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L’impresa e il senso del lavoro

L’Impresa deve tenere in grande considerazione le persone che vi lavorano, le relazioni che si svolgono tra loro e le motivazioni che le animano quando agiscono. I nuovi impianti, le tecnologie digitali, le tecniche di produzione e le procedure sono cose certamente importanti, però hanno bisogno di essere sorrette dalle qualità e dalle motivazioni delle persone: rischiano di essere molto poco efficaci se coloro che utilizzano le varie tecnologie, usano gli impianti, seguono le procedure, lavorano malvolentieri, se sono negligenti, se non hanno un senso di responsabilità verso gli altri, se sono disinteressati, per esempio, all’altrui salute ed incolumità, o alla buona reputazione dell’azienda. Di seguito riflettiamo su un solo aspetto di questo discorso: quello della motivazione al lavoro.

Infatti, all’interno di un’azienda è molto prezioso far riflettere le persone che vi lavorano sul senso e sulle motivazioni dello svolgimento della propria professione, che non di rado comporta, in misura maggiore o minore, fatica, problemi, tensioni, frustrazioni, ecc.

Del resto, la questione del lavoro è centrale già per il semplice fatto che la maggior parte della nostra vita trascorre in questo ambito. Non vogliamo certo generalizzare, ma molti di coloro che non sanno interpretare adeguatamente il senso del proprio lavoro spesso non vedono l’ora di andarsene dall’ufficio, non di rado anche quando ricevono una retribuzione adeguata e, talora, cercano anche vari stratagemmi per non lavorare o per fare il minimo.

Pertanto, si tratta di favorire nei dipendenti e nei collaboratori una motivazione al lavoro che lo renda più gradevole o, se non altro, che lo renda meno faticoso (a questo scopo, ribadiamolo, per molte persone il solo congruo stipendio non basta). Anzitutto a loro beneficio, ma con conseguenti benefici anche per l’impresa, perché è ovvio che chi lavora malvolentieri lavora male, è meno efficiente, meno accurato, meno creativo.

Quando al lavoro si cantava

«Ai miei tempi», scrive Charles Peguy, «nella maggior parte dei luoghi di lavoro si cantava; oggi vi si sbuffa. Direi quasi che allora non si guadagnava praticamente nulla», quindi lo stato d’animo di molti lavoratori (certo non tutti: ovviamente ci sono sempre stati e sempre ci saranno tanti casi diversi) non dipendeva da alte retribuzioni, eppure «abbiamo conosciuto operai che avevano voglia di lavorare. […] Si alzavano la mattina – e a quale ora – cantando all’idea di andare al lavoro. […] Abbiamo conosciuto l’accuratezza spinta fino alla perfezione. […] La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. […] Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé […]. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali», in cui anche le guglie nascoste alla vista umana – ma per gli scalpellini non a quella divina – venivano scolpite con la medesima accuratezza.

Questa citazione di Peguy può darsi che ricostruisca in modo eccessivamente positivo il passato, ma in ogni caso ci instrada in modo significativo verso lo svolgimento del nostro tema.

Concezioni ed atteggiamenti erronei circa il lavoro

Ora, nella storia si possono individuare diverse concezioni erronee sul senso del lavoro e qui ci limitiamo solo a pochissimi esempi.

I Greci e i Romani svalutavano la materia; infatti la più parte di loro (con delle felici eccezioni) stimava solo il lavoro intellettuale, spesso disprezzando il lavoro manuale e tecnico, riservandolo molto spesso agli schiavi.

Un certo pietismo ha poi rimarcato solo gli aspetti penitenziali del lavoro, tralasciandone il significato umano e la possibile positività.

Dal canto suo, la moderna antropologia dell’homo oeconomicus reputa che gli esseri umani agiscano esclusivamente col fine di massimizzare reddito e utilità.

Così, sul piano esistenziale c’è chi prova una continua insofferenza verso il proprio lavoro, da finire ogni giorno il più presto possibile, timbrando il cartellino appena riesce, e chi invece esercita il lavoro in modo aggressivo e totalizzante, trasformandolo nella sua unica ragione di vita.

L’amore come motivazione

Ora, come dicono sant’Agostino d’Ippona e san Tommaso d’Aquino, l’amore può essere mater (sorgente), motor (causa efficiente) e forma (anima irrorante) di tutte le azioni moralmente buone. E tutto ciò che facciamo per amore di qualcuno ci risulta tanto più piacevole quanto più è intenso l’amore che proviamo; o, perlomeno, ci risulta meno gravoso.

Per stare al nostro tema, mettersi ogni giorno a lavorare per puro senso del dovere o solo per lo stipendio è, spesso, molto faticoso. Lavorare invece per amore di qualcuno (per esempio di mia moglie, dei miei figli, di Dio se ho una visione soprannaturale del lavoro: e qui ci ricolleghiamo alla citazione iniziale di Peguy) può diventare gratificante o comunque meno gravoso.

E il lavoro fatto con amore, con saggezza e virtuosamente consente di esercitare (in modo più o meno consistente di volta in volta):

– la propria dimensione speculativa, eseguendo la progettazione razionale del lavoro;

– la propria capacità di poiesis-produzione transitiva, cioè la trasformazione positiva del mondo;

– la propria dimensione immanente-etica, cioè la trasformazione di se stessi operata con il lavoro, acquisendo le qualità-virtù correlate all’attività lavorativa, specialmente la laboriosità, lo spirito di servizio e quello di collaborazione, l’onestà, ma anche la precisione, la prontezza, la sollecitudine - per esempio verso i colleghi e verso i destinatari dei prodotti e servizi che la propria impresa vende.

Il senso del lavoro

E il senso del lavoro umano può essere considerato composto (senza voler essere esaustivi, sia chiaro) dei seguenti elementi: produrre cose utili a sé e agli altri, traendone i mezzi per vivere e per vivere in modo più gradevole, umanizzare la natura, trasformare il mondo che lo rende più abitabile, migliorare se stessi, acquisendo abilità e qualità-virtù, amare gli altri.

Insomma, è possibile arrivare a pensare che, col proprio lavoro, in misura maggiore o minore a seconda dei casi, si possa migliorare se stessi come persone, prendersi cura degli altri e del mondo in generale, per trasformarlo positivamente, contribuendo sia al bene proprio, sia a quello dei propri cari, sia al bene comune.

Formazione ai Collaboratori, con risvolti positivi per l’Impresa

Abbiamo proposto solo dei cenni sul senso del lavoro e molto altro si potrebbe aggiungere.

Ad ogni modo, se l’Impresa riesce (certo nei modi adeguati, per esempio con momenti di formazione al riguardo) a favorire nel Collaboratore la consapevolezza sull’alto senso e sulla grande preziosità del lavoro che egli svolge quotidianamente (anche qualora fosse un lavoro umile e nascosto), egli potrà arrivare ad amarlo, o quasi, e lavorerà più diligentemente, più laboriosamente e in generale più volentieri, anche a beneficio dell’Impresa. lavora, e a questo scopo possono contribuire molte misure, non solo la retribuzione. Ma questo tema richiederebbe un altro, lungo discorso.

Il piacere nel lavoro aggiunge perfezione al compito che svolgiamo. 
 Aristotele

In aggiunta alla promozione dell’amore al lavoro bisogna anche favorire l’affectio societatis, l’attaccamento-affezione all’Impresa per cui si lavora, e a questo scopo possono contribuire molte misure, non solo la retribuzione. Ma questo tema richiederebbe un altro, lungo discorso. Giacomo Samek Lodovici