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Estetica, immagine, filosofia dell’arte
I tentativi di “definire” l’estetica coincidono con la sua nascita storica e si ritrovano, da più di duecento anni, nelle introduzioni di manuali, trattati e storie a questa disciplina dedicati. Rinunciare a tale sforzo definitorio non vuole tuttavia essere segno di particolare originalità bensì solo la prima traccia di un percorso nell’estetica che non ha alcun bisogno di definire.
“Estetica” e “Filosofia dell’arte” ovviamente non coincidono affatto: sul piano concettuale la differenza è marcata e coinvolge in primo luogo l’orizzonte tematico. Già nel 1914, nei suoi Aforismi sull’arte, Konrad Fiedler scrive: “estetica non significa teorica dell’arte. L’estetica è volta all’indagine di un determinato tipo di sentimenti, mentre l’arte si rivolge anzitutto all’intelletto, ed ha a che fare con il sentimento solo in secondo luogo”. E ancora: “il problema fondamentale dell’estetica è affatto differente da quello della filosofia dell’arte”; che “per estetica si intenda la scienza della conoscenza sensibile, si può ammetterlo ma, che come oggetto finale di questa conoscenza sensibile si pongano il bello e il brutto, questo è sbagliato: anzitutto perché la conoscenza non ha altro fine che se stessa, cioè la verità divenuta cosciente. Che con questo si venga anche a riconoscere ciò che nel mondo dei fenomeni provoca piacere o avversione, è cosa affatto secondaria”. Aggiunge Max Dessoir nel 1923 nel suo Estetica e scienza generale dell’arte: “L’età presente comincia a dubitare che effettivamente il bello, l’estetico e l’arte stiano tra loro in una relazione che si può quasi definire unità di essenza”.
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Al di là degli sviluppi specifici di queste e similari posizioni, esse conducono alla consapevolezza che la differenza tra le due discipline non è solo etimologica bensì di metodo e di contenuto. Tuttavia, anche se tale consapevolezza è un ineliminabile presupposto di ogni ricerca estetica, la storia del pensiero filosofico ha presentato intersezioni tra estetica e filosofia dell’arte che hanno condotto a significativi risultati teorici.
Ciò accade, ed è il secondo punto da sottolineare, là dove l’estetica si presenta - come è frequente nella sua storia - in quanto disciplina “formativa”: educazione dell’aisthesis, che a volte si traduce in “propedeutica” al pensiero come necessaria, anche se non sufficiente, preparazione alla logica; altre volte in esplorazione di un orizzonte “poietico”, emblematico (o simbolico), territorio di prova del sensibile all’interno del quale è rimesso in gioco il senso della rappresentazione e della sua esteticità.
Confrontandosi con un piano di valore in cui si concentra il significato della sensibilità (dei sentimenti, delle emozioni, delle passioni, ecc.), l’estetica può dunque apparire come una forma di emblematica antropologia, divenendo filosofia dell’arte o della cultura. Ma può soprattutto - ed è questo l’incrocio per cui l’estetica è disciplina “particolare” nell’ambito degli studi filosofici - trovare la strada per non essere soltanto “introduzione” a qualche parte speciale del pensiero o della prassi bensì sapere autonomo, che non educa a un orizzonte altro da sé bensì è essa stessa pensiero. È quel sapere, quel pensiero, che, in modo non esclusivo ma indubbiamente “esemplare”, è radicato nelle qualità del mondo (che l’arte, come altre forme della poiesi umana, evidenzia ed esibisce sensibilmente) e nel rapporto soggettivo e intersoggettivo, non solo logico e categoriale, che l’esperienza sensibile istituisce con tali qualità e con le realtà ontologiche che esse costituiscono. Si definisce così la funzione conoscitiva dell’estetica (che nulla, appunto, ha a che vedere con quella dell’arte): cogliere il senso precategoriale di ogni conoscenza possibile, quelle “idee estetiche” che sono il nucleo simbolico, e intuitivo, di ogni sapere. Tali idee “sensibili” possono tuttavia avere nell’arte una loro concretizzazione storica, culturale, spirituale e motivazionale di cui la descrizione filosofica evidenzia i sensi emblematici.
Quale percorso bisognerebbe seguire per far comprendere il significato formativo dell’incontro tra forme estetiche e forme artistiche? Un percorso che non può essere del tutto lineare, che dovrebbe spaziare sui numerosi significati e accezioni con cui si è storicamente parlato di “estetiche” e “filosofie dell’arte”, senza mai dimenticare che, all’interno di tali contesti, l’estetica ha costruito una serie di “categorie” che, in analogia con quelle della logica, hanno progressivamente costituito un nucleo concettuale (e ovviamente storico) a partire dal quale fosse possibile comprendere quale nesso formativo possa svilupparsi tra l’estetica e l’arte. Questo nucleo è stato individuato nel problema della immagine, in primo luogo perché essa possiede almeno un duplice statuto: è “rappresentazione”, e dunque si riferisce alla conoscenza sensibile dell’oggetto, ma è anche la forma di sviluppo di una fantasia costruttiva. Il percorso dell’immagine, allora, nel suo determinare il senso delle forme, si articola all’interno di una relazione tra visibile e invisibile che è uno dei principali problemi (storici e teorici) affrontati nei tentativi di definizione filosofica dell’estetica. Per cui, dal senso dell’imitazione in Platone e Aristotele sino al ruolo delle immagini sacre nella polemica iconoclasta, dalla contrapposizione leibniziana tra simbolico e intuitivo sino all’idea estetica di Kant, dai meccanismi psicologici della riproduzione immaginativa alla sua spontaneità sintetica, dal significato della rappresentazione nel Rinascimento e nei dibattiti novecenteschi sino all’immagine come traccia decostruttiva, l’estetica si presenta come quel sapere intuitivo, affettivo e qualitativo (o come “filo rosso” all’interno della varietà di questi saperi) che, oltre a indicare una strada per comprendere, in primo luogo, ma non solo, attraverso l’arte, la dimensione dialogica, comunicativa ed espressiva che caratterizza la specificità dell’antropologico, vuole essere una costante interrogazione sul senso scientifico che guida l’indagine filosofica e il suo radicamento in un’originaria esperienza del reale.
Possiamo allora forse concludere con le parole dell’ultimo grande artista che ha indagato come l’immagine si ponga tra visibile e invisibile, cioè Paul Klee. La ricerca di questi schemi, alla ricerca di quel che Klee chiama “archetipo della formazione”, deve disgiungere l’immagine pittorica dai processi illusori della fantasia: siamo in un mondo “intermedio” nel quale la natura va considerata nella sua genesi, come possibilità per aprire mondi possibili. Gli schemi che l’artista rende visibili offrono una natura simbolica in cui, scrive Klee, “l’oggetto si dilata al di là del proprio fenomeno, dal momento che noi conosciamo il suo interno, e sappiamo che la cosa è più di ciò che la sua apparenza dà a vedere”. Ma, in questo vedere, si è consapevoli che ciò che appare non è l’unico mondo possibile: inseguendo la genesi di nuovi mondi l’artista ricerca immagini che siano “temporali”, che mostrino cioè la creazione come genesi. L’artista illustra gli schemi del tempo: e sa che essi sono “inafferrabili nell’immanenza”. Ma quando interroga il paradosso di questo “silenzio che diviene” non vuole ascoltare la pace bensì l’urlo del silenzio: sa che l’invisibile dell’arte è lì, di fronte a noi, per questo motivo, per farci sapere che non tutto può essere conosciuto.