che saremmo in grado di vedere è


Generazioni di onde molto (sopra) e poco coerenti (sotto) sulla superficie dell’acqua

una superficie uniformemente illuminata. Anche ingrandendo la superficie milioni di volte, non saremmo in grado di percepire la pur minima differenza di luminosità (o, meglio, di “intensità luminosa”) tra un punto e un altro dello schermino. Inoltre, ciò che noi osserveremmo sarebbe in buona misura indipendente dalla scena inquadrata dall’occhio. Questo risultato, vagamente paradossale, ci porta a concludere che il contenuto informativo trasportato dalla luce è completamente inaccessibile alla nostra vista. Lo diventa, viceversa, se noi utilizziamo l’unico, sofisticatissimo strumento in grado di decriptare l’informazione nascosta e di trasformare questo profilo uniforme e indifferenziato in una bellissima immagine, piena di dettagli e di colori: il nostro cristallino. Qualcuno potrebbe osservare, giustamente, che l’intensità luminosa non è l’unica grandezza associata alla propagazione di un’onda. Essa è legata all’energia trasportata dall’onda e, nell’analogia con le onde del mare, all’altezza delle onde stesse. Ma, per esempio, anche la forma dei loro fronti d’onda potrebbe giocare un ruolo. Due onde potrebbero apparire identiche misurandone solo la frequenza di oscillazione e l’energia che esse trasportano, ma essere diversissime per quanto riguarda i loro fronti d’onda, nella cui forma (con termini più tecnici parleremmo di “fase”)

potrebbe essere contenuta l’informazione che stiamo cercando. L’osservazione è in parte corretta. Lo sarebbe se noi non avessimo a che fare con luce naturale. Ma questa, come abbiamo detto, non presenta fronti d’onda ben definiti. Dove si nasconde dunque l’immensa quantità di informazione trasportata dalla luce? Qual è la grandezza fisica responsabile della sua trasmissione? Ciò che stiamo cercando si chiama

Dove si nasconde dunque l’immensa quantità di informazione trasportata dalla luce? Qual è la grandezza fisica responsabile della sua trasmissione? Ciò che stiamo cercando si chiama "funzione di coerenza" “funzione di coerenza”. Essa, dati due punti dello spazio presi a piacere, determina quanto i valori del campo in un punto siano correlati ai valori del campo nell’altro punto. Per esempio, nell’esempio iniziale delle onde prodotte da un sasso nel mare, ci si aspetta che le oscillazioni dell’acqua in un punto siano in

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qualche modo legate alle oscillazioni in un altro punto, anche se piuttosto distante. Ciò, naturalmente, non accade nel caso dei ragazzi che giocano nell’acqua. Nel primo caso, si dirà che le onde hanno una elevata coerenza, nel secondo che l’hanno molto bassa, o sono addirittura “incoerenti”. Non è tanto facile

Non è tanto facile visualizzare la funzione di coerenza della luce ed è ancora più difficile misurarla, perché richiede l’impiego di apparecchiature piuttosto delicate, anche se concettualmente semplici, e soprattutto prevede l’acquisizione di un’enorme mole di dati, perché essa assume valori diversi per ogni possibile coppia di punti di una superficie visualizzare la funzione di coerenza della luce ed è ancora più difficile misurarla, perché richiede l’impiego di apparecchiature piuttosto delicate, anche se concettualmente semplici, e soprattutto prevede l’acquisizione di un’enorme mole di dati, perché essa assume valori diversi per ogni possibile coppia di punti di una superficie. Come è giusto che sia, perché essa è la sola responsabile del trasporto di tutte le informazioni di cui l’occhio necessita per formare le sue immagini. È quindi la coerenza che determina le modalità con cui la luce si propaga, dal cristallino alla retina, così come nello spazio libero. La differenza

tra la luce prodotta da un puntatore laser e quella emessa da una comune lampadina consiste essenzialmente nelle loro diverse caratteristiche di coerenza: la prima è solo molto più coerente della seconda. L’invenzione del laser che, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, ha contribuito in maniera così determinante all’evoluzione della tecnologia e allo sviluppo della scienza, è stato il più significativo esempio di manipolazione delle proprietà di coerenza di una sorgente luminosa. La ricerca sulla coerenza della luce prosegue, sia per quanto concerne la sintesi di campi luminosi dotati di peculiari caratteristiche propagative, sia per lo sviluppo di tecniche volte a misurare e registrare il contenuto di informazione trasportato dalla luce naturale. E magari un giorno si riuscirà a registrare la funzione di coerenza della luce

È la coerenza che determina le modalità con cui la luce si propaga, dal cristallino alla retina, così come nello spazio libero. La differenza tra la luce prodotta da un puntatore laser e quella emessa da una comune lampadina consiste essenzialmente nelle loro diverse caratteristiche di coerenza: la prima è solo molto più coerente della seconda che incide sul vetro di una finestra, affinché ciascuno possa portare con sé le informazioni che gli servono per ricostruire esattamente la scena che egli osserverebbe dalla propria stanza.

Schema di principio di un “interferometro di Young”, che consente la misura della funzione di coerenza della luce tra i punti A e B (corrispondenti a due piccoli fori praticati nello schermo opaco Y) a partire dalla figura che si osserva sullo schermo S


La diffrazione della luce L’eredità scientifica di Thomas Young di Riccardo Borghi In quest’articolo vogliamo ricordare una storia poco nota al grande pubblico, che inizia con una lettera scritta il 16 ottobre del 1819 in quel di Worthing, una piccola città sulla costa sud-orientale dell’Inghilterra. La lettera porta la firma di Thomas Young, il protagonista della storia. Young fu un prodigio. All’età di nove anni i suoi genitori lo spedirono in una scuola dove i bambini erano liberi di imparare seguendo il proprio ritmo e le proprie attitudini. Quattro anni dopo parlava più di dodici lingue (europee, orientali, classiche e moderne) e possedeva già una solida formazione scientifica, in particolare nel campo della meccanica e dell’ottica. A ventitré anni conseguì un dottorato in Medicina all’università di Gottingen ed entrò quindi all’Emmanuel College di Cambridge allo scopo di ottenere il titolo necessario per poter esercitare la professione medica in Inghilterra. Per tre anni studiò matematica e fisica senza seguire alcuna lezione di medicina, ritenendo il proprio livello di conoscenza più che sufficiente per il conseguimento del titolo, cosa che puntualmente avvenne. Nel 1799 iniziò a esercitare come medico a Londra, per la verità senza grande successo da parte dei pazienti che mal ne tolleravano la mancanza di tatto e il carattere spigoloso. Ciononostante, lo studio della fisiologia umana, in particolare dei meccanismi di funzionamento dell’occhio e dell’orecchio, gli fu di grande aiuto per stabilire una connessione tra fenomeni ottici e acustici. Il 16 gennaio 1800 Young presentò alla Royal Society il primo di una serie di articoli che avrebbero rivoluzionato la nostra concezione della luce. Nel terzo articolo della serie, dal titolo Theory of Light and Colours, pubblicato il 12 novembre del 1801, viene enunciato il Principio d’Interferenza, che diverrà uno tra i maggiori argomenti a sostegno della teoria ondulatoria della luce in contrapposizione alla teoria corpuscolare sviluppata da Isaac Newton. La teoria corpuscolare, in base alla quale la luce si L'onda di Young

propagherebbe a partire dai corpi luminosi in forma di minuscole particelle, era in grado di spiegare molto bene fenomeni come riflessione e rifrazione dei raggi luminosi, così come la scomposizione di un raggio di luce bianca nelle sue componenti colorate (ciò che produce naturalmente l’arcobaleno) utilizzando un semplice prisma. Essa non era però in grado di interpretare altrettanto bene l’apparente incurvamento dei raggi luminosi in prossimità del bordo di un ostacolo frapposto sul cammino. Osservando attentamente il bordo nitido di un’ombra si osserva infatti una debole illuminazione, in forma di un sistema di frange luminose e scure, che si estende ben all’interno della zona d’ombra. Tale

Il 16 gennaio 1800 Young presentò alla Royal Society il primo di una serie di articoli che avrebbero rivoluzionato la nostra concezione della luce. Nel terzo articolo della serie, dal titolo Theory of Light and Colours, viene enunciato il Principio d’Interferenza, che diverrà uno tra i maggiori argomenti a sostegno della teoria ondulatoria della luce in contrapposizione alla teoria corpuscolare sviluppata da Isaac Newton fenomeno, denominato diffrazione, era noto sin dai primi anni del diciassettesimo secolo grazie agli esperimenti condotti dal gesuita Francesco Maria Grimaldi (e pubblicati postumi nel 1665) e rappresentò un deciso argomento in favore di una teoria ondulatoria della luce, <Nessuno(a)>fortemente sostenuta nella seconda metà del diciassettesimo secolo dallo scienziato olandese Christiaan Huygens. Allo scopo di spiegare la formazione delle frange luminose prodotte nei fenomeni di

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diffrazione, Young ipotizzò che la luce producendo ancora una volta delle frannon fosse costituita da fasci di particelle ge luminose. bensì rappresentasse in qualche modo Purtroppo questa teoria, nella quale le stesse concezioni corpuscolare e onduuno stato di moto oscillatorio, analogamente a quanto accade alle particelle latoria della luce sembrano in qualche che si trovano sulla superficie di un limodo interferire, non fu supportata da quido in cui sia lasciato cadere un sasun adeguato apparato matematico e, solino. Se lasciassimo cadere due sassi dunque, fu considerata alla stregua di in punti diversi della superficie vedremun’affascinante quanto inutile speculamo queste vibrazioni muoversi l’una zione teorica. Ciò che dà valore a una verso l’altra in forma di increspature teoria scientifica è il grado di accuratezdella superficie libera che, mano a maza delle previsioni che essa è in grado no, andrebbero a sovrapporsi senza pedi fornire in relazione all’osservazione Lo spot di Poisson raltro disturbarsi a vicenda. Una specifisperimentale dei fenomeni che vuole ca particella del fluido sarebbe quindi sottoposta andare a descrivere. Illuminanti in tal senso sono le all’azione simultanea e indipendente dei due moti parole pronunciate dal fisico americano Richard ondosi; se la sovrapposizione avviene tra due creFeynman in una celebre lezione tenuta nel 1964 alste o due valli il risultato sarà una cresta o una vall’Università di Cornell: le di altezza o profondità doppia, mentre la vibra«In general, we look for a new law by the following zione risultante sarà nulla nel caso della sovrappoprocess: first we guess it. Then we compute the sizione tra una cresta e una valle. Nel caso della consequences of the guess to see what, if this law diffrazione luminosa avviene qualcosa di simile e, that we guessed is right, it would imply. And then anche se l’analogia non può essere spinta troppo in we compare the computation results directly with là, utilizzando le parole del fisico matematico tedeobservations to see if it works. If it disagrees with experiment, it’s wrong. In that simple statement there is the key to science. La teoria dell’onda di bordo di Young It doesn’t make any difference how beautiful your guess is, it doesn’t make any difference how smart era dunque troppo avanti nel tempo e you are, who made the guess, or what his name is. la matematica in grado di supportarla If it disagrees with experiment, it’s wrong. That’s non era stata ancora sufficientemente all there is to it ». sviluppata. Ciononostante, la teoria La teoria dell’onda di bordo di Young era dunque troppo avanti nel tempo e la matematica in grado di ondulatoria trovò numerosi sostenitori supportarla non era stata ancora sufficientemente sviluppata. Ciononostante, la teoria ondulatoria trovò numerosi sostenitori, fra i quali spicca la fisco Max Born possiamo concludere che «Interfegura di un ingegnere civile francese, Augustin-Jean rence may be described by the paradoxical words: Fresnel. light added to light does not necessarily give intenIl 17 maggio 1817 l’Accademia delle Scienze di sified light, but may become extinguished». Il principio d’interferenza portò Young a concepire Parigi promosse un concorso rivolto allo sviluppo un’audace ipotesi di una teoria matematica in grado di descrivere per descrivere il modo in cui la luce si distribuisce, adeguatamente la diffrazione della luce. Fresnel a causa della diffrazione, al di là di un oggetto opapartecipò al concorso consegnando una celebre meco posto sul cammino di un fascio di raggi luminomoria nella quale il principio di interferenza fu imsi. Per comprendere intuitivamente l’idea rivolgiaplementato, diversamente da quanto fece Young, mo lo sguardo verso la luce del Sole filtrata da una nell’ipotesi che non soltanto i punti situati sul bornuvola. do dell’apertura bensì tutti i punti situati al di fuori della zona d’ombra geometrica agissero alla streMentre essa ci appare scura a causa dell’assorbigua di sorgenti luminose puntiformi. La teoria svimento dei raggi luminosi, il suo bordo assume l’aluppata da Fresnel era puramente ondulatoria e traspetto di una suggestiva corona di luce che, nell’induceva, nel linguaggio matematico, le idee che cirterpretazione data da Young, agisce alla stregua di ca un secolo e mezzo prima Huygens tentò di muuna sorgente di onde luminose. Quest’ultime postuare dall’acustica verso l’ottica. Uno dei membri sono propagarsi all’interno della zona d’ombra e là della commissione, Siméon-Denis Poisson, fervendove ci si aspetterebbe il buio, ragionando in terte sostenitore della teoria corpuscolare, criticò mini di raggi luminosi, troveremmo invece luce. aspramente il lavoro di Fresnel sostenendo che, se Ponendoci invece fuori dalla zona d’ombra, fosse stato corretto, avrebbe dovuto prevedere un quest’onda di bordo dovrà interferire con i raggi risultato a dir poco paradossale: la presenza di una provenienti dal Sole che non intercettano la nuvola, macchia luminosa esattamente in corrispondenza


del centro della zona d’ombra prodotta da un disco opaco. Il presidente della commissione, François Arago, fece l’esperimento e trovò la macchia, oggi

Allo scopo di spiegare la formazione delle frange luminose prodotte nei fenomeni di diffrazione, Young ipotizzò che la luce non fosse costituita da fasci di particelle bensì rappresentasse in qualche modo uno stato di moto oscillatorio, analogamente a quanto accade alle particelle che si trovano sulla superficie di un liquido in cui sia lasciato cadere un sassolino nota come spot di Poisson, proprio dove là dove sarebbe dovuta essere. Fresnel, divenuto una celebrità, scrisse il 19 settembre 1819 una lettera a Young, accompagnata da due copie di un estratto della memoria pubblicata sugli Annales des Physique et de Chemie, nella quale il francese lo portava a conoscenza del suo contributo alla teoria ondulatoria. Neanche un mese dopo Young replicò a Fresnel con la lettera che ha aperto la nostra storia. Il 16 ottobre 1819 scriveva, tra l’altro, «Je n’ai pas la moindre idée d’insister sur l’opération des rayons réfléchis des bords d’un corps opaque», ponendo di fatto la pietra tombale sulla teoria dell’onda di bordo. Dovettero trascorrere circa sessant’anni prima che il fisico matematico italiano Gian Antonio Maggi, allora all’Università di Messina, riprendesse l’idea di Young corredandola del necessario formalismo matematico; lo stesso fece, indipendentemente, il fisico teorico polacco Wojciech Rubinowicz nel 1917. Questa moderna rivisitazione della teoria dell’onda di bordo stimolò un notevole interesse nella comunità scientifica sin dall’inizio degli anni ’60, grazie soprattutto ai pioneristici lavori di Emil Wolf dell’Università di Ro. “Esplosione” dello spot di Poisson chester, fino ai giorni

nostri. Nel 2000 John Hannay, un fisico teorico britannico dell’Università di Bristol, dimostrò l’equivalenza matematica delle formulazioni di Fresnel e Young. Grazie a questo importante risultato la presenza dello spot di Poisson al centro del disco opaco si può ascrivere all’interferenza delle sole onde luminose generate nei punti del bordo. Poiché quest’ultimi si trovano tutti alla stessa distanza dal centro, l’effetto complessivo consiste in un sostanziale rafforzamento dell’intensità luminosa. Questa configurazione risulta però instabile ed è fortemente legata alla simmetria del problema. È infatti sufficiente “schiacciare” un po’ il disco, facendolo diventare un’ellisse, perché lo spot di Poisson “esploda’’ in complesse distribuzioni luminose. Mentre la descrizione di tale fenomeno attraverso la teoria di Fresnel risulta poco trasparente a causa delle notevoli difficoltà matematiche, la teoria dell’onda di bordo di Young si è rivelata lo strumento ideale per comprendere, anche da un punto di vista intuitivo, i meccanismi di base della formazione delle caustiche al centro dell’ombra e la relazione tra la corrispondente distribuzione dell’intensità luminosa e la forma dell’ostacolo. I risultati, pubblicati proprio quest’anno dalla Optical Society, rappresentano un’ulteriore testimonianza della bellezza e modernità delle idee di Thomas Young e dell’importante lascito culturale che ha regalato all’intera comunità scientifica ponendolo nel contempo, in un’ipotetica quanto inutile classifica, al pari di geni del calibro di Newton ed Einstein. Mai più appropriate furono le parole di Hermann von Helmholtz nel descrivere tale genio: «Thomas Young was one of the most acute men who ever lived, but had the misfortune to be too far in advance of his contemporaries. They looked him with astonishment, but could not follow his bold speculations, and thus a mass of his most important thoughts remained buried and forgotten until a later generation by slow degrees arrived at the rediscovery of his discoveries, and came to appreciate the force of his arguments and the accuracy of his conclusions».

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Quando la fantascienza diventa realtà I metamateriali e il superamento del limite della diffrazione di Filiberto Bilotti e Alessandro Toscano

Alla fine dell’Ottocento, dopo gli esperimenti di Young e i lavori di Maxwell sul campo elettromagnetico, l’annosa questione sulla natura corpuscolare o ondulatoria della luce fu finalmente risolta. La luce fu definitivamente annoverata tra i fenomeni di propagazione ondosa, esattamente coFiliberto Bilotti me il suono e le onde del mare. In realtà il successivo avvento della meccanica quantistica mescolò nuovamente le carte, stabilendo un legame tra i due punti di vista, ma qui ci limiteremo a considerare i fenomeni dal punto di vista della fisica classica. La grandezza fisica che oscilla e si propaga è il campo elettromagnetico, esattamente lo stesso che utilizzano i nostri telefoni cellulari per comunicare tra loro, con la differenza che nella luce la rapidità con cui il campo oscilla è circa centomila volte superiore, dell’ordine di un milione di miliardi di oscillazioni in un secondo.

Con il termine metamateriale ci si riferisce a un materiale composito, ingegnerizzato ad hoc tramite atomi e molecole artificiali, che presenta un’interazione anomala con la luce incidente e mostra, pertanto, proprietà non riscontrabili nei materiali naturali C’è da mettere in evidenza un’altra differenza tra le onde elettromagnetiche utilizzate per le comunicazioni e la luce, almeno quella cosiddetta “naturale”, come quella che proviene dal sole o che è prodotta dalle comuni lampadine. Proprio per il suo carattere naturale, infatti, tale luce è generalmente caratterizzata da elevati livelli di irregolarità. Volendo fare un’analogia con le onde del mare, le prime potrebbero essere paragonate alle onde prodotte da un sasso gettato nell’acqua. L’andamento nel tempo di un fissato punto della superficie del mare, misurato osservando la posizione di un oggetto che galleggia sulla superficie, segue un moto oscillatorio piuttosto regolare. E lo stesso vale per la forma stessa delle onde in un fissato istante. Si possono anche individuare i cosiddetti fronti d’onda, cioè le linee che congiungo-

no tutti i punti corrispondenti alla cresta di un’onda in quell’istante, e notare che ad instanti successivi essi si sono mossi conservando, più o meno, la loro forma. Nel caso della luce naturale, viceversa, le onde somigliano di più alle increspature prodotte da un gruppo di ragazzi che gioca Alessandro Toscano nell’acqua. È impossibile individuare qualsiasi regolarità, sia nell’andamento temporale che nel loro profilo spaziale, e diremmo piuttosto che ci troviamo di fronte a un fenomeno di tipo aleatorio. La forma dei fronti d’onda varia, sia nel tempo che nello spazio, in maniera imprevedibile e assolutamente irregolare. Nel caso della luce naturale, in particolare, i fronti d’onda variano con una rapidità tale che non esistono strumenti sufficientemente veloci per poterne individuare la forma. L’idea stessa di fronte d’onda, in questo caso, perde senso. Assodata quindi la natura ondulatoria della luce, scopriamo che alcuni dei fenomeni che riteniamo più elementari e con i quali abbiamo a che fare quasi costantemente durante la nostra vita, in realtà sono interpretabili solo ricorrendo a modelli piuttosto sofi-

L’impatto sociale e industriale dei metamateriali si è reso evidente già dai primi esperimenti, che hanno evidenziato la possibilità di piegare i raggi luminosi in modo del tutto nuovo con le conseguenze di migliorare le prestazioni dei dispositivi esistenti e, addirittura, di concepirne di nuovi che finora avevano trovato spazio soltanto nei film e nei romanzi di fantascienza sticati. Prendiamo in considerazione il processo di formazione delle immagini sulla retina del nostro occhio. Quest’ultimo funziona secondo gli stessi principi di una macchina fotografica: la luce proveniente dagli oggetti che sono di fronte a noi entra nella pupilla, attraversa il cristallino, che funge da obiettivo, e si propaga fino alla retina, formando su di essa


Una delle prime implementazioni della superlente operante alle frequenze ottiche realizzata nel 2005 presso l’Università di Berkley in California ad opera del gruppo di Xiang Zhang – tratta da Cheng Sun, UC Berkeley

un’immagine che riproduce la scena che stiamo osservando. Ciò significa che la totalità delle informazioni contenute nell’immagine (e quindi la posizione di tutti gli oggetti, le loro forme, i loro dettagli, i colori, le differenze di luminosità, eccetera) è in qualche modo contenuta in quei pochi millimetri quadrati di superficie di onda luminosa che riesce a entrare nella pupilla del nostro occhio. Ed è impressionante pensare all’enorme quantità di informazione che deve essere trasportata dalla luce proveniente da una qualunque scena tridimensionale. È sufficiente spostare la posizione del nostro occhio, o anche solo inclinare lo sguardo, perché l’immagine formata sulla nostra retina cambi, anche in maniera radicale! Ma come è codificata questa informazione nell’onda luminosa che giunge fino a noi? Per scoprirlo, proviamo a osservare la luce che incide sulla pupilla del nostro occhio. Naturalmente, potremmo farlo solo guardando la luce che entra nella pupilla dell’occhio di un’altra persona (o nell’obiettivo di una macchina fotografica), per esempio ponendo davanti alla pupilla uno schermino bianco o un foglio di carta che intercetti la luce destinata ad entrare nell’occhio. Ebbene, l’unica cosa che saremmo in grado di vedere è una superficie uniformemente illuminata. Anche ingrandendo la superficie milioni di volte, non saremmo in grado di percepire la pur minima differenza di luminosità (o, meglio, di “intensità luminosa”) tra un punto e un altro dello schermino. Inoltre, ciò che noi

osserveremmo sarebbe in buona misura indipendente dalla scena inquadrata dall’occhio. Questo risultato, vagamente paradossale, ci porta a concludere che il contenuto informativo trasportato dalla luce è completamente inaccessibile alla nostra vista. Lo diventa, viceversa, se noi utilizziamo l’unico, sofisticatissimo

In ambito nazionale, il nostro gruppo di Roma Tre ha vinto nel 2014 il prestigioso Premio Innovazione del Gruppo Finmeccanica, presentando come risultato concreto la riduzione dell’ingombro dell’80% di sistemi radar avionici e navali mediante l’impiego dei metamateriali strumento in grado di decriptare l’informazione nascosta e di trasformare questo profilo uniforme e indifferenziato in una bellissima immagine, piena di dettagli e di colori: il nostro cristallino. Qualcuno potrebbe osservare, giustamente, che l’intensità luminosa non è l’unica grandezza associata alla propagazione di un’onda. Essa è legata all’energia trasportata dall’onda e, nell’analogia con le onde del mare, all’altezza delle onde stesse. Ma, per esempio, anche la forma dei loro fronti d’onda potrebbe giocare un ruolo. Due onde potrebbero apparire iden-

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(a sinistra) Nader Engheta espone i concetti di base della metatronica – tratto da EE Times, 3 marzo, 2008. (a destra) Elementi di base della metatronica: resistenza, capacità ed induttanza – tratto da Science, Vol. 307, No. 1, pp. 1698-1702, 2007

tiche misurandone solo la frequenza di oscillazione e l’energia che esse trasportano, ma essere diversissime per quanto riguarda i loro fronti d’onda, nella cui forma (con termini più tecnici parleremmo di “fase”) potrebbe essere contenuta l’informazione che stiamo cercando. L’osservazione è in parte corretta. Lo sarebbe se noi non avessimo a che fare con luce naturale. Ma questa, come abbiamo detto, non presenta fronti d’onda ben definiti. Dove si nasconde dunque l’immensa quantità di informazione trasportata dalla luce? Qual è la grandezza fisica responsabile della sua trasmissione? Ciò che stiamo cercando si chiama “funzione di coerenza”. Essa, dati due punti dello spazio presi a piacere, determina quanto i valori del campo in un punto siano correlati ai valori del campo nell’altro punto. Per esempio, nell’esempio iniziale delle onde prodotte da un sasso nel mare, ci si aspetta che le oscillazioni dell’acqua in un punto siano in qualche modo legate alle oscillazioni in un altro punto, anche se piuttosto distante. Ciò, naturalmente, non accade nel caso dei ragazzi che giocano nell’acqua. Nel primo caso, si dirà che le onde hanno una elevata coerenza, nel secondo che l’hanno molto bassa, o sono addirittura “incoerenti”. Non è tanto facile visualizzare la funzione di coerenza della luce ed è ancora più difficile misurarla, perché richiede l’impiego di apparecchiature piuttosto delicate, anche se concettualmente semplici, e soprattutto prevede

l’acquisizione di un’enorme mole di dati, perché essa assume valori diversi per ogni possibile coppia di punti di una superficie. Come è giusto che sia, perché essa è la sola responsabile del trasporto di tutte le informazioni di cui l’occhio necessita per formare le sue immagini. È quindi la coerenza che determina le modalità con cui la luce si propaga, dal cristallino alla retina, così come nello spazio libero. La differenza tra la luce prodotta da un puntatore laser e quella emessa da una comune lampadina consiste essenzialmente nelle loro diverse caratteristiche di coerenza: la prima è solo molto più coerente della seconda. L’invenzione del laser che, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, ha contribuito in maniera così determinante all’evoluzione della tecnologia e allo sviluppo della scienza, è stato il più significativo esempio di manipolazione delle proprietà di coerenza di una sorgente luminosa. La ricerca sulla coerenza della luce prosegue, sia per quanto concerne la sintesi di campi luminosi dotati di peculiari caratteristiche propagative, sia per lo sviluppo di tecniche volte a misurare e registrare il contenuto di informazione trasportato dalla luce naturale. E magari un giorno si riuscirà a registrare la funzione di coerenza della luce che incide sul vetro di una finestra, affinché ciascuno possa portare con sé le informazioni che gli servono per ricostruire esattamente la scena che egli osserverebbe dalla propria stanza.


Crisi di banda Multiplazione ottica nel tempo, in frequenza o a metà? di Gabriella Cincotti A maggio 2014, l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (International Telecommunication Union ITU) ha stimato che ci sono quasi sette miliardi di abbonamenti di telefonia mobile in tutto il mondo, equivalenti ad una copertura del 95,5 per cento della popolazione. Inoltre, queGabriella Cincotti st’anno il traffico globale Internet aumenterà dell’incredibile cifra di alcuni Zettabytes (alcuni triliardi, ovvero mille miliardi di miliardi di byte), ma le attuali reti di comunicazione non sono in grado di sostenere questa enorme crescita ed è necessario aumentare drasticamente la capacità dei moderni sistemi per fronteggiare una prevedibile “crisi di banda”. A partire dal 1980, le fibre ottiche hanno rivoluzionato il nostro modo di comunicare: virtualmente ogni telefonata che facciamo oggi, ogni messaggio che inviamo, ogni film che scarichiamo, oppure ogni applicazione basata su Internet che utilizziamo, viene convertita in una sequenza di fotoni che viaggia nelle reti di comunicazione in fibra ottica. Sono stati istallati in totale più di due miliardi di chilometri di fibre ottiche, coprendo una lunghezza che equivale a cinquantamila giri intorno al globo. Più di cento milioni di persone possono oggi utilizzare un collegamento in fibra ottica diretto fino a casa, e le fibre sono anche utilizzate per collegare la maggior parte delle stazioni radio base, dove i segnali a radiofrequenza della telefonia mobile vengono trasformati in luce infrarossa, che viene poi trasmessa nelle reti ottiche di accesso, metropo- Source: ITU/ICT Indicators Database

litane, regionali, continentali e sottomarine. I primi esperimenti di Sir Charles Kuen Kao (Premio Nobel per la Fisica nel 2009) hanno dimostrato che l’attenuazione in un chilometro fibra poteva essere inferiore di quella corrispondente ad un cavo in rame di pari lunghezza, permettendo una trasmissione su distanze molto più lunghe e con una capacità di banda molto maggiore. Questi primi eccezionali risultati hanno spinto gli operatori di telefonia e

A partire dal 1980, le fibre ottiche hanno rivoluzionato il nostro modo di comunicare: virtualmente ogni telefonata che facciamo oggi, ogni messaggio che inviamo, ogni film che scarichiamo, oppure ogni applicazione basata su Internet che utilizziamo, viene convertita in una sequenza di fotoni che viaggia nelle reti di comunicazione in fibra ottica di servizi Telecom in tutto il mondo a sostituire ovunque il rame con la fibra ottica, creando le moderne reti. I primi sistemi di comunicazione erano basati esclusivamente sulla tecnica di multiplazione nel dominio del tempo (Time Division Multiplexing - TDM) che interallaccia i diversi canali in maniera seriale, un bit dopo l’altro. A partire dal 1992, l’introduzione della tecnica di multiplazione a divisione di lunghezza d’onda (Wavelength Division Multiplexing WDM) e degli amplificatori ottici ha permesso un incremento costante della velocità di trasmissione in fibra ottica, che rad-

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doppiava ogni camente infesei mesi, ragriore a cento giungendo nel Gigabit/s (cen2001 la velocito miliardi di tà record di bit al secondo). dieci Terabit/s Utilizzando la (diecimila mimultiplazione liardi di bit al nel dominio secondo). Nel della frequenza 2012 è stata su(Frequency Diperata la velovision Multicità di trasmisplexing – sione di alcuni FDM), la banPetabit/s (mida ottica viene lioni di miliardi suddivisa in di bit al seconuna serie di do), trasmettensottobande di do simultaneacapacità minomente i dati su Source: NTT Network Innovation Laboratory Press Release re, che sono due polarizzagenerate otticamente o elettronicamente. Entrambe le tecniche zioni ortogonali (Polarization Division MultipleTDM e FDM permettono di trasmettere a velocità xing - PMD) e utilizzando tecniche di modulazione coerenti, dove l’informazione è contenuta non solo dell’ordine di decine di Terabit/s su di una singola nell’intensità ma anche nella fase dell’impulso ottilunghezza d’onda, e presentano vantaggi e limitaco. Per aumentare ulteriormente la capacità di banzioni, principalmente dovute agli effetti non lineari da, si stanno studiando nuove fibre di tipo multicoUna ricerca italo-giapponese, re, dove la luce viaggia in parallelo nei diversi nuclei delle fibra, utilizzando la tecnica di multiplanell’ambito del progetto zione spaziale (Space Division Multiplexing STARBOARD, ha dimostrato che l'uso

Malgrado questo rapido e costante sviluppo, la capacità dei sistemi in fibra ottica istallati è ancora insufficiente per sostenere l’incredibile aumento del traffico dati previsto nell’immediato futuro, e i ricercatori e gli scienziati di tutto il mondo stanno mettendo a punto nuove soluzioni per sfruttare al meglio tutte le cinque dimensioni fisiche della luce: tempo, frequenza, polarizzazione, intensità e fase, e spazio SDM). Malgrado questo rapido e costante sviluppo, la capacità dei sistemi in fibra ottica istallati è ancora insufficiente per sostenere l’incredibile aumento del traffico dati previsto nell’immediato futuro, e i ricercatori e gli scienziati di tutto il mondo stanno mettendo a punto nuove soluzioni per sfruttare al meglio tutte le cinque dimensioni fisiche della luce: tempo, frequenza, polarizzazione, intensità e fase, e spazio. La tecnica TDM richiede trasmettitori e ricevitori elettro/ottici (laser e fotodiodi) sincronizzati e le prestazioni ottenibili sono limitate principalmente dalla velocità dei dispositivi elettronici, che è tipi-

del dominio tempo o frequenza per la multiplazione ottica non è così rigido come si può pensare. Infatti è possibile passare dalla multiplazione in frequenza a una nel tempo, e viceversa, permettendo di ottimizzare l’utilizzo delle risorse disponibili, con una flessibilità massima, rispetto agli approcci convenzionali e dispersivi dovuti alla propagazione in fibra. Una ricerca italo-giapponese, nell’ambito del progetto STARBOARD, ha recentemente dimostrato che l’uso del dominio tempo o frequenza per la multiplazione ottica non è così rigido come si può pensare. Infatti è possibile passare dalla multiplazione in frequenza ad una nel tempo, e viceversa, permettendo di ottimizzare l’utilizzo delle risorse disponibili, con una flessibilità massima, rispetto agli approcci convenzionali. In particolare, è stato verificato sperimentalmente che è possibile trasmettere segnali in un dominio intermedio tra tempo e frequenza, utilizzando solo dispositivi fotonici passivi, per risparmiare sui costi e sul consumo di energia, che è diventato un fattore estremamente critico nel settore delle telecomunicazioni. Per descrivere l’esperimento in grandi linee, occorre riferirsi alla trasformata di Fourier, che è uno degli strumenti matematici più utilizzato nelle scienze e nell’ingegneria, e permette di rappresentare un se-


gnale come somma, in genere infinita, di sinusoidi con frequenze, ampiezze e fasi diverse. L’insieme di valori in funzione della frequenza, continuo o discreto, è detto spettro del segnale e viene rappresentato sull’asse delle frequenze (f), che forma un angolo di novanta gradi con l’asse del tempo (t). La multiplazione nel dominio della frequenza FDM effettua una trasmissione di canali indipendenti, modulando separatamente alcuni segnali sinusoidali a diversa frequenza, che sono detti “sottoportanti”. La trasformata di Fourier frazionaria può essere vista come una generalizzazione della trasformata di Fourier, che applica una rotazione di un angolo minore di novanta gradi e rappresenta il segnale in un dominio intermedio tra tempo e frequenza. È stato realizzato un primo esperimento sulla rete istallata JGN-X in Giappone, lunga circa novanta chilometri e sono stati trasmessi quattro canali indipendenti, ciascuno di banda dieci Gigabit/s. Nel trasmettitore (TX), i quattro segnali sono stati generati otticamente e il piano tempo-frequenza è stato ruotato di un angolo opportuno, applicando la trasformata di Fourier frazionaria. Al ricevitore (RX) è stata applicata una rotazione complementare per ricevere e demultiplare i quattro canali, e tutte le misure effettuate hanno dimostrato che i quattro canali possono essere trasmessi con la massima efficienza spettrale e un tasso di errore minimo. Per dimostrare tutte le potenzialità della nuova tecnica, si è utilizzato un trasmettitore ibrido che applica la trasformata di Fourier frazionaria e poi, senza modificare il trasmettitore, si è ricevuto il segnale con la tecnica FDM, nel modo descritto prima, oppure con un ricevitore TDM. Nel primo caso le sot-

toportanti vengono ricevute in parallelo, utilizzando quattro ricevitori distinti, uno per ogni canale. Se invece convertiamo la multiplazione dal dominio della frequenza al dominio del tempo, abbiamo bisogno di un unico ricevitore, perché i canali vengono ricevuti serialmente, uno dopo l’altro. Per ottenere questa trasformazione, si utilizza l’effetto time lens e una fibra con dispersione tale da bilanciare la rotazione nel piano

È stato verificato sperimentalmente che è possibile trasmettere segnali in un dominio intermedio tra tempo e frequenza, utilizzando solo dispositivi fotonici passivi, per risparmiare sui costi e sul consumo di energia, che è diventato un fattore estremamente critico nel settore delle telecomunicazioni tempo frequenza effettuata al trasmettitore. Questi esperimenti sono la prima dimostrazione di un utilizzo più efficiente delle risorse fisiche disponibili nelle future reti ottiche, combinando insieme la multiplazione nel dominio della frequenza e del tempo, che fino ad oggi erano sempre stati considerati come tecniche indipendenti una dall’altro. In particolare, in questo modo si può passare da un metodo all’altro, sfruttando in maniera ottimale la banda disponibile di un collegamento in fibra ottica, e introducendo una maggiore flessibilità sulla gestione della rete di telecomunicazioni.

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Lighting design Ovvero come la luce ridisegna i luoghi d’arte e i paesaggi urbani di Marco Frascarolo Il 2015 è stato dichiarato “anno internazionale della luce” dall’Unesco. Occasione affinché chiunque abbia a che fare con la luce, nel mondo dell’architettura, dello spettacolo, della letteratura, della fisica, della religione, della botanica (e potremmo continuare a lungo) esca allo scoperto e cerMarco Frascarolo chi opportunità di confronto, sinergie, collaborazioni. Questo numero di Roma Tre News ne é un esempio ed il mio contributo si colloca in maniera trasversale negli ambiti di lavoro sopra indicati a partire dal mondo dell’architettura e dell’ingegneria, lungo un periodo di lavoro che si articola prevalentemente negli ultimi quindici anni, ma che trova le sue radici in un corso di acustica ed illuminotecnica, una tesi di laurea ed un dottorato di ricerca nei primi anni Novanta. L’illuminotecnica o “lighting design” usando un’espressione più accattivante ma forse anche più efficace, per evitare interpretazioni riduttive in chi vede nella tecnica, erroneamente, un ambito di azione distinto ed antitetico rispetto al processo creativo, si inserisce nel percorso formativo accademico nei Dipartimenti di Ingegneria ed Architettura. Il percorso all’interno degli studi di architettura di Roma Tre prevede un primo contatto con la disciplina nel corso di Fisica tecnica, obbligatorio nella triennale, un corso dedicato alle applicazioni per i beni culturali nella laurea specialistica di Restauro, un corso opzionale di Acustica e illuminotecnica aperto a tutti ed alcuni

moduli di Fisica tecnica in laboratori multidisciplinari di progettazione. Gli studenti che vogliono approfondire il tema del progetto della luce dopo la laurea triennale (o specialistica), devono varcare i confini del nostro Ateneo ed approdare al master in Lighting design dell’Università “La Sapienza” o del Politecnico di Milano o di altre Università al di fuori dei confini nazionali. Chi vuole intraprendere una carriera dottorale all’in-

Il nuovo impianto di illuminazione della Cappella Sistina è stato sviluppato con l’obiettivo di trovare il miglior equilibrio possibile tra le esigenze di conservazione delle opere d’arte e le esigenze di fruizione da parte delle autorità ecclesiastiche e del pubblico più in generale, senza dimenticare i temi del risparmio energetico e della gestione dell’impianto terno del nostro Ateneo e studiare la luce con un taglio fortemente multidisciplinare può optare per il dottorato interdipartimentale in “Paesaggi della città contemporanea”, che unisce materie di estrazione architettonica, con materie più orientate agli “studi visuali” legati all’ambito del cinema e dello spettacolo. Il Dipartimento di Architettura è dotato di un laboratorio di acustica e illuminotecnica afferente al Laboratorio interdipartimentale di Fisica tecnica - LIFT che si articola con spazi e competenze nei Dipartimenti di Ingegneria ed Architettura. Il laboratorio

RhOME for denCity. Progetto vincitore di Solar Decathlon Europe 2014, Versailles. Università Roma Tre, Dipartimento di Architettura


Cappella Sistina. Veduta prima e dopo l’installazione del nuovo impianto di illuminazione. Foto © Governatorato SCV – Direzione dei Musei

svolge funzioni di supporto alla didattica, ma anche di ricerca applicata e di attività conto terzi, finalizzate alla sostenibilità economica della struttura e alla creazione di sinergie con le realtà industriali ed imprenditoriali sul territorio. Esaurita questa lunga ma doverosa premessa per illustrare il ruolo di Roma Tre in relazione al tema della luce, vorrei dedicarmi a raccontare alcuni casi significativi che stiamo sviluppando nell’anno della luce, concedendomi un salto in alcune attività precedenti. Le esperienze che vi vorrei raccontare in estrema sintesi sono le seguenti: - Solardecathlon Europe - team Med in Italy - 3° classificato nell’edizione 2012 e team RhOME for denCity - 1° classificato nell’edizione 2014 + premio speciale lighting; - nuovo impianto di illuminazione per la Cappella Sistina (2012-2014); - linee guida per la progettazione dell’impianto di illuminazione del Colosseo (2015); - nuovo impianto di illuminazione per la Basilica di S. Francesco d’Assisi (inaugurazione 17 ottobre 2015); - Urban Lightscape - Concorso internazionale di idee per l’illuminazione dell’Eur (Premiazione: 30 ottobre, nell’ambito della Professional Lighting Design Conference - PLDC - Complesso ex Mattatoio, Dipartimento Architettura Roma Tre) Le attività sopra citate sono nate con modalità diversissime in funzione della configurazione dei soggetti proponenti e degli obiettivi da raggiungere: sono accomunate dalla volontà di dar vita ad un polo di eccellenza sulla progettazione della luce creando, dove possibile sinergie sul territorio. Ognuna di queste attività è stata sempre occasione di coinvolgimento per gli studenti con scopi formativi, altamente professio-

nalizzanti, facilitandone l’inserimento nel mondo del lavoro. Solardecathlon rappresenta l’esempio in cui l’università è stata elemento catalizzatore di professionalità diverse all’interno dello stesso Ateneo, e dove necessario, all’esterno. Il team, guidato da Chiara Tonelli ha raggiunto il massimo risultato nella seconda edizione del 2014, in cui ha vinto anche il premio speciale del lighting, grazie ad un impianto progettato e realizzato espressamente per la casa Rhome, da

Il sistema consente una regolazione della quantità di luce e della sua composizione spettrale molto precisa, che ha consentito, attraverso il confronto tra il team di progetto e gli esperti di storia dell’arte e di conservazione delle opere dei Musei vaticani di definire i livelli di illuminamento e le caratteristiche cromatiche ottimali per la percezione dello spazio e delle superfici affrescate un team coordinato dallo scrivente, costituito da studenti di Roma Tre e della Sapienza. Altro aspetto qualificante è stato il coinvolgimento di una piccola realtà produttiva laziale, la ILM lighting, che ha posto le basi per collaborazioni successive, e per l’inserimento in azienda di nostri studenti. Per il progetto illuminotecnico di Rhome è stato approfondito lo studio dell’illuminazione sia naturale che artificiale, per ottimizzare le condizioni di comfort e di risparmio energetico in regime diurno e not-

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Linee guida per la progettazione dell’impianto di illuminazione del Colosseo

turno. Il sistema di illuminazione è caratterizzato da un’alta flessibilità d’uso, dovuto alla facile assemblabilità dei componenti strutturali che consente di abbattere i consumi energetici senza rinunciare alla luce “dove serve” e “quando serve”, grazie anche all’impiego di sistemi domotici. Per gli ambienti esterni, è stata sviluppata la seconda serie di greensunflower (apparecchi stand alone alimentati con energia fotovoltaica ed eolica) prosecuzione del progetto presentato a Medinitaly (Solar Decathlon Europe 2012), dove si distingueva per il suo aspetto ludico. Il sistema accumula energia che viene poi gestita da un circuito integrato a basso consumo di ultima generazione che controlla il ciclo di carica delle batterie e regola il flusso luminoso abbassandolo gradualmente in base allo stato di carica. Il progetto Cappella Sistina nasce in maniera completamente diversa: Osram costruisce un progetto chiamato “High quality and energy efficient LED illumination for art (LED 4 ART)” per partecipare al programma dell’Unione europea di sostegno alla politica in materia di TIC formando un consorzio, costituito da: OSRAM GmbH, University of Pannonia in Ungheria, Institut de Recerca ed Energia de Catalunya in Spagna e lo studio di lighting design Fabertechnica, per il quale lo scrivente partecipa in qualità di progettista. Nel 2011, inizia una lunga attività di studi, ricerche, test in laboratorio ed in loco che hanno portato all’installazione finale dell’impianto nel corso dell’estate 2014, fino alla presentazione alla stampa e al pubblico del 29-30-31 ottobre 2014. Il Laboratorio di illuminotecnica di Roma Tre è stato coinvolto per effettuare le misurazioni in loco che hanno contribuito all’ottimizzazione del progetto. Alle diverse fasi dell’attività hanno partecipato oltre venti studenti, cinque dei quali hanno trovato immediata collocazione nel mondo del lavoro. Il nuovo impianto di illuminazione della Cappella Sistina è stato sviluppato con l’obiettivo di trovare il miglior equilibrio possibile tra le esigenze di conservazione delle opere d’arte e le esigenze di fruizione da parte delle autorità ecclesiastiche e del pubblico più in generale, senza dimenticare i temi del risparmio energetico e della gestione dell’impianto.

L’impianto si avvale della tecnologia LED di ultima generazione. Si tratta di apparecchi estremamente compatti, sviluppati da OSRAM espressamente per questa applicazione, dotati di ottiche disegnate per ottimizzare l’omogeneità della luce sulle superfici affrescate, evitando problemi di abbagliamento per i visitatori. Il sistema consente una regolazione della quantità di luce e della sua composizione spettrale molto precisa, che ha consentito, attraverso il confronto tra il team di progetto e gli esperti di storia dell’arte e di conservazione delle opere dei Musei vaticani di definire i livelli di illuminamento e le caratteristiche cromatiche ottimali per la percezione dello spazio e delle superfici affrescate. L’innalzamento dei livelli di illuminamento è stato calibrato nelle singole zone in modo da migliorare l’uniformità sulle superfici affrescate, rimanendo tuttavia ampiamente al di sotto dei limiti previsti dalle normative in tema di conservazione. Tale scelta, insieme alla definizione di uno spettro completamente privo di radiazioni ultraviolette e infrarosse e con componenti blu limitate, garantisce un rischio di degrado delle opere di molto inferiore rispetto alle tecnologie tradizionali. Il consumo energetico è estremamente ridotto, grazie all’efficienza dei LED impiegati e del sistema di controllo, alla precisione della distribuzione luminosa e all’eliminazione del sistema di diffusione della luce attraverso le finestre (soluzione precedente). L’abbattimento dei consumi rispetto alla condizione precedente è superiore all’80%. Un sistema di illuminazione aggiuntivo fornisce la luce necessaria – la cosiddetta illuminazione di Gala – in caso di esigenze di illuminazione diversa da quelle di visita, maggiormente focalizzate sull’area occupata dalle persone. Gli apparecchi preposti sono installati su un sistema motorizzato controllato con microprocessore, che ne riduce fortemente l’impatto visivo, quando non vengono utilizzati. Le linee guida per l’impianto di illuminazione del Colosseo nascono da un incarico acquisito dal master in Lighting design della Sapienza, il cui direttore Stefano Catucci, ha assegnato allo scrivente il coordinamento del gruppo di lavoro, che ha visto tra gli altri, la partecipazione di Corrado Terzi, fondatore del Master.


L’incarico nasce dalla necessità del Ministero dei Beni culturali di dotarsi di uno strumento che individui la griglia entro cui deve muoversi il progetto degli impianti. Anche questo progetto ha visto una ricca partecipazione degli studenti, in questo caso provenienti dal Master in Lighting design. L’analisi del monumento ha toccato diversi aspetti: la percezione visiva dai possibili punti di osservazione, la storia dell’Anfiteatro Flavio, l’individuazione delle funzioni attualmente ospitate, la morfologia dell’impianto architettonico, la valutazione dello stato di fatto dell’impianto esistente, il rilievo strumentale della situazione di illuminazione esistente. Attraverso queste anali- Nuovo impianto di illuminazione per la Basilica di S. Francesco d’ Assisi si sono state definite alcune proposte di progetto otticosti energetici, è in fase di completamento e verrà mizzate sui risultati dell’analisi. inaugurato il 17 ottobre. Per quanto riguarda l’illuminazione architettonica Il nuovo impianto di illuminazione del Sacro Convento si fonda sullo studio delle soluzioni precedenti, ottimizzate attraverso un progetto che sfrutta le poUrban Lightscape nasce in diretta tenzialità delle nuove tecnologie disponibili sul merconnessione con l'anno mondiale della cato e le impiega con un elevato livello di customizzazione nelle singole applicazioni. La tecnologia di luce. È un concorso di idee sul progetto base è il LED di ultima generazione, caratterizzato della luce, come mezzo di da un livello qualitativo molto elevato in relazione riqualificazione a livello spaziale. all’efficienza energetica, qualità cromatica, durata e stabilità cromatica nel tempo. Oggetto del concorso è l’elaborazione Al fine di contenere i costi complessivi dell’operadi un nuovo sistema d’illuminazione zione ed avere tempi di ritorno dell’investimento per l’area del Pentagono Eur di Roma contenuti, il nuovo impianto prevede cambiamenti radicali, ove necessario ed ottimizzazioni tecnologisono state individuate 4 letture privilegiate del moche più leggere, ove il vecchio impianto rispondeva numento che devono essere sempre garantite conmeglio alle esigenze di illuminazione, come nel caso temporaneamente: della Cripta. Lettura del monumento ORIZZONTALE Nella basilica inferiore e superiore sono stati ragLettura del monumento PIANI INCLINATI giunti livelli molto più uniformi, o comunque con Lettura del monumento VERTICALE variazioni di luminosità calibrate al fine di garantire Lettura del monumento DINAMICA effetti di plasticità ottimali per esaltarne le caratteriLa progettazione della luce per la Basilica di S. stiche architettoniche e spaziali, garantendo nel conFrancesco d’Assisi nasce da uno studio di fattibilità tempo una migliore lettura degli affreschi. In particorichiesto dal Sacro Convento nel 2011. L’intervento, lare le criticità morfologiche della Basilica Inferiore, finalizzato alla valorizzazione del monumento e dei che impongono posizioni dei lampadari piu’ basse e suoi noti affreschi, all’ottimizzazione delle condiziouna sequenza di pieni e di vuoti molto articolata e ni di conservazione degli affreschi, alla riduzione dei quindi, in generale, rischio maggiore di abbaglia-

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mento hanno portato alla necessità di sviluppare ottiche dedicate non esistenti sul mercato. La qualità cromatica delle sorgenti di illuminazione è stata ottimizzata sulle caratteristiche cromatiche dei materiali e dei pigmenti degli affreschi, con lievi differenze tra basilica inferiore, superiore e cripta, con un metodo misto empirico-strumentale, modulato dal metodo messo a punto per il recente progetto di illuminazione della Cappella Sistina. Urban Lightscape è l’attività, tra tutte, che nasce in diretta connessione con l’anno mondiale della luce. Il Consiglio nazionale degli architetti incarica l’Associazione iItaliana di illuminazione di organizzare un concorso che definisca l’interesse degli architetti in questo ambito. Viene incaricato il sottoscritto, che individua nel PLDC a Roma l’ambito ideale per lo svolgimento di questa attività per massimizzarne la diffusione a livello mondiale e che individua l’assessorato alla trasformazione urbana, guidato dal nostro collega Giovanni Caudo, per radicare l’attività sul territorio e darle un respiro che prosegua anche dopo la chiusura del Concorso. “Urban Lightscape” è un concorso di idee sul progetto della luce, come mezzo di riqualificazione a livello spaziale. Oggetto del concorso è l’elaborazione di un nuovo sistema d’illuminazione per l’area del Pentagono Eur di Roma, tema proposto di concerto con la presidenza del Municipio di appartenenza e con Eur S.p.A. Concepito per la mai svoltasi Esposizione Universale 1942, il quartiere è oggi un museo all’aperto dell’architettura anni Trenta, ma costituisce anche una potenziale, avveniristica “piattaforma congressuale” della città, dotata di nuovi servizi e strutture. Si vuole valorizzare l’EUR grazie ad un progetto di smart lighting per restituire all’area un’immagine di connessione ideale tra passato, presente e futuro. Le proposte in gara dovranno abbracciare l’ambito pubblico, artistico e ambientale. Il livello di approfondimento richiesto ai concorrenti è un concept, in modo da dare spazio ad idee innovative provenienti da tutte le parti del mondo, veicolate anche attraverso la rete internazionale di PLDC e di ACE (Consiglio degli architetti d’Europa). Il concorso riconosce ai professionisti partecipanti un premio in denaro e ai giovani, ai quali è riservata una sezione a parte, una borsa di studio per il Master di I livello in Lighting design dell’Università “Sapienza”. Iniziative collaterali dedicate all’ambiente web e social garantiscono continuità al flusso informativo e di comunicazione: prima tra tutte una raccolta corale di foto notturne sull’Eur e su città del mondo, che possono costituire fonte di ispirazione per il concorso, il cui evento di lancio si è svolto qualche tempo fa sottoforma di un photo tour notturno all’EUR aperto a fotografi professionisti ed amatori. (http://www.urban-lightscape.com/#!/?project=urbanlightspace) L’evento finale del 30 ottobre, all’interno del complesso industriale dell’ex Mattatoio, ora sewde del Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre, raccoglierà tutti i protagonisti di questa avventu-

Planimetria generale EUR, progetto per l’Esposizione Universale di Roma, 1942. Urban Lightscape - Concorso internazionale di idee per l’illuminazione dell’Eur

ra e tutti gli appassionati del mondo della luce. La serata è inserita tra gli eventi collaterali del PLDC e verrà trasmessa in streaming, in analogia a quanto fatto nella serata di presentazione nel museo dell’Ara Pacis di Roma (www.urban-lightscape.com) La luce è uno strumento fantastico per costruire architetture ed atmosfere, per valorizzare e creare connessioni. Il mio sforzo, del mio team di collaboratori e di studenti che mi affiancano per brevi o lunghi periodi è quello di creare occasioni di aggregazione e di riflessione per poi incidere quando possibile sulla qualità dei luoghi in cui viviamo. Spero che questo racconto sia riuscito a trasmettere l’entusiasmo che anima questo lavoro. Riferimenti web: Università degli studi Roma Tre http://www.uniroma3.it/ Dipartimento Architettura Roma Tre http://architettura.uniroma3.it/ Università degli studi “Sapienza” http://www.uniroma1.it/ Master Lighting Design Università “Sapienza” http://www.masterlighting.it/ LED4ART http://www.led4art.eu/ LIFT - Laboratorio Interdipartimentale Fisica Tecnica http://www.lift.uniroma3.it/home.html RhOME for denCity – SDE http://www.rhomefordencity.it/intro/index.html Concorso Urban Lightscape http://www.urban-lightscape.com/


The Blue Note Il premio Nobel per la fisica all’invenzione dei LED ad alta efficienza di Giovanni Capellini Il 7 ottobre del 2014 è stato assegnato il premio Nobel per la fisica a due ricercatori dell’Università di Nagoya (Giappone), Isamu Ikasaki e Hiroshi Amano, ed al loro collega, anch’ esso giapponese ma naturalizzato statunitense, Shuji Nakamura della University of California a Santa Barbara( Giovanni Capellini USA)«per l’invenzione di diodi emettitori di luce blu ad alta efficienza che hanno permesso la fabbricazione di sorgenti luminose bianche a risparmio energetico». L’annuncio del Nobel ai tre scienziati giapponesi ha fatto storcere un po’ la bocca a parte della comunità mondiale dei fisici. L’invenzione oggetto del premio, il LED BLU, è stata ritenuta da alcuni troppo tecnologica e priva del crisma, anche mediatico, «dei grandi passi avanti per l’umanità» che hanno caratterizzato altre scelte della Accademia Reale di Scienze Svedese, come ad esempio quella di assegnare il Nobel 2013 a Englert a Higgs per il bosone del campo di Higgs (la “Goddamn particle”). Rileggendo però il testamento di Alfred Nobel, l’inventore della dinamite che istituì il premio destinandolo «a coloro che, durante l’anno prece-

dente, più abbiano contribuito al benessere dell’umanità», non possiamo far altro che concordare che l’invenzione di Ikasaki, Amano e Nakamura merita il prestigioso riconoscimento per l’impatto benefico che ha avuto sulle nostre vite quotidiane. In questo nostro breve articolo cercheremo di illustrarne i motivi. Innanzitutto, cominciamo con il capire che cos’è e come funziona un LED. Un diodo emettitore di luce (LED) è un particolare dispositivo elettronico, formato da strati di materiali semiconduttori, capace di convertire la corrente di cariche elettriche che lo percorre direttamente in radiazione luminosa. Come possiamo osservare nella Fig. 1, in un LED una differenza di potenziale (un voltaggio) genera una corrente di elettroni - cariche elettriche negative - e lacune cariche positive - che attraversa il dispositivo. Quando gli elettroni e le lacune si incontrano in una parte di materiale chiamata regione attiva, interagiscono tra di loro ricombinandosi (scomparendo) e lasciando al loro posto una particella di luce (un fotone). Tale processo chiamato ricombinazione radiativa è ad alta efficienza. Ciò significa che una larga parte della corrente che percorre il dispositivo, più del 50% nei LED più recenti, può essere convertita direttamente in luce la cui lunghezza d’onda, in altre parole il suo colore, è determinato dal tipo di semiconduttore utilizzato nella regione attiva. Nell’invenzione premiata con il Nobel il materiale utilizzato è il nitruro di gallio (GaN) e la luce emessa è appunto di colore blu.

(The Royal Swedish Academy of Sciences). Schema di funzionamento di un LED: spinti a una differenza di potenziale elettrico, qui generata da una pila, lacune (hole) ed elettroni raggiungono la regione attiva di un diodo da due strati di semiconduttore con eccesso di cariche positive (strato-p) e negative (strato-n). La ricombinazione diretta di elettroni con lacune genera particelle di luce

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territorio nazionale questa Le classiche lampadine alla scelta consentirebbe, a fronte Edison o le più moderne alodi un investimento iniziale di gene sfruttano invece l’incandue miliardi di euro, un ridescenza generata dal riscalsparmio di circa un miliardo damento del filamento per otdi euro all’anno. In una protenere emissione luminosa. spettiva più ampia, i LED Dunque, una parte rilevante rappresentano una grande dell’energia viene giocoforza promessa per aumentare la persa in calore, così come qualità della vita di oltre un chiunque abbia provato a miliardo e mezzo di persone cambiare una lampadina bulnel mondo che non hanno acbo a mani nude ha potuto processo alle reti elettriche. Invare. Anche nelle cosiddette fatti i LED, grazie alla bassa lampade a basso consumo che potenza necessaria al loro sfruttano la fluorescenza di funzionamento, possono essealcuni gas, parte dell’energia re alimentati da energia solare iniettata per generare la scariI colori primari: l’unione di rosso, verde (green in inprodotta in-loco a basso costo. ca luminosa è persa in forma glese) e blu, permette di ottenere luce bianca Inoltre la vita operativa di un di calore. LED è dell’ordine delle Non dovendo spendere ener100.000 ore, corrispondenti a più di 10 anni di gia in calore, i LED possono emettere la stessa infunzionamento ininterrotto, ed è 10-100 volte più tensità luminosa consumando molta meno energia, lunga delle concorrenti, rendendo sostenibile l’in10-100 volte meno quella necessaria a far funziovestimento economico necessario alla loro adozionare lampadine a incandescenza o fluorescenza di ne. pari potenza luminosa. Dato che i paesi industriaMa perché quel “blu” che compare nella motivalizzati spendono circa il 20-30% del loro budget zione del premio è così importante e come mai ha effettivamente permesso la “svolta dell’illuminazione” del 21° secolo, cioè la realizzazione di I LED possono emettere la stessa LED “bianchi” ad alta efficienza? intensità luminosa consumando molta L’occhio umano percepisce la radiazione elettromagnetica solo in un determinato intervallo di lunmeno energia, 10-100 volte meno ghezze d’onda, lo spettro visibile, che corrisponde quella necessaria a far funzionare alla gamma di colori che vanno dal violetto, corrilampadine a incandescenza o spondente a luce di maggior energia, al rosso (ultra-violetto e infra-rosso sono appunto le regioni fluorescenza di pari potenza luminosa. spettrali più vicine al visibile). La presenza conInoltre la vita operativa di un LED è temporanea di tutte le lunghezze d’onda dà luogo dell’ordine delle 100.000 ore, alla luce bianca. La luce bianca, essendo appunto acromatica, permette di osservare il colore vero corrispondenti a più di 10 anni di degli oggetti ed è dunque particolarmente imporfunzionamento ininterrotto, ed è 10tante nell’illuminotecnica.

100 volte più lunga delle concorrenti energetico per l’illuminazione, sostituire tutte le lampade ad incandescenza con LED porterebbe risparmi economici e benefici ambientabili considerevoli. Nel caso dell’Italia, questo significherebbe una riduzione dal 30 allo 0.3% della quota dedicata all’illuminazione della bolletta energetica nazionale , con un risparmio di 10 miliardi di euro all’anno. Inoltre, si eviterebbe l’immissione nell’atmosfera di 25 milioni di tonnellate di carbonio all’anno. Per meglio rendere l’idea dell’enormità di questa cifra, possiamo dire che è la stessa immessa nell’atmosfera da tutti i trentasette milioni di autovetture circolanti in Italia per una percorrenza di 5000 km/anno. Il comune di Milano si è recentemente mosso in questa direzione, apprestandosi ad adottare LED per tutti i 141.000 punti d’illuminazione stradale presenti sul territorio, con un risparmio del 31% sulla bolletta energetica cittadina. È stato calcolato che l’estendere a tutto il

Nel caso dell’Italia, questo significherebbe una riduzione dal 30 allo 0.3% della quota dedicata all’illuminazione della bolletta energetica nazionale, con un risparmio di 10 miliardi di euro all’anno. Inoltre, si eviterebbe l’immissione nell’atmosfera di 25 milioni di tonnellate di carbonio all’anno La luce bianca può essere ottenuta mescolando insieme i tre colori primari (verde, rosso e blu) così come possiamo osservare in Fig. 2; dunque, se vogliamo avere una sorgente di luce bianca possiamo ottenerla mettendo insieme tre lampadine che emettono colori primari oppure sparare una luce


(The Royal Swedish Academy of Sciences). Dai cristalli al dispositivo: come un piccolo chip di GaN e sue leghe è montato in una capsula per diventare un LED blu

blu, cioè ad alta energia, su un materiale, come i fosfori di uno schermo video, capaci di restituire radiazione a tutte le energie minori, dunque in tutti i colori dello spettro. Le prime osservazioni dell’effetto di elettroluminescenza in dispositivi simili ai moderni LED datano già al 1907 con il lavoro di H.J. Round, un collaboratore di Guglielmo Marconi, che osservò l’emissione di una luce giallastra da cristalli di carburo di silicio (SiC). La comprensione del fenomeno dovette però attendere circa quaranta anni e, nel corso degli anni Cinquanta portò all’invenzione dei LED rossi. Questi dispositivi trovarono un largo impiego nei primi prodotti di massa dell’industria elettronica: se pensate ai primi orologi da polso digitali o alle prime calcolatrici tascabili, non potete non ricordare quei display popolati da barrette rosse che si accendevano e spegnevano a formare lettere e numeri. L’invenzione dei LED verdi seguì di lì a poco. Immediatamente si pensò a come produrre in modo simile radiazione luminosa nel blu per riuscire a comporre il trittico necessario alla luce bianca. E qui l’importanza del contributo di Ikasaki, Amano e Nakamura diventa immediatamente visibile. Il problema principale da affrontare era anzitutto individuare un semiconduttore che permettesse l’emissione di luce blu, nel quale cioè l’energia emessa dalla ricombinazione radiativa tra elettroni e lacune fosse sufficientemente alta. Al contrario di molti altri colleghi, i tre puntarono sul GaN, nonostante fossero noti alcuni ostacoli che, all’epoca, erano ritenuti insormontabili. Dopo decenni di fallimenti, il primo salto in avanti fu ottenuto nei primi anni ’80 quando i tre vincitori del Nobel 2014 riuscirono a sviluppare una tecnica innovativa di crescita cristallina che permisero di depositare, atomo per atomo, dei cristalli di GaN di buona qualità ed in quantità sufficiente ad essere studiato ed ulteriormente migliorato. Il secondo passo fu quello di riuscire a ottenere lacune nel GaN (vedi Fig. 1), che naturalmente è invece caratterizzato da un eccesso di elettroni. La soluzione di questo possibile fu possibile scoprendo, in verità in modo casuale, l’effetto benefico che si otteneva sulle proprietà ottiche irradiando il materiale con un fascio di elettroni ad alta energia

(Amano e Ikasaki scoprirono questo effetto osservando un campione al microscopio elettronico). Il terzo, e forse più importante, passo fu quello di riuscire a costruire delle leghe di GaN con altri materiali (ad esempio Al) che, per le loro proprietà elettroniche, permettevano di confinare gli elettroni e le lacune in regioni attive molto sottili all’interno delle quali l’efficienza di ricombinazione radiativa poteva essere grandemente aumentata. I LED blu sono ora realtà ed entrano in molte applicazioni di uso quotidiano. Infatti, oltre all’ impiego nell’illuminazione che abbiamo discusso, i LED brillano al di sotto degli schermi a cristalli liquidi (LCD) di tablet, telefoni e televisori di nuova generazione. Inoltre, da essi è stato ricavato il laser blu che permette di leggere e scrivere i formati ad alta definizione dei dischi “Blue-ray”. Contribuiscono anche a migliorare l’efficienza di crescita di ortaggi in serre dove sono impiegati per i cicli di illuminazione e possono anche essere usati nella sterilizzazione dell’acqua da microorganismi. Grazie a un insieme di scelte strategiche vincenti, al finanziamento di fondi accademici e industriali e mescolando rigore metodologico con la capacità di sfruttare il caso, Ikasaki, Amano e Nakamura

I LED contribuiscono anche a migliorare l’efficienza di crescita di ortaggi in serre dove sono impiegati per i cicli di illuminazione e possono anche essere usati nella sterilizzazione dell’acqua da microorganismi sono riusciti ad andare oltre quei “dogmi” che avevano impedito di arrivare alla luce blu. Forse si è trattato di risolvere “solo” problemi tecnologici non più complessi di tanti altri che vengono affrontati quotidianamente dalla comunità scientifica internazionale ma, certamente, l’obbiettivo raggiunto grazie ai loro sforzi e a quelli dei loro collaboratori ha contribuito a rendere più sostenibile la vita tecnologica sul pianeta.

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Telerilevamento tramite radar ad apertura sintetica (S.A.R.) di Fulvio Bongiorno Con le prime fotografie in bianco e nero si concepiva l’immagine come disegno di una figura in senso analogico e con poca definizione, quindi con scarso apporto di elementi quantitativi. Col colore e poi col passaggio al digitale dall’immagine si è preteso di più. Nei bei volumi di SteFulvio Bongiorno fano Storaro che portano nel titolo la frase «scrivere con la luce», si riconosce che la foto diventa un nuovo e diverso linguaggio per trattare le immagini come vero e proprio testo digitale con la possibilità di estrapolare importanti aspetti quantitativi. In fine il passo del SAR permette di scegliere frequenza e potenza dell’immagine. In questo articolo si tratta del sistema TELAER, il primo realizzato in Europa all’inizio degli anni 2000, che permetta di rilevare e vedere/fotografare da un velivolo su cui è montato l’apparato, una zona coperta da fumi o nuvole, mare. Ovvero di selezionare dal segnale complessivo che appare alla vista con modalità ovviamente analogica, quegli elementi in grado di dare le informazioni e i dati dell’immagine visiva che si desidera analizzare in forma quantitativa, ovvero digitale. Il sistema è stato impiegato già prima di essere consegnato al gestore proprietario, ad esempio: - in Galizia, nel 2002. Le immagini SAR, acquisite dal consorzio TELAER in occasione del disversamento di petrolio in mare, sono state elaborate avvalendosi della proprietà per cui i meccanismi di trasferimento di energia tra il vento e le onde che si sviluppano in corrispondenza dell’interfaccia aria-mare, modificano in modo considerevole il moto ondoso. Pertanto l’identificazione degli idrocarburi si può documentare conoscendo i parametri locali del vento e impiegando un opportuno modello che tiene conto della fisica dell’attenuazione delle onde; - in Sicilia, nel 2002, nella zona del Catanese in oc-

casione delle disastrose eruzioni dell’Etna; - nella zona di Sarno in Campania in occasione delle esondazioni di corsi d’acqua o di liquami sopravvenuti allo smottamento dell’area territoriale … I primi esperimenti 1951: in base alle osservazioni di Carl Wiley sull’analisi della ricezione dei Radar di tipo coerente, viene sviluppato il radar ad apertura sintetica. 1979: viene lanciata la piattaforma satellitare U.S.A. SEASAT, per uso civile, operante sulle frequenze intorno a 1 GHz con una banda di 20 MHz. 1991: Viene costruito il primo satellite europeo ERS-1 che utilizza la tecnologia SAR con frequenza centrale di 5 GHz e banda di poco inferiore ai 20 GHz. 1995: Viene lanciato il secondo satellite europeo ERS-2, gemello di ERS-1, che viene posto nella stessa orbita del primo. Lo scopo è quello di operare in tandem nella stessa zona a distanza di un giorno. Il SAR Nel 1993 in Italia viene costituito un consorzio tra Alenia e Telespazio per costruire un sistema in grado di mettere a frutto le potenzialità di un S.A.R. per il monitoraggio e la protezione dell’ambiente. Il Consorzio è stato denominato TELAER (Telespazio –Aeritalia) e il sistema progettato aveva tre componenti essenziali: 1 - Una cospicua parte informatica per la raccolta e la trasmissione dei dati, la loro elaborazione e la produzione di documentazione in uscita. 2 - Strumenti ottici (Telecamere analogiche e digitali) per la rilevazione di immagini ad alta definizione) tra cui il S.A.R. 3 - Due velivoli su cui istallare le apparecchiature, uno ad eliche per le basse quote ed uno a turbine per le alte quote e per favorire spostamenti in tempi utili anche su grandi distanze. Funzionamento del telerilevamento SAR Il Radar ad Apertura Sintetica (SAR) è un radar di tipo coerente montato su una piattaforma mobile (aeroplano o satellite). Esso è in grado di misurare sia l’ampiezza che la fase dell’eco-radio di un segnale ottico. La sua antenna è puntata verso terra e forma con la direzione ortogonale al piano del moto un angolo compreso tra 20 e 80


gradi. La direzione dell’antenna del radar è detta Nadir. Antenne ad apertura reale Si tratta di antenne nelle quali l’irradiazione del campo elettromagnetico è realizzata mediante un’apertura praticata in una struttura chiusa. L’area efficace dell’antenna dipende dalla sua posizione all’interno della struttura chiusa e dalle dimensioni geometriche della fenditura. Antenne ad apertura sintetica L’antenna posta su un velivolo in movimento incamera tutte le immagini che trova avanzando sulla sua traiettoria, che sono ovviamente di più di quelle che potrebbe catturare un’antenna ferma. Per questa ragione si dice che il radar ha un’apertura virtuale che aumenta la capacità di assumere dati. E questo fatto produce un risultato sorprendente: si aumenta la dimensione lineare del segnale captato e, al tempo stesso, si migliora la sua definizione. Inoltre, a differenza dei sensori ottici, il SAR ha la

capacità di osservare oggetti attraverso le nuvole e, anche se solo parzialmente, attraverso le precipitazioni. Con questo sistema i dati rilevati sono sottoposti a una complessa procedura di post-elaborazione (basata su trasformate di Fourier e chiamata “focalizzazione”) che consente di ottenere immagini ad alta risoluzione spaziale. In particolare, sfruttando appunto questa antenna con una dimensione virtuale, si riescono a ottenere anche immagini satellitari di alta definizione (dell’ordine del metro). Il progetto TELAER ha avuto il sostegno del Ministero del Lavoro, un finanziamento di 165 miliardi e come ente realizzatore l’ I.P.I. (Istituto per la programmazione industriale). Per il controllo è stata nominata una commissione di omologazione e collaudo, di cui ha fatto parte il sottoscritto. Il progetto ultimato e collaudato è stato affidato per la gestione all’ APAT (Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici).

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Il prisma di Newton La teoria sulla luce e sui colori di Antonio Clericuzio Il 6 fe bbra io 1 6 7 2 Isaac Newton (allora trentenne) invia alla Royal Society di Londra una memoria dal titolo N ew T h eo r y about Light and Colors che contiene i risultati delle sue ricerche sulla luce e i colori. La memoria è pubblicata nelle Philosophical Transactions Antonio Clericuzio dello stesso anno. Gli studi newtoniani di ottica affrontano inizialmente un problema di carattere pratico, relativo alla qualità delle immagini prodotte dal telescopio a rifrazione. Il telescopio di Galilei ha un obiettivo biconvesso e un oculare biconcavo che rifrange i raggi di luce facendoli convergere in un fuoco. Ma le lenti a curvatura sferica producono un’immagine sfocata poiché non portano in un unico fuoco i raggi incidenti paralleli (fenomeno dell’aberrazione sferica). Il secondo problema è l’aberrazione cromatica, la presenza di frange colorate ai bordi dell’oculare. La soluzione comunemente adottata è di far uso di lenti non sferiche e di lenti di piccola curvatura (ovvero di grande distanza focale). Questa seconda soluzione comporta la costruzione di telescopi molto lunghi. Per Newton, l’aberrazione cromatica non è eliminabile: ha compreso che, contrariamente alle concezioni correnti, la luce bianca non è semplice e i colori non sono sue modificazioni. Sulla base di indagini sperimentali, è giunto alla conclusione che la luce è una mescolanza di raggi diversamente rifrangibili. Il bordo di una lente si comporta come un prisma e produce frange di luce colorata, quindi l’aberrazione cromatica non può essere eliminata nei telescopi a rifrazione. Newton lavora a perfezionare un altro tipo di telescopio, a riflessione, che evita i difetti dei telescopi tradizionali e ne riduce le dimensioni. Lo stesso anno presenta un modello del suo telescopio alla Royal Society e annuncia una straordinaria scoperta filosofica: la nuova teoria della luce e dei colori. Qui egli afferma di aver esaminato il ben noto fenomeno della dispersione della luce: la luce del Sole fatta passare attraverso un prisma mostra una serie di colori. È convinto, sulla base di numerosi esperimenti, che la luce non è omogenea ma si compone di raggi diversamente colorati a ciascuno dei quali corrisponde un differente angolo di rifrazione. Di-

mostra che i colori non sono una modificazione della luce e che la luce bianca è composta dai colori. La conclusione di Newton è che il prisma non modifica la luce bianca, ma la scompone nelle sue componenti. La nuova teoria di Newton suscita non poche obiezioni, cosicché l’autore rimanda la pubblicazione della sua opera sulla luce, l’Opticks, che dà alle stampe solo nel 1704. Riserve nei confronti della memoria newtoniana sono espresse da Robert Hooke e Christiaan Huygens - due tra i maggiori scienziati del Seicento. La luce nella scienza del ’600 Quali erano le idee sulla luce e i colori prima di

Gli studi newtoniani di ottica affrontano inizialmente un problema di carattere pratico, relativo alla qualità delle immagini prodotte dal telescopio a rifrazione Newton? Quali i problemi maggiormente dibattuti nell’ottica del Seicento? Rispondere a queste domande ci aiuta a capire non solo il contesto scientifico da cui hanno origine gli studi di ottica di Newton, ma ci consente anche di valutare la portata delle innovazioni che egli introduce nello studio della luce, nonché le reazioni che esse producono. Nel corso del Seicento, si ha un intensificarsi delle ricerche sulla luce, condotte con esperimenti e con un approccio di tipo matematico. A Descartes si devono i principali contributi all’ottica seicentesca ed è con Descartes che Newton e i suoi contemporanei si confrontano. Descartes interpreta la luce come una pressione trasmessa istantaneamente attraverso un mezzo trasparente e propone modelli meccanici per spiegarne le proprietà fisiche. Analogamente a quanto avviene con la vibrazione trasmessa alla mano dal bastone che colpisce un oggetto, una pressione dell’etere che è generata dal corpo luminoso giunge all’occhio, causa il movimento del nervo ottico ed è percepita come luce. Sempre per mezzo di modelli meccanici, Cartesio descrive il meccanismo della riflessione e quello della rifrazione. La riflessione è spiegata con il paragone delle palle da tennis che rimbalzano su una superficie dura; il moto è scomposto in due componenti, una perpendicolare alla superficie riflettente e una parallela. La su-


L'esperimentum crucis di Newton

perficie impedisce il moto lungo la perpendicolare, ma non quello lungo la parallela. La velocità della luce non è modificata dalla superficie riflettente e ciò che muta è la direzione del moto, non la velocità: quindi, conclude Descartes, la velocità di incidenza e quella di riflessione sono uguali e l’angolo di incidenza è uguale a quello di riflessione. La rifrazione è spiegata facendo uso dell’analogia con il moto di una palla da tennis che passa dall’aria all’acqua e la variazione di velocità è attribuita alla differente densità del mezzo in cui passa la luce. Anche nel caso della rifrazione, Descartes assume che la componente orizzontale si conservi e ritiene (erroneamente) che la velocità della luce sia maggiore nei mezzi di maggior densità che in quelli meno densi e asserisce che il rapporto tra il seno dell’angolo di incidenza e il seno dell’angolo di rifrazione è costante. Descartes sostiene che (nel caso dell’arcobaleno) i colori sono prodotti dalla rifrazione dei raggi luminosi che colpiscono le gocce d’acqua e derivano da una modificazione della luce solare. La spiegazione cartesiana è di natura meccanica: la formazione dei colori è prodotta dai differenti moti rotatori delle particelle sferiche dell’etere causati dalla rifrazione. Dopo Descartes, le osservazioni astronomiche pongono in termini nuovi il problema della velocità della luce. Il danese Ole Rømer rifiuta la teoria cartesiana della trasmissione istantanea della luce e calcola (per mezzo dell’osservazione delle apparenti irregolarità delle orbite dei satelliti di Giove) che la luce impiega 11 minuti per giungere dal Sole alla Terra. Grazie a più precise misurazioni della distanza Terra-Sole, di cui si determina

un valore pari a 12.000 volte il diametro terrestre, l’olandese Huygens calcola la velocità della luce come pari a 232.000 km/s (il valore attuale della velocità della luce nel vuoto è di circa 300.000 km/s. Osservazioni e indagini sperimentali si accompagnano alla formulazione di teorie sulla natura della luce: Hooke (curatore degli esperimenti della Royal Society) sostiene che un raggio di luce è una successione di impulsi che si propagano nell’etere per onde concentriche, come le onde sulla superficie dell’acqua quando è messa in moto da una pietra; i colori sono dovuti a una modi-

Le ricerche sperimentali di Robert Boyle sui colori (pubblicate nel 1664) indicano una via di ricerca che sarà poi seguita da Newton: i colori si possono spiegare solo indagando contemporaneamente la costituzione dei corpi e quella della luce, nonché la loro complessa interazione. Ciò vale per i colori reali e per quelli allora detti apparenti, ossia dell’arcobaleno (o quelli ottenuti col prisma) - che, per Boyle, sono reali quanto i primi, o forse anche più reali ficazione della luce. Le ricerche sperimentali di Robert Boyle sui colori (pubblicate nel 1664) indicano una via di ricerca che sarà poi seguita da Newton: i colori si

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tere; la luce costituisce un movimento dell’etere per onde sferiche. Il prisma di Newton, la luce e i colori La memoria del 1672 contiene prove sperimentali che confermano la nuova teoria della luce. Newton fa penetrare attraverso un piccolo foro un fascio di luce in una stanza oscurata e nota che, mettendo il prisma ad una certa distanza dalla finestra, sul muro si osserva la formazione dello spettro in cui sono presenti tutti i colori dell’arcobaleno. Newton mostra con un prisma che è possi-

Le ricerche newtoniane di ottica confluiscono nell’Opticks, opera che si compone di tre libri, il primo tratta di ottica geometrica, di dispersione e di composizione della luce bianca; il secondo espone i fenomeni di interferenza della luce nelle lamine sottili; il terzo tratta della diffrazione, della polarizzazione e include una serie di «questioni» in cui l’autore esamina le interazioni tra luce e corpi, introducendo le forze a corto raggio che agiscono tra i corpuscoli «(...) ciascuna particella della materia in cui un'onda viaggia comunica il suo moto non solo alla particella vicina che è allineata con la sorgente luminosa, ma necessariamente anche alle altre con le quali è a contatto e che si oppongono al suo movimento. Cosicché intorno a ciascuna particella si origina un'onda di cui essa è il centro (…)», dal Traité de la Lumière (1690) di Huygens

possono spiegare solo indagando contemporaneamente la costituzione dei corpi e quella della luce, nonché la loro complessa interazione. Ciò vale per i colori reali e per quelli allora detti apparenti, ossia dell’arcobaleno (o quelli ottenuti col prisma) - che, per Boyle, sono reali quanto i primi, o forse anche più reali. Se Boyle mette a frutto la teoria corpuscolare della materia e i suoi esperimenti di chimica per stabilire un nesso fra struttura della materia e proprietà ottiche dei corpi, Huygens, conduce indagini fisico-matematiche che aprono la strada alla successiva teoria ondulatoria. Stabilendo un’analogia tra suono e luce, Huygens considera la luce un fenomeno ondoso che implica un moto longitudinale di un mezzo di trasmissione. Huygens mostra che due o più fasci di luce che si propagano in direzioni diverse si incrociano senza disturbarsi a vicenda – il che non potrebbe avvenire qualora si incrociassero flussi di corpuscoli. Huygens afferma che la luce ha origine da ciascun punto di un oggetto luminoso, il quale, vibrando, trasmette impulsi attraverso l’e-

bile separare, senza perturbare, le diverse componenti della luce nei colori primari; in seguito, per mezzo di un prisma e di una lente, ricompone i raggi ottenendo così nuovamente luce bianca. Newton asserisce che il prisma non modifica la luce bianca, ma la scompone nei suoi componenti e che il grado di rifrazione corrisponde a differenti colori e viceversa. Per provare che i colori non sono generati da una modificazione della luce, Newton include nella memoria del 1672 il cosiddetto experimentum crucis, realizzato con due prismi e due schermi, l’uno posto poco dopo il primo prisma, l’altro poco dopo il secondo prisma. Facendo ruotare il primo prisma intorno al suo asse, fa passare solo un raggio alla volta attraverso i fori praticati nei due schermi; i raggi raggiungono il secondo prisma, che proietta sul muro ciascun raggio senza alterarlo, ma lo proietta con un angolo di rifrazione che corrisponde a quello ottenuto con il primo prisma: il raggio viola è rifratto maggiormente del rosso. Della teoria newtoniana Hooke e Huygens accettano solo una parte, ossia la corrispondenza di ogni colore a un determinato grado di rifrangibilità, ma non ritengono che la natura eterogenea della luce bianca sia ugualmente provata sperimentalmente. Hooke e Huygens poi non condividono la teoria corpuscolare della luce, contenuta nella parte finale della memoria newtoniana, dove si


sostiene che la luce consiste di particelle di materia che si muovono in linea retta attraverso lo spazio. Newton risponde che non vi è nulla nella propria teoria che non sia provato sperimentalmente e che la propria teoria sulla luce è compatibile anche con la concezione ondulatoria sostenuta da Hooke: i raggi di luce – scrive Newton - sono corpuscoli emessi da sostanze luminose, che producono vibrazioni nell’etere “come fanno le pietre gettate nell’acqua.” Secondo Newton, particelle vibranti dei corpi luminosi, a seconda della loro differente grandezza, forma e moto, provocano nell’etere vibrazioni di differente profondità o ampiezza. Se queste vibrazioni, senza separarsi, attraversando il mezzo arrivano al nostro occhio, provocano la sensazione del color bianco, ma se in un modo qualsiasi vengono tra loro separate, in corrispondenza alla loro disuguale grandezza, provocano la sensazione dei vari colori; le vibrazioni più forti provocheranno il rosso, le più deboli o corte, il viola, le vibrazioni intermedie, i colori intermedi. Nel Seicento non vi è ancora una netta opposizione fra teoria corpuscolare e ondulatoria della luce.

anelli è massimo per la luce rossa e minimo per la luce viola, per cui, eseguendo l’esperienza con luce bianca, si ottengono anelli diversamente colorati. Nell’Opticks Newton osserva che si formano in successione anelli colorati e oscuri e stabilisce delle relazioni numeriche tra varie grandezze; stabilisce inoltre che vi è una corrispondenza tra lo spessore della lamina, il diametro degli anelli e i colori; questi ultimi corrispondono infatti a determinati spessori della lamina. Newton afferma che le lamine riflettono e rifrangono i raggi di luce secondo i propri spessori e densità: un medesimo tipo di raggio, ad uguali angoli di incidenza su una qualsiasi lamina sottile trasparente, è alternativamente riflesso e trasmesso. Così Newton descrive il fenomeno: “quando un raggio qualsiasi sta in quella parte della vibrazione che cospira col suo moto, esso passa facilmente attraverso una superficie rifrangente, mentre, quando sta nella parte contraria della vibrazione che quindi gli impedisce il moto, esso è facilmente riflesso.” Dà quindi una definizione del fenomeno: “Chiamerò accessi (fits) di facile riflessione i ritorni della disposizione di un raggio alla riflessione, chiamerò la sua disposizione ad essere trasmesso accessi di facile trasmissione.” Poiché per Newton la luce non devia dalla direzione rettilinea quando passa attraverso fenditure sottili, i fenomeni della diffrazione sono spiegati come effetto di un’interazione di tipo attrattivo e repulsivo tra raggi e corpuscoli dei corpi rifrangenti. Basandosi sulla concezione corpuscolare della luce e sulle forze attrattive e repulsive, afferma che i corpi agiscono sulla luce anche a una certa distanza: “Non sono forse i raggi luminosi corpuscoli emessi dalla materia luminosa? […] I corpi trasparenti agiscono a distanza sui raggi di luce rifrangendoli, riflettendoli, inflettendoli. I raggi a loro volta agiscono sul corpo dal momento che, a distanza, inducono le sue parti a moti vibratori e le riscaldano. Queste azioni e reazioni sono molto simili ai fenomeni della forza di attrazione dei corpi.”

L’Ottica di Newton Le ricerche newtoniane di ottica confluiscono nell’Opticks, opera che si compone di tre libri, il primo tratta di ottica geometrica, di dispersione e di composizione della luce bianca; il secondo espone i fenomeni di interferenza della luce nelle lamine sottili; il terzo tratta della diffrazione, della polarizzazione e include una serie di «questioni» in cui l’autore esamina le interazioni tra luce e corpi, introducendo le forze a corto raggio che agiscono tra i corpuscoli. Newton dedica particolare attenzione ai fenomeni di interferenza e produce questo effetto facendo riflettere della luce bianca su di una lastra di vetro posta a contatto con una lente convessa di grande raggio di curvatura e osserva la presenza di una serie di anelli colorati (noti appunto come “anelli di Newton”), dovuti alla formazione di frange di interferenza sulla pellicola sottile d’aria, di spessore gradatamente crescente, compresa fra la lente e la lastra di vetro. Illuminando il sistema con luce monocromatica, si forma, per riflessione, una parte centrale oscura e intorno ad essa una serie di anelli alternativamente del colore della sorgente ed oscuri. Noi sappiamo che le parti oscure e luminose si hanno dove lo spessore della lamina d’aria è tale da produrre un’interferenza rispettivamente distruttiva e costruttiva fra le onde riflesse dalla prima superficie e dalla seconda; il raggio degli G. Kneller,Ritratto di Isaac Newton (1689)

L’impatto dell’ottica newtoniana nell’Europa continentale non è immediato, anche per la difficoltà che vari scienziati incontrarono nel ripetere l’experimentum crucis. Ma, a partire dai primi decenni del Settecento, l’opera dei divulgatori, tra cui Voltaire e Francesco Algarotti (l’autore del famoso Newtonianismo per le dame del 1737), diffonde anche tra coloro che non sono scienziati la teoria newtoniana della luce e dei colori e stimola la curiosità per gli esperimenti con il prisma, che divengono un passatempo alla moda nelle accademie e nei salotti settecenteschi.

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L’unità della luce Le teoria dei colori di Goethe di Giovanni Sampaolo Il poeta e scrittore tedecui si forma il colore. A ciò sono necessari la luce, sco Johann Wolfgang l’oscurità e un mezzo opaco. Quando la luce attravervon Goethe (1749sa un mezzo opaco minimo si ha il giallo, e così ci appare giallo il sole di giorno attraverso uno strato 1832), autore del Wersottile di atmosfera terrestre, rosso all’alba e al trather, del Faust e delle monto, quando lo strato è più consistente. L’oscurità Affinità elettive, per tutta la vita si occupò di totale dello spazio cosmico invece ci appare azzurra scienze naturali: botaniattraverso l’atmosfera terrestre illuminata dal sole. ca, geologia, osteologia, In tali “fenomeni originari” non più ulteriormente meteorologia e altro, scomponibili o analizzabili si manifesta la legge fontanto che gli scrupolosi damentale della cromatica coi due colori fondamentafilologi tedeschi hanno «L’occhio deve la sua esistenza alla calcolato che egli dediGiovanni Sampaolo cò più tempo della sua luce». Citando Plotino, Goethe vita alle scienze che alla poesia. Ma l’opera grazie alriassume questa idea nei versi: «Se la quale era sicuro di rimanere presente presso la pol’occhio non fosse solare / come sterità era la sua Teoria dei colori (1810), frutto di depotremmo scorgere la luce?» cenni di ricerche sui più diversi fenomeni della luce e del colore. li, giallo e blu. Tutti gli altri colori si generano per In che cosa consiste l’originalità della Teoria dei comescolanza di questi, e tra essi si intesse una comlori goethiana? Nel fatto che il colore, lungi dall’essere assunto come elementare “fatto in sé” della fisica, plessa rete di rapporti dinamici che ne fa una totalità. viene studiato come fenomeno radicato anzitutto nel“I colori sono azioni della luce, azioni e passioni”. la fisiologia umana, e quindi rapportato alla storia Nati dalla polarità fondamentale di luce e oscurità, i culturale, all’estetica, all’arte e alla psicologia. Non vi colori funzionano in modo complementare secondo la è luce senza un occhio che la scorga, senza un essere legge della polarità: il giallo richiede all’occhio il umano che la percepisca. E l’occhio è un organo che “blu-rosso” (violetto), il blu richiede il “giallo-rosso” si è formato per la luce, è il tramite fra l’interiorità (arancione), il porpora (rosso) – che rappresenta per dell’uomo e il mondo esterno. “L’occhio deve la sua Goethe il massimo potenziamento (Steigerung) del esistenza alla luce”. Citando Plotino, Goethe riassufenomeno cromatico – richiede il verde… Questa me questa idea nei versi: “Se l’occhio non fosse solacomplessa interazione viene rappresentata da Goethe re / come potremmo scorgere la luce?”. È qui all’opein un cerchio dei colori in cui si distinguono colori ra una personale lettura di Kant, nell’idea secondo cui “attivi” e “passivi”, combinazioni “armoniche” e “cale “cose in sé” sono inattingibili, mentre il soggetto ratteristiche” che vengono messe a disposizione degli ha a che fare coi fenomeni per come si possono rapartisti figurativi, nonché fatte oggetto di consideraziopresentare nell’orizzonte delle sue facoltà conoscitini circa l’“effetto sensibile-morale dei colori”. ve. Non si può passare sotto silenzio l’ostilità addirittura Dunque la “parte didattica” dell’opera di Goethe inilivorosa che Goethe oppose alla teoria dei colori zia risolutamente con l’analizzare proprio i “colori fiesposta nell’Opticks (1704) di Isaac Newton. Nel fasiologici”, ovvero quei colori che moso experimentum crucis di si sviluppano sulla retina senza Newton, un sottile raggio di luce avere apparente riscontro oggettipassava da un minuscolo pertugio vo (per esempio le ombre colorate entro una camera oscura andando o le immagini di colore complea colpire un prisma di vetro e gementare che restano impresse sulnerando lo spettro dei colori. Per la retina), dimostrando non solo la Newton questo dimostrava che la loro regolarità – Goethe respinge luce è composta di raggi colorati, fermamente il concetto di “illusioper Goethe questa “camera di torne ottica” –, ma confermando altura” sottoponeva invece la luce e tresì il ruolo fondamentale della visione a condizioni troppo l’occhio nel produrre la sensazioparticolari per poter valere unine del colore. Passando ai “colori versalmente. La fede di Goethe Ruota cromatica di Goethe (1809) fisici”, Goethe illustra il modo in nell’unità della luce è incrollabile,


la luce è per lui un elemenriflesso colorato abbiamo to semplice, omogeneo e la vita” (Faust, v. 4727). non può comporsi di colori, Che le ultime parole del elementi, cioè, che a loro poeta morente, peraltro, volta sono mescolanze di siano state “Mehr Licht!” luce e oscurità, dunque più (Più luce!) è uno dei tocscuri del bianco. “Tutti i canti aneddoti che non trocolori mescolati conservavano riscontro nella critica no il loro carattere generale delle fonti. Il sacrilego attacco a Newdi skierón (ombroso), e poiché non vengono più viton da parte di un “diletsti l’uno accanto all’altro tante” bastò a procurare alnon ne viene nessuna totala Teoria dei colori di lità, nessuna armonia”. Goethe la fama di opera L’opposizione di Goethe a pretenziosa quanto falliNewton deriva anche dal mentare e pseudoscientififatto che per Goethe è inca. Come tutte le opere concepibile un fenomeno scientifiche del poeta (in che prescinda dall’uomo. E particolare la Metamorfosi l’espressione matematica di delle piante e gli scritti di Joseph Mallord William Turner, Light and Colour (Goethe's questi “fenomeni in sé” te- Theory) – the Morning after the Deluge – Moses Writing the morfologia), anche quella stimonia ulteriormente che Book of Genesis (1843) della Teoria dei colori è essi sono completamente però una ricezione divisa slegati dalla realtà dell’esperienza. Goethe dedica tra il rifiuto a priori da parte dell’establishment scientifico e una nuova generazione di ricercatori, in partiun’intera “parte polemica” della sua Teoria dei colori ad attaccare Newton e i suoi seguaci, convincendosi colare filosofi, che trovano nell’approccio goethiano che la sua particolare missione nella storia della una nuova via di accesso a una natura pensata come scienza sia debellare l’errore, anzi addirittura l’imbrovivente, e alla posizione dell’uomo come tramite glio newtoniano. Forse, al riguardo, è il caso di dare dell’autocoscienza di questa Natura. ascolto alle speculazioni dello psicoanalista statuniSostenitori della teoria dei colori di Goethe furono, tense Kurt Robert Eissler, il quale nella sua volumitra gli altri, i filosofi Arthur Schopenhauer (il quale nosa monografia goethiana del 1963 cercò di spiegare La fede di Goethe nell’unità della luce questa “psicosi” come segue: “Una figura paterna è incrollabile, la luce è per lui un (Newton) ha tentato di fare violenza a una Madre intoccabile, pura, immutabile, vergine (la luce)… Goeelemento semplice, omogeneo e non the però avrebbe ristabilito l’innocenza della Madre può comporsi di colori, elementi, cioè, umiliata”. A ogni modo la polemica irrazionale e imche a loro volta sono mescolanze di barazzante di Goethe contro Newton inficia solo la luce e oscurità, dunque più scuri del parte della sua opera dedicata ai “colori fisici”, il rebianco. «Tutti i colori mescolati sto del suo edificio teorico-sperimentale non ne è toccato, tanto meno l’affascinante “parte storica” della conservano il loro carattere generale di Teoria dei colori, una storia della scienza sorretta dal skierón (ombroso), e poiché non principio che le scienze della natura sono figlie del vengono più visti l’uno accanto loro tempo e strettamente intrecciate alla personalità e all’altro non ne viene nessuna totalità, all’individualità dei singoli scienziati. nessuna armonia» Fino alla morte, sopraggiunta all’età di 82 anni, Goethe cercò invano di spiegare con gli strumenti della sua teoria il fenomeno dell’arcobaleno da cui era affasviluppò però diversamente una parte della teoria descinato. Ma l’arcobaleno era già diventato uno dei stando il dissenso del poeta) e Georg Friedrich Wilsimboli più pregnanti della sua poesia all’inizio della helm Hegel. Nella Tate Gallery di Londra sono conservati inoltre due quadri di William Turner, realizzati seconda parte del Faust, quando il protagonista, di fronte a una cascata tra le montagne, dirige il suo nel 1843, che si basano esplicitamente sulla Teoria sguardo direttamente sul sole, a significare la sua inedei colori di Goethe. Uno si intitola Shade and darksausta sete di conoscenza. Abbagliato, Faust si volge ness – the evening of the Deluge, l’altro Light and (“E allora il sole mi resti alle spalle!”) verso i rimbalcolour – Moses writing the book of Genesis. Quezi d’acqua che formano nubi vaporose su cui “s’inarst’ultimo dipinto reca il riferimento Goethe’s Theory. ca la stabilità-mutevolezza dell’arco colorato”. L’uoTurner si era entusiasmato per la teoria goethiana domo non è in grado di attingere direttamente la luce po che nel 1840 era comparsa la traduzione inglese dell’assoluto, dell’originario, del divino. Egli deve della Teoria dei colori, a cura di Sir Charles Eastlake. trovare la propria dimensione in una realtà fenomeniComplesso, invece, il rapporto che con la scienza ca indiretta, nel gioco colorato dell’arcobaleno: “Sul goethiana intrattenne il filosofo Ludwig Wittgenstein.

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«Come i raggi luminosi di una stella» La fotografia secondo Roland Barthes di Daniela Angelucci «Come i raggi luminosi di una stella» La fotografia secondo Roland Barthes di Daniela Angelucci Sin dal momento della nascita della fotografia, avvenuta nella prima metà del XIX secolo, le teorie estetiche sull’immagine da essa prodotta si sono susseguite. La Daniela Angelucci necessaria partecipazione della scienza e della tecnica all’invenzione di questo mezzo – proiezione e registrazione su una superficie fotosensibile di oggetti diversamente illuminati, “scrittura con la luce” possibile grazie a strumenti ottici e sostanze chimiche – ha certamente reso tortuoso, come d’altra parte è accaduto poco più tardi per il cinema, il suo riconoscimento come arte. Ma proprio l’enorme mole di discorsi che questo dubbio originario (arte o scienza? Strumento tecnico o mezzo espressivo?) ha prodotto, ha probabilmente incentivato la crescita e la ricchezza delle teorie, sollecitando quegli intellettuali ed operatori che delle potenzialità artistiche del dispositivo si rendevano conto a scriverne e a parlarne.

La fotografia, afferma Barthes, è «emanazione del referente», laddove il referente della fotografia non è la cosa facoltativamente reale, a cui rimanda un’immagine pittorica o un segno, «bensì la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obbiettivo» Tra le tante riflessioni, merita sicuramente un posto d’onore quella elaborata da Roland Barthes (19151980) – autore di cui quest’anno si festeggia il centenario della nascita – nel testo La camera chiara pubblicato nel 1980, poco prima della sua morte. La fotografia, afferma Barthes, è “emanazione del referente”, laddove il referente della fotografia non è la cosa facoltativamente reale, a cui rimanda un’immagine pittorica o un segno, “bensì la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obbiettivo” 1. Se la pittura può simulare la realtà anche senza averla vista, e

se il discorso combina segni i cui referenti possono essere delle chimere, nella fotografia “io non posso mai negare che la cosa è stata là”. L’espressione “è stata là”, oltre a insistere sull’esistenza reale di ciò che viene fotografato, indica però un altro aspetto fondamentale delle tesi di Barthes, ovvero il legame della fotografia con il passato. L’immagine fotografica rende presente un’assenza: rende presente ciò che è necessariamente stato, ma ciò che è stato una volta. Se fotografare significa scrivere, disegnare con la luce, la luce di cui stiamo parlando ci arriva dal passato, è una luce quasi incarnata che da un luogo remoto del tempo giunge fino a noi per toccarci, come i raggi luminosi emanati da una stella. Scrive infatti Barthes: “la foto dell’essere scomparso viene a toccarmi come i raggi differiti di una stella. [...] benché impalpabile, la luce è qui effettivamente un nucleo carnale, una pelle che io condivido con colui o colei che viene fotografato”. L’assenza e la morte L’insistenza di Barthes sul potere di autenticazione, di certificazione dell’immagine fotografica, che garantirebbe dell’esistenza dell’oggetto raffigurato, ha creato però a volte qualche confusione, in primo luogo tra realtà dell’immagine e verità. Dire che la fotografia non mente sulla esistenza dell’oggetto non significa infatti che non menta, o non possa mentire, sul senso della cosa, anzi, afferma il nostro autore, essa è “tendenziosa per natura”, al pari della pittura e delle altre arti. Quando Barthes si proclama realista non intende dire che la foto è copia del reale, ma che è una emanazione del reale passato. In secondo luogo, sostenere che il suo referente è stato reale ed ora potrebbe ancora essere, oppure non essere più, dice qualcosa di forte sulla sua assoluta contingenza e sulla sua natura “da ectoplasma”: la foto non è “né immagine né reale: [è] un reale che non si può più toccare”. Tutto ciò ci restituisce una idea meno monolitica del mezzo, in cui quella che viene definita la caparbietà del referente viene addolcita dalla sua inevitabile assenza. La questione dell’assenza dell’oggetto ci conduce al legame della fotografia con la morte, tema talmente presente in questo testo che colui che subisce la foto, o meglio il bersaglio che viene “immortalato”, viene definito spectrum (accanto all’operator, il fotografo, e allo spectator, colui che guarda le foto). Spectrum: “questa parola – scrive Barthes – mantiene un rapporto con lo spettacolo aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”. La questione della morte viene inoltre declinata a livello personale nella seconda parte del li-

1 Tutte le citazioni sono tratte da R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2003.


bro, in cui l’autore cerca l’essenza della madre – morta da poco al momento della stesura del libro, nel 1978 – nelle foto che di lei gli sono rimaste. Solo nella Fotografia del giardino d’inverno, un’immagine della madre nel 1898, a cinque anni, in piedi accanto al fratello di sette, Barthes trova la sua vera essenza, la sua realtà viva in un “ricordo pieno e involontario”, come avrebbe detto Proust. Tuttavia, questa foto non viene pubblicata nel libro. Perché? Nell’immagine c’è un “di più” che lo scritto non rivela, e che tuttavia è soltanto “per lui”, se è vero che la foto realizza una “scienza dell’essere unico”. Gli estranei non capirebbero, o meglio potrebbero essere interessati alle informazioni che la foto ci offre, la foggia dei vestiti, la posa del ritratto, ma non ne sarebbero feriti, non ne sarebbero “punti”. Il punctum Questa espressione – essere “punti” da una foto – ci

L’espressione è «stata là», oltre a insistere sull’esistenza reale di ciò che viene fotografato, indica però un altro aspetto fondamentale delle tesi di Barthes, ovvero il legame della fotografia con il passato. L’immagine fotografica rende presente un’assenza: rende presente ciò che è necessariamente stato, ma ciò che è stato una volta porta direttamente a uno dei concetti più conosciuti e usati del libro di Barthes: la presenza nell’immagine fotografica di un elemento che l’autore chiama il punctum, definito inizialmente per opposizione ad un altro elemento, lo studium. Se quest’ultimo rappresenta l’interesse culturale e informativo, il gusto per qualcosa che si diffonde senza picchi di intensità, un interessamento piacevole e giudizioso che richiede applicazione da parte dello spectator, il punctum, “freccia che ci trafigge”, è il dettaglio fatale che nella foto attira il nostro sguardo, lo ferisce e lo “ghermisce”, chiamandoci direttamente in causa. Lo studium implica un impegno, un esercizio, possiede la connotazione culturale e intellettuale di qualcosa che vado a cercare, poiché risveglia un mio interesse. Per parafrasare Barthes, è come se, guardando una foto che mi interessa, solidarizzassi con gli ideali e i miti del fotografo ed entrassi in contatto con lui, approvando o disapprovando quelle che si possono riconoscere come sue intenzioni. Lo studium “è educato”, scrive Barthes, ma “non è mai il mio godimento (jouissance) o il mio dolore”. Il termine jouissance qui è chiaramente di derivazione psicoanalitica, come

piacere che prevede anche un dolore, come un amalgama di libido e pulsione di morte. Il punctum è invece quel particolare casuale e senza scopo che appare nel cuore della rappresentazione e che, colpendoci come una ferita e una fatalità, è in grado di ristrutturarne il disegno complessivo. È un dettaglio che riempie la foto e la oltrepassa, eccedendo il livello rappresentativo: l’aspetto doloroso che caratterizza la gioia intensa del punctum lo avvicina al godimento.. Proviamo ad enucleare e approfondire alcune caratteristiche del punctum, elemento fondamentale per qualunque teoria dell’immagine: in primo luogo, si tratta di un particolare casuale, contingente, che appare nella foto al di là delle intenzioni del fotografo. Ecco perché alcune fotografie possono essere scioccanti, possono sorprenderci e possono “urlare” per la rarità o la stranezza del referente, per una trovata del fotografo, ma non avere il punctum. La genialità del fotografo risiede dunque più nel trovarsi in un posto che nel vedere, più nel catturare qualcosa che nell’andarla a cercare. Oltre che involontario, non voluto, “maleducato”, aspetto primario per Barthes, questo dettaglio senza scopo è insieme inevitabile, fatale. Possiede cioè quel misto di necessità e contingenza che caratterizza il gesto artistico, ha il carattere fortuito ma inevitabile di cui spesso parlano i pittori quando descrivono il loro lavoro. Dunque: questo dettaglio che mi ferisce è accaduto, mi è venuto incontro, non l’ho cercato, ma non avrebbe potuto essere diverso, è al suo posto. Per caratterizzare ulteriormente questa contingenza inevitabile, questa “casualità non casuale” propria del punctum, si potrebbe chiamare in causa il concetto di inconscio ottico proposto dal filosofo tedesco Walter Benjamin nel testo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936): “al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente”. E in questo spazio, si può aggiungere, ciò che appare come contingenza diviene necessità. Tale aspetto rappresenta per Benjamin quel margine di imprevedibilità e liber-

Dire che la fotografia non mente sulla esistenza dell’oggetto non significa infatti che non menta, o non possa mentire, sul senso della cosa, anzi, afferma il nostro autore, essa è “tendenziosa per natura”, al pari della pittura e delle altre arti tà che gli fa dire, con parole giustamente divenute celebri, che il cinema “con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere”, ovvero ha liberato e reso nuovi allo sguardo

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Roland Barthes

spazi prevedibili e già noti. Il punctum possiede una forza di espansione, come particolare che arriva a significare un tutto, o nel senso per cui arriva a riempire la foto con la sua forza. Il particolare che ci “punge” è definito da Barthes anche come un “detonatore” da cui parte un’esplosione (come una risonanza con Benjamin, e la sua dinamite...). Esso crea inoltre un “campo cieco”, un fuori-campo, rimanda a qualcosa fuori dalla foto creando un dinamismo. Il punctum è in fondo esso stesso questo fuori-campo, “una specie di sottile fuori-campo, come se l’immagine proiettasse il desiderio al di là di ciò che essa dà a vedere”. In questo senso Barthes può dire che io, spettatore, aggiungo qualcosa che tuttavia è già là. Insomma, in tutti i caratteri individuati compare una dimensione di eccedenza del visivo: eccesso rispetto alle intenzioni del fotografo e a quelle dello spettatore; eccesso rispetto al particolare oggetto, o parte di oggetto, che raffigura; eccesso rispetto al campo dell’inquadratura, all’ambito chiuso di ciò che viene inquadrato. Questa eccedenza fa dire a Barthes che il punctum – insomma, ciò che rende la fotografia qualcosa di più che una produzione di immagini gradevoli, ciò che la rende un’arte – è maleducato, disobbediente. Ed è anche ciò che lo induce a pronunciarsi, al termine del libro, contro una fotografia addomesticata e rinsavita, per una fotografia “folle”.

Attualità di Barthes Concludendo un po’ provocatoriamente, potremmo affermare che la teoria della fotografia di Barthes non sembra invalidata nel passaggio dall’analogico al digitale. Pur ammettendo una definizione radicale di immagine digitale, come qualcosa che viene ricreato dal nulla al computer, senza alcun referente (e spesso l’immagine digitale non è questo), alcune delle cose che abbiamo scritto valgono ancora per le creazioni digitali come valevano per le foto analogiche, e per le immagini pittoriche. Certamente, in queste ultime non viene garantita l’esistenza passata e reale del referente, ma, come scrive lo stesso Barthes, anche la fotografia è per natura tendenziosa, mente sul senso, non dice la verità. Inoltre, l’eccedenza del punctum, la tendenza della foto ad oltrepassare se stessa, in un fuori-campo, ma anche ad andare oltre le intenzioni volontarie dell’autore, vale anche per le immagini digitali e per la pittura. C’è sempre, insomma, qualcosa che sfugge alla volontà dell’artista o del programmatore, qualcosa dell’ordine dell’inconscio e del contingente. Riconoscere in questa eccedenza un tratto caratterizzante di tutte le immagini esteticamente coinvolgenti non significa misconoscere la specificità del medium fotografico, che anzi proprio grazie alla sua genesi tecnica mette in evidenza alcune tendenze presenti in altre arti in forme attenuate.


Scrivere con la luce Alla ricerca della claritas moderna di Antonello Frongia In una lettera del 28 febbraio 1839, lo scienziato inglese John Herschel suggeriva a William Henry Fox Talbot di utilizzare il termine photography, invece di photogenic drawing, per i suoi esperimenti sulla capacità della luce di impressionare un foglio di carta opportunamente trattato con sali d’argento. Talbot coltivava l’idea di un “disegno fotogenico” che potesse registrare in forma stabile «l’inimitabile bellezza delle immagini dipinte dalla natura». Nella “fotografia”, invece, Herschel vedeva più razionalmente una “scrittura di luce” in grado di integrare e persino di sostituire le tecniche di riproduzione esistenti, come la litografia e la calcografia. Fu questo neologismo che nel lungo periodo prese il sopravvento: nato da considerazioni tecniche e scientifiche, ha finito per indicare un intero universo culturale, sociale e antropologico.

Nella fotografia Herschel vedeva più razionalmente una “scrittura di luce” in grado di integrare e persino di sostituire le tecniche di riproduzione esistenti, come la litografia e la calcografia Superato il primo periodo di sperimentazione, nel giro di un quindicennio la fotografia era già divenuta un fenomeno di massa che metteva alla prova i confini tradizionali tra rappresentazione e immagine, verità e copia, arte e tecnica. Il termine “fotografia”, uscito dall’ambito ristretto della scienza, iniziò a caricarsi di significati multipli, indicando il procedimento e il suo risultato materiale, ma anche le numerose pratiche (commerciali, artistiche, scientifiche, ludiche) che su quella tecnica si svilupparono rapidamente. Una vera e propria cultura fotografica iniziò a prendere forma, con i propri modelli visivi, le proprie istituzioni, il proprio vocabolario. Nel 1851 venne creata in Francia una Société héliographique (il cui nome significativamente si contrapponeva a quello di Herschel) accompagnata dalla rivista fotografica La Lumière; nel 1853, a Londra, fu fondata la Royal Photographic Society; l’anno successivo nacque la Société française de photographie. Ma è significativo che nel 1859, a soli vent’anni dall’invenzione, in una celebre polemica scritta in occasione del Salon parigino, Charles Baudelaire parlasse della fotografia come di una vera e propria iattura, una “nuova industria che ha contribuito non poco a rafforzare la stupidità nella propria fede e a distruggere quanto

poteva restare di divino nello spirito francese”. Oggi, a quasi 180 anni dalla lettera di Herschel, l’idea della fotografia come “scrittura con la luce”

William Henry Fox Talbot, The Open Door, aprile 1844. Carta salata da negativo calotipico, 14,9 × 16,8 cm. The J. Paul Getty Museum, Los Angeles

sembrerebbe del tutto perduta. La progressiva scomparsa dei “materiali sensibili” (pellicole e carte fotografiche) e la fine del lavoro in camera oscura hanno eliminato molti dei fattori concreti che ponevano la luce al centro delle preoccupazioni del fotografo. Smaterializzate su schermi retroilluminati, le fotografie hanno cambiato il proprio statuto, trasformandosi da oggetti d’affezione conservati in un cassetto, in un album o in un archivio in

È la luce che ci consente di osservare il mondo, ed è la luce che continua ad essere registrata dalle fotografie, anche se, come tutte le scritture, anche quella luminosa ha subito nel tempo mutamenti profondi fonti luminose visibili in qualsiasi condizione e scambiabili in maniera istantanea. Eppure, se è possibile identificare un elemento di continuità negli elaborati sviluppi della cultura fotografica, questo risiede proprio nel significato originario definito da Herschel. È la luce che ci consente di osservare il mondo, ed è la luce che continua ad essere registrata dalle fotografie, anche se, come tutte le scritture, anche quella luminosa ha subito nel tempo mutamenti profondi. Storicamente, la scelta di determinati tipi di luce ha connotato l’approccio, lo stile e il linguaggio dei fotografi, spesso in maniera indipendente dal loro statuto culturale e professionale. Alcune distinzioni

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Jacob A. Riis, Lodgers in a Crowded Bayard Street Tenement, c. 1890. Printing out paper, 10,3 × 12,8 cm. The Museum of the City of New York

elementari sono già l’indizio di una filosofia del medium. Nel privilegiare una chiarità piana e diffusa, senza ombre, molti fotografi hanno difeso l’importanza di una descrizione impersonale, antigerarchica e “democratica” di tutti i segni visibili. Vi è in questo approccio (adottato da molti “topografi” ottocenteschi, ma dagli anni Sessanta anche dagli iniziatori della cosiddetta Scuola di Düsseldorf, Bernd e Hilla Becher) una tensione etica e concettuale che privilegia il soggetto rappresentato e la lettura attiva dello spettatore, piuttosto che la volontà espressiva del fotografo come “autore”. Al

Se la fotografia è “traccia” del reale, essa è anzitutto traccia di un reale osservato da un individuo in un momento definito e da un preciso punto di vista: la precoce consapevolezza di questo carattere imitabile ma non ripetibile dell’esperienza fotografica si ritrova già in un’immagine del 1844 dello stesso Talbot, intitolata The Open Door contrario, l’illuminazione diretta e intensa, prodotta dal sole o da una fonte artificiale, è stata spesso utilizzata per modulare le forme e per restituire il

carattere tattile della materia di cui è fatto il mondo; portato agli estremi, come in alcuni momenti del Surrealismo francese degli anni Venti e nella Subjective Fotografie degli anni Cinquanta, questo uso della luce e delle ombre ha coinciso con una vera e propria drammatizzazione onirica o espressionistica. In termini più generali, fotografare nella luce diretta del sole ha anche significato riflettere sullo spazio e sul tempo, sull’esperienza dello sguardo. Se la fotografia è “traccia” del reale, come è stato spesso sostenuto, essa è anzitutto traccia di un reale osservato da un individuo in un momento definito e da un preciso punto di vista: la precoce consapevolezza di questo carattere imitabile ma non ripetibile dell’esperienza fotografica si ritrova già in un’immagine del 1844 dello stesso Talbot, intitolata The Open Door. Dalla fine dell’Ottocento, gli avanzamenti tecnologici hanno consentito ai fotografi di spingersi ai confini del visibile, dove la luce naturale è flebile o assente, in luoghi reali che spesso corrispondono a condizioni di marginalità sociale ed economica. Questa esplorazione dell’ombra ha coinciso con una nuova coscienza del lavoro fotografico. Così Jacob A. Riis, un immigrato danese divenuto giornalista a New York, attorno al 1888 iniziò a documentare le condizioni di vita delle classi meno ab-


bienti, utilizzando il lampo al magnesio per illuminare gli interni dei dormitori senza finestre e i vicoli oscuri del Lower East Side. In sintonia con il determinismo ambientale della proto-sociologia del tempo, Riis vedeva nell’oscurità di questi luoghi il sintomo di un male morale della società moderna. Interessato all’azione sociale più che all’estetica fotografica, utilizzava consapevolmente la violenza accecante della luce per produrre documenti inoppugnabili e per richiamare la politica della città alle proprie responsabilità civili e umane. Mezzo secolo dopo, nell’America della Depressione, Walker Evans affrontò situazioni analoghe con l’amico scrittore James Agee in un reportage su tre famiglie di mezzadri dell’Alabama, rielaborato nel 1941 con il titolo Sia lode a uomini di fama. Evans, che solitamente faceva affidamento sulla luce piena e cristallina del giorno per redimere con le sue fotografie nettissime i manufatti più umili della provincia americana, documentò le stanze buie dei mezzadri utilizzando in maniera quasi invisibile una fonte di luce artificiale. Diversamente da quelle di Riis, le sue fotografie non appaiono come invasioni dello spazio privato delle persone o documenti di un sopralluogo giudiziario, ma come paesaggi naturali, ordinati e dignitosi, nei quali le lenzuola logore e sporche rischiarate dal flash hanno il candore di una tovaglia d’altare.

Il fotografo, che non può ambire alla bellezza assoluta – a quello splendore della claritas di cui parlava Tommaso d’Aquino – è costretto a «intuirla dal riflesso frammentario che deposita sui nostri oggetti quotidiani» Casi come questi, che ci parlano della capacità dei fotografi di modulare l’illuminazione e i suoi valori simbolici per costruire un discorso politico sulla visibilità, sono numerosissimi, non solo tra gli autori più riconosciuti. Soprattutto nel secondo dopoguerra, però, la scrittura con la luce è divenuta anche una scrittura sulla luce, una riflessione della fotografia attorno alle condizioni del suo stesso farsi. Robert Adams, un altro fotografo americano che ha raccolto l’eredità di Walker Evans documentando dagli anni Sessanta i paesaggi “ordinari” della California, del Colorado e dell’Oregon, si è concentrato in particolare sulle precarie condizioni in cui vive la luce nell’epoca dell’industrializzazione e del riscaldamento globale. In libri come The New West (1974) e Los Angeles Spring (1984), Adams ha utilizzato tutte le tonalità del bianco e nero per mostrare la coesistenza di luci di tipo diverso – naturale e artificiale, cristallina e opaca, avvolgente e violenta – nel tappeto visivo che fa da sfondo alla vita quotidiana. Così a Los Angeles il cielo sopra le freeways è di un grigio denso, l’orizzonte è sfumato nello smog, ma ai margini dello sprawl sopravvivono ancora le limonaie guardate

Wiliam Talbot coltivava l’idea di un “disegno fotogenico” che potesse registrare in forma stabile «l’inimitabile bellezza delle immagini dipinte dalla natura». William Henry Fox Talbot, by John Moffat,1864

da uccelli solitari in riposo sul filo di un traliccio; a Denver, tra i bagliori serali delle auto in una stazione di servizio, si intravvede in lontananza il profilo netto delle Rocky Mountains. Mentre il suo celeberrimo omonimo, Ansel Adams, ha magnificato la

Dalla fine dell’Ottocento gli avanzamenti tecnologici hanno consentito ai fotografi di spingersi ai confini del visibile, dove la luce naturale è flebile o assente, in luoghi reali che spesso corrispondono a condizioni di marginalità sociale ed economica. Questa esplorazione dell’ombra ha coinciso con una nuova coscienza del lavoro fotografico bellezza sublime della luce in fotografie senza tempo come Moonrise, Hernandez (1941), Robert Adams l’ha trattata alla stregua di un segno culturale, ovvero come spia storica di un nuovo antropocene. Nella poetica di Robert Adams vi è certo un elemento di ecologismo, ma nella sua profonda visione umanistica la fotografia non si limita alla denuncia. Come ha scritto in un piccolo libro intitolato significativamente La bellezza in fotografia. Saggi in difesa dei valori tradizionali, prestare attenzione alla luce è un modo per dare forma e struttura al caos del mondo. Il fotografo, che non può ambire alla bellezza assoluta – a quello splendore della claritas di cui parlava Tommaso d’Aqui-

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no – è costretto a «intuirla dal riflesso frammentario che deposita sui nostri oggetti quotidiani». Non a caso, una serie più recente di Adams dedicata al paesaggio boschivo dell’Oregon è intitolata Light Balances: semplici osservazioni di una natura ordinaria, quasi banale, alla ricerca di un equilibrio tra luci e ombre in grado di trasformare l’intreccio insensato della vegetazione in un luogo abitabile, o almeno comprensibile. Nelle idee di Adams si può scorgere l’influenza di Henry David Thoreau, che in Camminare (1851) ammoniva: «Persino la luce che tutto pervade può essere eccessiva». Citando la teoria dell’«attinicità» di Nicéphore Niépce (un altro pioniere della fotografia), Thoreau sosteneva la necessità di equilibrare l’energia trasformatrice della luce con l’alternanza dell’ombra e del buio. Partendo da un’osservazione di natura, Thoreau giungeva a un insegnamento morale: a contraltare della «Società per la Diffusione della Conoscenza Utile», consigliava provocatoriamente la creazione di una «Società per la Diffusione dell’Ignoranza Utile, che chiameremo Conoscenza Meravigliosa». Allo stesso modo la fotografia, scrittura con la luce, è sempre modulazione di chiarezza e oscurità, informazione e ignoranza. Goethe espresse idee simili nel 1791, al ritorno dal suo viaggio in Italia, quando scrisse nei suoi Beiträge zur Optik che è un principio di polarità tra luce e

tenebra a produrre la sensazione ottica del colore. Così nel Faust, ha osservato Jean Starobinski (in 1789. I sogni e gli incubi della ragione), il Mefistofele goethiano segna il tragico «ritorno dell’ombra», ma «la luce è un secondo fiorire e la lotta tra i contrari suscita la bellezza del mondo». L’ i n d i v i d u o non è solo testimone di questa lotta, ma con la luce dello sguardo e le sue ombre interiori è il campo in cui essa avviene. Il soggetto, parte integrante di questa polarità, è

Sarebbe, tuttavia un errore anche giocare a “noi e loro” come se i processi globali non intervenissero nella vita di tutti noi abitanti dello stesso spazio urbano, a prescindere dalle nostre origini di sangue anche l’agente di un superamento possibile, «creatore di una seconda natura nella quale finalmente si eterna l’equilibrio che altrove è sempre condannato alla fugacità». Forse non è stata data definizione migliore della fotografia come scrittura dialettica di luce e ombra e del fotografo come dramatis persona di questo tentativo mai esaurito di dare una forma plausibile all’incomprensibilità del mondo moderno.


L'eco della luce La luce e i suoi colori, tra il probabile e il certo di Maria Teresa Lepone La realtà è una probabilità. Tutto ciò che accade, accade perché si è attuato l’evento più probabile. E anche la luce, l’ombra, i colori sono l’epifania di una probabilità. L’effetto di un fotone assorbito da un fotoMaria Teresa Lepone pigmento di un fotorecettore non dipende dall’energia del fotone ma solo dalla probabilità di essere assorbito: una volta assorbiti, il loro effetto, per quanto concerne la sensazione visiva, è uguale. Così le attivazioni dei coni sono dipendenti dalle efficienze quantiche, sempre probabilità! Ma se alla base della fisica e della fisiologia umana c’è il concetto di probabilità, la luce e i colori sono certamente la sostanza di un’opera d’arte e nel modo di intenderli nel corso dei secoli si riflette il percorso del pensiero evolutivo dell’umanità. Così a partire dal pieno Ellenismo in poi c’è una metafisica

Se alla base della fisica e della fisiologia umana c'è il concetto di probabilità, la luce e i colori sono certamente la sostanza di un'opera d'arte e nel modo di intenderli nel corso dei secoli si riflette il percorso del pensiero evolutivo dell'umanità della luce che subentra ai miti. Da questa metafisica nasce poi un’estetica della luce fino ad arrivare ad una descensus ad inferos dell’arte moderna in cui luce, ombre e colori, non più strettamente corrispondenti a realtà vedibili, rendono invece vedibile il mondo dell’inconscio. Ma nell’inconscio avviene il collasso di ogni concetto di separazione e di definizione, il collasso di realtà possibili e di certezze oggettive poiché è lì che ogni rappresentazione può trasferire tutto il proprio ammontare ad un’altra rappresentazione attraverso il processo di spostamento oppure può appropriarsi del contenuto di altre rappresentazioni attraverso il processo di condensazione così che il molto, il diverso, può convivere, senza alcuna contraddizione, in un unico stato d’essere, assoluto e indefinibile per profondità e riverbero. Così il colore, l’uso della luce e delle ombre, nell’arte moderna, diventano un ponte di comunicazione tra l’indefinibile, l’assoluto unitario dell’inconscio e il coscienziale altro, tra artista e osservatore. Kandinskij

scrive Lo spirituale nell’arte ed Egon Schiele parla dell’arancione come l’unica luce per lui possibile; Van Gogh usa colori e luci inesistenti dal punto di vista dell’associabilità colore-oggetto o luce-evento temporale e questo perché se la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa, quella inconscia è la rappresentazione della cosa per come si sente e basta, oltre la linea di ogni più probabile realtà percepita che però non è, forse, necessariamente la più vera. Così la luce, i colori, sono trasmutazioni di un flusso di particelle quantistiche in messaggi che oltre a colpire il nostro occhio colpiscono la nostra intimità, la vibratilità della nostra anima. E da un concetto probabilistico posto alla base della nostra percezione visiva e dell’intero concetto di realtà nasce invece un’assoluta, certa, conseguenza: l’eco che un flusso quantistico di particelle lascia inevitabilmente nel nostro intimo più imperscrutabile, meno accessibile consciamente ma che certamente domina le nostre azioni, le nostre scelte, la nostra vita in maniera naturale ed istintiva. Quindi il colore oltre ad essere una lunghezza d’onda delle radiazioni elettromagnetiche dello spettro del visibile ovvero il risultato di un processo percettivo è anche il riflesso di una scelta psichica ed intima, reale e necessaria per la dimensione dell’essere quanto il probabile osservabile lo è per la dimensione del fenomenico. Van Gogh in più di una lettera scritta al fratello Theo afferma: «Della natura conserverò una certa sequenza e una certa esattezza nel disporre i toni...tuttavia non mi importa che il mio colore sia proprio lo stesso, purché sia bello sulla tela, tanto bello quanto in natura». Con la descensus ad inferos dell’arte mo-

Nell'inconscio avviene il collasso di ogni concetto di separazione e di definizione, di realtà possibili e di certezze oggettive poiché è lì che ogni rappresentazione può trasferire tutto il proprio ammontare ad un'altra rappresentazione, può appropriarsi del contenuto di altre rappresentazioni così che il molto, il diverso, può convivere, senza alcuna contraddizione, in un unico stato d'essere, assoluto e indefinibile per profondità e riverbero derna nasce così un uso della luce e del colore che non mira soltanto al bello ma al comunicativo e al-

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l’immediatezza l’originalità di espressiva. Anciò che si proche in teatro, va. Ma un cocon Adolphe lore, un contraAppia, il colore sto cromatico o si unisce intimadi luminosità mente alla luce può trasmettere perché è con la in modo immeluce che si codiato, sensibistruisce il quale, la verità di dro scenico ed è uno stato d’acon una luce vinimo o indurre vente che si guiad uno stato da l’attenzione d’animo, come dello spettatore per magia. Se verso il sovraninfatti la verità naturale, verso sembra sfuggiil celato dal reare per sua natuInterfaccia (2012). Foto di Solmaz Nourinaeini.jpg © le. Ma se si parra al sapere di la di luce non si può non parlare dell’altro suo volto, tutti, essa la si può intuire, avvertire, dietro l’ombra dell’ombra. L’ombra è l’unione tra l’apparente non delle cose e dietro ai colori. La si può intuire attraessere e l’essere. Essa viaggia oltre il confinamento verso una pittura timbrica o tonale (per fare un esemdei luoghi e degli spazi, ne supera i limiti, i contorni; pio, la pittura di Matisse vs quella di Morandi), attraessa è in grado di proiettarsi, di colpire, di imprimerverso i tagli di luce su un palcoscenico, tagli che avsi: l’ombra ha dunque la stessa natura della luce ma vertono, preludono, ammiccano al mondo della noha una natura ambigua che la luce non ha. Infatti se stra intuizione, delle nostre aspettative, delle nostre la luce rende visibili le cose, l’ombra dà indizi sull’esperanze o delle nostre paure. Dunque accanto alla sistenza di un qualcosa, fornisce un avvertimento, natura ondulatoria e corpuscolare della luce c’è anrende intuibile il possibile. I colori sono gli attributi, che un’altra natura che le è propria e che è aliena da le proprietà di realtà o stati d’essere possibili. L’omcatalogazioni fisiche: essa è densa di significanti nelbra è invece consustanziale al concetto di probabilità. le manifestazioni artistiche e una partitura di contraTuttavia l’ombra è il segno con cui il pittore costruisti cromatici o di luminosità, così come una partitura sce lo spazio: senza ombre non ci sarebbero geometrie evidenti, non ci sarebbe la percezione della terza L'ombra è il segno con cui il pittore dimensione. Dunque se la luce indica, l’ombra suggerisce e costruisce. Costruisce spazi geometrici e costruisce lo spazio: senza ombre non spazi inconsci, segna ritmi e se l’inconscio non ha ci sarebbero geometrie evidenti, non ci categorie di spazio e tempo né contraddizioni ha tutsarebbe la percezione della terza tavia una splendida necessità: ha bisogno di ritmo dimensione. Dunque se la luce indica, per dipanare ogni condensazione. E di ritmo visivo si l'ombra suggerisce e costruisce serve l’artista per realizzare una partitura musicale silente in cui sono le emozioni a dirigere. Si rendono così visibili quelle immagini interiori che appartenmusicale, si rende semplicemente riflesso di verità gono alla dimensione del pindarico, dell’impossibile profondamente umane che con i mezzi della logica o desiderato o temuto, dell’assolutamente umano. della rappresentazione verbale conoscerebbero nuoQuindi se la scienza si occupa di probabilità di evenvamente il concetto di limite. Il nostro immaginario ti, l’arte cattura l’essenza di ogni probabilità e di infatti è visionario e visionari sono i nostri sogni, i ogni impossibilità e i tratti comuni dell’umanità. Nelnostri desideri, le nostre paure. Il nostro immaginario l’arte si esemplificano i concetti di a-temporalità e di si nutre di passioni, di sentimenti che convivono, che condensazione del sistema inconscio fino a portare compaiono, scompaiono, che ci segnano senza il riartisti di tempi differenti a cercare mezzi espressivi spetto di nessuna categoria di spazio e di tempo. In comuni. Per questo non occorre aspettare l’espressiopoche parole il nostro immaginario sembra essere nismo per rintracciare già nell’opera di El Greco la fatto di flussi, di onde, così come è la natura fisica prima traccia di un’intima necessità espressionista. della luce. E allora tra il probabile e il certo c’è la La luce, i colori, le ombre, sono tutti mezzi silenti, nostra essenza interfacciata dai nostri corpi, piccoli indispensabili per produrre riflessi di stati d’animo universi sparsi e girovaghi in cerca di emozioni, di non sufficientemente esprimibili in altri modi, come sensazioni da assorbire e da elaborare. Quell’essenza con la parola. È infatti impossibile per gli esseri che dello spettro del visibile fa sua terra di bellezza e umani esprimere in parole qualcosa connesso con di mistero e che spesso ci induce a cercare nell’arte l’inconscio senza avvalersi di espressioni verbali tiuno spazio in cui respirare, immaginare, sentire se piche dell’esperienza conscia, riducendo fortemente stessi, al di là di ogni probabile realtà.


La soglia dell’invisibile Alexandre Salzmann: cercatore di verità e genio della luce di Carla Di Donato Nel cuore del movimento delle avanguardie storiche, tra la fine dell’Ottocento ed i primi trenta anni del Novecento, Alexandre Salzmann agisce come un motore segreto di molti tra gli eventi di primo piano in cui figura sì, ma non emerge quasi mai alla ribalta della scena, incrocianCarla Di Donato do spesso il percorso di nomi la cui fama travalica secoli, rivoluzioni, pratiche, teorie ed estetiche teatrali e non solo (Kandinskij, Dalcroze, Appia, Artaud, Gurdjieff). Il “segreto”, il principio che regola il tracciato di Salzmann in quel paesaggio è quindi dietro il visibile. «Dietro il movimento visibile, c’è un altro movimento, uno che non può essere visto, che è molto forte, dal quale il movimento che si vede all’esterno dipende. Se questo movimento interno non fosse abbastanza forte, l’altro non produrrebbe alcuna azione». Jeanne de Salzmann, dal settembre 1912 moglie di Alexandre, tra le migliori allieve ed insegnanti di Ritmica di Emile Jaques-Dalcroze, poi danzatrice ed insegnante dei Mouvements, erede ufficiale dell’insegnamento e della trasmissione della tradizione contemporanea di Gurdjieff, spiega con queste parole ai suoi allievi cos’è il Movimento. Sapere incarnato, dunque, quello di Madame de Salzmann, rispetto alla linea dalcroziana che, in lei, si troverà a confluire nei Movimenti gurdjieffiani. Luce come pentagramma luminoso: l’Orfeo ed Euridice (Hellerau, 1913) La triade creativa Appia/Dalcroze/Salzmann realizzò nell’estate del 1913 all’Istituto di Ritmica di Hellerau uno spettacolo-capolavoro la cui eco riverberò in tutta Europa e la cui novità era destinata ad impressionare profondamente tutti gli uomini di teatro e molti dei protagonisti più inquieti della riforma del teatro del Novecento. Tra gli spettatori illustri dell’Orfeo vi furono Stanislavskij, Edward Gordon Craig, Diaghilev, Nijinskij, il principe Sergei Volkonskij (Direttore dei Teatri Imperiali a Mosca), George Bernard Shaw, Uday Shankar, e molti altri. Nel programma della prima edizione delle Feste Scolastiche (1912), Salzmann pubblica l’articolo: Luce, Luminosità, Illuminazione dove mette nero su bianco la concezione alla base dell’invenzione del suo sistema di illuminazione per la Grande Salle di

Hellerau: «Il nostro sistema di illuminazione è regolato dalla musica. Solamente dalla musica. La luce quindi suona, al pari di uno strumento dell’orchestra, che regola il suo crescendo e decrescendo unicamente sulla partitura. Si potrebbe addirittura immaginare una gamma luminosa – all’incirca: una gamma che sale dal do 4/4 al la maggiore, graduando la luce bianca facendola diventare sempre più chiara; allo stesso tempo, un’altra gamma discenderebbe dal do 4/4 mischiando a poco a poco i toni colorati alla luce bianca. L’assenza totale di luce corrisponderebbe al silenzio». Un vero e proprio pentagramma luminoso, quindi, scrive – e realizza - Salzmann, capace di suonare così come di creare dal buio totale alla luce accecante, l’intero spettro cromatico nelle sue infinite variazioni e modulazioni di tono, intensità, durata. Proprio perché la luce è suono, ed il suono è impalpabile, così la sorgente della luce deve esserlo al-

La triade creativa Appia/Dalcroze/Salzmann realizzò nell’estate del 1913 all’Istituto di Ritmica di Hellerau uno spettacolocapolavoro la cui eco riverberò in tutta Europa e la cui novità era destinata ad impressionare profondamente tutti gli uomini di teatro e molti dei protagonisti più inquieti della riforma del teatro del Novecento trettanto: «La luce deve essere così impalpabile e mobile del suono. Ecco perché abbiamo trasformato la sala (le quattro pareti laterali ed il soffitto) in un’immensa installazione elettrica. […] Così, invece di avere una sala illuminata, abbiamo una sala illuminante. La luce è trasportata nella sala stessa; ciò evita la perdita d’attenzione dovuta alla visibilità delle sorgenti luminose. Persino il contrasto brutale tra sala oscura/scena chiara scompare e riusciamo ad armonizzarle totalmente: condizione primordiale quando si tratta dei valori relativi di colore, di forma, di movimento – tutte ispirate dalla musica». L’Orfeo ed Euridice del 1913 impressionò il pubblico in modo indelebile, rimase nella memoria e la cui fama volò molto al di là di Hellerau, ribattezzata la “cattedrale dell’avvenire”. In particolare, oltre alla rivelazione della ritmica di Dalcroze, colpisce la scena di Salzmann: «Le rappresentazioni di Hel-

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lerau sono state notevoli non soltanto per la rivelazione della ginnastica ritmica, ma anche per lo stile di décor che vi è stato realizzato da M. Alexandre de Salzmann. Bisogna aver visto l’effetto di questi piani convenzionali e di questi semplici teli, per rendersi conto che tutto ciò che avrebbe potuto sostituirli, alberi nei Campi Elisi, rocce infuocate nell’Inferno, sarebbe stato completamente inutile. Ciò che costituisce il pregio dello stile di scenografia, illuminazione e messa in scena di Hellerau è – insieme alla semplicità, al naturale, alla autenticità di tutte Alexandre de Salzmann le sue convenzioni – la sua essenza musicale. […] La vita drammatica che palpita nel cuore della musica di Gluck era in movimento sulla scena, si rifletteva nei décors, arrivava a noi dalla luce-ambiente; era dappertutto, realizzando lo spettacolo più puro e più compiuto» (Ansermet, E., in “La Gazette de Lausanne”). Eros non è più un attore in carne ed ossa, è disincarnato: «La regia ha avuto la felice idea di non mostrare Eros, ma di farlo udire; era perciò personificato da un raggio di luce![…] Il primo raggio di luce che attraversa l’oscurità colma di grida di lamento è stato ottenuto con l’apertura di un’ampia fessura fra gli alti drappeggi blu […] fino ad allora chiusi, lasciano così trapelare una stretta striscia del fondo illuminato. Eros guida così l’eroe alla sua meta (…), egli cammina in direzione della luce: la fessura si apre progressivamente e Orfeo entra felice nella luce splendente» (Fantl, L., “Die Scene”, settembre 1913, Berlin, pp. 44-46).

Un vero e proprio pentagramma luminoso, quindi, scrive – e realizza Salzmann, capace di suonare così come di creare dal buio totale alla luce accecante, l’intero spettro cromatico nelle sue infinite variazioni e modulazioni di tono, intensità, durata La Scienza della Luce di Salzmann confluisce nella Scienza del Movimento di Gurdjieff A Parigi, nel dicembre 1923, al Théâtre des Champs Elysées, vanno in scena le Démonstrations dell’Istituto Gurdjieff. Poi, subito a seguire, nel gennaio 1924, Gurdjieff parte per gli USA con un gruppo di allievi e lì dà inizio alla prima tournée di rappresentazioni dei suoi Movimenti che culminerà alla Carnegie Hall. Alexandre Salzmann prese parte attiva alle Dimostrazioni - I Movimenti, sia come intermediario

d’eccellenza tra Gurdjieff e Hébertot in Francia, sia attraverso la sua Luce. Sull’unione tra Scienza della Luce e Scienza del Movimento, riportiamo questa preziosa testimonianza di un’allieva americana di Gurdjieff: «They knew vaguely that the movements were some sort of special dance, coming from ancient Eastern sources. […]The program began with the dancers in an almost military order of seven files and three rows, but costumed with quite unmilitary softness. Both men and women wore white tunics over full white trousers gathered at the ankle, much like the Rajput way of dressing, with its yielding responsiveness to bodily motion. The tunics were belted with wide sashes, looped on the left side, in the seven colours of the spectrum, and for the first few moments the dancers stood in the order: red, orange, yellow, green, blue, indigo, violet. Though they remained so for the ‘Obligatories’, their swift movement in complex figures appeared to make the colours change and shift. Someone in the audience said that it seemed like watching white light passed very slowly through a prism and breaking into its spectral order» (Questo estratto è tratto da Louise Welch, Orage with Gurdjieff in America, Boston / London . Routledge & Kegan Paul, 1982, pp. 3 – 6 ed stato pubblicato in Gurdjieff International Review, op. cit., pp. 26 –28). La conoscenza sperimentale della visione, e del colore, che è luce, si salda qui con la pratica dei Movimenti di Gurdjieff. La collaborazione di Salzmann con il “Maestro di Danza” è complessa e profonda, sostanziale. Ma il contributo e l’influenza di Salzmann si lasciano cogliere nella loro autentica rilevanza solo ad un ben orchestrato sguardo d’insieme, più che ad un’osservazione china sulla registrazione dei fatti. Essere oggettivamente spostati nella propria percezione e coscienza dalla luce è un’esperienza tangibile: la visione, in forma strettamente privata, che ha avuto luogo all’Istituto Gurdjieff di Parigi insieme a Peter Brook, JeanClaude Lubtchanskij ed al Dr. Alexandre de Salzmann, dei tre film originali che hanno registrato la luce ottenuta grazie alla ricostruzione effettuata a San Francisco sulla base dei brevetti originali del sistema di illuminazione Salzmann è stata in tal senso un’esperienza cruciale. Sulla base di quella visione, è effettivamente possibile affermare che ciò di cui parla qui Louise Welch è stato effettivamente realizzato da Salzmann, appunto, attraverso la capacità di ricreare une cage de lumière in cui prendevano vita tutte le più sottili variazioni, modulazioni ed intensità di colore, così come è possibile osservarle normalmente nell’atmosfera, en


plein air, in condizioni meteorologiche di sereno. Quando, al livello più alto dello spettro cromatico, si raggiunge il colore bianco, esso si presenta alla nostra retina come un bianco accecante, assoluto, senza contorni, un bagno di luce pura in cui i volumi del corpo svaniscono completamente, ove il corpo viene progressivamente de-materializzato e così le linee del viso. È la luce del sole che dissangua l’iride, svapora il corpo e brucia tutto ciò che è “materiale”, tutto ciò che è composto di energia

La collaborazione di Salzmann con il “Maestro di Danza” è complessa e profonda, sostanziale. Ma il contributo e l’influenza di Salzmann si lasciano cogliere nella loro autentica rilevanza solo ad un ben orchestrato sguardo d’insieme, più che ad un’osservazione china sulla registrazione dei fatti. Essere oggettivamente spostati nella propria percezione e coscienza dalla luce è un’esperienza tangibile “pesante”. Una volta che quel bianco assoluto si è impresso nella retina, quando, al termine della visione, l’occhio torna quindi a posarsi sul “quotidiano”, sul “sensibile”, avviene un fenomeno strano, preciso e di forte intensità. L’occhio rifiuta violentemente il paesaggio in questo caso di una metro-

Spettro cromatico en plein air. Foto: Carla Di Donato

poli europea. Vorrebbe letteralmente sollevare quella che sente come una vera e propria pellicola, togliere cioè il velo che ostacola una visione altra. Si fa dunque esperienza e si comprende come noi tutti abbiamo gli occhi ma non vediamo davvero, o meglio che tutto quello che abbiamo davanti agli occhi può rivelarsi, in condizioni extra-ordinarie, eccezionali, nient’altro che una pellicola da rimuovere, un ostacolo dunque, per poter vedere. È possibile dunque affermare che la luce di Salzmann è un veicolo, poiché trasporta direttamente sulla soglia dell’invisibile. Desideriamo con tutte le nostre forze, volontà, energie, aprire la porta. Ma per farlo occorre un Lavoro cosciente, quotidiano e costante che coinvolga l’uomo nella sua integralità, occorre essere, ciò che in inglese suona ancora più chiaro: to be a Man, to be a Real Man. Occorre essere attori, in quanto l’attore per Gurdjieff è colui/lei che è in grado di riprodurre dentro di sé lo spettro di luce bianca. Questo è lo scopo del Lavoro, ci insegna Gurdjieff. Questo è lo scopo della vera esperienza del “vedere”, ci mostra Salzmann. Quest’ultimo ha creato uno strumento che conduce direttamente alla soglia del risveglio dell’uomo, ha reso visibile – attraverso la Luce - ciò che nella coscienza materiale, quotidiana, normalmente non lo è. Una luce la cui sensibilità va oltre i cinque sensi, in grado di elevare, come un ascensore primitivo, dai livelli di energia quotidiani, più densi, più grossolani, a quelli più fini, più sottili, è una Luce-veicolo quindi per una dimensione più elevata, la Coscienza.

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La lanterna magica Quando la luce dava forma ai sogni di Francesca Gisotti «Da bambino, a casa, stavo sempre seduto nell’oscura sala da pranzo e guardavo nel salone attraverso le porte scorrevoli aperte a metà. Il sole illuminava mobili e oggetti, scintillava sul lampadario di cristallo, gettava mobili e ombre sul tappeto. Tutto Francesca Gisotti era verde come in un acquario. Persone vi si muovevano, riapparivano, si fermavano e stavano immobili, parlavano a voce bassa. I fiori alla finestra ardevano, gli orologi ticchettavano e battevano. Uno spazio magico» (I. Bergman, Lanterna magica, Milano, Garzanti, 2008, p.39) Nella sua autobiografia, il grande regista svedese Ingmar Bergman racconta di quando, da piccolo, passava intere giornate a inventare storie per la sua lanterna magica. Uno strumento che, ai suoi occhi di bambino particolarmente creativo, permetteva di esercitare l’arte del fantasticare e di dar forma ai sogni di un immaginario alimentato dalle fiabe e dai racconti della nonna. Principi e principesse, streghe, maghi e cavalieri, che, di lastra in lastra, si muovevano all’interno di un universo narrativo appena abbozzato, privo del realismo fotografico proprio del cinema, così come della materialità corporea del teatro. Ed è proprio come momento di passaggio fra i due mezzi espressivi che si pone la lanterna magica la cui invenzione viene tradizionalmente attribuita al fisico olandese Christiaan Huygens (che ne rivendicò la paternità in uno scritto del 1656), anche se si pensa ad origini molto più lontane e da ricercarsi nel mondo cinese o arabo. Il suo funzionamento appare oggi, ai nostri occhi, abituati alle immagini in tre dimensioni, alquanto elementare, eppure ci vollero approfonditi studi e sperimentazioni per arrivare alla sua definizione. Si tratta, nella sua versione più diffusa, di una grossa scatola di legno, all’interno della quale, una candela andava ad illuminare una lastra di vetro dipinta proiettata su un telo o una parete bianca. I primi anni poteva essere inserita una lastra alla volta ma, con gli anni, e con il miglioramento della tecnica, si poterono far scorrere più lastre contemporaneamente in modo da rendere più verosimile l’effetto del movimento. Durante lo spettacolo, il lanternista commentava a voce alta le immagini colorate, enfatizzando i momenti di maggiore tensione, creando aspettative, suscitando meraviglia e favorendo il processo di immedesimazione degli spettatori. Se ad essere privilegiate, erano immagini rappresentanti luoghi esotici, piante ed anima-

li stravaganti, ben presto si capì che l’intento documentaristico poteva essere affiancato e soppiantato da quello del puro intrattenimento. Ecco allora che, sulle lastre, incominciarono a comparire tutti quei personaggi tipici della tradizione cavalleresca e della letteratura fantastica e che, da semplice spettacolo delle attrazioni, la lanterna magica incominciò a diventare uno strumento affabulatorio senza precedenti. A tal punto era forte l’effetto di suggestione sul pubblico che anche il mondo religioso se ne avvalse, ben presto, per diffondere la conoscenza dei racconti biblici e per indurre i fedeli all’obbedienza con la minaccia di terribili punizioni divine. Si racconta ad esempio che, in una notte imprecisata del XVII secolo, alla presenza dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, presso il Castello di Praga, si consumasse uno spettacolo terrificante che destò spavento e panico fra i presenti. Ad orchestrarlo sarebbe stato il rabbino Jehuda Löw che, con la sua lanterna magica, fece comparire gli antena-

Nella sua autobiografia, il grande regista svedese Ingmar Bergman racconta di quando, da piccolo, passava intere giornate a inventare storie per la sua lanterna magica. Uno strumento che, ai suoi occhi di bambino particolarmente creativo, permetteva di esercitare l’arte del fantasticare e di dar forma ai sogni di un immaginario alimentato dalle fiabe e dai racconti della nonna ti morti da tempo di Rodolfo provocando la fuga degli spettatori. Oggi che si parla tanto di violenza delle immagini, quasi fossero diventate un’entità autonoma rispetto alla nostra stessa capacità di utilizzarle e manipolarle, può essere veramente interessante fare un salto nel passato e conoscere l’antenato più affascinante e misterioso della straordinaria invenzione dei fratelli Lumière. È possibile farlo visitando il Museo del Precinema di Padova che custodisce la preziosa collezione di lanterne magiche Minici Zotti, fra le più pregiate e originali del mondo. Oltre a una grandissima varietà di proiettori, il museo raccoglie migliaia di antiche lastre di vetro dipinte a mano, databili fra la metà del XVIII e gli inizi del XX secolo. Un’occasione unica per mettere alla prova la nostra capacità di immaginare, attingendo ad un universo finzionale in cui la pratica del creare rappresentava, veramente, un processo dinamico e collettivo di condivisione di sogni.


L’inventore della luce Un ritratto letterario di Nikola Tesla di Michela Monferrini Anche Nikola Tesla è arrivato all’Expo di Milano, come già il suo datore di lavoro, poi antagonista, Thomas Edison all’Esposizione Universale di Parigi del 1889, occasione di cui restano alcune foto d’epoca che lo mostrano accanto alla moglie, accecato dal lampo della macchina Michela Monferrini fotografica. E “lampo”, forse è la parola che ha più a che fare con Tesla, il cui ritratto, nei mesi dell’Expo milanese, campeggia sulla parete di una grande sala della Triennale in cui è allestita la mostra “Arts and foods” che dell’Expo è una delle più interessanti appendici nel centro città. L’opera è firmata dall’artista bosniaco Braco Dimitrijević: una piramide di noci di cocco, l’una sull’altra, culmina contro il muro a sorreggere i ritratti dello scrittore Franz Kafka, del pittore Kazimir Severinovič Malevič e, appunto, dello scienziato Nikola Tesla. Dalle noci di cocco fuoriescono degli

Tesla? Domanda che si sono posti scrittori, registi, giornalisti, persino investigatori, sin dalla sua morte – avvenuta in solitudine, nel gennaio del 1943, in una stanza del New Yorker Hotel, impossibile dire con precisione in quale giorno – e che ancora oggi non trova una risposta chiara. Non c’è personalità del mondo scientifico del Novecento che abbia prodotto una tale curiosità, e così tanta letteratura, come quella che ha suscitato Tesla, che in effetti a un’esposizione universale c’era stato davvero, nel 1893 a Chicago, presentando nel primo padiglione dedicato all’energia elettrica le lampade luminescenti, progenitrici dei neon. Ma cosa giustifica tanta abbondanza di libri più o meno romanzati (a volte molto romanzati, seguendo le tracce di quel che della sua vita resta più misterioso); videogiochi; fumetti; serie televisive e film che lo citano apertamente o meno, quando non sono dichiaratamente e interamente dedicati al racconto della sua vita? La domanda è proprio quella: chi è Tesla, e perché tanta attenzione è ancora così viva? Negli ultimi anni, e quasi contemporaneamente (nel 2008 e nel 2012), sono uscite due biografie di Nikola Tesla che addirittura si rincorrono e si toccano dall’inizio alla fine. La prima, L’inventore

Ma cosa giustifica tanta abbondanza di libri più o meno romanzati (a volte molto romanzati, seguendo le tracce di quel che della sua vita resta più misterioso); videogiochi; fumetti; serie televisive e film che lo citano apertamente o meno, quando non sono dichiaratamente e interamente dedicati al racconto della sua vita? La domanda è proprio quella: chi è Tesla, e perché tanta attenzione è ancora così viva? strumenti musicali. Non è la prima volta che Dimitrijevič si dedica a queste tre figure, queste tre menti geniali, attraverso installazioni e video-installazioni. Su Tesla, in particolare, l’artista ha girato anche una serie di brevi video, filmati in cui viene raccontato lo scienziato cui così tanto deve ogni artista visivo contemporaneo, basti pensare all’uso e al ruolo del binomio luce/buio nell’arte contemporanea. Ma fin qui siamo nel “perché Tesla”. La domanda da cui invece parte Dimitrijevič nei suoi filmati è: Who is

Nikola Tesla nel laboratorio di East Houston Street a New York

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della luce (Alet), firmata da Samantha Hunt, è in realtà il racconto del ritrovamento di un’autobiografia fittizia di Tesla: fittizia perché mai esistita, ma seria, documentata, così che abbiamo la viva voce di un personaggio Tesla che ci racconta la sua vita. «Certi giorni dimentico di essere stato completamente dimenticato. Le stringo più forte il braccio. “[…] La fiera mondiale. Era il 1893. L’anno in cui l’America uscì dall’era del buio. Prima della fiera, l’elettricità era un privilegio per pochi, ma venticinque milioni di persone vennero a Chicago e videro White City; molte di loro non avevano mai preso un treno. Prima conoscevano solo il buio. Ma alla fiera il buio non esisteva”». L’altro romanzo lo ha scritto Jean Echenoz, autore francese che per la terza volta - dopo Ravel e Correre, quest’ultimo dedicato all’atleta Emil Zátopek -, con Lampi (Adelphi) sceglie un personaggio realmente esistito e ne ripercorre le vicende tra storia ed epica. A sorprendere non è tanto che escano due romanzi su una stessa storia a così poca distanza l’uno dall’altro: sono addirittura di più se vi si aggiungono opere di pura invenzione dedicate ancora a Tesla, che virano magari verso il thriller o la spy story (per quel che, a proposito della sua vita, resta davvero avvolto nel mistero). A sorprendere è semmai che questi due romanzi, per accostare una storia tanto complessa, curiosa, complicata come è sempre complicata la storia di uno scienziato e dei meriti che gli vengono o non gli vengono riconosciuti, iniziano e si fermano dagli stessi punti, così che incipit e finale sembrano – non certo per lo stile, quanto per contenuto - ricalcati l’uno sull’altro. Intanto il parto, la nascita di Tesla, che già ne sposta i contorni nello spazio del mito e della leggenda: parto nel bel mezzo di un temporale, che manda in frantumi i vetri delle finestre della casa in cui il bambino sta nascendo e che fa il paio con l’altro temporale, quello che apre il romanzo di Samantha Hunt: «Prima il fulmine, e poi il tuono. E, fra l’uno e l’altro, un segreto che mi torna alla mente. Ero piccolo e c’era un temporale». Quindi una serie di fatti, di racconti, noti e incredibili: il viaggio dall’Europa agli Stati Uniti,

il lavoro per Edison, gli esperimenti, i progetti; quindi il periodo dell’allontanamento da Edison e della rivalità, i duelli a suon di scoperte, di brevetti, gli incidenti diplomatici, il Nobel tanto atteso e mai ottenuto (non lo ricevettero né Tesla né Edison). E intanto: le allucinazioni, le visioni, gli esaurimenti nervosi, la solitudine (ebbe tuttavia una forte amicizia con lo scrittore Mark Twain), il totale disinteresse per il denaro e per le donne, la schizofrenia, le crisi ossessivo-compulsive. Fino alla fine: entrambi i romanzi, terminano su un volo di uccelli nel cielo di New York. «Dieci anni dopo» scrive Echenoz aprendo l’ultimo capitolo, «in attesa della posta che non è arrivata né prima né durante la guerra, non restano che i piccioni. Quelli che Gregor ospita, e poi sempre quelli di Bryant Park cui, scesa la sera, va a dare da mangiare del vecchio becchime in saldo».

«Prima il fulmine, e poi il tuono. E, fra l’uno e l’altro, un segreto che mi torna alla mente. Ero piccolo e c’era un temporale» È stata la sua ultima mania, quella dei piccioni che cercava di curare, quella del volo degli uccelli che studiava, come aveva studiato tutta la vita. Da qui nasce il mito e la necessità, per chi ne ripercorra le vicende, di appigliarsi a quel che è noto, di non avventurarsi: nel marasma di carte lasciate, di appunti sparsi, di esperimenti restati sul quaderno. Dopo la sua morte, ci si accorge che è lui l’inventore della radio, per la quale è stato assegnato il Nobel a Marconi. E, dopo la sua morte, ci si perde nel suo delirio fatto di armi potentissime di distruzione di massa, di tunnel spazio-temporali, viaggi nel tempo, teletrasporto. Ma è davvero delirio? Forse è proprio il tempo che, arrivando come a volte accade agli scienziati, dove già la mente di Tesla era arrivata, ci dirà chi era quest’uomo, lo trasformerà nel padre di un’ennesima scoperta, darà il suo nome a qualcosa, farà riscrivere tutte le biografie.


Materia evidente L'artista trasforma la realtà, non la crea di Alessandra Ciarletti

Robert Cook è uno scultore di fama internazionale le cui opere sono esposte a News York, Canberra, Gedda e numerosi musei. Entro nella sua casa un fresco mattino di primavera, Robert mi aspetta seduto su una poltrona spartana: alla sua età può permettersi di ricevere direttamente così, senza preamboli di rito e fronzoli di superficie. Mi siedo affianco a lui e mi offre un tè. Sono anni che conosco il suo nome e anni che contemplo un’opera sua e di Fabrizio Naggi, situata nell’angolo di una piazzetta del posto in cui vivo: uccelli in volo, uccelli che si inseguono in un cerchio che non ha inizio o fine. Tutto nel luogo in cui vive parla della sua arte, la scultura. Lo studio, il giardino, la casa: ogni ambiente ospita ed è emanazione di questa sua espressione artistica. Certo, ci sono anche molti quadri di artisti dell’epopea romana degli anni ’60-’80 del Novecento. Gente che ha conosciuto, con la quale ha lavorato, scherzato, bevuto al bar. Sì perché Cook è arrivato a Roma nell’immediato dopo-guerra e, grazie ad una borsa di studio che l’Accademia americana metteva a disposizione dei soldati, ha iniziato a lavorare dedicandosi con fortuna – come dice lui – esclusivamente alla scultura. Il suo studio era a via Margutta. Nei primi anni ’60 si trasferisce per i fine settimana in campagna, in una zona a nord di Roma, individuata da sua moglie Joan “casualmente”, disegnando un cerchio su una mappa del territorio intorno a Roma. Arrivano qui per i figli, per farli stare appena possibile in campagna, come ci tiene a precisare. E qui lui lavora anche. Durante il nostro incontro mi mostra numerose pubblicazioni sui suoi lavori e ce ne è una che mi colpisce particolarmente: The family album. Per anni ha ritratto e tradotto in bronzo la vita, il dinamismo, la crescita dei suoi due figli, Jenny ed Henry, fissando nel bronzo attimi irripetibili, la vita che si fa

Gli chiedo a un certo punto se fra tutte le sue sculture ce ne sia una che preferisca. Mi risponde immediato, Sansone. Mi fa cercare di nuovo un libro, lo sfogliamo insieme ed eccolo qui: un uomo dalla struttura energica, dinamica, colto nell’attimo dello sforzo supremo (…) L’uomo in atto. L’uomo che al massimo della sua espressione è in grado di superare tutti gli impedimenti, di credere soltanto all’infinito. Il piccolo sole dentro ciascuno di noi ché il movimento, che ne dica lui, è la sua cifra stilistica: non importa che si tratti di una danzatrice, di un atleta, di un cammello, quello che ne viene fuori è sempre e soltanto movimento: la vita è movimento, la vita è arte. Dice Cook. Come non essere d’accordo. Un altro tema da lui studiato molto è l’Albero della vita. Ce ne sono moltissime versioni, alcune in bronzo, altre in argento, numerosi bozzetti a matita. Ma è di nuovo uno che cattura il mio interesse: un cancello, per essere precisi, Arbor Vitae. E mi colpisce proprio per la sua struttura di porta: in effetti nella vita si entra e dalla vita si esce. Gli chiedo a un certo punto se fra tutte le sue sculture ce ne sia una che preferisca. Mi risponde immediato, Sansone. Mi fa cercare di nuovo un libro, lo sfogliamo insieme ed eccolo qui: un uomo dalla struttura energica, dinamica, colto nell’attimo dello sforzo supremo, quello che gli consente di buttar giù le colonne, colonne che non ci sono, c’è soltanto l’uomo, i suoi piedi ben piantati a terra e le braccia protese all’esterno, come se sprigionassero da sole un’energia in grado di abbattere qualsiasi forma di ostacolo. L’uomo in atto. L’uomo che al massimo della sua espressione è in grado di superare tutti gli impedi-

incontri

e si disfa. Queste opere, bellissime e commoventi sono tutt’oggi esposte al Mobile Museum of Art in Alabama. E ne guardo molte altre, animali di ogni specie, da quelli domestici a quelli più esotici, fino ad arrivare al Dinosauro esposto sulla 51°strada a New York. Gli chiedo come li scelga, mi risponde che non c’è un motivo razionale, semplicemente un colpo d’occhio, un frammento di curiosità che sente di dover indagare, così nascono i suoi movimenti di bronzo. Sì per-

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Le immagini sono tratte dal sito web dell’artista robertcook.org

menti, di credere soltanto all’infinito. Il piccolo sole dentro ciascuno di noi. Guardo una foto appesa al muro: lo ritrae affianco alla moglie all’ingresso del suo studio di via Margutta, anni ’60. Mi dice, non sembro nemmeno io, vero? Vorrei chiedergli cosa pensa della vita dall’alto della sua età, ma un pudore mi frena e forse anche la certezza che mi risponderebbe con laconica grazia che la vita è vita. E forse a un certo punto della vita non ci si pensa proprio più o non più come ci si pensava un tempo. Si guarda per quello che è e non è, con sorriso, con pienezza, se abbiamo dato spazio a ciò che siamo e, sicuro, anche con un pizzico di rimpianto. Gli chiedo cos’è per lui la luce, mi risponde: assenza di oscurità, materia evidente. Lo ringrazio e lo saluto. Ripercorro a ritroso il vialet-

to di erba appena segnato dal calpestio dei piedi e mi guardo intorno: natura piena, assolata, ventosa. Un buon luogo.


In sintonia con l’infinito ricordo creativo del genere umano di Fabrizio Naggi Conobbi Robert nel settembre del 1998 in modo del tutto casuale. Dopo aver avuto le indicazioni per arrivarci, mi presentai presso il suo studio a Canale Monterano, perché ero in cerca della pece Greca… «a cosa ti serve?». Mi domandò. Gli risposi che mi occorreva per poter preparare l’amalgama di cera per una scultura. E all’improvviso, dopo giorni di inutile ricerca mi ritrovai davanti un grande contenitore pieno di pece reca. Oggi è il 7 luglio del 2015 e ho ancora la fortuna di lavorare presso il suo studio. Non è semplice condensare tanti anni di quotidianità, di lavoro e di collaborazione con un maestro come Robert, posso però certamente affermare che è stata ed è tuttora, una esperienza fondamentale nella mia vita, umana e professionale. Vorrei sottolineare un aspetto che forse, per chi non si occupa di questo lavoro, potrebbe apparire secondario, ma non lo è a fatto: è il non aver segreti. Nel mio lavoro utilizzo diverse tecniche, da quella orafa a quella lapidea e anche quella ceramica e la nostra collaborazione ha sempre avuto una preziosa particolarità, quella cioè di riversare nel lavoro tutte le tecniche a nostra disposizione e nel condivide-

Interno dello studio di Robert Cook a Canale Monterano

re proprio l’aspetto al quale mi riferivo prima: la totale condivisione di ogni singolo grammo di conoscenza applicata all’arte. Con Robert ho imparato molto, moltissimo e non solo sulla natura stessa della scultura: la forma, il movimento, l’equilibrio tra il pieno ed il vuoto, ma soprattutto il ragionare in modo astratto senza nessun tipo di riferimento realistico e nell’inventare di volta in volta nuovi e diversi punti di vista, senza mai tralasciare lo studio teorico , necessario per ogni percorso evolutivo. Come considerazione personale ho compreso in tanti anni di lavoro che l’atto creativo non ha nulla del miracoloso o dello straordinario: credo che tutto ciò che l’essere umano riesce a creare esista già in un pensiero che, senza incertezza, definirei cosmico. Tutti noi esseri umani siamo potenzialmente dei creativi sin dalla nascita, nella fase evolutiva può accadere di dimenticarsi di questa qualità e alla fine credere nella propria incapacità di creare, di trasformare la realtà. L’artista forse è colui che non ha dimenticato e che in diversi modi è rimasto in sintonia con l’infinito ricordo creativo del genere umano.

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Acqua, luce, musica Intervista ad Alberto Tedeschi di Michela Monferrini In poche parole si forma uno strato, sulle superfici biologiche, che ha la consistenza simile a quella di un gel e che ci fa parlare di acqua “coerente”: gli elementi si organizzano in fase, tra di loro, e si muovono all’unisono esattamente come fossero persone che appartengono a un corpo di ballo; è una sinfonia: un grande ordine come nella musica classica, laddove l’“altra acqua” rappresenta il

Il vero e proprio salto di qualità tecnologico, in effetti, lo abbiamo registrato quando siamo riusciti a trarre vantaggio dall’organizzazione vegetale, guardando e utilizzando in vitro il modello della fotosintesi, prendendolo in prestito e passando da un tipo di acqua all’altro. Tutto questo rappresenta ancora la nuova frontiera del nostro lavoro

Alberto Tedeschi, ricercatore indipendente WHITE Holographic Bioresonance - Milano

Quanti tipi di acqua esistono? Cosa vogliono dire le parole “coerenza”, “memoria” e “organizzazione” se applicate al concetto di acqua? Lo abbiamo chiesto al prof. Alberto Tedeschi (ricercatore indipendente WHITE Holographic Bioresonance - Milano), che da diversi anni si occupa dello studio dell’acqua in biologia, nella materia vivente, e ha collaborato e lavorato a progetti che hanno già aperto nuovi orizzonti in campo medico, industriale e artistico. Cominciamo illustrando il concetto di “acqua” in modo un po’ diverso da come siamo abituati a pensarlo. La medusa è un esempio classico e perfetto per illustrare il valore dell’acqua che a noi interessa, poiché il contenuto interno al suo organismo è quantitativamente superiore a quello del contesto in cui vive e nuota, che è formato da un’acqua molto più “sporca”. Questo animale, quindi, ci permette di raccontare con un solo esempio i due diversi tipi di acqua esistenti. La sua acqua, l’acqua degli organismi biologici, ha infatti una caratteristica particolare che non è dell’acqua che conosciamo: si auto-organizza per un fenomeno detto “di risonanza”, che è stato molto studiato dal team del fisico Emilio Del Giudice, da me e dal prof. Giuseppe Vitiello, fisico teorico dell’Università di Salerno.

rock, il disordine. Qual è la differenza rispetto all’acqua che conosciamo? Quest’acqua, grazie alla sua coerenza, regola tutti i processi biochimici. L’acqua che beviamo, invece, ha una coerenza di tipo ordinario, non biologico. Sono due tipi di acqua diversi per stato di organizzazione. Non possiamo, per esempio, parlare di “memoria” dell’acqua per l’acqua che beviamo. Il nostro corpo, all’interno, vive moltissimi fenomeni biochimici, ma a fronte dell’elevato numero di questi fenomeni, ha uno scarsissimo quantitativo di scarti proprio perché il suo equilibrio è mantenuto dall’acqua biologica. C’è modo di utilizzare la proprietà auto-organizzativa di cui ci ha parlato al di fuori del mondo strettamente biologico? Se pensiamo al mondo dell’industria pensiamo a una realtà poco ecologica perché per il suo funzionamento dobbiamo immettere energia, mentre negli organismi biologici non c’è bisogno di potenza. Il vero e proprio salto di qualità tecnologico, in effetti, lo abbiamo registrato quando siamo riusciti a trarre vantaggio dall’organizzazione vegetale, guardando e utilizzando in vitro il modello della fotosintesi, prendendolo in prestito e passando da un tipo di acqua all’altro (si veda la pubblicazione scientifica del 2009, Water and the Autocatalysis in Living Matter, di Emilio Del Giudice e Alberto Tedeschi, Electromagnetic Biology and Medicine,


Vol.28 , issue 1, 46; NdR). Tutto questo rappresenta ancora la nuova frontiera del nostro lavoro. Ci sono state applicazioni in ambito medico? Sono stati fatti degli studi, e ci sono vantaggi di tipo clinico registrati per alcune patologie. Per esempio in dermatologia, per il trattamento della psoriasi cronica. E tutto senza utilizzare la chimica, ma solo acqua per uso topico. Viene sostituito il principio della potenza con il principio dell’organizzazione, e non è omeopatia perché seguendo questo procedimento non si diluiscono sostanze. Al momento stiamo studiando le applicazioni su linee cellulari di cellule staminali. Il prossimo traguardo speriamo possa essere arrivare a stati rigenerativi senza alcun uso della chimica. Qual è il contributo della luce, in questo campo? Come ho detto, prendiamo a modello il fenomeno della fotosintesi. Utilizzando fonti luminose che passano attraverso filtri specifici trasportando segnale biologico altamente organizzativo, attiviamo materiali intelligenti. Sempre per restare nell’ambito della cura della persona: prendiamo ad esempio la correzione della postura. Se noi illuminiamo punti ricettivi del corpo umano con questi fasci di luce (bastano pochi istanti), non solo possiamo migliorare la postura del soggetto, ma ne miglioriamo contemporaneamente anche l’espressione vocale, perché il corpo in relazione alla voce funziona da cassa di risonanza. Per questo motivo, in collaborazione con la dottoressa Annamaria Colombo (logopedista dell’Università di Brescia), ab-

biamo condotto degli esperimenti di “auto-organizzazione” della voce sui cantanti e abbiamo re-

Se noi illuminiamo punti ricettivi del corpo umano con questi fasci di luce (bastano pochi istanti), non solo possiamo migliorare la postura del soggetto, ma ne miglioriamo contemporaneamente anche l’espressione vocale, perché il corpo in relazione alla voce funziona da cassa di risonanza gistrato miglioramenti da un punto di vista vocale e musicale. Sono possibili applicazioni su materiale non biologico? Sì. Per restare in tema: abbiamo applicato questa metodologia agli strumenti musicali. Con i professori Bruno Oddenino del Conservatorio di Torino e Filippo D’Eliso del Conservatorio di Napoli, abbiamo curato un progetto di applicazione all’oboe, che è uno strumento fondamentale poiché da esso dipende l’orchestra. Dopo l’esperimento, abbiamo notato come fossero emersi tratti più coerenti, cioè avevamo dato una valenza biologica a materiale non biologico. Si aprono, dunque, nuove prospettive nel campo della creatività.


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Due esploratori, una cometa e oltre Il racconto della missione Rosetta

reportage

di Danilo Rubini Il 2 marzo 2004, oltre dieci anni fa, partiva Rosetta. Si staccava dalla superficie della Terra come carico di un lanciatore della massa di una villetta a due piani superando, di molte volte, la velocità di un proiettile di fucile. Era solo un «Ciao, io vado», visto che il percorso sarebbe stato epico. Danilo Rubini E di epico questa missione, più di altre missioni spaziali che spesso meritano questo aggettivo, ha davvero tanto. L’hanno chiamata comet chaser ovvero l’“acchiappacomete”, quando poi la cometa che insegue l’hanno chiamata the rubber-duck, la “paperella di gomma”, perché ne ha la forma. Chi scrive la chiama “caciocavallo” (ne ha la forma) e in vero si chiama 67P Churyumov-Gerasimenko. Usiamo metafore e similitudini per avvicinarci a ciò che ci è totalmente sconosciuto: solo perché la chiamiamo paperella o caciocavallo abbiamo un primo impatto fondamentale, per ricordarci che non c’è una seconda occasione per avere una prima impressione. L’acchiappa-comete, lo scorso 12 novembre 2014, ha acchiappato la sua cometa: è accometata, come quando sulla Terra si atterra, sulla Luna si alluna e su Marte si ammarta. In teoria l’accometare era verbo “esistibile” come potrebbe oggi esistere l’“applutonaggio”, per descrivere quel giorno in cui dovessimo giungere su Plutone, ma la legittimità di una tale espressione resta disquisizione teorica se poi non vi si arriva davvero: tra i suoi tanti esiti, la missione Rosetta ha battezzato, ha stampato, ha attivato l’accometare. Una piccola delusione: la “stella cometa” non esiste. La cometa non è una stella e viceversa. La stella cometa ci piace, ma è quella che completa i nostri alberi di natale, dorata o argentata, a cinque punte ed una coda lunga e seghettata alla fine. Orbene la cometa, quella vera, la coda ce l’ha ma non genera luce come una stella, la luce la riflette quando è vicina ad una stella come il Sole. La cometa vera non è caldissima come la stella; è invece un tozzo di ghiaccio sporco, quindi è fredda, anzi la coda che vediamo è lo sciogliersi (sublimare) della cometa al Sole. Oltretutto, la stella più piccola è enorme (il piccolo Sole ha un diametro di un milione e mezzo di chilometri), mentre il nucleo di una cometa è minuscolo in confronto, da centinaia di metri a qualche decina di chilometri. A

parte la bellezza astrofila e l’importanza astronomica delle due, nulla in comune tra stella e cometa, solo il fatto che visti da terra da millenni son sembrati piccoli fari luminosi nella notte, uno fisso e l’altro di passaggio con la coda. Nel nostro caso la cometa è quella inseguita ed il Sole è la stella attorno a cui gira tutto ciò. Rosetta è il nome della missione, come anche del satellite principale: la nave in viaggio che ha una massa di qualche tonnellata ed ha viaggiato per dieci anni prima di raggiungere la paperella; si è fatta dormite leggendarie di decine di mesi tra un incrocio e l’altro, per finire a centrare un ammasso di 4 km di ghiaccio sporco a 513 milioni di Km dalla Terra. Lo so, la misura sfugge allo stupore perché la distanza è troppo grande e perché il nostro cervello, pur bravo, efficiente e potente “stacca”: c’è scritto 513 milioni di Km. Per provare a chiarire, la Luna è a 380 mila chilometri dalla Terra, il chilometraggio di un diesel ben usato: l’equivalente di una scampagnata dietro casa contro il viaggio di Colombo, ignoto incluso. Se decidiamo allora di farci stupire, il passo succes-

Il 2 marzo 2004, oltre dieci anni fa, partiva Rosetta. L’hanno chiamata comet chaser ovvero l’“acchiappacomete”, quando poi la cometa che insegue l’hanno chiamata the rubberduck, la “paperella di gomma”, perché ne ha la forma. Chi scrive la chiama “caciocavallo” (ne ha la forma) e in vero si chiama 67P ChuryumovGerasimenko sivo da comprendere è la precisione. Nessuno se la beve la storia della scimmietta che di fronte alla Lettera 22, magari dopo tanti tentativi, casualmente, digita La Divina Commedia. Certo è statisticamente corretta, ma quando dovesse accadere, quel dì io non ci sarò più e anche di scimmiette se ne saranno successe così tante che ha senso chiederci se ci saranno più le scimmiette. Ed allora “in order to be a chaser” ovvero per prenderla davvero quella cometa, la precisione è un aspetto chiave e dipende da tantissimi fattori. Uno di questi è l’incrocio. Lì, alla «seconda stella a destra» e «poi dritto fino al mattino» del primo Bennato, sta l’incrocio che qui si chiama swingby. Lo swing-by o gravity-assist hanno contribuito a inventarlo, begli anni fa, due italiani, il prof. Luigi Crocco prima ed il prof. Giuseppe Colombo poi, ed è


La cometa 67P (Credits: ESA)

una manovra spaziale, qualcosa di simile ad una virata da lupi di mare dello spazio. Nel nostro caso lo swing-by o fionda gravitazionale è la manovra in cui Rosetta si avvicina alla Terra (o Marte), vi si “aggancia” con la forza di gravità senza toccarla, si fa trainare dal nostro pianeta per un po’ nel suo moto attorno al Sole sino ad accelerare e poi, presa velocità, schizza via. Nell’orbitare attorno al Sole, in dieci anni, Rosetta ha fatto quattro swing-by di cui tre con la Terra ed uno con Marte che ogni volta hanno incrementato e lanciato più lontano e più veloce il satellite stesso, fino all’ultimo in cui l’effetto fionda l’ha por-

Rosetta è il nome della missione, come anche del satellite principale: la nave in viaggio che ha una massa di qualche tonnellata ed ha viaggiato per dieci anni prima di raggiungere la paperella; si è fatta dormite leggendarie di decine di mesi tra un incrocio e l’altro, per finire a centrare un ammasso di 4 km di ghiaccio sporco a 513 milioni di Km dalla Terra tata ad allinearsi con l’orbita della cometa. Roba di alta precisione, che non ha nulla da invidiare alla precisione nelle piccole scale dimensionali della microelettronica. Rosetta nel 2014, con manovre finali che a vederle ricostruite in video sembrano quantomeno strampalate, si avvicina alla cometa, inizia a fotografarla. Ca-

piamo che non è un arancia ma un caciocavallo. Si comprende che tutta la teoria del ghiaccio sporco è eufemistica: il ghiaccio c’è ma vista da fuori è nera di polvere e sedimenti come la pece. Passano i giorni, si passa dalle prime foto della 67P a 20.000 km, a 200 km, poi 100 km, man mano si comprende che dal punto di vista dei planetologi questa “rubber duck” è davvero bella, ma anche che l’accometaggio sarà difficile, per la sua forma e le asperità. Finalmente Rosetta inizia ad orbitare attorno alla cometa. E questo è un evento. Mai l’uomo era entrato con un suo artefatto nel campo gravitazionale di una cometa per orbitarci attorno. Cioè la cometa va nella sua orbita ellittica con fuoco nel Sole e Rosetta la segue ruotandole attorno. Ci siamo riusciti. Accovacciato nel satellite Rosetta c’è il piccolo lander Philae di soli 100 Kg sulla Terra, ma di appena un grammo sulla cometa ed è lui che, come un piccolo Armstrong, staccandosi da Rosetta a 3Km/h ha lasciato casa-base per toccare, 20 Km dopo, la superficie di un nuovo suolo, quello di una cometa. A differenza di Armostrong sulla Luna, non ha detto nulla. Ha fatto blimp quando il sensore di contatto ha toccato la superficie. Un suolo mai toccato prima. Poi ancora sfide, ma una seconda intanto era vinta: accometati. Era il 12 novembre 2014 e c’eravamo. In fumetti l’accometaggio avrebbe fatto boing, perché Philae ha rimbalzato. Il suono nello spazio non si trasmette, quindi potrebbe apparire onomatopea forzata, ma il boing ce lo vogliamo: è quello dell’oggetto che arriva a 3 chilometri orari, a passo d’uomo, su una superficie che ha un campo gravitazionale minuscolo e pian piano si risolleva per fare due lunghi sal-

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Gravity Assist di Rosetta su Marte, 25.02.2007 (Credits: ESA)

ti prima di fermarsi ancora sulla papera. I due rimbalzi sono durati 1 ora e 50 minuti, un’eternità per chi attendeva a terra, per chi ha dedicato il meglio della sua vita lavorativa a questa missione, per chi, esperto o solo appassionato, coinvolge quella parte di cuore legata all’esplorazione umana così come alle questioni filosofiche che essa pone e risolve. Quando c’è stato il primo boing coloro che erano direttamente coinvolti nei centri operativi e gli appassionati hanno urlato, esultato, c’è chi ha pianto, abbiamo visto persone perdere l’aplomb di una vita, magari anche esagerando. Comprensibile. Apriamo una parentesi tra i rimbalzi: le tempistiche di queste missioni non hanno il ritmo di certi eventi televisivi e non solo perché ogni segnale dalla Terra a Rosetta (a 513 milioni di Km) impiega 28,5 minuti alla velocità della luce per arrivare sulla cometa e altri 28,5 minuti per tornare. Le tempistiche sono diverse perché ogni cosa, nello spazio, non ha la scala delle cose sulla Terra; l’evoluzione umana è basata su scale di sensibilità dimensionali, temporali o di velocità tipiche del nostro pianeta e non dello spazio fuori l’atmosfera: se vogliamo appassionarci dobbiamo metterci un po’ del nostro, in quanto ad approfondimenti ed immaginazione. Ma perché Philae ha rimbalzato? Perché alcune cose non hanno funzionato. È un infinitesimo dei rischi affrontati e superati in tutta la missione. Ma qualcosa non ha funzionato. Philae, staccatosi dalla cometa, avrebbe dovuto aprire i suoi tre piedi e lo ha fatto. Doveva toccare la superficie cometaria e si prevedeva che potesse rimbalzare esageratamente. Perché ciò non accadesse, già in fase di design, anni fa, ingegneri e fisici avevano previsto tre step in sequenza, in coincidenza col primissimo contatto, affinché il lander si potesse aggrappare alla superficie: 1) che fosse mantenuto premuto sulla superficie da un razzetto posto sulla sua sommità per una manciata di secondi, 2) che si arpionasse alla superficie della cometa tramite vere punte uncinate sparate nel ghiaccio

Philae pochi giorni prima del distacco fotografa la cometa e i pannelli solari di Rosetta (Credits: ESA)

e, dulcis in fundo, 3) che i tre piedi di Philae, dotati ognuno di punta rotante autofilettante, si avvitassero sulla superficie grazie alla preliminare pressione sul suolo cometario creata dai primi due step. Non è andata così. Il giorno prima della separazione si era testata la valvola di connessione tra il serbatoio di propellente del piccolo razzo superiore e la valvola di comando che avrebbe regolato lo sparo. Nulla aveva attraversato quella valvola, esito non nominale del test: il razzetto di testa non avrebbe funzionato (step 1). Così poi è stato. Le motivazioni sono oggi sotto analisi. Abbiamo, a questo punto, forse un’ idea di come lo spazio non sia proprio a portata di intuito. Aggiungiamo un altro elemento: le onde elettromagnetiche.

Accovacciato nel satellite Rosetta c’è il piccolo lander Philae di soli 100 Kg sulla Terra, ma di appena un grammo sulla cometa ed è lui che, come un piccolo Armstrong, staccandosi da Rosetta a 3Km/h ha lasciato casa-base per toccare, 20 Km dopo, la superficie di un nuovo suolo, quello di una cometa. Un suolo mai toccato prima. Poi ancora sfide, ma una seconda intanto era vinta: accometati. Era il 12 novembre 2014 e c’eravamo Alcune onde elettromagnetiche ci nutrono, ci danno ossigeno (fotosintesi) e ci permettono la vista (onde luminose); altre, se ben usate, ci aiutano nelle diagnosi e terapie (raggi X), su altre si basano radio, televisione, wi-fi (onde radio e microonde) e così potremmo andare avanti per molto. Ciò che è forse meno intuitivo è che alcune onde ci possono uccidere,


L’acqua (Credits: ESA)

Il lander Philae immaginato nella fase di accometaggio (Credits: ESA)

anche in breve tempo. Son quelle potenti, ad alte energie, che qui non riceviamo anche perché evolvendo sotto l’atmosfera l’umanità ha potuto fare a meno di dover difendersi da queste. Sono i raggi gamma, gli X ed i raggi cosmici che entrano nella materia e possono trasformarla a livello molecolare ed atomico. Un potere enorme. Tutto ciò che vola nello spazio va testato su tanti aspetti prima di partire considerando che poi là fuori non sarà possibile ef-

Perché tutta questa missione? L’acqua è la chiave. Per l’esistenza della vita nelle modalità che ne conosce l’essere umano, la presenza di acqua è condizione necessaria. Ora l’acqua non è così frequente nei pianeti interni del sistema solare, tantomeno nel Sole, al contrario, trilioni di piccoli ammassi ghiacciati presenti nel sistema solare detti comete, ne sono pieni. Le comete sono una chiave della soluzione dei quesiti da dove veniamo e di chi siamo figli. Da qui il nome Rosetta, come l’omonima Stele che fu la chiave di traduzione per decifrare il geroglifico egizio dal greco fettuare alcuna manutenzione. I pirotecnici nello spazio sono tutti i sistemi di attuazione che si basano su esplosivi: gli arpioni di Philae si basavano sui pirotecnici e, quando Rosetta è stata assemblata, i pirotecnici testati per lo spazio pare fossero qualificati per una durata di cinque anni. Non si sapeva se ce l’avrebbero fatta in dieci anni di bombardamenti di radiazioni ad alta energia. Era un rischio, con quelle condizioni la soluzione non c’era, si è tentato e… non ce l’hanno fatta, un’ipotesi probabile in analisi è: radiazioni, trasformati dentro (step 2). Due rimbalzi. Philae non si sarà aggrappato ma sulla cometa c’è tornato e si è anche poggiato alla fine.

Purtroppo non si è poggiato al Sole come si sperava e le batterie secondarie alimentate dai panelli solari non sono riuscite a fare il loro dovere, non inizialmente almeno. Philae però aveva delle batterie primarie non ricaricabili con le quali ha cercato di fare tutti gli esperimenti, foto ed analisi ritenuti prioritari. Li ha inviati a Rosetta, vero potente cuore della missione, che li ha quindi inviati a casa-Terra insieme alle altre moltissime analisi che ha fatto, che ancora sta facendo ed inviando. Intanto gli scienziati li studiano, ipotizzano, confermano, negano e, a noi frementi, faranno sapere. Ma che cosa? Perché tutta questa missione? Solo per fare una cosa difficilissima che non si era mai fatta? Anche, ma non basta. L’acqua è la chiave. Per l’esistenza della vita nelle modalità che ne conosce l’essere umano, la presenza di acqua è condizione necessaria. Ora l’acqua non è così frequente nei pianeti interni del sistema solare, tantomeno nel Sole, al contrario, trilioni di piccoli ammassi ghiacciati presenti nel sistema solare detti comete, ne sono pieni. Le comete sono una chiave della soluzione dei quesiti da dove veniamo e di chi siamo figli. Da qui il nome Rosetta, come l’omonima Stele che fu la chiave di traduzione per decifrare il geroglifico egizio dal greco. L’acqua ghiacciata ha conservato tracce della sua storia e di quella del sistema solare quando si è formato. Per rimanere nell’anti-intuitivo, lasciamo che per una volta sia anche lo sporco quello che ci interessa: componenti e molecole, altrimenti trasformati dalle ruvide condizioni dello spazio profondo, nel ghiaccio si son potuti mantenere meglio che in altre condizioni. Ecco perché. Perché nello spazio basta allungare un attimo la mente e si trovano subito, dai problemi fisici, le domande filosofiche ed esistenziali dell’umanità. Lì nell’infinitamente grande. Lì nel grande, così come a Terra le si possono cercare nell’infinitamente piccolo, ma in generale forse nel cercare di comprendere cosa c’è al limite verso l’infinito, avvicinandoci passo dopo passo. Bene ed ora? Beh, partiamo da Rosetta: è lì che orbita in prossimità della paperella e lo farà finché avrà propellente e sistemi operativi attivi. Continua ad analizzare la cometa soprattutto nella sua transizione in avvicinamento al Sole inviandoci enormi moli di preziosi dati. E Philae? Philae prima ha dormito.

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Quando si è fermato sulla cometa aveva un terzo della luce necessaria per attivare i suoi sistemi di batterie secondarie, quindi è entrato in stand-by senza energia. Man mano che la cometa si è avvicinata al Sole questa luce è aumentata di intensità. Quindi si è svegliato. Prima del 14 giugno 2015, per oltre sei mesi dai giorni successivi all’accometaggio, nessun segnale, poi il blimp sperato: Philae si è risvegliato ed ha inviato alcune sequenze di dati. È ancora debole, non ha le batterie cariche, ma questo contatto è cruciale e ci fa stimare che, avvicinandosi al sole, aumentando luce e temperatura, ci saranno sempre migliori condizioni di carica dei pannelli solari e di calore per far tornare in attività le batterie. Il 15 agosto 2015 la cometa sarà nelle condizioni di perielio e con il massimo La Stele di Rosetta di illuminazione solare. Ciò vuol dire che se il blimp è giunto a due mesi dal perielio in teoria potremmo avere quattro mesi di operatività (due in avvicinamento e due in allontanamento). Operatività vuol dire mandare comandi da Terra tramite Rosetta per cercare di carotare meglio il suolo cometario, estrarre dati ed immagini e re-inviarli a noi. Quando si è perso il contatto con Philae, non si sapeva se sarebbe riuscito a trovare queste condizioni sufficienti di luminosità. C’è riuscito, è un altro gran-

Rosetta figurata mentre rilascia Philae per l’accometaggio

de momento, ora bisogna considerare che la sublimazione della cometa, avvicinandosi al Sole, porta sempre maggiori emissioni di gas cometario insieme ad esplosioni di bolle di gas compresse appena sotto la superficie: ciò potrebbe anche far schizzare via Philae. Vedremo. La saudade è quella particolare forma di nostalgica attesa delle donne portoghesi che per mesi aspettavano il ritorno dei loro uomini partiti per esplorazioni ai limiti del mondo conosciuto, un sentimento in cui si confondevano la paura di non rivedere il proprio amato, con la nostalgia dei tempi passati, ma anche e soprattutto con la realistica speranza di vederlo tornare, magari anche dopo aver vinto alla lotteria delle nuove ricchezze nella scoperta delle terre ignote. Mutatis mutandis, è forse allora un qualcosa che sa di saudade quella che alcuni tra gli appassionati provano per i nostri due esploratori Philae e Rosetta, con anche il desiderio quindi che la sfida continui sapendo che non tutto dipende da noi qui sulla Terra, ma da qui si sogna, si prevede, si progetta, si parte e si continua. Oltre. L’autore e la redazione ringraziano coloro che hanno fornito contributi per il presente articolo e le Agenzie Spaziali principali: ESA, ASI, CNES e DLR.


Palladium Teatro Palladium e Roma Tre Film Festival. Una casa del cinema con la testa nell’università

Il Palladium è una delle più belle scommesse del nostro Ateneo: sta sempre più proponendosi come luogo di incontro della città e del territorio in cui si è radicata Roma Tre (Garbatella, Ostiense, Mattatoio), per il teatro, la musica, il cinema. Anche il cinema dunque (e intendo un cinema “espanso”, ibridato con televisione, video, documentario, new media, arti elettroniche e digitali) propone con forza la sua presenza al Palladium; che del resto era, una volta, una nota sala cinematografica della Garbatella (il mio primo ricordo cinematografico romano è una emozionante visione di King Kong proprio al Palladium). Nel piccolo gioiello del Teatro di Roma Tre, dunque, si è potuto assistere in quest’anno accademico a festival cinematografici come Asiatica e Arcipelago, ad incontri con autori, per lo più “al femminile” come quelli con Wilma Labate, Antonietta De Lillo, Sabina Guzzanti o quello in ricordo della femminista ante litteram Sofia Scandurra; a premi di grande richiamo di pubblico come quello del cinema per la pace o la “pellicola d’oro” (premio alle professioni del cinema). Il Palladium è diventato e ambisce a diventare sempre più un luogo di incontro per cineasti, autori, artisti del cinema, giovani interessati alla politica cinematografica; un’altra “Casa del Cinema” con una testa universitaria. Ebbene, una delle manifestazioni che si sono radicate negli anni al Palladium è il Roma Tre Film Festival, che è nato più di un decennio fa dalla voglia di dare immagine, voce e spazio ai moltissimi studenti del Dams di Roma Tre e dei vari Dams italiani desiderosi di cimentarsi con la produzione audiovisiva. Dapprima nacque una “Carta Bianca Dams”, una selezione di corti ospitata dal festival romano Arcipelago;

da questo spazio originario venne l’esigenza di rendersi autonomi, ed ecco il Dams Film Festival. Infine il formato attuale, con alcune giornate primaverili al Palladium, spesso in combinazione con convegni (come quello del Crisa dell’anno scorso sul mito nelle Americhe) e tavole rotonde. Dal 5 al 10 maggio di quest’anno si è svolta la decima edizione di questo festival(che quindi diventa in qualche modo “maturo”), da me ideato e diretto; un evento cinematografico che da un decennio anima lo storico quartiere della Garbatella, presentandosi come un appuntamento costante nel panorama artistico romano. Il Roma Tre Festival cerca non solo di dare visibilità alle opere di giovani registi emergenti, ma di confrontarsi anche con personalità di varie generazioni di autori, specialmente provenienti dal mondo dell’educazione all’immagine. In questo senso, voglio segnalare tra gli ospiti dell’edizione di quest’anno la presenza del regista Emanuele Crialese che ha tenuto un workshop condotto dallo psicanalista Giulio Casini, dal titolo La forma dell’anima. Luoghi psicologici nel cinema di Crialese, concludendo la serata con la proiezione del suo film Nuovo mondo. L’evento (curato dalla Libera Università del Cinema, fondata dalla compianta Sofia Scandurra, in collaborazione con Roma Tre), ha rappresentato un’occasione irripetibile per incontrare il regista di Respiro e di Terraferma e per riflettere in profondità sul suo cinema. Con generosità Crialese ha approfondito i temi del suo “mondo”, stimolato da un maieutapsicanalista, ed ha consentito al pubblico di entrare in un universo affascinante, quello della creatività di un indiscusso Autore. Accanto al works-

Rubriche

di Vito Zagarrio

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hop di Crialese, studenti e pubblico comune hanno potuto assistere ad altre due Masterclass: una sulla colonna sonora per il cinema condotta da Lele Marchitelli e un’altra sulla fotografia di Robert Capa tenuta da Patrizia Genovesi. E poi tanti eventi da godere: una tavola rotonda su Francesco Rosi, Maestro da poco scomparso; l’anteprima romana del documentario di Susanna Nicchiarelli Per tutta la vita, coprodotto dall’Università Roma Tre, e il docu di Wilma Labate Qualcosa di noi, ancora due film all’insegna di quel “cinema al femminile” di cui parlavamo. All’insegna delle ibridazioni tra cinema, musica e teatro sono state concepiti la serata curata da Luca Aversano, con la sonorizzazione dal vivo del film Assunta Spina (1915) con l’Orchestra dell’Università di Parma, il film di Mario Sesti Senza Lucio dedicato a Lucio Dalla, e lo spettacolo Romavarietà di Fabrizio Russotto e Gilberta Crispino. Oltre agli incontri e ai dibattiti che si sono svolti quotidianamente, il Festival ha ospitato anche il concorso di cortometraggi Carta bianca DAMS, in collaborazione con la rivista online di cinema “Movieplayer.it”, grazie al quale i giovani registi hanno potuto confrontarsi con il pubblico. Si tratta di una competizione aperta a tutti gli studenti dei DAMS italiani, come anche a neolaureati, dottorandi e dottori di ricerca che abbiano condotto studi in campo cinematografico o in settori affini; il concorso si propone principalmente di dare visibilità alle opere di giovani registi emergenti, che faticano a trovare una vetrina in cui esporre e pubblicizzare i propri lavori. La sala del Teatro è diventata il luogo in cui i giovani registi potranno presentare e commentare le proprie opere, davanti ad un ampio uditorio di esperti del settore ed appassionati, dando vita ad una rassegna cinematografica vivace e unica nel suo genere. All’interno di questa suggestiva cornice, si è svolta anche la serata conclusiva dell’evento, durante la quale sono stati annunciati e premiati i vincitori. Come detto, l’edizione di quest’anno vantava la collaborazione con la rivista online di cinema Movieplayer, che ha messo a disposizione dei cortometraggi ammessi in concorso una sezione speciale del proprio sito internet, quale vetrina permanente per le opere e per i registi selezionati, nell’ottica di individuare e coltivare quei ta-

lenti in erba che diventeranno le eccellenze future del cinema italiano. Movieplayer ha assegnato anche un premio speciale, il Movieplayer Award, fornendo ai corti che risulteranno vincitori anche una piattaforma affidabile, professionale e con un ampio seguito di pubblico, nella quale esporre il proprio lavoro stabilmente e nella sua interezza. Il concorso prevedeva tre categorie a tema libero: documentario, finzione, web series. Questi i vincitori: - Miglior Corto di finzione-Movieplayer Award a Yek rob’- Un quarto di Aliasghar Behboodi «per la sua tematica sociale e per la consapevolezza con cui affronta le problematiche del gender e della religione». - Miglior Documentario a Perché non parli? di Claudio Russo «per l’originalità del soggetto e l’atipicità della forma, che conferma quanto siano labili i confini tra documentario, film di finzione e film sperimentale». - Migliore Web serie a Eskimo di Ilary Artemisia Rossi «per la sua capacità di rappresentare una realtà lontana nel tempo eppure attuale nell’immaginario giovanile contemporaneo». La giuria ha deciso all’unanimità di premiare i registi di questi corti per la vivacità intellettuale, la spiccata qualità artistica e tecnica e la capacità di parlare con rispetto e trasparenza di tematiche tanto attuali quanto difficili. Il concorso, insomma, aspira a diventare un trampolino di lancio per i registi di domani; di essere un collegamento diretto tra il terreno fertile delle università italiane e il mondo dell’industria cinematografica nostrana ed estera, cercando non solo di dare visibilità alle opere di giovani registi emergenti, che faticano a trovare una vetrina in cui esporre i propri lavori, ma accogliendo anche numerosi ospiti e personalità del settore, all’interno di serate incentrate sul grande cinema d’autore. Scommessa sul futuro e memoria del passato, tutto questo è il Roma Tre Film Festival. E io spero che l’accoppiata RM3FF e Teatro Palladium di Roma Tre possa continuare a dare i suoi frutti, a segnalare generazioni di filmmakers del futuro come ha già fatto negli anni passati; a diventare luogo importante di incontro di generazioni, momento di scambio di culture alta e popolare.


Post Lauream Il Perfezionamento in Giornalismo di moda: un percorso tra web e tradizioni identitarie di Maria Catricalà Dalle passerelle alla virtual dressing room, dallo street style alle tv tematiche, dalle rubriche del tg ai blog e al new web journalism: è noto che, nel giro di pochi anni, gli spazi della comunicazione di moda si sono moltiplicati in maniera imprevedibile e che, parallelamente, forme, strutture e norMaria Catricalà me di riviste, servizi fotografici, video, cataloghi di vendita e cartelle stampa sono venute sempre più spesso a riconfigurarsi attraverso l’ibridazione di codici e linguaggi. Come in altri campi, anche nel giornalismo di moda, l’impatto delle nuove tecnologie ha modificato le procedure di elaborazione e diffusione dei testi, quanto fonti e destinatari, strumenti e format. Delle nuove competenze del giornalista di moda si discute ampiamente in sede accademica e i centri di formazione, i corsi di laurea e i master non mancano anche nella nostra regione. Il Perfezionamento in Giornalismo di Moda di Roma Tre vuole offrire una opportunità in più ai giovani laureati e agli addetti ai lavori, interessati a conoscere sempre meglio le linee tendenziali della rivoluzione in atto, attraverso un percorso non particolarmente impegnativo per il carico didattico (corrispondente a 17 cfu) , ma molto efficace per i temi e i problemi focalizzati e per la metodologia didattica prescelta. I moduli previsti sono ascrivibili a cinque aree disciplinari fondamentali (sociologia della comunicazione, marketing, informatica, linguistica ed estetica) e sono in tutto sette, per un totale di circa cento ore di lezione in presenza. Si studia: 1) Word Design, Global Fashion ed elementi di storia della moda; 2) Estetica, arte e codici della moda; 3) Moda e tv; 4) Multigiornalismo di moda; 5) Moda e web; 6) Moda e Marketing; 7) Lingua inglese “di moda”. La metodologia didattica dell’intero corso è quella del project work: ogni modulo, infatti, prevede che, oltre la lezione frontale, si svolgano attività applicative e seminariali finalizzate a progettare, organizzare e realizzare un convegno su uno degli argomenti più rilevanti e dibattuti fra quelli esaminati dai docenti. Il fine è evidentemente quello di coinvolgere i corsisti in maniera attiva e partecipativa, nonché quello di sviluppare le loro abilità attraverso una esperienza di apprendimento/insegnamento basata sul paradigma

dell’imparare a fare informazione costruendo oggetti, testi e messaggi e non solo studiandone la teoria di fondo, i criteri di elaborazione e le grammatiche. Un tema comune ai diversi moduli e fil rouge del piano curricolare caratterizza in particolare la natura accademica della nostra proposta formativa, che è maturata all’interno del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo ed è comunque supportata dai rappresentanti di aziende e media, che fanno parte del comitato scientifico. Si tratta della specifica riflessione sul ruolo e la funzione che il giornalista di moda ha, può e deve assumere oggi rispetto al nostro straordinario patrimonio vestimentario e nei confronti dell’arte “di abbigliarsi” di altre tradizioni e culture. Paradossalmente, infatti, proprio oggi che abbiamo gli strumenti più adeguati per raccogliere, inventariare e diffondere ogni tipo di informazione relativa alle origini e alle valenze simboliche del sistema della moda, proprio ora il rischio maggiore è diventato quello che l’abito, sempre più deterritorializzato, si svuoti della proprie valenze identitarie e diventi elemento di un codice non più accessibile e decodificabile. Il ruolo del giornalista è per noi anche quello di contribuire a mantenere viva e vera la conoscenza e la memoria del significato di ogni singola scelta cromatica o tessile, di ciascun ricamo o accessorio. Nel corso, quindi, si apprende non solo che tali elementi possono essere chiavi di accesso importanti per la storia dell’arte, per la interpretazione dei testi letterari o per la ricostruzione delle vicende sociali di una comunità o di singoli gruppi, ma anche come il giornalista di moda possa utilizzarli a fini narrativi ed esplicativi, come saperi sedimentati e segni di una precisa cultura.

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Master in Salute e sicurezza negli ambienti di lavoro in sanità di Silvia Conforto

Per parlare oggi di Salute e Sicurezza negli ambienti di Lavoro (SSL) occorre superare l’impostazione classica basata sull’equilibrio tra logiche finanziarie e politiche tese al miglioramento degli standard lavorativi. Infatti, se gli attuali tempi di crisi e c o n o m i c a n o n p e rSilvia Conforto mettono di sottovalutare l’impiego di risorse finanziarie, a maggior ragione non è ammissibile trascurare ciò che gestioni nazionali non adeguate possono provocare in termini di costi secondari – tra il 2,6% e il 3,8% del PIL per incidenti sul lavoro e malattie professionali secondo EU-OSHA – “Estimating the cost of accidents and ill-health at work: A review of methodologies”, 2014 – e di mancati vantaggi. Tra questi ultimi possiamo ricordare: il miglioramento della produttività riducendo le assenze per malattia; la riduzione dei costi dell’assistenza sanitaria; la promozione di metodi e tecnologie di lavoro più efficienti; il mantenimento in attività dei dipendenti più anziani; la riduzione dei fattori di rischio per lavoratori giovani (18-24 anni) che risultano una delle categorie più esposte ad incidenti a causa della scarsa esperienza. Volendo progettare strategie tese a favorire gli aspetti sopra elencati, occorre adottare opportune misure di prevenzione e protezione dai rischi, che solitamente conducono a modifiche dei processi e degli ambienti lavorativi. Lo studio e l’applicazione efficace delle suddette misure se da un lato richiedono competenze e sensibilità tecniche specifiche, dall’altro necessitano sempre e comunque del consenso attivo e partecipe di tutti gli stakeholder interni ed esterni all’azienda. Ciò è subordinato alla diffusione della cultura della SSL: a tal fine occorre capillarizzare e contestualizzarne i contenuti, ad esempio, favorendone l’inserimento sistematico nell’istruzione di ogni ordine e grado per divulgare i concetti di base e diffonderli nella vita quotidiana. Purtroppo l’integrazione dei principi della SSL nell’istruzione superiore, soprattutto universitaria, è a oggi poco sviluppata e ancora insufficiente nonostante ai futuri professionisti

sia comunque richiesto di padroneggiare tale materia nella propria attività lavorativa (EU_OSHA, “Mainstreaming OSH into university education”, 2010). Il Dipartimento di Ingegneria dell’Università Roma Tre e l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù hanno raccolto la sfida di diffondere tale cultura e hanno progettato e istituto in convenzione il Master di II livello in Salute e sicurezza negli ambienti di lavoro in sanità. Tale Master si propone di formare figure professionali di elevata competenza nell’ambito della SSL, con particolare riferimento al settore sanitario. Infatti, le strategie di prevenzione negli ambienti sanitari, luoghi ad alto rischio intrinseco sia per la presenza dei pazienti sia per l’impiego molto diversificato di tecnologie avanzate da parte di personale eterogeneo, richiedono ancora oggi consistenti integrazioni e miglioramenti sia tecnici che gestionali, nonostante gli interventi normativi del settore – il dato INAIL del 6% di riduzione degli infortuni in ambito sanitario dal 2000 è da interpretarsi alla luce dei tagli del personale – e quindi, nella loro attualità, necessitano il supporto di figure professionali specifiche e di adeguata competenza. Il Master si rivolge specificatamente alle professioni deputate alla sicurezza nelle strutture sanitarie, e coinvolge come partner del progetto formativo l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), l’Ordine degli ingegneri della Provincia di Roma, l’Università cattolica del Sacro Cuore e la Luiss Business School. Il percorso formativo si dipana su un contesto didattico multidisciplinare di ampio respiro, ottimale per lo sviluppo di quelle competenze trasversali che consentono il raggiungimento di una preparazione specifica nelle strutture sanitarie. Al termine del percorso formativo, i partecipanti acquisiranno non solo il titolo di Master di secondo livello, ma avranno la possibilità di conseguire contestualmente anche un ampio insieme di attestati e abilitazioni richiesti dalla legge al fine dell’esercizio della professione nel settore. Per dettagli su attestati e abilitazioni, nonché per avere informazioni specifiche sui destinatari, l’organizzazione della didattica, le modalità di partecipazione e la possibilità di accedere a agevolazioni per la copertura anche parziale della quota di partecipazione, il riferimento è http://mastersalutesicurezza.uniroma3.it.


Non tutti sanno che Dialogo sulla luce. Viaggio nei modi di percepire il mondo di Gabriele Sacchi e Ursula Grubenthal Un percorso comune di crescita Gabriele Sacchi: Sono uno studente laureando nel cdl di Formazione e sviluppo delle risorse umane del Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università Roma Tre e sono “cieco”. Ho conosciuto Ursula come tutor del SerUrsula Grubenthal vizio di tutorato per studenti con disabilità attivo nel nostro Dipartimento. Per far fronte agli ostacoli legati al mio deficit visivo abbiamo elaborato strategie per rendere accessibili i materiali didattici, registrando i testi d’esame e ci siamo confrontati con i docenti per concordare le modalità di svolgimento più idonee per alcuni esami; recentemente abbiamo collaborato nel progetto del mio tirocinio nella Biblioteca di scienze della formazione elaborato in collaborazione con il Servizio di tutorato. L’esperienza è consistita nelle attività di servizio al pubblico, di verifica dell’accessibilità dei software di gestione e del nuovo sito web del Sistema bibliotecario di Ateneo, di elaborazione di linee guida per il progetto, sviluppatosi proprio in seguito alla creazione di alcuni documenti a mio uso e nato in biblioteca per fornire a studenti non vedenti, ipovedenti e con disturbi specifici di apprendimento, materiali didattici accessibili realizzati da altri studenti tirocinanti per lo più lavoratori e fuori sede. Ho affrontato questo avvicinamento ad un contesto di lavoro con una buona base di partenza, perché ho avuto modo di formarmi in un contesto sociale e scolastico serio e stimolante; anche all’università i docenti, il tutorato e i compagni di corso mi hanno permesso di affrontare il percorso con serenità, di svolgere gli esami con gli stessi tempi degli altri studenti, di seguire la programmazione prevista senza variazioni, ma soprattutto di stringere nuovi rapporti sociali, cosa che ha sempre costituito nella mia vita un punto di forza. Ho cominciato ad utilizzare gli ausili specifici come il braille, il computer con sintesi vocale e il bastone bianco solo da poco tempo: studiare insieme ai miei amici e condividere le esperienze di vita ha sempre caratterizzato la mia persona e mi rende oggi tranquillo, sereno, parte della società. Il confronto con il contesto lavorativo ha creato la consapevolezza di dover perfezionare il mio utilizzo degli ausili per gestire anche attività più complesse

come l’integrazione tra l’utilizzo del software vocale e la ricerca bibliografica, la navigazione sul web dato che tutt’ora, nonostante le disposizioni normative, le risorse del web non sono sempre completamente accessibili. Riflessioni sui sensi e sulla percezione Gabriele Sacchi Ursula Grubenthal: Il nostro percorso insieme è stato caratterizzato dalla volontà e dal tentativo di capirci, di confrontarci sui rispettivi punti di “vista”, sui modi di percepire. Ci siamo confrontati sulla percezione con i cinque sensi, discutendo della predominanza - nella nostra società - del senso visivo, che si impone automaticamente. Attraverso l’esperienza con te ho cominciato a focalizzare l’attenzione su aspetti che sinora non avevo considerato, come per esempio il fatto che anche con le scarpe si senta la “consistenza” del suolo. GS: Si, c’è stata la volontà di conoscersi – scoprirsi raccontarsi; entrambi abbiamo cominciato a mettere una parte di noi nel mondo dell’altro. Tu dovevi capire le risorse e gli appigli da cui io mi muovo per vivere le mie esperienze, ed io ho cominciato ad apprezzare la tua capacità di rielaborare le esperienze vissute, per farne motivo di apprendimento. Lo scambio è stato continuo e il dialogo soprattutto partecipazione di ciò che è l’Altro. La percezione della luce UG: Uno dei nostri punti di riflessione è stata anche la luce. Mi sono chiesta: come percepisci la luce? GS: Nel mio caso la cecità non è congenita, bensì è sopraggiunta all’età di 2 anni, con un tumore ai nervi ottici in concomitanza alla leucemia. Non ho perso totalmente la vista, mi rimane un bassissimo residuo nell’occhio destro di circa un cinquantesimo. Quindi percepisco la luce, ma riesco a percepire anche molto di più, perché ho anche il campo perimetrico: pur essendo ristretto, mi consente di avere percezione degli ambienti attorno a me e di avere una visione d’insieme degli oggetti e delle persone. Tra i vari oggetti riesco a fare classificazioni perché, non solo ho modo di sperimentarne forma e consistenza con il tatto ma

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riesco a vederli purché si trovino a distanza ravvicinata e davanti a me o alla mia destra, perché il sinistro è l’occhio privo di vista e con esso non riesco a percepire nulla. Il residuo visivo è anche utilissimo perché grazie ad esso non solo memorizzo la direzione da prendere, ma la inserisco in una vera e propria mappa che integro con i segnali visivi, uditivi, olfattivi e tattili. UG: Quindi è per il tuo residuo visivo che utilizzi gli occhiali da sole? GS: Certo, altrimenti rimango accecato dal sole. Il sole in fronte, infatti inibisce il mio strumento prioritario di orientamento, che è visivo, pur essendo ridottissimo, a differenza delle persone completamente non vedenti. La luce per me è il segnale che ho sempre percepito e sebbene con tante limitazioni, mi consente di sapere come è fatto il mondo: non solo di immaginarlo! Se chiudo gli occhi, il destro diventa buio e vede nero, ma nel sinistro, che è l’occhio completamente cieco, c’è nebbia grigia. UG: Effettivamente da vedente ci si chiede spesso: che cosa “vedono” i ciechi? È assurdo, ma anche in questo, la logica visiva si insinua. Probabilmente è una questione individuale e ogni non vedente “vede” qualcos’altro. Un nostro compagno di università, Benigno, che ha perso la vista solo qualche anno fa, ci ha detto di percepire un bianco sporco che con le emozioni forti diventa buio, nero. GS: Giuliano mi racconta di vedere nero, ma con macchie di luce; Laura dice di sentirsi chiusa, dentro un mondo di ovatta. UG: Parlando della luce ci ha effettivamente lasciati un po’ perplessi il passaggio diretto luce - buio – cecità, quindi l’associazione automatica tra cecità e buio. Ricordo che nel libro di José Saramago Cecità, l’uomo, appena diventato cieco, dice «Niente, è come se stessi in mezzo a una nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte» e la persona accanto gli dice, «ma la cecità non è così – dicono sia tutto nero», e il cieco risponde, «Invece io vedo tutto bianco». GS: Il bastone per non vedenti è bianco. Potevano farlo giallo, o fosforescente o di qualsiasi altro colore richiami l’attenzione. È

stato scelto il bianco. Il bianco come metafora di luce, nel nero della cecità? UG: Anni fa c’è stata un’iniziativa che ha fatto il giro di molti paesi. Si chiamava “Dialogo nel buio” ed era un allestimento che tentava di comunicare le rappresentazioni e le percezioni non visive dei ciechi ai visitatori vedenti che, armati di un bastone bianco, venivano guidati da persone non vedenti in un percorso predisposto al buio. GS: Ricordo un’altra iniziativa: le “cene al buio”, servite da camerieri non vedenti. UG: Forse la metafora del buio arriva dal fatto che un vedente vive la dimensione del non vedere soprattutto attraverso il buio, di notte o in una stanza senza luce. Penso che tutti abbiano chiuso gli occhi almeno una volta, per provare a muoversi come un cieco. Il buio, di fatto, è la possibilità per i vedenti di escludere il senso visivo! Potrebbe essere questa l’origine dell’abbinamento cecità – buio? GS: L’idea che il non vedere del cieco significhi necessariamente buio potrebbe forse essere uno stereotipo? UG: In un articolo sulla percezione sensoriale per i non vedenti ho letto che il vero buio per i ciechi è forse costituito dal silenzio e che il buio per eccellenza sarebbe rappresentato da un eccesso di rumore e di caos. GS: Silenzio per me è panico, disagio, vergogna. Anche se ho il residuo, non riesco a percepire dai movimenti o dagli sguardi quel che sta accadendo e rimango spiazzato. Se qualcuno usa solo il linguaggio non verbale, tipo un saluto col sorriso... questo può provocare addirittura malintesi... se io non rispondo al sorriso, posso passare per maleducato. Il rumore invece, non lo vivo come buio, ma semplicemente come confusione. UG - GS: Le nostre considerazioni vogliono essere semplicemente un contributo per ulteriori riflessioni e ricerche. Per trovare risposte agli interrogativi che ci siamo posti bisognerebbe invece indagare in modo approfondito le teorie scientifiche dei fenomeni e processi coinvolti.


Un’osmosi fra la città e gli astri La città del Sole di Tommaso Campanella

Quando nacque a Stilo in Calabria nel 1568, nessuno poteva presagire che Giovan Domenico Campanella, figlio di un povero «scarparo» illetterato, fosse destinato a diventare uno dei maggiori filosofi del primo Seicento e che avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua Giulia Pietralunga Cosentino vita alla corte francese, colmato di onori da Richelieu e Luigi XIII, dopo aver affrontato cinque processi, numerose torture e più di ventisette anni di carcere. L’avventura intellettuale di Campanella incomincia quando, quattordicenne, decide di lasciare la propria famiglia per entrare nell’ordine domenicano. Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; fu in particolare il De rerum natura iuxta propria principia, una rivelazione e una liberazione insieme: scoprì, infatti, che non esisteva soltanto la filosofia scolastica e che la natura poteva essere osservata per quello che è, poteva e doveva essere indagata con i mezzi concreti posseduti dall’uomo, con i sensi e con la ragione, prima osservando e poi ragionando, senza schemi precostituiti. La sua Città del Sole, come parecchie altre sue opere, dalle Poesie al Senso delle cose, è piena di intuizioni geniali, di visioni ardite di mutamenti sociali, e lo pone tra i massimi precursori del pensiero moderno. Tommaso Campanella si dedicò alla scrittura di quest’opera nel 1602, in carcere a Napoli, mentre proseguiva a Roma il processo per eresia che appunto in quell’anno si concluse con la condanna del frate calabrese al carcere nel Sant’Uffizio. Campanella era stato arrestato nel 1599 come capo di una congiura contro il dominio spagnolo nel Mezzogiorno e sottoposto a terribili torture. In carcere egli rimase ventisette anni e ne uscì nel 1626, per essere, dopo un mese appena di libertà, arrestato nuovamente e spedito in catene a Roma dove ottenne la definitiva liberazione nel 1629. Campanella traccia nella sua opera, che si presenta come un «dialogo filosofico» fra un marinaio di Cristoforo Colombo e un cavaliere dell’ordine degli ospitalieri, le linee guida per la costituzione della città che

avrebbe voluto fondare. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole. La religione solare, che accoglie i principi fondamentali del cristianesimo quali l’immortalità dell’anima e la provvidenza divina, è una religione naturale che stabilisce una specie di osmosi fra la città e gli astri. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. Il costante rinvio alla natura, espressione dell’intrinseca ars divina, costituisce la chiave di lettura più semplice e persuasiva dell’opera. La città sarà tanto più felice e prospera quanto più costituirà un «corpo di repubblica», le cui singole membra, diversificate per funzioni, risultino coordinate al benessere comune. Riguardo al lavoro, in puntuale polemica con Aristotele, per i Solari nessuna attività è vile o bassa, e ognuna ha pari dignità. I Solari non possiedono nulla, ma tutto è comune, dai pasti alle abitazioni, dall’apprendimento delle scienze all’esercizio delle attività, dagli onori ai divertimenti, dalle donne ai figli. Quanto all’educazione e all’apprendimento, uno degli aspetti più spettacolari ed evocativi della Città del Sole è quello delle mura dipinte. I gironi delle mura, costituiti dagli stessi palazzi abitativi, oltre che racchiudere e proteggere la città, sono le pagine di un’enciclopedia illustrata del sapere. Le raffigurazioni delle arti e delle scienze rendono le conoscenze accessibili a tutti, grazie a una visualizzazione che favorisce un apprendimento più rapido ed efficace. La città del Sole rappresenta il grande fermento culturale, politico e sociale di quegli anni; è il risultato concreto di una grande aspirazione al cambiamento, al rinnovamento della società dell’epoca, ormai satura di ingiustizia, di inganni e di violenze. Gli uomini si sono allontanati dal modello naturale al quale bisogna tornare ad ispirarsi per attuare un vero miglioramento del vivere comune. L’aspetto più originale del pensiero di Tommaso Campanella può essere quindi individuato nella sua aspirazione a conciliare la nuova filosofia rinascimentale della natura con la proposta di una radicale riforma della società. L’immagine di una natura portatrice di armonia, verità e giustizia, in quanto espressione dell’ars divina, diventa un modello verso cui aspirare per ricostruire una società migliore.

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di Giulia Pietralunga Cosentino

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La teoria del tutto La parabola scientifica e umana di Stephen Hawking: «Finché c’è vita c’è speranza» di Francesca Gisotti Diretto da James Marsh, e magistralmente interpretato dall’attore Eddie Redmayne, (che grazie a questo ruolo ha vinto il premio Oscar come miglior attore protagonista), La Teoria del tutto (The Theory of Everything) ha a che fare con la luce sotto molti punti di vista e per molteFrancesca Gisotti plici ragioni. Innanzitutto per la storia che vi viene raccontata. Ispirato alla biografia Verso l’infinito, scritta da Jane Wilde Hawking, la pellicola ripercorre gli anni vissuti insieme da Stephen Hawking e dalla donna che, per moltissimo tempo, gli è stata accanto. Per chi non lo sapesse, Stephen Hawking è uno dei più importanti fisici, astrofisici e cosmologi viventi, costretto a causa di una malattia degenerativa a vivere in una condizione di totale immobilità, privato anche dell’uso della parola. Un genio i cui studi, sviluppati a partire dal 1963, quando era ancora studente all’Università di Cambridge, hanno letteralmente illuminato il panorama della scienza contemporanea e che si sono concentrati, essenzialmente, sull’origine dell’universo e sulle radiazioni emesse dai buchi neri a causa degli effetti quantistici. Di luce, quindi, si parla, luce che col suo esserci, o non esserci, manifesta l’inizio e la fine del mondo. Il film però, non si sofferma tanto sulle sue scoperte scientifiche quanto, piuttosto, vuole focalizzare l’attenzione dello spettatore su Stephen Hawking uomo, sul suo essere, al tempo stesso, fisicamente fragile e costretto a vivere in una condizione di passività motoria, quanto dotato di una tenacia e amore per la vita in grado di fare luce su un’esistenza, solo apparentemente, destinata a trascorrere nell’oscurità. Quando gli viene diagnosticata la malattia, Stephen è nel pieno della sua gioventù, ha solo 21 anni. Ha appena conosciuto un’affascinante ragazza, Jane Wilde (Felicity

Jones), di cui si è innamorato, sta elaborando importanti teorie scientifiche, è stimato e apprezzato da professori e compagni di università. La diagnosi data dai medici non lascia speranza: massimo due anni di vita, con una graduale perdita di ogni possibilità di movimento. Il suo cervello continuerà a funzionare ma Stephen non sarà in grado di manifestare nessuno dei propri pensieri, da quelli più straordinari a quelli più comuni. Le cose però, fortunatamente, non sono andate così. Stephen e Jane si sposano, hanno ben tre figli, nonostante le tante difficoltà causate dal progredire della malattia conducono un’esistenza riscaldata dall’amore. Il direttore della fotografia Benoît Delhomme è riuscito benissimo a trasmettere questa sensazione di calore e intimità domestica. Vediamo la luce filtrare attraverso le finestre di casa Hawking, allo stesso tempo, con vigore e delicatezza, andando ad illuminare i corpi dei personaggi all’interno, definendo i loro profili, regalando alla loro prossimità fisica l’abbraccio di una prossimità ancora più profonda, che partendo dalla realtà materiale si eleva ad un’altezza di natura spirituale. È l’altezza verso cui sempre tenderà Stephen, costretto solo nel corpo su una sedia a rotelle ma la cui anima si continua, ancora oggi, ad alzare al di sopra dei limiti umani. Deciso a seguire nel più minimo dei movimenti, come nella più grande delle scelte, un unico principio ispiratore, quello della Verità, Stephen decide di lasciare la moglie libera di poter vivere un nuovo amore e una nuova vita, preferendo essere seguito dall’infermiera Elaine (Maxine Peake). Sarà proprio quest’ultima a renderlo in grado di parlare attraverso una tavola di numeri e lettere dopo che una tracheotomia lo ha privato definitivamente della vocalità. In seguito riuscirà ad esprimersi grazie a un sintetizzatore vocale. Dalla voce dello strumento elettronico, dalla voce del suo cuore, e della sua grande mente, durante una conferenza pubblica, Stephen pronuncerà una frase, in grado, nella sua semplicità, di contenere la grandezza di un messaggio che lui stesso, in ogni singola particella del suo corpo, ha saputo far proprio e trasmettere al mondo: «Finché c’è vita, c’è speranza».



UniversitĂ UniversitĂ degli degli Studi Studi Ro Roma ma T Tre re - v via ia O Ostiense, stiense, 159 - www.uniroma3.it www.uniroma3.it


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