6 minute read

Italiano, chi è costui? prima parte

Italiano, chi è costui? prima parte

Non c’è progresso senza la conoscenza del nostro passato.

Advertisement

Libertà di mercato significa un sistema economico libero di crescere e di competere.

Da troppo tempo il nostro Paese è oppresso da un importante deficit culturale in fatto di business education, di orientamento al mercato e di rispetto delle sue regole.

Il mercato ci scatena ansia e paura e ci induce a sviluppare meccanismi protettivi di alibi, autoinganno ed illusione. Evidentemente siamo portati a negare tutto ciò che insidia la nostra tranquillità.

Il concetto di concorrenza, che il nostro sistema educativo e sociale prevede ma non approfondisce né tantomeno omologa, ci trova indifesi, infastiditi ed impreparati.

La concorrenza è una cosa di cui si parla ancora prevalentemente a livello accademico e salottiero, negandola poi nei fatti di tutti i giorni con le intese sottobanco, le conventicole, i monopoli, le rendite di posizione, i regimi protetti, le gare truccate, la commistione con la politica, la stampa, i poteri forti.

Noi italiani abbiamo la propensione alla rendita e non al rischio. Nutriamo idiosincrasia per l’azione (accidia, ovvero avversione all’azione); siamo predisposti alla pigrizia (ignavia) e abbiamo timore di confrontarci col mondo.

Coltiviamo la cultura del ritardo, un altro ammortizzatore emotivo che ha il compito di risparmiarci stress e tensione visto che spesso non siamo in grado di gestire il nostro tempo, di rispettare scadenze ed impegni né tantomeno di operare secondo priorità.

In Italia la globalizzazione del mercato viene vista come minaccia perché ci obbliga a competere. Si tende allora a creare opportunità ed imprenditoria dove c’è poca concorrenza o dove essa è generalmente poco qualificata: sanità, servizi, artigianato,..

Sviluppiamo costantemente resistenza e riluttanza alla società aperta, alla mobilità sociale quando, ormai da anni, Internet ha definitivamente mandato in soffitta il modo provinciale e ottuso di fare informazione, impresa, concorrenza, gerarchia.

Ma perché tanta resistenza? Da dove nasce il nostro atteggiamento rinunciatario? Perché fatichiamo così tanto a evolvere?

Tutto ciò ha in buona parte a che vedere con la nostra indole, la nostra costruzione caratteriale, il nostro insopprimibile individualismo, con la stratificazione di una mentalità forgiatasi negli ultimi dieci secoli di storia e di contesti evolutivi.

Per entrare nel vivo dell’argomento poniamoci la domanda: chi è l’Italiano?

Nella sua brevità la domanda dà per scontato che l’Italiano sia da ricercare tra le persistenti varietà, difformità, contraddizioni e contrapposizioni che emergono dal frantumato e sconvolto paesaggio storico italiano che, all’osservatore, appare “come un’accozzaglia di popoli, di Stati e di istituzioni, messi insieme dal caso”, come scrive Giuseppe Ferrari (Storia delle rivoluzioni d’Italia).

In modo drammaticamente invariante nel tempo, gli stranieri hanno sempre considerato l’Italia essenzialmente un Paese di rovine e di memorie, ingombro di una immane eredità culturale che ottunde il pensiero ed ostacola l’evoluzione verso il futuro.

Noi siamo un Paese che non sceglie, che, posto di fronte alle scelte drammatiche, rinvia, scantona, apparentemente in nome di un mal inteso senso di responsabilità, in realtà perché scegliere implica schierarsi, credere in qualcosa, dover abbandonare qualcos’altro. In una parola: rischiare. Quindi nasce la decisione di non decidere: se costretti a decidere, meglio seguire la corrente. E così, se si sbaglia lo si fa almeno tutti insieme.

I nostri caratteri distintivi sono:

• la prevalenza della famiglia sulle istituzioni del Paese, anteponendo il benessere individuale a quello sociale;

• il trasformismo inteso non solo come filosofia dei voltagabbana, ma anche come procedura mirata all’accantonamento del conflitto interpersonale;

• la furbizia, un tratto che si fonda sull’idea che la dissimulazione, il doppio gioco, l’allusione costituiscano alcune delle risorse che consentono il superamento dell’avversità, comunque delle difficoltà;

• la profondità del conformismo come vero e proprio blocco culturale verso lo sviluppo.

L’Italia, dall’antichità e fino alla fine degli anni ‘40, è stato un Paese a prevalente, per non dire esclusiva, vocazione agricola. Il clima, l’esposizione solare per oltre 250 giorni/ anno nella stragrande parte delle sue regioni, l’abbondanza di acqua, la cultura della terra così radicata ed innalzata a saggezza e tradizione popolare tramandata da padre in figlio per almeno un millennio, sono stati gli elementi che hanno ritardato di almeno cento anni l’avvento della rivoluzione industriale in Italia.

Infatti, l’Italia, alla fine dell’Ottocento si trovava ad un livello di sviluppo industriale pari a quello raggiunto dall’Inghilterra un secolo prima. Il ritardo dell’unificazione politica e la mancanza di una Società organizzata nelle sue fondamentali istituzioni ed infrastrutture pubbliche e nelle sue strutture produttive e commerciali private hanno reso ulteriormente difficile un allineamento dell’Italia con i principali Paesi europei in via di sviluppo.

Solo che, mai come ora, la storia recente ci ha insegnato che il diventare moderni non è facoltativo, bensì condizione per sopravvivere, una necessità imposta dal contesto concorrenziale e dalla globalizzazione dell’economia mondiale. Nessuno può permettersi il lusso di dimenticare che il Sistema Italia, volente o nolente, da anni ormai si trova in concorrenza con tutti gli altri Sistemi-Paese, sia avanzati che emergenti.

Cerchiamo allora di investigare, seppure sommariamente, i motivi storici di questo ritardo, i tratti caratteristici dell’Italiano che non cerca di sapere, che preferisce evadere la realtà, estraniarsi da una idea di nazione e di coscienza collettiva organizzata, lontano dal mondo delle emergenti culture industriali, distaccato dal senso di responsabilità che ha animato e sorretto ogni Pioniere, ogni Innovatore.

Tra il XIX° ed il XX° secolo si sviluppano pensieri ed opinioni straordinariamente diversi ed opposti dove, purtroppo, prevale di gran lunga un generale atteggiamento di arrendevolezza e sudditanza alla conservazione di un millenario status quo e al conseguente rifiuto del futuro.

Ma sentiamo il parere di alcuni illustri Autori su questo nostro periodo storico.

Qual’é il carattere di un popolo? “La sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia” (Benedetto Croce – “Teoria e storia della storiografia”).

Ennio Flaiano descrive un profilo peculiare e caratteristico dell’Italiano: bugiardo per sopravvivere in un territorio di conquiste e di invasioni straniere; pigro perché condannato alla atavica fatica; frivolo perché amante della vita; poco patriottico perché tollerante, ondivago e superficiale; provinciale e campanilista perché autoctono fino alla noia.

Luigi Salvatorelli chiosa: “La mentalità della piccola borghesia umanistica italiana si riassume in una parola sola: retorica”. E prosegue: “Essa possiede la cosiddetta “cultura generale” che potrebbe definirsi “l’analfabetismo degli alfabeti”. Consiste essenzialmente in una infarinatura storico-letteraria in cui la parte letteraria è puramente grammaticale e formalistica, mentre quella storica si riduce ad un cumulo di date di battaglie e di nomi di sovrani con la salsa di una trasfigurazione patriottica. Tutto l’insegnamento è una congerie di nozioni teoriche, astratte, da imparare meccanicamente, senza stimolo al senso critico e senza contatto tra il processo storico e la realtà attuale. Di qui, nella piccola borghesia umanistica, la tendenza all’affermazione dogmatica, alla credulità dell’ipse dixit, alla esaltazione per il gesto e la parola usurpanti il posto dei fatti e delle idee, al fanatismo per la formula indiscussa ed indiscutibile”.

Vincenzo Gioberti sostiene che “il popolo italiano non sussiste; l’Italia può ella dire di essere al mondo? Siamo accumunati più dagli odi che dai fini comuni, e ci riuniscono più le forze del nemico che le nostre” (“Primato morale e civile degli italiani”).

Nel testo di Giacomo Leopardi (“Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani”), si delinea un’analisi spietata dell’italiano, ma soprattutto dell’Italia, un Paese in cui si schernisce l’interlocutore, fondato sull’assenza di convivenza civile, caratterizzato da una società definita dall’egoismo. Infine, una realtà priva dello spirito di appartenenza ad un Paese.

Sempre secondo Leopardi, l’idea costante è quella della inadeguatezza italiana alla modernità, del carattere dell’italiano come refrattario rispetto all’idea e alle pratiche di una società moderna. I nostri costumi non si modificano, rimangono invariati.

“La virtù? Essa non è che nei campi” (Vincenzo Cuoco – “Platone in Italia”). Egli descrive un’Italia che trae salute e vigore dalle radici profonde della sua antica civiltà contadina, un’Italia anti-intellettuale sdegnosa dei decadenti raffinamenti culturali dell’età moderna, fiera di una sua nobiltà autoctona e del suo austero costume morale.

“La deresponsabilizzazione è un tratto caratteristico dell’Italiano insieme alla presunzione e alla sopravvalutazione” (Alessandro Cavalli – “Leggere: in Italia è più difficile?”).

“Troppo rassegnata è l’Italia. Il miglioramento morale di un popolo oppresso non può cominciare che dal rompere le proprie catene” (Giuseppe Mazzini – “Moto letterario in Italia”).

Curzio Malaparte scrive: “Noialtri italiani rappresentiamo in Europa un elemento vivo di opposizione al trionfante spirito delle nazioni settentrionali: abbiamo da difendere una civiltà antichissima, che si fa forte di tutti i valori dello spirito, contro una civiltà nuova, eretica e falsa, che si fa forte di tutti i dolori fisici, materiali, meccanici. La modernità anglosassone non è fatta per noi: l’assimilarla ci condurrebbe a un irreparabile decadenza. Gli italiani sono per natura impropri a diventar moderni. Il popolo nostro è provvidenzialmente ignorante, superstizioso, diffidente ed istintivo. Preserviamo l’antica, tradizionale, storica, vera, popolaresca Italia”.

“Infiacchiti dalla lunga servitù politica, esiliati nel sonno rissoso dei borghi, gli italiani vanno risvegliati alla coscienza della Patria comune, all’energia virile dei propositi e delle opere. La contrapposizione tra cultura italiana e mondo reale moderno resterà un elemento limitativo dello sviluppo economico; la forza della nostra inerzia idealista è uno dei fattori ritardanti o devianti più tenaci” (Giulio Bollati – “L’italiano – Il carattere nazionale come storia e come invenzione”).

Giulio Bollati prosegue con la sua analisi storiografica moderna del nostro Paese: “Ciò che colpisce nello sviluppo italiano rapportato a quello inglese, francese e tedesco è l’assenza di un vigoroso stimolo ideologico alla industrializzazione. Questo fu il senso voluto dalle classi che controllavano, insieme alla cultura, anche le leve dell’economia e della politica. E sono proprio le decisioni prese in questo ambito quelle che hanno il massimo di probabilità di tradurre il “carattere” italiano da fatto interpretativo e prescrittivo in stili concreti di vita, capaci di influenzare il vissuto psicologico individuale e collettivo”.

Claudio Magris sottolinea che lo stereotipo dell’italiano si forma grazie alla sinergia tra due elementi: la resistenza al cambiamento e la tendenza ad una gestione consociativa del potere politico. Il carattere nazionale nasce quindi da una resistenza alla modernità. E la modernità non ha spazzato via quelle forze interessate ad impedire l’emancipazione degli italiani, contribuendo a rafforzare quello stereotipo del carattere che sembra eternizzare una condizione di sudditanza.

Nel prossimo numero del Magazine indagherò il profilo dell’Italiano dal punto di vista dell’invidia sociale che tanto peso ha nella formazione del pensiero comune e sulla generazione dei relativi comportamenti

Estratto dal libro “Scuotiamo l’Italia” di Fabrizio Favini – Franco Angeli editore.

This article is from: